DOMENICO
ADAMO
un poeta e la sua terra
di Arm ando Orlando
COMUNE DI SAN MANGO D’AQUINO
Assessorato alla Cultura
Grazie a tutte le persone che hanno contribuito
da vicino o da lontano alla realizzazione di questo progetto.
DOMENICO ADAMO
un poeta e la sua terra
di Armando Orlando
Comune di San Mango d’Aquino
Assessorato alla Cultura
La foto a pag. 21 è messa a disposizione da Ugo Russo, già assessore
alla Cultura del Comune di Cleto.
La foto a pag. 25 è di Mario Sacco.
La foto a pag. 31 è di Valentino Petrelli.
Le foto alle pagg. 31, 43, 61 sono di Franco Pinna.
La foto a pag. 43 è di Marialba Russo.
La foto a pag. 46 è di De Vincentis.
La foto a pag. 47 è di Stefani.
L’immagine a pag. 53 è la riproduzione del dipinto «Vincenzo in
cantina» di José Cesareo.
L’elaborazione fotografica a pag. 102 è di Domenico Pulice.
Molte altre foto provengono dalla collezione privata di Maurizio
Chieffallo.
La foto di copertina è di Francesco Cataudo.
Essa raffigura l’abitato di Savuto e, sullo sfondo, il paese di San
Mango d’Aquino, i due luoghi più importanti della vita di Domenico
Adamo, prima della partenza per l’America.
Stampa:
Grafiche Calabria srl - Via Marciello - Zona Pip - Tel. 0982.48062
87032 Campora S. Giovanni - Amantea (Cs)
© 2010 Comune di San Mango d’Aquino (Catanzaro)
C’è una storia nella vita di tutti gli uomini.
William Shakespeare
Presentazione
La pubblicazione di questo volume è un omaggio alla memoria di
Domenico Adamo.
Man mano che andiamo avanti nella lettura del testo, le pagine ci
consentono di vedere il nostro passato attraverso gli occhi attenti di
uno dei tanti figli della nostra terra, che all’impegno del lavoro
quotidiano ha associato la passione per la poesia e per la pittura.
Lavoro, poesia e pittura portati avanti in una terra lontana, diversa
dal luogo d’origine, al di là di un Oceano che ha assistito alla
traversata di milioni di emigranti che fuggivano dalla povertà e
andavano alla ricerca di un avvenire migliore da assicurare alla
propria famiglia.
Domenico Adamo è riuscito in tutto questo. Una volta emigrato in
America, dopo aver lasciato in Italia la prima figlia, ha lavorato, ha
avuto altri figli, ha cresciuto con dignità la famiglia. Senza mai
dimenticare le origini. Anzi, portando sempre nel cuore e nella mente
il ricordo della giovinezza e del suo paese.
Gioia e dolore, speranze e illusioni, ideali e delusioni hanno
caratterizzato gli anni vissuti a San Mango e a Cleto (i luoghi calabresi
a lui più cari), ed il ricordo di quegli anni sarà sempre vivo nella sua
nuova patria, a New York, e lo accompagnerà fino alla morte.
Si è parlato di Domenico Adamo come una delle voci più
significative della poesia italo-americana del Novecento. La sua
produzione letteraria non è abbondante, ma è rappresentativa di un
filone letterario non sufficientemente studiato, dove i temi
dell’emigrazione, del lavoro, della famiglia, dell’impatto con le città
multietniche emergono con convinzione e con forza.
Le sue liriche sono state inserite in antologie e collane editoriali
assieme a quelle di altri esponenti di quel particolare ambiente
culturale che, dall’Estero, ha continuato a guardare con interesse e con
nostalgia alla terra d’origine, coltivando e alimentando in forme
diverse il proprio amore per le radici.
È un mondo tutto da scoprire, quello degli italo-americani. Negli
Usa, sono oltre 20 milioni le persone che possono vantare una qualche
discendenza italiana nelle loro famiglie. Gli italo-americani hanno
influenzato la musica popolare americana, e cognomi di derivazione
italiana sono presenti nel mondo del cinema, dello sport, degli affari e
della politica.
È un mondo tutto da scoprire, ed il comune di San Mango
d’Aquino, con questa pubblicazione, vuole dare il suo contributo.
Per questi motivi, l’Amministrazione comunale ha accolto con
favore il progetto di ricordare Domenico Adamo, emigrante, sarto e
poeta. Perché egli è l’emblema di migliaia di sammanghesi che nel
secolo scorso, il Novecento, hanno lasciato la casa, i parenti, gli amici
e la terra in cerca di un futuro migliore. Molti sono riusciti a
realizzarsi, al di là dei mari ma pure nelle nazioni del Nord Europa o
nelle città industriali del Settentrione italiano. Altri, purtroppo, hanno
incontrato difficoltà che non sempre sono riusciti a superare.
«Ma noi chi siamo davvero? Da dove veniamo? Dove stiamo
andando e, ancora di più, dove vorremmo andare?». Non sono
interrogativi di poco peso, scriveva Nuccio Fava nella prefazione ad
un libro fotografico che Armando Orlando ha dedicato a San Mango
d’Aquino e che Rubbettino ha pubblicato nel 1984.
Sono d’accordo con il giornalista televisivo, già direttore del TG1,
anche quando dice che non sono interrogativi da poco, né ci sono
risposte semplici, e se non ci poniamo queste domande sarà sempre
più difficile capire la fase di storia che stiamo vivendo.
Il lavoro di Orlando ci aiuta in questa ricerca, e per rendere più
incisivo l’impegno, l’Amministrazione comunale ha avvertito la
necessità di coinvolgere nel progetto gli alunni del locale Istituto
Comprensivo, ai quali il libro sarà distribuito in via prioritaria.
Grazie al dirigente scolastico prof. Alfredo Saladini per la
disponibilità; grazie al corpo docente per le iniziative che vorrà
portare avanti in ricordo di Domenico Adamo; e buona lettura alle
persone che si avvicinano a queste problematiche e che collaborano
per la riuscita del progetto.
Vincenzo Buoncore
Sindaco di San Mango d’Aquino
Presentazione
Questa seconda edizione, riveduta e aggiornata, del libro pubblicato
nel 1987 da Armando Orlando per i tipi di Calabria Letteraria Editrice
(Gruppo Rubbettino di Soveria Mannelli), rappresenta per il comune
di San Mango d’Aquino l’occasione per una riflessione sulla vita e
sulle opere di un personaggio che, per le sue caratteristiche, è una
figura emblematica, il prototipo di tanti figli della nostra terra.
È difficile portare avanti operazioni culturali in paesi come il
nostro, dove la memoria collettiva, che è un elemento costitutivo
dell’identità di una comunità, tende a sparire e dove l’agire sociale
degli individui è segnato dall’abbandono del senso di una comune
appartenenza.
Eppure molti studiosi dicono e scrivono che la crescita delle
persone, di un gruppo, di una società, di un territorio passano, è vero,
attraverso la realizzazione di opere materiali e di infrastrutture, ma
questa crescita, per dirsi definitivamente compiuta, ha bisogno, ogni
giorno di più, di sviluppare quello che in sociologia si chiama
“capitale umano”.
A questi principi ho cercato di ispirarmi nel portare avanti il
compito che mi è stato affidato di assessore alla Cultura del comune di
San Mango d’Aquino.
E in virtù di questi principi ho proposto e sostenuto la
pubblicazione del presente lavoro, che si inserisce in un disegno più
ampio di valorizzazione della storia, del folklore, delle tradizioni,
della poesia e quindi, del recupero della memoria collettiva, in un
quadro che deve vedere protagonisti le donne e gli uomini, i giovani di
questo paese, che attende da anni, da troppi anni un’emancipazione
culturale e sociale che ancora, purtroppo, non completa il progetto di
sviluppo materiale che è davanti a noi.
Nato in una realtà povera com’era la San Mango di fine Ottocento,
figlio di un muratore e di una casalinga, forte, tenace e sognatore,
impara a fare il sarto, corre a Napoli per specializzarsi nel mestiere,
torna in Calabria, non trova lavoro sufficiente per crearsi un avvenire,
si trasferisce nel comune di Cleto, si sposa, a Savuto nasce la prima
figlia, parte per l’America, e lì, a Brooklyn, New York, costruisce la
sua famiglia e la sua vita.
Per tutto questo, Domenico Adamo è l’esempio di come sono
vissuti tanti altri figli della nostra terra, e rendendo omaggio a questo
uomo e a questo poeta, intendiamo rendere omaggio a tutti gli
emigrati calabresi sparsi per le vie del mondo, costretti ad
abbandonare la terra di origine alla ricerca di un avvenire migliore per
sé e per i propri figli.
Maurizio Chieffallo
Assessore alla Cultura
Introduzione
Sono venuto a conoscenza dell’esistenza di Domenico Adamo nel
mese di ottobre del 1966, quand’ero studente di Ragioneria e, con gli
amici, frequentavo la bottega di vino di Ciccio Marsico ed Alessandro
Berardelli, a San Mango d’Aquino.
Nel cassetto di un vecchio armadio che fungeva da bancone, Gino
Marsico, figlio di uno dei proprietari e membro della comitiva, trovò
allora un libretto di poche pagine, ingiallito, e sulla copertina c’era
scritto: “Domenichino Adamo – Musa Bruzia – Brooklyn, N.Y. –
1932”. Lo aprii e lessi la prima poesia: “Cara Zampugna”.
Da allora la curiosità per Domenico Adamo non ebbe più fine, ed
il mio interesse è stato costante negli anni. Rovistando nell’Archivio
dello Stato Civile del Municipio sono riuscito a recuperare il registro
che conteneva l’atto di nascita.
Venni a sapere che il 5 settembre del 1888, alle ore 8:20
pomeridiane, nella casa di via Arella nasceva, da Francesca Tomaino e
da Giuseppe Adamo, muratore di anni 28, un bambino al quale veniva
dato il nome di Domenico. La mattina dopo il bambino venne
dichiarato all’anagrafe, testimoni Saverio Notarianni, contadino, e
Virgilio Torchia, barbiere; Ufficiale di Stato Civile Alfonso Maria
Angotti. Il vecchio registro comunale riportava un’altra annotazione:
sposato il 3-12-1910 con Ferraro Francesca di Tommaso e di De
Cicco Domenica; morto nel 1964 in America.
Questo è ciò che di Domenico Adamo riuscii a sapere dagli archivi
municipali. Ma la ricerca continuò altrove.
Accompagnato da Giacinto Terenzio, che assieme agli altri amici
della comitiva frequentava quella che noi chiamavamo gioiosamente
la bettola, mi rivolsi ad Annibale Berardelli, mitica figura di emigrato
che in America aveva ricoperto incarichi di prestigio nella polizia
federale e nella carriera diplomatica e che, una volta collocato in
pensione, era venuto a trascorrere gli ultimi anni della sua vita nel
paese natio.
Annibale Berardelli mi fornì notizie essenziali sulla vita di
Domenico Adamo, e mi parlò anche della bottega di sarto che il poeta
aveva avviato a Brooklyn e che era diventata luogo di ritrovo e punto
di riferimento per molti artisti emigrati.
Da quella prima raccolta di notizie si è sviluppato un lavoro che è
continuato negli anni e che mi ha portato ad avere, oggi, un quadro
completo della vita e dell’opera di questo personaggio che, sotto
diversi aspetti, rappresenta il paradigma del sammanghese di una
volta.
Dopo alcuni incontri con Emilio Frangella, direttore di “Calabria
Letteraria”, il quale fu per un certo periodo in corrispondenza con
Domenico Adamo, ebbi altri contatti con gente emigrata; qualcuno mi
parlò del figlio di Francesca “a zoppa” perché nel paese aveva letto le
lettere del sarto alla vecchia madre, mentre Antonio Chieffallo,
emigrato residente a Cleveland, nell’Ohio, mi spedì un fascicolo
contenente alcune poesie.
Infine, dopo vari tentativi, ecco l’incontro determinante con alcuni
membri della famiglia di Domenico Adamo: Adelina, la figlia più
piccola, nata in America e sposata con un professore del New Jersey, e
Beatrice, la figlia più grande, nata a Savuto e rimasta sempre in Italia.
A loro ho consegnato copia di tutto ciò che avevo scritto su
Domenico Adamo: un articolo pubblicato a Nicastro nel 1966 sul
giornale degli Scout; un articolo del 1975 ed uno del 1980 pubblicati
sulla rivista “Calabria Letteraria”; un opuscolo di 18 pagine
ciclostilato in proprio nel 1982 e diffuso in cento copie; e infine una
copia del primo libro di storia, folklore, tradizioni e poesia su San
Mango d’Aquino, scritto nel 1977 e contenente diverse poesie di
Domenico Adamo.
Adelina e Beatrice si mostrarono sorprese per l’attenzione e
l’interesse suscitati, e recatesi a visitare la casa paterna, a San Mango
d’Aquino, notarono il fatto che molta gente ricordava ancora il poeta e
lo chiamava Domenichino, il diminutivo che affettuosamente gli
avevano dato parenti ed amici.
