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La Romagna di Tonino Guerra. Poesia dialettale e sceneggiatura

2019, Tesi di Laurea in Letteratura italiana contemporanea

Questo lavoro nasce ed è coltivato dalla volontà di indagare ragioni e richieste del costante legame che stringe la Romagna ai suoi abitanti. Poesia e cinema, nella produzione di Tonino Guerra (Santarcangelo di Romagna, 16 marzo 1920-21 marzo 2012), sono due strumenti che permettono di levare della terra e della polvere dalle radici di questo rapporto. Una verità come quella delle parole di Raffaello Baldini, "in questa Italia che ormai parla tutta in italiano, ed è un gran bene, ci sono ancora situazioni, persone, paesaggi, storie che succedono in dialetto e che è ragionevole lasciare in dialetto", si rende evidente nel quotidiano non soltanto nelle dimensioni più consolidate e normalizzate dei (sicuramente ormai pochi) parlanti nativi, ma volentieri anche in espressioni che con insistenza le generazioni più giovani, fino a quella degli ultimi anni '90-per i quali il dialetto romagnolo è tutto fuorché lingua madre-non possono evitare di richiamare alla mente per descrivere qualcosa che l'italiano non riesce a definire in maniera altrettanto precisa. Di alcune situazioni, chi ha avuto la possibilità di conoscere-almeno da ascoltatore-il dialetto, vuole parlare sottostando alle sue regole.

Introduzione Questo lavoro nasce ed è coltivato dalla volontà di indagare ragioni e richieste del costante legame che stringe la Romagna ai suoi abitanti. Poesia e cinema, nella produzione di Tonino Guerra (Santarcangelo di Romagna, 16 marzo 1920 – 21 marzo 2012), sono due strumenti che permettono di levare della terra e della polvere dalle radici di questo rapporto. Una verità come quella delle parole di Raffaello Baldini, “in questa Italia che ormai parla tutta in italiano, ed è un gran bene, ci sono ancora situazioni, persone, paesaggi, storie che succedono in dialetto e che è ragionevole lasciare in dialetto”, si rende evidente nel quotidiano non soltanto nelle dimensioni più consolidate e normalizzate dei (sicuramente ormai pochi) parlanti nativi, ma volentieri anche in espressioni che con insistenza le generazioni più giovani, fino a quella degli ultimi anni ’90 – per i quali il dialetto romagnolo è tutto fuorché lingua madre – non possono evitare di richiamare alla mente per descrivere qualcosa che l’italiano non riesce a definire in maniera altrettanto precisa. Di alcune situazioni, chi ha avuto la possibilità di conoscere - almeno da ascoltatore – il dialetto, vuole parlare sottostando alle sue regole. In qualche modo è inevitabile rifiutare la portata e la risonanza di formule linguistiche uniche e intraducibili (un esempio si farà con il termine quèll). All’uscita della raccolta I bu, nel 1972 per l’editore Rizzoli (le prime raccolte erano state già pubblicate, a Faenza e su spese dell’autore, per i tipi dei Fratelli Lega con prefazione di Bo), il testo si pregia di una nota introduttiva estesa da Gianfranco Contini. Excursus continuo su Tonino Guerra, questo il titolo del saggio, correda le poesie romagnole di un apparato critico dal valore fondamentale in ambito letterario negli anni a seguire. Chi se ne rende conto, già nel contemporaneo, è lo stesso autore dei versi: Guerra non può esimersi, in una lettera al professore, dal confessare la propria sorpresa nel vedere che “da pochi mattoni è riuscito a costruire una cattedrale” e dal dover concedere a Contini la propria “riconoscenza in eterno”. Nelle pagine che costruiscono tale importante intervento, l’insigne studioso pone presto l’accento sulla considerazione in cui vada tenuto il santarcangiolese (inserito negli anni precedenti in Letteratura dell’Italia unita, 1968), per mettere poi fin da subito in guardia il lettore dal “credere nell’esistenza categorica d’ una poesia dialettale, non avendo i migliori poeti dialettali molto maggiore dignità epistemologica, poniamo, delle migliori poetesse ossia poeti di sesso femminile”. La trattazione, come ci si aspetta, investe fenomeni più ampi dell’analisi alla lirica di Guerra: ciò che risulta chiaro al termine del discorso è una definitiva quanto autorevole conferma della parità linguistica fra produzione in II vernacolo e in italiano. Contini si inserisce a denunciare le insistenti voci che riconducevano l’intera categoria di poesia dialettale a mero folclorismo e quindi a un’esperienza minore. Una tradizione, questa, che Brevini ha ricondotto già all’accentuazione della presenza di alcuni tratti “plebei” nella cinque-secentesca letteratura dialettale riflessa in seguito all’affermazione del primato ormai incondizionato della lingua letteraria. Tale concetto si colorerebbe, nel corso del tempo, di discriminanti linguistiche e sociali: lingua e dialetto vengono individuati rispettivamente come norma superiore e sviluppo inferiore e tardo, e i vernacoli risultano fino ai primi decenni del Novecento lingue comiche, basse e carnevalesche, aristocratiche qualora si tenti di epurarne preventivamente i folclorismi. Ai dialettali stessi, di fatto, spettava l’onere di rivendicare una speciale dignità nel loro contesto per poter trattare tematiche estranee all’area ludica altrimenti loro riservata per tradizione. Nel processo di riabilitazione del dialetto registratosi nel dopoguerra è di certo inseribile la diretta reazione linguistica provocata dalla campagna del fascismo contro la “malerba dialettale”. Mentre il monolinguismo postunitario nasceva da un’esigenza puramente strumentale, che non poneva in discussione la legittimità del dialetto nella comunicazione privata, il modello fascista consolidava le tensioni, pur sempre latenti – e a quanto pare in attesa di essere animate – nella tradizione linguistica italiana, ad una nozione pestifera e incattivita del dialetto, definito in termini non solo di inadeguatezza ma anche di barbarie e vergogna, rozzezza e necessaria emarginazione. Il recupero di un vivace dialetto letterario è possibile tuttavia per molti versi grazie al processo di legittimazione ad opera della critica (“glossa perpetua parassitaria del testo”, sulla scorta dell’autore dell’Excursus) che ha sottratto le parlate popolari al loro pregiudicato recinto di inferiorità. L’interesse e la coscienza del pari valore linguistico di autori come Guerra devono pure a Pasolini prima e a Contini poi il loro sviluppo. Secondo Mengaldo, al primo va riconosciuto – fra gli altri – il merito di aver promosso una visione dei rapporti fra dialetti e lingua alternativa al pensiero egemonico: consapevole del “ritardo culturale e dell’altrettanto costituzionale marginalità”, Pasolini pose in risalto per i vernacolari, proprio in virtù del loro intrinseco non allineamento al canone, il ruolo di potenziali custodi delle latenze che l’italiano logicamente trascura (quando non distrugge). È qui suggerita, inoltre, anche quella fortunata linea critica che adduce ai poeti dialettali la capacità di sviluppare la componente di gusto più anti-letterario e plurilinguistico del Pascoli. Proprio quest’ultimo, in quanto poeta dello scardinamento fra alto e basso, capace di coniugare interiorità e dimensione visionaria all’interno di un contesto naturale, si presenterebbe III dunque come effettivo archetipo di una nuova poesia dialettale che si immagina “lingua decentralizzata e priva di inibizioni espressive”. La lirica del dopoguerra subentra recuperando proprio questi spessori, incaricati ora di comunicare un modello antropologico diverso. L’accesso alla cultura di strati della società precedentemente esclusi, e con radicata famigliarità dialettofona, si sposa alla consapevolezza di una nuova legittimità degli strumenti poetici. Affacciatosi alla cultura con forti radici nel contesto popolare, il poeta dialettale è una nuova figura di intellettuale che manifesta una non meno nuova esigenza legata a bisogni di espressione e di testimonianza. Il dialetto si scopre lingua della concretezza, della differenza e della durata se lo si raffronta al materiale linguistico più contemporaneo di codici globali come l’inglese. Viene riabilitata la storia personale e le vicende della propria vita, insieme al recupero delle radici e del luogo della propria origine, evolvono una funzione conoscitiva, non più soltanto - e tristemente - memoriale. Il rinnovato interesse verso le forme vernacolari ne fanno uno strumento per illuminare una verità dimenticata, degli esclusi, spesso senza risparmiare allarmi di fronte al prezzo del progresso. Di fatto, ne I bu si tende ad identificare un paradigma di poesia neodialettale in cui il codice si presenta lingua dell’esperienza poetica e non più veicolo da potersi esprimere unicamente tramite poesia. Con Contini, e insieme con l’interesse di una grande casa editrice, arriva la vera, solenne legittimazione: l’Excursus funge da viatico per l’uscita della poesia italiana dalle secche di componimenti fin troppo costruiti, corredati da termini volutamente incomprensibili e concetti inafferrabili. Non si fraintenda, i limiti della lingua dialettale rimangono in agguato: vuote nostalgie, malinconie e anacronistiche ingenuità, in generale l’autentico che viene sostituito dal sentimentale. Il veicolo linguistico utilizzato, riportato a una dimensione necessariamente sociale, non va limitato ad estetismo e squisitezza, a maggior ragione se si considera il tipo di uditorio a cui il dialettale si riserva: con l’innegabile regresso del numero di dialettofoni, i destinatari della poesia in vernacolo restano un pubblico limitato nel già ben selezionato soprainsieme della lirica in lingua. Un punto di forza, dunque, la genuina grazia del dialetto, che facilmente può mutarsi in recinzione. La costante diminuzione di parlanti nativi, inoltre, determina ulteriori variabili per il poeta, che si vede costretto ad una scrittura di solitudine, più schiva e perimetrale perché diretta a un’esclusività. D’altro canto è una condizione, quella dei dialetti, che nell’opposizione all’italiano ha permesso loro di acquisire una più elevata specificità poetica. Necessariamente posti a confronto con le premesse informali e l’espressività indifferenziata dilaganti nella IV produzione in italiano, i poeti risaltano in quello che sembra presupporre la natura stessa del dialetto: teste linguistico di un patrimonio collettivo e di un’eredità culturale umiliata quando non condannata. Non sfugga allora che i romagnoli, per esempio, rivolgano precisamente lo sguardo a quei conterranei esclusi dai privilegi dell’espressione (i purétt, in Guerra). All’intellettualismo che astrae gli oggetti poetici ad una dimensione quasi contemplativa, un autore dialettale oppone la natura del suo mezzo per argomentare la fiducia nel concreto e anzi alla figura umana. Al popolare sperimentalismo, spesso sarcastico, delle avanguardie, i poeti oppongono purezza. Operazioni, queste, non ascrivibili a formule di ritardo: la poesia prende le sembianze, in determinate situazioni, di un movimento di resistenza alternativa alla modernità a partire dalle esperienze che la precedono. La distanza culturale che separa il poeta dal mondo d’origine non corrisponde, infatti, ad un ostacolo, anzi privilegia nel caso di Guerra la tensione all’accoglienza, a una gentile riconquista della terra natia con una vista non offuscata dalla propria tradizione regionale. Non una “maschera populista” ma un’esperienza di riconoscimento, allora, e se proprio lo si vuole di regresso, ma riflettuto e volontario. Poeti come Guerra, per loro stessa ammissione, non hanno rivolto se non a carriera già