Angelo Tonnellato
Scienziati italiani a congresso nel Veneto asburgico
(forthcoming: “IL PONTE, LXXVI, 2020)
Siamo a Venezia ed è appena il 24 marzo 1848, terzo giorno di vita della Repubblica
proclamata da Daniele Manin, quando «il Cittadino Giuseppe Barbaro guardia civica» sente
già il bisogno di ricordare e tramandare, ma soprattutto di segnare una genealogia che
evidentemente ritiene senz’altro comprensibile ai lettori del suo post-it: «Viva, viva al più
bello dei ritrovamenti per la fratellanza ed il progresso degli uomini, le riunioni degli
Scienziati». Barbaro non è propriamente un popolano; ex cancelliere dell’imperial-regia
magistratura camerale, è un entusiasta della ribellione contro l’Austria e si inventa fervoroso
collaboratore occasionale di vari giornali del Quarantotto veneziano.
Più o meno negli stessi giorni molte gazzette – comprese quelle inglesi, francesi e soprattutto
delle città germaniche – sono a caccia di notizie su un borghese nella cui marsina così
dimessamente Biedermeier difficilmente avrebbero potuto mai sospettare che dimorasse un
impulsore di repubbliche e capo d’insorti. Trovano poco su quel Daniele o, come lo
denominano nei loro articoli, Daniel Manin; se non ch’è un avvocato il quale, dopo avere
abilmente sfruttato tutte le risorse della procedura austriaca per dare qualche dispiacere a
certi grandi azionisti della I.R. Ferrovia Ferdinandea – anche un po’ imbroglioni, visto che
volevano spacchettare i loro portafogli azionari per moltiplicare le presenze (e i voti) in
assemblea – sulla variante bergamasca del tracciato, ha debuttato pubblicamente solo l’anno
prima, nelle due settimane del nono e ultimo congresso degli scienziati italiani svoltosi a
Venezia. Da qui a stabilire un nesso ferreo tra il congresso e la rivoluzione il passo è non
solo brevissimo, ma inevitabile. Il congresso diventa un punto fermo, nell’ansia degli
improvvisati biografi di spingere il risalimento a virtù o peccati originari; e nelle
corrispondenze e compilazioni che ne dipendono fornisce il parabolante “c’era un volta”
inaugurale alla storia di quello strano ribelle. Affiora così un incipit che, rapidamente
consolidatosi in una sorta di inaggirabilità, ha lungamente fornito la scaturigine alla
biografia “corta” di Manin e un appiglio a raccontarne la vita che, passato di mano in mano,
in mille occasioni e parecchie lingue, meriterebbe uno studio specifico, una specie di
biografia di biografie dal lato d’un’epifania in qualche modo ratificata o incoraggiata dallo
stesso ex “dittatore” durante l’esilio parigino.
Congressi, acciaccature e affacci: anche questo sarebbe un argomento, pur nella sua
friabilità, suggestivo. Allorché, l’8 agosto del 1848, scriveva (da Napoli) al «carissimo figlio»
Alessandro Poerio (accorso a Venezia con Guglielmo Pepe), Carolina Sossisergio era a
mezza via tra l’incertezza speranzosa di ciò che stava accadendo e la nebbia che ne
avvolgeva a coltre il futuro: «Questi giorni passati, ho letto de’ numeri del giornale di Parigi
la Illustration. Vi è un bellissimo articolo di un giovane pittore francese, che parla
istoricamente di Venezia circa le due fazioni, che servivano a dare i campioni per la Regata;
descrive poi l’ultima, fatta al tempo del Congresso, l’anno scorso. Vi è la stampa di un pezzo
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del Canal Grande; ed io, in ogni casa, mi figuro, che sia quella, dove abiti, e ti veggo sul
pergolo».