Quegli incontri mi hanno dato la possibilità di conoscere meglio il
poeta: personaggio timido e modesto, mite e gioviale, schivo e
solitario, con animo oscillante tra il ricordo e la speranza.
Egli visse sempre lontano dal mondo della cultura ufficiale, e
preferì passare il tempo dedicato all’arte insieme con pittori, poeti e
narratori che si raccoglievano nel chiuso della sua bottega di sarto,
lungo i viali di Brooklyn, oppure si ritrovavano in casa di amici o nei
ristoranti per le cene conviviali.
Riservato al massimo, preferiva nascondere persino il giorno della
nascita per non festeggiarne la ricorrenza: «Noi con lui non siamo mai
riuscite a conoscere il giorno esatto del suo compleanno», hanno
dichiarato a questo proposito le figlie. Non partecipò mai a concorsi
letterari, eppure nel 1959 un’associazione con sede in Belgio gli
assegnò una medaglia d’onore per elevati meriti sociali.
Dopo l’incontro avuto in Calabria, Adelina mi scrisse una lettera
dall’America dove – fra l’altro – così si esprimeva: «…Papà parlava
spesso della sua terra natia. Quando ho letto il libro su San Mango
l’ho fatto anche per lui, perché so che l’avrebbe goduto molto…».
Parole che confermano quanto amore Domenico Adamo ha avuto per
la sua terra d’origine.
Un amore che gli ha dato la forza di sperare fino alla fine in un
nuovo viaggio in Calabria, dove non tornava da più di 40 anni; ma
questo viaggio non ebbe luogo, perché una sera il poeta non tornò a
casa. Lo cercarono per molte ore, nella bottega e per le strade, ma lo
ritrovarono in un letto d’ospedale, in coma, vittima di un incidente
stradale; dal momento dell’investimento non aveva più ripreso
conoscenza, e qualche giorno dopo Domenico Adamo morì. Era il 10
marzo 1964.
Sono passati circa quarantacinque anni da quando ho letto la sua
prima poesia, ed oggi ho chiara nella mente tutta la vicenda umana e
poetica di Domenico Adamo; una vicenda racchiusa tra i luoghi
dell’infanzia, le idee giovanili, l’incomprensione dei contemporanei,
gli ideali della maturità, le illusioni della rivoluzione comunista, il
desiderio di cambiamento, la partenza per l’America, il lavoro, una
buona posizione economica, la famiglia, e poi ancora il ritorno in
Italia, la rabbia per l’avvento del Fascismo, la ripartenza per
l’America, la depressione di Wall Street del 1929, la tenacia, il
ricominciare di nuovo, la nascita dei figli, i ricordi, la nostalgia, la
bottega con le tendine abbassate e lui dentro che scriveva o dipingeva,
gli incontri con gli altri artisti emigrati…
Attimi di vita, episodi, sentimenti, circostanze comuni ad una
schiera innumerevole di uomini e di donne costretti a scegliere la via
dell’emigrazione per dare un senso ed uno scopo alla propria
esistenza.
Nel periodo che va dal 1880 al 1924 più di 4 milioni e mezzo di
italiani varcarono i confini degli Stati Uniti, e più tardi altri ancora
partirono verso i paesi europei, il Canada, l’Australia. Dalla Calabria
partono ancora oggi e gli emigrati, in massima parte giovani, si
portano dentro la speranza di una vita migliore.
In molte parti del mondo questi emigrati, per mantenere il legame
con la propria terra, sono riusciti a creare un altro paese, simile per
dialetto, per costumi e per tradizioni a quello lasciato; un paese
doppio, un paese sosia, dove l’emigrato che non riesce a vivere
lontano – scrive Vito Teti – torna con il pensiero alle origini, vive il
paese come sua ombra perduta, abbandonata o venduta.
Molti centri della Calabria hanno in America i loro paesi doppi; lo
stesso luogo di origine di Domenico Adamo, per esempio, ha
sviluppato attorno alla “San Mango d’Aquino Society” di Scranton, in
Pennsylvania, un sodalizio di grande importanza, mentre altre
associazioni vanno nascendo (ultima, in ordine di tempo, quella di
Winnipeg) e intere vie di Montreal, Toronto, Cleveland, Sault Ste
Marie sono occupate da famiglie di emigrati provenienti dallo stesso
paese. Ed è lì, in quelle contrade oltre Oceano, che la comunità degli
emigrati cerca di ricostruire l’ambiente lasciato in Italia.
Anni addietro ho ricevuto una lettera da Antonio Chieffallo,
emigrato a Cleveland (Ohio, Usa), con la quale mi trasmetteva un
ritaglio del giornale Il popolo italiano di domenica 23 settembre 1951.
Nell’articolo c’era scritto: «Un gruppo di sammanghesi di Cleveland
celebrano la festa della Madonna Maria SS. delle Grazie, che si venera
in San Mango d’Aquino, provincia di Catanzaro, ogni prima domenica
del mese di giugno. Lo stesso gruppo si è recato al Metropolitan Park
per festeggiare religiosamente la festa del loro paesello natio. La
cerimonia rappresentava il simbolo di fratellanza cattolica per la prima
volta in questa città di Cleveland. E si è svolta con la speranza che
l’iniziativa possa essere continuata allo scopo di realizzare una piccola
colletta che contemporaneamente verrebbe spedita in Italia, dove la
festa campestre godrebbe di questa beneficienza».
«Come è commovente vederli raccogliersi sotto le bandiere dei
maggiori da loro venerati», ha scritto Guido Cimino a proposito dei
lavoratori italiani all’estero; «Lo si è visto quando si è spento l’astro di
Michele Pane, e creare le loro riviste, fatte alla buona, con molto
cameratismo, ma sempre con molta intelligenza, per dare al minuto
popolo d’Italia che vive sotto altro cielo “la Parola” della cultura, o il
“Compasso” per la misura delle proprie e delle altrui forze, o la
civetteria di una bella edizione che faccia colpo anche sui letterati
rimasti al paese a sbarcare faticosamente il loro lunario…».
Sensi di solidarietà e di fratellanza, brandelli di umanità che sono
rimasti vivi nelle comunità di emigrati e che resistono al tempo, come
mi conferma continuamente Giovanni Chieffallo, pure lui originario di
San Mango ed emigrato in Canada, socio fondatore e poi presidente
dell’Associazione “Calabresi nel mondo”, un sodalizio che ha tenuto
nel 1983 la sua prima assemblea di fondazione e che pubblica a
Montreal la rivista “l’altra Calabria”.
Sentite come Francesco Greco, uno dei tanti poeti italo-americani
del Novecento, ricorda l’incontro con Domenico Adamo:
«Andavo di tanto in tanto a far visita ad Eugenio Adamo che
risiedeva a Read Bank nel New Jersey; vi si andava volentieri - specie
d’estate - per godere le bellezze di quel meraviglioso paesaggio e della
superba spiaggia di Long Beach - ritrovo aristocratico - molto vicino a
Read Bank. Passavamo bellissime ore, parlavamo dell’Arte, di sogni e
della nostra cara e tanto amata Calabria. Il caro Eugenio – ora da anni
passato a miglior vita – mi disse di avere un cugino a Brooklyn, non
molto lontano da dove abitavo io, e mi diede il suo indirizzo. Fu così
che incontrai Domenico Adamo…».
Il nostro poeta, dopo il suo primo viaggio in Italia, aveva ripreso a
scrivere, ispirato forse dai canti di Michele Pane ed incoraggiato dai
giornali locali come “La verità”, “Il progresso italo-americano”,
“Scrittori Calabresi”, “La follia di New York”. Era così entrato nel
mondo vasto ed affascinante degli artisti italiani all’estero, ed aveva
fatto la conoscenza di poeti, scrittori, musicisti, i quali erano soliti
riunirsi e dar vita ai loro famosi incontri conviviali al Leone
Restaurant, nella quarantottesima strada di New York City.
Uno di questi giornali, “La follia di New York”, era stato fondato
da Alessandro Sisca (padre calabrese e madre napoletana), nato nel
1875 ed emigrato in America nel 1892, autore della canzone “Core
‘ngrato”, scritta in dialetto napoletano con lo pseudonimo di Riccardo
Cordiferro. È a lui, a Riccardo Cordiferro che tante volte aveva
inserito le sue poesie nell’angolo dei poeti ritagliato sul giornale,
invitandolo a continuare a cantare sempre «come l’usignolo che canta
nell’ombra per rallegrare la sua solitudine», è a lui - dicevo - che
Domenico Adamo dedicherà, in memoria, la lirica “Qual fulgente
stella”, definendo il Sisca «guida che ci ammaestra e ci affratella verso
la meta dell’umanità».
E dopo la pubblicazione delle liriche su riviste e giornali, dopo
l’uscita dell’antologia di Spataro e dopo le due edizioni di Musa
Bruzia, la vicenda umana di Domenico Adamo continua; nell’animo
del poeta ritornano i ricordi, e con i ricordi ritorna travolgente la
nostalgia. Ma, all’improvviso, ecco la morte porre fine alla sua
avventura terrena.
Il 5 settembre 1988 è stato il centenario della nascita di Domenico
Adamo, e per l’occasione ho scritto e pubblicato il libricino di 56
pagine dal titolo “Domenico Adamo, un poeta e la sua terra”. Lo
scopo della pubblicazione era colmare una lacuna della letteratura
calabrese e rendere omaggio ad un figlio della nostra terra tanto
coraggioso quanto dimenticato. Ho fatto tutto in via autonoma, dopo
aver atteso invano risposte dagli Enti Locali ufficialmente interpellati.
Ma a mantenere vivo il ricordo di Domenico Adamo non c’è stata
solo la pubblicazione del 1987, a seguito della quale Felice Manfredi
(illustre personaggio di San Mango diventato uno dei più valenti
avvocati del suo tempo) mi ha invitato ad andare avanti nelle ricerche
fino ad arrivare ad una «presentazione di tutti i Nostri che, all’Estero,
nel lavoro indefesso e nel tormento della lontananza, tengono alto il
nome di San Mango, e lo rinnovano ogni giorno col loro sacrificio».
Dieci anni prima, nel 1977, Domenico Adamo era stato ricordato
nel libro “San Mango d’Aquino. Storia folklore, tradizioni, poesia”,
un’opera monografica oggi introvabile, e per questo digitalizzata e
riproposta in versione Pdf sul sito www.sassinellostagno.it. Il libro
raccoglie gli scritti più significativi di alcuni uomini di questo paese, e
presenta una visione fino a quel tempo sconosciuta della cultura e
dell’intelligenza sammanghese.
La terza parte di quel volume, dedicata alla Poesia, è stata aperta
da Domenico Adamo, e assieme a lui, a comporre l’antologia degli
autori sammanghesi, sono stati chiamati Pietro Arcuri, Carmine
Bonacci, Antonio Chieffallo, Eugenio Chieffallo, Francesco Cimino,
Nicolino Ferlaino, Carmine Augusto Ferrari, Franca Ferrari, Felice
Manfredi, Francesco Orazio Manfredi, Matteo Manfredi, Luigi
Marsico, Franco Mendicino, Arturo Moraca, Armando Orlando, Maria
Grazia Trunzo, Oreste Trunzo.
E nel 1983 tre consiglieri comunali avevano ufficialmente chiesto
al Sindaco di istituire a San Mango un Premio di Poesia dedicato a
Domenico Adamo. L’istituzione del Premio è stata sollecitata a più
riprese, ma nulla si è allora mosso.
L’associazione Valle del Savuto, fondata da Alfredo Chieffallo nel
1990, ha invece distribuito gratuitamente il libricino “Domenico
Adamo, un poeta e la sua terra” nel corso di numerose manifestazioni
culturali e musicali. E centoventi copie di quel breve saggio su
Domenico Adamo, risultato poi finalista alla XXVI Edizione del
Premio Calabria di Villa San Giovanni, sono state donate alla Scuola
Media Statale di Nocera Terinese (Cz), per essere distribuite agli
alunni della terza classe dei plessi scolastici di Nocera e di San
Mango; per questo gesto, in data 15/01/1991 il Preside Angelina
Ariganello Esposito ha scritto una lettera di ringraziamento
all’associazione.
Nel mese di giugno 2004, per ricordare il 150° anniversario della
Cona Bonacci, è stato scelto Domenico Adamo, e sul retro della
cartolina commemorativa, distribuita ai fedeli al passaggio della
processione, sono stati inseriti i primi quattro versi della poesia
Preghiera dedicata alla Madonna della Buda.
La foto di copertina che accompagna questo libro raffigura
l’abitato di Savuto e, sullo sfondo, il paese di San Mango, i due luoghi
più importanti della vita di Domenico Adamo, prima della partenza
per l’America: a San Mango è nato e ha trascorso la giovinezza, a
Savuto ha trovato moglie ed è nata Beatrice, la prima figlia.
