Mirko Nottoli
I disegni dell’«Orto»
Ho fatto parte del gruppo dell’«Orto», una rivistina da pochi soldi
in cui però hanno scritto e pubblicato autori importanti:
quando si poteva anche scrivere e disegnare per niente
Nino Corrado Corazza1
Alessandro Cervellati, Nino Corrado Corazza, Giovanni Poggeschi. Possiedono tutti un comune denominatore. Più di uno
in verità: sono tutti bolognesi, sono tutti nati tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento, sono tutti artisti. Esiste tuttavia un
collettore più specifico che nel corso degli anni ‘20 sembra raccoglierli tutti e convogliarli in un unico punto: Nino Bertocchi.2
Anch’egli bolognese, nato tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento (anzi nacque esattamente nel 1900), artista. Inevitabile
che si incontrassero.
Di Cervellati, il più anziano dei quattro (nasce a Bertinoro nel 1892, ma la famiglia si trasferì pochi mesi dopo la sua nascita nel capoluogo emiliano), Bertocchi «rimane il più attento lettore»;3 insieme espongono già nel 1924 presso la sede del
Cenacolo Francesco Francia, nello «stanzone frigorifero di via S. Stefano, 14»,4 in quella che è per entrambi la prima mostra
monografica (recensita su «L’avvenire d’Italia» da Nino Corrado Corazza); nel 1935 Bertocchi curerà per Zanichelli la preziosa
edizione 60 disegni di Alessandro Cervellati.5
Anche di Corazza, Bertocchi fu «il primo critico», secondo la testimonianza dello stesso Corazza, così come per Giovanni
(Gianni) Poggeschi, di cui fu «maestro e mentore nel mondo artistico bolognese».6 Secondo le parole che Poggeschi consegna alla sua nota autobiografica è Bertocchi ad introdurlo al Caffé San Pietro, ed è lui ad avviarlo alla conoscenza dei maestri
italiani e francesi.7
La centralità di Nino Bertocchi nel panorama culturale di quegli anni è cosa risaputa, affascinante e controversa figura di
critico d’arte e pittore, moralista militante incline al paternalismo e fustigatore acido delle tendenze più alla moda, caustico
con gli altri e severissimo con se stesso, ingegnere nato da una famiglia modesta, ancora molto giovane era già considerato
un faro dai coetanei.
Così, nel 1920, ad appena vent’anni, si esprimeva riguardo al Futurismo sulle pagine de «Il Labirinto»: «sono bastati quattro anni soltanto a rimettere le cose nel loro giusto valore e quindi a riporre questa documentata assurdità nel casellario
delle fallite esperienze; non ce ne occupiamo anche se di tanto in tanto accade di imbattersi in qualche reduce, che diverta
o rattristi con le sue comiche bellicosità ...». Sempre nel 1920, sulla XII Biennale di Venezia dalle pagine de «I Meditteranei»:
1
Mostra monografica di Nino Corrado Corazza, a cura di Franco Solmi, Bologna, Alfa, 1974, p. 7.
Tesi sostenuta anche da VIOLA GIACOMETTI, L’Orto, Bologna, Clueb, 2005.
3 Ibidem, p. 7.
4 60 disegni di Alessandro Cervellati, prefazione di Nino Bertocchi, Bologna, Zanichelli, 1935, p. 8.
5 Dove scrive: «Mi è capitato spesso, nelle rassegne critiche che ho dovuto fare, in occasione di mostre nazionali ed internazionali, di accennare all’opera di Alessandro Cervellati come a quella di uno dei più forti disegnatori italiani e moderni, e di alludere all’occasione che
aspettavo per motivare con bastante chiarezza la stima che ho sempre fatta di quest’uomo e il conto in cui tengo la sua attività creativa:
l’occasione mi si è offerta e la raccolgo con gioia» (60 disegni di Alessandro Cervellati cit., p. 8). Su Cervellati vedi Nel laboratorio dell’artista.
Le carte di Alessandro Cervellati, a cura di Maria Grazia Bollini, Marilena Pasquali, Alessandra Telmon, Bologna, Compositori, 2014.
6 DARIO TRENTO, Poggeschi. Le tre rinascite, Bologna, Compositori, 1999, p. 17.
7 Ibidem, p. 17.
2
18
I disegni dell’«Orto»
«E allora avanti la legione Plinio Nomellini, 43 tele sotto ogni dimensione, esclusa quella del valore artistico, che si conserva
disperatamente allo zero. Fa l’impressione, sotto la cupola e i fregi dell’altro barabba Galileo, che la violenza di quel coloratore in fregola debba disturbare l’occhio che si vuole serbare fresco per il prossimo ignoto …». E poco oltre: «Non sarebbe
da far colpa ai pittori se le classiche norme della rettitudine artistica sono cadute in disuso. Basta considerare, ad esempio,
che se il divertente Arkipenko avesse continuata la strada dell’onestà e dell’equilibrio, nessuno si sarebbe accorto della sua
rispettabile mediocrità». Nel 1926 in un resoconto sulla XV Biennale:
… la Biennale veneziana permette finalmente di aprir l’animo alla speranza in un ritorno alla miglior tradizione. La ragione prima
di questo ottimismo deve essere cercata nel fallimento di tutti i conati rivoluzionari e al tempo stesso di tutte le stucchevoli operosità che hanno per guida la ‘maniera’ pittorica. L’esibizione passata sotto un silenzio di malaugurio, di tutti gli “ismi” di ultimo grido,
e l’astensione dei più quotati produttori di pittura a metri quadrati, hanno permesso il crearsi di una atmosfera serena intorno alle
opere veramente degne d’essere chiamate artistiche.8
Come antidoto alla moda del diffondersi degli “ismi”, Bertocchi contrapponeva un nome, chiave di volta su cui innestare
ogni riflessione artistica: Luigi Bertelli, campione di quel vedutismo romantico e ‘strapaesano’ di fine Ottocento che a Bologna conterà numerosi adepti. Nella celebre monografia che egli dedica al pittore, edita nel 1946, dopo il Fascismo, dopo la
guerra, dopo la fine di un mondo, ancora scrive:
… ripensavo alle figure di contadini, di muratori, di ‘carriolanti’ che avevo vedute da poco, ancora intente a un lavoro immutabile, e che Bertelli ha dipinte con una semplicità grandiosa: m’inquietava ancora una volta il mistero di un’opera d’alta poesia maturata
lentamente e prodigiosamente sul piano di una vita semplicissima: schietta e dimessa come quella, appunto, degli operai ancora
curvi al lavoro.9
Nella già citata recensione alla XV Biennale di Venezia, Bertocchi tiene per ultima la sala dei bolognesi, elogiando le opere
di Fioresi, Pizzirani e Protti ma rilevando come un vero e proprio gruppo, compatto, coeso, legato da un’unità di intenti che
possa dare a Bologna voce in capitolo per quanto concerne l’arte moderna, in realtà, manchi. Conclude scrivendo: «verrà
tempo di mostrare coi fatti quanto invece possa significare l’intervento del gruppo bolognese nella battaglia che si va combattendo». Con fare profetico Bertocchi sembra qui evocare proprio quel gruppo che un lustro più tardi si riunirà intorno
alla redazione de «L’Orto».
