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La diacronia prospettica degli hapax danteschi

2019, Medioevo Letterario d'Italia

https://doi.org/10.19272/201805601003

Il contributo esamina, con strumenti e archivi finalizzati allo scopo, la sopravvivenza nella lingua italiana di elementi lessicali di sicuro o probabile conio dantesco con scarsissima o nessuna eco nella lingua trecentesca (hapax o poco più) che riaffiorano poi in fasi storiche successive, fino ai nostri giorni. Tali parole (di ridotta fortuna nel momento della loro genesi) hanno sviluppi successivi talvolta imprevisti. L’esame del percorso in diacronia di alcune attestazioni consente di verificare la presenza e la fortuna di esse nei secoli successivi al Trecento, fino all’italiano contemporaneo. L’obiettivo non è di fornire solamente un regesto di hapax danteschi ma, in prospettiva più ampia, di guardare ai riflessi che l’attività onomaturgica di Dante ha avuto sia nella sua epoca sia nel repertorio della lingua di oggi, attraverso itinerari e mediazioni da ricostruire in dettaglio.

Elena Artale e Chiara Coluccia La diacronia prospettica degli hapax danteschi* 1. La presenza rilevante di elementi costitutivi di provenienza dantesca nel processo di formazione della nostra lingua è stata ripetutamente messa in luce da studi importanti, dei decenni passati e dei nostri giorni. La rassegna sarebbe lunghissima, è giocoforza perciò limitarsi a pochi esempi tra i più significativi. Quasi un secolo e mezzo fa Graziadio Isaia Ascoli (1882-85, p. 124) affermava: «è […] evidente per tutti che la lingua di Dante è l’italiano che ancor oggi vive e si scrive». Con la semplice commutazione di una congiunzione in copula (“Dante e la lingua italiana” > “Dante è la lingua italiana”) creava uno slogan efficace Ignazio Baldelli (1996), durante una lezione da lui tenuta il 1° dicembre 1995 nella sede della Accademia della Crusca, introducendo i lavori della assemblea ASLI Associazione per la Storia della Lingua Italiana, di cui allora era presidente. Numerosi e molto noti sono gli interventi sul tema di Tullio De Mauro, in particolare con riferimento al processo di formazione e stabilizzazione del "vocabolario fondamentale", il segmento di lessico che comprende le circa 2000 parole che ricorrono nella nostra lingua con altissima frequenza, nell’insieme dei testi scritti o dei discorsi parlati, di qualsiasi tipologia. Una sola citazione fra le molte possibili: «Quando Dante comincia a scrivere la Commedia il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La Commedia lo fa proprio, lo integra e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi. Alla fine del Trecento l’attuale vocabolario fondamentale italiano è configurato e completo all’81,5%. Ben poco è stato aggiunto dai secoli seguenti. Tutte le volte che ci è dato di parlare con le parole del vocabolario fondamentale, e accade quando riusciamo ad essere assai chiari, non è enfasi retorica dire che parliamo la lingua di Dante. È un fatto» (De Mauro 2005, p. 125). La continuità sostanziale tra la lingua di Dante, a base fiorentina, e l’italiano moderno (misurabile nel forte indice di stabilità delle strutture fono-morfologiche) contiene al suo interno anche elementi di discontinuità, evidenziati in studi come quello di Durante 1981 (non incentrato però, è bene sottolinearlo, sugli aspetti lessicali), che intitola un paragrafo La presunta immobilità dell’italiano, e nei successivi, ripetuti interventi di Ghinassi 19881 e [1988] 2007,2 di Tesi3 e di altri. In effetti, su un piano generale, se si pone l’accento su fonetica, morfologia e lessico, l’impressione di una complessiva continuità tra italiano antico (in cui Dante gioca un ruolo fondamentale) e moderno risulta confermata; se invece si privilegiano i fatti sintattici le differenze tra le diverse fasi della nostra lingua paiono più * 1 2 3 Sono di Chiara Coluccia i §§ 1, 3, 3.1, 3.2, 3.3, 4; di Elena Artale i §§ 2, 3.4, 3.5. L’impostazione complessiva del lavoro è stata concordata e condivisa dalle due autrici. Ghinassi 1988, p. XXVII: «[…] un’accentuazione troppo spinta della tesi della continuità dell’italiano di fronte alla discontinuità del francese e delle altre lingue, spinta fino al punto da porre a proprio fondamento il criterio della più o meno facile intercomprensione da fase e fase della stessa lingua […], non è priva di pericoli». Ghinassi [1988] 2007, p. 6: «[…] la diversità fra la lingua di Dante e dei Trecentisti toscani da una parte e la lingua nostra, attuale dall’altra è in effetti meno evidente di quanto non accada in altre lingue, in francese, per esempio, o in inglese o in spagnolo. Eppure tale diversità esiste anche in italiano, e a pensarci bene, del resto, non può non esistere; anche se, nel caso dell’italiano, si nasconde in forme non sempre immediatamente avvertibili e talora sfuggite perfino all’indagine dello storico; forme di diversità meno appariscenti e meno avvertibili, ma non per questo meno reali e meno importanti e decisive». Tesi 2007, p. 68: «[...] dal punto di vista linguistico, l'apporto di Dante alla costituzione di una lingua comune su basi letterarie, operata dalla codificazione grammaticale cinquecentesca, non è stato senz'altro più decisivo (anzi, forse è stato inferiore) di quello degli altri modelli canonici del Trecento toscano, Petrarca per il linguaggio poetico e Boccaccio per la prosa». E già prima cfr., con diversi argomenti, Tesi 2004, p. 432: «Questa idea della “persistenza che rasenta l’invariabilità”, di solito esemplificata con la lingua di Dante, ha importanti antecedenti nella cultura romantica. I testi medievali, che erano alla base delle tradizioni letterarie nazionali, alimentarono l’equivoco di una ‘continuità’ tra passato e presente: un’idea che ha avuto riflessi importanti sulla nascita e sugli sviluppi della disciplina ‘Storia della lingua italiana’». 1 marcate (anche se non mancano posizioni diverse, neppure tra coloro che concentrano l’attenzione specificamente sulla sintassi).4 Nondimeno, con riferimento alla storia delle parole, è impossibile negare il debito lessicale che la lingua di oggi ha con l’italiano dei primi secoli, e specificamente con Dante.5 Ulteriore conferma scaturisce dalle analisi statistiche condotte da De Mauro6 su una parte del lemmario del TLIO:7 esaminando il tasso di sopravvivenza del lessico delle origini complessivamente considerato nella lingua odierna, si registra un dato pari al 31,86%. Facendo la stessa analisi sul lessico della Commedia i vocaboli sopravvissuti nel vocabolario comune di oggi sono all’incirca tra l’82% e l’84%, a seconda dell’ampiezza del campione considerato e dei criteri di valutazione delle varianti fono-morfologiche (scartando dal conteggio delle sopravvivenze le parole che hanno subito radicali variazioni di significato).8 I numeri indicano un tasso di 4 5 6 7 8 Ad esempio si confronti la seguente dichiarazione contenuta nella Grammatica dell’italiano antico, di Salvi-Renzi 2010, I, p. 8: «Si è spesso pensato, e qualche volta anche scritto, che tra italiano antico e italiano moderno non ci siano differenze sostanziali, ma quest’opera mostrerà, crediamo, che si tratta di un’idea molto lontana dalla realtà. Uno studio attento mostra che differenze significative si trovano a tutti i livelli e in quasi ogni fenomeno». E le diverse posizioni sostenute da Dardano 2012, p. 6: «I risultati a cui perviene il presente volume vanno in una direzione contraria a questa [di Salvi-Renzi] tesi. In più occasioni cercheremo di dimostrare che le differenze esistono, ma non sono tali da giustificare il giudizio ora citato». In realtà la contrapposizione tra le opinioni in concorrenza è meno marcata di quanto potrebbe apparire, si tratta d’intendersi. La presenza di variazioni nei fenomeni reali non implica fratture, se badiamo ai risultati complessivi del processo storico, per cui la comprensione dei testi del Trecento toscano e in particolare di Dante non è preclusa (salvo «le aree pentacolari riservate all’oscurità» [Contini [1977] 1986, p. 3]) a un lettore moderno di cultura media e dotato di un’apprezzabile strumentazione letteraria. Il tema della continuità~discontinuità nella storia della lingua italiana merita approfondimenti e sottigliezza di analisi, e inoltre conviene sempre differenziare opportunamente tra i diversi livelli della lingua. Si legga il più recente dibattito su due numeri del foglio «La Crusca per voi» tra chi mette in discussione (Tomasin 2016) e chi invece sostiene (Salvi-Renzi 2017, p. 3 per la citazione che segue) la sostanziale fiorentinità dell’«italiano moderno che è, nel suo nucleo, la prosecuzione del fiorentino antico». Riaffermato ancora da Tavoni 2010, I, p. 330: «È stato calcolato che il 90% delle 2000 parole più frequenti, che a loro volta costituiscono il 90% di tutto ciò che si dice, si legge o si scrive ogni giorno) è già nella Commedia». Pochi giorni prima della sua morte, nel dicembre 2015 De Mauro partecipa al convegno per il trentennale dell’OVI con una relazione intitolata La stratificazione diacronica del vocabolario di base italiano, stampata postuma (De Mauro 2016). «Assumendo a riferimento una lettera del TLIO, la A […], nelle parole della lettera A [della Commedia] i vocaboli sopravvissuti nel vocabolario comune di oggi sono l’82%. Estendendo la ricerca all’intero lessico della Commedia, trascurando oscillanti varianti fonologiche nel vocalismo (dittonghi mobili, caduta vocali, cignere/cingere), tenendo conto invece di radicali divergenze di senso, il tasso di sopravvivenza dei lessemi è pari (a seconda dei criteri di valutazione delle divergenze fonologiche) all’82,1 o 84,5%, in ogni caso due volte e mezzo superiore al restante lessico delle origini. Per una delle ottantamila parole delle origini il suo apparire nella Commedia è stato una garanzia di sopravvivenza nei secoli» (De Mauro 2016, pp. 51-52; e anche De Mauro 2015, pp. 21-22, in larga misura coincidente). Nel lessico di alto uso dell'italiano contemporaneo non pochi lemmi di matrice dantesca hanno un