In nome di questi rapporti e di queste relazioni (che sono stati
costanti nei secoli) i comuni di Cleto (Cs) e di San Mango (Cz) hanno
celebrato nel 2006 il loro Gemellaggio, facendo dire all’allora sindaco
di Cleto Amerigo Cuglietta:
«Così come arbusti e uliveti trovano nel Savuto il contributo alla vita,
un rinnovato incontro tra le comunità apre nuovi scenari, perché la
memoria si nutre del dialogo e il futuro scaturisce dalla
consapevolezza. Così l’acqua del fiume si unisce al calore della
passione mediterranea e la terra diventa una perché uno è il vento che
attraversa le case e accarezza le persone».
E siamo così arrivati al 2010. Con la pubblicazione di questa
seconda edizione dedicata al poeta e alla sua terra si chiude il cerchio
delle ricerche condotte su Domenico Adamo, e termina pure il mio
impegno letterario per San Mango d’Aquino. Dopo 45 anni di lavoro e
dopo aver dedicato a questo paese più di mille pagine tra libri, riviste,
giornali e web, è bene lasciare il campo ad altri giocatori. Con la
speranza che questi nuovi giocatori sappiano ripristinare quei
meccanismi sociali che legano l’esperienza del presente a quella delle
generazioni passate.
Il compito di chi scrive è di ricordare ciò che gli altri hanno
dimenticato. La storia non è un insieme di dati acquisiti o scontati; la
storia è fatta di eventi in movimento, e conoscere e capire questi
eventi allarga gli orizzonti della mente. E non solo. Recuperare la
memoria storica significa cercare nel passato quelle risposte e quelle
indicazioni che consentono all’uomo di vivere meglio il proprio
presente.
A questi principi ubbidisce la pubblicazione del volume, ed il
cerchio delle ricerche si chiude perché le tanto invocate autorità civili
e amministrative hanno finalmente dato la risposta: Domenico Adamo
è ufficialmente riconosciuto come uno dei più significativi poeti di
San Mango, alla figlia Adelina è stata conferita la cittadinanza
onoraria e gli alunni delle scuole elementari e medie hanno avuto la
possibilità di conoscere e di approfondire la figura di questo figlio di
una San Mango che non esiste più e che già appartiene alla storia.
Armando Orlando
San Mango d’Aquino, 26 settembre 2010
La copertina del libro pubblicato nel 1987
Associated Passenger
Adamo, Domenico
Date of Arrival
Feb 09, 1912
Port of Departure
Naples
Built by John Brown & Company, Clydebank, Scotland, 1904.
9,851 gross tons; 501 (bp) feet long; 59 feet wide.
Steam triple expansion engines, twin screw.
Service speed 14 knots. 840 passengers (40 first class, 800 third
class). One funnel and four masts.
Built for Anchor Line, British flag, in 1904 and named Pannonia.
London-New York, Mediterranean-New York service.
Scrapped in 1922.
First Name: Domenico Last Name: Adamo
Ethnicity: Italy Last Place of Residence: Catanzaro,
Date of Arrival: Feb 09, 1912 Age at Arrival: 23y
Gender: M Marital Status: M
Ship of Travel: Pannonia Port of Departure: Naples
Manifest Line Number: 002
Annotazione dell’arrivo di Domenico Adamo nei registri di Ellis Island nel
porto di New York
L’Ambiente
Una comunità basata sul lavoro e cementata da forme di vita sociale
diversificate; una comunità dove i rapporti di parentela, la religione,
gli usi e i costumi tenevano legati gli uomini e li facevano dipendere
gli uni dagli altri; un paese cresciuto attorno al campanile e chiuso in
se stesso, con un’economia ai margini della sussistenza, avvolto in un
isolamento secolare, lontano dalle grandi correnti di traffico; una
società caratterizzata dall’insicurezza e dalla fatica quotidiana, ma
ricca di feste, tradizioni, abitudini, valori…
Un paese dove la gente passeggia, la sera, sulla strada principale,
ed è qui che avvengono gli incontri e che nascono i primi amori; un
paese dove l’intellettuale, il commerciante e l’artigiano frequentano il
bar, mentre il contadino si accontenta dell’osteria; un paese dove
mariti e mogli non si mostrano mai insieme, e sulla strada camminano
uno davanti e l’altra dietro; un paese dove la piazza diventa il centro
della vita e dove gli uomini si dispongono in cerchio davanti alla
chiesa, ogni domenica, per aspettare l’uscita della Messa e ammirare
le donne e le ragazze…
È qui che è nato Domenico Adamo, nel mese di settembre del
1888. Un paese che ha per nome San Mango d’Aquino, ma che
potrebbe essere un qualsiasi altro paese della Calabria, tanto erano
simili le comunità meridionali tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento.
L’insieme delle condizioni culturali, economiche e sociali, la
mentalità, il costume e l’ambiente del tempo influirono notevolmente
sulla formazione del poeta, ed i suoi primi 24 anni di vita trascorsi in
Calabria, salvo l’esperienza napoletana che durò 6 anni, costituirono
una fonte inesauribile di ispirazione per i suoi componimenti.
Quegli anni divennero punto di riferimento non solo per il
contenuto nostalgico e sentimentale della sua opera, ma anche ed
essenzialmente per le poesie “sociali”, in quanto Domenico Adamo
portò sempre nel cuore i ricordi di povertà e di arretratezza nelle quali
vivevano gli uomini del suo tempo, e gran parte delle sue opere sono
dedicate, come vedremo, al riscatto delle popolazioni sofferenti ed
oppresse.
Le sofferenze dei poveri – ha scritto Jerome Blum nella sua
“Storia della civiltà contadina” – non occupano più di qualche pagina
nel libro della storia; per le classi dominanti possediamo invece
documenti, oggetti, ritratti e case.
La poesia di Domenico Adamo, se attentamente analizzata, non
solo ci aiuta a comprendere le inquietudini della vita di quel tempo,
ma ci conduce verso un filone letterario di crudo realismo che rende
onore alla soggezione dei contadini ed alla loro appartenenza a quello
che era considerato l’ordine più basso della società; una soggezione e
un’appartenenza che si riflettevano nell’atteggiamento delle restanti
classi sociali: proprietari terrieri e commercianti, nobili e borghesi,
infatti, ne approfittavano per imporre le loro leggi e per godere di
privilegi acquisisti con la forza.
Esclusi dalla partecipazione attiva alle scelte più importanti della
società, delusi dalle promesse di cambiamento propinate per secoli, i
contadini erano arrivati ad accettare la condizione di inferiorità e di
oppressione senza ribellarsi, subendo di volta in volta i pesi fiscali, i
dazi e le gabelle, le decime, le imposte sul macinato e tutti gli altri
obblighi di natura feudale, entrati nella consuetudine attraverso un uso
immemorabile ed esercitati dalla classe dirigente sempre da posizioni
di forza.
La società divisa in classi, con deboli e oppressi da una parte e
ricchi e violenti dall’altra, sarà un tema costante nella poesia di
Domenico Adamo, e queste considerazioni sulla società troveranno
conferma anche dopo l’emigrazione, quando il poeta si troverà ad
analizzare la complessa realtà di una metropoli come New York.
La vita dei contadini in Calabria, tra la fine dell’Ottocento e
l’inizio del Novecento, veniva scandita dall’alternarsi delle stagioni e
dal ciclo dell’aratura, della semina e del raccolto; una vita
condizionata dall’avventura meteorologica del tempo e caratterizzata
dall’avvicinarsi della festa, con rituali legati sia al calendario
ecclesiastico che alle attività agricole nei campi.
Il paese, il villaggio erano una comunità compatta. Oltre i vincoli
di parentela, fra le persone si stringeva tutta una serie di legami
materiali e spirituali. Ogni membro della famiglia lavorava, di solito,
dall’alba al tramonto per poter guadagnare qualcosa da mangiare o da
portare a casa.
Ed il villaggio era il mondo del contadino. «Si lavorava assieme, si
pregava assieme, ci si riuniva per celebrare le feste e per decidere su
argomenti collettivi importanti… Quando si doveva costruire una
nuova casa o riparare una casa vecchia o ricoprire un tetto, o c’era
bisogno d’aiuto in una situazione d’emergenza, si poteva sempre
contare sull’aiuto dei vicini», testimonia ancora Blum.
Le funzioni religiose
erano tra le attività di
gruppo cui tutti erano
chiamati a partecipare, e la
campana della chiesa
scandiva le varie fasi della
vita del contadino, dal
battesimo al funerale. Ogni
paese aveva il suo santo, e
ad esso si rivolgevano le
persone,
per
ottenere
benevolenza in cielo ma
anche per essere aiutate in terra a risolvere i problemi della vita
quotidiana. La processione era un rito collettivo e la ricorrenza
sprigionava una forte carica di emotività; la partecipazione era corale
e tutti i membri della comunità religiosa erano intenti a manifestare la
propria fede.
La festa riuniva le famiglie, raggruppava le genti sparse della
campagna, sottolineava i momenti più importanti della vita
dell’individuo e della collettività; era uno strumento per allentare le
tensioni della vita quotidiana, una forma di riscatto e di liberazione
dalla fatica di un lavoro duro e pesante, oppure dalla miseria e dalla
monotonia.
Gli stretti rapporti occasionati dalla vita del villaggio avevano
contribuito a creare una forte coesione sociale e una coscienza
comunitaria: si lavorava assieme, si andava in chiesa assieme, si
celebravano assieme le feste, si prendevano assieme decisioni
importanti… vi ricordate?
E questo avveniva non solo in Calabria. Cesare Marchi, lo scrittore
nato a Villafranca di Verona, ci ricorda il tempo «quando si andava a
prendere l’acqua al pozzo (sperando, se era inverno, che non fosse
gelata); quando i contadini erano tanti e gli operai pochissimi; quando
(se tutto andava bene) si mangiava la carne solo di domenica; quando i
ragazzi si dicevano “Ti amo” arrossendo; quando un viaggio di trenta
chilometri era un’avventura che poi si raccontava agli amici; quando il
sabato ci si metteva in camicia nera e si doveva inneggiare al “duce
che ci conduce”; quando la parsimonia era considerata una virtù;
quando, per sembrare eleganti, si rivoltavano le giacche e si
rammendavano i calzini;
quando…».
C’è ancora gente che
ricorda le donne ritrovarsi
al fiume per lavare i
panni. Oppure fare il
bucato con la lissia:
lenzuola, federe, tovaglie
e asciugamani venivano
messi in un grosso
recipiente e ricoperti con un telo colmo di cenere prelevata dal
focolare o dal braciere; poi, sopra il tutto, si versava acqua bollente;
l’acqua filtrava attraverso il bucato e trasportava i principi attivi della
cenere, fino ad uscire sporca da un foro praticato in basso al
recipiente.
C’è ancora gente che ricorda l’attesa della farina nel mulino,
mentre gli ingranaggi della macina venivano azionati dallo scorrere
lento delle acque… Quelle stesse acque usate per la macerazione del
fusto della fibra di lino, che doveva servire per ricavare tessuti e
tovaglie per la famiglia.
C’è ancora gente che ricorda le feste con gli amici, le serenate, i
racconti della nonna e le leggende legate alla notte dell’Epifania, una
notte magica: si dice che gli animali parlavano nelle stalle e nelle
campagne e, a San Mango, la fontanella della Buda versava olio
anziché acqua, e quell’olio veniva usato per alimentare la lampada
della Madonna per tutto l’anno.
In un sistema così organizzato, grande importanza assumeva il
folklore; folklore inteso come assieme di credenze, di usanze, di
ricorrenze che spiegano eventi e fenomeni comuni a tutti i paesi rurali
della civiltà contadina e che segnano momenti di particolare
significato nella vita del villaggio e nella vita di ogni individuo.
Folklore legato al ciclo delle stagioni e inteso come il prodotto di una
società immobile, conservatrice, frutto di un sistema economico
basato su un regime di autosufficienza, avente al centro la famiglia
patriarcale, dove i ruoli si presentavano ben definiti e dove la
ricchezza era rappresentata dal numero di braccia disponibili, e quindi
dai figli.
Questa era San Mango nella prima metà del Novecento: un paese
povero, con una classe dominante sempre più avara ed esigente e con
una massa di contadini e di operai alla mercé dei signorotti locali; ma
anche un paese con una propria identità, una propria storia, una
propria cultura.
Una cultura ricca di tradizioni, che l’avvento del tempo attuale ha
disperso, anche perché, negli ultimi anni del Novecento, l’uomo
moderno è stato bravo nell’assoggettare alle regole dell’attrazione
turistica tutto ciò che rappresentava il patrimonio di un’intera
comunità.
E così, l’introduzione dei mutamenti tecnologici ha comportato, in
molti casi, la scomparsa immediata e completa degli elementi di
folklore; in altri casi sopravvivono elementi pittoreschi, separati dal
contesto originario e arricchiti di connotazioni nuove; in altri ancora
frammenti di usanze e credenze sono trasportati al di fuori della loro
sede originaria e trasformati spesso in eventi di città. Là dove
sopravvivono manifestazioni locali e costumi popolari, essi sono
ormai pubblicizzati come attrazione turistica, mentre le credenze
soprannaturali, che un tempo svolgevano un’importante funzione nelle
tradizioni delle campagne, sono ora ridotte in forme sempre più
frammentate e disorganizzate, fino a diventare il relitto di una cultura
che non esiste più.