avviata il loro sguardo alla tradizione letteraria che andavano a proseguire. Inevitabile, e per Guerra in primis in quanto romagnolo, resta il regolamento di conti con i concetti idilliaco-campestri imperanti nelle tradizioni regionali (si prenda per esempio l’autorità di Aldo Spallicci). Il maestro santarcangiolese non integra lo stereotipo della Romagna campestre, ad esso oppone anzi, addirittura con forza (si veda I bu, in La s-ciuptéda), una visione personale e insindacabile. La Romagna dialettale è in prima istanza un luogo marginale, inattaccabile dalla storia. Teatro principale è il borgo cittadino, spazio ideale per parate di matti e evasioni fantastiche descritte da voci gratuitamente ironiche. Anche il visionario e l’immaginario, così presenti, sono colorati di una matrice realista, in quanto scaturiscono da una spontanea inconsapevolezza. Il rifiuto di un’aggettivazione ricercata, alla quale si preferisce una fiducia verso le sequenze verbali e sostantivali, dimostra in Guerra l’intenzione di ricomporre una scena quotidiana, normale, semplice, talvolta amara, sulla quale rendere più vivo il contrasto dell’elemento fuori dal comune. Anche quel certo tipo di grigiore, una malinconia che decisamente allontana dalle immagini bucoliche della campagna assolata, si evolve asciutto, essenziale, terreno fertile per la componente del magico e dell’irrazionale. Guerra parla della Romagna da esule e reduce, descrive personaggi e situazioni senza ipoteche sulla loro condizione di umiliati e offesi nell’anonimato. V A ragione si può sostenere, su un altro piano, che le parlate dialettali più contemporanee differiscano da quelle meno recenti. Alla varietà metropolitana o comunque cittadina, nel dopoguerra è preferita quella periferica, più adatta perché espressione remota, vergine, suscettibile a maggiori suggestioni. Solidale a questa scelta, ne I bu, un linguaggio che nella sua verginità e orfanezza Contini ha definito “il meno remoto dal basico delle borgate sottoproletarie”. In nome di una tale mirata decentralità, la forma diventa ispida, nelle parole del critico “qualcosa di barbarico e irsutamente inedito”. Un carattere, questo, che qualifica il romagnolo e i suoi cugini in tutta Italia come lingue dinamiche, abili a sopravvivere alla storia con una capacità di adattamento mimetico che ne smentisce la morte. La tensione innovativa di Guerra si sperimenta volentieri, in crescendo nel corso della raccolta, nella timbrica e nella ritmica. L’indagine di Contini evidenzia il cumulo di licenze d’autore poste in essere: superata la regolarità delle prime composizioni, scandite in quartine di endecasillabi (anche a ragione del contesto orale – l’aneddotica prigionia in Germania – in cui hanno trovato origine) perdurano sparute assonanze, assenze di rime, momentanei ipometri e ipermetri, asimmetrie nelle strofe o periodi ritmici. A questi fenomeni (di cui si daranno riferimenti puntuali nel corso del testo) si aggiungono, numerosi, quelli proverbiali e metaforici. La prova di Guerra è superata dal momento in cui il lettore, calato in versi non regolamentati, ne assimila la scorrevolezza e proprio in virtù di questi meccanismi (si aggiunga anche l’insistenza nelle risoluzioni finali, spesso ironiche) percepisce le qualità popolari e storicamente orali dei fatti raccontati e dei loro narratori. La precisione dei versi, così singhiozzata, si muove in parallelo agli attori della realtà che descrivono, con il risultato di rendere credibile la costruzione dell’intera circostanza. Gli stessi modelli che coordinano la produzione poetica qualificano anche quella cinematografica: la stagione in corso nel periodo del dopoguerra, se non direttamente di certo per influenza, è quella neorealista di storie contemporanee ed eventi concreti, sullo sfondo immobile di una periferia o una ruralità. Nelle pieghe del quotidiano, tra inconsapevolezze di attori dilettanti e dichiarati reagenti di tipo sociale, il cinema propone agli autori uno spazio in cui le visioni si concretizzano allo sguardo, non limitate sotto forma di parole. Le incursioni dell’arte cinematografica nelle carriere dei dialettali, e viceversa, non mancano: un esempio ulteriore a quello di Guerra lo offre la figura di Cesare Zavattini (Luzzara, 20 settembre 1902 – Roma, 13 ottobre 1989). Il suo sodalizio prospero e costante di sceneggiatore per e con De Sica – fra gli altri in Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), La ciociara (1960) VI – e le collaborazioni con altri numerosi nomi illustri, non pregiudicano il valore di Stricarm' in d'na parola (1973), la raccolta di poesie in vernacolo luzzarese che per le opinioni di Pasolini passa alla letteratura come libro “bello in assoluto”. Anche nella figura di Zavattini si stringe il legame fra gli uomini e la terra che abitano, luogo di riscoperta, di contatto con le memorie e confronto obbligato con le sensazioni oniriche. A un sentimento simile si uniforma il lavoro di Guerra per il cinema: l’insistenza verso i rapporti con le terre e le origini, sfumata nelle esperienze dell’esule, del girovago e del ricordo dell’infanzia, delinea le scritture dei film a partire dai primi La strada lunga un anno (De Sanctis, 1958, di spiccato tono neorealista) e Un ettaro di cielo (Aglauco Casadio, 1958, più favolistico, scritto con Elio Petri ed Ennio Flaiano), Amarcord (Fellini, 1973, sul quale si dirà più avanti), Nostalghia (Tarkovskij, 1983) e il conseguente Tempo di viaggio nel medesimo anno. Forte dell’esperienza poetica, Guerra abbraccia la cifra dell’irrazionale in un mondo dominato dalle marche di alienazione e incomunicabilità. Affidando sempre ogni onore artistico meno a se stesso e più ai registi con cui ha collaborato (Antonioni, Rosi, i Taviani, Angelopoulos e ancora), egli ha sempre definito il suo lavoro come quello di un artigiano di storie, “imbrogli di memoria e fantasia”. Il cinema, nella sua veste del dopoguerra, è per lui un’arte comunicativa di un messaggio collettivo, uno spettacolo in cui fare agire il suo pensiero in costante movimento e la vivace passione per le narrazioni. Risulta felice, sulle correnti di determinate suggestioni, quel parere espresso da Guerra nella lettera a Contini. Il filologo ha permesso, valutandone la voce all’altezza di una dignità poetica incontestabile, all’uomo di farsi ascoltare in quanto artista. Il lavoro nei versi giustifica la concessione fatta al tono dialettale, argomenta il valore che la conquista della parola assume nella testimonianza di un mondo subalterno ed elementare. Lontano da meri estetismi, squisitezza ed evasività di carattere elitario o aristocratico, il romagnolo, da buon poeta, ringrazia per il privilegio della propria esperienza. Nella lettura, prego mi si perdoni la grande presunzione di aver voluto fornire, comunque sotto il costante e quanto mai necessario sostegno del meritevole traduttore Roversi, una mia rivisitazione ad alcune sue rese in italiano. A misera giustificazione, mi aggrappo a due righe di allarme che Guerra scrive all’amico e letterato bolognese in una lettera del 1970: “Ti avverto, tuttavia che mentre per alcune voci è anche accettabile una tua versione per altre, se lette da un romagnolo, la cosa fa effetto”. Mi auguro, in breve, che in veste di cittadino romagnolo mi si autorizzi a fornire determinate visioni alternative per questi selezionati versi. VII Si proceda dunque ad inquadrare i mattoni di questa cattedrale. VIII Poesia dialettale: I BU I. Identità Mia mamma è stata | a Bordonchio, San Vito | di là del fiume. | Mio babbo è stato | in America, | a New York. Facilmente rintracciabile, in prevalenza nella fase iniziale della produzione di Guerra, il carattere basilare dell’esperienza. Le prime raccolte intendono la poesia come espressione di memoria, ricordo legato alla quotidianità e alla sua sempre presente cornice rurale. Il lavoro poetico non può prescindere, in questa prospettiva, dalla presentazione e dall’indagine delle identità. Elemento forte e costante nella Romagna – rurale e non solo (sempre se una Romagna non rurale possa esistere) - anche odierna, è quello del riconoscimento di un singolo verificato tramite il nome dei genitori, le realtà dalle quali provengono e i luoghi in cui hanno vissuto. Sin qui, incipit dell’intera opera, l’assunto è che l’esperienza definisca non solo la persona - e il poeta insieme, dato che di opera poetica si tratta – ma l’intera sua discendenza, tanto che questi dati vengono a costituire le informazioni fondamentali per introdursi nel sociale. Ciò non tolga tuttavia importanza all’esperienza strettamente individuale, a ciò che si compie nella propria vita: Piròun, nell’omonima poesia, la prima regolare, è colui che, in una dolcemente ironica quanto lapidaria sentenza mortuaria, << l’éva utènt’ann e ancòura e’ féva al schèli >>, ad individuare nella capacità di fare le scale la sottintesa buona salute e l’intrinseca sorpresa, all’interno di una comunità rurale, locale e implicitamente raccolta, nell’apprendere la morte di un proprio membro. Nessuna sofferenza accompagna però la morte, né dolore né cordoglio: la scomparsa di un conoscente è sedimentata nel ciclo del quotidiano; << un pó i ni chèva e un pó u i è chi ni mètt >>, e in maniera totalmente casuale, tant’è che oggi non tocca, come si sarebbe portati a pensare, al povero malato Pirinèl, ma proprio a quel Piróun che pure a ottant’anni sembra ancora così in forma. Guerra propone, già in questa situazione liminare, l’assonanza latèri: schèli. In La butaiga si dipinge il quadro di una bottega, per l’appunto, e lo si identifica con la sua padrona, Marièta. A lei è inevitabilmente associata l’attività, a lei in quanto Marièta-padrona della bottega vanno ricondotti i << quatar vasétt in mòstra >> e la blènza | da bsè al dósi, (con enjambemant), è necessario chiamare lei in quanto Marièta-padrona nel caso non dovesse sentire l’arrivo del 9 cliente. Elemento importante è che la bottega venga presentata con una seconda persona, nel coinvolgere il lettore a farsi promotore anch’esso di questa tradizionale verità identitaria. Allo stesso modo << Sivio e’ matt >> è una locuzione inscindibile. “Sivio è un matto” risulta essere una ripetizione, dato che già in Sivio coesistono, nell’immaginario sociale di chi parla, nome e apposizione correlata. La descrizione di quest’uomo che già tutti conoscono, dunque, quale scopo si propone? Proprio in quanto Sivio e’ matt è patrimonio comune l’operazione ha senso in primo luogo – il poeta sa di essere compreso – ma oltre a ciò il ricordo di questo personaggio fa riferimento alla memoria di qualunque lettore, che resta colpito e inevitabilmente legato non a Sivio ma a Sivio e’matt. Il medesimo legame che lo accomuna poi a Rico nell’omonimo lavoro: di costui si viene a conoscere ciò che serve sapere, ovvero che ha una << sacòuna nira, | al schèrpi ‘d strazz | sal fasci mi calzéun | e un fiòur tal mèni >>. Non è necessario conoscerlo, basti piuttosto vederlo. La machina si inserisce in questo filone apportando una nuova qualità descrittiva: il personaggio presentato è qui l’inventore, un uomo che si racconta tramite la spiegazione del bizzarro macchinario che ha inventato. I termini che Guerra utilizza non sono tecnici, sono quelli anzi del gergo popolare, chiari a tutti, e contribuiscono a definire il ritratto dell’inventore come di un altro elemento dello stesso campionario umano umile e vicino che anima il borgo. Anche la chiusa, ironica, suscita un sorriso che non va a discapito del personaggio presentato, anzi ne esalta proprio l’appartenenza alla comunità. La voce del poeta, qui e in seguito, si dimostra abbondantemente obiettivata. Chi parla si stacca torpidamente dalla sua condizione per vestire i panni di un narratore intangibile, all’infuori della coscienza. Sotto la penna di Guerra cade ogni distinzione fra il soggetto parlante e il soggetto suscitato a parlare, costante rimane solo il tipo elementare di percezione e risposta allo stimolo. La realtà del borgo è svelata nella sua quotidianità, con le sue superstizioni, gli stereotipi e le ritualità. La scelta del poeta è di insinuare allusioni a cose private di una comunità esclusiva di parlanti, il lettore viene accolto in una sorta di vicinato e ne entra a far parte dopo averne assimilati gli accenti e le costanti. Piròun Ha cantato la civetta sopra il ghetto | e dal suo letto Piròun1 l’ha sentita. | - Qualcuno muore, il mondo non se ne frega2, | un po’ ne toglie e un po’ c’è chi ne aggiunge. || Qualcuno 1 Comune per Piero, ho preferito mantenere il carattere popolare. Così anche per i seguenti Pirinèla, Pirinèl. u n’fa rinséida, letteralmente: non fa riuscita. Ho pensato di riportare in un modo che rispecchiasse la durezza e insieme l’ironia del motivo proverbiale. 