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DOMENICO ADAMO - Un poeta e la sua terra

2010, Domenico Adamo. Un poeta e la sua terra

«Conobbi Domenico Adamo nel 1928 attraverso un parente – Eugenio Adamo – che risiedeva nel New Jersey, e precisamente a Read Bank. Anima veramente gentile di poeta, e di puro calabrese assetato di luce e di bellezza, e indefesso propugnatore della giustizia del popolo. Divenimmo buoni amici. Domenico Adamo è di una bontà indescrivibile: sempre gioviale, il suo volto rispecchia la sua anima di vero calabrese, senza infingimenti. Amante della poesia nei suoi ritagli di tempo, che sono pochi, compone delle belle poesie che si fanno leggere con molto diletto. Da una diecina d’anni a questa parte, dedica le sue ore - che dovrebbero essere di meritato riposo - dopo le lotte del lavoro, al disegno e alla pittura, con risultati molto lusinghieri. Fa parte di un Circolo di Pittori Scandinavi che gli vogliono bene; dato il suo mite carattere, chiunque lo conosce, non può fare a meno di volergli bene». Francesco Greco, 1960

DOMENICO ADAMO un poeta e la sua terra di Arm ando Orlando COMUNE DI SAN MANGO D’AQUINO Assessorato alla Cultura Grazie a tutte le persone che hanno contribuito da vicino o da lontano alla realizzazione di questo progetto. DOMENICO ADAMO un poeta e la sua terra di Armando Orlando Comune di San Mango d’Aquino Assessorato alla Cultura La foto a pag. 21 è messa a disposizione da Ugo Russo, già assessore alla Cultura del Comune di Cleto. La foto a pag. 25 è di Mario Sacco. La foto a pag. 31 è di Valentino Petrelli. Le foto alle pagg. 31, 43, 61 sono di Franco Pinna. La foto a pag. 43 è di Marialba Russo. La foto a pag. 46 è di De Vincentis. La foto a pag. 47 è di Stefani. L’immagine a pag. 53 è la riproduzione del dipinto «Vincenzo in cantina» di José Cesareo. L’elaborazione fotografica a pag. 102 è di Domenico Pulice. Molte altre foto provengono dalla collezione privata di Maurizio Chieffallo. La foto di copertina è di Francesco Cataudo. Essa raffigura l’abitato di Savuto e, sullo sfondo, il paese di San Mango d’Aquino, i due luoghi più importanti della vita di Domenico Adamo, prima della partenza per l’America. Stampa: Grafiche Calabria srl - Via Marciello - Zona Pip - Tel. 0982.48062 87032 Campora S. Giovanni - Amantea (Cs) © 2010 Comune di San Mango d’Aquino (Catanzaro) C’è una storia nella vita di tutti gli uomini. William Shakespeare Presentazione La pubblicazione di questo volume è un omaggio alla memoria di Domenico Adamo. Man mano che andiamo avanti nella lettura del testo, le pagine ci consentono di vedere il nostro passato attraverso gli occhi attenti di uno dei tanti figli della nostra terra, che all’impegno del lavoro quotidiano ha associato la passione per la poesia e per la pittura. Lavoro, poesia e pittura portati avanti in una terra lontana, diversa dal luogo d’origine, al di là di un Oceano che ha assistito alla traversata di milioni di emigranti che fuggivano dalla povertà e andavano alla ricerca di un avvenire migliore da assicurare alla propria famiglia. Domenico Adamo è riuscito in tutto questo. Una volta emigrato in America, dopo aver lasciato in Italia la prima figlia, ha lavorato, ha avuto altri figli, ha cresciuto con dignità la famiglia. Senza mai dimenticare le origini. Anzi, portando sempre nel cuore e nella mente il ricordo della giovinezza e del suo paese. Gioia e dolore, speranze e illusioni, ideali e delusioni hanno caratterizzato gli anni vissuti a San Mango e a Cleto (i luoghi calabresi a lui più cari), ed il ricordo di quegli anni sarà sempre vivo nella sua nuova patria, a New York, e lo accompagnerà fino alla morte. Si è parlato di Domenico Adamo come una delle voci più significative della poesia italo-americana del Novecento. La sua produzione letteraria non è abbondante, ma è rappresentativa di un filone letterario non sufficientemente studiato, dove i temi dell’emigrazione, del lavoro, della famiglia, dell’impatto con le città multietniche emergono con convinzione e con forza. Le sue liriche sono state inserite in antologie e collane editoriali assieme a quelle di altri esponenti di quel particolare ambiente culturale che, dall’Estero, ha continuato a guardare con interesse e con nostalgia alla terra d’origine, coltivando e alimentando in forme diverse il proprio amore per le radici. È un mondo tutto da scoprire, quello degli italo-americani. Negli Usa, sono oltre 20 milioni le persone che possono vantare una qualche discendenza italiana nelle loro famiglie. Gli italo-americani hanno influenzato la musica popolare americana, e cognomi di derivazione italiana sono presenti nel mondo del cinema, dello sport, degli affari e della politica. È un mondo tutto da scoprire, ed il comune di San Mango d’Aquino, con questa pubblicazione, vuole dare il suo contributo. Per questi motivi, l’Amministrazione comunale ha accolto con favore il progetto di ricordare Domenico Adamo, emigrante, sarto e poeta. Perché egli è l’emblema di migliaia di sammanghesi che nel secolo scorso, il Novecento, hanno lasciato la casa, i parenti, gli amici e la terra in cerca di un futuro migliore. Molti sono riusciti a realizzarsi, al di là dei mari ma pure nelle nazioni del Nord Europa o nelle città industriali del Settentrione italiano. Altri, purtroppo, hanno incontrato difficoltà che non sempre sono riusciti a superare. «Ma noi chi siamo davvero? Da dove veniamo? Dove stiamo andando e, ancora di più, dove vorremmo andare?». Non sono interrogativi di poco peso, scriveva Nuccio Fava nella prefazione ad un libro fotografico che Armando Orlando ha dedicato a San Mango d’Aquino e che Rubbettino ha pubblicato nel 1984. Sono d’accordo con il giornalista televisivo, già direttore del TG1, anche quando dice che non sono interrogativi da poco, né ci sono risposte semplici, e se non ci poniamo queste domande sarà sempre più difficile capire la fase di storia che stiamo vivendo. Il lavoro di Orlando ci aiuta in questa ricerca, e per rendere più incisivo l’impegno, l’Amministrazione comunale ha avvertito la necessità di coinvolgere nel progetto gli alunni del locale Istituto Comprensivo, ai quali il libro sarà distribuito in via prioritaria. Grazie al dirigente scolastico prof. Alfredo Saladini per la disponibilità; grazie al corpo docente per le iniziative che vorrà portare avanti in ricordo di Domenico Adamo; e buona lettura alle persone che si avvicinano a queste problematiche e che collaborano per la riuscita del progetto. Vincenzo Buoncore Sindaco di San Mango d’Aquino Presentazione Questa seconda edizione, riveduta e aggiornata, del libro pubblicato nel 1987 da Armando Orlando per i tipi di Calabria Letteraria Editrice (Gruppo Rubbettino di Soveria Mannelli), rappresenta per il comune di San Mango d’Aquino l’occasione per una riflessione sulla vita e sulle opere di un personaggio che, per le sue caratteristiche, è una figura emblematica, il prototipo di tanti figli della nostra terra. È difficile portare avanti operazioni culturali in paesi come il nostro, dove la memoria collettiva, che è un elemento costitutivo dell’identità di una comunità, tende a sparire e dove l’agire sociale degli individui è segnato dall’abbandono del senso di una comune appartenenza. Eppure molti studiosi dicono e scrivono che la crescita delle persone, di un gruppo, di una società, di un territorio passano, è vero, attraverso la realizzazione di opere materiali e di infrastrutture, ma questa crescita, per dirsi definitivamente compiuta, ha bisogno, ogni giorno di più, di sviluppare quello che in sociologia si chiama “capitale umano”. A questi principi ho cercato di ispirarmi nel portare avanti il compito che mi è stato affidato di assessore alla Cultura del comune di San Mango d’Aquino. E in virtù di questi principi ho proposto e sostenuto la pubblicazione del presente lavoro, che si inserisce in un disegno più ampio di valorizzazione della storia, del folklore, delle tradizioni, della poesia e quindi, del recupero della memoria collettiva, in un quadro che deve vedere protagonisti le donne e gli uomini, i giovani di questo paese, che attende da anni, da troppi anni un’emancipazione culturale e sociale che ancora, purtroppo, non completa il progetto di sviluppo materiale che è davanti a noi. Nato in una realtà povera com’era la San Mango di fine Ottocento, figlio di un muratore e di una casalinga, forte, tenace e sognatore, impara a fare il sarto, corre a Napoli per specializzarsi nel mestiere, torna in Calabria, non trova lavoro sufficiente per crearsi un avvenire, si trasferisce nel comune di Cleto, si sposa, a Savuto nasce la prima figlia, parte per l’America, e lì, a Brooklyn, New York, costruisce la sua famiglia e la sua vita. Per tutto questo, Domenico Adamo è l’esempio di come sono vissuti tanti altri figli della nostra terra, e rendendo omaggio a questo uomo e a questo poeta, intendiamo rendere omaggio a tutti gli emigrati calabresi sparsi per le vie del mondo, costretti ad abbandonare la terra di origine alla ricerca di un avvenire migliore per sé e per i propri figli. Maurizio Chieffallo Assessore alla Cultura Introduzione Sono venuto a conoscenza dell’esistenza di Domenico Adamo nel mese di ottobre del 1966, quand’ero studente di Ragioneria e, con gli amici, frequentavo la bottega di vino di Ciccio Marsico ed Alessandro Berardelli, a San Mango d’Aquino. Nel cassetto di un vecchio armadio che fungeva da bancone, Gino Marsico, figlio di uno dei proprietari e membro della comitiva, trovò allora un libretto di poche pagine, ingiallito, e sulla copertina c’era scritto: “Domenichino Adamo – Musa Bruzia – Brooklyn, N.Y. – 1932”. Lo aprii e lessi la prima poesia: “Cara Zampugna”. Da allora la curiosità per Domenico Adamo non ebbe più fine, ed il mio interesse è stato costante negli anni. Rovistando nell’Archivio dello Stato Civile del Municipio sono riuscito a recuperare il registro che conteneva l’atto di nascita. Venni a sapere che il 5 settembre del 1888, alle ore 8:20 pomeridiane, nella casa di via Arella nasceva, da Francesca Tomaino e da Giuseppe Adamo, muratore di anni 28, un bambino al quale veniva dato il nome di Domenico. La mattina dopo il bambino venne dichiarato all’anagrafe, testimoni Saverio Notarianni, contadino, e Virgilio Torchia, barbiere; Ufficiale di Stato Civile Alfonso Maria Angotti. Il vecchio registro comunale riportava un’altra annotazione: sposato il 3-12-1910 con Ferraro Francesca di Tommaso e di De Cicco Domenica; morto nel 1964 in America. Questo è ciò che di Domenico Adamo riuscii a sapere dagli archivi municipali. Ma la ricerca continuò altrove. Accompagnato da Giacinto Terenzio, che assieme agli altri amici della comitiva frequentava quella che noi chiamavamo gioiosamente la bettola, mi rivolsi ad Annibale Berardelli, mitica figura di emigrato che in America aveva ricoperto incarichi di prestigio nella polizia federale e nella carriera diplomatica e che, una volta collocato in pensione, era venuto a trascorrere gli ultimi anni della sua vita nel paese natio. Annibale Berardelli mi fornì notizie essenziali sulla vita di Domenico Adamo, e mi parlò anche della bottega di sarto che il poeta aveva avviato a Brooklyn e che era diventata luogo di ritrovo e punto di riferimento per molti artisti emigrati. Da quella prima raccolta di notizie si è sviluppato un lavoro che è continuato negli anni e che mi ha portato ad avere, oggi, un quadro completo della vita e dell’opera di questo personaggio che, sotto diversi aspetti, rappresenta il paradigma del sammanghese di una volta. Dopo alcuni incontri con Emilio Frangella, direttore di “Calabria Letteraria”, il quale fu per un certo periodo in corrispondenza con Domenico Adamo, ebbi altri contatti con gente emigrata; qualcuno mi parlò del figlio di Francesca “a zoppa” perché nel paese aveva letto le lettere del sarto alla