significato differente da quello originario (si continua solo il significante), avendo subito in diacronia forti riassestamenti semantici. Ma si tratta di considerazioni relativamente marginali, che non mettono in discussione la prospettiva di fondo. È il caso di polso s.m. oggi 'regione anatomica dell'arto superiore', che ricorre con il significato di 'arteria' per la prima volta nella Vita Nova - nonché, in dittologia con vena, in Paradiso, 1.90: «mi fa tremar le vene e i polsi» (il mancato riconoscimento del significato antico di polso ‘arteria’ provoca nella lingua corrente la nascita di espressioni come «tremare le vene ai polsi», dove polso evidentemente vale ‘regione anatomica dell’arto superiore dell’uomo’). Oppure di noia (Inferno, 1.76: «Ma tu, perché ritorni a tanta noia»), spiegato da Serianni 2010, p. 93: «noia ha un significato ben diverso da oggi, perché non indica ‘assenza di stimoli, gradevoli o spiacevoli che siano’ bensì ‘presenza di sensazioni dolorose, moleste’; insomma lo studente può anche provar noia leggendo Dante, ma quando il poeta parla di noia allude al mondo infernale, in cui si soffre eternamente, però non si sbadiglia (anche oggi, del resto, questa accezione sopravvive al plurale: avere noie con la giustizia, avere noie al fegato)». O anche di gentile, onesta e pare, famosissimo incipit della lirica stilnovistica, triade di parole che «stanno in tutt’altra accezione da quella della lingua contemporanea» secondo Contini [1947] 1976, pp. 23-4: «Gentile è ‘nobile’, termine insomma tecnico del linguaggio cortese; onesta, naturalmente latinismo, è un suo sinonimo, nel senso però del decoro esterno (si ricordi l’onestade di Virgilio compromessa dalla fretta); più importante, essenziale anzi, determinare che pare non vale già ‘sembra’, e neppure soltanto ‘appare’, ma ‘appare evidentemente, è o si manifesta nella sua evidenza’. Questo valore di pare, parola-chiave, ricompare nella seconda quartina e nella seconda terzina, cioè, in posizione strategica, in ognuno dei periodi in cui si compone il discorso del sonetto». Segnaliamo che De 2 sopravvivenza del lessico della Commedia due volte e mezzo superiore rispetto a quello del restante lessico delle origini. In quest’intervento intendiamo inoltrarci sulla strada tracciata da De Mauro dedicando attenzione specifica al tasso di sopravvivenza del lessico volgare dantesco, in diacronia prospettica (formula di De Mauro 2016, p. 51); elementi del lessico che, creati da Dante o anche da lui usati per la prima volta attingendo al repertorio del tempo (non in tutti i casi si può essere sicuri che si tratti di una assoluta creazione dantesca ex novo), rimangono con scarsissima o nessuna eco nella lingua trecentesca ma poi riaffiorano in fasi storiche successive, fino ad approdare nell’italiano contemporaneo. È il caso di molte decine di lessemi che abbiamo individuato nella banca dati dell’Opera del Vocabolario Italiano (OVI): neologismi e prime attestazioni di varia matrice introdotti nella lingua antica da Dante e ripetuti saltuariamente dai commentatori della Commedia (quando citano il brano della Commedia che intendono spiegare). Tali parole (la cui vita parrebbe ristretta al momento specifico della loro genesi) hanno sviluppi successivi talvolta imprevisti e sono correnti nella lingua di oggi. Come interpretare questi dati? Sono il segno che l’attività onomaturgica dantesca ha solo «riflessi deboli e scarsi»? Che «i n[eologismi] danteschi restano legati per lo più al contesto individuale in cui nacquero» (Ghinassi 1970, p. 38)? Dipende. Nel caso di lemmi come assettatore, attestato solo in Convivio I i 12,9 o come limone 'stanga del carro' e limoniere ‘animale (specif. cavallo o mulo) da tiro’, gallicismi isolatissimi del Fiore CCXVII e CCXVII 9,10 possiamo convenire che probabilmente è così: rimangono parole legate al contesto in cui nacquero, prive di sviluppi ulteriori sia nella lingua comune sia nella lingua poetica o letteraria. In altri casi però le affermazioni precedenti possono essere integrate o rettificate, almeno in parte, se si bada alla storia effettiva delle parole. Vocaboli di sicuro o probabile conio dantesco, hapax o poco più nella lingua del tempo di Dante, riaffiorano in altri momenti della nostra storia linguistica, fino ad approdare nell’italiano contemporaneo quale si riflette nel GraDIt, opera lessicografica che documenta in forma estesa e comprensiva la situazione sincronica della nostra lingua, perciò preferita (per i riscontri) ai vocabolari monovolume. Esaminando il percorso in diacronia seguito da alcune di queste attestazioni, vogliamo verificarne la presenza e la fortuna nei secoli successivi al Trecento, fino all’introduzione nell’italiano contemporaneo. Così facendo non ci prefiggiamo quindi di fornire solamente un regesto di hapax danteschi ma, con prospettiva più ampia, di guardare ai riflessi che l’attività onomaturgica di Dante ha avuto non tanto nella sua epoca ma nel repertorio della lingua di oggi, attraverso itinerari e mediazioni da ricostruire in dettaglio, fin dove è possibile. In prospettiva futura, per un volume al quale stiamo lavorando, ci poniamo l’obiettivo di individuare con maggiori particolari i fattori di continuità e di discontinuità rilevabili nelle porzioni di lessico esaminate (anche con riferimento all’aspetto fono-morfologico e semantico e all’eventuale ulteriore produttività in processi di derivazione variamente configurati). Sarà così possibile analizzare la “qualità” (origine, marca d’uso, ricezione, distribuzione per opere e, nella Commedia, per cantiche ecc.) e misurare la stabilizzazione e la variazione di un 9 10 Mauro 2016, p. 57, propone una diversa interpretazione semantica per pare, che potrebbe avere nel sonetto della Vita Nova il «significato di ‘mi sembra’, e non [i]l significato “nobile” di ‘appare’». Brambilla Ageno 1995, p.5. Anche Fioravanti 2014, pp. 102-4, ha la stessa lezione, con il seguente commento riprodotto alla lettera (anche nel corpo tipografico): ASSETTATORE DE’ VIZII: ‘chi segue il vizio con abitudine ormai inveterata’ (lat. assectator, dal verbo assequor). Invece settatore di vizii in Busnelli-Vandelli 1934, I, p. 9, con il commento ‘seguitatore di vizii’ e le motivazioni della scelta testuale: «nel latino di Dante si hanno esempi di sectator, ma non di assectator. Quindi nel testo crediamo che sia da leggere settatore di vizii: assettatore deriverà, per risonanza, dal vicino s’assetti». Eccone il commento di Formisano 2012, pp. 326-7: «limone: ‘timone’, ‘stanga’, francesismo da limons plur. di R. [= Roman de la Rose], 15785; hapax » e «limoniere: ‘timoniere’, ‘cavallo da corsa’, francesismo indipendente da R.; come limone (v. 6) è un hapax» (ovviamente non si entra nel merito della dibattutissima questione riguardante la paternità del Fiore). 3 segmento originale e innovativo del vocabolario dantesco nella tradizione lessicografica dell’italiano, anche al di fuori dei consueti percorsi della lingua letteraria11. 2. Il primo problema che si pone a chi voglia isolare il lessico di matrice specificamente dantesca da quello generalmente trecentesco è l’individuazione dei lessemi da classificare come hapax. Successivamente alla voce dell’ED dedicata da Ghinassi ai neologismi (Ghinassi 1970) sono stati pubblicati studi su singoli lemmi o su hapax in singole cantiche, soprattutto nel Paradiso (v. ad esempio Schildgen 1989 e Jacomuzzi 1991); una ricognizione sistematica degli hapax dell'intera Commedia, dopo gli studi ormai datati di Hollander 1988 e Hollander 1997, è stata recentemente condotta da Viel 2018, che tratta anche le prime attestazioni del poema. Manca a oggi uno studio sull’attività onomaturgica di Dante nell’intera sua opera. Va a indubbio merito di Viel essersi posto il problema del metodo da seguire per la sua indagine e averne chiarito i presupposti, ossia: quali strumenti adoperare, quanto considerare sicura la datazione delle opere, e che considerazione attribuire alle varianti non accolte a testo dell’opera esaminata. Se il punto di partenza e le questioni sollevate sono convincenti, convince meno la percezione delle potenzialità d’uso degli strumenti scelti allo scopo di costruire il regesto delle forme.12 Per motivi “partigiani” legati alla mia attività quotidiana all’Opera del Vocabolario Italiano13 e per chiarire i metodi operativi alla base di questo nostro lavoro, è necessario prima d’ogni cosa rettificare le considerazioni di Viel sul Corpus OVI, riduttivamente definito «prevalentemente un formario, solo parzialmente lemmatizzato» (p. 11). Non è esattamente così. Il Corpus OVI contiene 2.446 testi e 479.915 forme grafiche distinte;14 esso è costituito da testi editi in edizioni filologicamente affidabili, distribuiti in diacronia per tutto l’arco temporale che va dalle origini alla fine del sec. XIV (con qualche sforamento agli inizi del XV) e dislocati diatopicamente in tutte le varietà linguistiche peninsulari attestate, e inoltre nel siciliano e nel corso. Nella sua veste attuale il Corpus OVI non è lemmatizzato, ma include un nucleo di testi che nel Corpus TLIO (2.324 testi e 460.881 forme grafiche distinte) – su cui si basa la redazione del vocabolario – è lemmatizzato esaustivamente nelle sue singole forme grafiche, anche se non in tutte le occorrenze di tali forme;15 contiene poi anche altri testi non presenti nel Corpus TLIO. Tramite una funzione del software di gestione testuale GATTO (la funzione “lemmi muti”), è possibile interrogare il Corpus OVI per lemmi e reperire tutte le occorrenze delle singole forme associate almeno una volta a un lemma nel Corpus TLIO.16 Rimane un modesto 11 12 13 14 15 16 Si occupa di alcune voci «marcate dalla libertà e dall’audacia con cui Dante plasmò il suo vocabolario e rimaste tuttora parte viva del nostro» Manni 2018a (a p. 421 per la citazione testuale); e vedi anche Manni 2018b e Coluccia 2013. Cfr. nello specifico l’Introduzione: «Si comprende bene [...] l’importanza che riveste l’individuazione di un metodo articolato e rigoroso per giungere al reperimento delle