2 10 muore – ha detto – e ha pensato | al figlio di Pirinèla, Pirinèl, | che da due mesi è a letto, povero ragazzo, | e non arrivano a capir cos’abbia e non si sa che fare. || Alla mattina presto le prime lattaie | si son fermate insieme sotto un portone. | - Ma, cos’è successo? – Sapete, è morto Piròun, | aveva ottant’anni e ancora faceva le scale. II. Vagoni e soldati La tradóta costituisce il primo di due componimenti strettamente legati al motivo bellico: l’atmosfera conflittuale sorge senza dubbio come nota autobiografica di Guerra, che inizia a comporre questa e altre opere nel corso della sua deportazione in Germania. Trattandosi pur evidentemente di un periodo pervasivo nella vita dell’autore, il motivo ritorna puntuale in questa collezione in sole due poesie: La tradóta, appunto, ma soprattutto L’insogni, a conclusione di Préim vérs. In entrambi i casi emerge, insieme alla figura dei soldati e alla cornice del convoglio militare, la presenza del sogno: più dolci e distaccati nella prima situazione, maggiormente realisti e in prima persona nella seconda, i versi privilegiano un antagonismo fra sogno e guerra. Il rapporto si declina però differentemente: La tradóta ha per protagonista proprio il veicolo che titola la poesia, oggetto che una seconda persona richiama insistentemente in quanto culla del sonno dei soldati di ritorno nella terra natia. Lo stesso ritmo dei versi, quasi in una malinconica filastrocca, accompagna il ritmato incedere dei vagoni. Il riposo dell’uomo che ha combattuto e che desidera, fra tutti i sensi, dapprima l’odore di casa, non va disturbato da nulla, né la chitarra né la borraccia che dondola sulla testa; unico ostacolo deve essere l’attesa, il tempo di raggiungere quello che nel sogno è già il presente. La qualifica onirica è qui di semplice e immediata concezione, sogno equivale ad aspirazione e anticipazione. Il contrario avverrà in L’insogni, che vede la guerra invadere fin quasi a infettare lo spazio del desiderio; gli oggetti, in La tradóta così immobili e fissi, giungono a mutazione nel climax di tensione-azione che conduce all’unico scioglimento finale, la morte: << un mang d’umbrèla e’ dvénta una manéglia | e la manéglia un struncòun ‘d rivultèla. >>. Il sogno è propriamente un incubo, rappresenta la totale opposizione di quello che si desidera. La ciclicità e ripetizione dei versi in La tradóta viene a perdersi nella turbinosa dinamicità degli avvenimenti che portano al colpo di pistola. L’ultimo verso è insieme catastrofe e soluzione, determina la certezza della morte avvenuta e il suo immediato annullamento: << adèss u m’à mazè! – E a m so svigé. >> Versi, questi ultimi, per i quali si notino gli espedienti dell’anadiplosi in manéglia, ad accentuare il 11 vorticoso ciclo di trasformazioni, e il ritorno del pronominale “mi”, apostrofato, in allitterazione nell’ultima strofa per ribadire il protagonismo della prima persona. La morte in quanto conseguenza della guerra appare in questo autore relegata a un ruolo irreale, quasi non considerato ma in ogni caso spaventoso, terrorizzante. Due fra i primi esercizi poetici, queste composizioni si strutturano per contraddizioni. In La tradóta le quartine a rima incrociata, dal ritmo rassicurante fino a sfiorare la ballata, evolvono in strofe pentastiche dall’ultimo verso identico al primo, a determinare per ogni episodio un terminale ritornello. Il costante andirivieni dei versi amplifica gli effetti della storia, quasi intervenisse anch’esso a cullare il sonno del dormiente. La tematica bellica, seppur così brevemente introdotta, sospira già l’atmosfera malinconica che Guerra sottende all’idea di Romagna che I bu propongono: un originario stampo malinconico dell’idillio che nell’incedere delle pagine tenderà ad allontanare i melismi nell’aggettivazione, contento all’essenzialità di misure ritmiche e metriche più asciutte. Il sogno Ho sognato di essere su una tradotta | che andavo su in Germania deportato. | I capo stazione davano il via al treno | coi bicchieri pieni di birra e di schiuma. || Mi hanno preso su di nascosto per la visiera | che avevo il mio processo all’ultimo vagone | e siamo passati a borgo Sant’Andrea | che era pieno di gente vestita da tedeschi | i pennelli da barba in cerchio sul cappello. || Ecco il comandante dentro un letto di ferro | si rizza come antenne di farfalle. | Ha detto qualcosa, ha caricato la sveglia: | un manico d’ombrello diventa una maniglia | e la maniglia una canna di pistola3. || - Mi raccomando che non s’azzardi a sparare! – | Manco4 a farlo apposta lui tocca il grilletto | e patapum! – dico – ma è impazzito? | adesso m’ha ammazzato! – E mi sono svegliato. III. Umanità Non sono rare le situazioni in cui Guerra offre una visione decisamente più ampia nel dare al paesaggio umano un ruolo da protagonista. In tali occasioni il singolo riferimento preciso, volentieri nominale, degli abitanti di una comunità viene a dissolversi nell’inquadramento di situazioni indefinite di umanità extra-locale, realtà al cui interno il lettore sia trascinato e riconosca scene di verità. Ti éultum casétt può fungere da apripista in questo percorso: le prime due strofe raccontano il turbinio degli 3 Una volta individuato struncòun come troppo esclusivo, adotto canna e lo abbino a pistola, che accanto a canna ritengo traduzione più credibile rispetto a rivoltella. 4 Rispetto a ‘neanche’ più gergale e immediato. 12 elementi e l’approssimarsi di una tempesta, di fronte alla quale l’ultimo atto porta alla luce non più un personaggio, ma un òm senza ulteriori ipoteche se non l’ostinazione di non volersi svegliare. Il contesto non è estraneo al teatro cittadino, tuttavia è decentrato dal borgo, ci si trova (come evidenzia il titolo) ai suoi margini, verso le ultime abitazioni. È la prima situazione che riporta il comportamento effettivo di un uomo e non ciò che di lui si pensa, si capisce o si è sempre saputo. Se Piròun, Marièta e Sivio e’matt sono comparse, quest’uomo senza nome è un attore, e un attore a cui comunque non interessa parlare solo di se stesso quanto più rappresentare chiunque altro di fronte al turbamento in arrivo desideri soltanto tenere gli occhi chiusi. E’ casòun di purétt e E’ bagn di purétt valgono in questo senso un ulteriore ampliamento dell’oggetto poetico, poiché ora sotto la lente è lo stile di vita delle famiglie povere nella stagione invernale prima e in quella estiva poi. I versi riportano una quotidianità essenziale: si dorme in cameroni, le scale scricchiolano, la notte è fredda e i bisogni si fanno in un bidone; quando è caldo invece si fa il bagno al fiume e per un giorno intero si approfitta del sole fino a che non arriva l’ora di tornare alle vecchie case. La pressante angoscia evocata dai componimenti fin qui citati è di certo lontana dalla tradizione salutare celebrata dal paradiso bucolico e dalla retorica del campanile, dipinge anzi una terra spenta e dolorosa, umiliata dalla miseria. Tematica, questa, capace di risvegliare allo stesso modo l’interesse di qualunque periferia italiana dell’epoca. A intervallare gli ultimi titoli spunta (oltre a Mo gnènt!, a cui si accennerà più avanti) il monologo in versi Da par mè. Protagonista è, infatti (e curiosamente), una prima persona in solitudine che si rivolge, in via retorica, alla madre. Tre versi si ripetono in testa e in coda, a compendiare il messaggio di questa voce: << A so da par mè, | ma, | a qua >>. Il dialogo senza risposta sbotta nel finale in una capricciosa addizione all’istanza di solitudine: << E a n’ voi savai ‘d niséun >>, è secca richiesta che la condizione di isolamento continui. La cronaca che fa da intermezzo – centrali le vetrine illuminate - si riferisce vistosamente a una realtà differente da quella della campagna romagnola, con ogni probabilità da inquadrare in ambiente migratorio, forse americano (si veda La miseria, di cui oltre). Proprio in virtù e di questa diversa contestualizzazione spaziale e della presa di posizione di tipo strettamente personale, Da par mè si incunea in maniera improvvisa nella raccolta poetica. Un’eventuale spiegazione riguardo alla sua posizione si potrebbe individuare nella volontà del poeta di affermare, in un bizzarro processo comparabile a quello di litote, l’ineluttabilità del legame con il territorio che in questo momento ha lasciato. 13 Volutamente sorvolando contenuti come Piróz, del quale comunque si tratterà, è con parte della serie La s-ciuptèda che Guerra torna a proporre riflessioni e fantasie sostenute da un protagonismo umano. I nôst burdéll trova nel contrasto ragazzi di campagna – ragazzi di città l’occasione di evidenziare la dignità del mondo contadino. Subentra in questo frangente anche l’elemento religioso, finora mai intervenuto nel testo (se non, parzialmente, nelle immagini di angelo del vento e Campanone in La cèva e La cutrèda, si veda più avanti) a caratterizzare l’ambiente rurale ed eppure così storicamente accentuato. Il tono dell’intera argomentazione è di certo quello di un ammonimento. A strofa unica, questa prima composizione apre la via per una serie di lavori in cui la voce poetica effettivamente e in maniera inedita prende posizione in ognuno dei campi che tocca. Prèst l’arivarà la primavéra non devia da questo sentiero, il perno su cui si centra è un’amara constatazione delle condizioni in cui può versare un uomo in povertà nonostante al mondo si portino giornalmente a termine progetti tecnologici rivoluzionari. La risoluzione finale non riesce ad assolvere al compito di ribaltare la situazione, la convinzione che a una nuova primavera corrisponda un futuro diverso è soltanto accennata, nemmeno con precisione (<< i óman i farà dal chèsi grandi >>) e suona infondata. La lèttra, che la voce di uno stagionale indirizza alla propria moglie, non può esimersi dall’evocare una patina sentimentale e nostalgica rispetto alla condizione di lontananza da casa e cari; vero è, allo stesso modo, che i versi respingono qualsivoglia tentativo di interpretazione critico-sociale. Un punto che merita attenzione è quello che circonda la voce del mittente, apprensiva e premurosa, sbrigativa nel domandare il necessario per sé e impellente nel comunicare la sua vicinanza ai propri famigliari e amici. Il meccanismo di scrittura, imperniato sulla corrispondenza, fa emergere, in questo caso verrebbe da dire più unico che raro (forse presente, se mai, nel venturo I