vecchia madre, mentre Antonio Chieffallo, emigrato residente a Cleveland, nell’Ohio, mi spedì un fascicolo contenente alcune poesie. Infine, dopo vari tentativi, ecco l’incontro determinante con alcuni membri della famiglia di Domenico Adamo: Adelina, la figlia più piccola, nata in America e sposata con un professore del New Jersey, e Beatrice, la figlia più grande, nata a Savuto e rimasta sempre in Italia. A loro ho consegnato copia di tutto ciò che avevo scritto su Domenico Adamo: un articolo pubblicato a Nicastro nel 1966 sul giornale degli Scout; un articolo del 1975 ed uno del 1980 pubblicati sulla rivista “Calabria Letteraria”; un opuscolo di 18 pagine ciclostilato in proprio nel 1982 e diffuso in cento copie; e infine una copia del primo libro di storia, folklore, tradizioni e poesia su San Mango d’Aquino, scritto nel 1977 e contenente diverse poesie di Domenico Adamo. Adelina e Beatrice si mostrarono sorprese per l’attenzione e l’interesse suscitati, e recatesi a visitare la casa paterna, a San Mango d’Aquino, notarono il fatto che molta gente ricordava ancora il poeta e lo chiamava Domenichino, il diminutivo che affettuosamente gli avevano dato parenti ed amici. Quegli incontri mi hanno dato la possibilità di conoscere meglio il poeta: personaggio timido e modesto, mite e gioviale, schivo e solitario, con animo oscillante tra il ricordo e la speranza. Egli visse sempre lontano dal mondo della cultura ufficiale, e preferì passare il tempo dedicato all’arte insieme con pittori, poeti e narratori che si raccoglievano nel chiuso della sua bottega di sarto, lungo i viali di Brooklyn, oppure si ritrovavano in casa di amici o nei ristoranti per le cene conviviali. Riservato al massimo, preferiva nascondere persino il giorno della nascita per non festeggiarne la ricorrenza: «Noi con lui non siamo mai riuscite a conoscere il giorno esatto del suo compleanno», hanno dichiarato a questo proposito le figlie. Non partecipò mai a concorsi letterari, eppure nel 1959 un’associazione con sede in Belgio gli assegnò una medaglia d’onore per elevati meriti sociali. Dopo l’incontro avuto in Calabria, Adelina mi scrisse una lettera dall’America dove – fra l’altro – così si esprimeva: «…Papà parlava spesso della sua terra natia. Quando ho letto il libro su San Mango l’ho fatto anche per lui, perché so che l’avrebbe goduto molto…». Parole che confermano quanto amore Domenico Adamo ha avuto per la sua terra d’origine. Un amore che gli ha dato la forza di sperare fino alla fine in un nuovo viaggio in Calabria, dove non tornava da più di 40 anni; ma questo viaggio non ebbe luogo, perché una sera il poeta non tornò a casa. Lo cercarono per molte ore, nella bottega e per le strade, ma lo ritrovarono in un letto d’ospedale, in coma, vittima di un incidente stradale; dal momento dell’investimento non aveva più ripreso conoscenza, e qualche giorno dopo Domenico Adamo morì. Era il 10 marzo 1964. Sono passati circa quarantacinque anni da quando ho letto la sua prima poesia, ed oggi ho chiara nella mente tutta la vicenda umana e poetica di Domenico Adamo; una vicenda racchiusa tra i luoghi dell’infanzia, le idee giovanili, l’incomprensione dei contemporanei, gli ideali della maturità, le illusioni della rivoluzione comunista, il desiderio di cambiamento, la partenza per l’America, il lavoro, una buona posizione economica, la famiglia, e poi ancora il ritorno in Italia, la rabbia per l’avvento del Fascismo, la ripartenza per l’America, la depressione di Wall Street del 1929, la tenacia, il ricominciare di nuovo, la nascita dei figli, i ricordi, la nostalgia, la bottega con le tendine abbassate e lui dentro che scriveva o dipingeva, gli incontri con gli altri artisti emigrati… Attimi di vita, episodi, sentimenti, circostanze comuni ad una schiera innumerevole di uomini e di donne costretti a scegliere la via dell’emigrazione per dare un senso ed uno scopo alla propria esistenza. Nel periodo che va dal 1880 al 1924 più di 4 milioni e mezzo di italiani varcarono i confini degli Stati Uniti, e più tardi altri ancora partirono verso i paesi europei, il Canada, l’Australia. Dalla Calabria partono ancora oggi e gli emigrati, in massima parte giovani, si portano dentro la speranza di una vita migliore. In molte parti del mondo questi emigrati, per mantenere il legame con la propria terra, sono riusciti a creare un altro paese, simile per dialetto, per costumi e per tradizioni a quello lasciato; un paese doppio, un paese sosia, dove l’emigrato che non riesce a vivere lontano – scrive Vito Teti – torna con il pensiero alle origini, vive il paese come sua ombra perduta, abbandonata o venduta. Molti centri della Calabria hanno in America i loro paesi doppi; lo stesso luogo di origine di Domenico Adamo, per esempio, ha sviluppato attorno alla “San Mango d’Aquino Society” di Scranton, in Pennsylvania, un sodalizio di grande importanza, mentre altre associazioni vanno nascendo (ultima, in ordine di tempo, quella di Winnipeg) e intere vie di Montreal, Toronto, Cleveland, Sault Ste Marie sono occupate da famiglie di emigrati provenienti dallo stesso paese. Ed è lì, in quelle contrade oltre Oceano, che la comunità degli emigrati cerca di ricostruire l’ambiente lasciato in Italia. Anni addietro ho ricevuto una lettera da Antonio Chieffallo, emigrato a Cleveland (Ohio, Usa), con la quale mi trasmetteva un ritaglio del giornale Il popolo italiano di domenica 23 settembre 1951. Nell’articolo c’era scritto: «Un gruppo di sammanghesi di Cleveland celebrano la festa della Madonna Maria SS. delle Grazie, che si venera in San Mango d’Aquino, provincia di Catanzaro, ogni prima domenica del mese di giugno. Lo stesso gruppo si è recato al Metropolitan Park per festeggiare religiosamente la festa del loro paesello natio. La cerimonia rappresentava il simbolo di fratellanza cattolica per la prima volta in questa città di Cleveland. E si è svolta con la speranza che l’iniziativa possa essere continuata allo scopo di realizzare una piccola colletta che contemporaneamente verrebbe spedita in Italia, dove la festa campestre godrebbe di questa beneficienza». «Come è commovente vederli raccogliersi sotto le bandiere dei maggiori da loro venerati», ha scritto Guido Cimino a proposito dei lavoratori italiani all’estero; «Lo si è visto quando si è spento l’astro di Michele Pane, e creare le loro riviste, fatte alla buona, con molto cameratismo, ma sempre con molta intelligenza, per dare al minuto popolo d’Italia che vive sotto altro cielo “la Parola” della cultura, o il “Compasso” per la misura delle proprie e delle altrui forze, o la civetteria di una bella edizione che faccia colpo anche sui letterati rimasti al paese a sbarcare faticosamente il loro lunario…». Sensi di solidarietà e di fratellanza, brandelli di umanità che sono rimasti vivi nelle comunità di emigrati e che resistono al tempo, come mi conferma continuamente Giovanni Chieffallo, pure lui originario di San Mango ed emigrato in Canada, socio fondatore e poi presidente dell’Associazione “Calabresi nel mondo”, un sodalizio che ha tenuto nel 1983 la sua prima assemblea di fondazione e che pubblica a Montreal la rivista “l’altra Calabria”. Sentite come Francesco Greco, uno dei tanti poeti italo-americani del Novecento, ricorda l’incontro con Domenico Adamo: «Andavo di tanto in tanto a far visita ad Eugenio Adamo che risiedeva a Read Bank nel New Jersey; vi si andava volentieri - specie d’estate - per godere le bellezze di quel meraviglioso paesaggio e della superba spiaggia di Long Beach - ritrovo aristocratico - molto vicino a Read Bank. Passavamo bellissime ore, parlavamo dell’Arte, di sogni e della nostra cara e tanto amata Calabria. Il caro Eugenio – ora da anni passato a miglior vita – mi disse di avere un cugino a Brooklyn, non molto lontano da dove abitavo io, e mi diede il suo indirizzo. Fu così che incontrai Domenico Adamo…». Il nostro poeta, dopo il suo primo viaggio in Italia, aveva ripreso a scrivere, ispirato forse dai canti di Michele Pane ed incoraggiato dai giornali locali come “La verità”, “Il progresso italo-americano”, “Scrittori Calabresi”, “La follia di New York”. Era così entrato nel mondo vasto ed affascinante degli artisti italiani all’estero, ed aveva fatto la conoscenza di poeti, scrittori, musicisti, i quali erano soliti riunirsi e dar vita ai loro famosi incontri conviviali al Leone Restaurant, nella quarantottesima strada di New York City. Uno di questi giornali, “La follia di New York”, era stato fondato da Alessandro Sisca (padre calabrese e madre napoletana), nato nel 1875 ed emigrato in America nel 1892, autore della canzone “Core ‘ngrato”, scritta in dialetto napoletano con lo pseudonimo di Riccardo Cordiferro. È a lui, a Riccardo Cordiferro che tante volte aveva inserito le sue poesie nell’angolo dei poeti ritagliato sul giornale, invitandolo a continuare a cantare sempre «come l’usignolo che canta nell’ombra per rallegrare la sua solitudine», è a lui - dicevo - che Domenico Adamo dedicherà, in memoria, la lirica “Qual fulgente stella”, definendo il Sisca «guida che ci ammaestra e ci affratella verso la meta dell’umanità». E dopo la pubblicazione delle liriche su riviste e giornali, dopo l’uscita dell’antologia di Spataro e dopo le due edizioni di Musa Bruzia, la vicenda umana di Domenico Adamo continua; nell’animo del poeta ritornano i ricordi, e con i ricordi ritorna travolgente la nostalgia. Ma, all’improvviso, ecco la morte porre fine alla sua avventura terrena. Il 5 settembre 1988 è stato il centenario della nascita di Domenico Adamo, e per l’occasione ho scritto e pubblicato il libricino di 56 pagine dal titolo “Domenico Adamo, un poeta e la sua terra”. Lo scopo della pubblicazione era colmare una lacuna della letteratura calabrese e rendere omaggio ad un figlio della nostra terra tanto coraggioso quanto dimenticato. Ho fatto tutto in via autonoma, dopo aver atteso invano risposte dagli Enti Locali ufficialmente interpellati. Ma a mantenere vivo il ricordo di Domenico Adamo non c’è stata solo la pubblicazione del 1987, a seguito della quale Felice Manfredi (illustre personaggio di San Mango diventato uno dei più valenti avvocati del suo tempo) mi ha invitato ad andare avanti nelle ricerche fino ad arrivare ad una «presentazione di tutti i Nostri che, all’Estero, nel lavoro indefesso e nel tormento della lontananza, tengono alto il nome di San Mango, e lo rinnovano ogni giorno col loro sacrificio». Dieci anni prima, nel 1977, Domenico Adamo era stato ricordato nel libro “San Mango d’Aquino. Storia folklore, tradizioni, poesia”, un’opera monografica oggi introvabile, e per questo digitalizzata e riproposta in versione Pdf sul sito www.sassinellostagno.it. Il libro raccoglie gli scritti più significativi di alcuni uomini di questo paese, e presenta una visione fino a quel tempo sconosciuta della cultura e dell’intelligenza sammanghese. La terza parte di quel volume, dedicata alla Poesia, è stata aperta da Domenico Adamo, e assieme a lui, a comporre l’antologia degli autori sammanghesi, sono stati chiamati Pietro Arcuri, Carmine Bonacci, Antonio Chieffallo, Eugenio Chieffallo, Francesco Cimino, Nicolino Ferlaino, Carmine Augusto Ferrari, Franca Ferrari, Felice Manfredi, Francesco Orazio Manfredi, Matteo Manfredi, Luigi Marsico, Franco Mendicino, Arturo Moraca, Armando Orlando, Maria Grazia Trunzo, Oreste Trunzo. E nel 1983 tre consiglieri comunali avevano ufficialmente chiesto al Sindaco di istituire a San Mango un Premio di Poesia dedicato a Domenico Adamo. L’istituzione del Premio è stata sollecitata a più riprese, ma nulla si è allora mosso. L’associazione Valle del Savuto, fondata da Alfredo Chieffallo nel 1990, ha invece distribuito gratuitamente il libricino “Domenico Adamo, un poeta e la sua terra” nel corso di numerose manifestazioni culturali e musicali. E centoventi copie