Ecco perché parlare oggi delle
condizioni di vita dei contadini,
riuscire a far capire all’uomo
moderno, alla gente della città, ai
giovani le sofferenze e le miserie di
quel tempo è impresa assai difficile,
perché il villaggio come lo abbiamo
descritto fino ad ora non esiste più:
è diventato villaggio globale (tanto
per usare una locuzione coniata
negli anni ’60; M. Macluhan, The
Gutenberg Galaxy, New York
1962).
È impresa difficile perché, come
scrive Eric J. Hobsbawm, «la
distruzione del passato, o meglio la
distruzione dei meccanismi sociali
che connettono l’esperienza dei
contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei
fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del
Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è
cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni
rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono».
Tutto un mondo di tradizioni, costumi, dialetti, arte, musica, canti,
laboriosità è stato travolto di colpo dall’avanzata del mondo
dell’industria, e tutta una cultura che costituiva la storia stessa
dell’uomo è stata condannata e negata.
«Gli uomini hanno perduto il legame che li univa al mondo della
natura, e perciò all’idea dell’infinito», ci ricorda il regista Vittorio De
Seta nel film documentario In Calabria, girato nel 1993. «Hanno
dimenticato che l’umanità progredisce non in virtù dell’appagamento
dei bisogni materiali, ma soltanto in virtù delle forze spirituali. Con
questo è venuta meno la capacità di dare un senso alla vita, di
riconoscere tutti insieme la coscienza che è in noi di ciò che è bene e
di ciò che è male, di ciò che è
importante e di ciò che non lo è».
La tradizionale comunità di
villaggio
è
dunque
finita,
cancellata dalla trasformazione
nella vita rurale e travolta dalla
tecnologia del tempo moderno; e
non può esserci più alcun posto
per cerimonie religiose del
passato, né per credenze connesse
con l’aratura e la mietitura, una
volta che si sono affermati il
trattore e la mietitrebbia.
A parte la nostalgia che il
declino di questa civiltà può
suscitare («Il buon tempo antico?
Tutti i tempi, quando sono antichi,
sono buoni», dice George Gordon
Byron), restano le testimonianze
di una vita dura, in un equilibrio
precario e spesso ai margini della
sussistenza.
Per rendere comprensibili quelle avversità, basti solo un esempio:
nelle comunità rurali di tutto il Mezzogiorno, fino ai primi anni della
seconda metà del Novecento, la vita con gli animali in casa era
normale in molte famiglie della Calabria, le quali soffrivano non solo
per il cibo e per il vestire, ma anche per le condizioni igieniche delle
abitazioni.
Le foto a lato sono una testimonianza eloquente del modo di
vivere di quegli anni. Una è di Valentino Petrelli, scattata nel 1948 ad
Africo, in provincia di Reggio Calabria; l’altra è di Franco Pinna, del
1957, e descrive l’interno di un’abitazione povera di Nicastro, in
provincia di Catanzaro.
I pochi locali disponibili, costruiti con il legno, le pietre, la creta,
dovevano essere divisi con gli animali domestici, i quali costituivano
spesso una preziosa ed insostituibile fonte di reddito per le famiglie
numerose; e nelle piazze della Calabria, al culmine dell’anno agricolo,
già all’alba entrava in funzione il più rozzo mercato del lavoro: decine
di braccianti in fila ad attendere la chiamata del signore feudale prima
e del proprietario terriero poi. Chi non trovava lavoro se ne andava in
silenzio, e nessuno si prendeva cura dei disoccupati.
In una società così strutturata, tra una classe dominante ed un ceto
operaio e contadino immiserito, trovavano posto, accanto a mestieri
tradizionali di sarto, barbiere, muratore, calzolaio, falegname, fabbro
ferraio e carpentiere, molte altre attività legate al mondo rurale: il
maniscalco che lavorava i ferri per il cavallo, il bottaio che preparava
le tinozze con doghe e cerchi in ferro, il cestaio, le donne che filavano
e tessevano il lino e la lana, le famiglie che curavano l’allevamento del
baco da seta, il mugnaio che macinava il grano con il suo mulino ad
acqua…
San Mango d’Aquino appariva isolata, immobile nello spazio e nel
tempo. Sempre uguale.
L’economia è prevalentemente agricola, e le coltivazioni presenti
sul territorio sono l’olio, il vino, i cereali e il gelso. Quest’ultima
coltura è legata alla produzione della seta ed i bachi sono allevati in
notevole quantità dalle diverse famiglie contadine. È il tempo in cui
anche i centri più piccoli organizzano una propria fiera; e alla fiera
non si va necessariamente per comprare o per vendere, ma anche solo
per vedere, per appagare un istinto di socievolezza; è un’occasione per
VALENTINO PETRELLI
FRANCO PINNA
evadere e per distrarsi, è il modo per supplire al difetto delle piazze e
di relazioni commerciali aperte.
E nelle fiere un posto di rilievo spetta ai crivari. Scrive Clelia
Maesano: «I crivi erano fra gli oggetti considerati indispensabili dalle
famiglie calabresi. Facevano parte del corredo delle giovani spose ed
il loro uso era molteplice. Nelle fiere paesane ai crivi era riservato un
apposito settore. Accatastati agli angoli delle piazze e delle vie, ne
trovavi tali e tanti che c’era l’imbarazzo della scelta».
La ruga rappresenta il nucleo principale del paese, vero e proprio
raggruppamento di famiglie unite da vincoli di solidarietà; un luogo
dove le donne passano il tempo sedute sull’uscio di casa, si salutano,
si scambiano il lievito per il pane, intrecciano relazioni e attendono gli
uomini che tornano dal lavoro.
Per anni, per secoli San Mango è sempre uguale. Sempre lontana
dalle principali vie di comunicazione. Il centro abitato è collegato con
i paesi che scendono verso il mar Tirreno tramite una strada rotabile
costruita nel 1876, che parte dal Bivio-Bagni nei pressi di Caronte e
arriva a San Mango dopo aver
attraversato Gizzeria, Falerna e
Nocera Terinese. Mentre i
collegamenti con i centri della
montagna sono assicurati da una
mulattiera che attraversa il Piano
delle Sorbe, il luogo dove sorge
attualmente Martirano Lombardo.
La strada mulattiera diventa
carrozzabile solo nel 1905,
allorquando, dopo il terremoto
che distrugge l’antica Martirano,
le autorità civili e militari
migliorarono la viabilità per facilitare il trasporto dei materiali e degli
attrezzi occorrenti per la ricostruzione.
Sempre uguale, per secoli. Poi, nella seconda metà del Novecento,
l’Italia contadina diventa industriale e prende l’avvio una nuova fase
storica. Per il Meridione, per la Calabria, e pure per San Mango.
Emigrazione, intervento straordinario, Cassa per il Mezzogiorno,
riforma agraria, leggi speciali, opere infrastrutturali, avvento di nuovi
soggetti
politici
sono
avvenimenti che mettono
in moto un processo di
trasformazione che diventa
inarrestabile. E poi l’arrivo
della televisione: «Una
rivoluzione antropologica,
dice Cesare Marchi, quella
che gli specialisti chiamano
accelerazione storica, lo
stiparsi
di
tanti
e
contrastanti eventi in sì
breve arco di tempo».
C’è stato, senza dubbio,
un enorme dispendio di
energie e di capitali, ma la piaga dell’analfabetismo è stata debellata e
le condizioni della vita materiale dei cittadini sono migliorate. Sono
migliorate di gran lunga. Anche se lo sviluppo non ha determinato il
progresso.
«Cos’è rimasto?», si chiede De Seta nel film documentario sulla
Calabria del 1993.
«Una regione con tanti fantasmi di fabbriche, tanta gente emigrata,
tanti paesi spopolati, e altri sommersi dalle nuove costruzioni,
frammisti a villaggi turistici, a capannoni, a snodi ferroviari. Tutto alla
rinfusa, senza un disegno, come in un gioco insensato».
Ecco. Il mondo in cui è vissuto Domenico Adamo non c’è più, è
scomparso. È facile fare oggi un confronto meccanico tra sviluppo e
arretratezza, tra modernità e tradizione. È facile, ma è pure
superficiale. Quello che a noi interessa sottolineare, in questa sede, è il
fatto che la scomparsa della civiltà contadina ha portato con sé il senso
della solidarietà acquisito dalla gente del villaggio nel corso di secoli
di vita in comune; un senso di solidarietà che ha trovato la sua
massima espressione in usi e costumi, feste e tradizioni le cui origini
sono antiche; un senso di solidarietà che in questo tempo quotidiano si
presenta a noi solamente come ricordo del passato: il nostro passato
dimenticato.
Un ricordo che è
diventato memoria storica; e
la memoria viene alimentata
dalle immagini fotografiche
e dagli scritti.
Domenico Adamo, che
ha conosciuto la realtà tipica
della civiltà contadina e che
dopo la partenza per
l’America ha sempre portato
nel cuore le aspirazioni delle classi umili, ha rappresentato
egregiamente questo mondo scomparso, grazie alle sue idee, ai suoi
canti, alla sua religiosità, al suo sentimento, ma anche grazie al suo
amore per la libertà, al suo coraggio, alla sua tenacia nel difendere la
dignità delle persone umane, vivendo sulla propria pelle le tristi
esperienze dell’abbandono e dell’emigrazione.
La sua opera, tuttavia, non si è limitata a rappresentare l’esistente
né a rimpiangere nostalgicamente il passato: essa è andata oltre,
levando un grido di protesta per le ingiustizie del tempo ed
inchiodando alle proprie responsabilità gli oppressori, i violenti, i
manipolatori di una società basata più sul profitto che sulla solidarietà
umana.
Per tutti questi motivi, la vita e le opere di Domenico Adamo
meritano ancora di essere indagate, comprese, approfondite e discusse.
A questo scopo è finalizzata la pubblicazione di questa nuova opera a
lui dedicata.
FRANCO PINNA
MARIALBA RUSSO
FOTO DE VINCENTIS
FOTO STEFANI
La vita
Domenico Adamo nacque a San Mango d’Aquino nel mese di
settembre del 1888. Il padre, Giuseppe, veniva da una famiglia di
muratori; la madre, Francesca Tomaino, veniva da una famiglia di
proprietari. Il fratello del nonno materno, Pietro Tomaino, fu sacerdote
e poeta.
Egli frequentò le scuole elementari nel paese e prestò la sua opera
di apprendista presso un sarto. Nel 1902 andò a Napoli a specializzarsi
nel mestiere, e restò nella città partenopea fino al 1908. Ritornato a
San Mango, aprì una sartoria ma nel 1910 si trasferì a Savuto di Cleto
(CS), dove sposò Francesca Ferraro, figlia di Tommaso,
commerciante.
A Savuto nacque la sua prima figlia, Beatrice, la quale sposò
Giacomo Perri e visse a Roma con la famiglia.
Nel 1912 partì per l’America dove incontrò i fratelli della madre, e
si stabilì a Brooklyn, New York. In seguito fu raggiunto anche dalla
moglie.
A New York aprì una sartoria, e con i proventi del mestiere mandò
avanti la famiglia, composta dalla moglie e da altri tre figli:
Tommasina, Giuseppe e Adelina.
Nel 1923 ritornò in Italia e soggiornò a Cosenza. Entrato in
contatto con i principali poeti calabresi, perfezionò il suo dialetto, ed
una volta tornato in America riprese a scrivere con rinnovato
impegno.
Pubblicò una prima raccolta di poesie nel 1932 a Brooklyn, New
York, dal titolo ”Musa Bruzia”, dedicata «alla memoria di Giacinto
Ferrari, giovane onesto, gentile e generoso, che visse modestamente,
lavorando ed aiutando l’amico bisognoso». Il volumetto si componeva
di dieci poesie in vernacolo e quattro in italiano.
Successivamente, le opere di Adamo furono inserite nell’antologia
“Poeti calabresi in America”, curata da Pasquale Spataro, ed il suo
nome figurò accanto a quelli di Michele Pane, Antonio Fiorentino,
Francesco Greco, Francesco Sisca ed altri.
Nel 1956 pubblicò una nuova raccolta di poesie in Italia, per i tipi
dell’Editrice La Nuova Italia Letteraria di Bergamo, e nell’inviare il
manoscritto all’editore, così Domenico Adamo si esprimeva:
«Io sono un sarto e tuttora lavoro per sostenere la famiglia. Nacqui
a San Mango d’Aquino, provincia di Catanzaro, nel 1888. Mio padre
era muratore; molte delle case esistenti nel mio paesello furono
costruite da lui. Verso il 1902 mi recai a Napoli per imparare il
mestiere del sarto. Napoli è una città poetica, ma in quei tempi altro
che poesia, là si trattava di “sbarcare il lunario”. Dimorai a Napoli
diversi anni; dopo ritornai in paese dove misi una sartoria restando
così fino al 1912, quando decisi di venire in America dove mi trovo
tuttora. L’emigrato per potersi stabilire qui deve superare tanti
ostacoli, e poi non potrà mai essere felice. Per chi non è nato qui,
questa terra sarà sempre un esilio!
