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Nicola Severino
IL PAVIMENTO COSMATESCO
DEL DUOMO DI A SALERNO
Alla luce di nuove ipotesi storiche ed analisi stilistiche
Cassino 2011
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Prefazione
L’ argoment o che vado a t rat t are riguarda l’ art e
cosmat esca1 la quale può essere considerat a, seppure
nel suo lungo sviluppo occorso in più di due secoli di
spazio
t emporale,
solo
una
piccola
f inest ra
dell’ immenso pat rimonio della st oria dell’ art e per la
quale l’ It al ia è uno dei paesi più import ant i al mondo.
Quest o st udio sul paviment o cosmat esco del Duomo di
Salerno, quindi, non è alt ro che un det t aglio, sebbene
import ant e, della st oria relat iva alla produzione di
opere musive quale nuova espressione art ist ica dell a
r ennovat i o crist iana avvenut a t ra la f ine dell’ XI e il XII
secolo. Tale rinnovament o scat urì dall’ esigenza
comune di abbandonare uno st at us quo peculiare che
si era raggiunt o con la secolarizzazione del clero, dove
t roppo spesso molt i esponent i avevano smarrit o la
st rada dell’ evangelizzazione e della cura delle anime
dei propri f edeli, divenendo di f at t o dei signori locali o
capi milit ari. Dal che nacquero molt i moviment i
rif ormist i dedit i alla ricerca dell’ ant ico sent iment o
religioso spirit uale. E lo f acevano predicando il rit orno
ad un comport ament o di purezza e povert à. E’ f uori
luogo esaminare qui i det t agli degli avveniment i st orici
che produssero t ale rinascit a cult urale, crist iana e
art ist ica e a noi bast i sapere che all’ int erno di essa si
ebbe il f erment o art ist ico grazie al quale si produssero
le meraviglie che oggi andiamo raccont ando. Dal punt o
di vist a archit et t onico e decorat ivo la r ennovat i o
crist iana ebbe i suoi f ondament ali sviluppi, come
anello di congiunzione t ra la cult ura art ist ica del
1
Per un approfondimento degli argomenti e della materia in generale, si
vedano le pubblicazioni dell’autore indicate nelle referenze bibliografiche
al termine di questo libro.
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mondo ant ico e quella che si andava sviluppando,
proprio nella ricost ruzione e consacrazione nel 1071
della chiesa dell’ abbazia di Mont ecassino, volut a
dall’ abat e Desiderio. Da quell’ avveniment o, e dal la
scuola di art e quadr at ar i a et musi var i a, ist it uit a
af f inché non andasse più perdut a la cult ura dell’ art e
musiva nell’ It alia cent rale dallo st esso abat e a
Mont ecassino, approf it t ando dell a presenza dei maest ri
decorat ori che aveva f at t o venire diret t ament e da
Cost ant inopoli, si ebbe in seguit o quella st raordinaria
f iorit ura che denomineremo genericament e “ art e
cosmat esca” , proponendoci, t ra poco, di dist inguerne
le f asi e le def inizioni con più precisione.
Dicevo dell’ ” anel l o di congi unzi one” t ra l’ art e musiva
del mondo ant ico, f ino alla t arda et à bizant ina, e l a
rinascit a volut a dall’ abat e Desiderio a part ire dal 1060
nel monast ero benedet t ino di Mont ecassino. Bisogna,
inf at t i, t enere cont o che l’ art e cosmat esca, come
scriveva Claussen, ripreso poi da Cret i 2 “ non può
esser e consi der at a un Ri nasci ment o ant e lit t eram , ma
sol o una Rennovat io, poi ché i n essa appar e evi dent e
l ’ i nt er esse pecul i ar e al l a t r adi zi one cr i st i ana e manca
i nol t r e i l nesso del l a f r at t ur a con l ’ Ant i co;
l ’ i ndi pendenza
del
pensi er o
ar chi t et t oni co
e
decor at i vo dei mar mor ar i r omani si di most r a t ut t avi a
nel r ecuper o del l e f or me del l e suppel l et t i l i del l ’ Al t o
Medi oevo e nel l ’ i nvenzi one di t i pi assol ut ament e nuovi
e st r et t ament e f unzi onal i al l e compl esse esi genze
si mbol i co-l i t ur gi che del l a t ar da et à di mezzo” . In
poche parole i maest ri Cosmat i non invent arono null a
che non f osse già esist it o nell’ ant ico, cert ament e però
seppero reinvent are, reint erpret are ed arricchire,
come nessuno aveva saput o f are f ino ad allora, ciò che
avevano eredit at o dal l’ ant ico. Quasi t ut t o il repert orio
musivo dell’ opus sect i l e e dell’ opus t essel l at um
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Luca Creti, I Cosmati a Roma e nel Lazio, Edilazio, Roma, 2002, p. 58
cosmat esco deriva da quello della classicit à e
dell’ epoca romana, f ino agli sviluppi bizant ini. I
maest ri romani seppero solo ricollocarli in un ambit o
più preciso, arricchendoli di signif icat i simbolici e
ridisegnandoli, in variant i più complesse, miniat urizzando t ut t i i mot ivi geomet rici e raggiungendo una
t ecnica el evat issima nell’ int arsio marmoreo che
pot eva quasi gareggiare diret t ament e con la f inezza
dell’ opus al exandr i num mosaicale in past e vit ree che
vedevano già al loro t empo splendere di luce rif lessa
nelle ant iche absidi: opere degli ant ichi mosaicist i
bizant ini che avevano decorat o le prime basiliche
paleocrist iane di Roma. Misero in prat ica con grande
perizia ciò che era st at o loro t ramandat o dai propri
padri che sicurament e avevano part ecipat o alla scuola
d’ art e del l’ abat e Desiderio e seppero applicare gli
insegnament i alle nuove esigenze della r ennovat i o
crist iana. Ciò lo si può const at are soprat t ut t o nella
nuova concezione dell ’ asset t o lit urgico, nel la st rut t ura
complet a dell’ arredo presbit eriale che cost it uiva un
sist ema composit ivo unit ario, come ci spiega l’ arch.
Cret i nell’ opera cit at a in not a, “ f or mat o dal l a Schol a
cant orum con gl i amboni del l a l et t ur a del Vangel o e
del l ’ Epi st ol a a cui er a accost at o i l candel abr o per i l
cer o pasqual e. Quest o spazi o, suddi vi so dal l e
t r ansenne, er a col l egat o di r et t ament e al pr esbi t er i o
dove l ’ al t ar e maggi or e er a pr ot et t o dal ci bor i o ed
aveva di et r o di sé una cat t edr a vescovi l e” . Tut t o ciò,
f ormava una sort a di “ edif icio nell’ edif icio” ,
cost it uendo t ut t o lo spazio principale ant ist ant e l a
navat a cent rale al quale si accedeva camminando
lent ament e sul paviment o che “ f ungeva da r accor do
t r a l ’ i ngr esso e i var i set t or i l i t ur gi ci del l a f abbr i ca,
sot t ol i neandone l ’ asse cent r al e e l e si ngol e par t i con
una var i azi one del di segno d’ i nsi eme” .
E’ quest a una dell e ragioni che spiegherò nei punt i
salient i delle mie nuove ipot esi e che mi port a a
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credere che il paviment o del Duomo di Salerno non
f osse una mera ricost ruzione dei pannelli ant ichi
sopravvissut i che riguarda solo il presbit erio ed il coro,
ma che in origine dovesse est endersi su t ut t o il
lit ost rat o della chiesa.
I merit i dei Cosmat i non riguardano, ovviament e, solo
quest a nuova int erpret azione degli arredi religiosi, ma
anche t ut t o ciò che è st at o def init o in t empi moderni
“ mi cr oar chi t et t ur a bi di mensi onal e” , con rif eriment o
alla creazione di port ici, port al i, chiost ri, campanili
(anche se in quest ’ ult imo caso, pensando al
f enomenal e campanil e del Duomo di Gaet a, non si può
cert o parlare di sola “ microarchit et t ura” ).
Ma, venendo più specif icament e al nost ro argoment o:
chi erano i Cosmat i? E perché t ut t i i paviment i musivi
vengono ancora oggi denominat i genericament e
“ cosmat eschi” , anche se quest i si t rovano Sicilia? In
realt à, l’ agget t ivo cosmat esco e t ut t e le sue variant i,
deriva da un primo st udio specif ico ef f et t uat o da
Camillo Boit o, pubblicat o nel 1860, dal t it olo
Ar chi t et t ur a Cosmat esca grazie alla qual e si sviluppò
una corrent e specif ica di st udi epigraf ici, st orici ed
archeologici che riguardarono principalment e la
produzione archit et t onica e musiva delle bot t eghe
marmorarie romane, la cui genealogia e le cui opere
venivano di volt a in volt a int erpret at e, st udiat e e
pubblicat e.
Ma se lo splendore degli int arsi musivi ci most ra la
grandezza della loro abilit à di art ist i, nulla ci perviene
af f inché si possa avere una benché minima idea dei
volt i e delle st orie personali di quegli art ef ici che
f urono prot agonist i dell’ art e nel medioevo normanno.
Solo grazie alla non f acile int erpret azione delle last re
epigraf iche che si vedono nei l oro monument i, merit o
dei lavori di Gust avo Giovannoni, G. Bat t ist a De Rossi,
Forcella,
Frot hingham,
f ino
alla
def init iva
pubblicazione di Bessone-Aureli nel 1935, è st at o
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possibile, dalla met à del XIX secolo, venire a capo di
una corret t a geneal ogia delle f amiglie dei singoli
membri delle bot t eghe marmorarie romane, dei singol i
art ist i isolat i e della cronologia delle loro opere.
Perché “ Cosmat i” ? Perché durant e il rinveniment o e lo
st udio dell e epigraf i che accompagnavano i monument i
musivi (paviment i, arredi e archit et t ure) il nome di un
cert o “ magi st er Cosma” si leggeva più spesso che alt ri,
divenendo il più comune di t ut t i. Da li, il Boit o ebbe
l’ idea di denominare “ archit et t ura cosmat esca” le
opere at t ribuit e a quest o maest ro Cosma. In seguit o, è
st at o f acil e associare l’ agget t ivo “ cosmat esco” , ol t re
che alle al t re opere, anche ai paviment i, specialment e
in rif eriment o all’ epigraf e che si t rova su un gradino
della cript a della cat t edrale di Anagni che at t est a a
Cosma e f igli il paviment o musivo. L’ uso comune del
t ermine è poi st at o volgarment e generalizzat o f acendo
rif eriment o a qualsiasi monument o musivo che sia
st at o prodot t o t ra il XII e il XIII secolo. Ma in realt à,
l’ agget t ivo “ cosmat esco” , proprio perché rif erit o alle
opere prodot t e dal maest ro Cosma, può essere est eso
al massimo a t ut t a la sua f amigl ia che la cronologia ci
indica iniziare da un cert o Tebaldo marmoraro,
approssimat ivament e nei primi decenni del 1100, per
poi cont inuare con il f iglio Lorenzo probabilment e
dalla met à del XII secolo e quindi con Iacopo di
Lorenzo, f anciullo apprendist a alla bot t ega del padre
nel 1185, proseguendo con il f iglio Cosma I e i f igli di
quest i Iacopo II e Luca. E quest i sono i veri Cosmat i a
cui si af f iancarono parallelament e alt re f amiglie di
art ist i: i membri della f amiglia di magi st er Paul us
(Giovanni, Piet ro, Angelo con il f iglio Nicola e Sasso);
la f amiglia di Piet ro Mellini (Iacopo, Giovanni,
Deodat o, Piet ro e f orse un Carlo); la f amiglia dei
Ranuccio (Piet ro, Nicola e i f igl i di quest o Giovanni e
Guit t one) e, inf ine, la f amigl ia dei decorat ori che
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inizia con un Vassallet t o capost ipit e e cont inua con il
f iglio Piet ro e il nipot e denominat o Vassall et t o II f iglio
di Piet ro, non essendo conosciut o il suo vero nome.
Se è vero che per le bot t eghe dei marmorari romani è
st at o possibile almeno ricost ruire una at t endibile
genealogia degli art ist i ed una cronologia delle loro
opere, non si può dire alt ret t ant o, purt roppo, per
quant o riguarda il pur immenso pat rimonio d’ art e
musiva che si t rova in Campania, e nel meridione
d’ It alia per il quale, l e inf ormazioni arrivat eci t ramit e
last re epigraf iche sono t roppo scarse.
Così, nulla sappiamo dei maest ri che realizzarono i
numerosi paviment i musivi derivat i da quello di
Mont ecassino e che oggi si vedono nelle chiese di San
Vincenzo al Volt urno, Sessa Aurunca, Carinola, Capua,
Casert a Vecchia, Aversa, Sant ’ Angelo in Formis,
Sant ’ Agat a dei Got i, San Liberat ore alla maiella a
Serramonacesca, o a San Demet rio Corone e via
dicendo.
E’ quindi una f ort una che al meno nel Duomo di Salerno
sia rimast a la f irma del commit t ent e dell’ opera
paviment al e, Romual dus, ma sf ort unat ament e non è
rimast a (seppure c’ era) quell a del maest ro che lo
realizzò.
La cult ura dell’ art e musiva che riguardò quasi
esclusivament e le opere di decorazione delle chiese
romaniche, come i paviment i, le microarchit et ure dei
port ali, chiost ri e campanili, f ino agli arredi int erni
(coro, recinzione presbit eriale, t ribune, ciborio,
amboni, candelabri per il cero pasquale, alt ari e t rono
vescovile), st oricament e t rova il suo punt o di
irradiazione e rinnovament o nell’ It alia cent rale nella
scuola ist it uit a dall ’ abat e Desiderio a Mont ecassino. E’
inevit abile credere che diversi art ist i f ormat isi a quell a
scuola, t ra cui molt o probabilment e lo st esso Magi st er
Paul us romano, come anche Tebal do mar mor ar o e
Gi ovanni mar mor ar o della f amiglia dei Ranuccio,
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abbiano poi dat o vit a alle proprie bot t eghe, così come
gli art ist i campani e del meridione. Tut t e quest e
scuole, probabilment e f ecero proprie le t ecniche
musive insegnat e alla scuola di Desiderio, ma ognuna
poi sviluppò le proprie component i locali inf luenzat e
dalle proprie t radizioni st ilist iche: classica quella
romana, siculo-araba quella del meridione normanno.