di quel breve saggio su Domenico Adamo, risultato poi finalista alla XXVI Edizione del Premio Calabria di Villa San Giovanni, sono state donate alla Scuola Media Statale di Nocera Terinese (Cz), per essere distribuite agli alunni della terza classe dei plessi scolastici di Nocera e di San Mango; per questo gesto, in data 15/01/1991 il Preside Angelina Ariganello Esposito ha scritto una lettera di ringraziamento all’associazione. Nel mese di giugno 2004, per ricordare il 150° anniversario della Cona Bonacci, è stato scelto Domenico Adamo, e sul retro della cartolina commemorativa, distribuita ai fedeli al passaggio della processione, sono stati inseriti i primi quattro versi della poesia Preghiera dedicata alla Madonna della Buda. La foto di copertina che accompagna questo libro raffigura l’abitato di Savuto e, sullo sfondo, il paese di San Mango, i due luoghi più importanti della vita di Domenico Adamo, prima della partenza per l’America: a San Mango è nato e ha trascorso la giovinezza, a Savuto ha trovato moglie ed è nata Beatrice, la prima figlia. In nome di questi rapporti e di queste relazioni (che sono stati costanti nei secoli) i comuni di Cleto (Cs) e di San Mango (Cz) hanno celebrato nel 2006 il loro Gemellaggio, facendo dire all’allora sindaco di Cleto Amerigo Cuglietta: «Così come arbusti e uliveti trovano nel Savuto il contributo alla vita, un rinnovato incontro tra le comunità apre nuovi scenari, perché la memoria si nutre del dialogo e il futuro scaturisce dalla consapevolezza. Così l’acqua del fiume si unisce al calore della passione mediterranea e la terra diventa una perché uno è il vento che attraversa le case e accarezza le persone». E siamo così arrivati al 2010. Con la pubblicazione di questa seconda edizione dedicata al poeta e alla sua terra si chiude il cerchio delle ricerche condotte su Domenico Adamo, e termina pure il mio impegno letterario per San Mango d’Aquino. Dopo 45 anni di lavoro e dopo aver dedicato a questo paese più di mille pagine tra libri, riviste, giornali e web, è bene lasciare il campo ad altri giocatori. Con la speranza che questi nuovi giocatori sappiano ripristinare quei meccanismi sociali che legano l’esperienza del presente a quella delle generazioni passate. Il compito di chi scrive è di ricordare ciò che gli altri hanno dimenticato. La storia non è un insieme di dati acquisiti o scontati; la storia è fatta di eventi in movimento, e conoscere e capire questi eventi allarga gli orizzonti della mente. E non solo. Recuperare la memoria storica significa cercare nel passato quelle risposte e quelle indicazioni che consentono all’uomo di vivere meglio il proprio presente. A questi principi ubbidisce la pubblicazione del volume, ed il cerchio delle ricerche si chiude perché le tanto invocate autorità civili e amministrative hanno finalmente dato la risposta: Domenico Adamo è ufficialmente riconosciuto come uno dei più significativi poeti di San Mango, alla figlia Adelina è stata conferita la cittadinanza onoraria e gli alunni delle scuole elementari e medie hanno avuto la possibilità di conoscere e di approfondire la figura di questo figlio di una San Mango che non esiste più e che già appartiene alla storia. Armando Orlando San Mango d’Aquino, 26 settembre 2010 La copertina del libro pubblicato nel 1987 Associated Passenger Adamo, Domenico Date of Arrival Feb 09, 1912 Port of Departure Naples Built by John Brown & Company, Clydebank, Scotland, 1904. 9,851 gross tons; 501 (bp) feet long; 59 feet wide. Steam triple expansion engines, twin screw. Service speed 14 knots. 840 passengers (40 first class, 800 third class). One funnel and four masts. Built for Anchor Line, British flag, in 1904 and named Pannonia. London-New York, Mediterranean-New York service. Scrapped in 1922. First Name: Domenico Last Name: Adamo Ethnicity: Italy Last Place of Residence: Catanzaro, Date of Arrival: Feb 09, 1912 Age at Arrival: 23y Gender: M Marital Status: M Ship of Travel: Pannonia Port of Departure: Naples Manifest Line Number: 002 Annotazione dell’arrivo di Domenico Adamo nei registri di Ellis Island nel porto di New York L’Ambiente Una comunità basata sul lavoro e cementata da forme di vita sociale diversificate; una comunità dove i rapporti di parentela, la religione, gli usi e i costumi tenevano legati gli uomini e li facevano dipendere gli uni dagli altri; un paese cresciuto attorno al campanile e chiuso in se stesso, con un’economia ai margini della sussistenza, avvolto in un isolamento secolare, lontano dalle grandi correnti di traffico; una società caratterizzata dall’insicurezza e dalla fatica quotidiana, ma ricca di feste, tradizioni, abitudini, valori… Un paese dove la gente passeggia, la sera, sulla strada principale, ed è qui che avvengono gli incontri e che nascono i primi amori; un paese dove l’intellettuale, il commerciante e l’artigiano frequentano il bar, mentre il contadino si accontenta dell’osteria; un paese dove mariti e mogli non si mostrano mai insieme, e sulla strada camminano uno davanti e l’altra dietro; un paese dove la piazza diventa il centro della vita e dove gli uomini si dispongono in cerchio davanti alla chiesa, ogni domenica, per aspettare l’uscita della Messa e ammirare le donne e le ragazze… È qui che è nato Domenico Adamo, nel mese di settembre del 1888. Un paese che ha per nome San Mango d’Aquino, ma che potrebbe essere un qualsiasi altro paese della Calabria, tanto erano simili le comunità meridionali tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. L’insieme delle condizioni culturali, economiche e sociali, la mentalità, il costume e l’ambiente del tempo influirono notevolmente sulla formazione del poeta, ed i suoi primi 24 anni di vita trascorsi in Calabria, salvo l’esperienza napoletana che durò 6 anni, costituirono una fonte inesauribile di ispirazione per i suoi componimenti. Quegli anni divennero punto di riferimento non solo per il contenuto nostalgico e sentimentale della sua opera, ma anche ed essenzialmente per le poesie “sociali”, in quanto Domenico Adamo portò sempre nel cuore i ricordi di povertà e di arretratezza nelle quali vivevano gli uomini del suo tempo, e gran parte delle sue opere sono dedicate, come vedremo, al riscatto delle popolazioni sofferenti ed oppresse. Le sofferenze dei poveri – ha scritto Jerome Blum nella sua “Storia della civiltà contadina” – non occupano più di qualche pagina nel libro della storia; per le classi dominanti possediamo invece documenti, oggetti, ritratti e case. La poesia di Domenico Adamo, se attentamente analizzata, non solo ci aiuta a comprendere le inquietudini della vita di quel tempo, ma ci conduce verso un filone letterario di crudo realismo che rende onore alla soggezione dei contadini ed alla loro appartenenza a quello che era considerato l’ordine più basso della società; una soggezione e un’appartenenza che si riflettevano nell’atteggiamento delle restanti classi sociali: proprietari terrieri e commercianti, nobili e borghesi, infatti, ne approfittavano per imporre le loro leggi e per godere di privilegi acquisisti con la forza. Esclusi dalla partecipazione attiva alle scelte più importanti della società, delusi dalle promesse di cambiamento propinate per secoli, i contadini erano arrivati ad accettare la condizione di inferiorità e di oppressione senza ribellarsi, subendo di volta in volta i pesi fiscali, i dazi e le gabelle, le decime, le imposte sul macinato e tutti gli altri obblighi di natura feudale, entrati nella consuetudine attraverso un uso immemorabile ed esercitati dalla classe dirigente sempre da posizioni di forza. La società divisa in classi, con deboli e oppressi da una parte e ricchi e violenti dall’altra, sarà un tema costante nella poesia di Domenico Adamo, e queste considerazioni sulla società troveranno conferma anche dopo l’emigrazione, quando il poeta si troverà ad analizzare la complessa realtà di una metropoli come New York. La vita dei contadini in Calabria, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, veniva scandita dall’alternarsi delle stagioni e dal ciclo dell’aratura, della semina e del raccolto; una vita condizionata dall’avventura meteorologica del tempo e caratterizzata dall’avvicinarsi della festa, con rituali legati sia al calendario ecclesiastico che alle attività agricole nei campi. Il paese, il villaggio erano una comunità compatta. Oltre i vincoli di parentela, fra le persone si stringeva tutta una serie di legami materiali e spirituali. Ogni membro della famiglia lavorava, di solito, dall’alba al tramonto per poter guadagnare qualcosa da mangiare o da portare a casa. Ed il villaggio era il mondo del contadino. «Si lavorava assieme, si pregava assieme, ci si riuniva per celebrare le feste e per decidere su argomenti collettivi importanti… Quando si doveva costruire una nuova casa o riparare una casa vecchia o ricoprire un tetto, o c’era bisogno d’aiuto in una situazione d’emergenza, si poteva sempre contare sull’aiuto dei vicini», testimonia ancora Blum. Le funzioni religiose erano tra le attività di gruppo cui tutti erano chiamati a partecipare, e la campana della chiesa scandiva le varie fasi della vita del contadino, dal battesimo al funerale. Ogni paese aveva il suo santo, e ad esso si rivolgevano le persone, per ottenere benevolenza in cielo ma anche per essere aiutate in terra a risolvere i problemi della vita quotidiana. La processione era un rito collettivo e la ricorrenza sprigionava una forte carica di emotività; la partecipazione era corale e tutti i membri della comunità religiosa erano intenti a manifestare la propria fede. La festa riuniva le famiglie, raggruppava le genti sparse della campagna, sottolineava i momenti più importanti della vita dell’individuo e della collettività; era uno strumento per allentare le tensioni della vita quotidiana, una forma di riscatto e di liberazione dalla fatica di un lavoro duro e pesante, oppure dalla miseria e dalla monotonia. Gli stretti rapporti occasionati dalla vita del villaggio avevano contribuito a creare una forte coesione sociale e una coscienza comunitaria: si lavorava assieme, si andava in chiesa assieme, si celebravano assieme le feste, si prendevano assieme decisioni importanti… vi ricordate? E questo avveniva non solo in Calabria. Cesare Marchi, lo scrittore nato a Villafranca di Verona, ci ricorda il tempo «quando si andava a prendere l’acqua al pozzo (sperando, se era inverno, che non fosse gelata); quando i contadini erano tanti e gli operai pochissimi; quando (se tutto andava bene) si mangiava la carne solo di domenica; quando i ragazzi si dicevano “Ti amo” arrossendo; quando un viaggio di trenta chilometri era un’avventura che poi si raccontava agli amici; quando il sabato ci si metteva in camicia nera e si doveva inneggiare al “duce che ci conduce”; quando la parsimonia era considerata una virtù; quando, per sembrare eleganti, si rivoltavano le giacche e si rammendavano i calzini; quando…». C’è ancora gente che ricorda le donne ritrovarsi al fiume per lavare i panni. Oppure fare il bucato con la lissia: lenzuola, federe, tovaglie e asciugamani venivano messi in un grosso recipiente e ricoperti con un telo colmo di cenere prelevata dal focolare o dal braciere; poi, sopra il tutto, si versava acqua bollente; l’acqua filtrava attraverso il bucato e trasportava i principi attivi della cenere, fino ad uscire sporca da un foro praticato in basso al recipiente. C’è ancora gente che ricorda l’attesa della farina nel mulino, mentre gli ingranaggi della macina venivano azionati dallo scorrere lento delle acque… Quelle stesse acque usate per la macerazione del fusto della fibra di lino, che doveva servire per ricavare tessuti e tovaglie per la famiglia. C’è ancora gente che ricorda le feste con gli amici, le serenate, i racconti della nonna e le leggende legate alla notte