Benedetta Basevi
Le stagioni dell’«Orto»
… piccolo gruppo vigile per senso d’arte e di pensiero
quale fu quello dell’«Orto» – una rivista
che prima o poi qualche benintenzionato potrebbe ristudiare
Francesco Arcangeli1
Alle soglie degli anni Trenta Bologna è una città ricca e vitale che incarna perfettamente le trasformazioni che porteranno
l’Italia nella modernità. Il forte incremento demografico e l’accentuarsi del ruolo della città come centro nevralgico di traffico
e di commercio, la sua collocazione nella pianura come metropoli agricola insieme al nuovo sviluppo industriale, fanno del
capoluogo emiliano il tipico esempio della laboriosa provincia italiana che il regime fascista di lì a poco avrebbe investito del
ruolo di capitale ‘rurale’ del paese. Qui tuttavia il Fascismo «risultò in definitiva più debole che altrove, meno capace cioè di
incidenza sull’economia, sullo sviluppo e sul costume della città, anche tenendo conto della fronda arpinatiana, che fu un
tentativo maldestro e personalistico, a livello locale e provinciale più che nazionale, di fare evolvere il Regime socialmente e
culturalmente».2 Dal punto di vista culturale, la città - nonostante il prestigioso Ateneo - vive infatti, come scrive Francesco
Arcangeli, un periodo «di avanzata e dura autarchia»,3 ed è in questo clima di progressiva fascistizzazione degli organi dello
stato e della stampa, e di successivo immobilismo del mondo intellettuale, che nel maggio 1931 cinque giovani si riuniscono
per fondare una nuova rivista d’arte e letteratura che chiameranno «L’Orto».
I componenti del gruppo provengono da ambiti sociali e culturali assai diversi. I fratelli Vecchietti, Otello (1902-1982) e
Giorgio (1907-1975), sono figli di Enrico, un commerciante di carbone col magazzino in piazza Santo Stefano, e hanno studiato Chimica Farmaceutica e Giurisprudenza, ma nutrono entrambi interessi letterari. A loro si uniscono due artisti: Nino Corrado Corazza (1897-1975), il più anziano, pittore all’epoca già noto grazie alla partecipazione a collettive e alla collaborazione
con diversi periodici nazionali, e Giovanni (Gianni) Poggeschi (1905-1972), che con Corazza si occuperà, oltre che dell’aspetto
grafico della rivista, anche di quello amministrativo. Il gruppo è poi completato da Giovanni (Giannino) Marescalchi, giornalista
e scrittore, tra i fondatori nel 1919 della rivista «Laghebia», con cui i futuristi bolognesi facevano il verso alla più nota fiorentina «Lacerba». Giannino, così lo chiamano gli amici, sarà con Giorgio Vecchietti l’unico a far parte della redazione sino alla fine, e
lo affiancherà nella scelta e nella cura editoriale dei contributi letterari. I giovani fondatori credono fortemente nella necessità
del loro progetto culturale al punto di finanziarne di tasca propria la realizzazione,4 coinvolgendo anche personaggi noti del
panorama bolognese, tra cui Nino Bertocchi (1900-1956), artista e critico già affermato, che da subito appoggia l’iniziativa e
vi partecipa attivamente.
La scelta del titolo, evocante «una realtà umile e discreta in implicita contrapposizione ai titoli di altre riviste, risonanti di
referenze marziali e vitalistiche»,5 è sintomatica dell’atteggiamento che il gruppo intende perseguire: una sorta di volontaria
emarginazione per cui «piuttosto che annunciare di voler rifare il mondo, [desiderano] coltivare la buona terra intorno a casa,
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FRANCESCO ARCANGELI, Poggeschi, Bologna, Rebellato, 1969, p. 14.
GIORGIO BONFIGLIOLI, Bologna dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale, in ANTONIO FERRI, GIANCARLO ROVERSI, Storia di Bologna, Bologna, Bononia University Press, 2005, p. 351-352.
3 F. ARCANGELI, Poggeschi cit., p. 14.
4 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori datata 12 gennaio 1934.
5 ANDREA BATTISTINI, La cultura umanistica a Bologna, in RENATO ZANGHERI, Bologna, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 339.
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alla quale non hanno chiesto i leggendari pomi d’oro, ma frutti più semplici e utili»,6 come chiariscono fin da subito nell’editoriale apparso sul primo numero:
Non saremo dunque noi, che crediamo nella terra, non saremo noi a estraniarci dalla vita per correre dietro a superbe e confuse
teorie estetiche […]. Non formuliamo programmi, e rifuggiamo le etichette […]. Non è certamente su questo giornale - che reca un
titolo tanto discreto e, quasi diremmo, umile, se non rifuggissimo da certe sciocche civetterie - non è ne «L’Orto» che si potranno
cogliere ortaggi e frutti strani e anomali; e non saremo noi a compiacerci di parole ambiziose, delle pericolose acrobazie, dei programmi paradossali – ai quali benché nemici dei filistei, non sapremmo poi credere senza tradire la nostra natura di uomini schietti,
nauseati dei trucchi e dei surrogati della fede e dell’intelligenza.
Tra i principali riferimenti culturali della neonata pubblicazione va ricordato il movimento Strapaese, sorto attorno alle
riviste «Il Selvaggio», fondata da Angelo Bencini nel 1924 a Colle di Val d’Elsa e successivamente diretta dall’artista Mino
Maccari, e «L’Italiano», edita a Bologna da un irriverente Leo Longanesi. Nate come occasioni di confronto fra giovani fascisti della provincia, le due testate si erano schierate per la difesa della tradizione e dei valori costitutivi della civiltà italiana,
identificata con il mondo contadino e rurale, definendosi da subito «antimetafisiche, anticlassiche, antimoderniste e popolari». Con queste posizioni replicheranno alle tesi e ai programmi, almeno in apparenza opposti, di Stracittà, la corrente
formatasi attorno alla rivista romana «900», diretta da Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte, i cui orizzonti moderni e
internazionali, e la scelta stessa di pubblicare in francese, avrebbero causato forti malumori all’interno del Regime.
È dunque ai due più noti periodici ‘strapaesani’ del periodo fascista che guardano i giovani de «L’Orto», dando vita a
una pubblicazione le cui tematiche private e provinciali, insieme a un’accentuata simpatia per un’idealizzata Italia rurale,
sono scientemente contrapposte alla caotica civiltà metropolitana dominata da quella cultura modernista e filotecnologica, utopisticamente inseguita dai Marinetti e dai Bontempelli. A differenza del «Selvaggio» e dell’«Italiano», la cui adesione
al Fascismo è condotta in maniera letteralmente ‘selvaggia’ e aggressiva, «L’Orto», pur nella piena adesione al pensiero di
Regime, ne coltiva le teorie più moderate, cercando di porsi come elemento di mediazione tra le polemiche più accese
del momento. Dimora nelle sue pagine uno sguardo diverso nei confronti della realtà circostante, che non nasconde
una certa insofferenza alla retorica e alla magniloquenza del Regime cui i redattori rispondono con un tono umile e volutamente sommesso, che sembra trovare nel fragile equilibrio tra ‘impegno’ e ‘disimpegno’, nella pacata alternanza tra
testi e immagini desunti da un’Italia minore, popolata da ‘gente per bene’, la propria reificazione. Ed è forse in questo
calibrato alternarsi di testi e illustrazioni che si riscontrano le più strette consonanze tra l’«L’Orto» e le riviste di Maccari e
Longanesi, di cui va riconosciuta la profonda portata artistica, capace di fornire una valida e duratura alternativa all’estetica
novecentista.