In un simile quadro st orico, risult a quant o meno
errat o,
parlare
genericament e
di
“ paviment i
cosmat eschi” , rif erendosi ad opere che f urono
realizzat e nei primi decenni del XII secolo nelle regioni
meridionali dell’ It alia. Per t ale ragione ho propost o nei
miei libri la f ondament ale dist inzione t ra paviment i
“ cosmat eschi” , come quelli realizzat i esclusivament e
da t ali maest ri o ad essi at t ribuit i che vanno da un
periodo che ho st imat o iniziare dal 1185 - epoca in cui
il giovane Iacopo iniziava la sua collaborazione con il
padre Lorenzo, come t est imoniat o in una last ra
epigraf ica f irmat a dagli art ef ici e conservat a oggi nel
Museo Archeologico di Segni - f ino alla met à del XIII
secolo, ovvero f ino al 1247, anno in cui venne
realizzat o il paviment o, che io ho at t ribuit o alla
f amiglia di Lorenzo con i probabili aut ori Cosma e
Luca, nell ’ Orat orio dei Sant i Quat t ro Coronat i a Roma
e a part ire dal qual e sembra si perdano, in seguit o,
t ut t e l e t racce degli art ist i di quest a f amigl ia.
Per il periodo che va dal 1071, anno di consacrazione
della basilica di Mont ecassino, f ino al 1185, ho rit enut o
opport uno def inire “ precosmat eschi” i paviment i
realizzat i dagli art ist i di t ut t e le f amiglie di marmorari
vissut i f ino a quell ’ epoca.
Tut t o ciò, olt re che per una maggiore chiarezza, ha
anche il preciso scopo di dist inguere st ilist icament e le
due produzioni paviment ali musive. I paviment i
precosmat eschi sono riconoscibili per le alcune
peculiari carat t erist iche legat e alla t ecnica (ut ilizzo di
11
t essere marmoree sovradimensionat e) e nei disegni
unit ari che genericament e prevedevano t ut t i l a
realizzazione di un grande quinconce al cent ro dell a
navat a. I paviment i cosmat eschi, sono una “ reint erpret azione”
dei
loro
precedent i
e,
molt o
probabilment e, f urono int esi solo come un rest auro che
riguarda principalment e la f ascia cent rale della navat a
maggiore della chiesa. Scompare il grande quinconce
cent rale in f avore di una lunga successione di
qui nconce (Anagni, Orat orio Sant i Quat t ro Coronat i) di
piccole dimensioni, in alt ernanza a serie di gui l l oche
(San Clement e, Civit a Cast ellana) che rispondano più
diret t ament e ad una esigenza di t racciare un percorso
di accompagnament o spirit uale del f edel e dalla port a
della chiesa f ino all’ alt are. Le t essere impiegat e sono
più piccol e e il commesso marmoreo più raf f inat o
t ecnicament e, ment re nelle f asce più import ant i si
raggiunge il massimo della t ecnica dell’ int arsio in opus
t essel l at um con mot ivi geomet rici decorat ivi che
cont emplano la più raf f inat a t ecnica musiva,
raggiungendo il massimo della miniat urizzazione dei
pat t er n.
Tut t o ciò, lo si vede f acilment e soprat t ut t o nei
paviment i delle basiliche romane, dove convivono
pacif icament e da sempre grandi lit ost rat i dei quali una
part e si present a a noi in maniera evident issima nel lo
st ile precosmat esco, specie nell e navat e lat erali, e una
part e, quasi sempre quella della f ascia cent rale, la si
riconosce nello st ile cosmat esco. Tale connubio
scompare quasi del t ut t o quando si t rat t i dei paviment i
musivi campani e dell ’ It alia meridionale, dove è f acile
riconoscere quelli che sono rimast i esclusivament e di
epoca precosmat esca (come quelli a Capua, ex
monast ero di San Benedet t o, Duomo, ecc. ) e quel li
realizzat i nel XIII secolo (come a Casert a Vecchia).
Tut t avia, quest o del Duomo di Salerno, come dirò t ra
poco, è anch’ esso un paviment o che risul t a dai lavori
12
ef f et t uat i in epoche diverse e, come quelli romani,
present a ent rambe le carat t erist iche det t e sopra.
Tut t avia, i rif eriment i st orici ricavabili dalle epigraf i,
of f rono una cronologia, conf ermat a anche dall’ anal isi
st ilist ica, che è raf f ront abile sol o al periodo
precosmat esco, cioè ent ro il 1180 circa.
L’ analisi del paviment o ef f et t uat a solo basandomi sui
det t agli delle numerose f ot ograf ie che ho pot ut o
eseguire personalment e grazie alla gent ile concessione
del Capit olo della Cat t edrale e al parroco, Don Ant onio
Quarant a, mi ha permesso di dist inguere varie f asi
cronologiche e st ilist iche del paviment o così come oggi
lo si vede, e di f ormul are al cune import ant i ipot esi del
t ut t o nuove nella let t erat ura specif ica.
Desidero
ringraziare
il
dot t .
Ant onio
Braca,
soprint endent e per i Beni St orici, Art ist ici ed
Et noat ropologici per le Province di Salerno e Avellino,
per avermi gent ilment e f ornit o il suo prezioso art icol o I
mosai ci dei pavi ment i del t r anset t o e del cor o nel
Duomo di Sal er no, che è st at o il mio palinsest o del le
f ont i st oriche per scrivere quest o libro.
Ni col a Sever i no, novembr e 2011
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IL PAVIMENTO PRECOSMATESCO DEL
DUOMO DI SALERNO
I mosaici pavimentali e degli arredi liturgici presenti nel
Duomo di San Matteo a Salerno, rappresentano, nella loro
unitarietà, nelle loro cospicue dimensioni e per qualità
artistica, uno dei più importanti monumenti musivi del tipo
cosmatesco presenti in Italia. Nonostante ciò, è singolare
constatare che pochi sono gli autori, dal passato ad oggi, che
hanno preso a cuore lo studio artistico e l’analisi storicocritica di tali monumenti. Fra tutti, allo stato attuale, lo studio
più importante è stato pubblicato solo nel 2004 da Antonio
Braca3 di cui ho avuto una copia per gentile concessione
dell’autore. L’analisi di Braca è più completa di quanto si
possa immaginare, dal punto di vista storico-documentale.
Le conclusioni, ipotesi e tesi riportate dall’autore, invece,
possono essere condivisibili o meno, a seconda di come si
impostano le osservazioni personali, come vedremo tra poco.
Gli altri autori che si sono occupati del mosaico pavimentale
del duomo sono Demetrio Salazaro nel 1871, Toesca nel
1927, con un breve accenno a cui segue la Cochetti Pratesi e
una nota di Anna Carotti negli aggiornamenti all’opera di
Bertaux (il quale stranamente non parla del pavimento). Dagli
anni Settanta sembra esserci stato un lungo silenzio interrotto
solo da un primo studio moderno a cura di Arturo Carucci e
quindi di Antonella D’Aniello.
Per la trattazione storico-documentale, prendo come
palinsesto lo studio di Braca che riassume anche tutti i lavori
precedenti, secondo una stesura organicamente ben studiata
che prevede una analisi delle fonti documentali ed
epigrafiche, la storia degli interventi conservativi e quindi le
proprie tesi sull’organizzazione spaziale, sull’iconografica e
3
Antonio Braca, I mosaici dei pavimenti del transetto e del coro nel
Duomo di Salerno, in Salerno nel XII secolo. Istituzioni, società, cultura,
Atti del Convegno Internazionale, Raito di Vietri sul Mare, 16/20 giugno
1999, a cura di Paolo Delogu e Paolo Peduto, Salerno, 2004, pp. 238-277.
15
iconologia generale dei mosaici salernitani, la tecnica, il
programma decorativo, l’analisi stilistica e i rapporti dei
monumenti musivi con le altre scuole di marmorari operanti
nel Lazio, in Campania e in Sicilia.
Questo articolo però è solo una sintesi dei punti più salienti
del lavoro di Braca a cui si sovrappongono le mie personali
tesi scaturite dall’analisi del mio forse insolito modus
operandi acquisito nell’esperienza di studio dei pavimenti
cosmateschi del Lazio e della Campania.
Il tentativo di stabilire una cronologia storica significativa per
i mosaici pavimentali del Duomo di Salerno ruota tutto
intorno a due iscrizioni epigrafiche che da sempre sono state
messe in relazione alla costruzione dei monumenti di che
trattasi. “Un ancoraggio” per la cronologia, definisce Braca
la prima scritta realizzata in mosaico che si vede davanti
all’altare maggiore nel presbiterio, e che recita il nome del
presunto committente ROMOALDUS ARCHIEPISCOPUS.
Dove non vi è certezza lo storico deve inventare e così, viene
fuori il primo avverbio, “probabilmente”, sinonimo di
incertezze, che è riferito a Romualdo I, arcivescovo di Salerno
dal 1121 al 1137. La scritta però non ci dice se si tratta di
Romualdo I o di Romualdo II Guarna, che fu invece
arcivescovo dal 1153 al 1118. Per questo, l’avverbio è più che
giustificato, ma non vi è alcuna certezza assoluta che si tratti
proprio di Romualdo I e ciò è fondamentale nelle ipotesi che
seguiranno.
Sul parapetto dell’ambone minore di sinistra vi è un’altra
scritta, eseguita in due blocchi separati: Romoaldus
secund(us) salernitan(us) Archi/ episcopus precepit fieri hoc
op(us). E qui la scritta riferisce chiaramente di Romualdo II,
facendo pensare che la precedente epigrafe parli
effettivamente del primo Romualdo.
Tra le fonti più significative vi è quella di Gaspare Mosca che
alla fine del Cinquecento scriveva del pavimento del Duomo
in modo da distinguere nettamente quello del transetto da
quello del coro e attribuiva il primo a Romualdo I e il secondo
16
a Romualdo II. Questa distinzione potrebbe essere importante,
se fossimo certi che il pavimento originale sia stato concepito
esclusivamente tra il transetto e il coro, ma non vi è alcuna
certezza che le cose andarono proprio così. Anzi, come dirò
in seguito, mi resta assolutamente difficile credere che il
progetto del pavimento musivo in una chiesa così importante
fosse stato concepito solo per il transetto e per il coro,
sebbene si trattasse di una superficie totale non trascurabile,
pari a circa 185 metri quadri. Ma di questo tratterò in seguito.
Prima del Mosca non si sa nulla di cosa sia accaduto al
pavimento tra il XII e il XVI secolo! Quattro secoli di vuoto,
durante i quali potrebbe essere successo di tutto, e non
sappiamo nulla del pavimento.
Dopo l’Ughelli, che scriveva riprendendo il Mosca, vi è un
altro autore che ha scritto qualcosa di molto interessante in
proposito, ed è il Mazza, attento studioso di citazioni
epigrafiche, che parla di una seconda iscrizione, anche questa
sembra messa nel pavimento davanti all’altare, che purtroppo
è andata perduta da tempo, la quale attribuiva anche il
pavimento del transetto a Romualdo II. Lo Staibano che
scriveva nel 1871, riferiva tale scritta riprendendola da un
manoscritto del 1675, dicendo che sul pavimento del coro si
leggeva Hoc opus fieri fecit dnus praesul Romualdus
Secundus. La stessa viene riportata in un altro manoscritto del
1704, ma senza la distinzione di Secundus, facendo scrivere
all’autore “non come falsamente tutti gli altri creduto che
fosse stato il secondo Romualdo”. La stessa iscrizione si legge
anche un altro manoscritto della metà del Seicento di cui
riferisce Braca e che confermerebbe aggiungendo credibilità
l’esistenza di questa seconda lapide andata perduta.
Una fonte storica, straordinariamente importante, sfuggita a
Braca è il Muratori. Nel Rerum Italicarum Scriptores (17231738), nell’edizione curata da Giosuè Carducci e Vittorio
Fiorini, tomo settimo, parte 1, si legge (prefazione, XXII): “A
Romualdo spetta anche la pavimentazione a mosaico del
17
coro, coll’epigrafe ROMUALDUS ARCHIEPS,
e la
decorazione complessiva, ora in parte scomparsa, dell’altare
maggiore ricordata dall’iscrizione: HOC OPUS FIERI FECIT
DOMINUS PRAESUL ROMUALDUS SECUNDUS. Dico
decorazione complessiva, perch’egli stesso parla del dono di
Re Ruggiero del paliotto d’argento dell’altare maggiore, la
cui “faciem deauravit” Simone Senescalco, cognato di
Maione, morto il 12 maggio 1161”.
La lapide epigrafica viene quindi ricordata anche da Ludovico
Muratori il quale non dice che era perduta al tempo in cui
scriveva, presumibilmente nei primi decenni del ‘700. Non si
capisce però perché egli attesti a Romualdo anche le opere
testimoniate dalla scritta che riporta Romualdo secondo!
Da quanto si legge, si evince che dal 1500 in poi nel Duomo
di Salerno i pavimenti musivi erano presenti solo nel transetto
e nel coro, in quanto nessuna delle fonti accenna ad un
pavimento che si estende anche alle navate minori nel resto
della chiesa. Questo può voler dire solo due cose: o il
pavimento venne effettivamente realizzato nel XII secolo solo
nel transetto e nel coro, dando credibilità alla bizzarra tesi di
Braca secondo cui “a Salerno una simile impresa (quella di
fare tutto il pavimento musivo della chiesa) non è stata
ritenuta necessaria non tanto perché avrebbe comportato un
enorme dispendio di denaro, ma soprattutto perché l’intero
edificio originario presentava una divisione netta in due parti
uguali e separate, la prima per i fedeli, e la seconda,
comprendente transetto e Schola Cantorum, per il clero. Ed è
solo quest’ultima, riservata alla liturgia, ad essere stata
ricoperta dai mosaici. In un contesto simile un ruolo centrale
viene svolto dall’altare maggiore, principale snodo di tutta la
spazialità del transetto e soprattutto riferimento essenziale
per la Schola Cantorum”, o si accetta di buon grado che il
pavimento mosaicale doveva necessariamente estendersi a
tutta la superficie della chiesa, come tradizionalmente
accadeva in tutte le principali chiese della cristianità
dell’epoca, secondo la moda “bizantina” del pavimento in
18
opus tessellatum, iniziata con la consacrazione della chiesa di
Montecassino. Personalmente sono propenso a dare credibilità
a quest’ultimo punto, perché la tesi di Braca va contromano e
contro ogni logica dell’arte del pavimento “cosmatesco”.