dell’Epifania, una notte magica: si dice che gli animali parlavano nelle stalle e nelle campagne e, a San Mango, la fontanella della Buda versava olio anziché acqua, e quell’olio veniva usato per alimentare la lampada della Madonna per tutto l’anno. In un sistema così organizzato, grande importanza assumeva il folklore; folklore inteso come assieme di credenze, di usanze, di ricorrenze che spiegano eventi e fenomeni comuni a tutti i paesi rurali della civiltà contadina e che segnano momenti di particolare significato nella vita del villaggio e nella vita di ogni individuo. Folklore legato al ciclo delle stagioni e inteso come il prodotto di una società immobile, conservatrice, frutto di un sistema economico basato su un regime di autosufficienza, avente al centro la famiglia patriarcale, dove i ruoli si presentavano ben definiti e dove la ricchezza era rappresentata dal numero di braccia disponibili, e quindi dai figli. Questa era San Mango nella prima metà del Novecento: un paese povero, con una classe dominante sempre più avara ed esigente e con una massa di contadini e di operai alla mercé dei signorotti locali; ma anche un paese con una propria identità, una propria storia, una propria cultura. Una cultura ricca di tradizioni, che l’avvento del tempo attuale ha disperso, anche perché, negli ultimi anni del Novecento, l’uomo moderno è stato bravo nell’assoggettare alle regole dell’attrazione turistica tutto ciò che rappresentava il patrimonio di un’intera comunità. E così, l’introduzione dei mutamenti tecnologici ha comportato, in molti casi, la scomparsa immediata e completa degli elementi di folklore; in altri casi sopravvivono elementi pittoreschi, separati dal contesto originario e arricchiti di connotazioni nuove; in altri ancora frammenti di usanze e credenze sono trasportati al di fuori della loro sede originaria e trasformati spesso in eventi di città. Là dove sopravvivono manifestazioni locali e costumi popolari, essi sono ormai pubblicizzati come attrazione turistica, mentre le credenze soprannaturali, che un tempo svolgevano un’importante funzione nelle tradizioni delle campagne, sono ora ridotte in forme sempre più frammentate e disorganizzate, fino a diventare il relitto di una cultura che non esiste più. Ecco perché parlare oggi delle condizioni di vita dei contadini, riuscire a far capire all’uomo moderno, alla gente della città, ai giovani le sofferenze e le miserie di quel tempo è impresa assai difficile, perché il villaggio come lo abbiamo descritto fino ad ora non esiste più: è diventato villaggio globale (tanto per usare una locuzione coniata negli anni ’60; M. Macluhan, The Gutenberg Galaxy, New York 1962). È impresa difficile perché, come scrive Eric J. Hobsbawm, «la distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono». Tutto un mondo di tradizioni, costumi, dialetti, arte, musica, canti, laboriosità è stato travolto di colpo dall’avanzata del mondo dell’industria, e tutta una cultura che costituiva la storia stessa dell’uomo è stata condannata e negata. «Gli uomini hanno perduto il legame che li univa al mondo della natura, e perciò all’idea dell’infinito», ci ricorda il regista Vittorio De Seta nel film documentario In Calabria, girato nel 1993. «Hanno dimenticato che l’umanità progredisce non in virtù dell’appagamento dei bisogni materiali, ma soltanto in virtù delle forze spirituali. Con questo è venuta meno la capacità di dare un senso alla vita, di riconoscere tutti insieme la coscienza che è in noi di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che è importante e di ciò che non lo è». La tradizionale comunità di villaggio è dunque finita, cancellata dalla trasformazione nella vita rurale e travolta dalla tecnologia del tempo moderno; e non può esserci più alcun posto per cerimonie religiose del passato, né per credenze connesse con l’aratura e la mietitura, una volta che si sono affermati il trattore e la mietitrebbia. A parte la nostalgia che il declino di questa civiltà può suscitare («Il buon tempo antico? Tutti i tempi, quando sono antichi, sono buoni», dice George Gordon Byron), restano le testimonianze di una vita dura, in un equilibrio precario e spesso ai margini della sussistenza. Per rendere comprensibili quelle avversità, basti solo un esempio: nelle comunità rurali di tutto il Mezzogiorno, fino ai primi anni della seconda metà del Novecento, la vita con gli animali in casa era normale in molte famiglie della Calabria, le quali soffrivano non solo per il cibo e per il vestire, ma anche per le condizioni igieniche delle abitazioni. Le foto a lato sono una testimonianza eloquente del modo di vivere di quegli anni. Una è di Valentino Petrelli, scattata nel 1948 ad Africo, in provincia di Reggio Calabria; l’altra è di Franco Pinna, del 1957, e descrive l’interno di un’abitazione povera di Nicastro, in provincia di Catanzaro. I pochi locali disponibili, costruiti con il legno, le pietre, la creta, dovevano essere divisi con gli animali domestici, i quali costituivano spesso una preziosa ed insostituibile fonte di reddito per le famiglie numerose; e nelle piazze della Calabria, al culmine dell’anno agricolo, già all’alba entrava in funzione il più rozzo mercato del lavoro: decine di braccianti in fila ad attendere la chiamata del signore feudale prima e del proprietario terriero poi. Chi non trovava lavoro se ne andava in silenzio, e nessuno si prendeva cura dei disoccupati. In una società così strutturata, tra una classe dominante ed un ceto operaio e contadino immiserito, trovavano posto, accanto a mestieri tradizionali di sarto, barbiere, muratore, calzolaio, falegname, fabbro ferraio e carpentiere, molte altre attività legate al mondo rurale: il maniscalco che lavorava i ferri per il cavallo, il bottaio che preparava le tinozze con doghe e cerchi in ferro, il cestaio, le donne che filavano e tessevano il lino e la lana, le famiglie che curavano l’allevamento del baco da seta, il mugnaio che macinava il grano con il suo mulino ad acqua… San Mango d’Aquino appariva isolata, immobile nello spazio e nel tempo. Sempre uguale. L’economia è prevalentemente agricola, e le coltivazioni presenti sul territorio sono l’olio, il vino, i cereali e il gelso. Quest’ultima coltura è legata alla produzione della seta ed i bachi sono allevati in notevole quantità dalle diverse famiglie contadine. È il tempo in cui anche i centri più piccoli organizzano una propria fiera; e alla fiera non si va necessariamente per comprare o per vendere, ma anche solo per vedere, per appagare un istinto di socievolezza; è un’occasione per VALENTINO PETRELLI FRANCO PINNA evadere e per distrarsi, è il modo per supplire al difetto delle piazze e di relazioni commerciali aperte. E nelle fiere un posto di rilievo spetta ai crivari. Scrive Clelia Maesano: «I crivi erano fra gli oggetti considerati indispensabili dalle famiglie calabresi. Facevano parte del corredo delle giovani spose ed il loro uso era molteplice. Nelle fiere paesane ai crivi era riservato un apposito settore. Accatastati agli angoli delle piazze e delle vie, ne trovavi tali e tanti che c’era l’imbarazzo della scelta». La ruga rappresenta il nucleo principale del paese, vero e proprio raggruppamento di famiglie unite da vincoli di solidarietà; un luogo dove le donne passano il tempo sedute sull’uscio di casa, si salutano, si scambiano il lievito per il pane, intrecciano relazioni e attendono gli uomini che tornano dal lavoro. Per anni, per secoli San Mango è sempre uguale. Sempre lontana dalle principali vie di comunicazione. Il centro abitato è collegato con i paesi che scendono verso il mar Tirreno tramite una strada rotabile costruita nel 1876, che parte dal Bivio-Bagni nei pressi di Caronte e arriva a San Mango dopo aver attraversato Gizzeria, Falerna e Nocera Terinese. Mentre i collegamenti con i centri della montagna sono assicurati da una mulattiera che attraversa il Piano delle Sorbe, il luogo dove sorge attualmente Martirano Lombardo. La strada mulattiera diventa carrozzabile solo nel 1905, allorquando, dopo il terremoto che distrugge l’antica Martirano, le autorità civili e militari migliorarono la viabilità per facilitare il trasporto dei materiali e degli attrezzi occorrenti per la ricostruzione. Sempre uguale, per secoli. Poi, nella seconda metà del Novecento, l’Italia contadina diventa industriale e prende l’avvio una nuova fase storica. Per il Meridione, per la Calabria, e pure per San Mango. Emigrazione, intervento straordinario, Cassa per il Mezzogiorno, riforma agraria, leggi speciali, opere infrastrutturali, avvento di nuovi soggetti politici sono avvenimenti che mettono in moto un processo di trasformazione che diventa inarrestabile. E poi l’arrivo della televisione: «Una rivoluzione antropologica, dice Cesare Marchi, quella che gli specialisti chiamano accelerazione storica, lo stiparsi di tanti e contrastanti eventi in sì breve arco di tempo». C’è stato, senza dubbio, un enorme dispendio di energie e di capitali, ma la piaga dell’analfabetismo è stata debellata e le condizioni della vita materiale dei cittadini sono migliorate. Sono migliorate di gran lunga. Anche se lo sviluppo non ha determinato il progresso. «Cos’è rimasto?», si chiede De Seta nel film documentario sulla Calabria del 1993. «Una regione con tanti fantasmi di fabbriche, tanta gente emigrata, tanti paesi spopolati, e altri sommersi dalle nuove costruzioni, frammisti a villaggi turistici, a capannoni, a snodi ferroviari. Tutto alla rinfusa, senza un disegno, come in un gioco insensato». Ecco. Il mondo in cui è vissuto Domenico Adamo non c’è più, è scomparso. È facile fare oggi un confronto meccanico tra sviluppo e arretratezza, tra modernità e tradizione. È facile, ma è pure superficiale. Quello che a noi interessa sottolineare, in questa sede, è il fatto che la scomparsa della civiltà contadina ha portato con sé il senso della solidarietà acquisito dalla gente del villaggio nel corso di secoli di vita in comune; un senso di solidarietà che ha trovato la sua massima espressione in usi e costumi, feste e tradizioni le cui origini sono antiche; un senso di solidarietà che in questo tempo quotidiano si presenta a noi solamente come ricordo del passato: il nostro passato dimenticato. Un ricordo che è diventato memoria storica; e la memoria viene alimentata dalle immagini fotografiche e dagli scritti. Domenico Adamo, che ha conosciuto la realtà tipica della civiltà contadina e che dopo la partenza per l’America ha sempre portato nel cuore le aspirazioni delle classi umili, ha rappresentato egregiamente questo mondo scomparso, grazie alle sue idee, ai suoi canti, alla sua religiosità, al suo sentimento, ma anche grazie al suo amore per la libertà, al suo coraggio, alla sua tenacia nel difendere la dignità delle persone umane, vivendo sulla propria pelle le tristi esperienze dell’abbandono e dell’emigrazione. La sua opera, tuttavia, non si è limitata a rappresentare l’esistente né a rimpiangere nostalgicamente il passato: essa è andata oltre, levando un grido di protesta per le ingiustizie del tempo ed inchiodando alle proprie responsabilità gli oppressori, i violenti, i manipolatori di una società basata più sul profitto che sulla solidarietà umana. Per tutti questi motivi, la vita e le opere di Domenico Adamo meritano ancora di essere indagate, comprese, approfondite e discusse. A questo scopo è finalizzata la pubblicazione di questa nuova opera a lui dedicata. FRANCO PINNA MARIALBA RUSSO FOTO DE VINCENTIS FOTO STEFANI La vita Domenico Adamo nacque a San Mango d’Aquino nel mese di settembre del 1888. Il padre, Giuseppe, veniva da una famiglia di muratori; la madre, Francesca Tomaino, veniva da una famiglia di proprietari. Il fratello del nonno materno, Pietro Tomaino, fu sacerdote e poeta. Egli frequentò le scuole elementari nel paese e prestò la sua