Alessandro non vedrà la capitolazione dell’agosto dell’anno successivo. Andatosene dalla
vita ma non da Venezia resterà su quel pergolo, dove lo colloca, sollecitata dal disegno (che
presumo essere quello) di Adalbert de Beaumont, la memoria materna della celebre regata
svolta in onore degli scienziati venuti a congresso. E le parole di Carolina avranno
certamente ridestato in Alessandro il ricordo del congresso di Napoli del 1845, delle amicizie
che egli vi aveva allacciato – soprattutto quella con Giuseppe Montanelli – e dell’oltraggiosa
esclusione inflitta dalla sbirraglia del marchese Del Carretto a Luigi Settembrini.
Chissà quante volte i difensori di Venezia avranno parlato del congresso lagunare del 1847;
e magari della eco, venuta a sfiorare i lavori grazie al passaparola dei congressisti regnicoli,
della Protesta del popolo delle Due Sicilie, scritta da Settembrini, ma stampata anonima, in cui
delle violenze di polizia e della sistematica violazione dei diritti degli imputati l’autore
chiamava a testimoni proprio gli scienziati convenuti nella capitale meridionale due anni
prima. Del resto, come lo stesso Settembrini avrebbe scritto nelle Ricordanze, «gl’Italiani
unirono prima le menti nei Congressi scientifici, poi le armi nella prima e sventurata guerra
nazionale».
Del vario raccontare e raccontarsi – in dorata luce di memoria o in raccapricciata
riprovazione, a seconda dei posizionamenti – di chi vi partecipava la cronaca dei congressi,
che siamo in grado di ricostruire assai desultoriamente, ha perduto gran parte degli accenti
e delle tracce. Né i coevi cultori delle forme della civiltà del narrare – in parole, immagini,
musica – travolti dall’epica dell’anno successivo si può dire che ci vengano in soccorso.
Un po’ hanno rimediato Valeria Mogavero e Maria Pia Casalena rievocando la storia di
Leopoldo Pilla, geologo meridionale trasferitosi in Toscana nel 1842 per salire la cattedra
pisana. Incaricato pochi mesi dopo di rappresentare la scienza granducale al congresso di
Padova compì il viaggio verso il luogo di riunione in compagnia dei fratelli Vincenzo e
Antonio Salvagnoli: giurista il primo, medico delle bonifiche il secondo. I tre viaggiatori
provenienti dalla Toscana furono però bruscamente “respinti” alla frontiera lombardoveneta e solo dopo qualche vicissitudine e l’intervento del granduca sul ministro d’Austria
a Firenze, e di questi sulle consanguinee autorità veneto-asburgiche, il solo Pilla riuscì a
raggiungere il capoluogo euganeo poco prima della chiusura dei lavori. Appena in tempo
per innamorarsi di una gentildonna padovana in coda a un congresso al quale per la prima
volta ufficialmente erano state ammesse (sia pure come spettatrici o uditrici soltanto) le
donne. E una manciata d’anni prima di cadere a Curtatone, alla guida dei suoi studenti.
Questa storia è raccontata dalle due curatrici, in breve ma con ricchezza di documenti, a mo’
di “didascalia” apposta alla copertina del primo dei due monografici che la rivista
«Venetica» ha messo in cantiere sui due congressi veneti1.