forme, e per articolare compiutamente le diverse parti del regesto» (Viel 2018, p. 10). Le considerazioni che riguardano la datazione, l’utilizzo delle varianti, i criteri di formazione del regesto, sono rispettivamente alle pp. 13-4, 12-3 e 11-2. Sono responsabile della lemmatizzazione del Corpus TLIO dal 2006; dal 2017 sono affiancata da Diego Dotto. Questo e tutti i dati quantitativi riferiti ai corpora dell’OVI sono da datarsi all’ultimo rinnovo, del 18 gennaio 2019. Questo è stato sin dall’inizio l’obiettivo della lemmatizzazione del Corpus TLIO: associare ogni singola forma grafica almeno ad un lemma. Allo stato attuale c’è un residuo di 1.339 forme ancora prive di questa associazione; si tratta per lo più di forme non immediatamente perspicue, e pertanto tralasciate, che presentano oggettive difficoltà, di tipo linguistico, di categorizzazione grammaticale, ecc., talvolta anche di tipo testuale. D’altra parte, l’elevato numero di occorrenze lemmatizzate (4.007.895) fa sì che molte forme siano associate a più di un lemma; e il lavoro di lemmatizzazione procede proprio sul binario della disambiguazione delle forme omografe. Sarà questa la funzione a cui si riferisce Viel quando scrive che GattoWeb «consente una prima lemmatizzazione automatica delle occorrenze del corpus, la quale non divide gli omografi, ma tuttavia consente di reperire i lemmi in molte (non tutte) delle sue forme grafico-fonetico-morfologiche» (Viel 2018, p. 11, n. 4)? Occorre precisare che GattoWeb non consente alcuna lemmatizzazione ma è un programma di sola interrogazione; la gestione dei dati e la lemmatizzazione sono possibili solo con GATTO, attualmente alla versione 4.0. La lemmatizzazione poi è ancora 4 contingente di forme prive di associazione a lemma, ma va sottolineato che esse sono non più del 4% del totale;17 si può pertanto convenire che le forme non lemmatizzate costituiscono un insieme numericamente esiguo e percentualmente quasi irrilevante. Non solo: poiché i testi più antichi e di aree geograficamente significative sono tutti appartenenti al nucleo lemmatizzato del Corpus TLIO, le remore e i dubbi di Viel sulla possibilità che in futuro insorgano retrodatazioni rispetto ai dati già acquisiti perdono consistenza o cadono del tutto.18 Più delicata è la questione del censimento degli hapax danteschi sicuri. Poiché l’individuazione di tali lemmi è fondamentale anche nella nostra indagine, illustrerò come abbiamo cercato di minimizzare il rischio che qualche attestazione potesse sfuggire alla nostra ricerca preliminare, con due conseguenti possibili errori: non riconoscere un hapax dantesco o viceversa considerare hapax ciò che non lo è. Abbiamo operato come segue. Grazie al software GATTO (che consente di isolare singoli sottocorpora e ricavarne automaticamente i relativi lemmari e formari esclusivi) abbiamo definito un sottocorpus costituito da tutte le opere volgari di Dante (Vita nuova, Rime, Convivio, Commedia, e anche gli “incerti” Fiore e Detto d'amore) e dai commenti alla Commedia, sia quelli integrali (Jacopo della Lana, Francesco di Bartolo da Buti, l’Ottimo Commento e le chiose del cosiddetto falso Boccaccio), sia quelli relativi alla sola prima cantica (le chiose di Jacopo Alighieri e le anonime selmiane, il commento all'Inferno di Guglielmo Maramauro e le Esposizioni del Boccaccio)19 e ne abbiamo ricavato il lemmario esclusivo, che ha costituito la base della nostra indagine. L'inclusione dei commenti, nonostante crei un certo “rumore”, si è resa necessaria in quanto in essi spesso è riportato il testo dantesco (quello che i commentatori leggevano, naturalmente) e talvolta questi autori riprendono gli hapax danteschi per spiegarli; l’esclusione di tali testi avrebbe determinato la sicura perdita di informazioni su molti lemmi creati da Dante e di fatto privi di attestazione al di fuori della cerchia più o meno immediata di diffusione del poema. Poiché inoltre la lemmatizzazione del Corpus TLIO è, come detto, esaustiva sulle forme ma non sulle occorrenze, è stata necessaria una verifica sull’intero Corpus OVI (tramite la già citata funzione “lemmi muti”) per accertare l’effettiva esclusività dantesca dei lessemi isolati meccanicamente dal software GATTO. Sull’insieme di lemmi individuati tramite queste operazioni si è dovuta operare una minuziosa opera di scrematura, i cui particolari tecnici, specificamente legati ai criteri con cui è lemmatizzato il Corpus TLIO (secondari in questa sede), saranno ampiamente dettagliati nel progettato volume che le scriventi intendono dedicare all’intero corpus degli hapax danteschi (cfr. §1). La possibilità che esista, nella porzione di Corpus OVI non lemmatizzata, una forma diversa per morfologia flessionale riconducibile ad uno dei lemmi in prima istanza individuati come esclusivamente danteschi è stata poi ridotta al minimo tramite la ricerca per forme, considerate nelle loro possibili variazioni grafiche e fonetiche. In linea teorica, ulteriori attestazioni potrebbero trovarsi in testi non inclusi nemmeno nel Corpus OVI. Per verificare (o scartare) tale eventualità abbiamo fatto ricorso sistematico ad altri strumenti lessicografici (in particolare il GDLI e il LEI, quest’ultimo per la parte pubblicata) e alla BIZ. D'altra parte, se nei 2.446 testi del Corpus OVI non si rinvengono attestazioni al di fuori di Dante e dei commentatori, è lecito concludere che si tratta di lessemi estremamente rari. 17 18 19 manuale, ed è in corso la sperimentazione di un lemmatizzatore semi-automatico, l’automatismo totale essendo utopico in un corpus di varianti linguistiche non ancora stabilizzate da una norma. E per completezza d’informazione va detto che all’epoca in cui Viel ha scritto le parole citate il Corpus OVI conteneva ancora il Corpus TLIO con la sua lemmatizzazione (il primo Corpus OVI privo di lemmi è stato pubblicato il 18 gennaio 2019). La percentuale è calcolata sommando alla differenza tra il numero di forme del Corpus OVI e quelle del Corpus TLIO, che è di 19.034 forme, il residuo di 1.339 forme ancora prive di associazione almeno ad un lemma nel Corpus TLIO (per cui v. sopra, nota 15). Rimane ovviamente il problema per le opere quasi coeve alla Commedia. Per i criteri di inclusione di testi nel Corpus TLIO v. il documento pubblicato nel sito dell’OVI al link http://www.ovi.cnr.it/images/pdf/criteri.pdf. Per l'indicazione delle specifiche edizioni di riferimento si rimanda alla Bibliografia dei citati del TLIO (http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/ricbib.htm); l’edizione della Commedia è quella a cura di Giorgio Petrocchi. 5 Con tutte queste cautele metodologiche, riteniamo di poter affermare che i lemmi da noi individuati costituiscano l'insieme virtualmente più vicino al reale insieme di neoformazioni dantesche non altrimenti attestate nel Trecento. Esiste infine una questione che abbiamo volutamente accantonato, per lo meno in questa fase del nostro lavoro. Il nostro testo di riferimento della Commedia è quello stabilito da Petrocchi;20 non si prendono in considerazione le varianti fornite dalle edizioni successive (Lanza, Sanguineti, Inglese) né quelle, più cospicue, testimoniate dalla copiosissima tradizione manoscritta del testo dantesco, caratterizzata com’è noto fin dai suoi esordi da un forte tasso di variazione. Il Vocabolario Dantesco (in sigla VD) in corso di elaborazione, frutto di un progetto dell'Accademia della Crusca in collaborazione con l’Opera del Vocabolario Italiano, accoglie e classifica anche le varianti linguisticamente significative, in quanto testimonianza preziosa dell’uso linguistico del tempo e del luogo dove il manoscritto fu confezionato. In attesa dei risultati che verranno da un’impresa da poco iniziata e quindi al momento attuale fatalmente incompleta (il completamento del vocabolario della Commedia è previsto per il 2021, settimo centenario della morte di Dante), abbiamo giudicato opportuno limitarci agli hapax del testo Petrocchi. Tuttavia alcune varianti sono emerse di fatto (quasi preterintenzionalmente, potremmo dire) anche nel nostro lavoro, individuate proprio grazie all'inclusione dei commenti nel sottocorpus da noi costruito. Un esempio per tutti. Il verbo iniare (nella forma pronominale s’inii), accolto e spiegato nei primi commenti danteschi come “verbo informativo”21 con il significato di ‘diventare simile sino a identificarsi’ o di ‘mettersi dentro’,22 è un parasinteto attestato nella tradizione manoscritta della Commedia (come documenta l’apparato dell’edizione Petrocchi, Paradiso, 33.44), assunto a testo da Sanguineti (in forza della testimonianza di Urb e LauSC). Petrocchi reca invece s’invii (Paradiso, 33.4445: «nel qual non si dee creder che s’invii / per creatura l’occhio tanto chiaro»), sulla scorta di altri testimoni.23 In questo, come in altri casi che potremo occasionalmente registrare, ci limiteremo a segnalare e a commentare la variazione testuale, senza discutere le scelte dei diversi editori (scartando naturalmente gli errori palesi, che generano parole-fantasma mai esistite). 