opera di apprendista presso un sarto. Nel 1902 andò a Napoli a specializzarsi nel mestiere, e restò nella città partenopea fino al 1908. Ritornato a San Mango, aprì una sartoria ma nel 1910 si trasferì a Savuto di Cleto (CS), dove sposò Francesca Ferraro, figlia di Tommaso, commerciante. A Savuto nacque la sua prima figlia, Beatrice, la quale sposò Giacomo Perri e visse a Roma con la famiglia. Nel 1912 partì per l’America dove incontrò i fratelli della madre, e si stabilì a Brooklyn, New York. In seguito fu raggiunto anche dalla moglie. A New York aprì una sartoria, e con i proventi del mestiere mandò avanti la famiglia, composta dalla moglie e da altri tre figli: Tommasina, Giuseppe e Adelina. Nel 1923 ritornò in Italia e soggiornò a Cosenza. Entrato in contatto con i principali poeti calabresi, perfezionò il suo dialetto, ed una volta tornato in America riprese a scrivere con rinnovato impegno. Pubblicò una prima raccolta di poesie nel 1932 a Brooklyn, New York, dal titolo ”Musa Bruzia”, dedicata «alla memoria di Giacinto Ferrari, giovane onesto, gentile e generoso, che visse modestamente, lavorando ed aiutando l’amico bisognoso». Il volumetto si componeva di dieci poesie in vernacolo e quattro in italiano. Successivamente, le opere di Adamo furono inserite nell’antologia “Poeti calabresi in America”, curata da Pasquale Spataro, ed il suo nome figurò accanto a quelli di Michele Pane, Antonio Fiorentino, Francesco Greco, Francesco Sisca ed altri. Nel 1956 pubblicò una nuova raccolta di poesie in Italia, per i tipi dell’Editrice La Nuova Italia Letteraria di Bergamo, e nell’inviare il manoscritto all’editore, così Domenico Adamo si esprimeva: «Io sono un sarto e tuttora lavoro per sostenere la famiglia. Nacqui a San Mango d’Aquino, provincia di Catanzaro, nel 1888. Mio padre era muratore; molte delle case esistenti nel mio paesello furono costruite da lui. Verso il 1902 mi recai a Napoli per imparare il mestiere del sarto. Napoli è una città poetica, ma in quei tempi altro che poesia, là si trattava di “sbarcare il lunario”. Dimorai a Napoli diversi anni; dopo ritornai in paese dove misi una sartoria restando così fino al 1912, quando decisi di venire in America dove mi trovo tuttora. L’emigrato per potersi stabilire qui deve superare tanti ostacoli, e poi non potrà mai essere felice. Per chi non è nato qui, questa terra sarà sempre un esilio! Qui la nostalgia vi assale, e la poesia ci viene spontanea come il pianto. Io che avevo perduto il dialetto calabrese a Napoli, l’ho ritrovato qui, sognando. Da molti anni avrei voluto vedere i miei versi diffusi nelle mie desolate regioni, ma ne ho visto l’impossibilità e ne ho sentito un senso di scoraggiamento. Adesso anche là si pubblicano dei giornaletti. Le invio questo mio volumetto “Musa Bruzia”. Voglio sperare che le piacerà ». Il volumetto, come sappiamo, è piaciuto. La Nuova Italia Letteraria lo ha pubblicato e l’Introduzione è stata scritta da Angelo M. Virga, il quale così conclude: «Ecco perché crediamo presentare questi poeti italo-americani, poeti sinceri che ci portano il profumo dell’anima, il tormento, le lacrime, l’indignazione contro le brutture sociali, e la difesa della giustizia, l’inno all’amore della famiglia, alla Patria, alla fratellanza e alla Natura. Questo è Domenico Adamo». Un anno dopo, nel 1957 la stessa Casa Editrice ha inserito alcune poesie di Adamo in una Collana di poeti italo-americani stampata sempre a Bergamo. Nel 1960 fu pubblicata una edizione completa delle sue opere, sempre dal titolo “Musa Bruzia”, e nel volume, oltre alla produzione letteraria, sono inserite foto di famiglia, riproduzioni di quadri e dipinti e numerose recensioni. Una terza edizione di “Musa Bruzia” vede la luce per i tipi dell’Editrice M.I.T. di Corigliano Calabro, Cosenza. Domenico Adamo fu anche un valente pittore, ed i critici hanno scritto che i suoi quadri “palpitano di calda umanità e di composta delicatezza, tra una piena corrispondenza di piani e di colori amalgamati dall’indissolubile vincolo dell’arte”. Egli fece parte di un Circolo di Pittori scandinavi, e fu molto amato ed apprezzato. Morì nel 1964, in America, con la speranza di tornare a San Mango per vedere i luoghi che lo avevano visto nascere e dove aveva vissuto l’infanzia e la giovinezza. Domenico Adamo nel 1910 Domenico Adamo nel 1956 La Poesia Un giorno chiesero a Federico Garcia Lorca cosa pensasse della Poesia. Il grande poeta spagnolo, fucilato dai falangisti durante la guerra civile del 1936, rispose: «Ma cosa volete che vi dica della poesia? Cosa volete che vi dica di queste nubi, di questo cielo? Guardare, guardare, guardarle, guardarlo e nient’altro. Capirete che un poeta non può dire nulla della poesia. Lasciamo dire tutto ai critici e ai professori. Ma né voi, né io, né alcun altro poeta sa cos’è la poesia. Sta qui, guardate. Ho il fuoco nelle mie mani. Lo sento e lavoro con lui perfettamente, ma non posso parlare di lui senza letteratura. La poesia è qualcosa che va per le strade. Che si muove, che passa al nostro fianco. Tutte le cose hanno il loro mistero, e la poesia è il mistero che contiene tutte le cose. Per questo concepisco la poesia come cosa realmente esistente, che mi passa accanto, e non come astrazione». Nessuna definizione può dunque essere valida per la poesia, che non è una corrente statica, ma qualcosa di fluido che spesso sfugge alle mani dello stesso suo creatore. La sua materia prima, diceva Pablo Neruda, è composta da elementi che sono e che al tempo stesso non sono; di cose esistenti ed inesistenti, ed i versi assumono significati diversi, esprimono concetti e sensazioni che non si possono ricondurre sul piano della ragione, escono da schematismi prestabiliti e lasciano dietro una diversità di stati d’animo, permettendo al lettore la libertà di crearsi immagini ed emozioni corrispondenti alla sua stessa dimensione umana. Per comprendere la poesia di Domenico Adamo e per capire il messaggio che essa racchiude è necessario considerare la peculiarità del momento e conoscere la realtà storica dell’epoca, ricordando in quali condizioni si svolgeva la vita nei paesi e nelle campagne. «Il tempo dell’uomo era legato alle stagioni», ci ricorda De Seta. «C’era un tempo per seminare, uno per raccogliere, uno per riposare, uno per festeggiare, e questo tempo era immutabile. Si aiutavano l’un l’altro, per mietere un campo, per coprire il tetto di una casa, per spegnere un incendio, per soccorrere un malato. Occorreva l’aiuto reciproco, e questo portava alla solidarietà, all’amicizia. Il ritmo della vita non si poteva cambiare. I rapporti degli uomini con la natura, con i propri simili, si erano fissati, ritualizzati attraverso i millenni, nella lotta per sopravvivere. E perciò cambiare sarebbe stato un rischio, una trasgressione». La realtà economica e sociale di quegli anni era ancora dominata dal potere di pochi, i quali, avvalendosi di un sistema molto vicino al feudalesimo, si arricchivano esercitando un pesante sfruttamento sulle altre classi del popolo. Contro quella realtà Domenico Adamo si ribellò. Schietto nel parlare, coraggioso nel rimproverare ai signori le loro angherie, capì le aspirazioni del popolo, le fece sue e le difese fino all’ultimo, pagando di persona. Visse in povertà il primo periodo di una vita intensa e dolorosa, fu ingannato dagli amici, perseguitato dai ricchi e dai potenti, abbandonato da tutti e costretto ad emigrare, nella speranza di trovare al di là dell’Oceano migliori condizioni di vita. Ma questa sua attesa andò subito delusa. Giunto in America, si accorse che ovunque era il povero a soffrire, a sopportare una vita di stenti e di dolore, e le poesie in dialetto costituiscono una valida testimonianza di questo primo periodo di vita, culminato con l’emigrazione e con l’impatto con la realtà americana. Poi il lavoro a Brooklyn gli assicurò una modesta condizione di vita, ed altri pensieri, altri sentimenti, altri motivi di ispirazione si fecero strada nell’animo del poeta. Se da un lato l’America non figurava più come la terra promessa, dall’altro il paese natio gli appariva come un sogno, con i suoi profumi, i suoi paesaggi, i suoi tramonti. Nostalgia per la terra natale e rimpianto per il tempo passato costituiscono spesso i sentimenti tipici di un’esistenza che sembra voglia superare e colmare il solco dell’amarezza e del dolore. Sincerità d’animo, spontaneità di sentimenti, amore per le cose semplici e naturali sono i temi dominanti delle poesie in italiano. Poeta di finissima sensibilità, seguì con interesse lo svolgersi degli avvenimenti che caratterizzavano il suo tempo. In particolare, salutò l’avvento del comunismo come un’occasione di liberazione per le masse popolari che vivevano nella miseria e nell’abbandono. In una Pietroburgo capitale della Russia zarista e simbolo della società borghese ottocentesca, il 23 febbraio 1917 le operaie e le casalinghe, esasperate dalla mancanza di pane, erano scese in piazza, seguite immediatamente da operai in sciopero. La truppa si rifiutò di sparare sui manifestanti, e fu l’inizio dell’insurrezione. Si formarono i soviet, consigli di operai, soldati e contadini, e nacque l’utopia di una democrazia diretta permanente. Era la rivoluzione di febbraio, nata spontaneamente in una Russia arretrata e stremata dalla guerra, a cui fece seguito la rivoluzione di ottobre. Lenin intuisce ciò che le masse volevano e lancia lo slogan “Pace e Terra”, la bandiera rossa sventola sul Cremlino, il governo provvisorio è abbattuto dai bolscevichi e sul grande disordine che sconvolgeva la Russia di quel tempo viene impiantata la dittatura del proletariato. «Tutto il potere ai soviet». È l’inizio della nascita di un mito: il comunismo porterà Progresso, Giustizia e Felicità. La Rivoluzione d’Ottobre è universalmente riconosciuta come un evento capace di sconvolgere il mondo, ma il papa polacco Karol Wojtyla, sul finire del Novecento, dirà: «Ciò che chiamiamo comunismo ha la sua storia: è la storia della protesta di fronte all’ingiustizia […]. Una protesta del grande mondo degli uomini del lavoro, che è divenuta un’ideologia. Il comunismo ha dimostrato di essere una medicina più pericolosa e, all’atto pratico, più dannosa della malattia stessa». A questo mito, al mito del comunismo apportatore di progresso, giustizia e felicità, Domenico Adamo si aggrappa con tenacia, nella convinzione di poter indicare una strada di riscatto ed una prospettiva di speranza a contadini e operai oppressi. I regimi ispirati dalla Rivoluzione d’Ottobre saranno capaci di accelerare potentemente la modernizzazione di paesi agricoli arretrati, e senza l’intervento sovietico a fianco degli Alleati nella seconda guerra mondiale «il mondo occidentale (al di fuori degli USA) sarebbe stato governato da una serie di regimi di stampo fascista e autoritario invece che da democrazie liberali e parlamentari». L’osservazione di Hobsbawm è vera. Così com’è vero che la Rivoluzione d’Ottobre produsse il più formidabile movimento rivoluzionario organizzato nella storia moderna. Pietroburgo non sarà più com’era all’inizio del Novecento. Ma la rivoluzione mondiale capace di trasformare l’umanità non ebbe luogo e la Russia sovietica fu consegnata ad un futuro di isolamento e di povertà. Ispirandosi a quegli avvenimenti, Domenico Adamo cominciò a credere in un’epoca nuova, rinnovatrice dei costumi, ed osservò le ingiustizie della vita con un sospiro di rassegnazione e di compatimento, senza lo strascico doloroso del rammarico e della lamentela. A questo filone appartengono le poesie che chiamiamo “sociali”, dove il messaggio è chiaro: «La cagion di questa guerra/viene tutta dalla terra/che fu tolta a chi lavora…”. Dove per terra - scrive Roberto Cervo - bisogna intendere sostanzialmente “tutto ciò che costituisce mezzo di sussistenza, essenziale necessità