Scienziati italiani a congresso nel Veneto asburgico (1842, 1847), a cura di Valeria Mogavero e Maria Pia Casalena,
monografico di «Venetica», XXXIV (2020), n. 1, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Vr): Movavero-Casalena,
Preambolo minimo. Un arrivederci e una didascalia, pp. 7-1; Carlo G. Lacaita, Scienza, modernità e politica nei
congressi degli scienziati italiani, pp. 17-29; Luigi Lacchè, La “Società dei Giureconsulti”. Per uno studio su congressi,
azione collettiva e “canone eclettico” tra Restaurazione e Risorgimento, pp. 31-52; Maria Pia Casalena, I lumi d’Italia
e d’Europa a Padova e a Venezia, pp. 53-73; Fabio Forgione, Saperi in cerca di unità. La storia naturale nei congressi
veneti degli scienziati italiani (Padova 1842, Venezia 1847), pp. 75-94; Agnese Visconti, Tracce di Humboldt nella
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Si tratta di una bella e utile iniziativa, che può senz’altro contribuire a un auspicabile e
significativo arricchimento degli studi. Messa infatti in sicurezza storiografica la tematica
dei congressi preunitari degli scienziati italiani – nove in altrettanti anni e città, da Pisa
(1839) a Venezia (1847) passando per Torino (1840), Firenze (1841), Padova (1842), Lucca
(1843), Milano (1844), Napoli (1845) e Genova (1846) – dall’intensa moltiplicazione di studi
e ristrutturazioni d’orizzonti dell’ultimo trentennio almeno, il progetto di «Venetica» induce
un non trascurabile passo avanti sulla via della storicizzazione delle storicizzazioni, che è
pur sempre uno dei profili più ardui del fare storia contemporanea. Non a caso i “venetici”
sono riusciti a far convergere in questo primo monografico studiosi che non solo possiedono
una notevole caratura nei loro specifici domini disciplinari, ma anche la capacità non
consueta di non far prevalere le separatezze che spesso gli specialismi producono quando
si lasciano prendere la mano dai loro stessi linguaggi di sistema e tecniche performative.
A garantire la serietà e lo spessore dell’iniziativa della rivista che riunisce tutti quanti gli
Istituti veneti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, decisamente in
controtendenza rispetto alla sempre più retratta storiografia italiana sulla prima metà del
XIX secolo, hanno cooperato Carlo G. Lacaita, nome caro a chiunque abbia una qualche
dimestichezza con la storia dell’«incivilimento», degli scienziati, delle istituzioni scientifiche
e delle reti applicative e innovative ottocentesche, nonché con Carlo Cattaneo e la storia del
pensiero in azione del gran lombardo di cui si è appena celebrato il 150.mo della scomparsa;
Luigi Lacchè, giurista e storico cui si deve tra l’altro l’elaborazione e continuo incremento,
in concrete ricerche, di uno dei più interessanti e fertili paradigmi di rimessa a fuoco, e in
asse, della cultura della Restaurazione – un “canone eclettico” la cui cospicua produttività
in espansione va certamente assai al di là dei confini disciplinari della giuristica – e delle
molteplici ancorché mediamente ben poco note reti di dibattito e proiezione che la
attraversano; Maria Pia Casalena, autrice di un complesso di indagini e d’un libro,
meritatamente fortunato, che hanno contribuito in misura determinante ad alimentare la
scaturigine e filare la tela della positiva congiuntura storiografica di cui si è fatto cenno,
inclusa l’attenzione al “fare biografia” di protagonisti maggiori e minori dell’età
risorgimentale; Fabio Forgione, studioso di storia della scienza e delle tecniche della
generazione più giovane, che ha da poco pubblicato un ottimo volume sul «dibattito sulla
variabilità delle specie nella Torino dell'Ottocento» in cui ha mostrato di essere anche un
bravo contemporaneista tracciando nel controluce del suo oggetto di studio anche una storia
dei congressi, e di quello torinese del 1840 in particolare, così arricchendo le nostre
conoscenze anche di una ricca esplorazione archivistica; Agnese Visconti, studiosa di storia
della scienza, di geografia politico-economica e della cultura naturalistica, ma anche di
scienziati in viaggio e grande esperta di Humboldt; Donatella Rasi, italianista e storica della
civiltà letteraria in quell’accezione larga che include la storia della sociabilità degli
intellettuali e dei loro network, tra epistolografia, storia dell’editoria e del giornalismo, che
è una delle poche vie veramente utili ad esplorare lo «spazio delle opinioni» nella prima
metà dell’Ottocento; Valeria Mogavero, che, brava ottocentista di suo, dopo avere fornito
sezione di Botanica dei congressi di Padova e Venezia, pp. 95-105; Donatella Rasi, Venezia e le sue lagune: la «storia di
una nazione», pp. 107-160.