Il forte legame con la realtà, la natura e la tradizione locale, anche espressionisticamente trasfigurate - tratto comune
agli artisti de «L’Orto» - è d’altra parte una caratteristica della cultura artistica padana, e bolognese in particolare, intuita in
quegli stessi anni dal giovane Roberto Longhi nella prolusione con cui, nel 1934, inaugurava la cattedra di Storia dell’Arte
presso l’Università di Bologna.7 Basti pensare che persino le dirompenti serate teatrali tenute da Marinetti e dai suoi paroliberisti futuristi negli anni ‘10 avevano riscosso in città una certa ostilità anche da parte di quel pubblico studentesco
e bohémien solitamente più pronto e recettivo verso le novità provenienti da fuori. Come racconta Federico Ravagli,
studente e amico di Dino Campana all’epoca della loro frequentazione dell’Università, in poche e illuminanti righe pervase
di ‘realismo padano’:
6
L’Orto alla Galleria del Milione, supplemento a «L’Orto», V, fasc. n. 6 (dicembre 1936 [sic, ma 1935]), p. 5.
Cfr. ROBERTO LONGHI, Momenti della pittura bolognese: prolusione al corso di Storia dell’Arte nella R. Università di Bologna, «L’Archiginnasio»,
XXX, 1935, p. 111-135.
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Le stagioni dell’«Orto»
Il Futurismo non fece proseliti fra di noi, […] troppi erano i nostri dubbi, troppi gli interrogativi, troppe le incognite. E quando più
tardi i Futuristi vennero all’Università, pensammo che finalmente ci sarebbero state tolte le bende che ci impedivano di vedere. Ma
non fu così. Prestammo attenzione viva e non ricavammo alcun profitto. […] così dovemmo accorgerci di essere refrattari all’arte
d’avanguardia. Irrimediabilmente. Per nostra mala ventura, restammo tanto schiavi della tradizione, da non riuscire a gustare una
lirica se non attraverso le forme convenzionali delle connessioni logiche. Fummo così passatisti da non sapere rinunciare a sei secoli
[…] di sintassi. […] Addio lirica delle follie febbrili e della velocità, poesia dei motori e dei cantieri sonanti. Si tornava al chiaro di luna,
ucciso da Marinetti, a braccetto della morosa.8
Ritroviamo lo stesso tipo di atteggiamento critico in un articolo dai toni fortemente ironici firmato da Corazza e apparso
su «L’Orto» nel luglio del 1931, in cui commentando uno degli ultimi manifesti pubblicati da Filippo Tommaso Marinetti sulla
«Gazzetta del Popolo» lo definisce «crociata dell’arte sacra»,9 chiedendosi se il segreto più importante di Marinetti e dei Futuristi non sia esclusivamente quello di suscitare movimento e rumore.
Scorrendo i numerosi interventi che compaiono nei primi numeri della rivista si percepisce la comune volontà degli
‘Ortolani’ (così amavano definirsi) di prendere le distanze dai vecchi proclami avanguardisti, per fondare una nuova cultura
organica al nascente stato fascista, volontà trasversale a molte riviste giovanili nate in quei primi anni Trenta. Sono diversi
gli scritti nei quali si afferma che a causa di un certo anacronismo intellettuale all’interno delle strutture culturali fasciste, il
Regime non è ancora arrivato a «produrre nel campo delle lettere e delle arti quell’opera di revisione e di svecchiamento che
ha prodotto in politica».10 Si sostiene quindi la necessità di formare una giovane classe intellettuale che, nel rifiuto di ogni
estremismo e in nome di un misurato dibattito culturale, sia in grado di valutare criticamente «i fenomeni politici, economici,
letterari, artistici, da un punto di vista fascista»,11 per traghettare il paese verso la modernità. Gli scopi perseguiti dalla rivista
bolognese rispecchiano in tal senso la piena adesione alla linea ‘morbida’ che andava formulando in quegli stessi anni il ministro delle Corporazioni, Giuseppe Bottai, sulle pagine del suo quindicinale «Critica fascista». La vicinanza culturale e la consonanza d’intenti sono tali da procurare a Giorgio Vecchietti, condirettore de «L’Orto» oltre che redattore del giornale della
federazione fascista di Bologna «L’Assalto», la nomina al ruolo di segretario del GUF (Gruppo Universitario Fascista) della città.
La nuova carica segnerà l’inizio di un lungo e proficuo sodalizio culturale che nel gennaio del 1935 porterà Giorgio Vecchietti
a Roma al fianco di Bottai, Governatore di Roma e successivamente Ministro dell’Educazione.12 Nel 1940 i due fonderanno la
rivista «Primato», il cui programma, volto all’organizzazione del consenso degli intellettuali nel «coraggio della concordia»,13
vede nell’«Orto» il suo più diretto antecedente.
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FEDERICO RAVAGLI, Dino Campana e i goliardi del suo tempo, Bologna, Clueb, 2002 p. 48-55.
NINO CORRADO CORAZZA, Scherza coi fanti, «L’Orto», I, fasc. n. 3 (luglio 1931), p. 13-14.
10 MARIO TINTI, La fine di un’epoca, «L’Orto», I, fasc. n. 8 (dicembre 1931), p. 1-2. Tra i numerosi articoli dedicati ad approfondimenti critici
sulle attività del Regime citiamo a titolo esemplificativo: GIORGIO VECCHIETTI, Si gira, «L’Orto», I, fasc. n. 2 (giugno 1931), p. 7-8; NINO BERTOCCHI,
Artigianato, «L’Orto», I, fasc. n. 3 (luglio 1931), p. 4; Rivista n. 2, «L’Orto», I, fasc. n. 6 (ottobre 1931), p. 8; N.C. CORAZZA, Carrà e l’artigianato,
«L’Orto», I, fasc. n. 7 (novembre 1931), p. 4; N. BERTOCCHI, Imposizione della sobrietà, «L’Orto», II, fasc. n. 12 (aprile 1932), p. 1; L’educazione del
gusto, «L’Orto», II, fasc. n. 1 (gennaio 1932), p. 7.
11 G. VECCHIETTI, Popolo e cultura, «L’Orto», I, fasc. n. 7 (novembre 1931), p. 3.
12 Il legame tra Giorgio Vecchietti e Bottai negli anni maturò e divenne tale che quando, dopo il 25 luglio 1943, Bottai, avendo votato
l’ordine del giorno Grandi nella riunione del Gran Consiglio del Fascismo, dovette nascondersi, si rifugiò per alcuni mesi proprio in casa di
Vecchietti: cfr. MARIA GRAZIA BOTTAI, Giuseppe Bottai mio padre: una biografia privata e politica, Milano, Mursia, 2015, p. 162. Successivamente
Bottai si arruolò nella Legione Straniera: vedi GIUSEPPE BOTTAI, Legione è il mio nome, Milano, Garzanti, 1950. Sulla figura di Bottai vedi SABINO
CASSESE, Un programmatore degli anni Trenta. Giuseppe Bottai, «Politica del diritto», I, n. 3 (dicembre 1970), p. 404-447.
13 G. BOTTAI, Il coraggio della concordia, «Primato», I, fasc. n. 1 (1° marzo 1940), p. 1; cfr. ALBERTO FOLIN, MARIO QUARANTA, Le riviste giovanili del
periodo fascista, Treviso, Canova, 1977, p. 49.