L’ordine spaziale, e l’organicità simmetrica di tali monumenti
sono attestati in tutte le chiese dell’epoca in cui sia possibile
osservare un reperto pavimentale, sebbene restaurato, ma
originale. In tal senso, fondamentale è il paragone con i
pavimenti cosmateschi di Montecassino, Ferentino e Anagni,
gli unici attestati con certezza documentale e dalle stesse
firme epigrafiche degli artisti in cui si osserva il vero intento
dei maestri che realizzavano tali monumenti e i Cosmati sulla
scorta della tradizione dei loro avi che operarono fin dal 1100
nel Lazio e nella Campania. La supposizione che nel Duomo
di Salerno il pavimento fosse realizzato solo nel Coro e nel
Transetto, adducendo a giustificazione una diversa
articolazione in rapporto all’ingresso della chiesa,
costituirebbe l’unico caso al mondo di chiesa romanica con
pavimento cosmatesco con significato opposto a quello
tradizionale che, come lo stesso Braca spiega, era quello di
accompagnare gli intrantes dalla porta della chiesa all’altare.
Perché a Salerno, dunque, una chiesa costruita sul modello di
Montecassino, doveva attuarsi questa drastica interruzione?
Per tenere distanti il clero dai fedeli, in modo che gli uni non
potessero vedere gli altri, era stata appositamente inventata la
transenna presbiteriale, anch’essa adornata di mosaici. Non vi
è quindi motivo di credere che il pavimento fosse concepito
anch’esso come il risultato di un distacco tra clero e fedeli che
nell’intento cosmatesco non c’è mai stato.
Al contrario, invece, i molti casi che ho esaminato di
pavimenti precosmateschi e cosmateschi nelle chiese di
Roma, del Lazio e della Campania, mi portano con certezza a
dire che dove esistono mosaici pavimentali compresi solo nel
coro o nel transetto, o in entrambi, escludendo le altre zone
della chiesa, significa che in quel luogo l’antico pavimento è
19
andato distrutto o per calamità naturali, o per guerre, incendi e
incuria dell’uomo, o per trasformazioni architettoniche
interne. A tal proposito vorrei ricordare che l’enorme
pavimentazione della chiesa di San Giovanni in Laterano, fu
voluta da Papa Martino V, agli inizi del ‘400, facendo
smantellare ciò che di antico ancora si vedeva nella chiesa del
pavimento cosmatesco, e inviando i poveri resti ad abbellire
alcune chiese, tra cui quella di San Nicola a Genazzano. E
stiamo parlando degli inizi del 1400! Per questo ho
evidenziato prima che nulla sappiamo di cosa sia accaduto al
pavimento del Duomo di Salerno tra il XII e il XVI secolo!
Per questa ragione, sono propenso a credere che esso in
origine era stato realizzato su tutta la superficie della chiesa e
che in seguito a qualche terremoto o altra calamità fu
danneggiato o parzialmente distrutto.
Prima del XVI secolo, vennero recuperati i riquadri migliori
insieme ai frammenti e tessere singole, conservati e
reimpiegati per abbellire il coro e il transetto durante la
costruzione del nuovo pavimento. Questo spiegherebbe come
mai ognuno che osservi il pavimento dall’alto in modo
unitario, sia colto da quel senso di assenza
dell’organizzazione spaziale dell’attuale pavimento di
mosaico, rispetto agli assetti tradizionali cosmateschi, anche a
partire da quello della chiesa di Montecassino. Ciò è stato ben
rappresentato da Paolo Orsi, citato da Braca, che nel 1929
“individuava nella disposizione dei mosaici del pavimento del
transetto, l’assenza di un’organizzazione spaziale,
paragonando l’effetto d’insieme ad una distesa di tappeti
orientali”. Anche io sono stato colto dalla stessa sensazione
quando ho visto una immagine dell’intero pavimento all’alto.
Tale assetto, non ha nulla a che vedere con lo stile
tradizionale dei pavimenti precosmateschi del XII e di quelli
cosmateschi del XIII secolo. Si rende fortemente visibile ad
occhio che si tratta di una disposizione dei migliori pannelli
salvati dall’antico litostrato, disposti alla meglio, secondo un
gusto personale, da chi li assemblò nel coro e nel transetto
20
probabilmente prima del XVI secolo. Non si tratta di una
disposizione totalmente casuale, ma certamente nemmeno
secondo i canoni dell’arte cosmatesca. Gli addetti alla
ricostruzione del pavimento disposero i pannelli, di cui molti
originali, ma restaurati nel corso dei secoli, senza un preciso
significato, solo accostando quelli più significativi alle regioni
più importanti del transetto e del coro, ma nulla si può
ricavare da una presunta organicità spaziale e di un possibile
significato iconologico della stesura pavimentale. Per questo,
vale la sola osservazione di Orsi, perché davvero trattasi di
una distesa di tappeti orientali.
La chiesa di Santa Maria Maggiore a Sant’Elia Fiumerapido
(FR), ha diversi pannelli cosmateschi solo nel presbiterio; così
anche la parrocchia di Capua e la chiesa di Sant’Angelo in
Formis, dove furono trasportati importanti reperti pavimentali
dal distrutto monastero di San Benedetto a Capua. Molte altre
sono le chiese che presentano un pavimento cosmatesco solo
nel presbiterio, ma ciò non vuol dire che in origine il litostrato
fu concepito proprio così. Questo dovrebbe bastare a
dimostrare che non vi è ragione di credere che nel Duomo di
Salerno, sia per importanza, sia perchè non mancavano certo
le finanze ai committenti, i Romualdo abbiano rinunciato a far
lastricare tutto il pavimento della chiesa di mosaici.
Se si accetta tutto ciò, viene drasticamente a cadere ogni
tentativo di spiegazione iconografica, iconologica e
dell’assetto organico-spaziale del pavimento moderno, fermo
restando ciò che possiamo invece dire sulla sua storia, cioè
sulle vicende cronologiche, sul suo stile e, in base a ciò, del
suo rapporto con le botteghe marmorarie del tempo. Il
pavimento come lo si vede oggi rappresenta per me solo ciò
che deriva da una totale ricostruzione dell’impianto
pavimentale presumibilmente ad iniziare dal XV-XVI secolo.
Ciò sembra essere confermato anche dallo stato conservativo
delle fasce marmoree bianche di delimitazione dei mosaici
che visivamente non si mostrano essere più antiche del XVIXVII secolo. Uguali ne esistono in molte chiese che ho avuto
21
modo di vedere, i cui pavimenti sono tutti stati rifatti
totalmente nel XVII-XVIII secolo.
La mancanza, o l’esiguità, di elementi partizionali con i
motivi geometrici semplici nel pavimento del transetto e nel
coro, comuni invece a tutti i pavimenti precosmateschi dei
primi decenni del XII secolo, è un altro elemento che
conferma la mia tesi, e si può semplicemente spiegare
ipotizzando che nell’epoca barocca vennero prelevati i
migliori riquadri dell’antico pavimento per poi reimpiegarli
nella decorazione del coro e del transetto quando fu realizzato
l’intero pavimento della chiesa. Parte dei riquadri laterali delle
navate furono reimpiegati per coprire gli spazi rimanenti che
si vedono oggi.
Il pavimento del duomo, come tutti gli altri nel Lazio, in
Campania e altrove, ha subito la stessa sorte di essere
smantellato, ricomposto, restaurato, ricostruito e manomesso.
Nessuno può dire quante volte e in che periodo, se non nei
casi documentati. Considerando che quattro secoli, non sono
proprio un periodo temporale corto, possono essere accadute
cose impensabili già dal 1200 in poi. Come testimoniano le
epigrafi, il pavimento deve essere stato costruito sotto uno o
entrambi i Romualdo, ma a ben analizzarlo nei suoi riquadri
migliori, è difficile credere che il lavoro di precisione musiva
che si vede in diversi pannelli e la concezione di
pavimentazione di tipo cosmatesca, anche se di stile mediobizantino, sia l’opera di marmorari del 1126 che operavano a
soli quaranta, cinquant’anni dalla consacrazione della chiesa
di Montecassino.
Una mia ipotesi che porto avanti da diverso tempo, e che non
ha precedenti nella letteratura, dice che i pavimenti delle
chiese di Roma sono stati tutti sottoposti a restauri dagli stessi
artisti Cosmati. Tali edifici ebbero i loro pavimenti musivi al
tempo della loro consacrazione, ma quasi tutti furono poi
restaurati circa un secolo dopo dai Cosmati i quali operarono,
per varie ragioni, solo nelle zone più importanti: nelle fasce
centrali. Solo così si spiega la differenza stilistica e di
materiali tra le zone delle navate laterali e le fasce centrali
22
nelle chiese di Roma (come in S. Maria in Cosmedin, San
Clemente, ecc.).
Nel duomo di Salerno ciò non è ravvisabile perché manca la
cospicua parte del pavimento che andò distrutta in qualche
modo (è da verificare se significative porzioni dei riquadri
delle navate laterali nel resto della chiesa furono trasportate in
altri monumenti nella città e nelle zone limitrofe).
Ma io leggo un’evidenza di questo fatto nell’analisi dei
pattern. Se ci si fa caso, negli stessi riquadri importanti del
transetto, si notano mescolati motivi precosmateschi, formati
da pattern geometrici semplici con tessere di più grandi
dimensioni a sequenze di pattern (specie nelle fasce
decorative) di chiara tecnica più raffinata, che può riferirsi
solo almeno ad iniziare dalla metà del XII secolo. Il
pavimento del transetto è pieno di queste incongruenze, di
mescolanze, di rappezzi, ecc.
Quindi la perduta iscrizione di Romualdus secundus, citata
anche dal Muratori, è a mio avviso una eccellente
testimonianza di lavori pavimentali avvenuti nella chiesa
attorno alla metà del XII secolo, mentre le ravvisaglie di stile
romano, che pure sembrano riscontrarsi, possono anche essere
postume, seppur di poco.
La mia idea è che il pavimento visibile oggi nel Duomo sia il
reimpiego delle parti migliori, o di quelle che si sono salvate
dalle distruzioni, di almeno due pavimentazioni musive di cui
una, la più antica e semplice, realizzata sicuramente sotto
Romualdo I e l’altra, più raffinata considerato l’avanzare della
tecnica musiva, quella realizzata a completamento o in
parziale rifacimento, o vuoi come restauro, sotto Romualdo II.
In questo modo si potrebbe spiegare la comune sensazione,
ravvisata anche da Braca, che al pavimento abbiano lavorato
almeno due botteghe marmorarie autonome. E dovevano per
forza essere autonome, visto che lavoravano con almeno
mezzo secolo di distanza l’una dall’altra! E si spiega anche
come Braca ravvisi che “è da escludere la possibilità di un
loro (delle botteghe) impiego contemporaneo in quanto non si
23
individua il principale cemento unitario che viene da un
progetto unico”. Anche se poi si contraddice affermando che
“la sostanziale incongruenza fra il lato meridionale e quello
settentrionale lascia emergere la mancanza di un progetto
unitario della decorazione e della divisione dello spazio, che
invece sembra corrispondere alla convergenza di
progettualità distinte. Una simile considerazione lascia
intuire la possibilità dell’intervento di almeno due botteghe
diverse, le quali possono aver operato contemporaneamente
ovvero in tempi diversi, anche se non eccessivamente lontani
tra loro”.
Personalmente sarei dell’avviso di ritrovare nei pannelli interi
e frammentari che mostrano le più semplici decorazioni a
motivi geometrici con moduli base sviluppati in pattern
elementari, i riferimenti più diretti al primo pavimento fatto
da Romualdo I, e nei pannelli con i meandri a ricche
decorazioni in cui la tecnica di intarsio è minuta e molto più
raffinata, i riferimenti al pavimento di Romualdo II. Negli
angoli di rappezzo, sono stati utilizzati sia frammenti del
pavimento antico, provenienti dai riquadri rettangolari
dismessi, sia pannelli realizzati in tempi moderni con
materiali nuovi.
In molti punti il pavimento mostra analogie stilistiche e di
conservazione identiche ai pavimenti di Ferentino, Anagni e
coevi, cioè rifatti in epoca barocca, mentre non è escluso che
intere piccole porzioni di fasce decorative dei meandri, dei
dischi e dei motivi geometrici siano state letteralmente segate
e ricomposte nei luoghi idonei. Ciò potrebbe corrispondere a
quei punti in cui non si nota con evidenza la fuoriuscita
dell’allettamento della malta delle tessere, oppure della
inopportuna dimensione delle fughe negli intarsi delle stesse
che pure sono ben evidenti. In altre parole, ciò potrebbe
corrispondere a quei pochi frammenti in cui il lavoro
“cosmatesco” sembra essere più o meno originale.
24
Quanto ho scritto finora non è frutto solo della mia fantasia,
ma del reale confronto con le rare porzioni di pavimenti che
possono considerarsi con ogni probabilità originali, cioè poco
ritoccati, restaurati e lasciati per vari motivi, o per fortuna,
nello stato originale di come erano stati realizzati. Uno dei
rarissimi pavimenti che in varie porzioni è forse arrivato a noi
come concepito in origine dai tempi dei Cosmati è quello
della piccola chiesa di San Benedetto in Piscinula in
Trastevere, a Roma. Un pavimento davvero poco conosciuto e
poco studiato che invece può essere la chiave di svolta per le
nuove indagini sull’argomento.
Fig. 1 Salerno. Duomo, dettaglio del quinconce nel riquadro centrale nel
transetto prospiciente il lato nord dell’altare.
Riporto qui sotto alcune immagini di porzioni del pavimento
romano, che è certamente cosmatesco forse della fine del XII
secolo e lo mettiamo a confronto con porzioni di pannelli
musivi del pavimento del Duomo di Salerno:
25
Le figure 1 e 2 mostrano una porzione e un dettaglio nei
pressi di un disco che fa parte del quinconce asimmetrico del
riquadro prospiciente il lato nord dell’altare al centro del
transetto. Si tratta di un’area importante del pavimento,
eppure il dettaglio mostra almeno due elementi che vanno a
confermare tutto quanto ho detto nel testo precedente. Nella
figura 1 è possibile vedere una mescolanza di fasce marmoree
bianche integre, più moderne, e frammentarie più antiche. La
maggior parte di esse non sembrano essere precedenti al XVIXVII secolo.
La fig. 2 mostra qualcosa di molto più interessante: le tessere,
sebbene siano in buona parte quelle antiche reimpiegate, non
sono “intarsiate” secondo la tecnica mosaicale dell’opus
tessellatum o dell’opus sectile dei maestri marmorari Cosmati.