Stando alle testimonianze dei protagonisti, la rivista nasce di fatto al Caffè San Pietro di via Indipendenza, luogo di ritrovo
di tutto il gotha artistico-culturale per almeno due generazioni di bolognesi. Se Poggeschi tributa a Bertocchi il merito di
averlo introdotto ai tavoli del locale, anche Pompilio Mandelli rievoca le volte in cui, sedicenne, incontrava al Caffè San Pietro
Nino Corrado Corazza di cui «si sapeva che assieme a Giorgio Vecchietti stava organizzando l’uscita della rivista “L’Orto”».10 Lì
si incontravano anche Cervellati e Lea Colliva, Otello Vecchietti, fratello di Giorgio, e Giannino Marescalchi, già artefice insieme
a Cervellati (sotto lo pseudonimo di Sandrino Ciurvelia) di un’altra gloriosa esperienza editoriale di una decina di anni prima,
il «deflagatore della maschilità artistica» ovverosia «Laghebia».11
Insieme, sulle pagine della rivista, danno vita ad un programma iconografico che pur senza un manifesto ideologico pren8 Per un maggior approfondimento su Nino Bertocchi ‘critico’ si veda l’antologia dei suoi scritti in Nino Bertocchi 1900-1956, a cura di
Beatrice Buscaroli Fabbri, Bologna, BUP, 2006, p. 185-253.
9 N. BERTOCCHI, Luigi Bertelli 1832-1916, Bologna, Rupe, 1946, p. 7-8.
10 Cfr. D. TRENTO, Poggeschi. Le tre rinascite cit., p. 17.
11 Di cui uscirono solo due numeri nel luglio del 1919. Si veda M. NOTTOLI, Bologna (poco) futurista, in 5 febbraio 1909 Bologna avanguardia
futurista, a cura di B. Buscaroli Fabbri, Bologna, BUP, 2006, p. 50.
19
Mirko Nottoli
Umberto Tirelli, Caffè San Pietro, Bologna - 1928, fotoriproduzione in 300 esemplari (Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Carisbo).
deva indirettamente le distanze dall’ufficialità magniloquente di Novecento per promuovere un’idea di arte meno urlata e
più introspettiva, di carattere regionalistico, che esibisse senza vergogna le proprie radici rurali, discreta nei modi ma proprio
per questo capace di celebrare nei fatti la semplicità della vita di provincia quale esempio di purezza e verità. È sufficiente
sfogliare la rivista per accorgersi di come ogni elemento, fin dalla veste grafica, ci parli sottovoce, con una misura che a prima
vista potrebbe assomigliare a mancanza di coraggio ma che a ben vedere ha più a che fare con un certo tipo di eleganza,
interiore ancor prima che estetica. In tutto ciò i disegni sembrano occupare una posizione subalterna, decorativa rispetto agli
scritti, si tratta per lo più di schizzi rapidi a inframmezzare gli articoli coi quali raramente intrattengono un rapporto diretto,
come fossero delle pause di riflessione tra una lettura e l’altra. Se intento programmatico ci fu negli artisti de «L’Orto» è un
intento che va ricercato tra le righe, nella concezione di un’arte che non si prefiggeva scopi aprioristici, finalità dimostrative,
ma che viveva dell’incanto dell’ispirazione spontanea, sommessa, intima.
20
I disegni dell’«Orto»
La vera dichiarazione d’intenti dei redattori sta tutta
nel titolo, «L’Orto», e nel logo scelto per accompagnare
la testata che compare in copertina dal primo numero: il
galletto, realizzato con segno dinamico e sicuro, di Alessandro Cervellati, memore dei suoi trascorsi futuristi. Il
logo comparirà durante tutto il 1931 e il 1932 per poi
scomparire completamente dal 1933, insieme al suo autore. Proprio sulle pagine de «L’Orto» Poggeschi, recensendo la già citata monografia su Cervellati di Bertocchi,
rievoca quel momento: «fu un galletto portatoci da Cervellati che un bel mattino primaverile del 1931 annunziò
al mondo il primo “Orto” a trenta centesimi. Cervellati
ci portò il galletto e dette con noi qualche buon colpo
di zappa. A cinque anni di distanza il galletto allunga il
collo un’altra volta …».12 Sull’allontanamento, presumibilmente volontario, di Cervellati dalla rivista si possono
fare alcune congetture: è abbastanza evidente che una
personalità come la sua, socialista convinto, oppositore
del Regime tanto da rifiutarsi nel 1940 di iscriversi al partito, futuro membro della Resistenza e assiduo collaboNino Bertocchi, acquaforte pubblicata sul fascicolo n.1 dell’anno I (magratore de «L’Avanti!», mal si accordava con l’orientamengio 1931) dell’«Orto», p. 7.
to, mite ma decisamente ‘strapaesano’ e favorevole a
Mussolini, sposato dal resto della redazione. Come ha
acutamente osservato Franco Solmi, pur potendogli essere congeniale quel «ripiegamento sui valori del quotidiano» già
evidenziato da Bertocchi e che spiega l’iniziale adesione al progetto, il suo insistere su un linguaggio di respiro europeo,
dal segno aggraziato e sintetico, che guardava a Daumier e a Lautrec, a Dudovich, a Cappiello e alle conquiste futuriste nel
campo della cartellonistica e delle affiches13 - unito ad un’indole avversa alla polemica pugnace e velenosa - «contrastava con
gli ideali nazionalistici esaltati fino al grottesco dal regime fascista».14
Similmente defilata, seppur per ragioni diverse, appare la figura di Nino Bertocchi e della sua sodale Lea Colliva, di cui
Corazza ci ha lasciato un paio di gustose caricature.15 Presenza costante, come Cervellati, nei primi numeri della rivista, nella
duplice veste di illustratore ma ancor più di redattore (due paesaggi all’acquaforte pubblicati contro i molti articoli da lui
firmati), sparirà di punto in bianco dagli anni di Lendinara in avanti per poi riapparire sporadicamente nel 1937 (di Bertocchi
presentiamo qui un disegno datato 1936 probabilmente destinato alle pagine della rivista ma mai pubblicato). La medesima
sorte tocca a Lea Colliva, rendendosi così palese come lo spostamento della redazione da Bologna a Lendinara nel 1932 e
l’entrata in scena di Giuseppe Marchiori scompagina la compattezza dell’ideale originario creando una cesura da cui non si
ritorna più indietro, nemmeno dopo il rientro a Bologna. Ci azzardiamo quasi ad affermare che l’autentico «Orto» è quello
dei primi due anni, quello col galletto in testa, quello autarchico all made in Bologna; in seguito, difficoltà amministrative e
finanziarie ne hanno minato per sempre le fondamenta. Si è tentato di recuperarlo, rappezzarlo, puntellarlo, ma da un certo
punto in poi nulla sarebbe stato più lo stesso.
