La violenza sulle donne nella Calabria postunitaria
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di Giuseppe Chirico
- La società
contadina calabrese
dell'Ottocento è
selvaggia e brutale:
le leggi in vigore,
prima ancora di
quelle imposte dallo
Stato o dalla
criminalità
organizzata, sono
quelle della violenza,
dell'onore e della
vendetta, e
soprattutto quella del
più forte. Ogni
campagnolo ha
sempre con sé una
scure e almeno un
coltello, e la rissa per
futili motivi, talvolta
mortale, è all'ordine
del giorno. Si può
morire per questioni di donne o legate all'agricoltura, ma anche per una parola di troppo o per
uno sgarbo, magari dopo aver giocato a carte nelle osterie, da dove gli uomini escono sempre
più maneschi e incattiviti. Da questo clima di violenza diffusa non sono esenti le donne, talora
carnefici a loro volta di altre donne, ma più spesso terminali degli istinti più bassi derivanti dalle
leggi primitive già citate, dentro e fuori dal focolare. Specie per le più giovani, quando il
pericolo non vive tra le mura domestiche, il rischio di subire insidie e maltrattamenti si annida
ovunque.
Un'analisi dei reati perpetrati nei confronti di persone di sesso femminile, per quanto non
statisticamente indicativa, può ugualmente offrire uno spaccato della società dell'epoca e
mostrare la facilità con cui donne di ogni età potevano subire violenza. La Corte d'Assise di
Palmi, nei primi decenni del Regno d'Italia, si è occupata di rei e reati relativi a tutta la
provincia di Reggio Calabria, nonché alle attuali province di Catanzaro (Cardinale, Maida,
Miglierina, Nicastro, Pianopoli, San Floro, Sersale, Torre di Ruggiero, Vena di Maida, Zagarise) e
di Vibo Valentia (Caria di Drapia, Coccorino, Fabrizia, Francica, Mileto, Mongiana, Motta
Filocastro, Nicotera, Pizzo, San Costantino, Serra San Bruno, Simbario, Tropea, Vazzano,
Zambrone).
Le sentenze emesse tra il 1869 e il 1885, per reati commessi a partire dall'Unità, sono in tutto
seicentonovantanove: settantacinque di queste – meno dell'11% del totale – riguardano reati
violenti commessi contro donne e ragazze. Numeri che acquistano più peso se si considera che,
a quel tempo, l'Assise trattava anche reati come furto, ricettazione, falsa testimonianza o uso di
denaro falsificato. È poi lecito immaginare che quella evidenziata sia solo una piccola parte dei
crimini commessi contro le donne, spesso non denunciati per vergogna o per paura di ritorsioni,
come avviene ancora oggi. Gran parte dei delitti – commessi o tentati – cui le sentenze si
riferiscono è costituita da stupri, omicidi e pestaggi, ma vi sono anche reati come ratti, rapine e
omicidi preterintenzionali.
Le violenze sessuali avvengono sovente in campagna o nei boschi, ai margini delle strade che
molte donne sono costrette a percorrere, da sole o in gruppo, per lavorare nei campi o andare a
far legna. È quello che succede a Filomena Marchesano il 14 giugno 1867, mentre si trova nelle
foreste di San Giorgio Morgeto con la cognata Maria Annunziata Morabito, quando due uomini
col volto travisato sbucano dai cespugli e la trascinano tra i castagni per abusare di lei, a turno.
Durante lo stupro Filomena riesce a vedere in viso gli aggressori, due ventenni suoi
compaesani, quindi assieme al marito sporge subito denuncia, mentre i giovani si vantano in
giro delle loro gesta. Una simile sorte non viene risparmiata nemmeno a bambine come
Giovanna Maria Mazzone, di dieci anni, stuprata a Mammola il 13 marzo 1868, o Fortunata
Pulicanò, di soli sette anni, violata da un cinquantottenne a Caulonia nell'ottobre del 1868, o
come ancora Carmela Canfora, di nove anni, presa con violenza a Cittanova il 2 marzo 1869: è
andata a raccogliere legna con altri ragazzini quando un pastore del luogo, di diciassette anni,
prima fa allontanare gli altri con una scusa e quindi abusa di lei.