3. Nel nostro spoglio abbiamo individuato lemmi di varie tipologie: alcuni sono latinismi (mansuescere, ombrifero, ostante – latinismo giuridico – precinto, preconio, ecc.), altri appartengono alla lingua comune (avvantaggiarsi, luminosità, minoranza, minuzia, ossame, ecc.), altri ad ambiti settoriali specifici (retorica: abbellire e abbellimento, appulcrare; scienza: farea; religione: battezzatoio, cherubo, nume, osannare; musica: armonizzato, melode; filosofia: motrice; geometria: pentangolo; astronomia: parallelo come agg. riferito ad ‘arco’; trattatistica scientifica: l’alterato particoletta ‘partizione di testo’, ecc.). Per tali elementi, a parte la attestazione dantesca, non è dato di rinvenire ulteriori riscontri nella 20 21 22 23 In tutto il lavoro, le edizioni correnti della Commedia verranno sempre citate con il solo nome dell’editore, per comodità e per brevità. Gli estremi bibliografici completi sono nella lista finale di Abbreviazioni. Sull’aggettivo e sul suo uso nel commento di Jacopo della Lana vedi avanti, nota 41. Il primo significato è quello dato da Jacopo della Lana e dall’Ottimo, il secondo dal Buti: v. TLIO s.v. iniare. L’intera situazione è così efficacemente riassunta da Inglese nel suo commento al verso. La lezione invii è «di Triv Ham (inui) La Parm Mad &c. Altri testi imii (Ash Pr), inii (Eg Fi Rb Urb, promosso da Sanguineti), innii (Laur), inteso dal Buti come ‘metta dentro’, da un *iniare di cui non si saprebbero fornire né riscontri, né un principio formativo plausibile (cfr. la nota della Chiavacci). Il Lana glossa innii, “doventare simele a quella cosa ch’è considerada”; ma anche “ochio creato non po’ inviarse al fundo della divinitade”». Ed ecco la nota di Chiavacci Leonardi (1991) appena richiamata: «gran parte dell’antica tradizione manoscritta legge s'inii, da un inesistente iniare, verbo che il Buti spiega ‘mettere dentro’. E si è pensato a un verbo di conio dantesco, formato dal pronome io, come inluiarsi, intuarsi e inmiarsi di IX 73 e 81 (Parodi 1957, p. 267). Ma l'ipotesi è inaccettabile, perché iniarsi non potrebbe essere usato transitivamente, come qui, dove è in forma passiva, come mostra il complemento d'agente per creatura (“che da una creatura possa essere inviato l'occhio ecc.”). Riteniamo perciò sicura la scelta del Petrocchi (già del Vandelli, che tuttavia si dichiara incerto) tra due lezioni così facilmente scambiabili dal punto di vista paleografico». 6 documentazione disponibile fino a tutto il Trecento, se si esclude la quasi ovvia e naturale eccezione dei commenti alla Commedia (cfr. § 2). Nelle pagine che seguono concentreremo l’attenzione su una specifica categoria di neologismi, i parasinteti verbali, allo scopo di verificarne la presenza e la fortuna anche in fasi della nostra storia linguistica successive a quella contemporanea di Dante o immediatamente posteriore. In questo campo la straordinaria abilità linguistica e l’inventiva di Dante si dispiegano ampiamente. Produttivi sono i prefissi ad-, di-, dis-, s-, tra(n)s- e soprattutto in-.24 La formazione delle nuove parole avviene secondo un modello presente in latino e attivo in volgare già nei decenni precedenti. A titolo di esempio, con riferimento al prefisso adtroviamo affamare nello Pseudo-Uguccione, Istoria, XIII pm. [lomb.], appigrare in Pallamidesse Bellindote (ed. Monaci), a. 1280 (fior.), cfr. Corpus OVI. Il raddoppiamento iniziale di appiattare nel “siciliano” Giacomino Pugliese, XIII pm., leggibile nel testo pubblicato da Panvini e trasferito nel Corpus OVI, si deve all’editore; in realtà il manoscritto Vat. Lat. 3793, unico relatore della canzone Donna, di voi mi lamento, reca ch’io m’apiatti, con la scempia (cfr. l’edizione di Giuseppina Brunetti in PSs II [→17.5] 47). La «renitenza alla geminazione [del prefisso verbale a- che] è, se non proprio una costante, un fenomeno a elevatissimo indice statistico nelle antiche scritture italiane, quali ad esempio i canzonieri Palatino e Chigiano, non di rado lo stesso Rediano» (Contini [1961] 2007, I p. 171), si manifesta anche nel Vaticano. Per quanto lo riguarda, Dante replica questa modalità di neoconiazione lessicale utilizzando come basi in primo luogo aggettivi e nomi e ne dilata inoltre l’applicazione, estendendola a numerali, avverbi, pronomi personali e pronomi possessivi (Tollemache 1984; Santoro 2013). Commentiamo solo alcuni casi, avvalendoci del sussidio dei consueti fondamentali strumenti quali TLIO, GDLI, BIZ e, per la parte pubblicata, LEI e anche il recentissimo VD; sarà costante, ovviamente, la verifica delle differenze tra le varie edizioni dei testi danteschi, in particolare della Commedia, e la consultazione di ED. Ci siamo inoltre avvalse del database del Dartmouth Dante Project (in sigla DDP) per una prima ricognizione sui commenti, il cui testo è stato successivamente verificato sulle edizioni a stampa più recenti o ritenute più affidabili (che in qualche caso non coincidono con quelle indicizzate nel DDP).25 3.1. La Commedia attesta un’occorrenza della forma intr. pron. s'ammusa (Purgatorio, 26.35: «così per entro loro schiera bruna / s'ammusa l'una con l'altra formica»). L'unica altra occorrenza trecentesca nel Corpus OVI è la citazione testuale con glossa nel commento di Francesco da Buti: «S'ammusa; cioè tocca lo muso dell’una lo muso dell’altra». Fuori corpus: Benvenuto da Imola (ad locum): «Ad literam ergo dicit poeta: così l’una formica s'ammusa con l'altra, contingentes se invicem cum ore». La peculiarità del lemma attrae l’attenzione anche dei commentatori post-trecenteschi: Cristoforo Landino, 1481: «fa comparatione da le formiche le quali portando le biade alle loro caverne quando l'una si scontra nell'altra s'ammusano». Alessandro Vellutello, 1544: «scontrandosi, si baciavano, e faceansi festa insieme a similitudine de le formiche, quando scontrandosi s'ammusano "l'una con l'altra", dimostrando per questo il loro amore de l'una verso de l'altra mosso da carità e non da lascivia, come quello del quale erano state macchiate mentre furon al mondo». Luigi Benassuti, 1864-68: «È un fatto che le formiche che vanno e vengono spesso s'ammusano, o si toccano muso a muso, come se volessero parlarsi, o diremo meglio, come se volessero indettarsi del luogo dove si trova più ben di Dio, e da far fortuna». Se si escludono queste citazioni, tutte direttamente collegabili al testo della Commedia, per secoli (fino al pieno Seicento) la coniazione lessicale dantesca resta praticamente ignorata. Solo nella seconda metà del sec. XVII, quasi inaspettatamente, il lemma riprende a vivere e a circolare 24 25 Non solo in Dante, ovviamente. Il caso di iniare che abbiamo discusso nel § 2 dimostra la produttività di questo modello. Rimandiamo alla List of Commentaries del database per gli scioglimenti delle abbreviazioni bibliografiche delle singole edizioni, citate con il nome del commentatore e l’anno. 7 nei testi letterari. La prima citazione di questa specie di “nuovo corso” dell’hapax dantesco (nella medesima forma flessiva dell’originale) parrebbe rimontare a Daniello Bartoli, La Ricreazione del savio (1659): [le formiche] «tutte affaccendate, e ciascuna al solo affar destinatole intesa, ammusandosi nello scontrarsi (il che o sia bacio o avviso che l’una all’altra si diano è alcun segreto, e da noi non inteso)».26 Segue una fitta serie di attestazioni in vari autori ottonovecenteschi: Carducci, D'Annunzio, Tombari, Viani, Gozzano, Pirandello. Su piani diversi si collocano la ripresa in contesto dialettale romanesco dovuta a Belli («Che a vvedella cantà llei sce s'ammusa») e la variazione in forma transitiva che ne fanno lo stesso Belli («te se strufìna, t'ammusa, te lecca, / te scòtola la coda...»)27 e Pascoli («Mio padre palpeggiò la sua cavalla / che l’ammusò con cenno familiare»). L'hapax dantesco si dimostra vitale anche al di fuori dal contesto strettamente letterario, nel dialogo tra Totò e Ninetto Davoli, padre e figlio, che si svolge all'inizio del pasoliniano28 Uccellacci e uccellini (1966): «Totò: “Con la luna nun se prende!” Ninetto: “Chi te l’ha detto? E perché?” Totò: “Perché s’ammusa.29 E tocca aspetta’ l’alta marea.” Ninetto: “A la faccia del caciocavallo! L’alta marea!”». Ecco ora, a riscontro, la voce del GraDIt, con modesti tagli o interventi (ininfluenti per il nostro discorso) e con qualche uniformazione di carattere tipografico: ammusarsi v.pronom.intr. LE [der. di ammusare] 1 rec. [= reciproco], di animali, toccarsi muso con muso: così per entro loro schiera bruna / s'ammusa l'una con l'altra formica (Dante). 2 tosc. immusonirsi, imbronciarsi. ammusare v.intr. e tr. LE [1313–19; der. di muso con ad– e –are] 1 v.intr. (essere) spec. di cavalli, sollevare il muso a strattoni; rec., stare muso a muso: a l'ombra stan / ammusando i cavalli (Carducci); 2 v.tr. toccare con il muso. 3.2. Nello stesso canto 26 del Purgatorio in cui si registra il verbo ammusare appena analizzato, al v. 87, Dante scrive di Pasifae «colei / che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge» ‘quella che si fece bestia nei pezzi di legno fatti a forma di bestia’, cioè che prese l’aspetto di una vacca entrando nella vacca di legno costruitale da Dedalo. Si tratta, a detta di Singleton (1970-75, II/2, p. 638), di «one of the great verses of the poem». Un verso in cui ci sono due hapax: il verbo imbestiarsi e l’aggettivo imbestiato. Siamo nel canto dei lussuriosi. Guido Guinizzelli sta spiegando il peccato suo e delle altre anime della cornice, che seguirono l’istinto e non la ragione, facendo ricorso per tre volte – come bestie, s'imbestiò, imbestiate – alla parola bestia e ai suoi denominali, creati da Dante in obbrobrio di questi peccatori. Qui la figura retorica dell'adnominatio «aspreggia con violenta efficacia la degradazione che il peccato comporta, rimartellando gli accenti drammatici del rimorso» (Roncaglia 1955, p.12). Tanto il verbo quanto l’aggettivo che ne deriva hanno ulteriori attestazioni trecentesche soltanto nei commenti, che riprendono il testo della Commedia, e non 26 27 28 29 Il brano, citato in GDLI sulla base di Falqui 1943, è stato ricontrollato sull’edizione di Mortara Garavelli 1992, p. 274 («Capo decimoterzo. Il microscopio. Considerazioni dello stupendo artificio nel comportamento de’ minutissimi animalucci»). Registrato in Vaccaro 1969, s.v. ammusà ‘toccare con il muso’. Ricorre anche ammusasse v.pronom.intr. ‘fare il muso, imbronciarsi’, con il seguente esempio belliano: «nun va dicenno co li su’ ruffiani / che a vedella cantà lei ce s’ammusa?!» Pasolini intitola l'ultima sua raccolta di versi Trasumanar e organizzar (1971), usando un altro hapax parasintetico dantesco (che, sulla scorta dell’esempio pasoliniano, successivamente è stato ripreso in iniziative pubbliche, manifestazioni, ecc.). Considerata l’estrazione romana e napoletana dei due protagonisti, possono essere indicativi i seguenti riscontri. Per il romanesco, oltre che nell’esempio di Belli citato nella nota 27, ammusasse ‘immusonirsi, imbronciarsi, mettere il muso’ è in Ravaro [1994] 2001. Per il napoletano, ricorrono ammossare/ammussare ‘ingrognare, portare il broncio, imbronciare’ in D’Ambra 1873; ammussare/ammussarse ‘far muso, pigliar il broncio’ in Andreoli [1887] 1996; ammussarse ‘prendere il grugno, ingrugnare, mettere il broncio’ in D’Ascoli 1979; ~ ‘immusonirsi’ in Salzano 1979; ~ ‘imbronciarsi, essere imbronciato’ in Zazzera [2013] 2014; ecc. La voce appare, con le ovvie variazioni fonetiche e morfologiche, in altre aree meridionali: abruzzese e molisana (DAM), barese (VDBI), salentina (VDS, dove sono presenti anche i significati ‘appressare le labbra ad un vaso’ e ‘bere’), lucana (DDB), calabrese (NDDC), siciliana (VS). 