Esse non risultano incastrate tra loro nelle celle realizzate
nella malta cementizia, ma sembrano esservi “appoggiate”,
con una larga fuga che mostra con evidenza l’allettamento
della malta. Questa particolarità è una caratteristica che si
riscontra in buona parte del pavimento del duomo di Salerno,
come in tutti quelli ricostruiti in epoca barocca nelle chiese di
Roma, del Lazio e della Campania. La differenza è resa
immediatamente dal confronto con le immagini che
ritraggono il pavimento della chiesa di San Benedetto in
Piscinula a Roma, nelle porzioni di litostrato che ritengo
essere le più vicine all’originale.
26
Fig. 2
Dettaglio della fascia decorativa della ruota di fig. 1 di triangolini
generanti un pattern di stelle ottagonali bianche.
Fig. 3 Roma. San Benedetto in Piscinula, dettaglio di un quinconce.
27
Fig. 4. Roma. San Benedetto in Piscinula, dettaglio della decorazione della
campitura interna tra i dischi di un quinconce.
Le figure 3 e 4 mostrano con sufficiente precisione cosa sia
una porzione di pavimento veramente cosmatesco lavorato
nell’opus tessellatum. Siamo a San Benedetto in Piscinula,
una delle rare chiese dove si trova una cospicua porzione di
pavimento cosmatesco in buona parte originale. Uno dei
pochissimi di Roma, se non l’unico, insieme forse a quello
della Basilica dei Santi Quattro Coronati che però risulta
molto restaurato.
In questo trasteverino sembra che il tempo si sia finalmente
fermato ai maestri Cosmati, mostrandoci per una volta il vero
volto dei loro lavori originali.
La fig. 3 mostra una delle ruote di una serie di quinconce
comunicanti tra loro, nel perfetto stile di Cosma, figlio di
Iacopo di Lorenzo. Le fasce marmoree sono più strette
rispetto a quelle impiegate a Salerno e sono quasi tutte
28
originali, come mostra lo stato di conservazione, mediamente
buono. Questo stato, dovrebbe essere preso a modello in
ulteriori confronti in quanto credo che possa ritenersi uno
stato medio-buono di conservazione del pavimento originale
cosmatesco e l’usura delle tessere è quella che dovrebbe
mostrare un pavimento musivo che abbia circa otto secoli di
storia. Anche il disco di porfido interno è frammentario, come
dovrebbero essere la maggior parte di essi negli altri esempi
pavimentali, qualora fossero originali.
Fig. 5. Roma, San Benedetto in Piscinula. Riquadro pavimentale laterale.
In particolare la fig. 4 mostra il dettaglio di circa 10 cm di
superficie del pavimento in cui la gran parte delle tessere sono
originali. Si vede chiaramente l’intarsio sectile delle tessere,
la fuga inesistente tra esse (se si considera che gli spazi sono
dovuti agli assestamenti, terremoti, all’usura, ecc.),
l’allettamento della malta invisibile, il vero stato conservativo
29
delle tessere.
Un confronto diretto di questa immagine con qualsiasi
porzione del pavimento del Duomo di Salerno dovrebbe far
riflettere molto su tutto quanto ho scritto in precedenza.
La fig. 5, invece, mostra come anche in San Benedetto in
Piscinula, qualche cosa non sia arrivata a noi come era in
origine. Si tratta di sporadici riquadri pavimentali che sono
stati ricostruiti probabilmente nel XVIII-XIX secolo. Si vede
chiaramente la differenza con la tecnica precedente e la
ricomparsa del letto di malta tra le tessere, la mescolanza di
tessere antiche e nuove, ecc. E’ in questo stato che si trova la
maggior parte dei pavimenti di questo genere a Roma, come
nel Lazio e in Campania.
Fig. 6. Salerno, zona pavimentale destra dell’abside a nord dell’altare.
30
Come si evince dalla fig. 6, il pavimento di Salerno non è
esente da quegli schemi partizionali che costituiscono una
caratteristica imprescindibile dallo stile dei pavimenti musivi
realizzati a partire da quello della chiesa di Montecassino. Già
in questa immagine se ne notano ben quattro che sono
certamente qui concepiti, nell’intento di coloro che operarono
l’intervento di rifacimento del pavimento reimpiegando il
materiale di risulta dell’antico pavimento di Romualdo I e II,
come rifinitura degli angoli e rappezzi vari a completamento
del lavoro. Dalla parte opposta ne corrispondono altri quattro
allo stesso modo, ma con motivi geometrici diversi i quali
tutti si possono rapportare ai semplici moduli base del
repertorio dei pattern precosmateschi, comuni, comunque,
anche a quelli che generalmente furono utilizzati dai Cosmati
nel XIII secolo nelle zone delle navate laterali delle chiese.
Così, troviamo gli esagoni, nei motivi ad triangulum e
semplici collegati da triangoli; i quadrati in tessitura
ortogonale e diagonale, con le scomposizioni in triangoli e
semplici; sul lato destro invece ritroviamo proprio il canonico
pattern precosmatesco degli esagoni intersecantisi (fig. 7),
esattamente identico nello stile, fattezze, dimensioni e
proporzioni a quelli che si vedono in alcune chiese con
pavimenti anteriori all’epoca dei Cosmati; e ancora esagoni e
quadrati, semplici, del repertorio basilare dei pavimenti dei
primi decenni del XII secolo.
Al centro, invece, proprio in mezzo a tali riquadri così
semplici, ci spiazza un bel riquadro (figg.8-9-10) di tutt’altra
fattezza, di stile bizantino nella figura centrale, di derivazione
certamente cassinese, una sorta di triplice guilloche con al
centro un quinconce nello stile della forma analogo a quelli
semplici di Montecassino, Sessa Aurunca e San Menna a
Sant’Agata dei Goti. D’altra parte le analogie del pavimento
di Salerno con quelli di derivazione cassinese citati sono
tutt’altro che poche. Le scomposizioni interne sono
minutissime, e lontanissime dalla concezione del vicino
31
riquadro con motivi ad esagoni intersecantisi. Dimostrazione
di forte incongruenza sia stilistica che d’intento artistico
nell’accostamento di queste due porzioni pavimentali che
conferma il “reimpasto” dell’antico pavimento con il secondo.
I dettagli delle fig. 9 e 10 mostrano parte delle decorazioni
interne a scomposizioni minutissime paragonabili solo a
quelle realizzate in paste vitree sugli amboni e plutei di
recinzioni.
Fig. 7. Esagoni intersecantisi. Pattern precosmatesco per le
caratteristiche sovradimensionate.
32
Figg. 8-9-10
33
Fig. 11 Il pavimento intero del transetto desunto dall’opera di
Carucci.
Nella fig. 11, ho evidenziato in giallo i due riquadri che si
trovano nel transetto nord subito a sinistra dell’altare. Si tratta
di due riquadri che non hanno alcuna corrispondenza
simmetrica nella zona. Inoltre i quadrati diagonali interni,
sono diversi tra loro mostrando che nemmeno questi hanno un
senso di simmetria tra loro. In effetti questi due disegni
sembrano solo una banale giustificazione del reimpiego di
tessere, quelle che all’interno vanno a decorare le campiture,
che diversamente provenivano forse da altre semplici
partizioni rettangolari dell’antico pavimento e che qui sono
state reimpiegate cercando di formare tali motivi per
conformarli alle bizzarre forme degli altri riquadri.
34
Fig. 12. Riquadro “forzato” che utilizza tessere di partizioni
rettangolari. Non trova alcuna corrispondenza con altri
riquadri del transetto nord.
Il quinconce asimmetrico (fig. 13) davanti all’altare nel
transetto nord, si può dire che sia quasi completamente nuovo,
con qualche reimpiego di parti di tessere antiche. Tutto il resto
non dev’essere più antico del XVIII secolo. Inoltre, è
totalmente inconsueto nell’arte cosmatesca trovare elementi
come quinconce le cui campiture tra i dischi siano decorate
con pattern come i triangoli grandi che si vedono in figura.
Qui c’è poco o niente di veramente antico, se si fa un
confronto con le foto di San Benedetto in Piscinula viste
prima. Tra l’altro, due delle campiture di questo quinconce
presentano il pattern che io chiamo “gibboso” per via delle
tessere a forma di gobba, semicircolari che ho visto in diversi
pavimenti precosmateschi della metà del XII secolo ma non
tra i motivi geometrici del pavimento della chiesa di
Montecassino.
Anche questo elemento confermerebbe la datazione di parte
del pavimento del Duomo di Salerno al 1160 circa.
35
Fig. 13
La fig. 14 mostra qualcosa di speciale. A parte lo stile molto
“cosmatesco” nelle fasce decorative, che siano marmorari
romani emuli dei veri Cosmati o addirittura loro stessi, è
difficile dirlo. Ma ciò che si vede di interessante è la diversità,
sebbene simmetricamente uguale nello stile del pattern, delle
due campiture destra e sinistra. A sinistra il pattern semplice
della stella ottagonale fatta con i piccoli triangoli. Pattern
decisamente precosmatesco. A destra una decorazione
fittissima, come poche se ne vedono, dello stesso pattern
36
ripetuto ben quattro volte nello stesso spazio quadratico dove
nel suo simmetrico sinistro ve n’è uno solo! Una decorazione
questa che sembra essere scaturita direttamente dalla mente di
un artista abituato agli intarsi fitti degli arredi, o un
marmoraro che per competizione ha voluto dimostrare la sua
bravura rispetto ai precedenti lavori, quadruplicando la stella
nello stesso spazio.
Fig. 14 Rettangolo nel transetto nord subito a destra
dell’altare, primo disco, fasce decorative.
37
Fig. 15 Dettaglio del pattern della decorazione nella campitura
destra della fig. 14
Lo stesso si può dire della terza fascia esterna decorativa del
disco a modulo di listelli rettangolari che vanno a formare
pattern di quadrati o di stelle a seconda di come lo si guarda.
Motivi che è difficile credere comuni in pavimenti del 1120
circa. Lo stato conservativo, tutto sommato sembra anche
troppo buono, e il tutto è stato certamente ricostruito, come si
vede dalle tessere del dettaglio nella fig. 15 che mostrano la
malta di allettamento nelle fughe.
Tuttavia anche nel pavimento del Duomo di Salerno c’è un
tratto che può essere avvicinato alle caratteristiche del
pavimento della chiesa di San Benedetto in Piscinula visto
prima. Si tratta forse dei pochi tratti originali, probabilmente
segati in porzioni intere per essere riassettati al loro luogo.
La fig. 16 mostra questo dettaglio.
38
Fig. 16. Dettaglio di porzione pavimentale, nel transetto sud,
del primo pannello a destra di quello grande prospiciente
l’altare.
Si nota ad occhio la differenza con tutti gli altri pannelli, e
l’accostamento dello stato conservativo e delle peculiarità in
cui si trovano le tessere con il pavimento della chiesa di San
Benedetto in Piscinula, mi pare abbastanza evidente. Come
nei tratti del pavimento romano, anche qui scompare la
visione dell’allettamento della malta e la fuga tra le tessere
bene incastrate tra loro. L’usura e lo stato conservativo sono
39
simili dei due tratti pavimentali e non farebbe pensare che
questo di Salerno fosse più antico di quello di S. Benedetto in
Piscinula. Ciò che confermerebbe la mia tesi secondo cui non
tutto il pavimento del transetto nel Duomo di Salerno sarebbe
riferibile a Romualdo I.
Nella fig. 16 si nota anche una quasi completa corrispondenza
simmetrica delle tessere che formano il motivo geometrico, e
dove se ne vede qualcuna di diverso colore indica una
manomissione. Questa zona pavimentale, tra l’altro
leggermente avvallata, potrebbe essere stata realizzata con
porzioni musive intere intervallate dalle fasce marmoree
bianche più moderne.
Come ha già ricordato Braca nel suo articolo, il pavimento ha
subito numerosi restauri, almeno ad iniziare dal secondo
quarto del XVI secolo di cui si trova conferma in documenti
del 1575, del 1656, nel 1671 e del 1723. Inoltre la rimozione
degli altari barocchi ha determinato sicuramente una
alterazione dello stato del pavimento. Altri interventi si sono
succeduti nel XIX secolo, verso il 1920 e riguardarono
soprattutto l’ala meridionale. Tra i restauri recenti si ricorda
quello degli anni Sessanta, operato dal Gruppo Mosaicisti di
Ravenna, principalmente nell’angolo nord dell’abside,
rimuovendo un pezzo di mosaico e rimontandolo dopo aver
risanato il massetto e la zona tra la Sacrestia e l’ingresso del
Palazzo Arcivescovile. Quindi le zone laterali del transetto.
Tutto ciò è ravvisabile nelle differenze che stiamo osservando
nei dettagli delle immagini che abbiamo visto finora e nella
piccola tabella che segue dove si vedono zone pavimentali
significativamente diverse tra loro per tipologia, stile, restauro
e stato di conservazione.
40
Fig. 17
41
Nella sola zona del transetto, come si vede dalle immagini
sopra, sembra di osservare sei pavimenti diversi. Ciò è dovuto
esclusivamente alla mancanza di omogeneità stilistica causata
dalla ricostruzione arbitraria delle parti pavimentali che un
tempo ornavano l’intera chiesa e dai numerosi interventi che
hanno alterato l’originalità del manufatto. Si notano zone con
tracce di lavoro originale e ben conservate, come zone
completamente ricostruite in modo approssimativo, oppure
cercando di imitare la tecnica degli antichi maestri. Le prime
tre immagini sono accostabili allo stato pavimentale comune a
molti dei pavimenti ricostruiti nel XVIII-XIX secolo, come in
Ferentino, Anagni e molte chiese romane. Le altre mostrano
uno stato che si ritrova in molte chiese dove i pavimenti sono
stati ricostruiti non con l’intento conservativo artistico, ma per
il solo spirito di non buttare via il materiale. E’ una
condizione che si riscontra ovunque nei pavimenti
cosmateschi, da San Pietro in Vineis ad Anagni, a S. Elia
Fiumerapido presso Cassino, da Sant’Agata dei Goti a Capua,
fino anche a molte chiese romane, mentre nell’antica chiesa di
San Pietro ad Montes, presso Caserta Vecchia, ciò che rimase
dell’antico pavimento precosmatesco è stato smantellato e
buttato via negli ultimi anni!
Le peculiarità del pavimento del Duomo di Salerno però non
finiscono qui. Restando ancora nel solo ambito del transetto
sud, ritroviamo alcuni riquadri attorno all’altare che
testimoniano il “vandalismo” che ha interessato il mosaico
antico.