Fortunata Ripepi, stuprata a Cerasi nel giugno del 1869, perde l'uso del braccio sinistro a causa
delle percosse ricevute, e la prostituta Francesca Crisafi, in una notte di settembre del 1870, è
violentata ripetutamente a Gerace da un branco di suoi conoscenti. Un altro stupro di gruppo
avviene la notte di capodanno del 1871, a Cittanova, quando Angela Rosa Raso e suo marito
vengono assaliti da una banda di malavitosi dediti ai furti e al pascolo abusivo: i delinquenti
pestano l'uomo e lo legano con la faccia a terra, per poi abusare a turno della donna;
quest'ultima, in seguito, testimonierà contro gli aguzzini, ma sarà assalita e presa a bastonate e
ritratterà tutto.
Maria Chirchiglia viene stuprata in una sera di agosto del 1871 lungo la strada che porta a
Oppido Mamertina, Caterina Crisafi nell'agosto del 1879 nelle campagne di Cittanova, e Maria
Catalano, nel giugno del 1885, viene presa con violenza e sodomizzata da un contadino di
Radicena. La piccola Maria Parato, che non ha ancora compiuto nove anni, il 16 giugno 1882 a
Palmi è vittima di un ventenne, che la violenta «contagiandola altresì di male venereo con grave
pregiudizio alla salute».
Tali crimini a sfondo sessuale, nondimeno, vengono commessi anche in contesti urbani o
domestici, in circostanze – se possibile – ancora più raccapriccianti. Anna Sgrò è una bambina
di Gioia Tauro, che nel luglio del 1869 ha da poco compiuto nove anni, e abitualmente si reca
presso un vicino di casa per spidocchiarlo; l'uomo, in passato già sospettato di simili reati,
abusa di lei senza nemmeno chiudere la porta dell'abitazione: verrà incastrato dalla sifilide
infettata alla vittima. Caterina Crocitti ha otto anni quando, il 5 maggio 1871, la madre la
manda in farmacia a Radicena per comprare uno sciroppo. In quel momento però il farmacista è
assente, e al suo posto vi è il fratello sacerdote, che porta la bambina nel retrobottega e tenta
in modo maldestro di consumare un rapporto con lei: la madre di Caterina, Teresa Surace,
denuncia l'accaduto, e le autorità ecclesiastiche sospendono immediatamente il prete.
Una vicenda di assoluto degrado si consuma a Palmi tra il 1872 e il 1873. Dopo aver scontato
sette anni di galera per aver ucciso la moglie a coltellate, nel 1872 il padre di Litteria Mazzullo
torna a casa. Da subito la ragazzina diviene oggetto delle mire oscene dell'uomo, che la
circonviene al punto da farne la sua amante, con tanto di baci e smancerie in pubblico. Tutti nel
quartiere conoscono la situazione, ma la sfortunata è sorda a ogni richiamo, e continuerà a
difendere il padre anche dopo aver partorito una creatura frutto dei suoi abusi, nel 1873; il suo
comportamento non riuscirà a far evitare al mostro una condanna a vent'anni di lavori forzati.
Petronilla Mazzeo è una disabile mentale di quattordici anni, stuprata il 18 maggio 1875 a
Oppido Mamertina: sarà la madre Giulia Parisi a denunciare l'accaduto. A Seminara, nel
dicembre del 1878, l'undicenne Annunziata Arfuso viene adescata da un quarantenne, che la
conduce nella propria dimora e abusa di lei, arrecandole inoltre «un grave pregiudizio alla
salute, infettandola con ulcere alle parti genitali ed all'ano, ed occasionandole malattia per oltre
i cinque mesi». E tra le mura domestiche subisce violenza un'altra quattordicenne, Domenica
Arduca, violentata dallo zio paterno a Palmi la notte del 12 agosto 1881.