Qui la nostalgia vi assale, e la poesia ci viene spontanea come il
pianto. Io che avevo perduto il dialetto calabrese a Napoli, l’ho
ritrovato qui, sognando. Da molti anni avrei voluto vedere i miei versi
diffusi nelle mie desolate regioni, ma ne ho visto l’impossibilità e ne
ho sentito un senso di scoraggiamento.
Adesso anche là si pubblicano dei giornaletti. Le invio questo mio
volumetto “Musa Bruzia”. Voglio sperare che le piacerà ».
Il volumetto, come sappiamo, è piaciuto. La Nuova Italia
Letteraria lo ha pubblicato e l’Introduzione è stata scritta da Angelo
M. Virga, il quale così conclude:
«Ecco perché crediamo presentare questi poeti italo-americani,
poeti sinceri che ci portano il profumo dell’anima, il tormento, le
lacrime, l’indignazione contro le brutture sociali, e la difesa della
giustizia, l’inno all’amore della famiglia, alla Patria, alla fratellanza e
alla Natura. Questo è Domenico Adamo».
Un anno dopo, nel 1957 la stessa Casa Editrice ha inserito alcune
poesie di Adamo in una Collana di poeti italo-americani stampata
sempre a Bergamo.
Nel 1960 fu pubblicata una edizione completa delle sue opere,
sempre dal titolo “Musa Bruzia”, e nel volume, oltre alla produzione
letteraria, sono inserite foto di famiglia, riproduzioni di quadri e
dipinti e numerose recensioni.
Una terza edizione di “Musa Bruzia” vede la luce per i tipi
dell’Editrice M.I.T. di Corigliano Calabro, Cosenza.
Domenico Adamo fu anche un valente pittore, ed i critici hanno
scritto che i suoi quadri “palpitano di calda umanità e di composta
delicatezza, tra una piena corrispondenza di piani e di colori
amalgamati dall’indissolubile vincolo dell’arte”. Egli fece parte di un
Circolo di Pittori scandinavi, e fu molto amato ed apprezzato.
Morì nel 1964, in America, con la speranza di tornare a San
Mango per vedere i luoghi che lo avevano visto nascere e dove aveva
vissuto l’infanzia e la giovinezza.
Domenico Adamo nel 1910
Domenico Adamo nel 1956
La Poesia
Un giorno chiesero a Federico Garcia Lorca cosa pensasse della
Poesia. Il grande poeta spagnolo, fucilato dai falangisti durante la
guerra civile del 1936, rispose: «Ma cosa volete che vi dica della
poesia? Cosa volete che vi dica di queste nubi, di questo cielo?
Guardare, guardare, guardarle, guardarlo e nient’altro. Capirete che un
poeta non può dire nulla della poesia. Lasciamo dire tutto ai critici e ai
professori. Ma né voi, né io, né alcun altro poeta sa cos’è la poesia.
Sta qui, guardate. Ho il fuoco nelle mie mani. Lo sento e lavoro con
lui perfettamente, ma non posso parlare di lui senza letteratura. La
poesia è qualcosa che va per le strade. Che si muove, che passa al
nostro fianco. Tutte le cose hanno il loro mistero, e la poesia è il
mistero che contiene tutte le cose. Per questo concepisco la poesia
come cosa realmente esistente, che mi passa accanto, e non come
astrazione».
Nessuna definizione può dunque essere valida per la poesia, che
non è una corrente statica, ma qualcosa di fluido che spesso sfugge
alle mani dello stesso suo creatore.
La sua materia prima, diceva Pablo Neruda, è composta da
elementi che sono e che al tempo stesso non sono; di cose esistenti ed
inesistenti, ed i versi assumono significati diversi, esprimono concetti
e sensazioni che non si possono ricondurre sul piano della ragione,
escono da schematismi prestabiliti e lasciano dietro una diversità di
stati d’animo, permettendo al lettore la libertà di crearsi immagini ed
emozioni corrispondenti alla sua stessa dimensione umana.
Per comprendere la poesia di Domenico Adamo e per capire il
messaggio che essa racchiude è necessario considerare la peculiarità
del momento e conoscere la realtà storica dell’epoca, ricordando in
quali condizioni si svolgeva la vita nei paesi e nelle campagne.
«Il tempo dell’uomo era legato alle stagioni», ci ricorda De Seta.
«C’era un tempo per seminare, uno per raccogliere, uno per riposare,
uno per festeggiare, e questo tempo era immutabile. Si aiutavano l’un
l’altro, per mietere un campo, per coprire il tetto di una casa, per
spegnere un incendio, per soccorrere un malato. Occorreva l’aiuto
reciproco, e questo portava alla solidarietà, all’amicizia.
Il ritmo della vita non si poteva cambiare. I rapporti degli uomini
con la natura, con i propri simili, si erano fissati, ritualizzati attraverso
i millenni, nella lotta per sopravvivere. E perciò cambiare sarebbe
stato un rischio, una trasgressione».
La realtà economica e sociale di quegli anni era ancora dominata
dal potere di pochi, i quali, avvalendosi di un sistema molto vicino al
feudalesimo, si arricchivano esercitando un pesante sfruttamento sulle
altre classi del popolo.
Contro quella realtà Domenico Adamo si ribellò. Schietto nel
parlare, coraggioso nel rimproverare ai signori le loro angherie, capì le
aspirazioni del popolo, le fece sue e le difese fino all’ultimo, pagando
di persona.
Visse in povertà il primo periodo di una vita intensa e dolorosa, fu
ingannato dagli amici, perseguitato dai ricchi e dai potenti,
abbandonato da tutti e costretto ad emigrare, nella speranza di trovare
al di là dell’Oceano migliori condizioni di vita. Ma questa sua attesa
andò subito delusa.
Giunto in America, si accorse che ovunque era il povero a soffrire,
a sopportare una vita di stenti e di dolore, e le poesie in dialetto
costituiscono una valida testimonianza di questo primo periodo di vita,
culminato con l’emigrazione e con l’impatto con la realtà americana.
Poi il lavoro a Brooklyn gli assicurò una modesta condizione di
vita, ed altri pensieri, altri sentimenti, altri motivi di ispirazione si
fecero strada nell’animo del poeta. Se da un lato l’America non
figurava più come la terra promessa, dall’altro il paese natio gli
appariva come un sogno, con i suoi profumi, i suoi paesaggi, i suoi
tramonti.
Nostalgia per la terra natale e rimpianto per il tempo passato
costituiscono spesso i sentimenti tipici di un’esistenza che sembra
voglia superare e colmare il solco dell’amarezza e del dolore. Sincerità
d’animo, spontaneità di sentimenti, amore per le cose semplici e
naturali sono i temi dominanti delle poesie in italiano.
Poeta di finissima sensibilità, seguì con interesse lo svolgersi degli
avvenimenti che caratterizzavano il suo tempo. In particolare, salutò
l’avvento del comunismo come un’occasione di liberazione per le
masse popolari che vivevano nella miseria e nell’abbandono.
In una Pietroburgo capitale della Russia zarista e simbolo della
società borghese ottocentesca, il 23 febbraio 1917 le operaie e le
casalinghe, esasperate dalla mancanza di pane, erano scese in piazza,
seguite immediatamente da operai in sciopero. La truppa si rifiutò di
sparare sui manifestanti, e fu l’inizio dell’insurrezione. Si formarono i
soviet, consigli di operai, soldati e
contadini, e nacque l’utopia di una
democrazia diretta permanente.
Era la rivoluzione di febbraio, nata
spontaneamente in una Russia
arretrata e stremata dalla guerra, a
cui fece seguito la rivoluzione di
ottobre. Lenin intuisce ciò che le
masse volevano e lancia lo slogan
“Pace e Terra”, la bandiera rossa
sventola sul Cremlino, il governo
provvisorio è abbattuto dai
bolscevichi e sul grande disordine
che sconvolgeva la Russia di quel
tempo viene impiantata la dittatura del proletariato. «Tutto il potere ai
soviet».
È l’inizio della nascita di un mito: il comunismo porterà
Progresso, Giustizia e Felicità.
La Rivoluzione d’Ottobre è universalmente riconosciuta come un
evento capace di sconvolgere il mondo, ma il papa polacco Karol
Wojtyla, sul finire del Novecento, dirà: «Ciò che chiamiamo
comunismo ha la sua storia: è la storia della protesta di fronte
all’ingiustizia […]. Una protesta del grande mondo degli uomini del
lavoro, che è divenuta un’ideologia. Il comunismo ha dimostrato di
essere una medicina più pericolosa e, all’atto pratico, più dannosa
della malattia stessa».
A questo mito, al mito del comunismo apportatore di progresso,
giustizia e felicità, Domenico Adamo si aggrappa con tenacia, nella
convinzione di poter indicare una strada di riscatto ed una prospettiva
di speranza a contadini e operai oppressi.
I regimi ispirati dalla Rivoluzione d’Ottobre saranno capaci di
accelerare potentemente la modernizzazione di paesi agricoli arretrati,
e senza l’intervento sovietico a fianco degli Alleati nella seconda
guerra mondiale «il mondo occidentale (al di fuori degli USA) sarebbe
stato governato da una serie di regimi di stampo fascista e autoritario
invece che da democrazie liberali e parlamentari». L’osservazione di
Hobsbawm è vera. Così com’è vero che la Rivoluzione d’Ottobre
produsse il più formidabile movimento rivoluzionario organizzato
nella storia moderna. Pietroburgo non sarà più com’era all’inizio del
Novecento. Ma la rivoluzione mondiale capace di trasformare
l’umanità non ebbe luogo e la Russia sovietica fu consegnata ad un
futuro di isolamento e di povertà.
Ispirandosi a quegli avvenimenti, Domenico Adamo cominciò a
credere in un’epoca nuova, rinnovatrice dei costumi, ed osservò le
ingiustizie della vita con un sospiro di rassegnazione e di
compatimento, senza lo strascico doloroso del rammarico e della
lamentela.
A questo filone appartengono le poesie che chiamiamo “sociali”,
dove il messaggio è chiaro: «La cagion di questa guerra/viene tutta
dalla terra/che fu tolta a chi lavora…”. Dove per terra - scrive Roberto
Cervo - bisogna intendere sostanzialmente “tutto ciò che costituisce
mezzo di sussistenza, essenziale necessità di vita, elemento base di
costruttività e di avvenire; in altri termini il lavoro, se viene
degnamente retribuito, procaccia salute e benessere; se al contrario è
defraudato, ingannato, senza adeguato compenso, diventa la fornace
dell’ira e del malcontento, ove si alimentano odi e furori che piagano
ferocemente la collettività sociale, seminandovi l’orrore per le
arroganze e gli abusi padronali, da qualsiasi parte provengano».
Domenico Adamo credeva in un’epoca nuova, abbiamo ricordato
prima. Di Cleto dice: «ha una storia piena di dolore, scritta da ladroni
prepotenti, ma ora l’epoca è cambiata, e sono cambiati pure i
tormenti…».
Ma il poeta si illude. Non tanto perché in quegli anni, in Italia, la
direzione del movimento operaio è assunta dai socialisti riformisti,
contrari alla linea dei sindacalisti rivoluzionari che avrebbero voluto
mobilitare le masse in un’azione diretta contro lo Stato. Ma perché
proprio in quegli anni cresce il divario fra le regioni settentrionali e
quelle meridionali. Al Nord aumentano i ritmi di sviluppo e i livelli di
reddito, nel Sud l’attrezzatura industriale è scarsa e il tasso medio di
crescita della produzione agricola risulta nettamente inferiore a quello
delle aree settentrionali.
Nel Sud, la sopravvivenza del
latifondo ed il conservatorismo dei
ceti dirigenti condannano intere
regioni
alla
povertà
e
al
sottosviluppo. Per operai e contadini
la valvola di sfogo è l’emigrazione.
Tra il 1876 ed il 1900, dalla Calabria
erano già partite 275.926 persone; tra
il 1901 ed il 1915 ne partiranno altre
603.105. In un secolo, dal 1876 al
1976, lasceranno la Calabria
1.900.000 persone; con destinazione
principale i paesi dell’Europa e le
due Americhe.
Ma, scrive Cervo nell’introduzione al volume Musa Bruzia del
1960, è «importante notare come l’America nei versi del poeta non sia
più quella d’una volta di facili fortune e di rapide sistemazioni, ma
esigente, impegnativa al massimo e non di rado deludente per chi se
l’era figurata presso a poco con le prospettive d’una miniera d’oro».
