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L'Africa che verrà, Nigrizia gennaio 2020

NIGRIZIA.IT ANNO 138 N° 1 GENNAIO 2020 € 4,00 Il mensile dell’Africa e del mondo nero UN'ALTRA Poste Italiane S.p.A. sped. Abb. post. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n° 46) art. 1 comma 1 DCB VERONA ALGERIA È ADESSO Etiopia Dossier Chiesa LA FRAGILITÀ DEL GIGANTE SCENARI 2020 AFRICHE IN CORSO LA MISSIONE DI ROBERTO PAZZI NIGRIZIA GENNAIO 2020 UNA FOTO DELLA SERIE MALAÏKA DOTOU SANKOFA SULLA LIBERAZIONE E L’IDENTITÀ DELL’AFRICA, CHE HA VINTO IL GRAN PREMIO LÉOPOLD SÉDAR SENGHOR ALLA DAK’ART – BIENNALE DI ARTE AFRICANA CONTEMPORANEA 2018. 34 ADJOVI Opera di Laeïla Adjovi (Benin) e Loïc Hoquet (Francia). DOSSIER I SE ARI EN 20 C S 20 36 Nordafrica CANTIERI APERTI PER LE RIFORME 39 Sahel EPICENTRO DEL JIHADISMO ARMATO 42 Africa occidentale LA FUGA E IL VOTO 45 Grandi Laghi ACQUE TORBIDE Abbiamo individuato alcune aree termometro di ciò che potrà accadere nel continente in questo anno. Dal Nordafrica con i regimi sempre più traballanti sotto la spinta delle piazze al Sahel alle prese con la minaccia jihadista; dall’Africa occidentale fresca di voto al Corno d’Africa con le scommesse politiche del Sudan e dell’Etiopia; dai Grandi Laghi dove predomina l’instabilità all’Africa australe nella quale si è aperto un nuovo ciclo politico-economico 48 Corno d'Africa ASSESTAMENTI 51 Africa australe ACCETTARE LA SFIDA Di ANTONIO M. MORONE, ANDREA DE GEORGIO, ANTONELLA SINOPOLI, FRANÇOIS MISSER, BRUNA SIRONI, ROCCO W. RONZA 35 NIGRIZIA GENNAIO 2020 Algeria MANIFESTANTI IN UN VENERDÌ DI PROTESTA. NORDAFRICA TUNISIA MAROCCO ALGERIA LIBIA EGITTO CANTIERI APERTI PER LE RIFORME La scommessa per il 2020 è che le mobilitazioni di piazza, che hanno attraversato i paesi della sponda sud del Mediterraneo, possano portare veramente alla dismissione di quelle istituzioni politiche che reprimono tali rivendicazioni di Antonio M. Morone, da Jelma (Tunisia) docente in Storia dell’Africa, Università degli Studi di Pavia 36 L A RIVOLUZIONE PORTATA NELLA VITA DI MILIONI DI CITTADINI AFRICANI DI JELMA, GOVERNATORATO DI SIDI BOUZID, è una piccola cittadina nell’entroterra della Tunisia centrale, a pochi km dalla più nota Sidi Bouzid, balzata all’onore delle cronache degli ultimi anni perché qui il giovane Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre 2010, si cosparse il corpo di benzina e si diede fuoco per disperazione, dando il via alle proteste che in poche settimane portarono alla fine del regime di Zine El-Abidine Ben Ali. Passando oggi, 30 novembre 2019, per le vie di Jelma, la prima cosa che si nota è il gran numero di persone, in particolare giovani, che trascorrono il loro tempo seduti al bar o all’angolo di un edificio, apparentemente senza aver nulla da fare. Di lavoro ce n’è poco e, quando lo si trova, solitamente è pagato pochissimo. Qui sta la fonte di quella disperazione, che porta molti giovani a trascorrere le giornate senza far nulla, oppure a emigrare a Tunisi e poi magari in Europa oppure, nel peggiore dei casi, a darsi fuoco. Sulla strada nazionale che da Gafsa porta a Tunisi, c’è la pizzeria di Omar, la cui storia testimonia la seconda delle opzioni possibili: Omar è emigrato in Italia, a Pisa, dove per 5 anni ha messo da parte i soldi per poi tornare a Jelma e aprire una pizzeria, migliorando così la sua condizione di vita di partenza. Infatti, solitamente si emigra per tornare e non per restare, a dispetto di quanto si crede dalle nostre parti. Omar è teso, vorrebbe parlare di più, raccontare le AFRICHE IN CORSO DOSSIER Tunisia POLIZIOTTI IN AZIONE L’errore sta nel presupporre che le proteste sociali debbano per forza avere un esito predeterminato e indirizzato alla democrazia ragioni dei disordini scoppiati in quei giorni dopo la morte di Mohsen Zaafouri, un giovane che si è dato fuoco. Ma la tensione tra polizia e manifestanti sta salendo troppo e mi dice che per me è meglio ripartire. YOUTUBE - CORRIERE DEL TICINO DIECI ANNI DOPO Il prossimo 17 dicembre 2020, sarà trascorso esattamente un decennio da quando Mohamed Bouazizi si diede fuoco a Sidi Bouzid e poco più di un anno da quando Mohsen Zaafouri lo fece a Jelma. Il sospetto è, dunque, che i problemi della Tunisia (e per estensione di molte società nordafricane) siano ancora gli stessi del 2011, l’anno della cosiddetta “primavera araba”. Non a caso più di un commentatore è ricorso all’espressione “autunno arabo”, per lamentare la frustrazione rispetto alle aspettative (disattese) di cambiamento che le transizioni politiche nei paesi del Nordafrica sembravano, invece, dover conseguire. L’errore degli analisti “stagionali” è prima di tutto di metodo, oltre che di sostanza. La definizione “primavera araba” è il portato di uno sguardo ancora intriso di eurocentrismo, nonostante siano ormai passati 60 anni dal cosiddetto “anno dell’Africa”, il 1960, quando 