12
13
14
15
GIOVANNI POGGESCHI, Disegni di Cervellati, «L’Orto», VI, n. 1 (gennaio-febbraio 1936), p. 15.
Nel 1919, insieme a Severo Pozzati, è a Parigi, dove lavora per la famosa ditta di manifesti e materiale pubblicitario “Maga”.
Alessandro Cervellati, a cura di F. Solmi, Bologna, Fotocromo emiliana, 1978, p. 18-19.
Mai pubblicate su «L’Orto».
21
Mirko Nottoli
Veri pilastri de «L’Orto», insieme ai fratelli Vecchietti e a Giannino Marescalchi (gli unici, Giorgio Vecchietti e Marescalchi a far
parte della redazione dal primo all’ultimo numero), sono Nino
Corrado Corazza e Gianni Poggeschi. Corazza e Poggeschi rappresentano l’anima artistica della rivista laddove i Vecchietti e
Marescalchi sono quella letteraria, anche se va detto che erano tutti indistintamente coinvolti a 360° nella realizzazione del
giornale, dalla grafica all’impaginazione, dall’amministrazione
alla gestione finanziaria, come testimoniano le numerose lettere conservate tra il fondo L’Orto della Biblioteca di San Giorgio in
Poggiale e l’archivio Giuseppe Marchiori di Lendinara.16
L’artista più rappresentato sulla rivista è Nino Corrado Corazza che è anche quello più presente all’interno del fondo
conservato a San Giorgio in Poggiale: 27 disegni e 2 stampe per
la maggior parte pubblicati. Vignettista satirico e caricaturista,
le opere di Corazza si inscrivono alla perfezione all’interno della
poetica ‘ortolana’, con i suoi ritratti caratteristici della provincia, della campagna, del paese, delineati con quel tono sempre
velatamente ironico, ancor più se confrontati all’enfasi seriosa
della retorica ufficiale. La piazza col campanile, le corse ciclistiche, i corridori curvi sui pedali, i pretini di provincia che fanno
da contraltare ai paludamenti delle alte sfere clericali, in Corazza
assistiamo costantemente a quello che Solmi ha definito «una
riduzione del linguaggio alle dimensioni antieroiche contrapposte da “strapaese” ai trionfalismi del Regime»,17 un approccio
questo mutuato da Ottone Rosai che resta in tal senso il modello più elevato, come pare dichiarare lo stesso Corazza in opere
come Commenti del 1935 o Taxi di notte del 1936, mentre altre
Lea Colliva, disegno acquerellato pubblicato sul fascicolo n. 2
come Ospedale Maggiore risentono, un decennio più tardi, deldell’anno I (giugno 1931) dell’«Orto», p. 4.
le deformazioni espressioniste di Mafai o Scipione che egli va
coniugando con influenze fauves.
La sua vena irridente, seppur mai offensiva o feroce, si esprime nelle già citate caricature di Bertocchi e Colliva o in quelle raffiguranti Poggeschi col cane (mai pubblicate su «L’Orto»). Sempre fedele alla rivista - anche negli anni di Lendinara18 - la maggior
parte dei suoi disegni conservati nel fondo di San Giorgio in Poggiale (una serie di schizzi tutti pubblicati sul n. 4 del 1937) sono
relativi all’ultimo periodo de «L’Orto», quando viene edito da Le Monnier; un periodo contrassegnato da una svolta che privilegia
l’aspetto letterario rispetto a quello artistico, contestualmente ad una linea politica di più ampio sostegno al Regime. Da qui si
16 Da cui si deduce che Corazza seguiva maggiormente la parte grafica, mentre Poggeschi si occupava più di amministrazione, spese, spedizioni, abbonamenti.
17 Mostra monografica di Nino Corrado Corazza cit., p. 19.
18 Quando gli viene preferito Juti Ravenna, amico personale di Marchiori, e minaccia di andarsene sbattendo la porta come si evince da una
lettera di Giorgio Vecchietti a Marchiori: «Corazza non s’è trovato poi con Ravenna e altri acquisti – i nomi mi sfuggono – che non mi sono
mai piaciuti […] Questi ti preciso che Corazza te li abolirà o si stancherà e io a Corazza tengo più che a Ravenna e a Vellani Marchi e Saetti»:
Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera datata 2 marzo [1934].
22
I disegni dell’«Orto»
spiega l’abbandono di Corazza dei suoi temi classici per soggetti
quali i ballila, i militari, gli atleti impegnati in esercizi sportivi, senza
tuttavia far venir meno il tratto sagace e dissacratorio.
Fanno infine parte del fondo conservato a San Giorgio in Poggiale cinque disegni acquerellati destinati alla rivista «Cronache»,
settimanale d’attualità diretta da un giovane Enzo Biagi - «un giovane pivello che tu non conosci ma che è in gamba»,19 lo definisce
lo stesso Corazza in una lettera a Marchiori datata 8 settembre
1945 – che uscirà a Bologna dal settembre 1945 all’ottobre 1947,
a cui Corazza collaborerà e che accoglierà molti orfani ortolani.
Altri due disegni invece sono stati utilizzati per le copertine dei
volumi di Otello Vecchietti Domani e Aristane – Episodio.
Di Gianni Poggeschi il fondo della Biblioteca di San Giorgio
in Poggiale conta otto opere: quattro acqueforti e quattro carboncini. Nella monografia a lui dedicata per le edizioni «L’Orto»
del 1934, il sodale Corazza scrive: «nell’ignoranza tanto diffusa
e razionale dell’equivoco che regge la letteratura fatta oggi intorno all’arte, Gianni Poggeschi è venuto alla pittura senza che
sia possibile definire a quale scuola si sia fatto, a quale tendenza
appartenga»,20 riallacciandosi così ad uno dei temi cardine degli
artisti dell’«Orto», tema caro a Bertocchi prima e che sarà un
cavallo di battaglia per Giuseppe Marchiori poi, quello della libera
ispirazione, dell’arte in quanto espressione spontanea, frutto di
riflessione solitaria e mestiere, lontano dai clamori e dalle polemiche, tema che lo stesso Marchiori teorizzerà sulle pagine
dell’«Orto» nella rubrica che intitola Anonimo del Novecento.