La poesia “Nova Yorka”, composta sull’onda di questa delusione,
descrive una società americana dove gli emigrati venivano inseriti nel
circuito dello sviluppo capitalistico e allontanati sempre più dai
legami con la loro cultura di origine, rendendoli prigionieri di un
sistema basato sul profitto e sulla ricchezza.
Anche nella descrizione del ritratto paterno, vibrante di affettuose
tenerezze, appaiono diversi riflessi autobiografici, sulla scia toccante
di malinconiche sofferenze, nella profonda venerazione dei due più
alti valori della società: il lavoro e la pace, che si identificano nella
piena efficienza della libertà autentica e della vera, attuata democrazia.
In Calabria, la classe contadina di quel tempo, rinchiusa nella
miseria, murata nella solitudine, viveva in uno stato di completa
soggezione, e quando la rassegnazione prevaleva sulla resistenza
all’ingiustizia, allora subentrava uno stato di silenzio ostinato. Ecco
allora Domenico Adamo che, attraverso le liriche, lancia al mondo
degli oppressi il suo messaggio di redenzione, di democrazia e di
libertà: Coraggio, o popolo, la pompa, l’arroganza, che sono oggi
strumenti di pena, sono destinati a sgonfiarsi come bolle di sapone.
“La Terra del Sole” è un grido contro il fascismo, il ventennio
nero che in Adamo provoca nausea, e le sue parole si mescolano a
quelle di quanti avevano trovato all’estero un’ancora di salvezza dalla
violenza e dal vandalismo squadrista.
Nella poesia “Duve nascivi” il sentimento del poeta si scioglie
sulle corde della nostalgia, nel ricordo della terra natale; in essa figura
non solo la tristezza per essere stato costretto a partire, ma anche un
senso di commossa ed intima gratitudine verso la terra che lo ha
ospitato e che gli ha dato la possibilità di sopravvivere alla povertà.
Senso di gratitudine che assume l’aspetto di un vero e proprio inno di
gioia.
Quella stessa gioia provata da
giovane a San Mango, quando di sera
percorreva le strette vie del paese ed
intonava serenate alle ragazze che si
nascondevano dietro i balconi.
Serenate rievocate nella lirica “Cara
Zampugna”, ricca di suggestiva
melodia e di struggenti ricordi.
«Poesia popolare, e quindi
elementare nel contenuto e nella
forma, negli schemi tradizionali, ma
poesia rivelatrice di un animo
semplice, buono, assetato di giustizia, come è sempre la poesia di
questi nostri lavoratori all’estero che trovano in essa un conforto alle
durezze del loro destino», scrive Guido Cimino.
Luigi M. Lombardi Satriani ci ricorda che nei canti popolari
l’invito emergente è quello della ribellione nei confronti delle
ingiustizie di cui si è vittima. Alla luce di ciò, l’opera di Domenico
Adamo costituisce una delle più alte espressioni di questa originale
forma di protesta.
Le sue poesie sono piene della contrapposizione fra signori e
contadini, fra ricchi e poveri, ed il pensiero che ne deriva, oltre a
testimoniare la consapevolezza dell’ingiustizia nella quale si vive ed il
desiderio di cambiare la situazione esistente, esprime chiaramente una
presa di posizione politica.
In un mondo dominato dalla violenza, dove gli uomini diventano
portatori di sopraffazione, la preghiera e la riflessione possono
costituire un motivo di conforto. E viene composta la poesia “La
preghiera di Natale”.
Ma questo non basta a modificare l’ordine sociale esistente. E
dopo la presa di coscienza della propria condizione, dopo un’attenta
analisi delle cause e degli effetti, ecco il grido di dolore, ecco la
ribellione e la lotta. Una lotta che l’individuo sceglie di portare avanti
con le armi che gli sono congeniali.
Domenico Adamo, calabrese, emigrato, sarto a New York, poeta
autodidatta, ha scelto la cultura. Ed attraverso la cultura ha lanciato un
messaggio che non può andare smarrito: non c’è posto nella storia per
i pigri, per gli oziosi, per i parassiti, così come non c’è posto per quelli
che vogliono continuare con i loro sistemi un feudalesimo seppellito
dai secoli e condannato dal tempo.
Le poesie furono forse più conosciute in America che in Calabria;
e a Brooklyn, Adamo trovò quella soddisfazione che gli era negata in
patria.
Solo negli anni Cinquanta l’eco dei suoi componimenti giunse in
Italia. Emilio Frangella cominciò ad ospitare le poesie su Calabria
Letteraria, la rivista che Frangella stesso aveva da poco fondato a
Longobardi (Cosenza), e da allora qualcuno cominciò ad interessarsi
del poeta sammanghese. Ma fu un interesse limitato a pochi intimi,
quasi circoscritto nell’ambito di una ristretta cerchia di persone.
Nel paese di origine, di Domenico Adamo, del figlio di Francesca
Tomaino e di Giuseppe, uno sconosciuto muratore di provincia, quasi
nessuno voleva parlare. Come se ci si vergognasse di quell’uomo che
fino a 24 anni era vissuto a San Mango protestando contro le
ingiustizie e le prepotenze dei “signori” e denunciando lo sfruttamento
degli operai e dei contadini.
Cosa si aspettava di trovare allora Domenico Adamo? Cosa voleva
quel giovane che pochi ricordavano e che aveva parlato di liberazione
delle masse contadine, quando invece il popolo accettava il suo
destino, subiva le prepotenze, si rassegnava? E chi non accettava quel
destino, non era forse costretto ad emigrare?
Non era emigrato pure lui, nel 1912, perché i potenti contro i quali
si era scagliato lo avevano costretto ad abbandonare il paese?
L’accettazione di un destino dovuto ad un disegno cosmico,
l’incapacità di dirigere la propria vita politica e sociale, la mancanza
di fiducia in se stessi, il rispetto dell’ordine costituito, la paura del
cambiamento, sono state costanti che hanno condizionato, nei secoli,
la vita delle popolazioni calabresi. L’antica miseria ed il dolore
consueto erano preferibili ad ogni tentativo di cambiamento.
Come poteva essere apprezzata la poesia di Domenico Adamo in
una società così concepita, dove l’esistenza è un equilibrio instabile e
al mondo naturale e sociale ostile l’uomo era in grado di rispondere
solo con la paura e con l’angoscia?
Come potevano essere conosciute e diffuse le sue opere quando la
gente rifiutava di analizzare criticamente la propria storia, e quando il
popolo non riusciva a prendere coscienza della condizione di
sfruttamento, perché la miseria non era solo un dato materiale, ma
anche morale, rivelandosi un modo di vivere che coinvolgeva tutti,
poveri, ricchi ed intellettuali?
Per tutto questo, Domenico Adamo è stato un poeta solitario ed un
personaggio poco conosciuto dagli studiosi della letteratura calabrese.
«La Poesia di una Nazione non va cercata soltanto nella Lingua,
ma nei dialetti; e non dentro i limiti segnati dalle convenzioni
diplomatiche, bensì in ogni luogo del mondo in cui si aggirano
connazionali, e loro discendenti. Dove è un italiano, ivi è Italia»;
questo ha scritto Filippo Fichera nella sua Storia della Letteratura
Italoamericana, che l’Editrice Convivio Letterario ha pubblicato a
Milano nel 1958.
Ed ora che l’isolamento e l’indifferenza che rendevano tanto triste
l’animo del poeta cominciano a rompersi, ora che la voce di
Domenico Adamo torna a risuonare e varca gli stretti ambiti del
confine paesano, il testimone passa ad una nuova generazione.
Tocca ai giovani saper mantenere vivo il ricordo e la memoria di
questo figlio di Calabria, e speriamo che possano esserne capaci: il
loro futuro sarà più sereno solo se sapranno utilizzare al meglio il loro
passato.
Alcune dediche autografe di Domenico Adamo
Cara Zampugna
Dopu vint’anni de malincunie,
Cara zampugna, te tuernu a sunare,
Si t’hai scurdatu e vecchie meludie
Intra stu core mio le pue truvare,
Ti dugnu jatu di’ purmuni mie
Mmu fai li sueni tue ‘ncielu arrivare.
Cuemu chille nuttate senza stille
‘Ntra ‘ruga postiata a li spuntuni
Risunare facie ‘ntra le vinelle
Li sueni chi sfidavanu baruni,
E tuccavanu ‘u core de le belle
Chi vigliavanu arriedi li barcuni.
Mo, a nu barcune chista vuce mia,
Cara zampugna, m’hai d’accumpagnare,
Mu a senta na persuna e si ricrìa
E va’ de cuntentizza a s’affacciare.
E guardandu ‘ncantata intra la via
Pensa: è stu core chi me fa sunnare.
Rosa e Maju
Cù ste vostre bellizze, Rosa e Maju,
A mie m’aviti misu a nu castiju
Suennu ‘u me piglia, pitittu nu d’aju
A passione mia è mu ve viju.
A la vostra purtata nu ‘nce paru
Teniti li capilli d’oru vivu
E nu vuestru surrisu è cussì caru
Ch’è difficile ‘nviersi mu lu scrivu.
De chissu sguardu vuestru tantu raru
Bella ve priegu nun me fati privu,
Pe sanare ste pene chi ‘mpiettu aju
Veniti a la finestra mu vi viju.
U partenzaru
Io partu, amure mio, ch’aju de fare?
Si n’hanu misu li spalli a li muri.
Li ricchi nu’ne lassanu campare
Mancu a lu gradu de li servituri.
Na grazia Gesù Cristu m’ha de fare
Mu li viju ‘mpenduti sti signuri.
Lassu la terra dduve sugnu natu,
Lassu figli, mugliera e cose care,
De tutti chissi chi m’hanu angariatu
La nova minn’avissi d’arrivare.
Ma vena l’ura chi sarà pagatu
Tuttu u suffrire ch’hanu fattu fare.
Tu a la furtuna ‘un perdere speranza,
Vaju dduve c’è pane e c’è cuscienza,
Lu mundu è grande e chinu d’abbundanza.
Verrà lu juernu de l’indipendenza,
E chi fatiga avrà pane abbastanza,
Ma pe le jene nu’nce chiù esistenza.
U sfurtunatu
De la sfurtuna fuezi bersagliatu,
Me sugnu vistu pieju ca perdutu;
Li megli amici mie m’hanu ‘ngannatu
E de le pene mie s’hanu ridutu.
Chi muertu me vulia chi ‘ncatinatu,
Ma stu malu disignu ‘u le’ resciutu
Ccu tuttu stu curdoglio c’ho pruvatu
Me sugnu fattu forte e su sagliutu.
Si stu suffrire mio nu de’ cessatu
Ancore nu su’ muertu né avvilutu,
E stu forte mio core ‘un se’ spezzatu
Ca cchiù d’unu ha de vìdere cadutu.
U Cantu d’a miseria
Mandu stu cantu cuemu na jestigna
Chi vena de luntanu e ve sbrigogna
Vue chi campati cuemu la gramigna
E teniti lu core ‘e na carogna.
Vue chi teniti la facce de mpigna
Nu’ teniti russure né vrigogna.
Chine fatiga, soffra, ‘mpigna e spigna
Vue lu scurciati cuemu ‘na milogna.
Vena lu juernu chi a musica ‘ncigna
Quandu ‘a miseria senta la vrigogna,
Quandu se ‘ngrigna e v’ammacca la tigna
E nu ‘nce lassa mancu na carogna.
Nova Yorka
Chista, chiamata la “Città Gigante”
È lu riciettu de la mala gente,
Cca chine arrubba goda e fa ‘u galante
E chine è onestu nu’ tena mai nente,
Ma la marvaggità de l’autri cunta
E de la sorta se lamenta; e canta.
Vinnaru gente de tutti li punti
Cuemu figli de cani tutti quanti
Ma quandu a puertu sarvi fueru junti
Chi lupu diventaudi e chi brigante.
Sulu l’uemini onesti e li ‘nnucienti
Fueru custritti a fare i mendicanti.
Chistu è lu paradisu de ‘u furfante
Chi u’ da’ cuscienza nè vrigogna sente;
Oje se crida d’essere regnante
E vorra diventare ‘nniputente
Nsina chi nautru piscicane spunta
E cuemu sarda ‘ncuerpu si lu chianta.
E a guardare sta lotta dulente
La gente crida: è cosa ‘ntiressante
Pocu ‘mporta chi vince o chi va a l'untu
Lu perditure è sempre lu spettante.
Ccu mille ‘nganni se gabba la gente
Chi vo ‘ngannare trova lu ‘nnuciente.
Chista è la civirtà chi ccà s’avanta;
La civirtà de u nuevu cuntinente,
Oru e ricchizza sulamente cunta
E tutte le virtù nu’vanu nente.
Cca se fatiga e la vita se stenta
Pe arricchire a chine ne turmenta.
L’esiliatu
Al poeta Francesco Greco
Chissa è la terra dduve sugnu natu,
Pocu me ‘mporta chillu chi diciti
Si ‘ngratamente m’aviti cacciatu
Vena lu juernu chi vinne pentiti.