di vita, elemento base di costruttività e di avvenire; in altri termini il lavoro, se viene degnamente retribuito, procaccia salute e benessere; se al contrario è defraudato, ingannato, senza adeguato compenso, diventa la fornace dell’ira e del malcontento, ove si alimentano odi e furori che piagano ferocemente la collettività sociale, seminandovi l’orrore per le arroganze e gli abusi padronali, da qualsiasi parte provengano». Domenico Adamo credeva in un’epoca nuova, abbiamo ricordato prima. Di Cleto dice: «ha una storia piena di dolore, scritta da ladroni prepotenti, ma ora l’epoca è cambiata, e sono cambiati pure i tormenti…». Ma il poeta si illude. Non tanto perché in quegli anni, in Italia, la direzione del movimento operaio è assunta dai socialisti riformisti, contrari alla linea dei sindacalisti rivoluzionari che avrebbero voluto mobilitare le masse in un’azione diretta contro lo Stato. Ma perché proprio in quegli anni cresce il divario fra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Al Nord aumentano i ritmi di sviluppo e i livelli di reddito, nel Sud l’attrezzatura industriale è scarsa e il tasso medio di crescita della produzione agricola risulta nettamente inferiore a quello delle aree settentrionali. Nel Sud, la sopravvivenza del latifondo ed il conservatorismo dei ceti dirigenti condannano intere regioni alla povertà e al sottosviluppo. Per operai e contadini la valvola di sfogo è l’emigrazione. Tra il 1876 ed il 1900, dalla Calabria erano già partite 275.926 persone; tra il 1901 ed il 1915 ne partiranno altre 603.105. In un secolo, dal 1876 al 1976, lasceranno la Calabria 1.900.000 persone; con destinazione principale i paesi dell’Europa e le due Americhe. Ma, scrive Cervo nell’introduzione al volume Musa Bruzia del 1960, è «importante notare come l’America nei versi del poeta non sia più quella d’una volta di facili fortune e di rapide sistemazioni, ma esigente, impegnativa al massimo e non di rado deludente per chi se l’era figurata presso a poco con le prospettive d’una miniera d’oro». La poesia “Nova Yorka”, composta sull’onda di questa delusione, descrive una società americana dove gli emigrati venivano inseriti nel circuito dello sviluppo capitalistico e allontanati sempre più dai legami con la loro cultura di origine, rendendoli prigionieri di un sistema basato sul profitto e sulla ricchezza. Anche nella descrizione del ritratto paterno, vibrante di affettuose tenerezze, appaiono diversi riflessi autobiografici, sulla scia toccante di malinconiche sofferenze, nella profonda venerazione dei due più alti valori della società: il lavoro e la pace, che si identificano nella piena efficienza della libertà autentica e della vera, attuata democrazia. In Calabria, la classe contadina di quel tempo, rinchiusa nella miseria, murata nella solitudine, viveva in uno stato di completa soggezione, e quando la rassegnazione prevaleva sulla resistenza all’ingiustizia, allora subentrava uno stato di silenzio ostinato. Ecco allora Domenico Adamo che, attraverso le liriche, lancia al mondo degli oppressi il suo messaggio di redenzione, di democrazia e di libertà: Coraggio, o popolo, la pompa, l’arroganza, che sono oggi strumenti di pena, sono destinati a sgonfiarsi come bolle di sapone. “La Terra del Sole” è un grido contro il fascismo, il ventennio nero che in Adamo provoca nausea, e le sue parole si mescolano a quelle di quanti avevano trovato all’estero un’ancora di salvezza dalla violenza e dal vandalismo squadrista. Nella poesia “Duve nascivi” il sentimento del poeta si scioglie sulle corde della nostalgia, nel ricordo della terra natale; in essa figura non solo la tristezza per essere stato costretto a partire, ma anche un senso di commossa ed intima gratitudine verso la terra che lo ha ospitato e che gli ha dato la possibilità di sopravvivere alla povertà. Senso di gratitudine che assume l’aspetto di un vero e proprio inno di gioia. Quella stessa gioia provata da giovane a San Mango, quando di sera percorreva le strette vie del paese ed intonava serenate alle ragazze che si nascondevano dietro i balconi. Serenate rievocate nella lirica “Cara Zampugna”, ricca di suggestiva melodia e di struggenti ricordi. «Poesia popolare, e quindi elementare nel contenuto e nella forma, negli schemi tradizionali, ma poesia rivelatrice di un animo semplice, buono, assetato di giustizia, come è sempre la poesia di questi nostri lavoratori all’estero che trovano in essa un conforto alle durezze del loro destino», scrive Guido Cimino. Luigi M. Lombardi Satriani ci ricorda che nei canti popolari l’invito emergente è quello della ribellione nei confronti delle ingiustizie di cui si è vittima. Alla luce di ciò, l’opera di Domenico Adamo costituisce una delle più alte espressioni di questa originale forma di protesta. Le sue poesie sono piene della contrapposizione fra signori e contadini, fra ricchi e poveri, ed il pensiero che ne deriva, oltre a testimoniare la consapevolezza dell’ingiustizia nella quale si vive ed il desiderio di cambiare la situazione esistente, esprime chiaramente una presa di posizione politica. In un mondo dominato dalla violenza, dove gli uomini diventano portatori di sopraffazione, la preghiera e la riflessione possono costituire un motivo di conforto. E viene composta la poesia “La preghiera di Natale”. Ma questo non basta a modificare l’ordine sociale esistente. E dopo la presa di coscienza della propria condizione, dopo un’attenta analisi delle cause e degli effetti, ecco il grido di dolore, ecco la ribellione e la lotta. Una lotta che l’individuo sceglie di portare avanti con le armi che gli sono congeniali. Domenico Adamo, calabrese, emigrato, sarto a New York, poeta autodidatta, ha scelto la cultura. Ed attraverso la cultura ha lanciato un messaggio che non può andare smarrito: non c’è posto nella storia per i pigri, per gli oziosi, per i parassiti, così come non c’è posto per quelli che vogliono continuare con i loro sistemi un feudalesimo seppellito dai secoli e condannato dal tempo. Le poesie furono forse più conosciute in America che in Calabria; e a Brooklyn, Adamo trovò quella soddisfazione che gli era negata in patria. Solo negli anni Cinquanta l’eco dei suoi componimenti giunse in Italia. Emilio Frangella cominciò ad ospitare le poesie su Calabria Letteraria, la rivista che Frangella stesso aveva da poco fondato a Longobardi (Cosenza), e da allora qualcuno cominciò ad interessarsi del poeta sammanghese. Ma fu un interesse limitato a pochi intimi, quasi circoscritto nell’ambito di una ristretta cerchia di persone. Nel paese di origine, di Domenico Adamo, del figlio di Francesca Tomaino e di Giuseppe, uno sconosciuto muratore di provincia, quasi nessuno voleva parlare. Come se ci si vergognasse di quell’uomo che fino a 24 anni era vissuto a San Mango protestando contro le ingiustizie e le prepotenze dei “signori” e denunciando lo sfruttamento degli operai e dei contadini. Cosa si aspettava di trovare allora Domenico Adamo? Cosa voleva quel giovane che pochi ricordavano e che aveva parlato di liberazione delle masse contadine, quando invece il popolo accettava il suo destino, subiva le prepotenze, si rassegnava? E chi non accettava quel destino, non era forse costretto ad emigrare? Non era emigrato pure lui, nel 1912, perché i potenti contro i quali si era scagliato lo avevano costretto ad abbandonare il paese? L’accettazione di un destino dovuto ad un disegno cosmico, l’incapacità di dirigere la propria vita politica e sociale, la mancanza di fiducia in se stessi, il rispetto dell’ordine costituito, la paura del cambiamento, sono state costanti che hanno condizionato, nei secoli, la vita delle popolazioni calabresi. L’antica miseria ed il dolore consueto erano preferibili ad ogni tentativo di cambiamento. Come poteva essere apprezzata la poesia di Domenico Adamo in una società così concepita, dove l’esistenza è un equilibrio instabile e al mondo naturale e sociale ostile l’uomo era in grado di rispondere solo con la paura e con l’angoscia? Come potevano essere conosciute e diffuse le sue opere quando la gente rifiutava di analizzare criticamente la propria storia, e quando il popolo non riusciva a prendere coscienza della condizione di sfruttamento, perché la miseria non era solo un dato materiale, ma anche morale, rivelandosi un modo di vivere che coinvolgeva tutti, poveri, ricchi ed intellettuali? Per tutto questo, Domenico Adamo è stato un poeta solitario ed un personaggio poco conosciuto dagli studiosi della letteratura calabrese. «La Poesia di una Nazione non va cercata soltanto nella Lingua, ma nei dialetti; e non dentro i limiti segnati dalle convenzioni diplomatiche, bensì in ogni luogo del mondo in cui si aggirano connazionali, e loro discendenti. Dove è un italiano, ivi è Italia»; questo ha scritto Filippo Fichera nella sua Storia della Letteratura Italoamericana, che l’Editrice Convivio Letterario ha pubblicato a Milano nel 1958. Ed ora che l’isolamento e l’indifferenza che rendevano tanto triste l’animo del poeta cominciano a rompersi, ora che la voce di Domenico Adamo torna a risuonare e varca gli stretti ambiti del confine paesano, il testimone passa ad una nuova generazione. Tocca ai giovani saper mantenere vivo il ricordo e la memoria di questo figlio di Calabria, e speriamo che possano esserne capaci: il loro futuro sarà più sereno solo se sapranno utilizzare al meglio il loro passato. Alcune dediche autografe di Domenico Adamo Cara Zampugna Dopu vint’anni de malincunie, Cara zampugna, te tuernu a sunare, Si t’hai scurdatu e vecchie meludie Intra stu core mio le pue truvare, Ti dugnu jatu di’ purmuni mie Mmu fai li sueni tue ‘ncielu arrivare. Cuemu chille nuttate senza stille ‘Ntra ‘ruga postiata a li spuntuni Risunare facie ‘ntra le vinelle Li sueni chi sfidavanu baruni, E tuccavanu ‘u core de le belle Chi vigliavanu arriedi li barcuni. Mo, a nu barcune chista vuce mia, Cara zampugna, m’hai d’accumpagnare, Mu a senta na persuna e si ricrìa E va’ de cuntentizza a s’affacciare. E guardandu ‘ncantata intra la via Pensa: è stu core chi me fa sunnare. Rosa e Maju Cù ste vostre bellizze, Rosa e Maju, A mie m’aviti misu a nu castiju Suennu ‘u me piglia, pitittu nu d’aju A passione mia è mu ve viju. A la vostra purtata nu ‘nce paru Teniti li capilli d’oru vivu E nu vuestru surrisu è cussì caru Ch’è difficile ‘nviersi mu lu scrivu. De chissu sguardu vuestru tantu raru Bella ve priegu nun me fati privu, Pe sanare ste pene chi ‘mpiettu aju Veniti a la finestra mu vi viju. U partenzaru Io partu, amure mio, ch’aju de fare? Si n’hanu misu li spalli a li muri. Li ricchi nu’ne lassanu campare Mancu a lu gradu de li servituri. Na grazia Gesù Cristu m’ha de fare Mu li viju ‘mpenduti sti signuri. Lassu la terra dduve sugnu natu, Lassu figli, mugliera e cose care, De tutti chissi chi m’hanu angariatu La nova minn’avissi d’arrivare. Ma vena l’ura chi sarà pagatu Tuttu u suffrire ch’hanu fattu fare. Tu a la furtuna ‘un perdere speranza, Vaju dduve c’è pane e c’è cuscienza, Lu mundu è grande e chinu d’abbundanza. Verrà lu juernu de l’indipendenza, E chi fatiga avrà pane abbastanza, Ma pe le jene nu’nce chiù esistenza. U sfurtunatu De la sfurtuna fuezi bersagliatu, Me sugnu vistu pieju ca perdutu; Li megli amici mie m’hanu ‘ngannatu E de le pene mie s’hanu ridutu. Chi muertu me vulia chi ‘ncatinatu, Ma stu malu disignu ‘u le’ resciutu Ccu tuttu stu curdoglio c’ho pruvatu Me sugnu fattu forte e su sagliutu. Si stu suffrire mio nu de’ cessatu Ancore nu su’ muertu né avvilutu, E stu forte mio core ‘un se’ spezzatu Ca cchiù d’unu ha de vìdere cadutu. U Cantu d’a miseria Mandu stu cantu cuemu na jestigna Chi vena de luntanu e ve sbrigogna Vue chi campati cuemu la gramigna E teniti lu core ‘e na carogna. Vue chi teniti la facce de mpigna Nu’ teniti russure né vrigogna. Chine fatiga, soffra, ‘mpigna