Purezza che Poggeschi trova nel contatto con la natura, nella
descrizione della campagna tramite uno stile naif e simbolista
Da sinistra a destra, Nino Bertocchi, Nino Corrado Corazza e
che
richiama quello di Tullio Garbari, pervasa da un sentimento
Gianni Poggeschi in una foto degli anni ‘30.
panteistico in cui già si può intravedere la scelta che di lì a poco
porterà Poggeschi ad accogliere la vocazione religiosa e ad intraprendere la strada del sacerdozio, entrando nel Noviziato
di Galloro della Compagnia di Gesù, e abbandonando dalla fine del 1936 la rivista e i suoi compagni di viaggio, i quali reagiscono ognuno a modo suo: Corazza è titubante, Otello entusiasta, Giorgio decisamente contrariato tanto che nonostante
vari tentativi i due torneranno a scriversi solo quattro anni e mezzo più tardi. La campagna è anche il territorio degli umili,
dei contadini, degli ultimi, tramite cui si esprime «l’amore per il mondo piccolo che si portava dentro dai suoi soggiorni a
San Matteo della Decima, per quella sacralità più facilmente espressa “dal popolo di Dio” e dal “piccolo gregge” dei poveri e
dei semplici, per la sobrietà e la religiosità degli umili e delle umili cose» come ha scritto efficacemente Franca Varignana.21 I
disegni più toccanti, secondo Franco Solmi, nascono qui e «sono, come questa terra e questa gente, un po’ aspri e spogli,
19
Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 ter, fasc. 67, lettera dattiloscritta firmata da Corazza e datata 8 ottobre 1945.
20 Disegni di Gianni Poggeschi, introduzione di Nino Corrado Corazza, Bologna, L’Orto, 1934, p. n.n.
21 Giovanni Poggeschi (1905-1972), a cura di Franca Varignana, Bologna, Grafis, 1982, p. 10.
23
Mirko Nottoli
Nino Corrado Corazza, Commenti, 1935 olio su tela. Opera esposta alla mostra «L’Orto» alla Galleria del Milione (coll. Silvio Vecchietti). Il
disegno preparatorio, intitolato Osteria, è pubblicato sul fascicolo n. 5 dell’anno IV (settembre-ottobre 1934) dell’«Orto», p. 13.
24
I disegni dell’«Orto»
ma carichi di un calore che sa di preghiera».22 Tendenza questa che ha in Ottone Rosai uno dei suoi campioni incontrastati;
i suoi bar fumosi e stantii, i giocatori di carte o di biliardo, le botteghe e le bettole di paese, i vicoli di quartiere tra le case
squadrate e abbozzate per volumi elementari (si vedano a puro titolo esemplificativo i disegni qui presentati), fungeranno
da modello per gli artisti de «L’Orto» rafforzando quell’asse tosco-emiliano (già formatosi ai tempi de «L’Italiano» e «Il Selvaggio» ma ancor prima con «La Voce» e «Lacerba», testate fiorentine che trovarono ampi consensi nel capoluogo emiliano)
attestato anche dall’apprezzamento reciproco con la redazione di «Il Frontespizio», una specie di corrispettivo ‘ortolano’ al
di là degli Appennini, tanto che alcuni dei redattori de «Il Frontespizio», come Piero Bargellini o Carlo Betocchi, confluiranno
sulle pagine de «L’Orto» e viceversa (Corazza, Poggeschi e Bertocchi appaiono spesso sul periodico fiorentino) per ritrovarsi
tutti o quasi, dal 1940, sotto la direzione di Vecchietti e Bottai, a Roma sulle pagine di «Primato». Così scrive Piero Bargellini
sul numero di gennaio del 1935:
E fra gli amici più cari, voialtri, ortolani, che avete scelto per la vostra rivista un titolo mattiniero, fresco e odoroso. Se non che, nel
vostro Orto non crescon lattughe romantiche, né carote naziste, né asparagi acquosi freudiani, né finocchi contenutisti. Il vostro è
un vecchio orto alla bolognese, chiuso da buoni muri (in cima al muro c’è la cresta lucente delle schegge di vetro), odoroso di salvia,
ramerino e basilico. Orto con vecchie viti nodose e coi cipressi guardiani.
Vecchietti, Marescalchi, Corazza, Poggeschi, Bertocchi, ortolani. Gente a muso duro e a cuore aperto. Bolognesi classici. Nemici
del torbido, del sudicio, del molliccio, del falso. Gente che vuol bene, fa bene, e con la quale, finalmente!, si sta bene. Gente che ha
una strada, ma che non vuol far strada; brigata di gente che lavora e non briga. Gente con la quale è possibile anche scontrarsi, ma
di fronte, a faccia a faccia. Gente, in una parola, che non tradisce.23
Conferma la saldezza dell’asse tosco-emiliano la testimonianza di Giorgio Vecchietti: «al ritorno a Roma con Otello, Gianni,
Giannino e Corazza andammo a Firenze e fummo accolti con molta amicizia da Bargellini, Papini, Lisi etc. […] che ci ospitarono
al Pian de’ Giullari. Poi andammo a trovare Rosai che ha dato a Corazza alcuni disegni inediti, tra i quali uno grande assai interessante. Papini ebbe parole di viva ammirazione per “L’Orto”».24 I disegni di Rosai sono con tutta probabilità quelli qui esposti,
tra cui spicca il bel ritratto di giovane di profilo (presumibilmente quello «grande e assai interessante») pubblicato su «L’Orto»
n. 3 del 1935 a corredo di una poesia di Umberto Saba.25 Sul n. 2 del 1932 è Corazza a recensire la mostra di Rosai visitata a Firenze, in palazzo Ferroni: «Rosai insegna molte cose fra le quali il coraggio di ricominciare e quello d’essere poveri e brutti non
fidandosi d’altro che del proprio carattere dal quale nascerà - se Dio vuole - un’altra bellezza e una più sicura virtù morale».26
L’interesse che i redattori de «L’Orto», quantomeno dal 1934 in poi, riservano non solo per i giovani artisti emiliani ma anche per
quelli toscani, si esplicita nella scelta di pubblicare nomi allora semisconosciuti come quelli di Quinto Martini o di Oscar Gallo o di
Gino Brogi. Quinto Martini soprattutto, all’epoca poco più che venticinquenne, già collaboratore de «Il Selvaggio» e «Il Frontespizio», figlio di contadini e autodidatta, appare del tutto conforme alle poetiche ‘ortolane’. Di lui il fondo della Biblioteca di San
Giorgio in Poggiale conserva quattro disegni raffiguranti uomini e donne impegnati nel lavoro dei campi, quasi tutti pubblicati,
22
F. SOLMI, Poggeschi – opera grafica, Padova, Rebellato, 1972, p. 11.
PIERO BARGELLINI, Gianni Poggeschi, «Il Frontespizio», VII, 1935, n. 1, p. 17.