Nente vala ssa pompa chi purtati
E tutta s’arruganza chi teniti,
Vue de rapina e farsità campati
E la povera gente l’affrigiti.
Siti a stu munnu sulu mu ‘ngrassati
A dannu de li schiavi chi teniti
Supra li furti de i vuestri antinati
Vacabbundi: De grolia ve pasciti.
Tutubiscu
Nu Tutubiscu, ccu la capu a jascu,
Va spassiandu d’Arella a lu Cuescu.
Quandu se ferma me para nu mascu;
Paradi l'ursu nesciutu de u vuescu.
Muertu de fame! Ma tena la nasca,
Nu d’ha na petra mu s’alluma l’isca,
Vo’ fare u mastru: Va trova! Va pisca!
E quandu parra para ca te rasca.
È curagiusu, però nu’ s’arrisca.
Ma ccu la vucca! Baruffa a burrasca,
E ppe la gamba! Nessunu lu pisca
Appena vida izare na frasca.
A la fatiga però nu’ ci annasca
Ma ce piace jucare a lu friscu
E ppe campare fa cuemu la musca
‘Nsina chi lassa la zampa a lu viscu.
S. Mango d’Aquino 1908.
Curaggiu, o Populu
Nu quartu de stu mundu, se po dire,
Suffria sutta lu taccu e nu tirannu,
Chi guvernava ccu fuecu e staffile,
Ccu la sivizia e ccu qualunque ‘ngannu.
Ma vinna l’ura e n’autru Dio arrivau
Chi cadire lu fice ‘nsinu a fundu
Le catine de u populu spezzau
E lu zarru cacciau de chistu mundu.
Pompa, arruganza, strumienti de pena,
Cuemu bubbule d’acqua de sapune
Quandu le punci la fine ne vena.
Ccu core forte suffriti la pena
Verrà lu juernu c’a nu lampiune
Vida la fine chi schiavi ve tena.
Preghiera
Al poeta Eugenio Adamo.
Madonna de la Vuda , Matre Cara,
Nue n’accugliemmo sutta la tua guida,
Tu si la stella chi u core rischiara
E sempre vince chine a tie s’affida.
Scanzane de le pene e de li guai,
De mala gente e de mali vicini,
Chin’è de buenu core tu lu sai,
Gran Matre chi cunsuli i cuntadini.
Chine fa sufferense pe campare
Tu lu pruvidi cu lu tue putire,
A l’arma nostra chi se po ‘ngannare
Mustracce tu la via; fala saglire.
Chine a stu mundu male vodi fare
De li nuestri dintuerni cacciamilu,
Chi vo campare senza fatigare
Tu Vergine Maria, ricoglinnilu.
A Mio Padre
Tu che nascesti in mezzo a le torture
Dove le fibre tue ti temperasti,
Senza avvilirti mai nelle sventure
Passasti i mari e ramingando andasti,
Ma pur col cuor trafitto di gran duolo
Non ti scordasti del nativo suolo.
Come l’aquila, là, facesti il nido,
Scherno facendo a tante belve umane,
E al tuo paesello fosti sempre fido
Sperando ritornarci la dimane;
Quando poi lo dovesti abbandonare
Per andare lontano a lavorare.
Tu che sprezzasti l’agiatezze umane
E la croce portasti con amore,
E lavorando guadagnasti il pane
Chè col lavoro l’uomo acquista onore,
E a la famiglia desti la tua vita:
Ch'era per te la gioia più gradita.
Tu che soffristi con coscienza pura
Come il devoto fermamente adora,
Sempre bramando la pace che dura,
Fosti fedele fino all’ultim’ora.
Amante del lavoro, e lavorando,
Le melodie del cor al Sol cantando.
26 luglio 1926.
Al Colle natio
Oh! Colle profumato di mortelle,
Oh! Colle profumato di viole,
Sopra le falde tue ridenti e belle
mi fu dato vedere il primo albore.
Da le tue falde vidi pria le stelle,
Là sentii palpitare il primo amore,
Il mar vidi, lontano, e le procelle,
Vidi la Sila che diè forza al core.
Nel gramo esilio mio di te favello,
E spero un giorno rivederti ancora,
Ed il loco natio trovar più bello,
Se la morte non segue altra dimora.
Piante di Rose
Piante di rose mie, verdi e spinose,
Oggi vi vedo tutte rivestite
Di bocciuoli fragranti e rosse rose.
E radiando fragranze e salute,
Forse a la primavera sorridete
Che porta luce nelle vostre vite.
Di questa vita mia grama e romita,
Piante di rose, cosa ne pensate?
Voi che sapete le gioie della vita,
Voi che sapete tutte le sferzate
Dell’inverno crudel che vi ha ghermite,
dite: Vi son per me l'ore serbate?
Per le speranze mie veder fiorite?
La Preghiera di Natale
Oh! Divino Pargoletto
Che dal ciel fosti eletto
Di venire in queste selve
Per pacificar le belve,
Vengo avanti a Te fervente
E m’inchino reverente.
La cagion di questa guerra
Viene tutta dalla terra
E continua fin d’allora
Che fu tolta a chi lavora,
Le promesse sono vane
Per chi soffre e non ha pane.
Tutto il mal di questo mondo
Ha un’origine profonda;
Non è colpa del pezzente
Ma del ricco prepotente
Che coi vizi e con le usure
Empie il mondo di sciagure.
Oh! Celeste Redentore,
Voglio schiuderti il mio cuore:
Benedici il contadino
Lungo l’aspro suo cammino
Ed il ricco vagabondo
Manda fuor di questo mondo.
Duve nascivi
Nascivi fra la Sila e lu Mancusu,
fra lu jume Savutu e lu Casale.
Nascivi fra l’usanze de soprusi
e gente cu la mente de Jugale.
Nascivi ‘miensu a l’arvuli urdurusi
e li giardini chi fanu ‘ncantare;
l’agielli cu li canti armuniusi,
llà, me ‘mpararru ad amare e cantare.
Fortuna ‘ngrata! Duvietti partire,
quante corde ‘e stu core appi ‘e spezzare,
unu chi parte è cuemu va murire;
va ‘mpardisu e tornadi a campare.
Lu mundu è grande! Umanità è gentile!
Santa è la terra chi te po ’sfamare,
ma de sta vita mia lu bellu Aprile
cuemu ‘na vota vulerra sunnare.
La Terra del Sole
(L’Italia nel ventennio nero)
Il Suolo vantato;
La Terra del Sole
Oggi è desacrato,
Là il Diavolo gode,
Le Barbare orde
Del grigno feroce
Son là per rimettere
Iddio sulla Croce.
La prole d’Italia
Son come gli agnelli
Strappate alle mamme
Mandate ai macelli.
La plebe d’Italia
Affamata e sconfitta
È forzata a far figli,
A soffrire e star zitta.
L’Italia: la Madre
Di grandi virtù,
Or giace prostrata
Nella schiavitù.
L’Italia: la culla
Del genio latino
Oggi è dissanguata
Da un vile assassino,
Che al lume di Dio
Ha voltato le spalle
E al giogo di Attila
Si è reso Vassallo,
Portando la strage
Nel Popol Latino
Si vanta di essere
Un nuovo Caino.
La Storia d’Italia
È piena di affanni
Macchiata da despoti
E vili tiranni
Ma il popolo che ha cuore,
Che ha senso di onore
Risponderà presto
Al terror col terrore.
Cleto
Fra ste timpe, a stu dirrupu,
Pe’ scuntà ‘ncunu peccatu
Stu paise dittu Cletu
Si ce trova arrampicatu.
Ha ‘na storia addulurata
De latruni priputienti,
Ma mo l’epuca è cambiata
E cambiati su’ i turmienti.
Chista è l’epuca muderna
De prugressu e libertà
Si ce nasce ‘na mal’erva
Longa vita nu’ n’avrà.
Stu paise è prugreditu,
C’è arte, scienza e civirtà.
C’è na musica cumprita
Ch’è unurata ‘nso du’ e và.
A lu bravu prufessure
Ch’è persuna de virtù
Va l’unure e lu rispettu
De sta balda giuventù.
Chista è l’epuca muderna
De prugressu e libertà
Chi se merita la gloria
Priestu o tardu l’averà.
Fatte avanti: anticu Cletu,
Minta vele a nova vita;
Pe’ vincire la partita
Cce vo’ forza ‘e vuluntà.
Tu ci hai gente de prugressu,
Ci hai ricchizze, ci hai buntà,
Però penza a lu futuru
De la tua cumunità.
Chista è l’epuca muderna
De prugressu e libertà
Cletu: Cambia la tua storia
Pe’ la tua prosperità.
Ricordi di Cosenza
Barù, si t’haju fattu na mancanza,
Perchì partivi senza dire addio!
Fu per u’ rigure de le circustanze,
Ma no pe’ curpa de stu core mio.
Dopu tant’anni e tanta luntananza
A lu giurnale lieju cu allegria
Ca s’è avverata già la tua speranza,
E t’hai misu na bella Farmacia.
Mandu l’aguri, e sfidu la distanza,
Mu la furtuna te fa cumpagnia,
Mu te fadi avverare ogne speranza
Cu la bona salute e l’armunia.
Nu Tale
Fra li ricuerdi de la quatraranza
Cc’era nu tale, de mia canuscenza,
Ch’era lodatu pe ‘la sua gran’ panza,
Ma de cerviellu ne jìadi de senza.
Sordi, se sà, ne teniadi abbastanza,
Scrupoli ‘un teniadi, né cuscienza,
Eradi a capu de ‘na maggiuranza
Chi se suttamintìa ccu riverenza.
Passanu i tiempi, passanu l'usanze,
Ma ‘u male fattu lassa l'evidenza.
Sulu la morte porta l’uguaglianza
E po’ strudire la mala semenza.
L’associazione “Amici della Musica”, fondata a San Mango d’Aquino
da Alfredo Chieffallo allo scopo di rinnovare la tradizione bandistica e
diffondere la cultura musicale sul territorio, ha inteso rendere omaggio
alla figura di Domenico Adamo e, in occasione del conferimento della
cittadinanza onoraria alla figlia Adelina, ha provveduto a musicare
una delle poesie più popolari del poeta: Cara Zampugna.
L’opera, composta dal M° Francesco Pignataro, è stata rappresentata
in prima assoluta a San Mango d’Aquino, in occasione della
cerimonia di commemorazione di Domenico Adamo.
L’esecuzione è stata affidata ai musicisti Lucia Morello (pianista e
soprano lirico) e Francesco Pignataro (pianista e compositore).
La cartolina ricordo con i versi di una poesia di Domenico Adamo,
distribuita nel 2004 in occasione del 150° anniversario della Cona Bonacci.
Testimonianze
«Come si va facendo numerosa la schiera di questi nostri conterranei,
emigrati in America per non morire di inedia nella povertà di tutte le
cose che li circondava, privi di studi perché nessuno si era mai accorto
della loro smania di sapere e se anche l’avessero intuita, avrebbero
dovuto fingere di non essersene accorti, stringendosi nelle spalle in un
gesto di triste rassegnazione perché bisognava lavorare con le mani
per portare a sera qualche cosa da cuocere al focolare.
Essi si sono rivelati uomini di ingegno, attratti dalla poesia, o dalla
musica, o dalle altre arti, o dalla meccanica, ed hanno voluto
concedersi la gioia di scrivere, di stampare, di sentirsi autori, di
entrare in un mondo in cui, sempre con un senso di auto controllo, si
sentono elevati ad un’altezza dove sanno che la usuale valutazione
dell’uomo in dollari non ha senso, e possono sentirsi ricchi anche se
sono rimasti poveri come partirono, o quasi!».
Guido Cimino, 1960
«Musa Bruzia di Domenico Adamo è alla seconda edizione,
significando un successo poco comune, nonché una conseguente
vitalità di ritmo e di idee. Il poeta parla di sé, delle proprie ubbie o
delle proprie speranze, alla natura. Il suo animo somiglia a un roseto,
verde e spinoso, schiuso alla fragranza gioiosa della primavera, o
flagellato dalle crudeli sferzate dell’inverno.
La vita non ha tregua per chi coltiva nelle vene nobili e puri ideali:
alle limpide, luminose giornate di sole, si alternano fatalmente
sequenze di interminabili ore di angoscia e di battaglia, di inesausta
lotta contro i maledetti fautori di ingiustizie e di soprusi, di avventate
violenze e di ignobili sopraffazioni…».
Roberto Cervo, 1960
«Domenico Adamo è un autodidatta, che è nato poeta, e scrive, per
conseguenza, senza le pretese di fare dell’arte. E la vera poesia si fa
così. Ma quante belle poesie egli scrive, e quanta ardente passione egli
sa trasfondere in tutti i suoi versi che gli sgorgano dal cuore…
Egli canta le gioie ed i dolori della sua vita, unicamente per
ubbidire al fervido impulso dell’anima, arsa dalla luce abbagliante
della poesia. E continui a cantare sempre così Domenichino Adamo,
come l’usignolo che canta nell’ombra per rallegrare la propria
solitudine!