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Primo periodo (Bologna, Edizione dell’Orto, maggio 1931 - aprile 1932)
La prima stagione de «L’Orto. Mensile di lettere e arte» è pubblicata a Bologna dal maggio 1931 fino all’aprile del 1932 dall’Edizione dell’Orto e stampata
presso la tipografia S.A. Avvenire d’Italia con sede in Via Mentana 4. La rivista
ha un impaginato grafico semplice ma dignitoso. I fascicoli, di grande formato e impostati su tre colonne intervallate da immagini, sono composti quasi
sempre da 12 pagine, due delle quali riservate agli spazi pubblicitari. Il mensile
è organizzato in diverse sezioni: numerosi sono i contributi di prosa e poesia,
con novelle e racconti di Giannino Marescalchi, Otello e Giorgio Vecchietti, Carlo
Bettocchi, Umberto Saba, Mario Luzi, cui si affiancano articoli d’interesse artistico generalmente a firma di Nino Corrado Corazza, Nino Bertocchi e Mario Tinti.
Molto spazio è riservato alla critica letteraria, curata prevalentemente da Marescalchi e Giorgio Vecchietti. Vi compaiono inoltre contributi dedicati ad aspetti
dell’attualità politica e sociale: tra questi diversi sono gli scritti di Giuseppe Lombrassa, giornalista, fascista della prima ora, che continuò a collaborare con la
rivista anche una volta sceso in politica, firmandosi altresì con lo pseudonimo
di Calabrone.14 Un interesse speciale è rivolto ai saggi di carattere etnografico,
alla ricerca degli aspetti fondanti l’italianità esaltata dal Regime, ma anche per
offrire a tutti, non solo ai benestanti, la possibilità di conoscere e apprezzare il
proprio paese. Ampio spazio è riservato alla rubrica intitolata “Rivista”, dedicata
alla nascente industria cinematografica italiana, reputata di fondamentale importanza per la macchina propagandistica del Regime. Nella rubrica compaiono interventi di Giorgio Vecchietti, Ernesto Cauda e Corrado Pavolini, scrittore,
Giorgio Vecchietti in via Ugo Bassi a Bologna,
critico e regista, dal 1930 direttore della Scuola Nazionale di Cinematografia.
in divisa militare.
A partire dal sesto numero compare poi la rubrica divulgativa “Mercato”, che
riporta notizie riguardanti fatti di cronaca e di attualità.
Nonostante l’impegno e le cure profuse dai suoi fondatori, «L’Orto» incontra fin da subito difficoltà di carattere amministrativo ed economico che la portano, a poco meno di un anno dalla nascita, ad accumulare forti debiti, tanto che nel
corso del 1932, per evitare la chiusura definitiva, la redazione si vede costretta a cercare un finanziatore esterno disposto a
sostenere la pubblicazione.
È così che nell’ottobre di quello stesso anno, grazie all’intervento economico del giovane critico d’arte Giuseppe Marchiori (1901-1982), dopo cinque mesi d’interruzione e di serrate trattative tra Bologna e Lendinara, «L’Orto» esce edito dalle
Edizioni Nord-Est di Venezia e stampato presso l’antica tipografia Spighi di Lendinara, che Marchiori ha da poco rilevato.15
14 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera di Giorgio Vecchietti a Giuseppe Marchiori
non datata. Vecchietti scrive a Marchiori che Peppino Lombrassa gli manderà un pezzo firmandosi Calabrone; da lettere successive al 1937
si intuisce che sotto lo pseudonimo Calabrone si cela anche lo stesso Giorgio Vecchietti. Un fratello di Giuseppe Lombrassa, Domenico, pubblicò insieme a Giorgio Vecchietti Combattere. Antologia della Guerra, della Rivoluzione, dell’Impero (1915-1936), Firenze, Le Monnier, 1937;
e, sempre con Vecchietti, nel secondo Dopoguerra numerose antologie scolastiche, tutte edite da Le Monnier.
15 Della vicenda resta vivace testimonianza nelle decine di lettere provenienti dall’archivio Giuseppe Marchiori conservate presso la Biblioteca
del Comune di Lendinara, oltre che in quelle del fondo L’Orto custodito presso la Biblioteca di San Giorgio in Poggiale. Ricordiamo ad esempio
presso la Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, la lettera datata 25 giugno (1932) inviata a Palmieri
(che a sua volta la rigira a Marchiori) da Giorgio Vecchietti, che ringrazia vivamente Palmieri per averlo messo in contatto con Giuseppe Marchiori
«uomo serio e sincero, intelligente e gentile con cui si farà molta strada». In un’altra, di poco successiva, Vecchietti ringrazia Marchiori di essere
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Le stagioni dell’«Orto»
Otello Vecchietti con la moglie Teresa Lombardini sulla spiaggia di Riccione.
È il giornalista e critico teatrale di origine vicentina Eugenio Ferdinando Palmieri (1903-1968), penna del «Resto del Carlino», a mettere in contatto la redazione de «L’Orto» con Marchiori.16 Proprio in quel 1932, infatti, il critico lendinarese in collaborazione con Palmieri e con l’aiuto del pittore Juti Ravenna, ha dato alle stampe il numero unico dell’Almanacco del Polesine, un volumetto ricco di testi e immagini che dalla provincia veneta faceva eco alle suggestioni strapaesane di Mino Maccari
e Leo Longanesi. Nell’Almanacco Marchiori trasferisce oltre alla sua vasta e raffinata cultura, le preziose conoscenze grafiche
maturate in anni di lavoro presso la Biblioteca Comunale di Lendinara (che dirigerà fino al 1943).17 Antichi caratteri tipografici
e xilografie popolari, recuperati nella tipografia Spighi, vi sono sapientemente alternati a disegni, dipinti, incisioni di artisti
contemporanei tra cui Filippo De Pisis, Giorgio Morandi, Leone Minassian, Gabriella Sacerdoti Oreffice e lo stesso Juti Ravenna.
Nel medesimo periodo Marchiori pubblica, sempre con la sua casa editrice Nord-Est, due piccole monografie: una sull’amico
intervenuto anche economicamente e gli chiede espressamente di seguire tutte le prove di stampa e occuparsi delle scelte tipografiche.
16 Sull’amicizia e il rapporto di collaborazione tra Palmieri e Marchiori cfr. NICOLA GASPARETTO, L’anonimo del Novecento. Giuseppe Marchiori
dagli esordi all’affermazione nella critica d’arte, Adria (Rovigo), Apogeo Editore, 2017, p. 57-58.
17 L’infanzia di Giuseppe Marchiori si svolge tra la villa di famiglia di Lendinara, Ca’ Dolfin, e Venezia dove i Marchiori hanno una farmacia e
dove il giovane compie i suoi studi presso la Scuola Superiore di Commercio e Scienze Economiche. Negli anni di attività per «L’Orto» si iscrive
alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova e compie frequenti viaggi tra Venezia e Parigi entrando in contatto con l’ambiente artistico e
culturale internazionale. Grazie all’appassionato lavoro presso la Biblioteca Comunale diventa inoltre un raffinato conoscitore di libri, stampe,
caratteri tipografici. Per maggiori approfondimenti vedi N. GASPARETTO, L’anonimo del Novecento cit.
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Benedetta Basevi
Juti Ravenna, curata personalmente, e l’altra su Filippo De Pisis di
Giovanni Cavicchioli. Entrambi i volumetti denotano un’attenzione
particolare verso artisti contemporanei all’epoca ancora poco conosciuti. Questa caratteristica capacità di Marchiori di aprirsi verso
le più moderne correnti artistiche europee, pur mantenendo le radici saldamente ancorate nella propria terra di provincia, era d’altra
parte già evidente all’epoca se il quotidiano di Rovigo «La Voce del
Mattino» lo descrive come un «novecentista in pittura, strapaesano
in poesia».18 Sebbene nato in provincia, Marchiori può infatti vantare
una diramata formazione culturale il cui respiro internazionale gli
permetterà di affermarsi come uno dei più importanti critici dell’arte contemporanea del Dopoguerra, fondatore nel 1946 della nuova
secessione artistica italiana poi diventata Fronte Nuovo delle Arti.