Tristemente diffusi, anche se difficilmente ravvisabili nelle carte processuali, sono poi i casi di
ratto: non rappresentazioni folkloriche di arcaici rituali nuziali, ma veri e propri rapimenti seguiti
da stupri. La tredicenne Anna Maria Scaramuzzino, rimasta orfana dei genitori, vive a Condofuri
in casa della sorella e del cognato. La notte del 3 settembre 1878 viene rapita da sei uomini di
San Pantaleone, che irrompono armati nell'abitazione e la portano in un luogo nascosto, dove
viene posseduta da uno di loro. Le accuse di ratto e di stupro cadono allorquando la nonna della
ragazza acconsente al matrimonio tra quest'ultima e il sequestratore, che viene celebrato il 6
giugno 1880. Analoghe vicende vedono coinvolte Maria Teresa Zurzolo, rapita a Radicena sotto
gli occhi del padre il 16 giugno 1882 e poi abusata, e la diciassettenne Teresa Ierace, che il 29
luglio 1884, nei pressi di San Giorgio Morgeto, viene presa da un uomo armato il quale prima
percuote Santa Seminara e Caterina Ierace che provano a opporsi, poi porta con sé la ragazza e
la stupra.
Nemmeno tra le mura domestiche, come si è visto, una donna è al riparo da insidie letali:
Consolata Latella muore a Pellaro l'8 gennaio 1868, strangolata dal suo uomo. La sera di Natale
del 1869, a Reggio, Caterina Griso viene uccisa dal marito, assieme al presunto amante, a colpi
di revolver e stilettate; il 24 agosto 1870 a Galatro a morire è Caterina Migliorese, avvelenata
dal coniuge poi condannato alla pena di morte. Concetta Reitano ha sedici anni e vive a Gioia
Tauro, quando la sera del 23 giugno 1871 bussa alla porta di casa un amico di famiglia, nonché
suo pretendente, insistendo per consegnarle delle uova che lei però rifiuta. L'uomo allora le si
avventa contro con un fucile, inseguendola e facendo fuoco più volte: la giovane sopravvive
solo perché l'attentatore è ubriaco e non riesce a ferirla mortalmente. Sei giorni dopo, a
Cinquefrondi, Giuseppa Albanese riceve una pistolettata esplosa a breve distanza da suo figlio,
che la insulta e la minaccia, ma tuttavia non riesce a ucciderla. E il 21 ottobre dello stesso
anno, a Giffone, Rosaria Mandaglio viene gettata a terra e presa a calci dal fratello, morendo il
giorno successivo per queste ennesime percosse: i suoi fratelli la pestavano di continuo per
costringerla a vendere un terreno.
A San Lorenzo, in una notte di estate del 1872, le sorelle Cecilia e Filomena Iacopino perdono la
vita trucidate da un loro fratello, il quale attende che si addormentino per poi finire la prima con
una fucilata, e la seconda con diverse pugnalate. Ad Anoia Inferiore, Teresa Napoli viene spesso
insultata e malmenata dal figlio ubriaco il quale, nel novembre del 1878, la colpisce con un
piatto e le fa perdere un occhio, «solo perché la madre sua non si era curata di fargli cuocere
due tordi per cena». Nello stesso mese e anno, a Drosi, Raffaela Raso viene avvelenata dal
marito che le fa ingerire dell'acido solforico: lei morirà il successivo 10 dicembre dopo atroci
sofferenze, lui rimedierà una condanna a morte.
Concetta Avati muore a Laureana di Borrello il 12 novembre 1879, per via delle bastonate
sferratele dal genero un mese prima, e Giovanna Condoluci perde la vita a Tritanti nell'ottobre
del 1880, presa a calci e pugni dal marito in diverse parti del corpo. Miglior fortuna tocca a
Elisabetta Di Paola, che il 28 agosto 1882, a Sant'Agata del Bianco, sopravvive a un tentativo di
veneficio commesso dal proprio coniuge, che le ha versato dell'arsenico in una zuppa di
cicerchie. Marianna Pepè, invece, presa a colpi di accetta dal marito il 15 marzo 1883 ad Anoia
Superiore, spira dopo quasi un mese di agonia, e Caterina De Maria viene accoltellata dal suo
uomo il 14 dicembre 1884 a Messignadi, morendo dopo due settimane.