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della cultura e società venete tra età napoleonica e unità d’Italia una ricca e articolata
tematizzazione nello studio delle «patrie patrizie» e delle reti relazionali aristocraticoborghesi, ma anche di certe grammatiche, meno marcate ma non per questo meno profonde,
del 1866, si è rivelata in questa occasione anche una buona suscitatrice di temi e intersezioni.
Dicevo del «passo in avanti» di «Venetica». Mosso, aggiungo, in una direzione che non è
tanto quella delle mancanze o carenze da colmare nell’ambito degli studi particolari sui
singoli congressi, quanto della non localistica e autocelebrativa “localizzazione” della storia
di quelli. Che vuol dire – disambiguando, per quanto sia possibile, la costellazione e la
semantica del “locale” in tempi così grevi, cui arridono le magnifiche sorti e progressive di
un “territorio” sempre più sprofondato nel nativismo – storia dei processi storici, culturali,
sociali e istituzionali che dei congressi, dei loro gruppi dirigenti, dei loro frequentatori, delle
amministrazioni ed élite e notabilità delle città e governi ospitanti costituirono il tessuto di
connessione e di scambio, ma anche di sinergia. Comprendendo, nella accezione
dell’«istituzionale», anche i corpi intermedi, e le trasversali intermediarie, non solo
accademici e universitari ma anche associativi o informali. Una localizzazione strutturale
tra l’Europa, gli Stati e le città entro cui rintracciare il complesso e delicato ordito ed
equilibrio che assicurò non solo uno specifico «pubblico» alle assise, ma anche un’area di
irradiazione e di risonanza ai loro lavori, rivelatasi essenziale alla tramatura del sostegno e
consentimento che resero possibili le riunioni, da un anno al successivo e da una città
all’altra, nonché il rimbalzo e la propagazione dell’interesse a quella peculiare, anomala e
unica istituzione, intrastatale senza essere statale, e, nel suo genere e campo, insostituibile
strumento di formazione e consolidamento di un livello di complessità delle congiunture
interlocutrici meritevole di sondaggi e approfondimenti ulteriori. Un livello che per entro
la breve vicenda di una società dei congressi senza dubbio cetuale non si limitò ad occupare
il solo spazio dei “faccia a faccia” periodici ma, tra chance e impedimenti, seppe venirsi
variamente e complementarmente dipanando negli intrecci interpersonali, nel reticolarsi
degli epistolari, nel lento e costante rodarsi di certe – ancora largamente a noi ignote –
grammatiche e odeporiche congressuali. Nonché attraverso la produzione di spazi e flussi
a stampa con il vasto e capillare circuito d’intreccio costituito dal proliferare di periodici,
annali, bollettini, atti accademici, resoconti di esperimenti, relazioni di sopralluoghi ed
escursioni, visite a fattorie e allevamenti, diari e lavori congressuali stessi con la coda di
contatti delle commissioni e gruppi di lavoro nominati da un congresso per riferire a quello
successivo; e persino grazie ai giornali di moda, a certi poco studiati organi ebdomadari
dell’effimero, alle guide turistiche, a descrizioni in rapida marcia di allontanamento dagli
usurati modelli ecfrastici sei-settecenteschi, alle divulgazioni e “letture popolari”, come
anche a un’incipiente letteratura del self-help, alla cultura visuale di almanacchi, diorami e
cosmorami che assicurarono la “popolarizzazione” delle innovazioni: dalle imprese
ferroviarie agli impianti di illuminazione “a gaz”, per esempio, anche attraverso i «lampi di
luce» della primitiva impressione delle immagini e il lento debuttare dell’immaginario
dell’«icononauta». Come scrisse l’austriacante «Biblioteca Italiana» di Milano, proprio a
proposito di un’opera pubblicata a Venezia nel 1834, il momento era favorevole a «universi
pittoreschi, rappresentazioni del mondo, quadri di nazioni e di famiglie, […] cosmorami,
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diorami, magazzini universali, magazzini pittoreschi, teatri universali ed altre opere di
questo genere».