Facile comprendere come, suggestionati dalle pagine raffinate
delle prime tre pubblicazioni di Marchiori mostrate loro da Eugenio
Ferdinando Palmieri nell’estate del 1932, gli ‘Ortolani’ si convincano
ad affidare alle sue sapienti mani la rinascita della propria creatura
morente. Ecco allora i primi scambi epistolari, da cui emerge con
tutta evidenza la speranza che i bolognesi ripongono sul suo ingresso nella rivista, gestita fino ad allora in maniera alquanto naif
e artigianale. Lo scarso numero di copie vendute, il prezzo modico
e la mancanza di abbonati (la rubrica abbonati, conservata presso
la biblioteca di San Giorgio in Poggiale, ne conta a malapena un
centinaio), sono problemi endemici. Lo stesso Poggeschi ammette,
scrivendo a Marchiori, che «per la pubblicità noi non abbiamo mai
stabilito dei prezzi fissi, ci siamo regolati volta per volta, secondo
l’umore e le possibilità dei clienti».19 Più tardi, a proposito del numero di copie vendute:
Copertina de «L’Orto» all’epoca del suo primo periodo
(Bologna, Edizione dell’Orto, aprile 1932).
Non so neppure io con precisione come siano andate, ma in ogni caso credo che non ci sia da dare una grande importanza a
questo genere di entrate. Anche essendo ottimisti non si può pensare a ricavare gran che, dato il forte sconto concesso ai rivenditori
(50%) e il prezzo modico della rivista, senza contare la difficoltà incredibile di farsi pagare le copie vendute fuori Bologna.20
Vero è anche, del resto, che sarebbe stato utopico pensare che una rivista come «L’Orto», un «Mensile di lettere e arte»,
indirizzata dunque a un target culturale medio-alto, potesse fare ‘grandi numeri’ a livello di tirature, e questo i redattori lo
sapevano, al punto da essere pronti ad autotassarsi pur di realizzare il giornale.21
18 «La voce del Mattino», 9 ottobre 1931; cfr. SERGIO GARBATO, Inseguendo Giuseppe Marchiori, in N. GASPARETTO, L’anonimo del Novecento
cit., p. XIII.
19 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori datata 28
giugno 1932.
20 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori datata 7
novembre 1932.
21 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori datata 12
gennaio 1934: «noi contribuiremo con la solita somma di 150 lire per numero. Resterebbero quindi a suo carico [dell’editore] 350 …».
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Le stagioni dell’«Orto»
Secondo periodo (Venezia, Edizioni Nord-Est [Lendinara, Tip.
Edit. Spighi], ottobre 1932 – aprile 1933)
L’entrata in scena del giovane aspirante critico, oltre a risolverne provvisoriamente i problemi finanziari, modificherà sensibilmente il carattere
della rivista. Il primo numero stampato a Lendinara ha ancora come direttori i soli Nino Corrado Corazza e Giorgio Vecchietti, ma già dal mese di
novembre si aggiunge Marchiori.22
La tiratura, che a Bologna contava 800 copie, aumenta fino a raggiungere i mille esemplari, e la cadenza mensile diventa regolare. Cambia il formato, che si fa più piccolo, e aumenta il numero di pagine, che varia di
mese in mese tra le 24 e le 32. La copertina, in cartoncino, si presenta
meno sobria, sparisce il famoso galletto disegnato da Cervellati, e il titolo
«L’Orto» è ingrandito fino ad occupare un terzo dello spazio, sotto al quale
è inserita un’immagine realizzata dai vari artisti della redazione. In quarta
di copertina compare infine la rosa dei venti, emblema della casa editrice
Nord-Est di Marchiori con sede a Venezia. Internamente la veste grafica
diventa molto accurata, arricchendosi di quelle testatine, piccole vignette
e decorazioni fitomorfe, prelevate dall’universo figurativo rurale ottocentesco che Marchiori e Juti Ravenna avevano già utilizzato nell’Almanacco.
Sempre maggiore importanza è affidata al disegno, inteso, sulla scorta della
lezione di Mino Maccari, quale vero e proprio strumento per valorizzare i
giovani artisti.23 Dal punto di vista contenutistico il passaggio della rivista da
Bologna a Lendinara è caratterizzato da nuove e inedite aperture verso il
Copertina de «L’Orto» all’epoca del suo secondo
panorama artistico e letterario europeo. È lo stesso Marchiori in Anonimo
periodo (Venezia, Edizioni Nord-Est [Lendinara, Tip.
del
Novecento - vera e propria riflessione sul mondo dell’arte pubblicata su
Edit. Spighi], novembre 1932).
«L’Orto» tra il novembre 1932 e il giugno 1933 - a chiarire la propria poetica,
di cui l’anonimato costituisce l’approdo ideale. Proprio perché condotta in
una località appartata e provinciale, volutamente lontana dalla metropoli, tale condizione permette di guardare con maggiore obiettività oltre i propri confini intellettuali e culturali, alla ricerca del senso autentico dell’arte. Ed è ciò che Marchiori si
appresta a fare. La nuova versione de «L’Orto» segna la progressiva diminuzione di articoli inerenti le materie letterarie, di cui
continuano ad occuparsi principalmente Giannino Marescalchi e Otello Vecchietti, a tutto vantaggio di quelli dedicati all’arte.
Ma la novità più eclatante dell’edizione veneta, che risponde all’originale e personalissima ricerca critica portata avanti da
Marchiori, è l’introduzione di contributi dedicati ad artisti emergenti, spesso del tutto sconosciuti sia al grande pubblico che
al gruppo dei bolognesi. Compaiono così Juti Ravenna, Fioravante Seibezzi, Pio Semeghini, Sofia Minassian. Rilevante diventa
poi lo spazio riservato a stranieri ancora malnoti in Italia, tra cui Gauguin, Segonzac, Daumier, Larionov, Matisse.24
22 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 ter, fasc. 67, lettera di Corazza a Marchiori, senza data ma risalente
all’ottobre 1932. Nella lettera Corazza scrive di aver saputo che la gerenza a Bologna è illegale e che è necessario che il gerente della rivista
risieda nel luogo in cui la si stampa. Occorre quindi che Marchiori divenga il responsabile e che il suo nome compaia a chiare lettere all’interno
del Comitato direttivo con tale qualifica.
23 M. MACCARI, Addio al passato, «Il Selvaggio», 1-14 marzo 1926, p. 2.
24 Solo a titolo esemplificativo ricordiamo: G. MARCHIORI (non firmato), Giovanni Cavicchioli. Le nozze di Figaro, «L’Orto», II, fasc. n. 1 (ottobre
1932), p. 27; Fioravante Seibezzi, «L’Orto», II, fasc. n. 2 (novembre 1932), p. 23; G. NEBBI, Gauguin a Tahiti, «L’Orto», II, fasc. n. 3 (dicembre 1932),
p. 9-12; G. MARCHIORI (non firmato), Giovanni Scheiwiller, Modigliani-Haller-Manzu, «L’Orto», II, fasc. n. 4 (gennaio 1933), p. 21; G. MARCHIORI,
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Benedetta Basevi
Le conseguenze non tardano a farsi sentire, e già attorno
all’uscita del numero di dicembre del 1932, nella corrispondenza tra quelle che sono diventate a tutti gli effetti due redazioni, si registra un cambiamento di toni. A creare malumore è la
progressiva indipendenza che Marchiori e l’amico Juti Ravenna
dimostrano nel gestire la rivista, andando in stampa senza sottoporre preventivamente le proprie scelte al parere della redazione bolognese. Corazza scrive così a Marchiori:
Noi si agisce, tra noi, con molta fraternità, ma molta responsabilità, e senza voler fare del comunismo artistico e letterario, ci
si corregge o ci si stronca all’occasione senza paura di perdere la
stima e l’amicizia [...]. Ma se tu Marchiori sei intoccabile, degli altri
nessuno lo è: questo è fondamentale. E, come regola generale e
costante, tutto quanto va a comporre «L’Orto» deve essere visto
da tutti: questo è essenziale per l’unità dell’indirizzo e per il valore
dell’azione […] è bene che tu comunichi le tue intenzioni […] perché si lavori insieme; se no cosa avverrà della rivista?25
Giuseppe Marchiori in una foto degli anni Venti (Biblioteca
Comunale di Lendinara, archivio Marchiori).