madéun), un’altrimenti sempre sotterranea autoidentificazione della voce poetica. Da un’insistenza sulla tematica dell’affetto, nello specifico coniugale, evolve La mi dòna: non senza una certa malizia, strana in Guerra, altrove sempre “contento a sentimenti molto più sedati” – Contini –, l’ultima strofa conclude un ritratto dei comportamenti che il marito sostiene piacciano alla consorte. La prospettiva lasciata presagire dal titolo è così disattesa dal fatto che soggetto, e al contempo oggetto, della poesia non sia la donna ma l’uomo, il marito, che si specchia nei gusti della compagna. Un approccio disilluso, dunque, ma non per questo meno concreto nei suoi riferimenti realistici al rituale del vestito buono alla domenica e della conversazione da bar. La s-ciuptèda termina l’omonima raccolta offrendo una delle scene dai contorni più cinematografici dell’intero testo: la concatenazione delle 14 immagini evocate dalle tre strofe si pone come frutto di un montaggio. Guerra, per l’occasione regista, sviluppa da una situazione di turbamento colta dallo sguardo verso l’alto (il tuono, i fulmini) quella decisa presa di posizione - già individuata come anima dell’antologia– culminante nell’atto di ribellione vero e proprio, lo sparare contro il cielo. Prestata a un sentimento nervoso di rabbia non altrimenti rilevabile in E lunèri, la voce del muratore in I madéun rincara la beffa della propria insoddisfazione nell’aver costruito tutte le case del borgo senza averne una propria. Lo strumento che Guerra ritiene, a buon ragione, il più efficace allo scopo di esplicitare l’ossessione del fornaciaio è la ripetizione: nella prima strofa il termine madéun ritorna cinque volte, tante quanto il numero di versi; nella seconda è l’anafora di ò fat (più articolo) a contare quattro presenze. A colorare le espressioni di Sa vinzém néun è invece una tonalità ben più esclamativa che giunge ben presto alla gradazione di minaccia: pur facendo fondamento su di un’ipotesi, l’elettore è una voce poetica senza scrupoli quando impone al suo avversario di temere il giorno della propria vittoria. La struttura è ancora una volta quella di un monologo mascherato da dialogo. Quel flusso, tuttavia, che spesso e volentieri parla di un presente travestito da passato, qui prorompe, in modo particolare nella seconda e ultima strofa, nell’enumerazione di supposizioni future. L’universo politico e sociale, qui tangente, è indagato più profondamente dall’autore nella successiva Italia: la poesia, rivolta prima in maniera indefinita e poi più direttamente alla << zénta ch’a vnéi da fura>>, punta il dito contro le ipocrisie del turismo straniero, a maggioranza extraeuropeo, nei confronti della penisola italiana. I viaggiatori, a loro volta identificati tramite stereotipi più o meno comuni, sono succubi di un incanto paesaggistico che li fa distratti ai problemi permanenti nelle zone più povere e malate. Il tono, perentorio quanto supplichevole, amplia la portata del messaggio poetico. Le strofe, come si è notato, si riducono presto e volentieri ad un unico blocco poetico. La versificazione si fa imprecisa, motivata da una spontaneità di espressione, la poesia viene a mancare di architettura. Per Brevini, ogni personaggio ricopre il ruolo dell’eroe di un’umanità che ha saputo farsi artefice della propria liberazione. L’andamento, che acquista con costanza un carattere più discorsivo, obbedisce così alle ragioni di un’intenzione poetica precisamente votata alla credibilità ed episodicità delle occasioni di esistenza che propone. 15 La lettera Ti scrivo per farti sapere | che qua è davvero freddo | e ho bisogno che mandi su una maglia, dei calzetti | e quelle mutande lunghe per l’inverno. || Mi raccomando di badare ai ragazzi | ché passano troppe macchine | e poi mi mandi la sciarpa nera di lana | che c’era sul comò, ultimo cassetto. || Un bacio a te, un bacio ai miei | e da parte mia un bacio grosso ai quei ragazzi. IV. Onirico Un tipo di onirico ben differente da quello, marcatamente tradizionale, di cui si è già trattato, risolve i componimenti La cèva e La cuntrèda: dall’episodio “realistico” e verosimile, il passaggio della << vècia ch’la n’à chèsa d’andè stè >>, e dal comunitario u s’à guérs che comprende una pluralità indefinita, si sviluppa un racconto infondato e straniante, ma per nulla percepito come tale. L’anormalità dell’anzal ‘d lata che prima getta una chiave e si rivolge alla vecchia, invitandola ad andare in paradiso, e poi aspetta che si svolti in fondo alla strada per segnare tempesta, è portata alla luce con tranquillità e scorrevolezza, quasi fosse parte di una tradizione. La questione è che la storia di questa varietà di composizioni non si esaurisce nel tempo dei versi in cui è contenuta, ma ritaglia una situazione fantastica e universale ancora più alternativa quando disegnata, come in Guerra, con contorni linguistici e topografici profondamente radicati nella Romagna più inedita e talvolta persino barbarica. Campanòun, con tanto di maiuscola, non è un comune campanile, ma quel Campanone di Santarcangelo di Romagna che svetta sul borgo antico. Termini come ciapa, vècia e lo stesso cuntrèda, così come l’aggettivo purètt/pòra sono tuttora parte di una “koinè romagnola” e totalmente non passatisti o arcaizzanti. A rimarcare la qualità distintiva, si noti anche la singolarità dell’assenza di rima di spali con Campanòun. E non soltanto ad appigli così definiti si aggancia Guerra per legare luoghi e racconti, anzi nella maggior parte dei casi teatro di queste situazioni sono il contesto rurale e le atmosfere naturali. Nei due scarabócc, E’ trénéin e Lassé ch’a bóssa, si verifica uno stravolgimento della descrizione più lineare in favore di frammenti riconducibili ad altre dimensioni, astorici e atemporali nel purséa (<< E’ voula véa un capèll; | un rógg, un scapazòun | purséa t’una tèsta >>) e nel chissà duvò (<< Lassé ch’a bóssa | m’una porta | vecia | ch’la da chissà duvò >>). In entrambe le versioni la voce è una prima persona e ciononostante i versi, per via di queste schegge, si caratterizzano evidentemente di una nota condivisa, universale. Questa sorta di ossessione onirica e anti-locale si fa cifra stilistica della produzione successiva di 16 Guerra, e La chèsa nòva costituisce forse la raccolta più esemplificativa in questo senso. Tanto più ancorate alla torpida civiltà contadina, poesie quali Dabon Santin?, E’ gatt sòura e’ barcòcall e Sóura un cafélatt (ma già in parte anche la stessa chiusa di La chèsa nòva) si rivelano addirittura maggiormente capaci di veicolare una potenza espressiva ben scissa dalla realtà provinciale e quotidiana. In Dabon Santin? fattore centrale è la struttura dialogica a senso unico; l’argomentazione è retorica, e senza dibattito offre a supporto della teodicea esemplari situazioni comuni: << i péss i è dréinta l’aqua ch’i sta a mòll | e pr’aria u i è al farfali s’i gazótt. | Mo guèrda m’al galéini ch’a l fa l’óv: | se néun a n e bivém e’ va da mèl >>, e tali semplicità bastano ad ammettere che in qualcosa si deve credere e che nello specifico è necessario pregare e’ Signour ch’u t daga la saléuta per non finire nella condizione di Gisto ad Stabunéin, che per le norme sull’identità (v. supra) conosciamo tutti. È tuttavia in E’ gatt sòura e’ barcòcall che Guerra dimostra la portata delle immagini che i suoi versi possono creare. Il pazzo - animalizzato sin dal titolo in un gatto - che si rannicchia sui rami di un albicocco e miagola per tutta la notte è una realtà totalmente inaspettata, fantasticata ma possibile e in questo caso realizzata dalla poesia. Contro ogni tradizione e contro ogni buonsenso, patrocinati qui dal padre (e’ più bon òm ch’u i fóss), la verità dell’evento è del tutto svincolata dal contesto in cui è calata, si fa anzi foriera di un significato a sé stante, alterno. Davvero difficile non legare questo episodio alla celebre scena del << Voglio una donna! >> in Amarcord (1973, Fellini) descritta più avanti in questo testo. Il fatto che l’ispirazione di partenza derivi a Guerra da un episodio realmente accaduto, e da lui notato su di un giornale, può dire molto del processo creativo del poeta: l’obiettivo del dipingere determinate atmosfere non sembra tanto essere quello dell’incantamento fine a se stesso, bensì lo stimolo della ciclicità di una catena di immaginazioni tramite la proposta di situazioni-finestra. Quando non strettamente romagnole, queste restano tuttavia sempre legate all’ambiente contadino e rurale. Sóura un cafélatt spinge il lettore prima t’un cafè dla póra zénta poi addirittura t’un cantòun dl’America de’ Sud: non importa più la dimensione dello spazio, eppure rimane il carattere essenziale del fé do ciacri sòura un cafélatt, della convivialità e dello stare bene insieme, della completezza che donano i piccoli momenti. Un’interessante (e probabilmente alquanto improduttiva) indagine verso questa innovativa ambientazione, addirittura affidata a un altro continente, potrebbe forse svelare l’influenza esotica sull’autore di alcune affezionate lettere argentine che il padre riceveva da una propria sorella. Altro dettaglio, probabilmente poco pertinente anch’esso, è lo scivolamento dell’ipermetria in << Géma ch’a s sém vést la préima vólta 17 in tranv >>, unico crescente fra tutti endecasillabi e replica immediata all’ipometria in << Dabón Santin che t’a n craid invéll? >>, primo verso calante fra tutti endecasillabi. Di nuovo Contini. Con sfumature diverse ma evidenti somiglianze si può invece identificare la chiusa della poesia che titola l’intera raccolta: La chèsa nòva vede la propria ultima strofa mescolare il sogno di più classica comprensione (v. L’insogni) alle superstizioni popolari di due sposi che inseguono il desiderio, a questo punto mai più realizzabile, di ricavare il denaro per una casa. Le situazioni, evocate misticamente e senza preavviso, non di rado intervengono a connotare la produzione di una vena spiccatamente ironica. Guerra rimane, senza dubbio, un autore legato ad un meccanismo comico che scatta in contemporanea a queste soluzioni epifaniche. Le sospensioni del quotidiano, in altre parole, sono lo strumento forse più utilizzato dal poeta (e, lo si vedrà in Amarcord, volentieri anche dallo sceneggiatore) a supporto di quella tensione verso la frammentazione che pare sempre più essere il vero intento poetico. Il gatto sull’albicocco Era un matto | che fingeva d’essere un animale | tra i rami dell’albicocco. || Il suo povero babbo era il più buon uomo che ci fosse | tanto che in casa si abbracciava all’armadio | e poi chiudeva il cassettone col ginocchio. || Gli diceva: - Gino dai, vieni giù; | da’ retta, insomma, alle parole del tuo babbo – | Ma il matto si stringeva all’albicocco | e tutta la notte faceva il verso del gatto. V. Infanzia In Nadèl de’ 44, A gli óchi dla Chèca, La strèda mórta, Zarchè e I scarabòcc la lettura si confronta in maniera diretta con la tematica dell’infanzia. Presentata attraverso l’esperienza dei burdèll, questa emerge sì come fase di nostalgia e malinconia, ma in prevalenza rappresenta un periodo di indagine e talvolta amara scoperta. Nadèl de’ 44 costituisce il conflitto fra il dolce ricordo famigliare e la triste situazione attuale del soggetto parlante: la gioia evocata dalle memorie di gioventù deriva dalla festosa ritualità dei preparativi: il vestito bello, la corsa in piazza, la tèvla lóstra, il mangiare tòtt in sènta pèsa, l’udòur ‘d zambléun. Una ritualità perfezionata e scandita anche dalla rima, prima alternata e poi incrociata. Ancor più pesanti risultano quindi gli ultimi tre versi, che