Il “canone eclettico” mostra tutte le sue capacità prismatiche senza che lo si fraintenda
immiserendolo a corrispettivo occasionalistico di una sincretica “teoria dei fattori” o mero
collante di eterogeneità. Esso è piuttosto, dal giuridico-istituzionale al sociale e culturale, il
telaio di rintraccio e messa a valore della rete di canali di scambio e di comunicazione venuta
ad innervare dopo il 1815 l’«Italia delle Italie» preunitarie, comprese le Little Italies
asburgiche, come questo monografico di «Venetica» dimostra.
Le interconnessioni tra i saggi che si leggono in questo fascicolo sono largamente
autoevidenti; il che va pur detto, una volta tanto, rispetto alla media resa di “senso” di tante
collettanee di cui spesso si fa fatica a percepire la ragione dello stare insieme di tanti
specialismi e specialisti a bassissimo tasso di reciproca integrazione. In questo caso, le
dinamiche di processi europei che innervano gli spazi italiano e veneto – entrambi in
costruzione, ancorché intrisi di disomogeneità e differenze che non presuppongono o
legittimano la loro immediata conversione in gradi di arretratezza o progresso rispetto a un
ideale e astratto “modello” di scala – contengono già, a loro volta, gli apporti e addendi
peninsulari che contribuiscono a renderle continentali. L’arcipelago delle città congressuali,
al di là dei mille intralci, controlli, sospettosità e difficoltà logistico-organizzative, è già di
per sé lo specchio di nuove transitabilità in atto. E forse anche della autonoma capacità
attrattiva delle molte capitali peninsulari.
Perché i congressi alimentarono anche uno straordinario “immaginario”, venendone a loro
volta illuminati.
Il «faro» del congresso padovano fu – più del Bo e dell’Orto botanico – lo Stabilimento
Pedrocchi, nuovo e ambito salotto d’Europa, capace di sedurre regnicoli duosiciliani,
sudditi granducali e sabaudi, sparuti congressisti pontifici riusciti a sgusciare tra le maglie
dell’interdetto del papa-re, viaggiatori elvetici, britannici, francesi e austro-tedeschi? Può
darsi; ma ciò non oscura la vitalità dell’istituzione universitaria e dei suoi laboratori,
l’apprezzamento di Cattaneo per la “guida” realizzata dai padovani – “gran signori” e “gran
dottori” insieme al lavoro – e il raddoppio dell’uditorio – ottocento presentatisi in sala
contro i quattrocento “scienziati” accreditati – quando si parlò di riforme carcerarie. Per
esempio. E la cornice, per gran parte dei “foresti” veramente stordente, in cui si svolse il
congresso veneziano, tra san Marco e palazzo dei Dogi – mentre la società dei “bagni”
prendeva congedo dalla mezza capitale provincializzata del semi-regno asburgico – attrasse
più amateurs dei gravi dibattiti che vi si svolsero? Certo la spettacolare “illuminazione a gaz”
della piazza per antonomasia, i virtuosismi musicali e le evoluzioni da parata delle bande
reggimentali, la civiltà dei caffè e dei ritrovi affacciati o incardinati a quella topografia del
potere, la promiscuità di Venezia «in piazza» nella quale duchi, sovrane in incognito,
ministri, scienziati, giornalisti e plenipotenziari potevano essere impunemente e naturaliter
sfiorati da popolani curiosi, facchini, procacciatori e borghesi costituiva un unicum. Ma un
momento d’eccezione fu anche l’espulsione di Luciano Carlo Bonaparte. Balestratosi in
laguna mentre dispacci consolari, avvisi di polizia e delazioni lo segnalavano in turbolenta
marcia su Venezia da Civitavecchia a Livorno e da qui a Firenze, Bologna e Ferrara, in divisa
di semplice milite della guardia nazionale romana – un Don Chisciotte rovesciatosi in
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Sancho Panza a favore del suo complice, segretario e medico di fiducia Luigi Masi, che
invece indossava l’uniforme da ufficiale dello stesso corpo – da un tavolino del “Florian”
arringò nobili e plebei contro l’Austria dopo avere, uscendo dall’inaugurazione della
sezione di cui era presidente, dove aveva esaltato Pio IX e il moto unitario, confidato a un
congressista triestino: «Abbiamo fatto la novena, all'anno venturo la festa».