24 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera dattiloscritta con firma autografa di Giorgio
Vecchietti a Giuseppe Marchiori, datata 7 marzo 1935.
25 Il medesimo fascicolo si apre con l’articolo L’Orto dal Duce, in cui si racconta di come Mussolini abbia ricevuto la redazione de «L’Orto»
esprimendo il suo gradimento per il giornale. Ecco allora che con ogni probabilità il viaggio di ritorno a Roma, a cui alludeva Giorgio Vecchietti
(che in quel periodo risiedeva già a Roma) nella lettera citata nella nota precedente, si riferisce proprio a quell’occasione. In un’altra lettera,
sempre a Marchiori, Vecchietti parla proprio di Saba: «È passato a Bologna Umberto Saba, uomo simpaticissimo, il quale ci ha lasciato una
poesia inedita!! Molto bene, vero?»: Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera non datata.
26 N.C. CORAZZA, Mostra di Ottone Rosai, «L’Orto», II, n. 2 (novembre 1932), p. 17.
23
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uno addirittura sulla copertina del n. 11 del 1933.27 Uno solo invece di Gino Brogi, raffigurante un paesaggio di campagna con
un’industria sullo sfondo, lampante esempio di soggetto ‘strapaesano’ e ‘stracittadino‘ al contempo.
Nel primo biennio sono comunque i bolognesi, nativi o d’adozione, a dominare le pagine del periodico, da Virgilio Guidi a
Bruno Saetti, da un bertocchiano della prima ora come Garzia Fioresi a Mario e Severo Pozzati. Un disegno di Giuseppe Vaccaro,
che differisce tuttavia dall’originale in nostro possesso, viene pubblicato sul secondo numero della rivista in calce ad un articolo
di Bertocchi polemico con il movimento razionalista, a cui risponde lo stesso Vaccaro sul numero successivo. In mezzo a tale
dominante bolognese stridono quasi i nomi di Arturo Tosi, che pubblica un panorama di campagna (qui esposto), e Carlo Carrà.
La natura sostanzialmente autarchica della redazione è espressa dalle parole che Poggeschi scrive a Otello Vecchietti:
In fatto di disegni mi sembrerebbe una cosa buona poter avere con noi due, tre pittori che ci piacessero, possibilmente non
troppo noti e diffusi, che ci assicurassero ciascuno tre o quattro o più disegni da pubblicare lungo l’annata […]. «L’Orto» dovrebbe
essere il meno possibile anonimo e vago di carattere e di persone - non diluito in molti e vari aspetti ma concentrato su quelle poche
persone che devono dargli la spinta […]. Disegni come quelli di Tosi, Carrà e Forghieri non dovrebbero per nessuna ragione figurare
sull’«Orto», ti pare?28
Discorso diverso merita Cipriano Efisio Oppo, figura di rilievo nazionale, ideatore e direttore della Quadriennale d’Arte
romana dal 1931 al 1943. Oltre alla passione per il disegno, per la caricatura e la vignetta satirica, alla predilezione per uno stile
naturalista e diretto, la sua presenza su «L’Orto» si giustifica
per la grande ammirazione che egli provava nei confronti di
un artista ammirato enormemente anche da Nino Bertocchi, quasi al pari di Bertelli: Armando Spadini. Lo ammette lo
stesso Bertocchi:
Oppo è di quelli che non temono di riuscire sgraditi alla folla
mormorante dei pittorelli o dei fortunati o potenti araldi della
incompetenza filistea; batte e ribatte da alcuni anni le ragioni
semplici e chiare di una verità artistica nella quale abbiam posto
fede e che per non entrare in argomenti di pura teoria osiamo
sintetizzare nel nome di un solo artista: Spadini.29
In tal senso rileviamo che la testa di bambino qui presentata può sembrare uno studio preparatorio per la grande
opera Maternità, conservata presso la Fondazione Archivio
C.E. Oppo di Roma, che a sua volta richiama Gruppo di famiglia sotto gli archi dipinto da Spadini nel 1914.
Nino Corrado Corazza, Una strada, olio su tela, pubblicato sul
volume Domani di Otello Vecchietti a p. [9] (coll. Silvio Vecchietti).
26
27 «Una scultura di Oscar Gallo su pagina intera e un disegno di Quinto Martini sempre su pagina intera. Forse li conoscerai, fra i giovani
toscani sono veramente interessanti» scrive Poggeschi a Marchiori:
Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26
septies, fasc. 236-1, lettera datata 11 maggio 1933.
28 Biblioteca di San Giorgio in Poggiale, fondo L’Orto, busta 6, fasc.
7, lettera n. 7.1.
29 Recensione alla XV Biennale del 1926 in Nino Bertocchi 1900-1956
cit., p. 203.
I disegni dell’«Orto»
L’ultima figura chiave nella vicenda decennale dell’«Orto» è Giuseppe
Marchiori. Entrato prepotentemente
in scena nel 1933 quando assume la
direzione della rivista, sostituendo la
casa editrice e spostando la redazione
da Bologna a Lendinara, in provincia di
Rovigo, dove era nato, la sua azione risulterà cruciale per il successivo sviluppo della rivista nel tentativo di dare alla
testata un respiro maggiormente internazionale e d’attualità.30 È l’irrompere di un non bolognese, uno ‘straniero’ che spariglia le carte e anche se la
sua direzione non durerà che qualche
mese, pur continuando a collaborare
praticamente fino alla fine delle pubblicazioni, «L’Orto» non sarà più lo stesso, nemmeno dopo la ‘restaurazione’
della vecchia guardia che già a metà del
‘33, non senza qualche tensione, riporta la sede direttiva a Bologna.
Se il cambio di rotta impresso da
Gianni Poggeschi, Paesaggio, 1930, olio su tela (coll. Silvio Vecchietti).
Marchiori è visibile immediatamente
nel diverso formato, nella diversa impaginazione, nella diversa grafica, la sua impronta si esplica anche con l’introduzione di nuovi collaboratori, in particolare
l’amico Juti Ravenna.31 Lo scrive senza mezzi termini a Giorgio Vecchietti: «per i prossimi numeri manderò cliches di disegni
di Novati, Tomea, Licini, Pigato e Geranzani. Il “solito eclettismo” dirà Corazza. Ma io insisto sulla necessità di mettere accanto
ai nostri Poggeschi e Corazza qualche altro nome».32 Marchiori introduce nuovi illustratori cominciando da se stesso: scopriamo infatti che, prima di diventare il critico d’arte di fama internazionale che conosciamo, nutriva anche ambizioni artistiche, come si desume dai disegni che, alla stregua di Maccari e Longanesi, realizza e pubblica. L’apporto principale della sua
gestione è comunque l’aver introdotto tra gli ‘Ortolani’ Filippo De Pisis, all’epoca già artista di successo e residente a Parigi.