si impongono come opposti agli ideali contraltari della prima e seconda strofa. Vicino è il sentimento promosso da A gli óchi dla Chèca, mirata ricostruzione episodica della mattina in cui, fanciullo, il parlante fu spaventato da alcune oche. Il pianto, unica reazione spontanea, è la soluzione di una poesia che 18 mescola al sistema del ricordo d’infanzia una prima nota di sincera curiosità impossibile da vincolare al solo mondo dei fanciulli: questo Guerra, quasi impressionista, usa colori dell’infanzia per alimentare nuovamente una linfa di ricerca e novità (a supporto sono due le anadiplosi, interne ai versi 3 e 7. La chiusa di Zarchè offre, in questo senso, un’argomentazione perfetta: << che tòtt e’ bèll, s’avéiv, l’è t zarchè >>. Non importava di cosa si riempissero le tasche i bambini rovistando nella spazzatura, se ossa, bottoni, vetri colorati o stracci, l’ultimo arrivato se ne poteva andare ugualmente contento in virtù del fatto di aver cercato, pur senza aver trovato. In termini come sfurgatè, efficaci (sulla scia di quèll, di cui si dirà) oggi come allora, il lettore romagnolo si identifica completamente e associa un proprio ricordo. La descrizione, pur minuziosa e dettagliata, è sempre evocativa, incapace di venire relegata a mera immagine della mente del poeta al punto da non avere necessariamente bisogno di essere attualizzata. Ciononostante, componimenti come La strèda mórta (ma lo stesso Nadèl de’ 44) offrono una terminale resa di un presente amaro, triste almeno in parte, sicuramente incolore opposto alla gioia limpida del ricordo. Di quelle strade che ai burdéll parevano grandi e senza fine ne resta soltanto una morta, impantanata e percorsa da nessuno. L’immaginazione che ne scaturiva, legittimata a mutare gli oggetti e gli animali, ora è costretta a una ragnatela e a un guscio di lumaca. Non di tutt’altra fattura l’infanzia richiamata dalla poesia I scarabòcc nell’omonima raccolta. Ancora più forte - e ben dichiarato - il rapporto che lega a doppio filo poesia e oggetto poetico: i versi sono insieme il muro e gli scarabocchi che su di esso si fanno da bambini. In quello che pare a tutti gli effetti un attestato poetico, Guerra lascia intendere che la poesia sia un disegno di una réiga lònga | e quèlc invrócc (attenzionati dalla separazione in enjambemant), ovvero qualcosa che si impara a fare quasi per caso e poi con abitudine proprio nel corso dell’infanzia (sicuramente non solo anagrafica). L’essere bambini giustifica la marginalità e l’elementarità del linguaggio di tutta la produzione e chiosa ancora una volta una narrazione episodica, onirica e verosimile allo stesso tempo. Per ammissione dell’autore, oltre che riscontrabile nell’effettiva lettura dei testi, va considerato il tematico intreccio di ricordo e invenzione. La memoria delle esperienze infantili si rivela fallibile una volta filtrata dalla fantasia. Anche metricamente, ad un incedere regolare e ben rimato si abbina il contenuto evocativo, annebbiato, mai limpido ma sempre prestato ad interpretazioni immaginarie. 19 Mo gnént! funge in questa prospettiva da conferma per la vocazione sentimentale – il tènt spavént che la tela della carovana incuteva ai bambini – di episodi che coniugano il concetto di indagine a quello dell’infanzia. Un approccio differente (con più alto valore politico-sociale), se non alla sfera dell’infanzia di certo a quello della giovinezza, è fornito in due composizioni più tarde, entrambe parti in E Lunèri: I sacrifeizi e La miséria. A differenza delle opere già citate, alla prospettiva famigliare e all’elemento storico si accompagnano la solitudine e il protagonismo del burdél. I sacrifeizi è una profonda dedica alla figura materna, richiamata dolcemente come responsabile, attraverso le proprie rinunce, dell’educazione del figlio. Irrimediabilmente si fa riferimento al contesto povero e rurale dei primi decenni del Novecento romagnolo, affamato e privo di opportunità, in cui è necessario migrare in cerca di fortuna, o meglio denaro, al costo di fatica e lavoro duro - nello specifico dieci anni da lavavetri e vent’anni da faccendiere - fino alla mattina in cui ci si guarda allo specchio per riconoscersi vecchi. È la storia de La miséria, aspra memoria di un tempo che però infine è passato, tant’è che, per tornare alla chiusa de I sacrifeizi, nulla vieta ora al figlio di sedersi al tavolino di un cafè insieme alla madre per mangiare un bignè. È dunque, questa memoria di gioventù, decisamente storica, realistica, ma non estranea ad un gusto di risoluzione e prospettiva di miglioramento. Gli scarabocchi Questo il muro | e qui gli scarabocchi5 | che facevo da bambino | col gessetto, | da quando ho cominciato | a seguire il braccio | per fare una riga lunga | e i ghirigori6. || Questo il muro | e qui gli scarabocchi. VI. Natura, paesaggio, sensazione Quello che fino all’ossessione è lo sfondo, pur affatto incolore, delle schegge di racconto di Guerra emerge non di rado quale unico protagonista del dipinto. La partecipazione della natura, in un’accezione elementare e primigenia, è forse il mattone più solido della costruzione poetica del santarcangiolese. Attraverso la percezione degli elementi, mediata dall’esperienza plurisensoriale, il lettore è rimandato a situazioni residuali, asciutte ma al contempo visionarie. Difficile non inquadrare E’ pióv in questo stilema: Azzardo una modifica alla ripetizione del dimostrativo per riportare con nuova forza l’azione deittica, quasi da guida di museo, della voce poetica. 6 Sulla scorta di Guerra, insisto nel valore di invrócc come scarabocchio a gomitolo, contrario di riga dritta. 5 20 la rima incrociata ritma un componimento che guarda prima verso l’esterno e poi si sposta alla dimensione domestica. Comune denominatore è la pioggia del titolo, acqua che coinvolge più sensi in quanto bagna e rende lucenti alla vista i coppi, casca rumorosamente dentro il secchio, allarma al punto da far chiudere le porte. Di fronte al temporale non hanno difesa case e alberi nudi, ma chi ne è colto mentre passa per la strada ha per unica reazione il mettere le mani in tasca e coprirsi alla buona la testa. D’altra parte la pioggia è sempre soltanto una pioggia, ed è riducibile al grande bacino di eventi che si realizzano di passaggio, ormai entrati a far parte di una sotterranea tradizione della natura che ne ammette la presenza quasi con superstizione. Necessario suggerirlo, qui si riverbera la linea critica, piuttosto frequente, che vede l’interno come luogo protettore dalle insidie esterne delle intemperie, un ruolo di rifugio assunto in questa occasione dalla casa e più tardi, per ampliamento, dall’intero paese. Avanti nella poesia, un libro vecchio ritrovato in cantina può nascondere sotto la polvere la storia di una biscia che dal suo nido sta a sentire quanto piove. L’immagine è vivace, e tuttavia calata nel contesto di E’ pióv si scolora e si inserisce placida in un quadretto semplice quanto intenso. Improntati ad un significato simile i versi di E’ mi fióm, a inquadrare un mondo appartato, disponibile ad essere interrogato (cosa avranno da dire i bagarózz che suonano nel loro guscio se li si scuote?) e fantasticato nel cercare oro dalle conche di sabbia. Un’immagine tanto pura si sovrappone al quanto mai naturale paesaggio di canne e frasche in maniera indifferente, facile tanto da riuscire a privarlo di qualunque atmosfera folcloristica e conservarne al contempo fino al verso finale la radice rurale del téir ad s-ciòp. Ulteriori esempi di questo stampo sono individuabili in numerosi altri testi, a partire dall’immediatamente successiva I pidriul ad saida, poesia di soli quattro versi e disegno essenziale delle ragnatele che coprono il muro della casa dell’io parlante. Carattere da non tralasciare è appunto il vistoso utilizzo, in questi ultimi due componimenti, del possessivo ad indicare prima il fióm e poi la muraia: la resa di entrambi si fa più concreta, vera in quanto esperita in prima persona da chi la descrive. Già in E’ pióv si notava una prima persona: l’impressione è che Guerra non voglia mai, almeno in questa fase della sua produzione, slegare la voce dall’oggetto dei suoi versi. Si noti in ogni caso che la presenza dell’io non ne fa un protagonista, anzi è sempre sottoposta ad un noi comunitario, ad una visione generale. In quanto al tema di quest’ultima, in E’ ghètt e, più avanti, La féin de’ mònd e E’ sanatori, è possibile rintracciare insieme alla sensazione esclusivamente naturale la presentazione del paesaggio artificiale, umano e nello specifico contadino: nel primo caso i due mondi vengono a mescolarsi, l’io scopre un ghetto di case abbandonate in 21 cui tempo addietro natura e povertà contadina condividevano la sorte fino a diventare la medesima cosa. Oggetti, uomini e animali si uniformano al v.7 ( << bènchi, scarani, strazz, vécc e lusérti >>) in quella che viene subito definita una mostra. Allo stesso modo uniti sono poi spazzati via, foglie e poveretti, da un inverno impietoso ma comunque incapace di cancellarne la memoria. Preme evidenziare, in questo frangente, l’utilizzo del termine quèll, la cui traduzione ‘qualcosa’ risulta essere la più lineare eppure non completamente efficace. Sotto il cappello di significati a cui assolve, quèll rientra sì la sfera dell’indefinito, ma ivi compare anche tutto ciò che non si riesce ad inquadrare e ricordare in un determinato momento. Inevitabilmente, nel concetto che questa parola-bonus porta avanti, viene coinvolta una memoria condivisa dai parlanti: la stessa comprensione del significato dipende dall’abilità dell’ascoltatore – qui del lettore – di interpretare le intenzioni di chi parla. Un vocabolo, dunque, al medesimo istante ambiguo e preciso, sicuramente caratteristico del linguaggio dialettale romagnolo. La féin de’ mònd si dipana a un primo sguardo, e comprensibilmente, come un affresco apocalittico fondato sul fermarsi del tempo e delle azioni quotidiane. A ben vedere, tuttavia, da una prospettiva che trascura il titolo, la poesia racconta la quiete notturna di un borgo antico e consumato (nelle crepe sui muri) in cui si smettono gli abiti da lavoro per indossare quelli del riposo. La fine del mondo si intenderebbe quindi sinonimo di notte. E ciononostante gli ultimi due versi sottolineano la caduta del chiodo della meridiana, a stimolare l’idea che il tempo non sia più parte di questo mondo suburbano. Proprio il tempo allora è la dimensione che lega La féin de’ mònd a E’ ghètt. Ancora una volta, in qualche modo la poesia di Guerra occupa spazi che si sottraggono al corso comune delle vicende per crearne un nuovo a sé stante. La raccolta La chèsa nòva, pur facendo del risvolto onirico il suo traguardo privilegiato, non prescinde – come già accennato – dalle atmosfere naturali e prettamente realistiche. Volendo indagare le poesie che più le rivelano troveremmo forse E’ sanatori, La morta e L’ort. In cinque versi, la prima citata identifica nella città un sanatorio a cielo aperto, con le camere sparpagliate e pagliericci improvvisati per le vie. È quindi nuovamente un paesaggio suburbano a farsi palcoscenico di questa provocazione alla realtà contadina; l’imperativo che fa partire la poesia ordina attenzione ai propri gesti, in una comunità così ristretta le voci e le azioni rimbalzano, così come rimbombano i passi trascinati in un sanatorio. Quella stessa comunità costituisce, d’altro canto, anche tutto ciò che si abbandona nel momento in cui si muore: La morta è spaventosa proprio perché << u s lasa tròpa ròba ch’l’a n s vaid piò >>, dalla famiglia a chi si è visto una