La violenza non risparmia le donne calabresi neanche quando si tratta di delitti di altro genere,
come rapine o vendette personali. La notte del 20 giugno 1867 Maria Specchio si trova in casa
a Giffone, quando quattro uomini fanno irruzione per derubarla, le usano violenza e poi la
finiscono strangolandola. Il successivo 2 agosto, Caterina Mesiti e Rosa Prestia vengono pestate
e rapinate da due uomini armati nelle campagne di San Giorgio Morgeto. Anche a casa di Maria
Timpano, a Cittanova, la notte del 16 gennaio 1872 piombano quattro delinquenti armati, ma la
donna si salva grazie alla prontezza del marito, che dopo una iniziale colluttazione riesce a
metterli in fuga.
Il 9 febbraio 1878, a Francica, un tizio di Mileto esplode un colpo di revolver a bruciapelo contro
Fortunata Catroppa, ferendola al petto senza però riuscire a toglierle la vita. La notte del 22
aprile 1879 Maria Antonia Garcea è in viaggio lungo la strada per Reggio, portando con sé dei
formaggi da vendere l'indomani; all'altezza di Laureana di Borrello viene intercettata da tre
uomini, che la malmenano e le rubano denaro e mercanzie. Anche Concetta Nostro subisce una
rapina nottetempo: il 6 aprile 1881, a Scilla, due banditi la depredano solo di alcune stoffe, ma
per non lasciare testimoni la sgozzano senza pietà. A Oppido Mamertina, durante la vigilia di
Natale del 1883, Anna Foti riceve una fucilata esplosa a brevissima distanza, ma l'attentatore
sbaglia mira e la ferisce al braccio. Per una rissa a Iatrinoli muore invece Nicoletta Foti, colpita
da un uomo il 22 aprile 1881 con una coltellata che le perfora un polmone.
Le campagne reggine, soprattutto quelle della Piana, sono un crocevia di gente in continuo
movimento tra il Reggino e il Vibonese, nonché di una miriade di contadini che si spostano tra i
vari paesi per lavorare nel mondo agricolo. Ed è proprio lì, tra campi e uliveti, che oltre alle
violenze sessuali si consumano brutalità di ogni genere contro donne indifese, non di rado per
futili motivi. Nel luglio del 1865, nell'agro di Laureana di Borrello, un uomo di Bagnara pesta
ferocemente Rosa Fedele alla testa e in tutto il corpo, causandone la morte dopo giorni di
agonia. Nello stesso territorio, nel settembre del 1867, Carmela Bartolotta viene ridotta in fin di
vita a coltellate da un assassino che le ha appena ucciso il compagno.
Carmela Clemente muore a causa di un colpo di scure alla testa, vibratole da un uomo il 17
dicembre 1867 a Cinquefrondi. Con la stessa modalità viene ridotta in fin di vita Anna Morabito,
colpita più volte da un uomo di Bellantone e uno di Arena, il 20 giugno 1868, per aver raccolto
un fascio di legna a Laureana in un fondo di cui i due sono guardiani; minacciata di morte se
avesse rivelato i nomi dei colpevoli, dice a tutti di essere caduta da un albero.
Elisabetta Camarda muore a soli sei anni per i pugni e i calci ricevuti da un quarantenne, il 5
agosto 1868, nelle campagne di Mammola. Il successivo 24 settembre, a Iatrinoli, Maria
Barillaro viene pestata a colpi di dorso di scure, «senza altra causa che per impulso di malvagia
brutalità», da un uomo che l'ha sorpresa in un proprio terreno a rubare dei fichi; farà in tempo
a denunciarlo, morendo il 9 ottobre dopo atroci sofferenze e «sol perché prese tre fichi per darli
ad un suo nipotino che portava tra le braccia onde non farlo piangere». Maria De Luca muore a
Seminara per la stessa ragione: il 12 settembre 1872 sta raccogliendo dei fichi in un fondo
altrui, quando interviene un colono e la prende spietatamente a calci e pugni, facendole perdere
il figlio che porta in grembo e causandone il decesso dopo tre giorni.