Il primo riquadro affianco, ovvero a destra, dell’altare
guardando l’abside, al centro del transetto, esibisce un
intricato sistema di meandri che insieme agli altri riquadri
successivi (sempre camminando verso destra) costituiscono la
zona pavimentale più vicina allo stile dei pavimenti bizantini
di Nicea e Costantinopoli. Un intricato intreccio di motivi a
meandri che sembrano essere stati volutamente addensati nei
pannelli dell’ala destra del transetto centrale, venendo a
mancare completamente questa tipologia stilistica nell’ala
42
sinistra, dove sono invece raggruppati quinconce normali ed
asimmetrici. A ben osservare il pavimento dall’alto, sembra
quasi di avvertire una volontà di dividere due tipologie
pavimentali che furono realizzate a distanza di anni nel
Duomo. A destra dell’altare (guardando l’abside) quella di
influenza orientale-siciliana, a sinistra dell’altare quella di
influenza più direttamente cassinese. Infatti è qui che si
riscontrano maggiormente i motivi singoli e i riquadri che
sono di diretta derivazione del pavimento della chiesa di
Montecassino e dove sono stati riscontrate analogie maggiori
con il pavimento della chiesa di San Menna a Sant’Agata dei
Goti.
In tutto ciò, può riscontrarsi quindi una volontà di suddividere
lo spazio musivo secondo lo stile che aveva interessato le
varie fasi degli interventi operati sul pavimento del Duomo tra
l’epoca di Romualdo I e Romualdo II. Da una parte la volontà
di conservare i tratti caratteristici forse della prima epoca, più
vicina stilisticamente e cronologicamente a Montecassino, la
seconda a quella di più diretta influenza siciliana. Ha ragione
Braca nell’individuare nel pavimento del Duomo una
pressoché completa assenza dello stile arabo dovuta
principalmente alla mancanza totale di pannelli pavimentali
che esibiscano i classici motivi di matrice islamica, come le
fasce rettilinee intrecciate in motivi rompicapo e a tal
proposito egli così si esprime: “Nel nostro caso si tratta di
pannelli definiti solo con fasce musive intorno a dischi di
diverse dimensioni senza neppure una sola linea retta, che
indica una assoluta lontananza sia dai modelli siciliani sia da
quelli romani, ma anche da quelli della tradizione campana”.
Braca si riferisce ovviamente a pannelli pavimentali musivi
come i due laterali all’altare che si vedono nel presbiterio del
Battistero del Duomo di Pisa in Piazza dei Miracoli, i quali
mostrano, sebbene datati ai primi anni del XIII secolo, con
ogni evidenza, l’arte del pavimento musivo islamico e la netta
diversità con questi di Salerno.
Non una organizzazione spaziale derivata dall’intento
43
cosmatesco originale, quindi, come è difficile credere ed
osservare nel transetto del Duomo salernitano, ma piuttosto
una volontà di conservare e distinguere, nelle epoche
successive, due fasi nette e cronologicamente diverse che
interessarono il pavimento, dovute sicuramente, come pensa
anche Braca, all’intervento di due botteghe marmorarie
diverse che, di conseguenza a quanto detto, risultano, la prima
essere discendente del cantiere artistico di Montecassino sotto
Romualdo I, la seconda importata forse direttamente dalla
Sicilia sotto Romualdo II, quando nel Duomo si ebbe quella
straordinaria campagna di decorazione musiva che produsse
anche la Schola Cantorum e il Pulpito “Guarna”.
La parte destra del pavimento del transetto è dunque l’anello
mancante che collega le fasi cronologiche della sua storia in
cui all’antico litostrato fatto realizzare da Romualdo I, si
sovrappone quello di Romualdo II, stavolta si derivato
dall’arte musiva siciliana nella piena metà del XII secolo.
Come scriveva Muratori nell’opera citata: “Per tre anni di
seguito egli in Palermo era vissuto fra i meravigliosi palazzi
reali, e chi sa quante volte in quella mirabile cappella
Palatina l’anima sua s’era elevata a Dio in una
fantasmagoria d’arte e di misticismo…Non è improbabile
ch’egli, di ritorno in patria (a Salerno), abbia condotto seco
qualcuno di quei marmorari che avevan lavorato nella chiesa
di Giorgio Antiocheno o della Cappella Palatina”. E stando a
ciò che si vede oggi nel Duomo, tali parole sembrano trovare
ampia conferma come nell’analisi dei pannelli che ho
prodotto nelle pagine precedenti.
Organizzazione spaziale, si, ma non originale. Si potrebbe
quasi dire che il pavimento del transetto sia suddiviso
spazialmente in zona destra e sinistra, rispetto all’altare,
dall’asse costituito dalla fascia centrale che dall’abside arriva
fino ai gradini del Coro. Un asse potremmo dire quasi
“neutrale”, stilisticamente, in quanto composto da tre pannelli
principali di cui quello più grande prima dell’altare, e
prospiciente il Coro, che sembra essere il più vicino alla
44
cultura cosmatesca romana; il secondo, verso l’abside,
composto da un quinconce asimmetrico anch’esso comune sia
ai pavimenti romano-laziali che a quelli campani; il terzo,
composto di una triplice guilloche con disco centrale più
grande e contenente un piccolo quinconce, di più diretta
influenza cassinese-bizantina.
La zona destra, come detta è principalmente formata da
riquadri in stile siculo-bizantino (dove peraltro compare anche
un pannello con una “stella di David”, simbolo emblematico
del Sionismo islamico, e a destra di stile cassinese-campano.
Tutto ciò è possibile osservare nello sguardo d’insieme della
precedente fig. 11.
Ritornando al pannello musivo a destra dell’altare, nel
transetto centrale, esso mostra evidenti anomalie nell’organizzazione dei motivi geometrici e nella loro disposizione
simmetrica. Qui si notano alcuni piccoli rappezzi (figg. 18 e
19) fatti con tessere disposte a formare motivi geometrici
consecutivi e diversi tra loro.
Fig. 18
45
Fig. 19
Tra l’altro è interessante osservare che proprio in questi due
“rappezzi” si vedono due motivi geometrici, o pattern,
assolutamente inconsueti, forse inediti nel repertorio dei
pavimenti musivi medievali in cui i listelli che formano rette
intrecciate, ricordano solo vagamente la caratteristica dei fasci
rettilinei intrecciati di stile arabo, ma sono sufficienti a
testimoniare che in questo luogo lavorarono marmorari sotto
la diretta influenza siculo-islamica. Nello stesso pannello
musivo, a poca distanza da questi due pattern si ritrova la
“stella di David”, a ricordare ancora una volta la matrice
islamica dell’opera. Questi due piccoli frammenti
pavimentali, sembrano essere i soli di questo genere presenti
nel pavimento del Duomo di Salerno e potrebbero essere stati
recuperati ed inseriti in questo pannello musivo proprio per
tramandarne la memoria. Si deve osservare ancora che essi
sembrano non essere stati volutamente completati nelle
campiture da elementi simili facilmente ricostruibili con altre
tessere di listelli ed esagoni, contrapponendoli ad un
diversissimo motivo geometrico di tessere piccole triangolari
in modo che essi possano risaltare ed essere visibili nella loro
integrità. Sembra che l’artefice di questa zona pavimentale
abbia scelto di far risaltare tali due frammenti affinché si
46
potessero distinguere e valorizzare dal resto del pannello
musivo, come fossero due reperti storici importanti: una
piccola testimonianza di una zona pavimentale cosmatesca di
matrice islamica voluta da Romualdo II?
Il pannello sottostante, invece, esibisce quattro dischi non
annodati tra loro posti ai quattro lati di un rettangolo centrale
suddiviso in tre parti, di cui quella centrale contiene un quinto
disco. Questo pannello è forse l’unico del pavimento ad essere
stato assemblato in modo arbitrario e casuale con materiale di
risulta. Vediamolo in dettaglio nelle figure seguenti.
Fig. 20. Il pannello visto dall’alto nell’immagine del transetto
proposta da Carucci.
47
La fig. 20 ripresa dall’opera di Carucci, mostra il pannello
dall’alto. E’ evidente la ricostruzione arbitraria e casuale. Le
campiture non mostrano alcuna corrispondenza simmetrica da
una parte e dall’altra, in linea diretta o intrecciata. I motivi
geometrici sono diversi. Il disco di marmo nel rettangolo
centrale non ha senso ed è inserito al di fuori di un contesto
musivo originale.
Credo che tutti i dischi di porfido singoli venissero
contestualizzati nei litostrati fornendoli sempre di cornice
decorativa circolare. Se ciò è vero, come credo, si deve
osservare che molti dei pavimenti ricostruiti presentano questa
caratteristica di avere sia dischi con cornici decorate, derivate
presumibilmente da porzioni di pavimento originali, sia dischi
e lastre di porfido di diversa forma, come quelle oblunghe o a
forma di goccia, elica, ecc., ma collocate in modo casuale ed
arbitrario, senza alcun significato organico-spaziale ed
iconologico, nei pavimenti ricostruiti. E’ ciò che si vede non
solo in questo pavimento di Salerno, ma anche in quelli di San
Menna citato sopra e di altri simili. Anche questa, quindi, va
ad aggiungersi a quell’elenco di caratteristiche stilistiche e
tipologiche che accomunano tutti i pavimenti cosmateschi
ricostruiti nelle epoche successive.
Nel caso specifico del pavimento del Duomo di Salerno, sono
davvero numerosi gli esempi di ricostruzione casuale di
pannelli musivi con il reimpiego di queste lastre di porfido
che vanno dalle classiche forme a disco, a quelle di
derivazione cassinese oblunghe, a goccia e ad elica. Le
immagini che seguono sono, a mio giudizio, molto
significative in merito.
48
49
Fig. 21. Esempi di reimpiego di lastre di porfido di varia
forma nel pavimento del transetto nel Duomo di Salerno.
Lastre di porfido di questo genere sono una caratteristica
assolutamente originaria del pavimento desideriano di
Montecassino e tramandata negli anni successivi a tutti i
pavimenti musivi di derivazione della scuola cassinese.
Il più grande pannello musivo del pavimento del transetto
sembra essere quello più a destra dell’altare e ricopre la
porzione di fascia sud e centrale del transetto. Esibisce il più
grande motivo a meandri, per dimensioni delle rotae maggiori
a cui sono annodati a guilloche dischi minori. In tutto sono 13
dischi annodati e due lastre di porfido a forma oblunga
reimpiegate nel disegno in modo arbitrario. I dischi di porfido
non sembrano essere originali e vi è l’incongruenza che alcuni
sono contornati da fascia marmorea bianca circolare non
decorata, altri da fasce decorative consecutive, senza
l’interposizione di fasce marmoree che le suddividono, come
in genere si vede nei pavimenti cosmateschi. L’intero
pannello è completamente ricostruito e mostra le
caratteristiche di cui ho scritto per le figure 2 e 5 precedenti.
Le fasce curvilinee di marmo bianco, sebbene miste a
frammenti antichi, non sembrano essere anteriori al XVII
secolo.
Le fasce che costeggiano il perimetro dei muri, sono
50
composte di pannelli rettangolari completamente ricostruiti in
epoca moderna, utilizzando parte delle tessere antiche che
dovevano far parte dell’originario pavimento delle navate
della chiesa. La maggioranza delle tessere sono quadrati e
triangoli a formare i relativi motivi geometrici.
Fig. 22 Il grande disco di porfido grigio al centro del
maggiore pannello musivo a meandri appena descritto.
Si nota la fascia circolare costituita da un esagerato doppio
motivo di quadratini diagonali e si notano le caratteristiche
della totale ricostruzione del manufatto, con le tessere che
mostrano singolarmente il letto di malta sul quale sono state
adagiate. Le fasce marmoree bianche di cornice sono quasi
51
moderne. I giochi policromi di simmetria tra le sequenze
circolari delle tessere sono completamente inesistenti essendo
state assemblate a caso mescolando alcune originali di giallo
antico, rosso e verdi, con altre moderne, bianche e grigie.
L’effetto è senz’altro bello, ma noi conosciamo l’effetto
cromatico dei lavori originali cosmateschi nei pochi pavimenti
che li mostrano che, insieme al perfetto intarsio del lavoro
musivo, sono tutt’altra cosa!
Il pannello musivo che sta proprio dinanzi all’altare, prima di
scendere nel Coro, è anch’esso degno di nota. E’ costituito da
otto grandi dischi di porfido e da una lastra rettangolare,
sempre di porfido, rosso, al centro, decorata intorno da una
elegante cornice che, a sua volta, è annodata ai dischi esterni
tramite fasce curvilinee. Tutto ciò si vede nella fig. 23.
Fig. 23. Il riquadro dinanzi all’altare.
52
Questo pannello sembra discostarsi stilisticamente in modo
significativo da tutti gli altri. Se a sinistra troviamo una
maggiore correlazione con lo stile cassinese e a destra con
quello siculo-islamico, qui sembra di osservare l’opera di
marmorari che hanno attuato una sorta di fusione tra gli stili
decorativi campani e il classicismo romano. La zona centrale
del pannello ci riconduce a quegli elementi di romanità
caratteristici forse di una componente locale ereditata
dall’antichità classica. Le lastre di porfido quadrate e
rettangolari sono una caratteristica delle decorazioni dei
marmorari romani e sono osservabili in diversi monumenti,
tra cui tratti dei pavimenti di San Giovanni in Laterano (anche
se ricostruito postumo), Santa Maria Maggiore, Santa
Prassede, di Sant’Andrea in Flumine a Ponzano Romano, a
Ferentino, ma soprattutto nelle decorazioni di portali,
recinzioni e amboni.
Questo pannello potrebbe essere l’altro anello mancante che
potrebbe avvalorare le ipotesi di interventi, seppure minori, di
marmorari romani nel Duomo di Salerno. Ho creduto
opportuno parlare di “fusione” di stili operata da marmorari di
probabile influenza romana, in quanto se la classicità romana
è ravvisabile nel disegno unitario del pannello, di contro
buona parte delle decorazioni musive comprese tra le fasce
marmoree bianche e nelle varie campiture, mostrano una più
diretta relazione con gli stilemi campani e meridionali.
Tuttavia, anche in questo caso si osserva una discreta fusione:
alle stelle di chiara di fattura campana, si alternano i classici
pattern cosmateschi degli esagoni intersecantisi, ma lo stile
prevalentemente meridionale si riscontra specialmente nelle
decorazioni dei dischi, tipologicamente e stilisticamente
lontane dai triangoli raggianti e dai triangoli di Sierpinski dei
maestri Cosmati.