Gli fa eco Poggeschi che si lamenta dell’inopportuna pubblicazione nel numero di novembre del 1932 di un pezzo di
Roberto Papini su Seibezzi tratto dal «Corriere della Sera». Delle motivazioni di tale dissenso tuttavia, dice Poggeschi, sarà
bene parlarne a voce.26 Le lettere proseguono sullo stesso
tono di rimprovero, fino a quando in marzo Marchiori, stanco
delle tensioni, chiede espressamente ai bolognesi di allargare
la cerchia dei collaboratori, come si deduce dalla risposta di
Poggeschi:
... così all’ingrosso mi pare sia una cosa buona a due condizioni però: 1) che la base sia costituita sempre dal nostro gruppo;
2) che i nuovi siano, più che molti, buoni o meglio che siano tali da rappresentare qualcosa di particolarmente interessante e
importante, e anche di nuovo. Quindi artisti giovani o poco noti. È difficile trovarli, è vero, perché si tratta di decine e non di centinaia, ma piuttosto che di allargarsi per allargarsi, ripeto, mi pare mille volte meglio insistere coi pochi artisti che ci convincono
veramente.27
Semeghini e i Veneti, «L’Orto», III, fasc. n. 5-6 (febbraio-marzo 1933), p. 7-10; G. MARCHIORI, Un pittore di razza: Segonzac, «L’Orto», III, fasc. n.
7 (aprile 1933), p. 15; G. MARCHIORI, Omaggio a Daumier, «L’Orto», III, fasc. n. 8 (maggio 1933), p. 7-11; G. MARCHIORI, Henri Matisse, «L’Orto», III,
fasc. n. 11 (novembre 1933), p. 15.
25 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 ter, fasc. 67, lettera di Corazza a Marchiori non datata, presumibilmente del 1933.
26 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori datata 21
dicembre 1932.
27 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc. 236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori, datata 19
marzo 1933.
10
Le stagioni dell’«Orto»
Anche Otello Vecchietti invia una lunga lettera dattiloscritta nella quale, dopo essersi scusato a nome suo e dei
compagni per essere un po’ «come dire, plebei» e non saper rispettare le dovute forme, prova a spiegare a Marchiori la
filosofia dell’«Orto»:
... La fiducia personale è un conto. Il giornale è un altro. Se ciascuno di noi pubblicasse tutto ciò che vuole, il giornale
diventerebbe una delle tante riviste eclettiche è perciò insignificanti. È invece appunto per quel piccolo sacrificio […] che
ci imponiamo di lasciarci giudicare, magari sorvegliare, l’uno dall’altro che nasce quella disciplina che determina il carattere
del giornale. 28
È nel maggio 1933 che la redazione bolognese decide, con un vero e proprio colpo di mano, di riportare l’edizione della
rivista a Bologna. Fortuna vuole che il cognato di Otello Vecchietti possieda una tipografia, la Bevilacqua-Lombardini di Minerbio, che si occupa principalmente di stampa su commissione di istituzioni pubbliche.29 Inevitabile che si pensi a lui che,
come scrive Giorgio Vecchietti a Marchiori, «pare assai interessato della nuova iniziativa e un po’ lusingato del suo nome in
copertina come editore della nuova serie».30
Nel numero di maggio del 1933 il responsabile, come si apprende da una piccolissima iscrizione nell’ultima pagina della
rivista, resta, ancora per poco, Giuseppe Marchiori «in attesa di riconoscimento di legge di Giorgio Vecchietti», che avverrà il
mese successivo, quando questi, terminato il servizio militare, potrà risalire in sella a tempo pieno.31
Così si chiude la stagione veneta de «L’Orto» e con questa la direzione di Marchiori troppo distante dai bolognesi, per i
quali, come scrive Dario Trento, egli è come «un ciclone di curiosità che scuote alle fondamenta l’ottica intenzionalmente
provinciale e costante».32
Furono infatti la sua apertura a realtà che travalicano gli autarchici confini italiani, affatto insolita per quell’epoca, oltre al
suo essere uomo modernamente europeo, a metterlo in difficoltà non solo di fronte agli angusti confini ‘ortolani’ ma in generale rispetto a buona parte della critica coeva. Così scriveva profeticamente in un momento di profondo sconforto, quasi
a congedarsi da quell’avventura: «Mi accorgo di essere un uomo di altri tempi: del Duemila, forse. Quando non si parlerà più
di Hitler. Quando invece si cercheranno affannosamente i nostri rari e profetici scritti».33
28 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 302, lettera di Otello Vecchietti a Marchiori datata 17
febbraio, presumibilmente del 1933.
29 Che la tipografia di Lombardini si occupasse prevalentemente di stampa su commissione (e quindi anche di carta intestata per gli uffici)
lo rivela una lettera della Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, inviata da Giorgio Vecchietti
a Marchiori, senza data ma riferibile al 1933, con l’intestazione di «Sottoprefetto». Di fianco all’intestazione Vecchietti scrive: «non stupirti e
non pensare a cariche prefettizie: sono soltanto dei doni della ditta Lombardini».
30 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera di Giorgio Vecchietti a Marchiori senza data,
ma verosimilmente scritta tra la fine del 1933 e il gennaio 1934 quando prenderà il via la nuova serie col nuovo formato.
31 Tra la fine del 1932 e i primi mesi del 1933, nella corrispondenza, la figura di Giorgio Vecchietti risulta piuttosto assente perché impegnato
a concludere gli studi universitari e successivamente partito per il servizio militare presso la Scuola Ufficiali di complemento di Salerno. La
scarna corrispondenza tra Marchiori e Vecchietti rivela tuttavia che tra i due regnasse una maggiore comprensione e stima rispetto a quella
dimostrata dal gruppo dei bolognesi.
32 DARIO TRENTO, Poggeschi. Le tre rinascite, Bologna, Compositori, 1999, p. 170.
33 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera di Marchiori a Giorgio Vecchietti datata 1°
febbraio 1938. Sul progressivo isolamento di Marchiori a livello nazionale, causa di profonde crisi depressive, vedi N. G ASPARETTO , L’anonimo
del Novecento cit.
11
Benedetta Basevi
Terzo periodo (Bologna, Edizioni Aristide Lombardini, maggio 1933
- aprile 1936)
A partire dal mese di maggio del 1933 «L’Orto» torna quindi a Bologna, dove
viene edito da Aristide Lombardini. Se gli ultimi numeri stampati in quell’anno
(da maggio a dicembre) mantengono l’impostazione tipografica dei precedenti, è solo nel gennaio del 1934 che la rivista viene sottoposta a una completa revisione.34 Poggeschi ne dà notizia a Marchiori in una lettera del 5 giugno
1933: «Da Marescalchi avrai saputo che un accordo di massima col cognato di
Vecchietti è avvenuto e che perciò possiamo senz’altro dar mano a questo
numero che sarà di prova». Subito dopo sembra volerlo rincuorare: «In ogni
modo nei limiti del possibile «L’Orto» resterà come l’abbiamo fatto fin’ora –
compresa la stella del Nord-Est».35 Gli fa eco Giorgio Vecchietti in una sua lettera: «rinnoveremo i fasti antichi quando il galletto de “L’Orto” si alleò con la stella
lendinarese e ne uscirono figli delicati e robusti assieme».36
Nel 1933 le Edizioni dell’Orto inaugurano anche una collana di pubblicazioni con cui intendono arricchire la propria proposta. Escono quindi Domani
di Otello Vecchietti,37 con disegni di Nino Corrado Corazza, e Disegni di Pio
Semeghini, con testi di Diego Valeri e Giuseppe Marchiori, primi due titoli di
una nutrita serie che proseguirà fino alla chiusura della rivista.38 Dal 1934 al
1936 l’uscita dell’«Orto» si fa bimestrale e la direzione diventa esclusivamente
di Giorgio Vecchietti, cui si affianca un comitato di redazione stabile composto
da Corazza, Marchiori, Marescalchi, Poggeschi e Otello Vecchietti.