È Ravenna, come ci informa Nicola Gasparetto,33 a far conoscere De Pisis a Marchiori, il quale nel 1932 gli dedica una monografia nelle Edizioni Nord-Est scritta da Giovanni Cavicchioli. Qui, in tempi ancora non sospetti, si legge: «volevo solo dire che
l’atto del dipingere di De Pisis è rapido e potente come quello del gallo». Una sorta di affinità elettiva lo legava evidentemente
a «L’Orto».34 Il rapporto tra Marchiori e De Pisis si fa molto stretto: Marchiori vorrebbe pubblicare un saggio dell’artista sulla
30
Per maggiori approfondimenti si rimanda al saggio di Benedetta Basevi in questo stesso volume.
Marchiori l’anno prima aveva dedicato a Juti Ravenna, a sue spese per le edizioni Nord-Est, un piccolo volume monografico. Ravenna
assumerà, seppur per poco, il ruolo di grafico, scalzando pian piano Nino Corrado Corazza.
32 Biblioteca di San Giorgio in Poggiale, fondo L’Orto, busta 6, fasc. 2, lettera n. 2.2.
33 NICOLA GASPARETTO, L’anonimo del Novecento, Rovigo, Apogeo, 2017, p. 49. A onor del vero il primo disegno di De Pisis fu pubblicato nel
fascicolo n. 9 del gennaio 1932, quando ancora Marchiori non figurava tra i ranghi de «L’Orto».
34 GIOVANNI CAVICCHIOLI, Filippo De Pisis, Venezia, Nord-Est, 1932, p. 20.
31
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Mirko Nottoli
moda;35 De Pisis lo tiene informato sulle novità che accadevano oltralpe. È lo stesso De Pisis a inviargli per la pubblicazione un suo ritratto «al caffè» eseguito dal grande avanguardista russo Michail Larionov e un disegno di Jacques
Dupont.36 Nel fondo di San Giorgio in Poggiale si conservano tre disegni, tutti pubblicati sulla rivista, realizzati col
caratteristico tratto a inchiostro marrone acquerellato: una
sua classica natura morta, un ritratto d’uomo, un uccello
indicato col nome di «ghiandaia berrettina», come apprendiamo dal testo dello stesso De Pisis, che segue l’illustrazione, intitolato Il postino dei volatili.37 De Pisis pubblicherà
su «L’Orto» altri scritti, tra il 1934 e il 1936; una prima lettera
di De Pisis appare sul n. 2 del novembre 1932 in risposta
alle critiche di un ‘anonimo’ (ma si tratta di Marchiori) che
nel numero precedente, recensendo il libro Le nozze di
Figaro di Giovanni Cavicchioli, esprime qualche perplessità
sulle illustrazioni dell’artista, a suo dire «tirate un po’ via».38
De Pisis risponde dando ragione in parte al direttore ma
affermando di aver pensato a Daumier per quelle vignette,
«al Daumier più nervoso e meno apprezzato ai suoi tempi,
al “caricaturiste”». Sportivamente Marchiori firma la resa sul
numero del maggio 1933 scrivendo un articolo intitolato
«Omaggio a Daumier» e impreziosendolo con una caricatura di Daumier «tirata via» da De Pisis (di cui qui si espone
una leggera variante). Anche Orfeo Tamburi risiede a Parigi
in quegli anni, pittore celebre per le sue vedute della Ville
Lumière
riecheggianti la naïveté di Maurice Utrillo. Forse
Gianni Poggeschi, Ritratto di Otello Vecchietti, 1932, olio su tela (coll.
per
tramite
di De Pisis, egli compare su «L’Orto» nel n. 2
Silvio Vecchietti).
del 1934 con un elegante ritratto femminile a penna. Nel
fondo di San Giorgio in Poggiale si conservano otto disegni di Tamburi, molti dei quali raffiguranti ritratti di donna, realizzati
nel 1934, forse possibili alternative per quello pubblicato. Quello raffigurante invece Ponte Cavour a Roma fa parte di una
serie di schizzi aventi per soggetto i ponti romani, apparsi tutti sul fascicolo n. 6 del 1938.
Quello di Marchiori è dunque un «Orto» che tenta di espandersi oltre il muro di cinta, con un atteggiamento più ricettivo
verso le novità internazionali, un giornale che tratta di Gauguin e Matisse, di Licini (di cui pubblica anche alcuni disegni) e
Casorati. Egli pare spezzare l’asse tosco-emiliano per rivolgersi verso nord-est,39 dirottando il baricentro d’interesse verso le
sue parti, tra il Veneto e la Lombardia e da lì verso l’Europa. Marchiori conferma la convinzione di ‘sponsorizzare’ giovani ar35 L’impresa non andò in porto e il saggio verrà pubblicato solo molto più tardi col titolo Adamo o dell’eleganza. Per un’estetica del vestire,
Zola Predosa, L’inchiostroblu, 1981.
36 V. GIACOMETTI, L’orto cit., p. 68. Pubblicati su «L’Orto», III, rispettivamente nel fascicolo 5-6 (febbraio-marzo 1933), p. 23 e sul fascicolo 9 (giugno
1933), p. 7.
37 «L’Orto», VI, n. 1 (gennaio-frebbraio 1936), p. 16.
38 Per ricostruire l’intera vicenda si rimanda a N. GASPARETTO, L’anonimo del Novecento cit., p. 70-71; e a V. Giacometti, L’Orto cit., p. 67-68.
39 Non a caso Nord-Est è il nome della casa editrice da lui fondata.
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I disegni dell’«Orto»
tisti come professato dal resto della redazione, ma sposta il raggio d’azione su artisti di origine ‘padana’ come
Leone e Sofia Minassian, Fioravante Seibezzi e Nino
Springolo, Fiorenzo Tomea e Luigi Grosso. In tale ottica
va inserita anche la monografia su Pio Semeghini, che
va ad arricchire la collana nella quale erano già apparse
quelle su De Pisis e Ravenna. Tomea, di cui ci sono giunti due disegni, nasce in provincia di Belluno, conosce
Rosai, vive a Parigi dove incontra Tamburi e De Pisis, dai
quali trae il segno leggero e raffinato; milanese è invece
Luigi Grosso, che pubblica un disegno su «L’Orto» dove
evidente è l’influenza matissiana. Ne parla Poggeschi in
una lettera a Marchiori: «Spedisco il pacco dei clichets:
1 di Corazza, 2 miei, 1 della Colliva per la copertina, 1 di
Grosso, da lui spedito assieme ad alcuni disegni. Questo
ci è sembrato il migliore - è grande perché l’ha fatto
riprodurre lui stesso».40 Il cliché è probabilmente quello
pubblicato, mentre i disegni a cui fa riferimento sono i
tre appartenenti al fondo ma mai stampati.