8 differiscono tra loro nella spiegazione: Jacopo della Lana (1324-28) «se fé vaca»30 e Francesco da Buti (1385-95): «si fé simile a la bestia». Le imbestiate schegge sono «quello instrumento ligneo, nel quale ella [= Pasifae] entrò, cuverto della scorça della vidella» (Jacopo della Lana: «le ’mbestiade schiege»);31 «la vacca fatta da Dedalo di legname e coperta col cuoio di quella vacca» (Francesco da Buti).32 Il senso sembra chiaro ai commentatori e immediatamente comprensibile per la notorietà del riferimento mitologico alla nascita del Minotauro.33 L’associazione del sintagma ai miti minoici è molto forte: imbestiate scheggie è usato dall’Ottimo a commento di un differente passo della Commedia (Inferno, 12.11-15), quasi emblema della tradizionale infamia «delli abitanti di Creti». Per soddisfare la voglia di Pasifae, «questi [= Dedalo] fece scorticare la vacca che 'l toro più amava, e fece una vacca di legno; e copersela di quello cuoio, e missevi dentro Fasife boccone; sì che per questo inganno, menato il tauro dalla luxuria, amontòe questa inchiusa nelle imbestiate scheggie» (Boccardo-Corrado-Celotto 2018, I, pp. 288-9). Il significato “dantesco” di ‘farsi bestia’, o in forma transitiva, ‘rendere bestia’, si ritrova anche, talora svincolato dal riferimento al testo della Commedia, a partire da Tasso e poi in Iacopo Soldani, Forteguerri, nel gesuita settecentesco Giovanni Battista Roberti, in Tommaseo, D’Annunzio (dove è riferito a Pasifae), Bontempelli, Pavese. In un ambito direttamente collegato a Dante si sviluppa il significato traslato ‘comportarsi da bestia’ e quindi, anche in senso morale, ‘abbrutirsi, ridursi a estrema abiezione’. La prima attestazione del lemma con questo valore si trova in un testo collegato all’Ottimo commento alla ‘Commedia’, nell’Appendice al canto 29 del Paradiso, versione del gruppo c1 («sorta di collettore contenente chiose provenienti» dal commento dell’Ottimo e da quello del Lana: «alcuni sono abituati alle sensitive delectationi, e questi sí si imbestiano, secondo che vuole Aristotile nel secondo della Politica» (Boccardo-Corrado-Celotto 2018, III, rispettivamente a p. 52 e a p. 1832). Questo nuovo significato è registrato continuativamente nel corso dei secoli, da Annibal Caro a Montale (GDLI). Con ulteriore slittamento semantico, il verbo, costruito anche in forma assoluta, viene inoltre a significare ‘infuriarsi, abbandonarsi all’ira’ a partire da Pallavicino (ante 1644), fino ad oggi (GDLI e BIZ). Ulteriori attestazioni di questo senso ricorrono in vari dialetti settentrionali (genovese, lunigianese, ladino, veneto, emiliano occidentale) e nel corso cismont. or. (LEI 5 1323 35-48). Il deverbale imbestiato ricalca gli stessi significati appena esaminati: ‘che è fatto a forma di animale o ha preso l’aspetto di animale’ (da Tasso a Pavese); ‘abbrutito, avvilito, degradato; depravato, corrotto’ (da B. Davanzati a Bacchelli); ‘infuriato, adirato’ (dal 1864, Guerrazzi in poi), oltre che in alcuni dialetti del settentrione (GDLI e BIZ, per i riscontri italiani; LEI 5 1323 51-54 per le forme dialettali). Oggi le forme di cui trattiamo sono vitali in diversi contesti, con una notevole varietà di sfumature semantiche. La ricerca in rete, alla quale eccezionalmente conviene far ricorso in questo e nei successivi §§ 3.3 e 3.5, vale a documentare l’ampia variazione di significati e spesso testimonia usi incipienti o non canonici della lingua al momento non accolti dai vocabolari (ma non può escludersi che le cose cambino in futuro se, con il passare del tempo, la rarità non risultasse più tale). Il verbo imbestiarsi / imbestiare significa ‘abbrutirsi /-re’ in: «Ferragosto, un varco nel tempo con il dio Pan e il sole che imbestia» (in Vieni avanti creativo, blog giornalistico di Carlo Grande ospitato sul sito de La Stampa https://www.lastampa.it/Blogs/vieni-avanticreativo, 12.08.2011) e in «Si fa un vanto, il moderato, di perdere di rado la calma, [...] e se poi si oltrepassano i confini del territorio che ha marcato col suo piscio e ritiene “roba sua” allora s'imbestia, reclama il fucile per farsi giustizia da solo e, in aggiunta, la castrazione chimica e la 30 31 32 33 Cfr. Volpi 2010, II, p. 1488. A p. 1499 la versione del codice toscano M 2, presentata in sinossi, è «si fece vacca». Cfr. ancora Volpi 2010, II, p. 1488. Secondo la lezione di M2, a p. 1499, «le imbestiate schegge […] quello instrumento ligneo nel quale ella entrò, coverto della scorza della vacca». E sulla stessa linea anche i commentatori latini: Benvenuto da Imola (1375-80): «che s'imbestiò, faciens se vaccam, nelle imbestiate schegge; quae sunt stellae lignorum, quia intravit vaccam ligneam». E ancora, più tardo, Johannis de Serravalle (1416-17): «que se imbestiavit in bestialia scheggia, idest in bestialia ligna, idest vacca lignea». Di diversa opinione Viel 2018, p. 89: «Passo che richiede lo sforzo di un commento». Nelle righe che seguono si allude a un «errore (cfr. imbestiale)» in cui sarebbero incappati «alcuni» commentatori come «Iacopo della lana: “l’imbestiale schegge”» (errore che non mi pare di leggere nel testo del Lana). 9 pena di morte» (su Gli stati generali, sito di ambito giornalistico www.glistatigenerali.com, 22.10.2018). Vale ‘inferocirsi / fare infuriare’ nel racconto dell’intervista di Camilla Cederna ad Adriano Celentano del 29 settembre 1963 apparso sulla rivista anarchica A. (anno 42 n. 371, maggio 2012): «Fu anche l’occasione, l’intervista, per ascoltare in anteprima Sabato triste, una canzone rigorosamente maschilista in cui si parla di un lui che torna a casa, lei non c’è e non c’è nemmeno il pranzo pronto e lui s’imbestia perché ha fame»; e nel titolo di un un pezzo di dagospia.com (29.09.2015): «Beccare tre gol in mezz’ora dal Bate Borisov è l’ennesima gogna europea dopo i fattacci noti di Manchester United e Bayern Monaco. Le basta giocare mezz’ora per sfiorare il pareggio. E questo imbestia ancora di più». È singolare l’occorrenza che si legge in un forum di informatica (https://forum.html.it/forum/showthread/t-892291.html, 11-10-2005), dove la risposta ad una domanda su un problema d’installazione di un hardware esterno di acquisizione video è: «C'è scritto chiaro NON-MICROSOFT! Per quello s'imbestia». Lo strumento viene umanizzato e ‘s’inferocisce’, con l’effetto di andare in tilt, d’incepparsi, cessando di funzionare, che è il vero senso del verbo in questo contesto. Il significato originale ‘rendere bestia’, ‘diventare bestia’ si ritrova più volte nelle presentazioni di differenti allestimenti teatrali della Fedra di Seneca: «Seneca [...] analizza questa dolcissima e spietata follia d'amore. Studia il "mostro" che è custodito dentro di noi e che si impossessa di noi e ci imbestia, se non impariamo, con la sapienza, a ricondurlo nella giusta sede della sua custodia» (http://www.taormina-arte.com/2005/scheda.asp?ID=27, agosto 2005) e «l’amore che si ammala e s’imbestia di furore» (http://www.lospettacoliere.it/lamore-che-siammala-e-simbestia-di-furore-cioe-fedra-di-euripide-e-seneca-straziata-da-una-passione incestuosa/,15.02.2017). In un certo senso il cerchio si chiude, Fedra è la figlia di Pasifae. L’aggettivo imbestiato ha diffusione minore rispetto al verbo da cui deriva, ma non trascurabile. Vale ‘diventato bestia’ in «un governare imbestiato in Belzebù», traduzione di Flavio Poltronieri di un verso della canzone Un hombre en General degli Inti-Illimani (https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=51218),34 e anche in «Dunque, ricapitolando: un principe imbestiato, un gobbo deforme, un nano-buffone, un uomo orrendamente sfigurato» (a proposito della Bestia, personaggio della fiaba La bella e la bestia in Mari 2017). Significa ‘abbrutito’ nel verso imbestiati dalla birra, che ricorre identico in E la luna e le stelle e il mondo, di Charles Bukowski (traduzione di Vincenzo Mantovani): «Lunghe passeggiate/ notturne - / ecco che cosa / rasserena / l’anima: / sbirciare nelle finestre / guardare stanche / donne di casa/ che cercano / di tenere a bada / i mariti / imbestiati dalla birra»; e nella canzone La notte se n'è andata di Vinicio Capossela: «Io ti ammazzo con la birra / non ti far vedere più / ti sotterro con la birra / non ti far vedere più / imbestiati dalla birra / dentro o fuori e così sia / muri sopra e muri intorno / la birra è tutto quel che c’è». E infine sta per ‘inferocito’ nel titolo del saggio di Raffaele Girardi (2011) «Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo». E anche in Berlusconi, altro che agibilità politica, di Federico Orlando (https://www.articolo21.org/2013/08/altro-che-agibilita-politica-delleader-maximo/, 13 agosto 2013): « Per il resto, le toghe nere, cerchino pure rimedio al Tar, cui ricorrono tutti i genitori imbestiati con presidi e professori che bocciano i loro figli, invece di dargli qualche lezione affinché studino di più». In chiusura, ecco le voci del GraDIt, che per ragioni evidenti, legate alle necessità di tipizzazione insite in un dizionario, non possono rendere analiticamente conto di tutte le sfumature di significato e della varietà degli ambiti d’uso dei lemmi che abbiamo riscontrato attraverso gli esempi precedenti: imbestiare v.tr. LE [1313–19; der. di bestia con 1in– e 1–are] 1 trasformare in bestia: Circe ... la maga che imbestia gli uomini (Pascoli). 2 BU fig., abbrutire. imbestiarsi v.pronom.intr. LE [der. di imbestiare] 1 trasformarsi in bestia o diventare simile a una bestia, spec. con riferimento a personaggi mitologici. 