17 paesi africani compirono la loro transizione all’indipendenza, segnando simbolicamente la fine del dominio coloniale europeo. L’errore sta nel presupporre che le proteste sociali debbano per forza avere un esito predeterminato e indirizzato alla democrazia, così come la si intende nella prospettiva della storia e della cultura europee, proponendo nei fatti un parallelismo fin troppo evidente tra il crollo del blocco sovietico nel 1989 e le rivolte del 2011. Purtroppo, l’eredità del colonialismo persiste non solo in influenze, interferenze e pressioni politiche esercitate dai Nord geopolitici del mondo sulle ex colonie, ma si riproduce anche attraverso una egemonia culturale dell’Occidente, dello stato-nazione e delle sue forme. LABORATORIO SOCIALE Le proteste che negli ultimi dieci anni hanno attraversato l’intero Nordafrica sono state, tra le altre cose, un fenomeno di resistenza politica e, allo stesso tempo, un laboratorio sociale, nei confronti di un ordine economico e politico transnazionale che è andato facendo crescere vertiginosamente la sperequa- 37 DOSSIER AFRICHE IN CORSO Tripoli L’eredità del colonialismo persiste non solo in influenze, interferenze e pressioni politiche, ma si riproduce anche attraverso un’egemonia dello stato-nazione e delle sue forme UNA VIA DELLA CAPITALE LIBICA Abdel Fattah al-Sisi IL PRESIDENTE DELL'EGITTO 38 senso si sfinimento della popolazione, prigioniera delle logiche di un conflitto sempre più internazionale e sempre meno libico, che ha reso tutti più poveri e meno sicuri. ALGERIA, PAESE DI SVOLTA Non vi è dubbio, però, che il caso di maggiore impatto nel corso dell’anno sia stato quello dell’Algeria dove da mesi, ogni venerdì, scendono in piazza migliaia di persone che hanno ottenuto le dimissioni del presidente Bouteflika, da 20 anni al potere, e l’indizione di nuove elezioni, svoltesi il 12 dicembre 2019 e che hanno visto la vittoria di Abdelmadjid Tebboune, ex primo ministro dell'era Bouteflika. Guardando alle proteste nordafricane, l’impressione non è quella di un “autunno” ma, al contrario, di una grande lezione di civiltà. Tutte queste persone hanno protestato in modo pacifico, ma mettendo a repentaglio la loro vita, poiché i vari apparati istituzionali non si sono sprecati nella repressione delle piazze. La scommessa per il 2020 è che questi cantieri politici e sociali possano portare a una riforma delle istituzioni economiche che impoveriscono le società del Nordafrica e alla dismissione delle istituzioni politiche che reprimono costantemente tali rivendicazioni. Qui sarà dirimente l’incedere del cambiamento in Algeria, insieme a una tendenza a saldare in un fronte unico e transnazionale le proteste. A oggi, purtroppo, hanno prevalso le logiche del conflitto e della violenza, che hanno sviluppato una evidente complessità transnazionale. Eppure l’eco delle proteste – che rimbalzano da Algeri a Rabat, dal Cairo a Tripoli e fuori dalla regione da Beirut a Bagdad – rivela una reciprocità di situazioni che possono costituire la base di un movimento di protesta regionale. REUTERS - FUNDACIÒN AL FANAR zione sociale e il divario tra ricchi (pochi) e poveri (molti). Le parole ricorrenti delle proteste sono state e continuano a essere “dignità”, “lavoro”, “onestà”, nei confronti di istituzioni e governi che troppo spesso hanno ceduto la difesa della legalità a logiche clientelari e predatorie, intese a foraggiare una ristretta cerchia di potere. Se la nostra democrazia sia la soluzione semplice e definitiva a ogni problema, nostro e soprattutto altrui, resta da dimostrare. Sicuramente, l’anno appena iniziato ci pone davanti a questo interrogativo, dal momento che il 2019 ha registrato una ripresa delle proteste in tutti i paesi della sponda sud del Mediterraneo. In Egitto, la gente è tornata in piazza contro il governo militare guidato dal generale Abdel Fattah al-Sisi, che prese il potere nel 2014 a spese del governo democraticamente eletto di Mohammed Morsi e della Fratellanza musulmana. Di passaggio al Cairo, non vi è dubbio che l’aria sia pesante, non solo per il solito inquinamento, ma per il controllo che l’apparato di sicurezza egiziano esercita sulle persone, che si sentono continuamente osservate, ascoltate e in pericolo. Non mancano i racconti di giovani arrestati all’improvviso per un semplice post di protesta pubblicato su Facebook o con l’accusa di prestare il fianco a supposti complotti stranieri contro il regime, che sono solo funzionali a legittimarne l’apparato di sicurezza. Le proteste contro il carovita e un sistema di potere autoritario si sono susseguite anche in Marocco, nei grandi centri come nella regione del Rif, nel nord del paese. Non fa eccezione la Libia, dove la popolazione di Tripoli è scesa in piazza più volte per domandare la fine delle violenze e dei combattimenti: camminando per la capitale libica, la percezione è proprio quella di un