La controffensiva della vecchia guardia non si fa attendere. Numerose incomprensioni emergono dall’epistolario in cui i bolognesi si lamentano di essere tenuti
all’oscuro delle decisioni prese da Marchiori e Ravenna,
criticando apertamente talune scelte. Valga per tutti lo
sfogo di Poggeschi:
Fioravante Seibezzi, Ritratto di Juti Ravenna, pubblicato sul fascicolo n.
2 dell’anno II (novembre 1932) dell’«Orto», p. 14.
Siamo un po’ in ritardo vero? quando credi che usciremo? So che Giannino aspettava lo scritto da te annunciatogli del Carvallo.41
E il Larionow chi è? scusa la nostra ignoranza ma non lo conosciamo, né lui né gli altri che ci annunci (tranne un poco Tomea). Non
ce li vuoi far vedere!? Capisco che è una cosa poco comoda far viaggiare i disegni così, ma come si fa? Saremmo curiosi di vedere
come al solito; e non mandarci al diavolo …».42
Sulla stessa lunghezza d’onda Corazza che se la prende con Seibezzi:
In quanto alle ‘novità’ Seibezzi e Springolo, non abbiamo ancora visto niente di quest’ ultimo. Seibezzi è un caso da considerare
minutamente e sempre per la franchezza e la chiarezza le dirò che nella mia opinione continua a lasciare dei dubbi. Il disegno mandatoci non è niente di straordinario; anzi è parecchio accademico e tradizionale …43
40 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori datata 21 gennaio 1933.
41 JOSÉ MARIA DE CARVALHO, Pensione Braganza: prezzi modici, «L’Orto», III, n. 7 (aprile 1933), p. 19-27 (trad. dal portoghese di Laura Marchiori).
42 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera autografa di Poggeschi a Marchiori datata
26 marzo 1933.
43 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 ter, fasc. 67, lettera autografa di Corazza a Marchiori non datata.
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Michail Larionov, De Pisis al caffè, disegno pubblicato sul fascicolo n. 5-6 dell’anno III (febbraio-marzo 1933) dell’«Orto», p. 23.
Chiosa infine Giorgio Vecchietti: «Va bene Tomea; ma 3 disegni di Tomea, 2 di Ravenna su Tomea […] Tutto «L’Orto» con
Tomea? E i disegni di Poggeschi? Perché voglio iniziare la nuova
serie con l’intera redazione, anche a costo di metter fuori gli
altri …».44
Riportata la sede centrale a Bologna già con il numero di
maggio del 1933, stampato dalla ditta Bevilacqua-Lombardini
(che stamperà la rivista fino al 1937), ai giovani artisti di Marchiori il gruppo dei bolognesi, capitanati da Giorgio Vecchietti
ritornato saldamente in sella dopo un periodo di assenza per
frequentare la scuola per ufficiali, risponderà con i suoi, rigorosamente giovani e bolognesi, mentre la successiva monografia
edita dall’«Orto» sarà quella dedicata non casualmente a Gianni
Poggeschi, con introduzione di Nino Corrado Corazza. È ancora
Poggeschi che scrive a Marchiori: «uno [dei disegni] è di Carlo Savoia. Corazza, che è occupatissimo, mi incarica di presentartelo:
è della generazione dei giovanissimi (18-20 anni) bolognesi, il più
interessante se non il solo che meriti di essere segnalato».45 Accanto a lui, di cui conserviamo sei schizzi veloci, troviamo Giulia
Rizzoli Marangoni, nata a Bologna, classe 1909, allieva di Longanesi e Fioresi,46 che diventerà una collaboratrice abbastanza stabile della rivista fino al 1936. Corazza la presenta al pubblico con
un articolo dal titolo Nascita di un artista.47 Quando gli ‘Ortolani’
sbarcano a Milano, nella prestigiosa Galleria il Milione, nell’aprile
1936, per la mostra L’Orto alla Galleria del Milione, a fianco di
Gianni Poggeschi e Nino Corrado Corazza c’è anche lei, insieme
ad un altro nuovo acquisto, Nicola Novaro.48 È la consacrazione
44 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera autografa di Vecchietti a Marchiori datata 2
marzo 1934.
45 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera autografa di Poggeschi a Marchiori datata
26 marzo 1933.
46 Come testimonia una lettera in cui Giorgio Vecchietti scrive a Marchiori: «Proprio in questi giorni Corazza mi ha mostrato dei disegni originali di una signorina (pare che Longanesi li abbia adocchiati) già allieva di Fioresi»: Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera datata 2 maggio 1934. Giulia Rizzoli aveva sposato Rinaldo Marangoni, secondo cugino di Leo Longanesi.
In una lettera, datata 17 novembre ma senza indicazione di anno, indirizzata direttamente alla Rizzoli Marangoni, Corazza si complimenta
con lei per un articolo uscito su «Il Quadrivio»: «come vede comincia a farsi intorno al suo riverito nome una certa buona stampa. Questo è
il “Quadrivio” (uno più di trivio) che per il pennino veramente dotto di certo C.G.M., non meglio per me identificabile, vagella di genialità e
d’umanità» (la lettera è conservata dalla figlia Marina Marangoni Berti Ceroni). Su Giulia Rizzoli Marangoni vedi GAETANO ARCANGELI, Incontri con
il bel mondo, «La Fiera Letteraria», 7 agosto 1947; e PIETRO BONFIGLIOLI, Giulia Rizzoli Marangoni Baldovino, Arezzo, L’Etruria, 1995.
47 «L’Orto», IV, n. 3 (maggio-giugno 1934), p. 19-20.
48 La mostra, come ci informa Dario Trento, era stata procurata da Marchiori e avrebbe dovuto tenersi già nel 1934. Lo stesso Trento la definisce
«un’occasione mancata» in quanto il gruppo non seppe amalgamarsi a sufficienza: Poggeschi nella repubblica dell’Orto, a cura di D. Trento,
Bologna, Compositori, 2005, p. 16. Tra le cause, Trento parla per Corazza di «vizio di incostanza», problema che emerge anche da alcune lettere
dei suoi compagni, tra cui una, non datata, di Giorgio Vecchietti al fratello Otello: «Fammi il favore se vedi Corazza (telefonagli) di raccomandargli
30
I disegni dell’«Orto»
del gruppo a livello nazionale, le recensioni sono lusinghiere e tra queste si segnala
quella di Carlo Carrà su «L’Ambrosiano».