La rivista passa dal piccolo formato ad uno più grande, stampato su due
colonne, che oltre a consentire la pubblicazione di interventi maggiormente
estesi, permette un ragguardevole miglioramento dell’impaginazione grafica,
con la dilatazione degli spazi occupati dai disegni che la rende estremamente
gradevole dal punto di vista visivo. Ogni numero è tra le 24 e le 32 pagine, ma
in alcuni casi si raggiungono anche le 40 (luglio-ottobre 1935).
È il solito Poggeschi a fornire alcuni consigli grafici: «Ho visto finalmente il
progetto del nuovo “Orto”. Mi piace e più mi piacerà se assomiglierà ancor meno
34 Presso la Biblioteca di San Giorgio in Poggiale, fondo L’Orto, busta 6, fasc. 8, sono
conservate due veline (n. 8.1 e n. 8.2) di un ‘atto’ tra Giorgio Vecchietti e Aristide Lombardini, che prevede che Lombardini, dal 1° gennaio 1934, nell’assumere la proprietà
della rivista, ne assuma anche gli oneri. L’atto, che non è firmato, rimase probabilmente
lettera morta.
35 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 septies, fasc.
236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori datata 5 giugno 1933.
36 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301,
lettera di G. Vecchietti a Marchiori datata giugno (verosimilmente 1934).
37 Successivamente Otello Vecchietti pubblicherà con lo pseudonimo Massimo Dursi,
col quale oggi è generalmente conosciuto.
38 Le pubblicazioni di volumetti di autori contemporanei rientrano nella politica economica
di numerose riviste di quegli anni e continueranno anche sotto la casa editrice Le Monnier.
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Copertina, con un disegno di Poggeschi, de
«L’Orto» all’epoca del suo terzo periodo (Bologna,
Edizioni Aristide Lombardini, 1934).
Copertina, con un disegno di Corazza, de «L’Orto»
all’epoca del suo terzo periodo (Bologna, Edizioni
Aristide Lombardini, 1934).
Le stagioni dell’«Orto»
al vecchio. Per esempio le copertine potrebbero essere molto chiare, colori neutri, con caratteri neri e disegno colorato».39
Con la gestione di Giorgio Vecchietti si avvia dunque la terza fase dell’«Orto», che vede la progressiva affermazione della
rivista a livello nazionale. Vecchietti aveva probabilmente già da allora cominciato ad aspirare ad un ruolo a Roma, e pertanto
si intensificano i contatti con personalità di rilievo appartenenti al Regime insieme ad una linea politica di chiaro appoggio
nei riguardi di Mussolini. Dal 1934 una firma importante che comparirà sull’«Orto» sarà quella del già citato ministro Bottai,
contattato dallo stesso Vecchietti, che così annuncia la nuova collaborazione: «una buona novità: Bottai mi ha risposto con
una lettera affettuosa e lusinghiera e dice: “A furia di lavorare nell’arido campo politico la mia mano ha perduto la delicatezza
necessaria alle opere ‘ortive’. Mi ci proverò: quale tema vi interesserebbe?”. Ho subito risposto con qualche suggerimento.
Attendo».40 Una linea, questa, che darà i suoi frutti, tanto che dopo poco Vecchietti stesso potrà scrivere a Marchiori: «Ho una
grande novità: Bottai ha parlato di me al Duce, mi ha indicato per il sottosegretariato Stampa e Propaganda. E il Duce, attento!; ha accolto la mia indicazione con parole molto “affettuose” per me […]. È tanto più necessario stringersi vicini: io sono
l’uomo di punta del gruppo».41 Coronamento di questa escalation dell’«Orto» sarà l’incontro dell’intera redazione con Mussolini.42 Il dettagliato resoconto dell’episodio appare nell’articolo dal titolo a tutta pagina L’Orto dal Duce, sul n. 3 del 1935, dove
si legge: «Il Duce ha ricevuto la redazione della rivista letteraria
bolognese “L’Orto”, composta dai camerati Giorgio Vecchietti,
direttore, Giannino Marescalchi, Otello Vecchietti, Gianni Poggeschi, Giuseppe Marchiori, redattori, e Aristide Lombardini, editore, che gli hanno fatto omaggio della collezione e delle edizioni
della rivista. Il Duce ha espresso il suo gradimento». La redazione
poi commenta: «Egli ha sfogliato le collezioni della nostra rivista
e le nostre edizioni con delicata attenzione […] e ha dichiarato
di conoscere e di seguire fin dall’inizio “L’Orto” e di apprezzarne
il tono e il carattere. “Non vi resta che seguitare sulla strada che
avete iniziato”. E questa strada noi batteremo costantemente,
lieti se essa si aprirà su un terreno ben più aspro e mosso».
Sotto Vecchietti si riallacciano inoltre quei rapporti con la Toscana e il Centro Italia che con Marchiori si erano allentati a tutto
vantaggio di un incremento dei contatti con l’ambiente lombardo–veneto e con quello d’oltralpe. Rapporti assai stretti, almeno
dal punto di vista ideologico, intercorrono con gli scrittori e gli
39
Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26
septies, fasc. 236-1, lettera di Poggeschi a Marchiori datata 19 marzo 1934.
40 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26
octies, fasc. 301, lettera di G. Vecchietti a Marchiori non datata.
41 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26
octies, fasc. 301, lettera di G. Vecchietti a Marchiori datata 2 ottobre 1934.
La presentazione di Vecchietti al Duce, attraverso la mediazione di Bottai,
sortì un effetto positivo, tanto che nel gennaio del 1935 Vecchietti venne
assunto dal Ministero della Stampa e Propaganda alla Direzione Generale
della Cinematografia, come risulta da un’altra lettera inviata a Marchiori,
datata 11 gennaio 1935.
42 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26
octies, fasc. 301, lettera di G. Vecchietti a Marchiori in cui comunica che il
Duce riceverà la redazione il 10 luglio a Palazzo Venezia.
Domani di Otello Vecchietti con illustrazioni di Nino Corrado
Corazza (Bologna, Edizione dell’Orto, 1933).
13
Benedetta Basevi
artisti facenti capo alla rivista fiorentina «Il Frontespizio»,43 tra cui Carlo Bo, Carlo Betocchi e il direttore Piero Bargellini.
Lo stretto legame creatosi tra le due redazioni è dimostrato dalla costante presenza, fin dai primi numeri, dei nomi di
redattori dell’«Orto» su «Frontespizio» e viceversa, e dal successivo confluire, dopo il 1940, dei principali collaboratori di
entrambe le riviste nelle fila della più nota «Primato». È lo stesso Bargellini che, in un suo intervento su «Frontespizio» del
gennaio del 1935, ci dà un’idea dei rapporti di calorosa amicizia esistenti tra le due redazioni tali da permettere ai toscani
un’incursione a casa degli ‘Ortolani’, «Bolognesi classici, nemici del torbido»,44 dove attingere a piene mani dalle cartelle
gonfie di disegni di Poggeschi, disegni che vennero poi pubblicati nei successivi numeri del «Frontespizio».