Sono così pochi i poeti che sanno cantare come lui con tanta
ingenua semplicità e con tanta avvincente dolcezza».
Riccardo Cordiferro, 1932
«Conobbi Domenico Adamo nel 1928 attraverso un parente –
Eugenio Adamo – che risiedeva nel New Jersey, e precisamente a
Read Bank. Anima veramente gentile di poeta, e di puro calabrese
assetato di luce e di bellezza, e indefesso propugnatore della giustizia
del popolo.
Divenimmo buoni amici. Domenico Adamo è di una bontà
indescrivibile: sempre gioviale, il suo volto rispecchia la sua anima di
vero calabrese, senza infingimenti.
Amante della poesia nei suoi ritagli di tempo, che sono pochi,
compone delle belle poesie che si fanno leggere con molto diletto. Da
una diecina d’anni a questa parte, dedica le sue ore - che dovrebbero
essere di meritato riposo - dopo le lotte del lavoro, al disegno e alla
pittura, con risultati molto lusinghieri. Fa parte di un Circolo di Pittori
Scandinavi che gli vogliono bene; dato il suo mite carattere, chiunque
lo conosce, non può fare a meno di volergli bene».
Francesco Greco, 1960
«Musa Bruzia si fa leggere con piacere, perché i versi sono
scorrevoli, spontanei, agili, chiari, assennati…
Il Poeta condanna il vizio dove lo localizza. Pei cattivi ha parole
severe. Il povero, abbandonato alla deriva nel mare burrascoso della
vita, ha una grama esistenza. È assillato dalla paura dell’incerto
domani. Egli stesso fu costretto dalla cattiva situazione economica a
lasciare il paese natio, la moglie e i figli (che in seguito lo
raggiunsero) e tutto ciò che colà lo legava, per recarsi a procacciarsi
un pezzo di pane men duro, nella lontana America del Nord, dove
ancora risiede…
Il libro di Domenico Adamo è degno di essere letto ed apprezzato
da chi ama sinceramente le cose belle ed oneste».
Pietro Greco, 1954
«La poesia di Domenico Adamo ha i pregi impagabili della
semplicità e della spontaneità. E sebbene non abbia pretese letterarie e
l’autore scriva solo per un bisogno del suo spirito, s’impone subito per
la viva passione che l’anima e che traspare, in tutta la sua veemenza,
dalla grazia, dalle immagini, dalla scorrevolezza e dalla musicalità del
verso.
Per dare ritmo, flessibilità e musicalità al suo lirismo, questo poeta
che sente ancora di primitivismo, non ricorre ad esose ed intricate
forme retoriche, ma attinge invece la sua ispirazione agli impulsi della
sua stessa anima, avvalendosi del suo linguaggio modesto, due dei
primissimi elementi necessari a dare vita e fulgore alla poetica».
Il progresso italo-americano, New York 1956
«Poesia didascalica quella di Domenico Adamo, in quanto dal
lavoro quotidiano ha saputo attingere l’insegnamento per le ‘egregie
cose’ imparando ‘come sa di sale lo pane altrui’ e facendo del bene,
nel nome della Patria che gli diede i natali. Egli è anche artista ed
estrinseca le sue attività in modo egregio, tenendo sempre presente gli
alti principi di socialità e di umanità. Un lavoratore, un poeta e un
artista italo-americano che fa onore alla sua terra natia».
Il pungolo verde, Campobasso 1959
«Domenico Adamo è poeta perché sa scrivere versi semplici,
sentiti, limpidi, agili, penetranti e scorrevoli che non ti stancano né ti
annoiano. Sono versi melodici, armoniosi come la musica astrale,
perché dicono qualche cosa che ti parla al cuore, qualche cosa che sa
del vero, dell’umano. È poeta perché difende i suoi fratelli, combatte il
vizio, dardeggia la società brutale.
Noi non possiamo fare a meno di parlare di questo poeta, poiché
quel poco che egli ha scritto e dato alle stampe è qualitativamente
assai buono, scaturito com’è dalla sua fine sensibilità, dalla sua
tormentata umanità, che si concreta in immagini icastiche, dal taglio
vivo e netto, esprimenti il suo mondo poetico in una visione pittorica.
Abbiamo detto pittorica, e non senza motivo: difatti Domenico
Adamo – il quale, oltre che squisito artefice del verso è anche artefice
del pastello e del pennello, con cui dipinge e disegna con raro gusto
artistico, sebbene sia in entrambi i casi autodidatta – lascia intravedere
nelle sue poesie la sua tendenza alla pittura, manifestatasi in lui
giovanissimo, allorquando dalla natia Calabria venne in America».
Angelo M. Virga, 1956
«Domenico Adamo è un degno figlio della nostra terra, che dopo
più di quarant’anni d’America conserva intatte le nostre tradizioni,
difendendole da coloro che cercano con le calunnie, menomare il
nome della nostra amata terra, culla della più antica civiltà».
Rivista di scrittori calabresi, Cosenza 1960
«Domenico Adamo, poeta del popolo e pittore apprezzatissimo, ha
ripubblicato la sua Musa Bruzia per lasciarla correre nelle piazze, le
campagne e gli uffici ove ancora non era arrivata, data la prima
tiratura che aveva avvicinato gli amici ed i fratelli dell’arte.
Un dono questa volta che va ai suoi fratelli di lavoro in terra
calabra, acciocché essi ne cantino lungo i sentieri i ricami meravigliosi
delle sue rime che sanno il dolore, i sacrifici, la miseria del contadino
asservito al gioco del ricco che ne raccoglie i frutti del lavoro e lo
lascia privo anche di un tozzo di pane molto necessario e
indispensabile alla vita».
Pasquale Spataro, 1956
«Versi impeccabilmente armoniosi: sempre. Sempre, in essi,
racchiusi sentimenti e palpiti tra i più delicati e più nobili. In altri
termini: il riflesso della vita; del travaglio della vita.
Un fondo, dunque, di realtà, di sincerità, di verità palpitante. Un
contenuto che sta in alto; che si eleva sul dominante…
Lo stesso può pensarsi e può dirsi dei disegni e delle pitture di
Domenico Adamo.
È pur vero quel che affermò un insigne critico d’Arte: un quadro
non esser altro che una poesia che si vede. E noi nei dipinti di
Domenico Adamo, vediamo nettamente quegli intimi sentimenti che
vedemmo ne le sue liriche. E cioè: niente astrattismo, niente verismo
più o meno crudo e spregiudicato, niente simbolismo ecc. ecc.
Soltanto la sincerità e la verità che traspare dai tocchi del delicato e
sapiente pennello…
Possiamo affermare in conclusione che questo libro di Domenico
Adamo è un godimento e una elevazione dello spirito. Esso fa bene
all’animo. E ci fa pensare che nel triste mondo in cui oggi viviamo, ci
sono ancora le anime buone le quali generosamente prodigano la loro
bontà.
A Domenico Adamo, tutta la nostra riconoscenza!».
Gennaro Capalbo, 1960
«Il Nostro non è un letterato, non è un pittore di professione: egli è
semplicemente un sarto che ha sempre lavorato sodo, senza concedersi
tregua, per sostenere in modo conveniente la famiglia, composta della
consorte e di tre figlioli, i quali gli hanno saputo dare soddisfazioni
che un padre si attende dalla propria prole, riuscendo nella scuola e
nella vita.
Allorché egli può allontanarsi brevemente dagli strumenti del suo
quotidiano lavoro, dall’ago e dalle forbici, si rifugia, per quella
prepotente evasione dalla grigia vita di tutti i giorni, nella poesia e
nella pittura, dove si mostra un colorista luminoso, abile e accorto nel
rappresentare, sia sulla carta che sulla tela, i paesaggi più caratteristici
della terra sua natia, contemplati nostalgicamente con gli occhi della
mente memore».
Arte e Mondanità, Palermo 1956
«Domenico Adamo non è un letterato famoso, ma era un uomo del
popolo, era un artigiano costretto a lasciare la sua terra per cercare
altrove migliori condizioni di vita.
Le sue poesie furono forse più conosciute in America che in
Calabria, e nella Brooklyn di New York trovò soddisfazioni e
apprezzamenti che altrove gli erano negati…».
Calabria Letteraria, Longobardi 1980
«Giunto in America, a Brooklyn passò tutto il resto della sua vita,
e in quel quartiere di New York egli aprì una sartoria che divenne ben
presto luogo di ritrovo e punto di riferimento per molti artisti emigrati.
I proventi del mestiere servivano per mandare avanti la famiglia, ma la
sartoria per lui rappresentava qualcosa di più.
Era il luogo dove più prorompente diventava la nostalgia per il
paese natio. Era il luogo dove la mente si abbandonava ai ricordi e ai
sentimenti, e lì dentro, con le tendine della porta abbassate per non
essere disturbato, Domenico Adamo ripercorreva le vicende della sua
vita: i luoghi dell’infanzia, le idee giovanili, l’incomprensione dei
contemporanei, gli ideali della maturità, il desiderio di cambiamento,
la partenza, il lavoro, la famiglia, la tenacia, i figli, gli incontri con
altri artisti emigrati, la pittura, la poesia.
Le tendine abbassate erano per tutti un segnale, e volevano dire
che Domenico Adamo stava dipingendo oppure stava scrivendo
poesie… ».
L’altra Calabria, Montreal, Canada, 1995
«Ho avuto il libro su Domenichino Adamo. Come vedi, anch’io lo
chiamo così, così avendo conosciuto la sua immagine, attraverso mio
Padre, cui mandò il suo libretto Musa Bruzia.
Mio Padre, per la Sua funzione, era un po’ il tramite vivo,
appassionato e sentimentale fra i nostri emigrati ed il nostro Paese.
Non credi che sia il caso che si faccia un’accurata ricerca e
presentazione per tutti i “Nostri” che, all’Estero, nel lavoro indefesso e
nel tormento della lontananza, tengono alto il nome di San Mango, e
lo rinnovano ogni giorno con il loro sacrificio?».
Felice Manfredi, 1987
«La sua vita e le sue poesie sono nella loro semplicità,
l’espressione più alta e più sublime del dolore, della nostalgia, della
rabbia per le miserie del mondo. Non solo, ma il messaggio che egli
ha voluto tramandare alle giovani generazioni è attuale e moderno, e
deve essere accolto da tutti affinché parole come emigrazione, come
tirannia e come soprusi e sfruttamento possano essere cancellate dalla
vita quotidiana di tutti quanti noi…».
Arturo Moraca, 1987
Indice
Presentazione
pag.
7
Presentazione
pag.
9
Introduzione
pag.
11
L’ambiente
pag.
23
La vita
pag.
55
La poesia
pag.
59
Alcune liriche
pag.
73
Testimonianze
pag. 103
Armando Orlando è nato nel 1948.
Ha lavorato come impiegato metalmeccanico a
Milano, dirigente d’azienda a Roma, quadro direttivo
bancario a Catanzaro. Ha svolto attività sindacale a
Roma e Milano e attività politica in Calabria.
Per il gruppo Rubbettino ha pubblicato: Storia di una
terra del Sud, con prefazione di Nuccio Fava (1984),
volume di apertura della Collana “Immagini della
memoria”; Domenico Adamo, un poeta e la sua terra (1987), Finalista al
Premio Calabria di Villa S. Giovanni; Carmine Augusto Ferrari, Brandelli di
vita (1989); San Francesco di Paola, itinerari religiosi in un paese della
Calabria (1991); La Calabria intorno al Mille, storia di una diversità (1995),
Finalista al Premio Nazionale Feudo di Maida; San Mango d’Aquino, la
storia (1997); In Calabria, cronaca costume storia tradizioni (1998); Storia
di Falerna dalle origini ai nostri giorni (2000).
Con Antonio Sposato ha pubblicato San Mango d’Aquino, storia folklore
tradizioni poesia, Rubbettino, 1977 (Premio della Cultura della Presidenza
del Consiglio dei Ministri), volume di apertura della Collana “TerreUomini”. Con Giovanni Nicastri ha pubblicato Castiglione e Falerna, storia
di una comunità del Tirreno, prefazione di Gregorio Corigliano, CLE, 1986
(Finalista al Premio Letterario Città di Amantea). Con Armido Cario ha
pubblicato La Calabria del Settecento, CLE, 2007.
Ha collaborato con quotidiani e periodici in Italia e all’Estero, fra i quali:
Gazzetta del Sud di Messina, La Calabria di Cosenza, il piccolissimo di
Catanzaro, Diesis di Cosenza, Calabria Letteraria di Soveria Mannelli,
l’altra Calabria di Montreal (Canada). E’ autore di numerosi saggi per il
web, fra i quali: Breve storia dell’emigrazione calabrese (2005), La
rivoluzione musicale di Fred Buscaglione (2010), Il nostro passato
dimenticato (2010), Emigrazione brigantaggio e lotta di classe in Calabria
(2010).