2 BU fig., degradarsi, abbrutirsi. imbestiato p.pass., agg. 1 p.pass., agg. imbestiare, imbestiarsi. 2 agg. LE furibondo, furioso. 34 Il testo originale reca: «un gobernar bestiado en Belcebú». 10 3.3. Inferno 14.115 presenta la forma intr. pron. si diroccia (in rima difficile con goccia e doccia). Costeggiando la boscaglia dei suicidi, Dante e Virgilio s’imbattono nel Flegetonte. Virgilio ne spiega l’origine: le lacrime che gocciano dal Veglio di Creta forano la roccia e si raccolgono in una corrente fluviale che si diroccia ‘scende di roccia in roccia’, ‘precipita’ fino a formare i fiumi infernali. Si tratta, con ogni verosimiglianza, di un francesismo, considerata la palatalizzazione della velare originaria (analogamente it. roccia < fr. a. roche, cfr. DELIn, Cella 2003, p. 528, Viel 2018, pp. 68-9), ipotesi ampiamente dichiarata nella bibliografia e nei commenti relativi al passo dantesco.35 Nel Corpus OVI il lemma risulta glossato da due commentatori antichi, Maramauro: «se dirocia, idest discende infin al piano» e Francesco da Buti: «si diroccia; cioè si discende correndo a modo di uno fiume». Fuori corpus, altre attestazioni trecentesche si rinvengono nelle Esposizioni sopra la Comedia di Dante di Giovanni Boccaccio (1373-75): «si diroccia, cioè va cadendo di roccia in roccia, cioè di balzo in balzo, per li quali di cerchio in cerchio, come veder s’è potuto infino a qui, si discende al profondo dello 'nferno» e Benvenuto da Imola (1375-80): «e lor corso se diroccia, idest derivat per diversos alveos». Ulteriori, numerose citazioni del testo dantesco ritroviamo nei commentatori e negli esegeti dei secoli successivi: Giovanni Bertoldi da Serravalle (1416-17), Vincenzio Borghini (intorno agli anni Settanta del Cinquecento)36 e molti altri. Il significato del verbo pare chiaro ai diversi interpreti, al più si scorgono differenti lievi sfumature e dettagli nella descrizione del movimento in caduta: ‘discendere’, ‘cadere di roccia in roccia’, ‘precipitare /-si di roccia in roccia’. In un contesto riconducibile a Dante (ma svincolato rispetto al passaggio di Inferno 14.115) si colloca l’uso del lemma (in forma non pron.) nel commento dell’Ottimo a Purgatorio 23.61-69: «in quella acqua che diroccia» (Boccardo-Corrado-Celotto 2018, II, p. 1175). Indubitabile l’eco della Commedia nella rima diroccia : roccia : goccia : doccia di Benedetto Varchi (sonetto C A messer Antonio Allegretti) e nell’«aspro cinghio, che diroccia» del gesuita Padre Antonio Bresciani (1798-1862; cinghio risulta dalla nostra analisi essere un altro hapax dantesco): in questi ultimi due esempi il verbo significa ‘diventare scosceso, scendere a picco’. Senza richiami espliciti alla originaria matrice dantesca, il verbo ricorre in ambito letterario. Oltre che alla caduta dell’acqua (in Piero Segni - l’Accademico “Agghiacciato”, che lo usa traducendo il trattato apocrifo Περὶ ἑρμενείας attribuito al peripatetico Demetrio di Falero -, in Leopardi, in Prati, in Dossi, in Pascoli, in Angiolo Silvio Novaro), si trova riferito allo spostamento precipitoso verso il basso di un edificio (Pascoli) o di una persona (Beltramelli), anche al protendersi di un leggero alito di vento (Montale: «Rara diroccia qualche bava d'aria / sino a quell'orlo di mondo che ne strabilia»), cfr. GDLI. Oggi si trova ancora in testi con ambizioni poetiche37 o comunque culturali, spesso con sfumature che deviano o innovano rispetto al valore semantico iniziale: una recensione38 e un testo teatrale.39 Isolato, forse legato alla rarità del lemma e al conseguente tentativo di interpretarlo etimologicamente, il significato con cui occorre in uno scritto dedicato a tradizioni e cronache di Galatina, località del Salento.40 35 36 37 38 39 40 In TB, s.v. dirocciare: «ant. fr. dérocher»; Inglese 2016, I, p. 190: «ant. franc. desrochier ‘cadere giù’ (Pagliaro)» (senza ulteriori specificazioni. Non dà risultati la consultazione di Pagliaro 1967). L’occorrenza citata da Viel 2018, p. 68, è semplicemente una ripresa del testo dantesco (cfr. GDLI, s.v.). Solo a titolo di esempio, Un ricordo [Il sesamo e il giglio] di Paolo Melandri: «Nulla di quanto fu mio mi preda il vespro che diroccia» (http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=26938&Tabella=Poesia) o Se affondar risento di Michele Cozza: «questo dirocciare da rupi di speranze» (http://www.club.it/autori/michele.cozza/poesie.html) (in entrambi i casi ‘precipitare’). Recensione (19 luglio 2013) di Mauro Fratta a L'ordine della quercia velenosa di Brent Hartinger http://www.culturagay.it/recensione/1206.: «non è facile elogiare le piccole cose semplici senza dirocciare nel pedestre» (qui varrà ‘precipitare’ con sfumatura negativa, ‘scadere’). Chiti 2002, p. 55: «M° GALANTERIE: - E poi vorrei lasciare la parrucca alla pettinatora. CESTO: - Che ve la deve dirocciare? M° GALANTERIE: - Brutto maiale. Come ti permetti! Dirocciati te gli orecchi e il collo prima di parlare!» Il senso, evidentemente negativo, non è chiaro: forse ‘liberare da escrescenze’, ‘ripulire’? E cfr. la nota seguente. Virgilio 1998, p. 102: «Maschi e femmine, dai più grandi ai più piccini, hanno, nella stessa giornata, lavorato da giornalieri sul fondo altrui, e dirocciato ai Piani il fondarello proprio od in affitto, trasformandolo in giardino». Qui il verbo varrà ‘ripulire il terreno dalle pietre’ (fondo è ‘podere, campo’, cfr. VDS, s.v.; fondarello ‘piccolo podere’. I Piani è denominata a Galatina una zona extraurbana a poca distanza dal centro cittadino, cfr. Salamac 1983, p. 99, sulla base delle cartine dell’Istituto Geografico Militare; chiani, con fonetica dialettale [<PL], vale ‘zone rocciose’, cfr. VDS, s.v.). 11 In conclusione la parola, pur mantenendo nel tempo un’impronta latamente letteraria e godendo di una circolazione piuttosto modesta, mostra un certo dinamismo che consente lo sviluppo di significati nuovi rispetto a quello iniziale. Di seguito, il GraDIt: dirocciare v.intr. OB [av. 1313; der. di roccia con 1di– e 1–are] dirocciarsi. dirocciarsi v.pronom.intr. LE [der. di dirocciare] precipitare di roccia in roccia: lor corso in questa valle si diroccia (Dante). 3.4 Nel Corpus OVI è registrata la prima attestazione del verbo inoltrare in Dante, Paradiso, 21.94, nella forma pronominale s'innoltra («però che sì s'innoltra ne lo abisso»), ripresa nei commenti solo come citazione dantesca (anche nella forma senza raddoppiamento inoltra), e dunque equivalente ad attestazione unica; la voce del TLIO non registra altre attestazioni trecentesche nemmeno come fuori corpus. Sia Jacopo della Lana che l’Ottimo definiscono il termine come “verbo informativo”,41 glossandolo rispettivamente ‘se delunga’ (così anche l'Anonimo Fiorentino: ‘si dilunga’) e ‘passa oltre’; Francesco da Buti glossa ‘si mette tanto oltra’. Benvenuto da Imola ha: «Et reddit rationem huius, dicens: però che quel che chiedi sì s'inoltra, idest ita profundatur». Nel commento di Baldassarre Lombardi (1791-92) il verbo è adoperato per chiosare Paradiso, 30.7-9, riferito all’Aurora, che nel testo dantesco «vien […] più oltre»: «E […] quanto l’Aurora […] più s’innoltra»; e le stesse parole per lo stesso passo adopera Luigi Portirelli (1804-5). Luigi Bonassuti (1864-68) usa invece il verbo nell'esegesi di Purgatorio, 2.58-59: «chi smonta da una barca sul lido, mette il piede al confine dell'acqua colla terra, all'incontro chi dalla terra viene al lido, non vi si inoltra al segno di chi smonta da un battello». Il verbo va dunque diffondendosi nel corso dei secoli, acquisendo progressivamente la vitalità che ha tutt'oggi. Se diamo uno sguardo alla lessicografia storica ci accorgiamo come tale diffusione non sia cronologicamente contigua all’attestazione dantesca. Le prime quattro impressioni del Vocabolario della Crusca citano solo Dante, mentre nuovi esempi sono registrati in Crusca (5), dove si ha anche un'articolazione dei significati (figurati e in senso temporale) e appare per la prima volta distinto il participio inoltrato: le attestazioni successive alla Commedia sono in testi secenteschi.42 Retrodata di poco il GDLI, dove sembra che la voce taccia per tutto il secolo XV, per poi riemergere in quello successivo: troviamo la prima attestazione del verbo al di fuori del testo dantesco in una delle novelle di Pietro Fortini (sec. XVI): «Quando lo veddi partire non lo lasciai guari inoltrare che lo chiamai dicendo»; ma tutti gli altri esempi citati (inclusi quelli del participio con valore aggettivale inoltrato) sono dal ’600 in giù, tratti da autori come Giulio Strozzi, Bartolomeo Corsini – in cui si registra l’uso transitivo del verbo, con il significato di ‘far avanzare’43 –, il Pallavicino, Alfieri, Metastasio, Romagnosi, Leopardi, Manzoni, Gozzano, per citarne alcuni. Situazione analoga emerge dalla consultazione della BIZ: si hanno 322 attestazioni (tra forme transitive e pronominali e includendo quelle del participio, anche qualora abbiano valore aggettivale: segnalo innoltratissima 'avanzatissima, evolutissima' – detto di una civiltà e della sua letteratura – nello Zibaldone di Leopardi),44 con un salto da Dante al pieno Seicento, se si esclude 41 42 43 44 L’aggettivo è attestato per la prima volta nella Commedia, dove ha senso filosofico, riferito alla virtù intesa come potenza attiva del seme umano (Purgatorio, 25.41); viene adoperato per la prima volta e ripetutamente (18 volte) in senso “grammaticale” da Iacopo della Lana, proprio in riferimento ai verbi parasintetici di conio dantesco (con una sola eccezione), per l’esattezza per i prefissati in in- (16 casi su 17: in un caso è riferito al verbo letiziare), una volta pure per un participio, impetrato (Purgatorio, 33.74), definito «nome informativo». L’Ottimo adopera l'aggettivo riferendolo a tre soli prefissati in in-. Si tratta della Manna dell'anima di padre Paolo Segneri e, per inoltrato, della Vita di ser Brunellesco di Filippo Baldinucci (1625-1696). Tro da Jacopo della Lana mo poi attestazioni dalle Favole di Luigi Fiacchi, da Pallavicino, Monti, Manzoni. Cfr. GDLI s.v. inoltrare, signif. 