Col ritorno della rivista a Bologna, e il venir meno dei problemi che avevano generato tensioni tra le due redazioni,
anche i rapporti con Marchiori si distendono. Ed anzi progressivamente le posizioni di Marchiori e quelle di Giorgio Vecchietti, consapevole dell’importanza che la rivista avrebbe assunto alla luce dei suoi nuovi impegni al fianco di Bottai, si
avvicinano. I due colleghi, diversamente dagli altri del gruppo (forse con l’unica eccezione di Giannino Marescalchi), sono
infatti accomunati dal desiderio di sprovincializzare la rivista attraverso un maggiore radicamento all’attualità e una sempre più viva attenzione per autori ed argomenti stranieri. Scrive Giorgio Vecchietti a Marchiori: «“L’Orto” deve avere, se
vuole campare con uno scopo, un carattere, un tono suo […]. Parleremo d’arte, di lettere, di musica, di cinematografo,
di politica (non pappagallescamente da quotidiani, ma intelligentemente da fascisti)»; e prosegue: «Riconosco, anche se
non vi ho accennato per disteso, i tuoi meriti, soprattutto durante la mia assenza: tu sei stato l’unico a tenere insieme gli
sparsi fili ‘ortolani’».45 In una lettera, verosimilmente di poco successiva, Vecchietti, che ha da poco terminato il suo servizio militare, si dice finalmente «libero di pensare alle cose che mi piacciono e desideroso di ricominciare, con più lena, a
lavorare per la nostra rivista» e insiste:
... occorrerebbe fare qualcosa per suscitare attorno alla nostra rivista quell’interesse e quella simpatia che essa riscosse al suo
apparire e al suo rinascere […] rinnovamento esteriore però che andrebbe accompagnato, col n. 1 del 1934, con una larga, radicale
rinnovazione del contenuto [...]. Occorre tornare sulla piazza letteraria e artistica, vivacemente, occuparsi di molte cose, aprire le
porte a nuovi collaboratori, illustri o ignoti, che s’adattino ai nostri gusti. Bisogna che nel 1934 il lettore informato e di gusto senta
la necessità di comprare «L’Orto» per conoscere il nostro parere sulle questioni più vive e importanti.46
L’amicizia proseguirà sempre più saldamente tanto che alcuni anni più tardi, quando l’avventura dell’«Orto» sta ormai
avviandosi a conclusione, Marchiori scrive a Giorgio Vecchietti presso il Ministero per la Cultura Popolare per chiedergli una
vera e propria ‘raccomandazione’:
Caro Giorgio, posso chiederti un immenso piacere? Lamberto Vitali, come ebreo, ha dovuto lasciare la direzione di «Emporium».
Si è ritirato dignitosamente, pesando che io potessi sostituirlo. L’impegno mi sarebbe gradito […]. «Emporium» sotto la mia direzione
potrebbe continuare un’opera intelligente a tutto vantaggio e decoro delle arti e del Regime che le potenzia. Va bene? Ma occorre
agire subito. Occorre agire tempestivamente, prima che altri si facciano avanti, prima che la rivista sia occupata da qualche discepolo
di Ojetti.
43 Fondata nel 1929 negli ambienti cattolici moderati, la rivista fiorentina aspirava, mantenendo una certa autonomia nei confronti del potere politico, a ritrovare nell’arte e nella letteratura quei valori religiosi che erano andati perduti nella società contemporanea.
44 P IERO B ARGELLINI , Gianni Poggeschi, «Frontespizio», VII, fasc. n. 1 (gennaio 1935), p. 17.
45 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera G. Vecchietti a Marchiori datata 10 febbraio
(verosimilmente del 1934).
46 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera di G. Vecchietti a Marchiori datata 5 (verosimilmente 1934).
14
Le stagioni dell’«Orto»
Il finale è però dedicato all’«Orto», perché, seppur moribondo, il primo amore non si scorda mai: «Dimmi anche se hai
ricevuto i miei scritti per “L’Orto” e i disegni di Episcopi. Un affettuoso abbraccio anche per Giannino».47
Rispetto all’edizione veneta il ritorno a Bologna vede l’incremento di articoli dedicati ad argomenti letterari col coinvolgimento, soprattutto in seguito all’intervento di Bottai Appunti sui rapporti tra Lingua e Rivoluzione nel n. 3 del 1934, dei
migliori intellettuali italiani dell’epoca, tra cui ricordiamo Antonio Baldini, Camillo Pellizzi, Bruno Migliorini, Renato Poggioli,
Ciro Trabalza. Si segnalano anche articoli di Vitaliano Brancati, Piero Bigongiari, Giovanni Comisso e dell’incisore e scrittore
Luigi Bartolini, la cui assidua collaborazione è contrassegnata da forti tensioni coi due Vecchietti.48 Non manca poi uno
sguardo sull’Europa «e in particolar modo a quella schiera, esigua ma agguerrita, di giovani intellettuali che si sono assunti
il compito non facile di avviare la loro patria verso un rinnovamento spirituale, superando le ideologie delle vecchie generazioni».49 L’allargamento dei collaboratori insieme all’originale e accattivante veste grafica provano il rinnovato entusiasmo e la
caparbietà con cui il gruppo storico dei bolognesi, nonostante le permanenti difficoltà economiche,50 continua a impegnarsi
per far sopravvivere la rivista. Ma i cambiamenti per «L’Orto» non sono ancora finiti.
Quarto periodo (Firenze, Edizioni Felice Le Monnier, aprile 1937 - dicembre
1939)
È un Giorgio Vecchietti sempre più coinvolto negli apparati del Regime (è appena
stato trasferito dalla Direzione della Cinematografia al Ministero per la Stampa e la
Propaganda) che, stanco e demotivato a causa del costante deficit economico del
«L’Orto», prende la difficile ma inevitabile decisione che segna l’ultima svolta nella
lunga e tormentata vicenda editoriale della rivista. Leggiamo da una sua lettera, non
datata ma presumibilmente dei primi mesi del 1937, inviata all’amico Marchiori:
Tu non sai tuttavia una cosa: che cioè, dopo il mio passaggio dalla Cinematografia alla
Stampa Italiana, le ore sono pochissime. Entro in questo falansterio sempre più triste, la
mattina, e ne esco la sera, tardi […]. Non potevo scrivere a te, poi, senza scrivere dell’«Orto»
e le notizie mancavano. Anzi, da tempo non si esce più perché Lombardini aveva deciso,
per molte buone ragioni economiche, di non poterlo più stampare. Ma proprio in questi
giorni ho deciso le sorti dell’«Orto». Il quale rinascerà in aprile, edito, amministrato, pagato e
diffuso da Le Monnier di Firenze: direzione a Roma. Fascicoli mensili, più ridotti di formato,
di 64 pagine, disegni limitati a testate e finali. Argomenti: tutti, dall’arte e letteratura alla
politica, sport, teatro, cinema, Africa ecc. Molta più larghezza di collaboratori, abolizione del
comitato redazionale: queste e altre le decisioni sortite dai miei colloqui con Le Monnier.51
Copertina de «L’Orto» all’epoca del suo
quarto periodo (Firenze, Le Monnier, 1937).
47 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera di Marchiori a Giorgio Vecchietti datata 30
ottobre 1939.
48 Biblioteca di San Giorgio in Poggiale, fondo L’Orto, busta 6, fasc. 5.
49 ALESSIA NEGRIOLLI, «L’Orto» (1931-1939). Saggio critico e indice informatico. Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trento, Facoltà di Lettere
Filosofia, Corso di Laurea in Lettere Moderne, Anno Accademico 2000-2001, p. 115.