volta soltanto. La morte descritta nei versi di 22 Guerra pare in ultima analisi un’immensa nostalgia di persone, sì, ma ben volentieri di profumi e sensazioni famigliari. L’unico desiderio che la può fare sopportare è che giunga in uno di quei brevi e piovosi giorni invernali. È qui, nella fase conclusiva del componimento, che ritorna la cornice naturale, guarda caso a inquadrare un’immagine comune a chiunque e condivisa da tutti. L’ort segna la ripresa di un motivo più lineare di descrizione del paesaggio, l’oggetto dello sguardo è difatti l’orto in quanto interprete di un legame diretto e personale dell’uomo con la terra. Orto significa lo spazio per le proprie colture stagionali, e il nonno che se ne bada ne risalta ancor più il valore tradizionale. Sementi, piselli, melanzane, insalata, cavoli, la stessa piccola zappa per lavorare sono termini forieri, in un borgo rurale, di tradizione. E tradizionale non è per forza tendente all’arcaismo, quanto più un’accentuazione del rapporto con un certo patrimonio residuale vero primo attore del messaggio poetico. E’ paradéis l’è brótt e E’ mònd l’è bèll , contenute evidentemente in dittico all’interno de La s-ciuptèda, rimproverano all’aldilà l’assenza delle meraviglie terrene, rappresentate curiosamente qui dal mondo animale. Quello che dovrebbe essere il paradiso altro non potrà diventare che un luogo triste per chi, come i genitori del parlante, è abituato all’affetto dei propri gatti domestici. È nel mondo, quindi nel presente, che si trovano bellezza e sorpresa, ma più di ogni altra cosa stimoli all’immaginazione. L’attaccamento alla natura mediata dal mondo animale definisce anche la poesia che titola l’intera opera, I bu: la nota che è impossibile non individuare è quella della critica alla modernità in quanto atteggiamento carente di rispetto nei confronti della storia. Chi è in grado di assumersi la responsabilità del dire ai buoi che il loro lavoro millenario è ora sostituibile con mezzi più efficaci e convenienti? Nella figura del trattore la tecnologia abbatte la ruralità, e la reazione è la tristezza, tant’è che “piange il cuore” nel dover ammettere che la tradizioni mutano e vengono sostituite. I buoi sono ora costretti al macello, in una scena tanto evocativa quanto realistica quale la fila a testa bassa delle bestie verso il macello. I versi coinvolgono il lettore con l’imperativo e con l’ampliamento del sentimento di commozione. Seppure definita da una sfumatura piuttosto insistente di amarezza, viene da pensare, facendo i conti con il titolo del testo, che nessuna immagine rappresenti l’immersione nella natura romagnola quanto quella dei buoi che per anni quèl chi à fat i à fatt. Elevando il concetto di questo particolare scritto ad autorità definitoria dell’opera Guerra pare ribadire l’importanza delle radici rurali e di un necessario rispetto non sacrale e saccentemente aristocratico ma concreto e diretto per quegli spazi in cui le parole divengono capaci di iniziare un tale ciclo di 23 fantasie. A fronte del mito dell’intoccabile locus amoenus, l’approccio del santarcangiolese oppone le disgrazie, le tristezze e i peccati. Ultime composizioni di argomento strettamente naturale presentate a chi legge sono poesie da E lunèri: L’Eclissi, pur nella sua brevità, riesce in maniera talmente facile da sembrare distrazione a giocare con la scienza astronomica. L’occultazione del Sole risulta essere soltanto uno scherzo dell’<< òman gras ch’la i fónd a Muntalbèn >> (quindi nelle colline a ovest della Santarcangelo di Romagna di Guerra stesso). A questo quadretto ne seguono altri quattro, mirati ciascuno a descrivere la scena di una delle quattro stagioni: Primavera è il piacere di riscoprire l’aria aperta e le passeggiate con gli animali, L’Instèda così rovente da asciugare l’acqua negli stagni e nelle acquasantiere, L’Autón per chi abita vicino al mare avrà sempre a che fare con il ritratto insolito di questo e della spiaggia, L’inveran è occasione per starsene ben coperti a guardare la neve cadere. L’immediatezza di questi quadretti, veri e propri dipinti di impressione, singoli tratti che compendiano ogni stagione, si giustifica con il riferimento della raccolta a quel lunario calendario popolare a forma di libretto, tanto diffuso un tempo soprattutto nelle campagne, almanacco di colture, predizioni, feste e mercati. Guerra individua in ogni stagione una situazione elementare che la descriva e riesce a darle un carattere leggendario. La voce poetica si muove dalla prima persona singolare a quella plurale per poi scomparire: il patrimonio naturale è personale e comune al medesimo tempo. Piove L’acqua che bagna e fa luccicare i coppi | casca nel cortile dentro al secchio7; | chiudete la porta e poi mettete il catenaccio, | che di fuori si fa una notte da lupi. || Piove sulle case, piove sugli alberi che son nudi, | e giù nel viale passa la carrozza; | ma per la strada van con le mani in tasca | e in testa un fazzoletto con quattro nodi. || Ho trovato un libro vecchio dentro una cassa, | uno di quei libri che credi smarriti; | dice che c’è una biscia nel suo nido | che sta a sentir se piove più di tanto. VII. Al fóli Giusto pare definire a parte i contorni di questi quattro brevi racconti in versi che vanno insieme sotto il nome di favole. I tre cavéll è una leggenda dolceamara sulla nascita della Luna, in realtà una vecchia che dopo aver perso i propri soli tre capelli ha finalmente trovato il proprio posto su nel cielo. Ritmata da un motivo ritornante, si 7 Preferisco a ‘tino’ per la nota dispregiativa insita nella durezza del suono della parola. 24 configura come una brillante filastrocca. E’ bagaròzz, dal canto suo, è l’episodica storiella di un insetto (non si abbracci facilmente e con troppa sicurezza la traduzione ‘scarabeo’ – si veda su questo la nota alla traduzione numero 9) che condivide la strada del ritorno a casa prima con una lumaca, poi con una lepre, infine con una cavalletta. Piróz racconta l’ultimo viaggio di un pescatore che insieme alla sua barca raggiunge la destinazione a lungo desiderata, la vista del fondale. E’ gatin balós-c compendia le vicissitudini di un piccolo gatto sguercio trascinato di casa in casa e finito chissà dove. Seppure si prestino ben volentieri anche ad una lettura indipendente, le quattro composizioni dimostrano più di un motivo condiviso. Categorizzate (già dal titolo) nel genere di favole, innanzitutto non presentano di certo alcuna clemenza nei confronti dei propri attori protagonisti, in ogni occasione sottoposti, quando non ad angherie, perlomeno a sollecitazioni. La vecchia, poi Luna, non può permettersi di perdere gli unici tre lunghi capelli, pena l’essere considerata brutta e il perdere, una volta plèda comè un óv, il proprio posto sulla terra. Quando effettivamente questa sconfitta si verificherà, soltanto un patimento caritatevole, non di certo un qualche tipo di merito, potrà farle trovare lo spazio che occupa nel cielo. Altre le difficoltà che costellano il cammino del bagaròzz; dei tre compagni di viaggio, nessuno ha il passo giusto per accompagnarlo fino al termine del percorso: la lumaca lo rallenta, la lepre lo affanna e la cavalletta se ne stufa. Lo stesso schema, che ripropone un ritornello in entrata e in uscita per ciascun personaggio, aiuta a costruire un clima di tensione che una volta sciolto non può rivelarsi del tutto positivo. La meta, pur raggiunta, non corrisponde a una conquista piena. In Piróz è lo stesso ambiente in cui è stabile il protagonista a colorare l’intera storia di tinte mai completamente accese: la gloriosa visione delle navi che hanno girato il mondo non risolleva il tetro quadro d’apertura, le barche vecchie che muoiono dietro ai capanni dei pescatori segnano l’andatura di tutto il componimento. Tant’è che lo stesso Piróz affiora dall’interno di una delle barche sfondate, immagine che svilisce il passaggio successivo incentrato sulla gioia del buon cibo. Un gioco di opposizioni, quindi, che nella seconda metà della poesia accelera il tempo e introduce la pacificante scena finale: il lento sommergersi dell’imbarcazione fino a toccare il fondo del mare. La storia di E’ gatin balós-c non può, dunque, prescindere anch’essa da una marcata amarezza. La compassione suscitata dal gattino randagio permea ogni capitolo della sua vicenda: la fatica per poppare dalla madre, il timore dei topi nell’antro di un fornaio, lo spavento verso i cani in casa del ragazzo. Motivo costante l’irriverenza nei confronti della sola richiesta, mai assolta, che ad un gattino si fa, ovvero la caccia ai sorci. Nella fase conclusiva questa pietà prorompe 25 inevitabilmente in tristezza: al gatto sguercio, allontanato, l’ultimo verso sostituisce un cane di razza. Altro aspetto che facilmente racchiude le quattro favole è l’assenza di vera e propria morale: il solo esempio di E’bagaròzz, in cui una morale è addirittura esplicitata, serva a chiarire quanto, proprio in virtù della già sottolineata andatura irregolare degli accadimenti, ci si ritrovi nell’impossibilità di confermare un messaggio ultimo che i testi aspirano a veicolare. Favole, allora, ma sino a un certo punto. << Stréda lònga la passa mèi in déu >>, vero, eppure lo scarabeo, volente o nolente, << l’è arivat a chèsa; | mo da par léu >>. Una conclusione fuori dalla norma, questa, alternativa alla regolare prassi favolistica. Guerra sembra voler scherzare con il genere, prepara il campo ma poi sul finale ritrae la mano: in ognuna delle quattro costruzioni l’obiettivo che si intravede non è soddisfatto, anzi la conclusione è sempre uno stravolgimento: come lo scarabeo arriva a casa solo, così la vecchia che il lettore ha imparato a conoscere dopo averne seguito le fasi della storia si rivela la Luna, e Piróz che si è già fatto passare per riservato e tranquillo pescatore in realtà desidera soltanto morire circondato dalle conchiglie splendenti del suo mare, e ancora il sentimento di pietà verso il povero gattino spaventato si esaurisce nel tempo di un verso a favore di un cane di razza. Favole, ripeto, ma sino a un certo punto. Nel definire i passi di queste strategie la voce poetica, pur mantenendosi in prevalenza neutra ed esterna, non può evitare alcune brevi e immediate comparse. Semplice rintracciarla in E’gatin balós-c, dato il carattere famigliare del secondo atto della poesia: con l’utilizzo della prima persona plurale il micio entra nello spazio domestico della voce stessa, che partecipa attivamente in due occasioni, e con allitterazione, (a l’ò aiuté, a i ò guers dri) a quel meccanismo di compassione di cui già si è detto. Più mirate, invece, le incursioni in Piróz e I tre cavéll: i possessivi nòst e nòsta compaiono per una sola volta ciascuno rispettivamente al fianco del nome proprio del pescatore e del sostantivo tèra, per cui il carattere casuale di questo avvicinamento è facile da dubitare. Nòst stringe Piróz nella cerchia del campionario umano del poeta e dei lettori, e di fatto rende ancora più intenso l’addio che si è costretti a dargli pochi versi più tardi. Nòsta àncora i piedi al piano dell’umanità nello stesso momento in cui la vecchia prende il suo posto nel cielo. È in questi dettagli che risuona nuovamente la grande facilità con cui Guerra unisce il tradizionale all’inedito, il barbarico e residuale al fantastico. Piróz Le barche vecchie muoiono oltre al porto | dietro ai capanni dei pescatori; | chi su di un lato | con l’albero rovesciato | chi a bocca di sotto | conficcata dentro l’onda. || C’è la Stella 26 e c’è la Celeste, | che hanno girato il mondo | in largo e in tondo; | che han viaggiato col mare in bonaccia, | che han viaggiato col mare in tempesta. || E dentro un peschereccio sfondato | sta Piróz8. | Lo trovi a casa | o nei dintorni sul sabbione | che ribalta i bagarozzi9.