e spigna Vue lu scurciati cuemu ‘na milogna. Vena lu juernu chi a musica ‘ncigna Quandu ‘a miseria senta la vrigogna, Quandu se ‘ngrigna e v’ammacca la tigna E nu ‘nce lassa mancu na carogna. Nova Yorka Chista, chiamata la “Città Gigante” È lu riciettu de la mala gente, Cca chine arrubba goda e fa ‘u galante E chine è onestu nu’ tena mai nente, Ma la marvaggità de l’autri cunta E de la sorta se lamenta; e canta. Vinnaru gente de tutti li punti Cuemu figli de cani tutti quanti Ma quandu a puertu sarvi fueru junti Chi lupu diventaudi e chi brigante. Sulu l’uemini onesti e li ‘nnucienti Fueru custritti a fare i mendicanti. Chistu è lu paradisu de ‘u furfante Chi u’ da’ cuscienza nè vrigogna sente; Oje se crida d’essere regnante E vorra diventare ‘nniputente Nsina chi nautru piscicane spunta E cuemu sarda ‘ncuerpu si lu chianta. E a guardare sta lotta dulente La gente crida: è cosa ‘ntiressante Pocu ‘mporta chi vince o chi va a l'untu Lu perditure è sempre lu spettante. Ccu mille ‘nganni se gabba la gente Chi vo ‘ngannare trova lu ‘nnuciente. Chista è la civirtà chi ccà s’avanta; La civirtà de u nuevu cuntinente, Oru e ricchizza sulamente cunta E tutte le virtù nu’vanu nente. Cca se fatiga e la vita se stenta Pe arricchire a chine ne turmenta. L’esiliatu Al poeta Francesco Greco Chissa è la terra dduve sugnu natu, Pocu me ‘mporta chillu chi diciti Si ‘ngratamente m’aviti cacciatu Vena lu juernu chi vinne pentiti. Nente vala ssa pompa chi purtati E tutta s’arruganza chi teniti, Vue de rapina e farsità campati E la povera gente l’affrigiti. Siti a stu munnu sulu mu ‘ngrassati A dannu de li schiavi chi teniti Supra li furti de i vuestri antinati Vacabbundi: De grolia ve pasciti. Tutubiscu Nu Tutubiscu, ccu la capu a jascu, Va spassiandu d’Arella a lu Cuescu. Quandu se ferma me para nu mascu; Paradi l'ursu nesciutu de u vuescu. Muertu de fame! Ma tena la nasca, Nu d’ha na petra mu s’alluma l’isca, Vo’ fare u mastru: Va trova! Va pisca! E quandu parra para ca te rasca. È curagiusu, però nu’ s’arrisca. Ma ccu la vucca! Baruffa a burrasca, E ppe la gamba! Nessunu lu pisca Appena vida izare na frasca. A la fatiga però nu’ ci annasca Ma ce piace jucare a lu friscu E ppe campare fa cuemu la musca ‘Nsina chi lassa la zampa a lu viscu. S. Mango d’Aquino 1908. Curaggiu, o Populu Nu quartu de stu mundu, se po dire, Suffria sutta lu taccu e nu tirannu, Chi guvernava ccu fuecu e staffile, Ccu la sivizia e ccu qualunque ‘ngannu. Ma vinna l’ura e n’autru Dio arrivau Chi cadire lu fice ‘nsinu a fundu Le catine de u populu spezzau E lu zarru cacciau de chistu mundu. Pompa, arruganza, strumienti de pena, Cuemu bubbule d’acqua de sapune Quandu le punci la fine ne vena. Ccu core forte suffriti la pena Verrà lu juernu c’a nu lampiune Vida la fine chi schiavi ve tena. Preghiera Al poeta Eugenio Adamo. Madonna de la Vuda , Matre Cara, Nue n’accugliemmo sutta la tua guida, Tu si la stella chi u core rischiara E sempre vince chine a tie s’affida. Scanzane de le pene e de li guai, De mala gente e de mali vicini, Chin’è de buenu core tu lu sai, Gran Matre chi cunsuli i cuntadini. Chine fa sufferense pe campare Tu lu pruvidi cu lu tue putire, A l’arma nostra chi se po ‘ngannare Mustracce tu la via; fala saglire. Chine a stu mundu male vodi fare De li nuestri dintuerni cacciamilu, Chi vo campare senza fatigare Tu Vergine Maria, ricoglinnilu. A Mio Padre Tu che nascesti in mezzo a le torture Dove le fibre tue ti temperasti, Senza avvilirti mai nelle sventure Passasti i mari e ramingando andasti, Ma pur col cuor trafitto di gran duolo Non ti scordasti del nativo suolo. Come l’aquila, là, facesti il nido, Scherno facendo a tante belve umane, E al tuo paesello fosti sempre fido Sperando ritornarci la dimane; Quando poi lo dovesti abbandonare Per andare lontano a lavorare. Tu che sprezzasti l’agiatezze umane E la croce portasti con amore, E lavorando guadagnasti il pane Chè col lavoro l’uomo acquista onore, E a la famiglia desti la tua vita: Ch'era per te la gioia più gradita. Tu che soffristi con coscienza pura Come il devoto fermamente adora, Sempre bramando la pace che dura, Fosti fedele fino all’ultim’ora. Amante del lavoro, e lavorando, Le melodie del cor al Sol cantando. 26 luglio 1926. Al Colle natio Oh! Colle profumato di mortelle, Oh! Colle profumato di viole, Sopra le falde tue ridenti e belle mi fu dato vedere il primo albore. Da le tue falde vidi pria le stelle, Là sentii palpitare il primo amore, Il mar vidi, lontano, e le procelle, Vidi la Sila che diè forza al core. Nel gramo esilio mio di te favello, E spero un giorno rivederti ancora, Ed il loco natio trovar più bello, Se la morte non segue altra dimora. Piante di Rose Piante di rose mie, verdi e spinose, Oggi vi vedo tutte rivestite Di bocciuoli fragranti e rosse rose. E radiando fragranze e salute, Forse a la primavera sorridete Che porta luce nelle vostre vite. Di questa vita mia grama e romita, Piante di rose, cosa ne pensate? Voi che sapete le gioie della vita, Voi che sapete tutte le sferzate Dell’inverno crudel che vi ha ghermite, dite: Vi son per me l'ore serbate? Per le speranze mie veder fiorite? La Preghiera di Natale Oh! Divino Pargoletto Che dal ciel fosti eletto Di venire in queste selve Per pacificar le belve, Vengo avanti a Te fervente E m’inchino reverente. La cagion di questa guerra Viene tutta dalla terra E continua fin d’allora Che fu tolta a chi lavora, Le promesse sono vane Per chi soffre e non ha pane. Tutto il mal di questo mondo Ha un’origine profonda; Non è colpa del pezzente Ma del ricco prepotente Che coi vizi e con le usure Empie il mondo di sciagure. Oh! Celeste Redentore, Voglio schiuderti il mio cuore: Benedici il contadino Lungo l’aspro suo cammino Ed il ricco vagabondo Manda fuor di questo mondo. Duve nascivi Nascivi fra la Sila e lu Mancusu, fra lu jume Savutu e lu Casale. Nascivi fra l’usanze de soprusi e gente cu la mente de Jugale. Nascivi ‘miensu a l’arvuli urdurusi e li giardini chi fanu ‘ncantare; l’agielli cu li canti armuniusi, llà, me ‘mpararru ad amare e cantare. Fortuna ‘ngrata! Duvietti partire, quante corde ‘e stu core appi ‘e spezzare, unu chi parte è cuemu va murire; va ‘mpardisu e tornadi a campare. Lu mundu è grande! Umanità è gentile! Santa è la terra chi te po ’sfamare, ma de sta vita mia lu bellu Aprile cuemu ‘na vota vulerra sunnare. La Terra del Sole (L’Italia nel ventennio nero) Il Suolo vantato; La Terra del Sole Oggi è desacrato, Là il Diavolo gode, Le Barbare orde Del grigno feroce Son là per rimettere Iddio sulla Croce. La prole d’Italia Son come gli agnelli Strappate alle mamme Mandate ai macelli. La plebe d’Italia Affamata e sconfitta È forzata a far figli, A soffrire e star zitta. L’Italia: la Madre Di grandi virtù, Or giace prostrata Nella schiavitù. L’Italia: la culla Del genio latino Oggi è dissanguata Da un vile assassino, Che al lume di Dio Ha voltato le spalle E al giogo di Attila Si è reso Vassallo, Portando la strage Nel Popol Latino Si vanta di essere Un nuovo Caino. La Storia d’Italia È piena di affanni Macchiata da despoti E vili tiranni Ma il popolo che ha cuore, Che ha senso di onore Risponderà presto Al terror col terrore. Cleto Fra ste timpe, a stu dirrupu, Pe’ scuntà ‘ncunu peccatu Stu paise dittu Cletu Si ce trova arrampicatu. Ha ‘na storia addulurata De latruni priputienti, Ma mo l’epuca è cambiata E cambiati su’ i turmienti. Chista è l’epuca muderna De prugressu e libertà Si ce nasce ‘na mal’erva Longa vita nu’ n’avrà. Stu paise è prugreditu, C’è arte, scienza e civirtà. C’è na musica cumprita Ch’è unurata ‘nso du’ e và. A lu bravu prufessure Ch’è persuna de virtù Va l’unure e lu rispettu De sta balda giuventù. Chista è l’epuca muderna De prugressu e libertà Chi se merita la gloria Priestu o tardu l’averà. Fatte avanti: anticu Cletu, Minta vele a nova vita; Pe’ vincire la partita Cce vo’ forza ‘e vuluntà. Tu ci hai gente de prugressu, Ci hai ricchizze, ci hai buntà, Però penza a lu futuru De la tua cumunità. Chista è l’epuca muderna De prugressu e libertà Cletu: Cambia la tua storia Pe’ la tua prosperità. Ricordi di Cosenza Barù, si t’haju fattu na mancanza, Perchì partivi senza dire addio! Fu per u’ rigure de le circustanze, Ma no pe’ curpa de stu core mio. Dopu tant’anni e tanta luntananza A lu giurnale lieju cu allegria Ca s’è avverata già la tua speranza, E t’hai misu na bella Farmacia. Mandu l’aguri, e sfidu la distanza, Mu la furtuna te fa cumpagnia, Mu te fadi avverare ogne speranza Cu la bona salute e l’armunia. Nu Tale Fra li ricuerdi de la quatraranza Cc’era nu tale, de mia canuscenza, Ch’era lodatu pe ‘la sua gran’ panza, Ma de cerviellu ne jìadi de senza. Sordi, se sà, ne teniadi abbastanza, Scrupoli ‘un teniadi, né cuscienza, Eradi a capu de ‘na maggiuranza Chi se suttamintìa ccu riverenza. Passanu i tiempi, passanu l'usanze, Ma ‘u male fattu lassa l'evidenza. Sulu la morte porta l’uguaglianza E po’ strudire la mala semenza. L’associazione “Amici della Musica”, fondata a San Mango d’Aquino da Alfredo Chieffallo allo scopo di rinnovare la tradizione bandistica e diffondere la cultura musicale sul territorio, ha inteso rendere omaggio alla figura di Domenico Adamo e, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria alla figlia Adelina, ha provveduto a musicare una delle poesie più popolari del poeta: Cara Zampugna. L’opera, composta dal M° Francesco Pignataro, è stata rappresentata in prima assoluta a San Mango d’Aquino, in occasione della cerimonia di commemorazione di Domenico Adamo. L’esecuzione è stata affidata ai musicisti Lucia Morello (pianista e soprano lirico) e Francesco Pignataro (pianista e compositore). La cartolina ricordo con i versi di una poesia di Domenico Adamo, distribuita nel 2004 in occasione del 150° anniversario della Cona Bonacci. Testimonianze «Come si va facendo numerosa la schiera di questi nostri conterranei, emigrati in America per non morire di inedia nella povertà di tutte le cose che li circondava, privi di studi perché nessuno si era mai accorto della loro smania di sapere e se anche l’avessero intuita, avrebbero dovuto fingere di non essersene accorti, stringendosi nelle spalle in un gesto di triste rassegnazione perché bisognava lavorare con le mani per portare a sera qualche cosa da cuocere al focolare. Essi si sono rivelati uomini di ingegno, attratti dalla poesia, o dalla musica, o dalle altre arti, o dalla meccanica, ed hanno voluto concedersi la gioia di scrivere, di stampare, di sentirsi autori, di entrare in un mondo in cui, sempre con un senso di auto controllo, si sentono elevati ad un’altezza dove sanno che la usuale valutazione dell’uomo in dollari non ha senso, e possono sentirsi ricchi anche se sono rimasti poveri come partirono, o quasi!». Guido Cimino, 1960 «Musa Bruzia di Domenico Adamo è alla seconda edizione, significando un successo poco comune, nonché una conseguente vitalità di ritmo e di idee. Il poeta parla di sé, delle proprie ubbie o delle proprie speranze, alla natura. Il suo animo somiglia a un roseto, verde e spinoso, schiuso alla fragranza gioiosa della primavera, o flagellato dalle crudeli sferzate dell’inverno. La vita non ha tregua per chi coltiva nelle vene nobili e puri ideali: alle limpide, luminose giornate di sole, si alternano fatalmente sequenze di interminabili ore di angoscia e di battaglia, di inesausta lotta contro i maledetti fautori di ingiustizie e di soprusi, di avventate violenze e di ignobili sopraffazioni…». Roberto Cervo, 1960 «Domenico Adamo è un autodidatta, che è nato poeta, e scrive, per conseguenza, senza le pretese di fare dell’arte. E la vera poesia si fa così. Ma quante belle poesie egli scrive, e quanta ardente passione egli sa trasfondere in tutti i suoi versi che gli sgorgano dal cuore… Egli canta le gioie ed i dolori della sua vita, unicamente per ubbidire al fervido impulso dell’anima, arsa