53
Fig. 24. Uno dei pattern nel pavimento del transetto
La fig. 24 mostra un pattern antico che nel pavimento del
Duomo viene ripetuto alcune volte. Non è sempre comune nei
pavimenti cosmateschi romani, ma deriva dal propotito
cassinese dell’Abate
Desiderio. Il motivo
è
derivato
però
dall’antichità perché
era comune nei
lavori in sectile dei
pavimenti delle ville
romane imperiali. Il
motivo ornamentale
è composto da rombi
54
(scutuale) la cui disposizione però, insieme al gioco
cromatico, genera graficamente immagini di cubi in
prospettiva dando l’impressione della tridimensionalità.
Inoltre, la stessa tridimensionalità potrebbe essere lievemente
appiattita, a seconda delle tonalità cromatiche che si scelgono
per le singole tessere, dando quindi vita a figure diverse. Per
esempio, la stessa immagine di prima, se vista in bianco e
nero, fa risaltare il disegno delle stelle a sei punte bianche più
che la tridimensionalità dei cubi. Ovviamente tale effetto lo si
ottiene solo dando una tinta unica alle sei tessere romboidali
che formano la stella con un colore che risalti sullo sfondo
delle altre tessere che vanno a formare l’esagono in cui è
inscritta. Una sequenza continua ed alternata nei colori,
invece, restituirebbe solo la tridimensionalità dei cubi ed il
motivo detto dal latino appunto ad cubum.
Della stessa tipologia, per quanto riguarda le tessere, lo stato
generale musivo e lo stato di conservazione, sembra essere il
pannello successivo verso sinistra, guardando l’abside. Qui si
vede un disegno dalla forma bizzarra, non tanto decifrabile
che al momento della mia visita era suddiviso per metà da una
transenna di legno. Il disegno interno di questo pannello credo
sia unico; non se ne conoscono di simili e non se ne conosce
neppure il significato. Il fatto che i dischi non presentino una
annodatura bizantina, lascerebbe pensare che si tratti di una
ricostruzione arbitraria in cui è stata reimpiegata la lastra di
porfido ovale al centro, quelle a goccia laterali, e quelle
semicircolari ai due lati opposti. E’ da notare che la fascia
rettilinea esterna di quadrati verdi e rossi e la gran parte dei
motivi decorativi interni al pannello trovano una identica
analogia alle fasce decorative dei pavimenti cosmateschi della
bottega romana del maestro Iacopo di Lorenzo e figli, specie a
Ferentino e Anagni, al punto che si potrebbe pensare che
anche questo riquadro fosse stato eseguito da marmorari della
loro scuola. La stessa tipologia con i quadratini la si riscontra
in San Menna a Sant’Agata dei Goti.
La rimanente zona del transetto a sinistra dell’altare e più
55
vicina alla navata, rimane senza molta importanza in quanto si
tratta di superfici completamente rifatte, anche in modo
approssimativo, utilizzando materiali moderni e parte forse di
tessere antiche. Alcuni pannelli esibiscono sequenze di
quadrati inscritti in altri quadrati e una fusione di tessere che
formano motivi ad quadratum in simmetrie cromatiche senza
corrispondenza e senza senso. La figura 25 mostra un buon
esempio.
Fig. 25. Riquadro del primo transetto a sinistra dell’altare verso l’abside.
E’ evidente il reimpasto di elementi diversi, in una ricostruzione
totalmente arbitraria, casuale, sommaria, al solo scopo di reimpiegare il
materiale di risulta. Il disegno dei quadrati inscritti potrebbe invece avere
valenza storica.
56
Il quinconce adiacente al lato superiore del pannello
precedente è anch’esso completamente ricostruito, in parte
ancora in modo superficiale, impiegando parte del materiale
originale e gran parte di materiale moderno.
Nella figura 26 si vede di nuovo un pannello completamente
ricostruito in modo arbitrario con il reimpiego di lastre di
porfido di varie forme e dimensioni: rotonde, ovali,
romboidali, triangolari e motivi geometrici formati da tessere
miste. Qui però si è tentato di conservare almeno il concetto
di corrispondenza simmetrica tra le diverse parti, come si può
vedere dalla foto, ma non in ogni dettaglio. Il motivo di uno
dei rettangoli che contiene le lastre di porfido romboidali, per
esempio, non corrisponde al suo simmetrico e lo stesso vale
per quelli con le lastre rotonde. Un po’ meglio va per le
campiture triangolari esterne. La varietà dei motivi
geometrici, circa una decina, è sorprendentemente alta per un
singolo pannello e ciò si spiega solo pensando all’intento di
arricchire il disegno base, di per se povero nei lineamenti,
nella consapevolezza di avere a disposizione un vasto
repertorio di materiale di risulta.
A seguire, nell’ultima fila a sinistra dell’altare verso il
presbiterio, nella zona mediana c’è un grande quinconce
asimmetrico a cui se ne affianca un altro sulla destra ancora
più grande. Si differenziano solo in alcuni dettagli decorativi,
però quello di sinistra è un quinconce con i quattro dischi
esterni annodati attorno ad un quadrato; quello di destra ha i
quattro dischi annodati attorno ad un rombo al posto di un
quadrato, così che il riquadro interno è un rettangolo invece
che un quadro. Al di sopra del primo quinconce vi è uno dei
pannelli forse più significativi dal punto di vista iconologico,
anche perchè ha destato molto interesse tra gli storici nei suoi
accostamenti con modelli iconografici simili.
57
Fig. 26 Ultimo pannello musivo a sinistra dell’altare.
A ben vederlo, questo pannello si trova nel posto sbagliato,
perché avrebbe dovuto essere nella zona destra del transetto,
insieme ai suoi simili di stile siculo-bizantino. Il pannello
rettangolare è scorniciato con fasce di marmo bianco che
ricalcano lo stile del pannello di forma bizzarra descritto
prima della fig. 25. In effetti le linee perimetrali costituite
dalle fasce marmoree mostrano, nell’interruzione della
rettilinearità, un accostamento stilistico alla decorazione
islamica. Supponendo che il primo pannello sia stato
arbitrariamente decorato all’interno, questo secondo mostra la
più totale evidenza all’arte siculo-islamica. Ciò è ampiamente
confermato dalla presenza di ben cinque “stelle di David”
58
realizzate nello stile islamico. Quindi, questo pannello si trova
nel posto sbagliato!
A parte ciò, il resto del disegno e delle decorazioni, sebbene
completamente ricostruito, come tutto il pavimento del resto,
mostra l’incomparabile bellezza dell’arte musiva pavimentale
siculo-campana-cassinese. Perché ho aggiunto anche la scuola
di Cassino? Perché credo che il sincretismo culturale
avvenuto nel XII secolo abbia riguardato tutte le scuole di
marmorari e intarsiatori, a cominciare da quelle bizantine
istituite da Desiderio a Montecassino fino ai grandi scambi
culturali con il resto del meridione d’Italia, sotto l’influenza
normanna e islamica.
In effetti questo straordinario pannello, mostra in modo
completo questo sincretismo artistico nei dettagli del suo
disegno e delle sue decorazioni, fino alla significativa
iconologia di ogni sua parte. E’ sorprendente che il disegno
centrale lo ritroviamo identico nel pavimento della chiesa di
San Menna e nella cattedrale di Sessa Aurunca, entrambe
sotto l’influenza religiosa ed artistica diretta dell’abbazia di
Montecassino. Il pannello è stato ricostruito con perizia,
perché la visione a distanza di qualche metro lo rende
perfetto, ma l’analisi dettagliata mostra che l’intarsio non è
quello dell’opus tessellatum cosmatesco, e che, sebbene ben
fatto, si evidenziano ovunque le stesse caratteristiche degli
altri pannelli visti in precedenza: le tessere sembrano adagiate
nel letto (fig. 28) della malta rendendo ben visibile le linee di
fuga. D’altra parte le fasce marmoree bianche non sembrano
avere più di qualche secolo. I motivi decorativi interno sono
misti tra i modelli base del repertorio precosmatesco: le linee
zigzaganti, comuni dal pavimento di Montecassino a quello di
San Clemente a Roma, i triangoli raggianti e le stelle a quattro
punte; quelli interni più piccoli, del repertorio dei
micromodelli utilizzati per gli intarsi degli arredi.
59
Fig. 27 Il pannello nel transetto nord a sinistra dell’altare.
Qui i restauratori sono stati attenti anche a realizzare la giusta
corrispondenza simmetrica, cromatica tra le tessere e
geometrica tra le campiture.
60
Fig. 28. Si nota bene la ricostruzione e il piano di
allettamento della malta ben visibile.
Fig. 29
Fig. 31
La “Stella di David”
61
Fig. 30
La fig. 29 mostra una delle campiture triangolari sferiche
prodotte dall’andamento curvilineo delle fasce marmoree
bianche. Le tessere appaiono ben assemblate e intarsiate se
viste da almeno un metro di distanza.
La fig. 30, invece, mostra un dettaglio ingrandito di una
piccola porzione nella zona centrale della stessa campitura.
Ciò che si vede parla chiaro. La ricostruzione, sebbene ben
fatta, mostra il letto di malta su cui sono pressate le tessere e
non vi è traccia di intarsio marmoreo, come nel caso di San
Benedetto in Piscinula. Inoltre si nota anche la diversità
tipologica e cromatica delle tessere impiegate e quindi la
mancanza di simmetria dei colori. In ogni caso, tutte le tessere
qui visibili, sono da ritenersi originali dell’antico pavimento
della chiesa. La fig. 30, mostra ancora più chiaramente la
ricostruzione su letto di malta delle tessere, nella “stella di
62
David” e fuori di essa.
Fig. 32
Fig. 33
Le figg. 32 e 33, servono solo per fare un semplice confronto
e per mostrare le diverse mani restauratrici che sono passate
sul pavimento del Duomo. Rispetto alla ricostruzione del
pannello di fig. 27, qui il difetto è maggiorato dalla totale
fuoriuscita della malta dalle linee di fuga delle tessere, nonché
da un pessimo riassemblaggio delle stesse che formano
geometrie sbilenche.
63
Il Pavimento del Coro
Una prima cosa che vorrei notare del pavimento del coro è la
seguente. Il motivo del pannello musivo di fig. 27, viene
ripetuto anche nel pavimento del coro, con una sostanziale
differenza: non vi sono “stelle di David”, non vi sono linee
spezzettate e non si avvertono forti componenti islamiche.
Come mai? La prima cosa che penso, dopo aver analizzato i
pattern delle campiture del pannello del coro, è che questo sia
stato realizzato dalla scuola di marmorari di influenza romana.
I motivi sono abbastanza classici e i triangoli raggianti con le
decorazioni dei quadrati nei cromatismi caratteristici delle
scuole laziali, potrebbero dare un senso alla tesi. Tuttavia, è
da convenire che tale motivo è, per sua natura e invenzione,
derivato solo dalla scuola siculo-campana, al che
bisognerebbe accettare che i marmorari romani avessero
voluto adattarsi alle componenti locali e assorbirne gli stilemi.
Tra l’altro, è da notare che il quinconce asimmetrico, esibisce
ancora una lastra rettangolare di porfido al centro del quadrato
diagonale, accostandosi stilisticamente e per le decorazioni
delle campiture ancora una volta alla classicità romana.
Anche qui nel coro, il pavimento è completamente ricostruito,
tessera per tessera. Anche qui, come nel transetto, si
osservano zone di migliore qualità e di peggiore aspetto, con
motivi geometrici ricostruiti bene e male, con tessere che
mostrano le linee di fuga e l’allettamento della malta. Quindi
valgono tutte le considerazioni fatte prima per il pavimento
del transetto, questo per quanto riguarda lo stato del litostrato.
Iconograficamente, invece, troviamo qualche differenza solo
del pannello della fascia centrale.
Qui, infatti, si trova un pannello rettangolare molto lungo che
nella descrizione di Braca si presenta così: “Nel contesto
figurativo un ruolo primario viene svolto dal lungo riquadro
rettangolare al centro del coro. Esso ricopre l’asse principale
che conduce all’altare, e non a caso ha uno sviluppo unitario
con una ostentazione di ricchezza di colori e di grandezza
64
delle figure. Il suo disegno è composto principalmente da tre
grosse circonferenze uguali di cui le due estreme, riempite da
mosaici e dischi di porfido, e dalle quali si irradiano altre due
circonferenze minori, costituiscono i poli di un’articolazione
simmetrica e speculare. La circonferenza centrale, a sua
volta, è riempita solo da un grande disco di granito, memoria
della Rota porphyretica, il principale posto che fin dal primo
Cristianesimo veniva destinato all’autorità regale durante le
solenni cerimonie. Anche la materia prescelta dal disco
maggiore e centrale, il granito color cenere, indica un
esplicito richiamo ai dischi della Basilica di San Pietro in
Vaticano”.
Fig. 34 Il pannello rettangolare centrale del coro. Immagine
tratta da Carucci.
La storia della Rota porphyretica utilizzata quale luogo di
sosta per una funzione religiosa importante, potrebbe essere
vera, ma è solo una ipotesi degli storici dell’arte che gli
studiosi di arte cosmatesca, invece, considerano con la dovuta
cautela. Ciò lo possiamo evincere chiaramente da un passo
dell’architetto Luca Creti, esperto di architettura cosmatesca,
che nel 2010 ha pubblicato uno dei più importanti volumi
65
sull’argomento4. Dal testo di Creti è possibile ricollegarsi alla
problematica che ho trattato in precedenza relativamente alla
mia ipotesi che il pavimento del Duomo di Salerno dovesse
essere concepito in origine per tutto il litostrato della chiesa e
non limitato al solo coro e transetto.
“I pavimenti cosmateschi sono strettamente connessi con il
portale maggiore, attraverso il quale realizzano la completa
fusione tra la chiesa e l’ambiente circostante…producendo
una felice continuità visiva nell’itinerario simbolico del fedele
verso l’altare. Questa funzione di guida è esaltata dalla
maggiore valenza cromatica della fascia centrale, che è
formata da cerchi concatenati o dalla successione di
quinconce e contiene tessere musive più piccole e di colore
più intenso rispetto a quelle inserite nei riquadri rettangolari
posti lateralmente. La forma generale dei litostrati è
correlata alla cerimonia di consacrazione della chiesa: i
grandi motivi centrali, in cui va forse individuata una
citazione della rota porfiretica del pavimento della basilica di
San Pietro, vanno probabilmente interpretati come dei luoghi
di sosta, delle stazioni obbligate durante lo svolgimento dei
riti religiosi”. Da questo passo di Creti, mi pare non vi siano
dubbi che i pavimenti di questo genere venissero concepiti
quale decorazione totale dell’intero litostrato della chiesa in
quanto diversamente non avrebbero avuto alcun senso. Detto
questo, vediamo il pannello rettangolare. La prima
impressione è che esso sia troppo piccolo, insieme al disco di
porfido grigio, per svolgere la funzione che doveva avere la
rota porfiretica. Infatti, in quel disco, due persone vi entrano
stando strette e non si capisce in che modo vi si sarebbe
potuta svolgere una delle cerimonie per le quali era concepita.