50 Diverse lettere conservate in entrambi gli archivi attestano la confusione creatasi fin da subito con Aristide Lombardini, su chi dovesse
assumersi la responsabilità economica della rivista. Fu probabilmente un malinteso tra Giorgio Vecchietti e Aristide Lombardini a far sì che
gli altri, ad eccezione di Otello, credessero che Lombardini si sarebbe assunto tutte le spese della nuova edizione mentre a loro sarebbe
spettato solo il compito di pagare i debiti arretrati.
51 Biblioteca Comunale di Lendinara, archivio Giuseppe Marchiori, b. 26 octies, fasc. 301, lettera di G. Vecchietti a Marchiori datata solo «17».
15
Benedetta Basevi
La direzione sarà per ovvie ragioni spostata a Roma, dove
egli risiede già dal 1935, e farà capo a lui e a Giannino Marescalchi, ai quali dal 1939 si affianca in veste di redattore Romeo
Giovannini. Il comitato redazionale viene del tutto abolito e, se
Otello Vecchietti e l’amico Corazza continueranno a collaborare, Poggeschi già dalla seconda metà del 1936 non compare
più tra i collaboratori, perchè in seguito ad una profonda crisi
spirituale decide di prendere i voti entrando nell’ordine dei Gesuiti. Anche Marchiori continuerà a scrivere di tanto in tanto e
con lui i compagni della parentesi veneziana; tra i vecchi collaboratori rispunta Bertocchi e nel dicembre 1939 compare un
giovane Francesco Arcangeli.
«L’Orto» ha tuttavia cambiato profondamente pelle, con la
rivista ormai quasi prevalentemente dedicata alla «critica letteraria: intesa cioè ad interpretare, chiarire e definire quanto è
stato fatto o si fa nel campo, ora felice e ora tormentato, della
letteratura moderna contemporanea»,52 mentre lo spazio per
le illustrazioni e i disegni si assottiglia sempre di più. Non è un
caso che in quest’ultimo periodo il sottotitolo «Rivista d’arte e
lettere» sparisca e la copertina adotti una veste grafica rigorosamente geometrica. Il nuovo corso che «L’Orto» vuole seguire
è chiarito in una lettera che Marescalchi invia a Giuseppe Dessì,
noto scrittore e intellettuale nonché assiduo collaboratore già
dal 1934. Gli si prospetta una rivista la cui scelta dei collaboratori intende essere sempre più rigorosa e privilegiare la cronaca
come «narrazione di fatti visti e ricreati dallo scrittore»,53 con
un maggior numero di pagine e una particolare attenzione per
l’attualità cui «uno stile preciso e semplice darebbe efficacia,
[…] e sarebbe assai diverso dal consueto stile giornalistico, che
Aristane - Episodio di Otello Vecchietti con illustrazioni di Nino
sfiora ma non incide». Seguendo questo nuovo orientamento,
Corrado Corazza (Firenze, Le Monnier, 1938).
lo stesso che di lì a poco avrebbe indotto il ministro Bottai ad
un vero e proprio appello all’interventismo e alla militanza degli intellettuali in favore del conflitto bellico, «L’Orto» si avvia verso il suo canto del cigno, mutando per l’ultima volta la propria
tradizionale impostazione e decidendo di scendere in campo apertamente al fianco del Regime.
Ed è in quest’ultimo tormentato periodo, che porterà il Paese ai tragici eventi della Seconda Guerra Mondiale, che si chiude la storia della rivista e comincia quella di «Primato», diretta e fondata da Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti. Le pubblicazioni dell’«Orto» cesseranno definitivamente col n. 6-10 del dicembre del 1939; il primo numero di «Primato» esce nel marzo
dell’anno successivo, come «quindicinale di lettere ad arti d’Italia», riprendendo dunque l’originale dicitura ‘ortolana’. Legata
al mensile bolognese da un sottile fil rouge per continuità cronologica e intellettuale (la maggior parte dei collaboratori della
testata bolognese alla sua chiusura confluiscono nella redazione di «Primato»), la rivista romana assomiglia in verità molto di
52
Cfr. «L’Orto», VIII, fasc. n. 6 (agosto-dicembre 1938), p. 1.
Lettera di G. Marescalchi a G. Dessì, datata 2 aprile 1936, in FRANCESCA NENCIONI, A Giuseppe Dessì. Lettere editoriali e altra corrispondenza,
Firenze, Firenze University Press, 2012, p. 282.
53
16
Le stagioni dell’«Orto»
più al vecchio «Orto» edito da Lombardini di quanto non assomigli alla versione edita da Le Monnier.
Leggendo le ultime lettere scambiate tra i protagonisti di
questa lunga vicenda si capisce tuttavia che quella de «L’Orto» non fu una morte programmata, almeno per alcuni dei
suoi redattori, in quanto l’intenzione di proseguire c’era: il 18
maggio del 1939 Giorgio G. Cabella, giornalista collaboratore
sia dell’ultimo periodo de l’«Orto» sia successivamente di «Primato», parla di trattative per assumere la direzione dell’«Orto»
da parte di Otello Vecchietti e Nino Corrado Corazza, mentre
il 30 dello stesso mese ancora Cabella assicura a Otello «che
la notizia della ripresa dell’“Orto” con te e Corazza ha suscitato un vero plebiscito di compiacimenti».54 L’avvicendamento
tuttavia non ci sarà mai, come pure non vi sarà alcuna ripresa. Qualche mese dopo ancora Cabella, con tono più dimesso,
scrive: «Ora se tu vedi Giorgio parlagli della possibilità di cercare
un altro editore dato che Paoletti [azionista di maggioranza di
Le Monnier] ci pare che abbia poca voglia di seguitare a far lui
la rivista».55
Ma è ancora una volta Giorgio Vecchietti a decidere le sorti
della rivista, essendosi reso conto che gli scopi per cui essa era
nata sarebbero stati messi a miglior frutto con la creazione di
una nuova testata di carattere nazionale diretta assieme al ministro Bottai. Già dall’aprile del 1939, come si apprende in una
lettera inviata a Giuseppe Dessì, Vecchietti sta lavorando a «un
grande quindicinale letterario e artistico, il cui programma sottoposto al Duce è piaciutissimo: programma di cultura e civiltà
italiana, giornale aperto e selezionato, cordiale e orientativo.
Direttori S.E. Bottai ed io, editore Mondadori».56 Passano solo
Copertina de «L’Orto» diretto da Silvio Vecchietti (Bologna,
pochi mesi e questa volta è Otello Vecchietti a scrivere all’amiM.A.ANT Editrice, 2001).
co Giuseppe Dessì per comunicargli che «L’Orto sta morendo.
Però, come l’araba fenice, rinascerà (lo spero solamente per
ora) più splendente di prima, ma intanto muore».57
Ed è come l’araba fenice invocata da Otello Vecchietti, che dopo più di sessant’anni, nel 2001, grazie alla volontà di Silvio
Vecchietti, figlio di Otello, «L’Orto» è rinato. Nella sua nuova edizione Silvio Vecchietti ha voluto recuperare la veste grafica
dell’epoca di Lombardini, come pure il famoso galletto di Cervellati che campeggiava sulle copertine della prima e ormai
lontana stagione del 1931.58
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Biblioteca di San Giorgio in Poggiale, fondo L’Orto, busta 6, fasc. 3, lettera n. 3.2.
Ibidem, lettera n. 3.3.
Cfr. F. NENCIONI, A Giuseppe Dessì cit., p. 319.
Ibidem, p. 314.
L’ultimo, e decimo numero, del periodico diretto da Silvio Vecchietti risale al 2007.
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