Il 14 aprile 1873 un gruppo di contadine di San Giorgio Morgeto sta rientrando in paese,
all'imbrunire, dopo una giornata di lavoro nei campi. Mentre passano da un uliveto nel territorio
di Cittanova, una di loro, Santa Silvestro, si permette di raccogliere alcune olive, ma viene
notata dall'affittuario di quel terreno che si avventa su di lei colpendola ripetutamente col calcio
del fucile e poi a calci, sia al collo che al busto, picchiando anche sua sorella Caterina che si è
avvicinata per soccorrerla. Le donne provano allora a sorreggerla per portarla in salvo nel paese
più vicino, ma dopo mezzo chilometro di cammino Santa Silvestro si accascia al suolo e muore
in una pozza di sangue: le saranno fatali le percosse ricevute alla vulva.
A Galatro, Vittoria Larosa continua a raccogliere fichi in un terreno che non ha più in
concessione, per cui il 14 luglio 1874 viene pestata a sangue dal nuovo fittavolo, che infierisce
a colpi di dorso di scure anche dopo che la donna è riversa a terra, provocandone la morte dopo
due settimane di agonia. Il 21 giugno 1875, a Radicena, un uomo sferra un violento colpo con
una pala su un fianco di Maria Macrì, che le provoca emorragie interne e la rende cadavere nel
giro di poche ore. Anche Maria Rosa Loria, a San Procopio, osa raccogliere uva e altra frutta in
un appezzamento che il fratello le ha fatto pignorare: il 21 ottobre 1878 il custode di quel
terreno la prende bastonate e a calci, sotto gli occhi compiaciuti del fratello, facendola morire
per la rottura della milza. Infine, per concludere questa triste carrellata, il 15 luglio 1883 a
Castellace Giovanna Leale viene spappolata da un uomo per futili motivi, «mediante colpi con
arma impropria alla testa, alle parti pudende, ed in altri membri del corpo», cessando di vivere
dieci giorni dopo.
Le scene di violenza e degrado qui illustrate sono solo una parte dei simili delitti commessi nella
Calabria di quegli anni. E se è vero che omicidi, attentati e pestaggi riguardano soprattutto
vittime maschili, sono d'altronde i reati brutali contro persone indifese, e la facilità ai limiti della
naturalezza con cui vengono commessi, a rivelare il grado di civiltà di un popolo.
Direttamente connessa agli stupri – così come agli amori segreti – era poi la pratica dell'aborto
clandestino, che le ragazze gravide si procuravano con l'aiuto di donne più esperte, spesso
senza altro fine che quello di salvarsi dalla furia omicida dei fratelli, in un Ottocento in cui il
termine "cornuto" non si riferiva solo ai consorti traditi ma anche ai parenti di una ragazza
considerata disonorata, e in un contesto in cui per un'ingiuria si poteva morire.
A distanza di un secolo e mezzo, è chiaro, qualcosa è cambiato. Ma il permanere di certe
dinamiche e di una certa mentalità, per quanto oggi più sporadico, rappresenta un ostacolo alla
realizzazione del bene comune, perché colpisce tutta la collettività e non solo i diretti
interessati: ogni vittima, reale o potenziale, andrebbe vista dalle altre persone come una figlia,
una sorella, una fidanzata o un'amica, e come tale trattata.
Per ironia della sorte, si usa un neologismo – femminicidio – per indicare una forma di violenza
antica, benché ancora in voga. La possibilità di scegliere il proprio partner appare oggi un diritto
scontato, ma in passato non lo era affatto: parlare di prevenzione è sempre difficile,
nondimeno, posto che quelle efferatezze si riscontrano per lo più in ambiente domestico o
vengono commesse appunto da partner attuali o precedenti, mantenere alta l'attenzione è la
prima arma che si ha a disposizione, in una battaglia civile che deve accomunare uomini e
donne e non ammette posizioni attendiste.
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Creato Lunedì, 06 Aprile 2020 08:34