Devo però far notare che per “rota porphyretica” dovrebbe
intendersi probabilmente solo il disco di porfido il quale, però,
essendo decorato sempre da diverse fasce musive in stile
cosmatesco, non ci permette di essere certi che non si volesse
intendere per rota porfiretica anche il disco di porfido più le
4
Luca reti, In Marmoris Arte Periti: la bottega cosmatesca di Lorenzo tra
il XII e il XIII secolo, Edizioni Quasar, Roma, 2010.
66
fasce decorative che insieme costituiscono spesso le
dimensioni più ragionevoli perché al suo interno si possa
svolgere una cerimonia con almeno due o quattro persone. In
tal senso, allora, si potrebbero considerare ruote porfiretiche
idonee allo scopo non tanto quelle dell’epoca cosmatesca che
sono generalmente standardizzate nelle dimensioni che
conosciamo nei pavimenti come Ferentino, Anagni e Civita
Castellana, ma quelle realizzate nella prima epoca
precosmatesca, le quali si trovavano sempre al centro di
enormi quinconce di cui ricordo eccellenti esempi nelle chiese
di Montecassino (incisione settecentesca del pavimento
prodotta dal Gattola) e prima ancora il grande disco di Hagia
Sophia a Istanbul da cui forse è derivata la tradizione. Poi
posso citare il grande quinconce di San Pietro alla Carità in
Tivoli, e a Roma di Santa Francesca Romana, di San Saba, di
San Lorenzo fuori le mura, di San Crisogono e gli enormi
dischi di porfido di Santa Maria in Aracoeli.
Alla luce di queste osservazioni, il pannello rettangolare nel
pavimento del coro del Duomo di Salerno mi sembra possa
essere collocato più precisamente come uno dei tappeti musivi
della fascia pavimentale nella navata principale che
conduceva alla ruota porfiretica centrale, evidentemente
andata distrutta. Probabilmente vi erano due o più pannelli
identici a questo, disposti nella fascia centrale del pavimento,
lungo l’asse longitudinale, attorno ai quali dovevano esserci
file di partizioni reticolari musive a fasce marmoree, come
nella tradizione dei pavimenti cosmateschi e come si vede
nell’incisione settecentesca del pavimento di Montecassino,
dal quale anche questo di Salerno, nella sua prima
realizzazione sotto Romualdo I, è in buona parte un diretto
discendente. La ricchezza che si può osservare nel pavimento
del transetto e nel coro dei cosiddetti quinconce, di cui se ne
contano almeno quattro tipologie, fa pensare che la fascia
centrale fosse arricchita da una lunga sequenza di questi
riquadri, alternata dai pannelli rettangolari come quello di fig.
34, il che sarebbe in linea con lo stile del pavimento di
Montecassino. Infatti, non vi è ragione di credere che a
67
Salerno il disegno unitario del pavimento avrebbe dovuto
scostarsi di molto dal prototipo cassinese che era preso a
modello in tutto il centro e meridione d’Italia.
Fig. 35. Il pannello rettangolare, parzialmente coperto dai
banchi.
Il pannello mostrato in fig. 34 è comunque molto bello, unico
in Italia e di una eleganza maestosa. Se non fosse per la
tipologia precosmatesca dei due quinconce realizzati
all’interno delle due ruote laterali, avrei pensato che potesse
trattarsi di una realizzazione della fine del XII secolo. Non
saprei spiegare perché, ma ho la sensazione che questo
68
pannello in qualche modo mostri quella eleganza tipica della
classicità romana in una fusione di elementi stilistici campani.
Sembra quasi che il disegno sia romano e le decorazioni
campane e per questo sarei più propenso a credere che la sua
realizzazione risalga a Romualdo II, e che per le sue
caratteristiche facesse parte in origine del pavimento del coro.
Fig. 36. Un dettaglio di uno dei quinconce del pannello con
decorazione musiva floreale
69
Fig. 37. Dettaglio della decorazione dei triangoli nella fascia
circolare intorno al disco di porfido.
Il resto dei pannelli del pavimento del coro, quattro in tutto,
ricalcano di nuovo tre tipologie di quinconce e la ripetizione
del pannello di fig. 27. I tre quinconce sono uno normale con
le classiche annodature curvilinee dei dischi, il secondo del
tipo “asimmetrico” con i dischi esterni annodati ad un
quadrato diagonale al posto di un disco e al cui centro vi è una
lastra di porfido rettangolare, il terzo simile al secondo ma al
posto del quadrato vi è un rombo e nel rettangolo centrale vi è
posto un disco di porfido. Il quarto pannello è, come ho detto,
la ripetizione di quello visto in fig. 27, comune ai pavimenti
della cattedrale di Sessa Aurunca e di San Menna.
70
Considerazioni finali sul pavimento del Duomo di Salerno
Da quanto si è potuto osservare prima, è possibile formulare
ipotesi mai fatte fino ad oggi che così vorrei brevemente
sintetizzare:
1) il pavimento del Duomo di Salerno doveva essere in
origine concepito su tutta l’area dell’intero litostrato della
chiesa. Il prototipo costituito dal pavimento della chiesa di
Montecassino non lascia dubbi in proposito. Non esistono
pavimenti cosmateschi o precedenti musivi che siano stati
intesi solo come una prerogativa delle decorazioni del coro e
del transetto. Dove si vede una simile soluzione è attestato dai
miei studi trattarsi di una mera ricostruzione del materiale di
risulta dell’originaria pavimentazione.
2) Tutto il pavimento che oggi si vede è, secondo le mie
deduzioni, completamente ricostruito in diverse fasi, da
collegarsi ad epoche differenti.
3) Le principali fasi cronologiche che interessano il
monumento musivo possono essere riconducibili alla stesura
del primo pavimento originale da parte di Romualdo I, come
testimoniato anche epigraficamente; e ad una seconda stesura,
probabilmente parziale o intesa solo come restauro e
rifacimento di parti danneggiate da eventi calamitosi o bellici,
da parte di Romualdo II, come anche sembra essere
testimoniato da documenti epigrafici, sebbene oggi scomparsi.
E’ però da notare che se il pavimento musivo risale a
Romualdo I, vescovo di Salerno dal 1121 al 1137, allora di
quale pavimento era dotata la chiesa dal momento della sua
consacrazione, nel 1085, fino al 1121? E’ possibile che a soli
quattordici anni dalla consacrazione della basilica di
Montecassino, il monumento salernitano non avesse
l’opportunità di avere anch’esso un pavimento musivo come
quello cassinese? E che per avere il primo fu necessario
attendere quasi quarant’anni? E’ possibile che lo splendore
71
dei mosaici cassinesi, che tanta meraviglia destarono nel
mondo della cristianità, non avesse influito su coloro che
fecero costruire il Duomo di Salerno? Esclusa l’improbabile
questione economica della ingente spesa per un pavimento di
quelle dimensioni, perché si dovrebbe credere che il Duomo
fosse in origine dotato di un semplice pavimento di
cocciopesto? Non solo nessun autore fino ad oggi si è posto
queste domande, ma sembra che nulla si possa conoscere del
pavimento del Duomo prima delle notizie legate a Romualdo
I, così da credere senza riserve che il primo pavimento musivo
della chiesa salerninata fosse realizzato solo nel vescovado di
Romualdo I. Non ho le prove per sostenere la mia tesi, ma
sono propenso a credere che prima di Romualdo I il Duomo di
Salerno fosse già dotato di un pavimento musivo al tempo
della sua consacrazione.
4) L’ipotesi del punto 3) viene avvalorata da alcuni elementi
significativi osservati nel pavimento odierno:
a) il pavimento del transetto sembra essere stato
volutamente suddiviso in due sezioni stilisticamente diverse,
come per discernere la parte del primo pavimento dagli
interventi successivi;
b) ponendosi in direzione dell’abside nel punto
dell’altare, la zona pavimentale a sinistra mostra chiaramente
una maggioranza di elementi stilistici riferibili alla scuola
cassinese-campana, quindi con forti legami al pavimento che
l’abate Desiderio fece costruire nella chiesa di Montecassino
nel 107, ravvisabile nelle analogie della classicità dei disegni
costituiti dai quinconce e da alcuni elementi comuni alle
chiese di derivazione cassinese come Sessa Aurunca e San
Menna;
c) la parte pavimentale a destra dell’altare mostra nella
maggioranza dei suoi pannelli un esplicito legame stilistico
alla scuola siculo-islamica, ravvisabile dagli elementi di
carattere bizantino-islamico presenti nei molteplici meandri
che annodano numerosi dischi di porfido, nelle linee spezzate
di alcuni disegni, nelle decorazioni minute, lontane dalle
72
scuole laziali e cosmatesche, e soprattutto dall’insistente
presenza decorativa della “Stella di David”, simbolo del
Sionismo.
5) Il pavimento attuale deve essere stato ricostruito
probabilmente prima della metà del XVI secolo in quanto
alcune fonti del tardo ‘500, lo descrivono già nel modo che si
vede oggi.
6) Le lunghe e complicate vicende legate ai restauri,
rifacimenti e manomissioni, sono rintracciabili, in parte, nelle
diverse caratteristiche delle zone pavimentali, facilmente
riscontrabili ad una oculata osservazione. E’ da notare che la
maggior parte della superficie musiva è stata ricostruita non
ad “intarsio” cosmatesco, nel gioco dell’opus tessellatum, ma
semplicemente fissando le tessere sull’allettamento della
malta cementizia. Negli interventi di questo genere molto
superficiali, forse anche giustificati non solo da incompetenza
professionale ma anche dalla fretta di terminare i lavori, si
notano disallineamenti delle geometrie nei motivi musivi,
asimmetria policroma delle tessere impiegate unitamente a
diverse tipologie per il reimpiego di materiale originale
mescolato a materiale risalente ai tempi di ciascun restauro,
allargamento delle fughe tra le tessere e, in alcuni casi, la
fuoriuscita dell’allettamento della malta. Negli interventi più
mirati, tutto questo è stato notevolmente limitato e solo una
analisi micrometrica può rivelare alcuni di questi difetti.
L’influenza cassinese e siciliana
Questi sei punti riassumono quanto ho potuto osservare di ciò
che si vede oggi nel pavimento nel Duomo di Salerno. Per
quanto riguarda l’accertata influenza della scuola di
Montecassino e le ipotesi degli studiosi in merito ad una
seconda influenza, non bene attestata cronologicamente,
dovuta a presunti scambi culturali con l’area siciliana,
possiamo dire quanto segue.
73
Secondo lo studio di Braca “La strada siciliana, per
intenderci quella dei grandi cicli musivi, non è neppure da
prendere in considerazione in quanto l’approfondimento
dedicato alle fonti e alla tecnica ha permesso di stabilire
anche una cronologia certa, delimitata al massimo al secondo
quarto del XI secolo. Ebbene a questa data non esiste ancora
alcun pavimento musivo in Sicilia, considerato che quello
della Palatina e della Martorana non sono precedenti al
1140. A questa conclusione era arrivata anche la Cochetti
Pratesi, la quale ha sottolineato la precedenza del pavimento
salernitano rivendicando contatti di artefici locali con
ambienti bizantini”.
Lo studioso continua proponendo un possibile intervento di
Ruggero II che avrebbe potuto in qualche modo completare il
pavimento facendo intervenire maestranze greco-siciliane, ma
colloca l’avvenimento prima del 1140, conservando
l’estraneità delle scuole siciliane nel duomo di Salerno.
Ravvisando che “la gran parte del pavimento non è
riconducibile ad una cultura strettamente bizantina”, si pone
la domanda di quanto possano entrare nell’argomento i
“cosiddetti Cosmati, oppure la possibilità dell’esistenza di
una bottega autonoma campana”.
A tale scopo tira in ballo il salernitano Alfano, camerario di
Callisto II, che secondo il Crescimbeni fece realizzare il
pavimento musivo della chiesa di Santa Maria in Cosmedin a
Roma, nel 1123! Ma nel 1123 i Cosmati non esistevano!
Ovvero esisteva forse il loro capostipite, magister Paulus, di
cui non sappiamo nulla eccetto la firma, non sua, sui plutei
della recinzione presbiteriale della cattedrale di Ferentino e
qualche altra traccia simile. Come ho più volte detto nei miei
libri, i veri Cosmati sono da considerarsi i membri della
famiglia di Lorenzo e Iacopo, attestati insieme solo dal 1185.
Quindi, i Cosmati con Salerno non c’entrano un bel nulla. Il
pavimento fatto costruire nella chiesa di Santa Maria in
Cosmedin nel 1123 è ovviamente quello “precosmatesco”, di
cui si riconoscono oggi solo alcune caratteristiche nei pannelli
delle navate laterali, al quale si sovrappone quello cosmatesco
74
dei primi decenni del XIII secolo.
L’ipotesi di Arturo Carucci, secondo il quale nel Duomo di
Salerno possa aver lavorato magister Paulus, nonno di quel
Nicola d’Angelo che realizzerà il campanile del duomo di
Gaeta, non è da scartare perché, il maestro romano avrebbe
potuto certamente partecipare alla scuola musiva voluta
dall’abate Desiderio di Montecassino dal 1070 al 1100 e da
allora egli avrebbe potuto lavorare, come attestato anche
archeologicamente, nel basso Lazio (cattedrale di Ferentino,
Chiesa di San Pietro a Villa Magna in Anagni, forse a
Terracina, ecc.) con qualche incursione anche in Campania.
Ciò giustificherebbe i non trascurabili principi artistici
dell’opus romanum che si osservano nel pavimento del
Duomo salernitano.
Alla conclusione che i Cosmati non c’entrano con il Duomo,
Braca ci arriva prendendo in esame i pavimenti delle chiese di
Santa Maria in Cosmedin e di San Clemente, entrambi
precosmateschi, ma rifatti dai Cosmati nel XIII secolo.