7. È di poco anteriore l’attestazione transitiva riportata in BIZ, con il medesimo significato: «Se inoltra la corrispondenza al permettere [...] il lavoro delle mani» (Ferrante Pallavicino, Il corriero svaligiato, Lettera 38, 1641). Così lo Zibaldone: «Altrimenti come si potrebbe credere che quei poemi, da Omero o da altri, non fossero scritti subito? che l’uso della scrittura fosse ignoto o sì scarso in una letteratura e civiltà innoltratissima?». Il significato di 'evoluto', per cui v. GDLI s.v. inoltrato, signif. 5, pare avere molta fortuna durante il corso del sec. XIX. Oltre che 12 l’occorrenza nei Discorsi del poema eroico di Torquato Tasso, citazione dantesca. Si va dunque da Vico a Mario Pratesi, con attestazioni in Verri, Parini, Cuoco, Foscolo, Cesarotti, Leopardi, Capuana, Svevo, Verga, Pirandello, nonché nei testi del Caffè e del Conciliatore. Il verbo è tutt'ora comunemente adoperato, sia nella forma riflessiva che in quella transitiva attiva (che si è tipizzata in determinati ambiti d’uso). E vive ancora anche il participio passato con valore di aggettivo inoltrato (seppur non ha avuto seguito il significato di ‘evoluto’, a favore di quello più concreto di ‘avanzato’). Qui di seguito le voci del GraDIt: inoltrare v.tr. CO [av. 1321; der. di oltre con 1in– e 1–are] 1 spec. nel linguaggio burocratico, presentare e trasmettere per via gerarchica o attraverso le usuali forme burocratiche: i. regolare domanda di esonero. 2 estens., avviare a destinazione: i. la corrispondenza, un messaggio, un pacco. 3 [TS] milit. destinare a un determinato corpo, reparto e sim.: i. le reclute. inoltrarsi v.pronom.intr. AU [der. di inoltrare], 1a addentrarsi, avanzare in un luogo: i. nell'interno dell'isola, in un bosco; 1b fig., di periodo di tempo, stagione e sim., procedere verso il culmine: l’inverno si è inoltrato. 2 fig., iniziare un'attività uno studio e sim., o procedere in uno studio, in un'attività già iniziata, spec. impegnativa: i. nei segreti della chimica, nello studio del francese, in un progetto complicato. inoltrato p.pass., agg. 1 p.pass., agg. cfr. inoltrare, inoltrarsi 2 agg. CO [1665] avanti nel tempo, avanzato: a notte, a sera inoltrata; essere i. negli anni, anziano. 3.5 All’inizio del canto 27 del Paradiso, nel cielo delle Stelle Fisse, san Pietro prorompe in una veemente invettiva contro il suo corrotto successore Bonifacio VIII, mutando apparenza come se fosse Giove che si tramuta in Marte (vv. 14-15), e tuona: «Se io mi trascoloro, / non ti maravigliar, ché, dicend’io, / vedrai trascolorar tutti costoro» (vv. 19-21). Non si trovano altre attestazioni trecentesche del verbo, se non nei commenti di Jacopo della Lana, dell’Ottimo e di Francesco da Buti, che citano il testo dantesco e lo glossano rispettivamente: «Çoè; s’io m'adiro [...] no te meraveglar. Qui vol dire: nui beati semmo conçunti in una gloria, in uno amore, e perçò com'io me irarò, tuta questa compagnía se iraràe simelmente» (Lana, cfr. Volpi 2010, p. 2472); «Queste sono parole di san Piero ad l’Autore, dove assegna la cagione della mutatione in lui. Quasi dica: noi beati siamo congiunti in una gloria e in uno amore, e però, sì come m’adirerò, così tucta questa compagnia s'adireràe» (Ottimo, cfr. BoccardoCorrado-Celotto 2018, III, p.1782); «cioè mi muto di colore: come detto è di sopra, lo fulgore di san Piero era de' raggi argentati di Iove, et allora elli mutato e fatto de' raggi rubicondi di Marte, Non ti meravigliar; cioè tu, Dante, non te ne meravigliare, cioè del mio mutamento, chè, dicendo io: imperò che quando dirò io san Piero, Vedrai trascolorar tutti costoro; cioè tutti accendersi ad iustizia contra lo disonesto vivere de' pastori, cioè tutti questi santi che sono qui» (Buti). I concetti che si intrecciano sono dunque quelli di ‘mutamento (di colore)’ e quello traslato tout court della causa di tale cambiamento: l’ira, il desiderio di giustizia.45 Il Buti coniuga poi autonomamente il verbo, poco più avanti, per commentare il ‘trasmutar sembianza’ di Beatrice (Paradiso, 27.34): «E poi ch'à mostrato trascolorati tutti li beati, dimostra discolorata Beatrice ne la sua apparenzia e ne la sua voce».46 45 46 negli esempi citati in GDLI e in quello di Leopardi, esso si ritrova in un paio di occorrenze rilevate in una rivista filosofica di fine Ottocento (la «Rivista Filosofica Scientifica», di cui sono state pubblicate undici annate, tra il 1880/-81 e il 1891), consultabile in rete interna presso l’Opera del Vocabolario Italiano, dove l’aggettivo è riferito all’arte (di un popolo civile) e ad un organismo; vi ricorre inoltre due volte l’espressione «popoli più inoltrati nella civiltà». Questo quello che percepiscono i primi commentatori. L’arrossarsi di Pietro (perché di arrossamento si tratta, nonostante i significati che successivamente assumerà il verbo, su cui vedi le note seguenti) è letto da Carapezza 2013 come espressione di vergogna, in relazione alla tradizione evangelica sull’erubescere del cristiano; la vergogna che tutti i buoni cristiani dovrebbero provare davanti al mercimonio di cui si è macchiato l’indegno successore di Pietro, Bonifacio VIII: «l’apostolo doveva insegnare ai neofiti la giusta vergogna, la stessa che ora il poeta, creando il suo personaggio e dandogli il nome e i tratti di Pietro, si incarica di insegnare al papa» (Carapezza 2013, p. 136). Nei commentatori moderni si trova adoperato trascolorare proprio a proposito di questo mutamento di Beatrice; si vedano ad esempio il commento di Scartazzini (1871-71), poi Scartazzini-Vandelli (1929): «anche Beatrice si trascolora»; quello del Fallani (1965): «così avvenne di Beatrice che trascolorò, divenendo pallida»; quello di Sapegno (1955-57) e Bosco-Reggio (1979), che glossano trasmutò sembianza con «trascolorò», ponendosi il problema se Dante voglia dire che impallidisca o arrossisca (sull’affermarsi del significato di ‘impallidire’ negli usi successivi a Dante di trascolorare v. avanti e nota seguente). Chiavacci Leonardi esplicita infine il probabile 13 Sulla mutazione di colore fa perno anche il commento di Benvenuto da Imola, che così spiega il verbo: «idest, muto colorem de claro in turbulentum, quia non sum solus». Al di fuori dell’entourage dantesco il verbo riappare solo nel secolo successivo, nella forma transcolorare nel Timone di Matteo Maria Boiardo, stando all’attestazione riportata da GDLI s.v. trascolorare, con il significato di ‘impallidire’ («De la paura ancor mi transcoloro»); questo il significato che prevale nelle attestazioni rilevabili dal XVII sec. in poi, polarizzandosi con l’altro di ‘assumere colorazioni sfumate; sbiadire’, soprattutto in relazione a fenomeni meteorologici. Insomma, la mutazione di colore si configura nella maggior parte dei casi come un passaggio dallo scuro al chiaro,47 seppur non manchi qualche esempio in contrario o qualche esempio ‘neutro’, di semplice cambiamento di colore; negli usi figurati il verbo indica un trasformarsi. Questo è quanto si evince dalle attestazioni riportate, oltre che nel GDLI,48 nella BIZ, con contesti desunti per lo più dalla poesia e comunque di ambito letterario, da Giovan Battista Marino fino ad autori novecenteschi, attraverso Pindemonte, Prati, Imbriani, giù giù fino a D’Annunzio, Pascoli e Montale.49 L’uso è prevalentemente riflessivo o intransitivo, ma non mancano esempi con valore transitivo.50 Già nel TB è registrato il deverbale trascoloramento,51 e nel GDLI anche i participi con valore aggettivale trascolorante e trascolorato.52 Gabriele D’Annunzio adopera poi il metaplasmatico trascolorire (e il relativo participio con valore aggettivale trascolorito).53 Insomma, il verbo si dimostra linguisticamente produttivo. Produttivo e anche vitale; vive infatti ancora oggi, nel XXI secolo, come si evince da una veloce ricerca in Google: lo usa ad esempio in un comunicato stampa dell’agosto 2018 il presidente del Consiglio dei Ministri in carica, Giuseppe Conte: «Ancora una volta misuriamo la discrasia, che meccanismo di richiamo all’uso del verbo in questo passo, vicino al trascolorare di Pietro e dei beati: «trasmutò riprende lo stesso prefisso del verbo usato per Pietro: trascolorare». 47 È come insomma se venisse capovolto l’originario uso dantesco (per sovrapposizione semantica con discolorare?). Il verbo è stato adoperato per significare un passaggio di colore dallo scuro al chiaro anche dai moderni commentatori della Commedia; si veda ad esempio la glossa di Luigi Pietrobono (1949) a Purgatorio, 2.7-9: « di guisa che, all'appressarsi del sole, le guance dell'aurora, bianche al cominciare, vermiglie nella sua pienezza, pigliavano a trascolorare in arancio»; o il commento del Momigliano (1946-51) al verso 69 dello stesso canto, in cui si dice che le anime, accorgendosi che Dante è vivo, «meravigliando diventaro smorte»: «Il verso stesso sembra trascolorare». Ne aveva invece colto appieno il significato, sottolineandone la forza evocativa, il Tommaseo (1837), che così lo glossa: «Trascolorare, potente parola, quasi inverso di scolorare». 48 Nella lessicografia storica precedente, le quattro impressioni del Vocabolario della Crusca citano soltanto Dante. Il TB aggiunge nuovi esempi; dal confronto con il GDLI si evince che sono tratti dalle Osservazioni alla Divina Commedia di Nicola Villani (1590-1636): «Il sangue di Priamo fece trascolorare le more di bianche in nere», e (per la prima volta con il valore attivo di ‘far mutare di colore’) «La grandezza e la veemenza dell’ira… gli trascolora le macchie in verde». 49 Nella BIZ si contano una cinquantina di occorrenze, includendo anche le forme del participio aggettivale. 50 Pochi a dire il vero. Due nel GDLI, e il primo nei Dialoghi di Luciano di Luigi Settembrini (1813-76): «[il polpo] trascolora la pelle mutandola nel color della pietra»; uno nella BIZ, in Forse che sì, forse che no di D’Annunzio (1919): «L’infinito riverbero trascolorava il cielo». Cfr. inoltre nota 48. 