Una guasconata quella del principe-nipote, napoleonide, repubblicano e suddito e principe
pontificio di Canino e Musignano? Può darsi. Un episodio che se non si fosse incontrato con
l’ottuso autolesionismo asburgico forse neanche conosceremmo. E invece
l’accompagnamento coatto alla frontiera ne fece un evento che rimbombò in tutte le gazzette
e i dispacci diplomatici d’Europa, guadagnando al congresso veneziano la fama o taccia di
assembramento largamente sedizioso, confermata in diretta dal ministro e inviato di
Metternich, Ficquelmont, che partecipava ai lavori. Il quale forse troppo abituato a scrutare
segni vide e scorse più del necessario negli ostinati applausi tributati a Ferrante Aporti, nel
discorso di Cesare Cantù, nell’attivismo febbrile dell’avvocato Manin, negli entusiasmi per
Carlo Cattaneo manifestati nel discorso congressuale del 27 settembre 1847 da un altro
“leguleio”, manco a dire amico di Manin e da lì a pochi mesi in azione sulle barricate
milanesi, Anselmo Guerrieri Gonzaga, mantovano di nascita e padovano d’elezione: «Non
ultimo de’ frutti de’ nostri Congressi fu la spinta da loro data allo spirito di associazione
[…]. Ma l’Italia nostra nell'atto stesso che pensa a migliorare le proprie istituzioni, non
debb’essere avara di soccorsi e di lumi ad altrui». Ossia all’Irlanda, tanto per fare un
esempio, scelto certamente non a caso:
L’infelicissima Irlanda, alla quale manca non solamente una propria ed intera vita politica, ma spesso
pure, orribile a dirsi, la stessa vita materiale, trovò nella voce eloquente ed espertissima di Carlo
Cattaneo l’amico consiglio di un uomo amante degli uomini, al quale le dottrina della publica
economia derivate dalla fonte italiana non furono fredda scuola di egoismo; ma insegnamento e
riprova di sapiente e fratellovole carità.
La scienza del “pubblico bene” e di un’idea d’Italia raccolta in un’immagine di grande
efficacia:
la penna del Cattaneo dà colore di vita e moto di poesia alle più severe verità fisiche, chimiche,
matematiche ed astronomiche; ed il diverso e artificioso magistero della irrigazione vi si rivela quasi
per incanto nelle attitudini del cielo, del suolo, del clima, e degli altri accidenti ch’ egli vi mette si
vivamente dinanzi agli occhi.
Cattaneo, invero, era ben noto, e presente, al pugno d’uomini che nel giro di pochi mesi
aveva allestito la master narrative dell’élite veneziana per i congressisti, Venezia e le sue lagune,
con la modernità intrinseca del «mito debole» – come l’ha felicemente definito Claudio
Povolo – che vi si espandeva. Il pater dell’opera, e ideatore del primo progetto rimasto
inalterato in fase di esecuzione, Agostino Sagredo, intellettuale e patrizio di dogali
ascendenze, conosceva a fondo le Notizie naturali e civili su la Lombardia di quel milanese che
proprio a pagina 63 della grande opera così definiva: «Carlo Cattaneo, uomo d’alto senno,
di cuor generoso». Sagredo era in rapporti con Cattaneo dalla fine degli anni Trenta; e del
saggio cattaneano Di varj scritti intorno alla Strada Ferrata da Milano a Venezia, uscito ne «Il
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Politecnico» nel 1841, così aveva scritto all’autore, in una lettera del 10 maggio 1841
parzialmente pubblicata da Alfonso Bernardello: «Io ne ho imparato a mente alcuni brani e
mi diverte di far arrabiare [sic] certi tali ripetendoli ad ogni tratto [...] Il suo importante
lavoro unisce tutte le qualità necessarie per ammaestrare e dilettare. Se ne parla molto fra
noi ed è un argomento di molte discussioni. Si vorrebbe risponderle ma non si ardisce». Ciò
rende auspicabile che anche a una storia dello sparuto e però combattivo cattaneismo veneto
sia prima o poi dedicata qualche indagine.