| E intanto la rete, | a penzoloni sulla sponda, | raccoglie due o tre pesci da fare colazione, | da riempire la pancia. || Li cuoce di sotto nella stiva | i pesciolini d’argento10; | e come gli ride il cuore | vedendo che sulla padella | pian piano diventano rosa, | pian piano diventan d’oro! || La polpa al padrone | che è una bontà; | la testa per il gatto, | un gatto sornione, | che gira tutto il giorno qua e là; la spina a nessuno | che può far male, | può restare a metà. || * Ma son già due o tre giorni | che il nostro Piróz | è chiuso in casa con un gran daffare. || Ripara le vele schiantate | mette i tappi ai buchi | chè ancora vuol partire | ancora vuol viaggiare. || Ecco che ha finito | E il peschereccio sistemato, | appena si fa luce, | lascia il porto che dorme | e poi si dondola in mare. | E poi si dondola in mare | con il mare un po’ mosso | e intanto Piróz fuma, | steso dietro al timone | la vecchia pipa di schiuma. || È un viaggio di quelli più lunghi | che s’è voluto mettere in testa; | e con una barca vecchia | e col mare in tempesta. | Vuole arrivare di là, | di là sull’altra sponda | ma intanto che sta andando | la barca gli si affonda. || Adesso è già arrivato | nel luogo in cui voleva andare. | E tra le conchiglie belle | che splendono lì in tondo | la barca pian pianino | si è appoggiata al fondo. VIII. Éultum vérs Pochi ma buoni, “almeno” a detta di Contini, gli Éultum vérs richiedono, per temi e modalità d’espressione, alcune considerazioni separate rispetto alle serie meno recenti. In questa raccolta subentrano, altrove non contemplati se non in maniera estremamente marginale, una certa spregiudicatezza, una continua irriverenza e in generale una non più sotterranea vena polemica. << A vag a chéul ma tótt/ sa stag tra i mi liméun >>, ritornello che spezza e poi chiude la prima poesia qui raccolta, I liméun appunto, ben compendia l’approccio diretto che il Guerra più contemporaneo sceglie di adottare. Ad eccezione di L’aria, la voce poetica è in queste occasioni sempre incisiva, primo veicolo delle talvolta insofferenti talvolta brillanti osservazioni non richieste. Lo stesso I liméun ne offre buona conferma: un inconcludente calcolo sul numero di limoni prodotti in un anno valida la sentenza già citata, “tra i miei limoni” costituisce un ambiente strettamente personale e incorruttibile. La nota polemica emerge, ancora velata, sotto i tre riferimenti di politica, donne e famiglia. Così lontano 8 Vale quanto si è detto per il precedente Piròun. Sulla natura del ben noto bagaròzz, le definizioni non si esauriscono: fra scarabeo, scarafaggio, blatta e altri la migliore mi risulta resti “una roba nera grossa e schifosa”. Evito bacherozzo, a mio parere mediazione inutile. 10 I pesci in questione paiono essere i pignolini, al singolare nel dialetto romagnolo e’ pgniolèt. 9 27 dallo stile espressivo di Da par mè, il significato è tuttavia innegabilmente il medesimo in entrambe le composizioni, tant’è che non risulterebbe scorretta (dal punto di vista esclusivamente del contenuto comunicativo) una commistione di versi: << sa stag tra i mi liméun, | a n’voi savai ‘d niséun >>. Di meno immediata categorizzazione è invece la successiva L’aqua. Pur nella sua brevità, questo lavoro coniuga a un limpido oggetto poetico – l’acqua, appunto, ripetuta in anafora per quattro versi su cinque – un orientamento episodico che evoca le situazioni dei componimenti sull’infanzia. A questo vada sommato un motivo, avanti nella raccolta più chiaramente percettibile, di presunzione e autoglorificazione. Certa emerge, proseguendo su questa strada, una velata allusione all’acqua di mare come, se non avversaria, straniera all’abitudinaria acqua di bicchieri, di fosso e di fiume. In Dmanda trova subitanea conferma quanto appena accennato: la prima persona, rivolgendosi a un voi non meglio identificato, si impone con un’inedita consapevolezza nei propri mezzi sulla questione religiosa. Quest’ultima pare, a tutti gli effetti, un espediente provocatorio che maschera un sentimento avvelenato – a tratti quasi ribelle – nei confronti delle imposizioni. Impossibile, però, pare anche evitare di declinare quest’azione nella sua valenza comica, ulteriore carattere che profuma gli Éultum vérs. L’esagerazione e l’esibizionismo portano di fatto a situazioni farsesche soprattutto in E mi nom e La tossa, due acuti esempi di ulteriori e chiaramente visibili provocazioni alla sacralità in un caso del nucleo famigliare, nell’altro della divinità. Le due fanfaronate, private dello scarto offerto dalla lingua dialettale, danno voce a quello che potrebbe senza problema alcuno essere uno stand-up comedian attivo oggi. Sono L’aria e E’ binèri, ultimi due componimenti della serie, a rappresentare il ritorno di Guerra a una scrittura senza evoluzioni, appagata a sentimenti più sfumati. L’aria, con dedica a Elio Vittorini, è una fantasia da vocabolario che Guerra correda facilmente di un esempio; facile ricordare, nella materialità di quest’aria, l’aere dantesco, allo stesso modo consistente, affabile e distintivo. E’ binèri riporta d’altro canto agli affetti di La lèttra, in quanto monologo, questa volta di ringraziamento e non richiesta, rivolto a un proprio caro. Il mio nome Se mi garantite di mettere il mio nome in grande | sulla prima pagina del giornale | boia se non faccio fuori anche mia mamma. L’aria L’aria è quella roba leggera | che ti sta intorno alla testa | e diventa più chiara quando ridi. 28 Sceneggiatura: AMARCORD Se, come Guerra stesso ricorda, ogni grande regista con cui ha lavorato lo ha avvicinato perché in qualche modo trovava nel poeta qualcosa di funzionale al progetto che si preparava a portare sullo schermo, non è difficile comprendere, alla luce di quanto si è detto sinora, la visione di Fellini per Amarcord (1973). Un uomo nato a Santarcangelo di Romagna, paese una decina di chilometri addentrato nell’entroterra riminese, è il poeta più giusto per ricordare l’infanzia e la purezza del borgo dimenticato fra cittadina e campagna, per motivare le attrazioni alla stagione dell’adolescenza e proporne storie di vita universali. A legare il cineasta riminese allo scrittore santarcangiolese, oltre alla provincia d’origine, la medesima passione per i personaggi, folli o bizzarri, ingenui, ignoranti, umili o, dato che sempre di Romagna si tratta, “sboroni”. Guerra stesso parla di Fellini con termini che giustificano l’esistenza di un capitolo tale all’interno di questo lavoro: “Il nostro rapporto è sempre stato di collaborazione molto sana e molto vera. Se lui propone una cosa e io ho qualche dubbio, se non mi ha convinto lui non la mette, così naturalmente succede con me. È sempre un fatto molto democratico, una collaborazione sempre molto sana, pulita. Capita che ci diciamo: "No, no, questa cosa che hai inventato, non la sento, mi fa schifo, è proprio brutta", oppure il contrario, e ci si sta a sentire, se ne discute. Giuro che per Amarcord non so proprio se c'è più di mio o di suo. Giuro, non mi ricordo quello che c'è di mio.” Sviluppato nel tempo della storia di un anno, il film accoglie e abbraccia i ricordi lievi o dolorosi del passato in una cittadina di infantile memoria. L’operazione non risulti per questo di mera nostalgia: Amarcord è più un lavoro di commiato, un’accettazione e un placido addio alle vicende della propria storia insieme a una lucida nozione della necessità di separarsene. Proprio questo elemento di distacco anzi qualifica il carattere universale della pellicola: a dispetto della natura del soggetto, che parrebbe locale, comunitario o in ogni caso ristretto e puntuale, la volontà dichiarata dagli autori è quella di evitare la lettura autobiografica in nome dell’evocazione di una filosofia di vita collettiva, in cui lo spettatore possa riconoscersi. Ecco allora che la consolidata espressione romagnola a m’arcord si unifica nel neologismo che titola la storia. Fellini stesso ne definisce i tratti: “Amarcord: una paroletta bizzarra, un carillon, una capriola fonetica, un suono cabalistico, la marca di un aperitivo, anche, perché no? Qualunque cosa, tranne l'irritante associazione al 'je me souviens'. Una parola che nella sua stravaganza potesse 29 diventare la sintesi, il punto di riferimento, quasi il riverbero sonoro di un sentimento, di uno stato d'animo, di un atteggiamento, di un modo di sentire e di pensare duplice, controverso, contraddittorio, la convivenza di due opposti, la fusione di due estremi, come distacco e nostalgia, giudizio e complicità, rifiuto e adesione, tenerezza ed ironia, fastidio e strazio”. Un progetto, dunque, quello di Amarcord, che fin dal nome desidera prestarsi alla molteplicità delle coscienze, senza vincolarsi al localismo né tanto meno al passatismo. Gli strumenti di cui si avvalgono Fellini e Guerra per perseguire l’obiettivo non sono nemmeno sotterranei, a partire dalla scelta di mantenere Rimini come ambientazione del film solo in sceneggiatura per non girare poi effettivamente alcuna scena in loco. Preferendo un set totalmente ricostruito a Cinecittà, il lavoro si sottrae alle pretese possessive di un’unica cittadinanza e sottopone invece la propria raccolta di tipi umani a chiunque. La stessa struttura episodica, puntellata se lo si vuole intorno alla vita di Titta Biondi ma non comunque su di lui imperniata, costituisce un catalogo umano di personaggi mai definiti eppure direttamente sensibili e chiaramente identificabili: Titta è un adolescente alle prese con la propria educazione sentimentale, esce a fare scherzi con gli amici e suscita le ire dei genitori, Aurelio e Miranda, il primo un esigente ma in fondo bonario padre di famiglia e capomastro, la seconda una materna casalinga alle prese con le furie del marito; il nonno è vecchio e avvinazzato, ma pur sempre memore delle sue virtù giovanili nella stanza da letto; lo zio materno è un “vitellone”, mentre quello paterno, Teo, è ospite di un manicomio. A completare il quadretto di una cittadina che, quasi fosse un carnevale in piazza, accoglie sagome e maschere di ogni stampo, la pellicola è colorata dal matto, denti storti e discorsi sconnessi, l’ambulante bugiardo ed esagerato, l’avvocato colto e saccente, la donna procace e non più giovanissima in cerca dell’uomo giusto da sposare, e poi ancora la ninfomane, la tabaccaia dalle forme generose, il parroco bacchettone e gli studenti insolenti. A questi tipi vanno ad ogni modo aggiunti anche altri personaggi, non immediati da collocare nei propri ricordi ma comunque credibili nelle immaginazioni suscitate dalle fantasie infantili del borgo: il riferimento va alla famiglia di nobili che osserva il borgo dal terrazzo, al motociclista che compare nelle piazze e sul molo per svanire girato l’angolo, la monaca nana, il suonatore di fisarmonica cieco o le turiste straniere in visita al paese, e l’oltremodo ricco e misterioso signore dall’Oriente (qui un emiro con le sue trenta velate concubine). La mescolanza di questi numerosi attori, così distanti tra loro, diventa in Amarcord una coreografia. Confuso, lo spettatore entra in una spirale in cui 30 si conosce senza sapere, e in una certa maniera la storia viene ad appartenere allo stesso modo a chi la ricorda e a chi la immagina. Di fatto, questa famigliarità inaspettata con i bizzarri abitanti della Rimini di Amarcord riporta ai caratteri delle comparse de I bu. Così come il primo componimento