51 La voce, che ha come significato ‘Il trascolorarsi’ ha due esempi, entrambi tratti da Nicola Villani, uno ancora dalle Osservazioni alla Divina Commedia («Per dimostrare così fatto trascoloramento, che occorreva mutare Giove e Marte in uccelli?»), e uno da L’Uccellatura di Forese Donati all’Occhiale del cav. Fra Tommaso Stigliani («Il trascoloramento poi della rosa di bianca in rossa …, soperchio v’è egli ancora, e fuor di luogo»). Quest’ultimo esempio è ripreso dal GDLI, che lo affianca con uno tratto da Ungaretti, Lettere dal fronte («Sono grandi linee calme che se ne vanno verso trascoloramenti turchini di vigne improbabili») per il significato 1 ‘Mutamento, anche graduale e sfumato, di colore’; il GDLI aggiunge un significato 2, ‘Impallidimento del volto’, con un esempio tratto da Alfredo Oriani, Ombre di Occaso (1901: «La sua bellezza aveva dei trascoloramenti, delle illuminazioni, dalle quali la sua fisionomia usciva come da un velo»). 52 Trascolorante ha esempi dal Rugantino di Antonio Baldini (1942: «insieme alla vista del cielo trascolorante») fino a Montale, che nel suo Quaderno di traduzioni traduce «But one man loved the pilgrim soul in you, / And loved the sorrows of your changing face» di When you are old di Yeats, con «Ma uno solo ha amato l’anima tua pellegrina / e la tortura del tuo trascolorante volto». Come per il verbo, anche qui i significati principali sono quelli di ‘Che assume colorazioni sfumate e cangianti (con particolare riferimento a fenomeni meteorologici)’ e ‘Che cambia colorito del volto, in particolare impallidendo’. E lo stesso dicasi per il ben più documentato trascolorato. 53 Esempi nel GDLI alle rispettive voci (con un esempio anche da Ungaretti per il verbo) e nella BIZ, con i medesimi significati della forma base. Si confrontino ad esempio «gli occhi cavi, convergenti verso la radice del naso, trascoloriti» del Trionfo della morte, con «gli occhi trascolorati» de Le vergini delle rocce; o le «foglie trascolorite» di Sogno d’un tramonto d’autunno con le «foglie trascolorate» de Il fuoco (gli esempi sono desunti dalla BIZ). 14 trascolora in ipocrisia, tra parole e fatti» (http://www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-delpresidente-conte/9872); e rappresenta il titolo scelto per una mostra d’arte personale dedicata postuma al pittore Walter Lazzaro a Milano nel 2007-2009 (Trascolorare, per l’appunto), nel cui relativo dispaccio dell’Adnkronos si legge: «L'esposizione, in tutta la poesia del verbo trascolorare da cui ha origine il titolo, che ben esplicita le non facili sfumature cromatiche così care a Lazzaro, prenderà in esame il cielo» (http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/2007/11/04/Cultura/Arte/MOSTRE-A-MILANOTRASCOLORARE-LA-PERSONALE-DI-WALTER-LAZZARO_173100.php). La forza e la vitalità di questo verbo risiedono in effetti nella sua grande e moderna poeticità, nella sua valenza simbolica e nella forza evocativa del tras-, che richiama verbi come trasmutare o trasfigurare, combinato con la materialità di colorare. Esso è adoperato, spesso in riferimento al cielo,54 in pagine e blog di critica letteraria (si veda ad esempio una pagina a firma di Giuseppe Brescia intitolata “Il trascolorare del cielo nello ‘spleen’ di Baudelaire”, https://www.libertates.com/iltrascolorare-del-cielo-nello-spleen-di-baudelaire/) e di critica d’arte (si veda ad esempio la parte finale della descrizione della tela San Giuseppe che legge, di Ubaldo Gandolfi, in un sito di aste: «Si segnala infine sulla tela qui presentata il suggestivo effetto del trascolorare del cielo sullo sfondo», https://www.pandolfini.it/it/asta-0224/andlambda--11.asp?pag=4); lo si ritrova anche nel volumetto di Saverio Simonelli La musica è altrove. Cielo e terra nelle canzoni di Angelo Branduardi («una risonanza storica che facilmente perde i contorni oggettivi per trascolorare nel mito»),55 e persino in un sito di previsioni meteorologiche («se l’azzurro del cielo trascolora nel bianco o nel grigio significa che sta per arrivare la pioggia», https://www.meteoheroes.com/cielo-piu-luminoso-attenzionemaltempo-in-arrivo/). Ovviamente trascolorare arriva al GraDIt, anche nella forma pronominale, a testimonianza della potenza creatrice di Dante e della vitalità della sua attività onomaturgica, anche qualora essa si ponga in una sfera ‘alta’ del linguaggio, facendosi strada attraverso testi letterari. Ecco qui le due voci: trascolorare v.intr., v.tr. CO [av. 1321; der. di colore con tras– e 1–are] 1 v.intr. (essere) cambiare colore: il cielo al tramonto trascolorava lentamente 2 v.intr. (essere) LE impallidire, spec. per l'emozione: non ti maravigliar, ché dicend'io, / vedrai trascolorar tutti costoro (Dante) 3 v.intr. (essere) BU fig., trasformarsi: molti sogni trascolorano in delusioni 4 v.tr. BU far cambiare colore. trascolorarsi v.pronom.intr. CO [der. di trascolorare] 1 cambiare colore: il cielo al tramonto si trascolorava lentamente 2 LE impallidire 3 BU fig., cambiare, trasformarsi: l'episodio si era trascolorato nel ricordo. Parimenti vi arrivano il deverbale trascoloramento e i metaplasmatici trascolorire e trascolorirsi (con il relativo participio trascolorito). Riproduco solo il sostantivo, in quanto i verbi sono presentati come varianti di trascolorare e non hanno definizione: trascoloramento s.m. BU [1630; der. di trascolorare con –mento] il trascolorare e il suo risultato. 4. Rispetto ai pochi casi che abbiamo presentato a mo’ di esempio, lo spoglio complessivo dell’opera dantesca offre materiali tipologicamente e strutturalmente più vari e, come abbiamo già detto, assai abbondanti sotto il profilo della quantità. Pur nell’esiguità della campionatura che abbiamo presentato in questa sede, poche caute considerazioni appaiono fin d’ora possibili. La documentazione esaminata ha messo in evidenza la direzione non rettilinea percorsa da alcuni hapax danteschi, dal momento della coniazione fino all’approdo nell’italiano di oggi. Il fenomeno, solo in parte rispecchiato dalle tradizionali fonti lessicografiche, si articola in maniera significativa se prendiamo in considerazione anche testi e ambiti della lingua meno consueti nell’indagine filologica, spesso lontani dalla dimensione letteraria che (trattandosi di dantismi) astrattamente ci aspetteremmo prevalente o esclusiva. Anche la presenza nei dialetti di termini originariamente danteschi testimonia la varietà dei movimenti percorsi dagli stessi. Ne risulta avvalorata l’impostazione estesa del GraDIt, che considera «italiane tutte le parole attestate dal 1200 in avanti in testi complessivamente italiani (conformi tendenzialmente alla fonologia, morfologia, sintassi e al vocabolario 54 55 E già in Dante è in nuce il riferimento, se due commentatori del XX secolo parlano di “trascolorare del cielo” all’invettiva di san Pietro (cfr. Carlo Steiner [1921], che richiama l’episodio commentando Purgatorio, 33.5-6, e Chiavacci Leonardi 1991, Nota a Paradiso, 27). Simonelli 2012; ho reperito la citazione tramite Googlebooks: manca il numero di pagina. 15 fondamentale italiano) […] a condizione che abbiano avuto nel Novecento una sopravvivenza nell’uso di natura non meramente erudita o puramente filologica» (De Mauro 2005, p. 38). Nulla a che vedere con quella sorta di ricorrente prassi lessicografica (che spesso sconfina nell’agnosticismo), per cui molte forme lessicali trasmigrano pigramente da un vocabolario all’altro,56 ma godono solo di una vita sostanzialmente libresca. Al contrario, molti neologismi danteschi, pur vivendo in apparenza un’esistenza in parte carsica e sotterranea, si mantengono dinamici e riaffiorano in anse ampie del fiume lessicale della lingua, non sono limitati all’ambito letterario e a determinati contesti culturali, spesso debordano da tali perimetri ed entrano in usi storicamente e socialmente più estesi. Anche la nostra analisi può contribuire a definire continuità sostanziale, modalità e forme della presenza di Dante nella cultura italiana. 56 «I dizionarii sono sempre un dall’altro copiati» affermava ai suoi tempi Cesare Cantù, all’interno di un’ampia recensione agli ottocenteschi vocabolari di Manuzzi e Tramater (ripresa e commentata da Trifone 2012). Non si può considerare questa prassi del tutto abbandonata ai nostri giorni. Un discreto numero di parole antiche (una sessantina) che popola indebitamente i lemmari di recenti e aggiornati vocabolari italiani dell’uso è individuato da Della Valle-Patota 2013. Si tratta di parole che ricorrono molto raramente in testi dei secoli precedenti, che transitano da vocabolario in vocabolario (e da edizione in edizione del medesimo vocabolario), senza che ne risulti documentata l’effettiva vitalità, nel passato e nel presente. 16 ABBREVIAZIONI ANDREOLI [1887] 1996 = Raffaele Andreoli, Vocabolario napoletano-italiano, Napoli, Arturo Berisio editore. ASCOLI (1882-1885) = Graziadio Isaia Ascoli, L’Italia dialettale, «Archivio glottologico italiano», 8, pp. 98-128. BALDELLI 1996 = Ignazio Baldelli, Dante e la lingua italiana, Firenze, Accademia della Crusca. BIZ = Biblioteca Italiana Zanichelli, DVD-Rom per Windows per la ricerca in testi, biografie, trame e concordanze della Letteratura italiana. Testi a cura di Pasquale Stoppelli, Bologna, Zanichelli, 2010. BOCCARDO – CORRADO – CELOTTO 2018 = Ottimo commento alla ‘Commedia’, 3 tomi, tomo I Inferno a cura di Giovanni Battista Boccardo, tomo II Purgatorio a cura di Massimiliano Corrado, tomo III, Paradiso a cura di Vittorio Celotto, Roma, Salerno Editrice. BRAMBILLA AGENO 1995 = Dante Alighieri, Convivio, a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere (Società Dantesca italiana. Edizione Nazionale), 3 tomi [testo: tomo III, pp. 1-456] [il testo viene ristampato in Le opere di Dante, pp. 297-471]. BUSNELLI-VANDELLI 1934 = Dante Alighieri, Il Convivio, ridotto a miglior lezione e commentato da Giovanni Busnelli e Giuseppe Vandelli, con introduzione di Michele Barbi, 2 voll. Firenze, Le Monnier. CARAPEZZA 2013 = Sandra Carapezza, Il trascolorare di Pietro, in Ead., E cielo e terra. 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