Per quanto riguarda l’influenza siciliana, invece, vorrei
riportare un passo dall’importante studio del 2009 a firma di
Ruggero Longo5:
“Non è possibile stabilire quanto tempo sia intercorso tra il
cantiere salernitano e quello palermitano. Ad una prima
ricognizione non sembra esservi tra i due pavimenti alcuna
relazione. Il pavimento salernitano rivela componenti di
ascendenza campano-cassinese che alla Cappella Palatina
sembrano svanire tra i meandri di intreccio geometrico di
matrice islamica…E’ possibile che nel cantiere del Duomo
artigiani di origine musulmana abbiano collaborato alla
realizzazione dell’impresa salernitana, rafforzando le fila
delle maestranze campano-bizantine impegnate nella
decorazione del pavimento. L’ipotesi viene formulata da
5
Ruggero Longo, L’opus sectile medievale in Sicilia e nel Meridione
normanno, dottorato di ricerca in memoria e materia dell’opera d’arte
attraverso i processi di produzione, storicizzazione, conservazione,
musealizzazione, XXI ciclo, Università degli Studi della Tuscia di
Viterbo, 2009.
75
Antonia D’Aniello6 la quale, recuperando le notizie fornite
recuperando le notizie fornite da Amato di Montecassino
nella sua Historia Normannorum, chiama in causa la
possibile presenza di artefici «saraceni» giunti a
Montecassino da Alessandria…La circolazione di musulmani
nel meridione è assicurata d’altra parte dal fiorente centro di
Amalfi che faceva da anello di congiunzione tra la costa
campana, gli empori islamici nordafricani e il medioriente
musulmano e bizantino. Gli amalfitani trovarono terreno
fertile a Salerno quando, a partire dall’inizio del secolo XII,
la città raggiunse un notevole sviluppo economico, divenendo
un centro fiorente…È plausibile che le maestranze
benedettine giunte nella fascia costiera della Campania
abbiano accolto elementi della cultura islamica, rinnovando
il linguaggio artistico di matrice bizantina attraverso la
partecipazione diretta di artefici di origine musulmana,
depositari di un linguaggio decorativo estraneo alla
tradizione occidentale. Un primo incontro tra la cultura
bizantino – cassinese e quella islamica potrebbe essere
avvenuto proprio a Salerno. Non bisogna sottovalutare in
questo contesto che Ruggero II frequentava abitualmente
Salerno e nel 1127 fu proclamato principe nel Duomo di
quella città. Qualche anno dopo lo stesso arcivescovo
Romualdo sarà presente alla cerimonia di incoronazione del
re normanno, avvenuta a Palermo il 25 Dicembre del 1130.
Gli intensi rapporti tra Palermo e Salerno potrebbero aver
garantito l’insediamento e la collaborazione di artigiani
siciliani nel cantiere campano. Non è da escludere inoltre
che si sia verificato anche il caso contrario. Anzi è probabile
che Ruggero II, ammirando l’impiantito del Duomo, abbia
disposto l’esecuzione del pavimento palatino assumendo
artigiani salernitani”. Dal che si evince che le mie ipotesi
sulla possibile attestazione dei due pavimenti, a Romualdo I e
a Romualdo II, è ampiamente giustificata.
6
D’Aniello A., Il pavimento musivo del duomo di Salerno, in Presenza
araba in Campania. Atti del convegno, Napoli-Caserta 22-25 novembre
1989, Napoli, 1992.
76
ALCUNI PATTERNS PARTICOLARI PRESENTI NEL
DUOMO DI SALERNO
01
02
03
77
04
05
06
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25
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27
85
28
Le immagini sopra riportate, dalla 01 alla 28, mostrano una
discreta parte di alcuni pattern particolari presenti nel Duomo
di Salerno di cui un gran numero non sono presenti nel pur
completo repertorio pubblicato da Antonio Piazzesi e Vittorio
Mancini7 in un lavoro di statistica dei motivi cosmateschi. Ciò
dimostra di quale ricchezza decorativa musiva la chiesa
salernitana era dotata nel XII secolo. Alcuni di questi motivi,
in effetti, difficilmente riscontrabili in altri edifici, sembrano
addirittura essere stati inventati appositamente per la fabbrica
del Duomo! Il lavoro di catalogazione di Piazzesi e Mancini,
effettuato tra il 1951 e il 1953, riguardò dodici chiese di
Roma, tra le più importanti che conservano un pavimento
cosmatesco e produsse un elenco per un totale di 133 patterns,
tra i motivi riscontrati nelle partizioni reticolari, nei meandri,
nelle fasce decorative, nelle campiture e dei dischi centrali
delle ruote. Un repertorio, quindi, significativo nell’ambito
dei lavori cosmateschi che tuttavia non può definirsi completo
per quanto riguarda i pavimenti di scuola romana, ma
soprattutto per quelli al di fuori dell’ambito laziale, come
appunto i pavimenti realizzati dalle scuole siculo-campane. E’
per questo motivo che nel pavimento del Duomo di Salerno,
nonostante si tratti solo della ricostruzione, nel transetto e nel
coro, di quanto si è potuto recuperare nell’arco dei secoli
dell’antico litostrato dei Romualdo I e II, si riscontra una così
7
A. Piazzesi, V. Mancini, L. Benevolo, Una statistica del repertorio
geometrico dei Cosmati, in “Quaderni dell'Istituto di storia
dell'architettura”, V, 1954.
86
alta percentuale di patterns non classificata nel lavoro di
Piazzesi e Mancini. Le immagini precedenti mostrano motivi
geometrici di semplice e di complessa costituzione e
dimostrano come gli artisti che lavorarono nella fabbrica del
Duomo, riuscirono a creare complessi patterns partendo da
micromodelli composti da tessere dalla forma semplice, come
il n. 12 che alterna tessere quadrate uniformi a un modello
quadrato ma scomposto in ben 16 tessere triangolari. Altri
micromodelli semplici non si sono mai visti da nessun’altra
parte, come i nn. 8 e 20 che esibiscono al centro una minuta
tessera bianca, rotonda in uno e quadrata nell’altro.
Il pattern n. 01 è particolare ed ha una storia a sé, perché fu
utilizzato comunemente nei pavimenti precosmateschi dagli
marmorari laziali e quindi può classificarsi come uno dei
pattern standards dei primi pavimenti musivi romanici. In
questo caso forse sarebbe meglio parlare di un pattern
realizzato da un macromodello costituito da nove quadrati,
come nel n. 29 qui riprodotto.
Pattern n. 29
A parte le tessere uniformi, quelle
scomposte in elementi minori sono
formate da due tessere semicircolari,
o forse meglio dire oblunghe,
disposte al vertice e ai lati da due
triangoli,
teoricamente
sferici,
scomposti a loro volta quattro
elementi minori di cui quello al
centro in evidenza. Ebbene questo pattern, ripreso poi dai
Cosmati sostituendo le tessere oblunghe a quelle triangolari
normali, nei colori dei triangolini bianchi, produce
l’effetto visivo della cosiddetta “stella Cosmatesca”,
caratteristica assoluta dei lavori dei marmorari
laziali, ereditata nel macromodulo dall’opus sectile degli
antichi romani e fortemente utilizzato in tutti i lavori del
genere da tutte le scuole di marmorari e intarsiatori. In questo
caso, il micromodulo potrebbe identificarsi nel quadrato
87
scomposto in elementi minori e il motivo geometrico, o
pattern, generato dall’insieme disposto a croce di quattro
micromoduli, unitamente alle tessere uniformi, produce
l’effetto visivo della stella ottagonale.
Il pattern n. 02 è talmente semplice che non l’ho trovato nel
repertorio di Piazzesi-Mancini. Eppure il fondamento base del
motivo, ovvero la semplice scomposizione alternata in due
tessere di una uniforme quadrata, realizzata in tessitura
ortogonale, sembra costituisca un
procedimento comune nell’opera
sectile del Duomo di Salerno.
Infatti, tale sistema lo si ritrova in
diverse fasce decorative dei dischi
annodati a meandri nei pannelli
del transetto, come si vede dal
pattern n. 05.
Pattern n. 28
Il pattern n. 28, pure non mi pare di averlo visto nei pavimenti
cosmateschi, e neppure in quelli campani. Il macromodulo
della stella cosmateasca, quando applicato alle decorazioni sia
in opus tessellatum nei pavimenti che ad intarsio di paste
vitree negli arredi liturgici, diviene già di per sé abbastanza
complesso. In questo caso eccezionale, sono riprodotti ben
quattro macromoduli, in parte sovrapposti tra loro, in un solo
quadrato per un totale di 61 tessere! Il risultato lo si vede nella
figura sopra in bianco e nero. E’ probabilmente il pattern con
il più alto numero di tessere visti in un pavimento cosmatesco.
Questa scelta deriva sicuramente dal fatto che i marmorari
lavorarono per un cantiere prestigioso in cui erano
consapevoli di dover dare il meglio di loro stessi, affinché lo
sfarzo delle decorazioni producesse la necessaria meraviglia
agli occhi dei grandi committenti. Nel pavimento vi sono altri
tratti, mescolati a pannelli di più semplici motivi, che
nonostante la ricostruzione in tecniche più semplici,
88
dimostrano raffinate decorazioni di minutissime tessere. In
definitiva, si può essere ampiamente d’accordo che l’intento
degli artisti nel Duomo fosse quello di produrre la più alta
tecnica musiva della loro scuola.
Fig. 38
La fig. 38 mostra una striscia del pavimento nel pannello a
meandri di tipo “islamico” a destra dell’altare, in cui si
vedono simmetricamente opposti i due pattern. A sinistra il
macromodulo semplice che produce l’effetto visivo di una
stella ad otto punte per ogni quadrato; a destra il
macromodulo formato da quattro stelle cosmatesche per ogni
quadrato.
Vi sono altri patterns semplici, come i nn. 3, 20 e 27, che
tuttavia sono abbastanza inconsueti, mentre la maggior parte
sono tutti un pò più elaborati. Tra questi, alcuni sono di chiara
matrice siculo-islamica, come il n. 10 e il 16 e forse anche i
nn. 4, 11 e 24.
Il pattern n. 25 è molto bello ed elegante, pur nella sua
semplicità base, ma di difficile realizzazione tecnica. Infatti le
quattro tessere oblunghe di porfido verde, formano intorno a
loro spazi triangolari curvilinei che dovevano essere riempiti
da triangoli con alcuni lati sferici. Nella ricostruzione (figg.
39-40), sebbene accurata, si nota qualcosa, ma la fig. 40
mostra anche l’allettamento della malta tra le tessere che nelle
opere in opus sectile e in opus tessellatum non dovrebbe
comparire, in quanto lo strato superiore della malta traspare in
superficie solo quando le tessere non sono accostate l’una
all’altra in maniera perfetta, ciò che non corrisponde alla
regola di tale tecnica in cui le connessioni dovevano risultare
89
invisibili per produrre quel “tappeto di pietra” che era
l’intento del pavimento cosmatesco.
L’effetto della malta comunque, in questo singolo caso,
scompare quando si guarda il pavimento dalla distanza
dell’altezza dell’uomo, mentre permane nei casi visti prima
(figg. 28-30-32-33) in cui tutto il lavoro è realizzato in modo
troppo superficiale, tanto che tali difetti si scorgono benissimo
ad occhio anche da qualche metro di distanza. Anzi, proprio
tali difetti, quando riguardano una superficie significativa del
pavimento, possono aiutare lo studioso, a discernere le varie
zone del litostrato che subirono trattamenti diversi nel corso
del tempo. Una situazione particolarmente evidente è
riconducibile, per esempio, alle molteplici e sconosciute
vicende che hanno trasformato il pavimento cosmatesco della
chiesa di San Pietro in Vineis ad Anagni8.
Fig. 39
8
Nicola Severino, Il pavimento cosmatesco della chiesa di San Pietro in
Vineis ad Anagni: una nuova attribuzione alla bottega di Lorenzo.
Edizioni ilmiolibro, per gruppo editoriale l’Espresso, Cromografica,
Roma, 2011.
90
Fig. 40
Referenze Bibliografiche
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coro nel Duomo di Salerno, in Salerno nel XII secolo.
Istituzioni, società, cultura, Atti del Convegno Internazionale,
Raito di Vietri sul Mare, 16/20 giugno 1999, a cura di Paolo
Delogu e Paolo Peduto, Salerno, 2004, pp. 238-277.
Braca Antonio, Il Duomo di Salerno, Architetture e culture
artistiche del Medioevo e dell’età Moderna, Nocera Inferiore,
2003, pp. 127-148.
Longo Ruggero, L’opus sectile medievale in Sicilia e nel
Meridione normanno, dottorato di ricerca in memoria e
materia dell’opera d’arte attraverso i processi di produzione,
storicizzazione, conservazione, musealizzazione, XXI ciclo,
Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2009.
91
D’Aniello A., Il pavimento musivo del duomo di salerno, in
Presenza araba in Campania. Atti del convegno, NapoliCaserta 22-25 novembre 1989, Napoli, 1992.
Staibano L. Guida del Duomo di Salerno, Salerno, 1871
Carucci Arturo, I Mosaici salernitani nella storia e nell’arte,
Cava dei Tirreni, 1983
Libri dell’autore sull’arte cosmatesca:
Nicola Severino, La Cattedrale di Ferentino.
Serie Arte Cosmatesca vol. 1, ed. www.ilmiolibro.it, stampa
Cromografica, Roma, 2011
Nicola Severino, La Cattedrale di Anagni.
Serie Arte Cosmatesca vol. 2, ed. www.ilmiolibro.it, stampa
Cromografica, Roma, 2011
Nicola Severino
Il pavimento cosmatesco della chiesa di San Pietro in Vineis
ad Anagni.
Serie Arte Cosmatesca vol. 3, ed. www.ilmiolibro.it, stampa
Cromografica, Roma, 2011
Nicola Severino
Le Luminarie della Fede, Itinerari precosmateschi nell’alta
Campania.
Serie Arte Cosmatesca vol. 4, ed. www.ilmiolibro.it, stampa
Cromografica, Roma, 2011
Nicola Severino, Le Luminarie della Fede. Itinerari d’arte
cosmatesca nel basso Lazio.
Serie Arte Cosmatesca vol. 4, ed. www.ilmiolibro.it, stampa
Cromografica, Roma, 2011
Nicola Severino, Il pavimento precosmatesco dell’Abbazia di
Montecassino. In fase di pubblicazione
92
Nicola Severino, Il pavimento precosmatesco della chiesa di
San Vincenzo al Volturno. In fase di pubblicazione.
Nicola Severino, Pisa Cosmatesca, ed. www.ilmiolibro.it,
stampa Cromografica, Roma, 2011
Nicola Severino, sito web internet www.cosmati.it
Nicola Severino Blog Cosmati:
http://cosmati.blogspot.com
93