là faceva presentare l’autore tramite l’origine e la storia dei genitori in America, qui troviamo dopo poco un dialogo del medesimo stampo: di fronte al falò che celebra la fine dell’inverno un uomo informa un altro su quanto siano più alte le fiamme in America, e ribadisce poi la propria credibilità alla luce del fatto di essere “figlio di americani”, lui. La penna di Guerra offre in entrambe le situazioni dei dettagli senza contesto, dei comportamenti non giustificati se non inquadrati in queste cornici. Il contatto con il passato resta comunque pericoloso, può velare le memorie, ammalare i ricordi fino addirittura a costringere alla nostalgia. Puntuali e con una certa costanza sono inseriti allora numerosi sguardi in macchina, il cui parallelo in ambito poetico potrebbe darsi nelle tonalità dell’imperativo, capaci in Guerra di richiamare l’attenzione del lettore in maniera immediata. La sensazione documentaristica, alimentata anche dalla natura retorica della recitazione, riporta con forza al presente e solleva momentaneamente lo sguardo nostalgico dalle vicende del borgo. I personaggi che occasionalmente rivolgono, quando non un discorso, anche solo un’occhiata allo spettatore, lo fanno per raccontarsi, tradurre per chi guarda gli eventi che accadono e il valore che hanno nel loro particolare contesto. Esempi sono la scena introduttiva delle manine - liberate nel vento dai pioppi, testimoni della venuta della primavera con l’inverno alle spalle- ma soprattutto le chiose del saputo avvocato in merito alle origini della città, delle sue usanze e dei suoi racconti (le leggende al Grand Hotel della Gradisca e del bugiardo con le donne dell’emiro). In qualche modo, chi si rivolge allo spettatore è legittimato dal fatto di essere indigeno in questo mondo indefinibile, autoctono dell’atmosfera onirica e quindi privilegiato nel raccontarne i meccanismi di superstizione e tradizione. Il vociare rumoroso e colorato di tutti i protagonisti, così bizzarramente inconsapevoli, presenta con naturalezza la loro condizione di irrimediabili immaturi. La perenne ed esilarante ostinazione di vecchi e giovani verso i pareri autorevoli (il lapidario “te dicci al dottore che è un patacca”, il truffaldino “professore può essere così gentile, scusi me lo potrebbe far risentire?”), il legame tradizionale con la religione e quello forte con le superstizioni, l’affabile ignoranza dei parenti di fronte allo zio Teo, la cura del nonno nel tradurre i suoi pensieri dal dialetto all’italiano per farsi capire meglio e la sua innocente puntualità nel ricordare a tutti, dopo il pasto, “e anche oggi abbiam mangiato”, costruiscono fedelmente l’intaccato 31 quotidiano di una vita provinciale già descritta secondo i parametri poetici nei versi di Guerra. Non mancano, questo è evidente, agganci diretti alla collezione del maestro santarcangiolese: in sceneggiatura entrano due delle poesie proposte ne I bu. Con la prima, E’ gatt sòura e’ barcòcall, si è già operato un collegamento: lo zio Teo, in “libera uscita” dal manicomio per una giornata al podere con la famiglia, sfugge al padre per il tempo sufficiente ad arrampicarsi in cima ad un albero, dal quale per l’intero pomeriggio urla caparbiamente di volere una donna. Il primo attore-matto questa volta ha un nome, Teo, e oppone la sua solenne quanto ingenua rivolta al padre come alla famiglia intera. Il suo oltraggio al buonsenso per l’occasione sfocia non più nel miagolio, ma in un ben più istintivo desiderio di compagnia femminile. I madéun è l’altro caso parallelo, ancor più particolare perché in Amarcord non viene presentata come scena ma proprio in quanto componimento, orale e ritagliato, beninteso, del muratore Calzinazz (un nome, una garanzia) nel cantiere di Aurelio: “Mio nonno fava i mattoni, mio babbo fava i mattoni, faccio i mattoni anche me, ma la casa mia: ndov’è?“ suscita l’ilarità generale. L’ironia che caratterizzava i versi di Guerra non può che tornare utile a vivacizzare un ambiente già per natura aperto alla barzelletta. Una pellicola volutamente aliena al tempo e allo spazio, dunque, ma non per questo estranea ai programmi della storia. Numerosi e distintivi sono gli eventi che penetrano l’apparentemente placida vita del borgo di Amarcord e lo stabiliscono in una linea temporale. Il tempo della storia, come già ricordato, è un ciclo annuale, ma di quale anno si tratti non è dato sapersi, nonostante le realtà storiche inserite in sceneggiatura suggeriscano una restrizione del cerchio al cuore degli anni Trenta. Prima fra questi la presenza del fascismo, già indovinata nel ritratto di Mussolini incorniciato accanto al Papa e al re sulla parete delle aule scolastiche frequentate da Titta e i suoi compagni, ma fondante poi nella pomposa sequenza della parata e nella drammatica interrogazione di Aurelio. In questo caso, la datazione si rifà al 1935, quando con la guerra in Etiopia si cominciò a cantare Faccetta nera. L’adunata del 21 aprile, a festeggiare la nascita di Roma, si presenta agli occhi degli abitanti del borgo come l’opportunità di arrestare il naturale corso delle giornate e testimoniare la propria partecipazione ad una liturgia comunitaria. Nonostante l’episodio, di certo non sorvolabile, del simpatizzante anarchico Aurelio, che osa azionare un grammofono sulla cima del campanile, non vengono postulati due schieramenti avversari di maledetti fascisti e eroi antifascisti. La parte interpretata dal fenomeno fascista non pare di protagonismo e non concentra l’attenzione su di sé (scalzata com’è dall’esuberanza degli abitanti), costituisce tuttavia un quanto mai realistico 32 rendimento della sua reale pressione sulle piccole cittadine di provincia italiane proprio in virtù della raffigurazione non delle cause o derive del totalitarismo ma della “maniera, psicologica, emotiva, di essere fascisti”. Il tono, pur sempre umoristico e calato nell’atmosfera del ricordo, non si allontana dalla denuncia. Amarcord non giudica, ma mostra dall’interno l’ampio consenso popolare senza ricondurlo a una fetta malata o deviata della società. Lo sguardo sul fascismo non resta mai estraneo e se, come si è detto, il film è pensato perché tutti vi si possano riconoscere, allora nella confusa ignoranza verso ideologie politiche e pratiche di violenza (ammirate in nome della rassicurante speranza che un’alterità possa risolvere le situazioni) è necessario che lo spettatore si ritrovi. “Fascismo e adolescenza continuano ad essere in una certa misura stagioni storiche permanenti della nostra vita. L'adolescenza, della nostra vita individuale; il fascismo, di quella nazionale: questo restare, insomma, eternamente bambini, scaricare le responsabilità sugli altri, vivere con la confortante sensazione che c'è qualcuno che pensa per te, e, una volta è la mamma, una volta il papà, un'altra volta è il sindaco, o il duce, e poi il vescovo, e la Madonna e la televisione.” Così Fellini sottolineò il legame fra il regime e l’adolescenza. La pellicola, ben pervasa da un sentimento fantastico e ingenuo, sostiene queste parole intervallando le sequenze di valore storicista con scene marcatamente oniriche il più delle volte proiettate su un futuro vicino e migliore: si vedano i due esempi aventi per attore principale Ciccio, scolaro infatuato di Aldina e da lei non corrisposto. In un primo sogno, sullo sfondo della parata, Ciccio sposa la ragazza di fronte alla paterna gigantografia del volto del duce; in una seconda prova d’immaginazione, tuttavia, all’interessamento di Aldina il ragazzo risponderà con il gesto dell’ombrello. Fondale della vicenda, in questo caso, è la VII Mille Miglia, tradizionale gara automobilistica storicamente disputata nel 1933. Ancora una volta la popolazione si riunisce intorno all’evento clamoroso, rispettosa di una sorta di conclamata tradizione a festeggiare auto e piloti. Di nuovo un passaggio di un veicolo meraviglioso, quello del transatlantico Rex sul mare di Rimini, porterà tutti a spendere la notte sulle barche pur di salutare da lontano questo avvento straordinario. Le stesse sfumature di fantasia e avventura, filtrate da una nota marcatamente erotica, colorano anche la notte che ha regalato il soprannome di “Gradisca” alla donna più desiderata del borgo. Come già si è notato per Guerra, la dimensione onirica, per la quasi totalità dei casi scoperta da qualsiasi misticismo, compenetra luoghi e abitanti. L’intera comunità stretta intorno a I bu e Amarcord sembra animarsi proprio alla luce di questi avvenimenti, quasi come se la quotidianità dipendesse dallo straordinario e si muovesse solo alla sua ricerca. 33 34 Note bibliografiche P. P. Pasolini, Sulla poesia dialettale, in << Quaderni internazionali di poesia >>, VII (1947). P. P. Pasolini, Poesia dialettale del Novecento, con M. Dell’Arco, ora in Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960. T. Guerra, I bu, trascrizione in lingua di Roberto Roversi, Rizzoli, Milano 1972, qui nell’edizione Pendragon, Bologna 2014. G. Contini, Excursus continuo su Tonino Guerra, introduzione a I bu, Rizzoli, Milano 1972. P. V. Mengaldo, Pasolini critico e la poesia italiana contemporanea in La tradizione del Novecento, nuova serie per la prima edizione Feltrinelli, Milano 1975. F. Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, Bari 1977. F. Brevini, Poeti dialettali del Novecento, Einaudi, Milano 1987. F. Brevini, La poesia in dialetto, I Meridiani-Mondadori, Milano 1990. M. Cucchi – S. Giovanardi, Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, I Meridiani-Mondadori, Milano 1994. A. Bertoni, Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (1971-2000), Book editore, Bologna 2005. P. Giovannetti, Il racconto. Letteratura, cinema, televisione, Carocci editore, Roma 2012. G. Bellosi, Dialetti “uccisi e mai morti”, articolo, << IBC >>, 2018. Annalisa Teodorani, Ritorno a Santarcangelo, articolo, << IBC >>, 2018. A. Bertoni, Per una lingua in più, << IBC >>, 2018. 35 Note sitografiche Tonino Guerra presenta 'Amarcord' in Piazza Maggiore, upload di “CinetecaBologna” su YouTube, 2010, https://www.youtube.com/watch?v=L7LVkHP7bXs. Incontro con Tonino Guerra, upload di “andrea icardi” su YouTube, 2011, https://www.youtube.com/watch?v=mukj90SrOuk&t=474s. The World of Tonino Guerra: Self Portrait, upload di “Nicola Tranquillino” su YouTube, 2011, https://www.youtube.com/watch?v=jaqqOwExhPs&t=1179s. incontro Tonino Guerra, upload di “Francesco Brollo” su YouTube, 2013, https://www.youtube.com/watch?v=lPRr-lib-Ww&t=473s. Documentario Zavattini, upload di “jacopo barbaccia” su YouTube, 2013, https://www.youtube.com/watch?v=U5F9ENcqr6s. Passaggi di Cesare Zavattini nella Tv italiana degli anni '60, upload di “Out of Sync”, 2017, https://www.youtube.com/watch?v=YlGepileEM4&t=134s. Sottovoce Gigi Marzullo incontra Tonino Guerra, upload di “perry fred” su YouTube, 2017, https://www.youtube.com/watch?v=QS85ZEWxrAY. Federico Fellini – Tullio Kezich, L’idea del film, contributi su ilcinemaritrovato.it, aggiornato al giugno 2019, http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-ifilm/amarcord/lidea-del-film/. Giuseppe Rotunno – Tullio Kezich, Sul set di Amarcord, contributi su ilcinemaritrovato.it, aggiornato al giugno 2019, http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/amarcord/fellini-sulset/. Federico Fellini – Tullio Kezich – Mario Verdone – Peter Bondanella, Rimini e la memoria, contributi su ilcinemaritrovato.it, aggiornato al giugno 2019, http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/amarcord/riminimemoria/. 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