Quella attuata dai bolognesi è una
vera e propria contro-rivoluzione. Eppure,
come già annunciato, «L’Orto» non tornerà
mai più quello di prima. Marchiori aveva
instillato un germe che non era più possibile estirpare e che aveva contagiato lo
stesso Giorgio Vecchietti circa la necessità
di allargare gli orizzonti. Da qui in avanti
la politica di Vecchietti si svilupperà sempre più in questo senso, sia dopo che la
rivista cambia per l’ultima volta casa editrice, passando a Le Monnier di Firenze dal
1937, sia quando «L’Orto» chiude i battenti
ed egli fonda a Roma con Giuseppe Bottai
la rivista «Primato». Siamo alla vigilia della
Seconda Guerra Mondiale, lo scenario nel
frattempo si è ampliato al mondo intero e
Giulia Rizzoli Marangoni fotografata alla XXI Biennale di Venezia, 1938.
la vecchia disputa tra Strapaese e Stracittà, che aveva vivificato il dibattito culturale
per quasi un decennio, appare ormai irrimediabilmente anacronistica. Ecco cosa scrive Vecchietti allo stesso Marchiori: «La tua
lettera è come la desideravo: siamo d’accordo e anzi sento che ci accorderemo anche sulle proposte specifiche che farai […].
Parleremo d’arte, di lettere, di musica, di cinematografo, di politica».49 Motivo per cui Marchiori continuerà a scrivere per «L’Orto» pubblicando recensioni di libri e di mostre, articoli sulla Biennale veneziana e sulle varie tendenze dell’arte contemporanea,
tra cui il famoso pezzo su Kn di Carlo Belli; e a fianco dei giovani artisti proposti dai bolognesi continueranno ad apparire anche
i vari Tomea, Ravenna, Tamburi, Vellani Marchi. Come ha sottolineato Dario Trento, durante questa terza fase la rivista conosce
una forte affermazione sul piano nazionale, si moltiplicano i contatti e si intensifica la collaborazione con De Pisis e Rosai grazie
all’equilibrio ritrovato tra Marchiori e i bolognesi. Anche graficamente la rivista aumenta di formato ed assume un aspetto più
sontuoso che fungerà da modello per «Primato». Così Vecchietti: «Gianni ha ricevuto un buon disegno da uno sconosciuto di
Toscana, Ulivieri, ma l’ha tenuto in sospeso per ora; perché vuole raccogliere roba veramente significativa e personale. Quest’è
il criterio da seguire da tutti noi».50 Dal 1934 comincia ad essere una firma della rivista anche Giuseppe Bottai.
quei disegni!! Digli anche che se lui mi garantisce di poterli mandare a me entro una settimana, sta bene. Altrimenti, vada al diavolo, senza più
complimenti» (Biblioteca di San Giorgio in Poggiale, fondo L’Orto, busta 6, fasc. 4, lettera n. 4.6). Da una lettera di Corazza alla Rizzoli Marangoni
datata 8 febbraio 1934 (la lettera è conservata dalla figlia Marina Marangoni Berti Ceroni) apprendiamo della possibilità di realizzare un’altra importante mostra per gli artisti dell’«Orto» nella galleria romana di Dario Sabatello, mostra per la quale Corazza fa il nome proprio della Marangoni,
accanto al suo, a quello di Poggeschi e di Savoia, più di due scultori, Giordani e Minguzzi. Il fatto che della mostra non si parli più, nemmeno sulle
pagine della rivista, ci fa supporre che il progetto non sia andato in porto. La Galleria Sabatello del resto ha avuto vita breve, seppur intensa: ha
aperto i battenti nel 1932, nella centralissima via del Babuino 61, per chiuderli proprio nel 1934.
49 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera di Giorgio Vecchietti a Marchiori datata 10
febbraio [1934].
50 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera datata 3 aprile 1934. Il disegno di Ulivieri
venne pubblicato sull’«Orto» nel fascicolo n. 4 del 1934.
31
Mirko Nottoli
Il quarto ed ultimo periodo è quello che va dal
1937 al 1939. La rivista cambia completamente volto passando all’editore Felice Le Monnier di Firenze.
Scompare il sottotitolo «Rivista di lettere e arte» in
quanto la parte letteraria sarà predominante. Per
quanto riguarda l’arte, ogni fascicolo sarà un numero
monografico riservato ad un singolo artista, di cui si
presentano una decina di disegni a corredare i testi,
come per esempio la già citata serie dei ponti romani di Orfeo Tamburi. Col forfait di Poggeschi, rimangono i Vecchietti, Marescalchi e Corazza (anche se
in alcune lettere conservate nel fondo ci si lamenta
della scarsa partecipazione di Corazza).51 Anche le apparizioni di Marchiori si faranno sporadiche. Ricompaiono, episodicamente, Bertocchi e Saetti. Il n. 3 del
1937 presenta 10 disegni di Mario Mafai. Nel ’39 lo
spazio riservato ai disegni si assottiglia ulteriormente.
Col numero di dicembre, «L’Orto» si congeda definitivamente. Sull’ultimo numero compaiono poesie e
acqueforti di Luigi Bartolini. Nato in provincia di Ancona nel 1892, Bartolini è considerato insieme a Giorgio Morandi il migliore incisore italiano del ‘900. Ha
pubblicato con regolarità su «Il Selvaggio» e «Il Frontespizio» e dal 1934 è autore abituale de «L’Orto».52 Il
n. 2 del 1938 è un numero monografico dedicato a
undici sue incisioni chiamate Fonti marchigiane. Oltre
alla partecipazione alle Quadriennali e alle Biennali del
periodo, Bartolini è anche famoso per la sua attività
di scrittore e poeta. Tra i suoi oltre settanta libri spicca il romanzo Ladri di biciclette da cui Cesare Zavattini
trarrà la sceneggiatura per il capolavoro omonimo di
Vittorio De Sica. In questo senso, l’avventura forse
marginale, forse provinciale dell’«Orto» potrebbe
Luigi Bartolini, due acqueforti pubblicate sull’ultimo fascicolo dell’«Orto», n.
venire letta da una prospettiva inedita, interpretata
6-10 dell’anno IX (dicembre 1939).
sotto una luce finora mai considerata: con la sua attenzione verso la terra, verso la campagna, verso il lavoro degli umili e dei poveri, col suo celebrare tematiche intime e quotidiane, «L’Orto» delle origini, incarnazione della componente ‘strapaesana’ più autentica e meno invischiata nella propaganda
politica, ribaltando in parte e forse inconsapevolmente le premesse degli inizi, potrebbe venire considerato come il primo,
remoto germoglio da cui nascerà e si svilupperà una linea di pensiero che porterà al Neorealismo italiano.
51
È lo stesso Corazza ad ammetterlo: «ho trascurato un poco “L’Orto” è vero e rispetto al dovere non compiuto ho tutti i torti»: Biblioteca
di San Giorgio in Poggiale, fondo L’Orto, busta 6, fasc. 1, lettera n. 1.3.
52 Anche se, leggendo i numerosi insulti presenti nelle lettere, non pare corresse buon sangue tra Bartolini e i fratelli Vecchietti: Biblioteca
di San Giorgio in Poggiale, fondo L’Orto, busta 6, fasc. 5.
32