dalla luce abbagliante della poesia. E continui a cantare sempre così Domenichino Adamo, come l’usignolo che canta nell’ombra per rallegrare la propria solitudine! Sono così pochi i poeti che sanno cantare come lui con tanta ingenua semplicità e con tanta avvincente dolcezza». Riccardo Cordiferro, 1932 «Conobbi Domenico Adamo nel 1928 attraverso un parente – Eugenio Adamo – che risiedeva nel New Jersey, e precisamente a Read Bank. Anima veramente gentile di poeta, e di puro calabrese assetato di luce e di bellezza, e indefesso propugnatore della giustizia del popolo. Divenimmo buoni amici. Domenico Adamo è di una bontà indescrivibile: sempre gioviale, il suo volto rispecchia la sua anima di vero calabrese, senza infingimenti. Amante della poesia nei suoi ritagli di tempo, che sono pochi, compone delle belle poesie che si fanno leggere con molto diletto. Da una diecina d’anni a questa parte, dedica le sue ore - che dovrebbero essere di meritato riposo - dopo le lotte del lavoro, al disegno e alla pittura, con risultati molto lusinghieri. Fa parte di un Circolo di Pittori Scandinavi che gli vogliono bene; dato il suo mite carattere, chiunque lo conosce, non può fare a meno di volergli bene». Francesco Greco, 1960 «Musa Bruzia si fa leggere con piacere, perché i versi sono scorrevoli, spontanei, agili, chiari, assennati… Il Poeta condanna il vizio dove lo localizza. Pei cattivi ha parole severe. Il povero, abbandonato alla deriva nel mare burrascoso della vita, ha una grama esistenza. È assillato dalla paura dell’incerto domani. Egli stesso fu costretto dalla cattiva situazione economica a lasciare il paese natio, la moglie e i figli (che in seguito lo raggiunsero) e tutto ciò che colà lo legava, per recarsi a procacciarsi un pezzo di pane men duro, nella lontana America del Nord, dove ancora risiede… Il libro di Domenico Adamo è degno di essere letto ed apprezzato da chi ama sinceramente le cose belle ed oneste». Pietro Greco, 1954 «La poesia di Domenico Adamo ha i pregi impagabili della semplicità e della spontaneità. E sebbene non abbia pretese letterarie e l’autore scriva solo per un bisogno del suo spirito, s’impone subito per la viva passione che l’anima e che traspare, in tutta la sua veemenza, dalla grazia, dalle immagini, dalla scorrevolezza e dalla musicalità del verso. Per dare ritmo, flessibilità e musicalità al suo lirismo, questo poeta che sente ancora di primitivismo, non ricorre ad esose ed intricate forme retoriche, ma attinge invece la sua ispirazione agli impulsi della sua stessa anima, avvalendosi del suo linguaggio modesto, due dei primissimi elementi necessari a dare vita e fulgore alla poetica». Il progresso italo-americano, New York 1956 «Poesia didascalica quella di Domenico Adamo, in quanto dal lavoro quotidiano ha saputo attingere l’insegnamento per le ‘egregie cose’ imparando ‘come sa di sale lo pane altrui’ e facendo del bene, nel nome della Patria che gli diede i natali. Egli è anche artista ed estrinseca le sue attività in modo egregio, tenendo sempre presente gli alti principi di socialità e di umanità. Un lavoratore, un poeta e un artista italo-americano che fa onore alla sua terra natia». Il pungolo verde, Campobasso 1959 «Domenico Adamo è poeta perché sa scrivere versi semplici, sentiti, limpidi, agili, penetranti e scorrevoli che non ti stancano né ti annoiano. Sono versi melodici, armoniosi come la musica astrale, perché dicono qualche cosa che ti parla al cuore, qualche cosa che sa del vero, dell’umano. È poeta perché difende i suoi fratelli, combatte il vizio, dardeggia la società brutale. Noi non possiamo fare a meno di parlare di questo poeta, poiché quel poco che egli ha scritto e dato alle stampe è qualitativamente assai buono, scaturito com’è dalla sua fine sensibilità, dalla sua tormentata umanità, che si concreta in immagini icastiche, dal taglio vivo e netto, esprimenti il suo mondo poetico in una visione pittorica. Abbiamo detto pittorica, e non senza motivo: difatti Domenico Adamo – il quale, oltre che squisito artefice del verso è anche artefice del pastello e del pennello, con cui dipinge e disegna con raro gusto artistico, sebbene sia in entrambi i casi autodidatta – lascia intravedere nelle sue poesie la sua tendenza alla pittura, manifestatasi in lui giovanissimo, allorquando dalla natia Calabria venne in America». Angelo M. Virga, 1956 «Domenico Adamo è un degno figlio della nostra terra, che dopo più di quarant’anni d’America conserva intatte le nostre tradizioni, difendendole da coloro che cercano con le calunnie, menomare il nome della nostra amata terra, culla della più antica civiltà». Rivista di scrittori calabresi, Cosenza 1960 «Domenico Adamo, poeta del popolo e pittore apprezzatissimo, ha ripubblicato la sua Musa Bruzia per lasciarla correre nelle piazze, le campagne e gli uffici ove ancora non era arrivata, data la prima tiratura che aveva avvicinato gli amici ed i fratelli dell’arte. Un dono questa volta che va ai suoi fratelli di lavoro in terra calabra, acciocché essi ne cantino lungo i sentieri i ricami meravigliosi delle sue rime che sanno il dolore, i sacrifici, la miseria del contadino asservito al gioco del ricco che ne raccoglie i frutti del lavoro e lo lascia privo anche di un tozzo di pane molto necessario e indispensabile alla vita». Pasquale Spataro, 1956 «Versi impeccabilmente armoniosi: sempre. Sempre, in essi, racchiusi sentimenti e palpiti tra i più delicati e più nobili. In altri termini: il riflesso della vita; del travaglio della vita. Un fondo, dunque, di realtà, di sincerità, di verità palpitante. Un contenuto che sta in alto; che si eleva sul dominante… Lo stesso può pensarsi e può dirsi dei disegni e delle pitture di Domenico Adamo. È pur vero quel che affermò un insigne critico d’Arte: un quadro non esser altro che una poesia che si vede. E noi nei dipinti di Domenico Adamo, vediamo nettamente quegli intimi sentimenti che vedemmo ne le sue liriche. E cioè: niente astrattismo, niente verismo più o meno crudo e spregiudicato, niente simbolismo ecc. ecc. Soltanto la sincerità e la verità che traspare dai tocchi del delicato e sapiente pennello… Possiamo affermare in conclusione che questo libro di Domenico Adamo è un godimento e una elevazione dello spirito. Esso fa bene all’animo. E ci fa pensare che nel triste mondo in cui oggi viviamo, ci sono ancora le anime buone le quali generosamente prodigano la loro bontà. A Domenico Adamo, tutta la nostra riconoscenza!». Gennaro Capalbo, 1960 «Il Nostro non è un letterato, non è un pittore di professione: egli è semplicemente un sarto che ha sempre lavorato sodo, senza concedersi tregua, per sostenere in modo conveniente la famiglia, composta della consorte e di tre figlioli, i quali gli hanno saputo dare soddisfazioni che un padre si attende dalla propria prole, riuscendo nella scuola e nella vita. Allorché egli può allontanarsi brevemente dagli strumenti del suo quotidiano lavoro, dall’ago e dalle forbici, si rifugia, per quella prepotente evasione dalla grigia vita di tutti i giorni, nella poesia e nella pittura, dove si mostra un colorista luminoso, abile e accorto nel rappresentare, sia sulla carta che sulla tela, i paesaggi più caratteristici della terra sua natia, contemplati nostalgicamente con gli occhi della mente memore». Arte e Mondanità, Palermo 1956 «Domenico Adamo non è un letterato famoso, ma era un uomo del popolo, era un artigiano costretto a lasciare la sua terra per cercare altrove migliori condizioni di vita. Le sue poesie furono forse più conosciute in America che in Calabria, e nella Brooklyn di New York trovò soddisfazioni e apprezzamenti che altrove gli erano negati…». Calabria Letteraria, Longobardi 1980 «Giunto in America, a Brooklyn passò tutto il resto della sua vita, e in quel quartiere di New York egli aprì una sartoria che divenne ben presto luogo di ritrovo e punto di riferimento per molti artisti emigrati. I proventi del mestiere servivano per mandare avanti la famiglia, ma la sartoria per lui rappresentava qualcosa di più. Era il luogo dove più prorompente diventava la nostalgia per il paese natio. Era il luogo dove la mente si abbandonava ai ricordi e ai sentimenti, e lì dentro, con le tendine della porta abbassate per non essere disturbato, Domenico Adamo ripercorreva le vicende della sua vita: i luoghi dell’infanzia, le idee giovanili, l’incomprensione dei contemporanei, gli ideali della maturità, il desiderio di cambiamento, la partenza, il lavoro, la famiglia, la tenacia, i figli, gli incontri con altri artisti emigrati, la pittura, la poesia. Le tendine abbassate erano per tutti un segnale, e volevano dire che Domenico Adamo stava dipingendo oppure stava scrivendo poesie… ». L’altra Calabria, Montreal, Canada, 1995 «Ho avuto il libro su Domenichino Adamo. Come vedi, anch’io lo chiamo così, così avendo conosciuto la sua immagine, attraverso mio Padre, cui mandò il suo libretto Musa Bruzia. Mio Padre, per la Sua funzione, era un po’ il tramite vivo, appassionato e sentimentale fra i nostri emigrati ed il nostro Paese. Non credi che sia il caso che si faccia un’accurata ricerca e presentazione per tutti i “Nostri” che, all’Estero, nel lavoro indefesso e nel tormento della lontananza, tengono alto il nome di San Mango, e lo rinnovano ogni giorno con il loro sacrificio?». Felice Manfredi, 1987 «La sua vita e le sue poesie sono nella loro semplicità, l’espressione più alta e più sublime del dolore, della nostalgia, della rabbia per le miserie del mondo. Non solo, ma il messaggio che egli ha voluto tramandare alle giovani generazioni è attuale e moderno, e deve essere accolto da tutti affinché parole come emigrazione, come tirannia e come soprusi e sfruttamento possano essere cancellate dalla vita quotidiana di tutti quanti noi…». Arturo Moraca, 1987 Indice Presentazione pag. 7 Presentazione pag. 9 Introduzione pag. 11 L’ambiente pag. 23 La vita pag. 55 La poesia pag. 59 Alcune liriche pag. 73 Testimonianze pag. 103 Armando Orlando è nato nel 1948. Ha lavorato come impiegato metalmeccanico a Milano, dirigente d’azienda a Roma, quadro direttivo bancario a Catanzaro. Ha svolto attività sindacale a Roma e Milano e attività politica in Calabria. Per il gruppo Rubbettino ha pubblicato: Storia di una terra del Sud, con prefazione di Nuccio Fava (1984), volume di apertura della Collana “Immagini della memoria”; Domenico Adamo, un poeta e la sua terra (1987), Finalista al Premio Calabria di Villa S. Giovanni; Carmine Augusto Ferrari, Brandelli di vita (1989); San Francesco di Paola, itinerari religiosi in un paese della Calabria (1991); La Calabria intorno al Mille, storia di una diversità (1995), Finalista al Premio Nazionale Feudo di Maida; San Mango d’Aquino, la storia (1997); In Calabria, cronaca costume storia tradizioni (1998); Storia di Falerna dalle origini ai nostri giorni (2000). Con Antonio Sposato ha pubblicato San Mango d’Aquino, storia folklore tradizioni poesia, Rubbettino, 1977 (Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri), volume di apertura della Collana “TerreUomini”. Con Giovanni Nicastri ha pubblicato Castiglione e Falerna, storia di una comunità del Tirreno, prefazione di Gregorio Corigliano, CLE, 1986 (Finalista al Premio Letterario Città di Amantea). Con Armido Cario ha pubblicato La Calabria del Settecento, CLE, 2007. Ha collaborato con quotidiani e periodici in Italia e all’Estero, fra i quali: Gazzetta del Sud di Messina, La Calabria di Cosenza, il piccolissimo di Catanzaro, Diesis di Cosenza, Calabria Letteraria di Soveria Mannelli, l’altra Calabria di Montreal (Canada). E’ autore di numerosi saggi per il web, fra i quali: Breve storia dell’emigrazione calabrese (2005), La rivoluzione musicale di Fred Buscaglione (2010), Il nostro passato dimenticato (2010), Emigrazione brigantaggio e lotta di classe in Calabria (2010).