Tutto ciò ed altro fu retrospettivamente riletto e messo in consecutio. Non anni o decenni ma
solo qualche mese dopo. E non dai “patrioti” ma dagli stessi austriaci. Non fu quel congresso
un comitato insurrezionale. Fu però un luogo di confronto e una sorta di cartina al tornasole.
In questo almeno hanno ragione patrioti e austriaci: Manin e l’inesistente “partito degli
avvocati” delle agiografie e maledizioni postume o postreme da quelle due settimane
ricavarono l’impressione della capacità di polarizzazione che avrebbe potuto esercitare uno
strumento procedurale minimo o negletto come quello delle «istanze». Si parlò, è vero, degli
statuti e delle libertà degli antichi Comuni; e Manin stesso aveva dato voce nel suo saggio
giurisprudenziale al mito della nascita “libera”, e qundi della “originaria” libertà della sua
città. Ma poi in concreto aveva cercato l’adesione dei giuristi a una proposta di rivista
giuridica. Niente di altisonante, ma un innocuo “repertorio di giurisprudenza”. Il lavoro
d’avvocato nei contenziosi ferroviari aveva rafforzato il suo giovanile e appassionato
interesse alla procedura, alle procedure. Il suo granellino di sabbia nell’imponente
marchingegno asburgico. Che in questi granellini di sabbia vada ricercata quella che da
Maria Carolina Foi è stata suggestivamente detta la «giuridicità segreta del Vormärz»?
Un migliaio e mezzo di accreditati – il numero più alto a parte il picco napoletano di 2.400
congressisti – e oltre tremila amateurs. Senza dire della mareggiante coralità veneziana
mossa da curiosità e stupore. Un congresso tra eventi, immaginario e congiunture.
Il «primato morale e civile» del congresso di Venezia fu proprio la filatura multiversa di
prospettive che lasciava indovinare e sperare un ricamo per nulla influenzato dal Primato
giobertiano e dalle metafisiche italo-pelasgiche, ma assai ben disposto verso il mondo
“politecnico” lombardo di Cattaneo e le trasversali dei riformismi moderati toscani.
Ci ripromettiamo di riprendere il discoro e dire qualcosa degli studi che ne sono venuti e ne
verranno quando uscirà il secondo fascicolo, dove ci saranno David Laven, massimo esperto
di storia della storiografia veneziana, che tratterà di Venezia e le sue lagune come tornante
della storia di quella storiografia; Steve C. Soper, che inquadrerà i congressi veneti nella
tela del Nation-building; Fillipo Maria Paladini, che metterà a tema profili essenziali nella
storia di quei congressi come la medicina e l’assistenza; Fabio D’Angelo, che farà perno
sull’affascinante e difficile connection dell’immaginario e odeporica “congressuali”; Fabio
Forgione che riprenderà in mano gli atti rimasti inediti del congresso di Venezia; Marianne
Klemun che tratterà il tanto importante quanto generalmente trascurato “punto di vista”
austriaco sui congressi (e del resto l’Austria ospitò direttamente nel Lombardo-Veneto tre
congresso e a due nel granducato lorenese non si oppose); Tiziana Plebani, che tematizzerà
la ristampa del Milione di Marco Polo eseguita in occasione del congresso veneziano. Marco
Meriggi che da par suo traccerà un bilancio dei due numeri.
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