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IL VISCHIO E LA VECCHIAIA. NOTA SU FURIOSO XXIV, 1-2

2017, ITALIANISTICA Rivista di letteratura italiana PISA · ROMA

In questo breve articolo viene proposta una possibile correzione a un verso del Furioso («a chi in amor s’invecchia > s’inveschia»), in relazione alla coerenza metaforica complessiva e a varie analisi intertestuali. Per la versione originale completa, contattare [email protected]

issn 0391-3368 issn elettronico 1724-1677 ITALIANISTICA Rivista di letteratura italiana ANNO XLVI · N. 3 SETTEMBRE/DICEMBRE 2017 estr atto PISA · ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE MMXVII SOMMARIO saggi Francesco Sberlati, «Il regno dei gesuiti». Olindo Guerrini e la letteratura barocca Ida Duretto, «Quel poco che ancora oggi resiste». Per un commento ad Altri versi di Eugenio Montale 11 31 note Marco Signori, Alcune note a margine di Monarchia I xii Giuseppe Ledda, La navigazione come metafora testuale nei poemi epico-cavallereschi: da Pulci ad Ariosto Corrado Confalonieri, Chiara Trebaiocchi, L’arte, l’industria cinematografica e «il vario mondo che s’agita dietro lo schermo»: «In Penombra» di Tomaso Monicelli (i) Giulia Manfrina, Per un commento a Gli strumenti umani: Scoperta dell’odio, Un incubo, Quei bambini che giocano e Saba 49 67 89 111 critica e metodologia Giuseppe Indizio, Il monaco Ilaro ‘non è mai esistito’? Note su una recente ipotesi. Con due appendici Selene Maria Vatteroni, Sulla nuova edizione delle rime di Pietro de’ Faitinelli Stefano Drei, Alberto Casadei, Il vischio e la vecchiaia. Nota su Furioso xxiv, 1-2 Enrico Tatasciore, Montale e Pseudo-Montale. Un libro sul Diario postumo, e ancora qualche novità letteratura d ’ oggi Riccardo Socci, «E sto dove non stavo»: linee evolutive nella poesia di Valerio Magrelli 139 165 175 179 227 bibliografia Justin Steinberg, Dante e i confini del diritto (Sebastiano Italia) Luca Fiorentini, Per Benvenuto da Imola. Le linee ideologiche del commento dantesco (Paolo Pizzimento) Giambattista Casti, Novelle libertine inedite e disperse, a cura di Cecilia Gibellini (Raffaella Bertazzoli) Roberto Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista (Floriano Romboli) Franco Loi, Biagio Marin, Lettere 1981-1985, a cura di Edda Serra (Alberto Sisti) Angelo Gaccione, Carlo Cassola, Cassola e il disarmo. La letteratura non basta (Lettere a Gaccione 1977-1984), a cura di Federico Migliorati, Angelo Gaccione (Lorenzo Giordani) 239 241 243 246 248 250 Sommario Silvia Albertazzi, Letteratura e fotografia (Lorenzo Giordani) 252 Notiziario 255 Libri ricevuti 265 Norme redazionali della casa editrice 269 IL VISCHIO E LA VECCHIAIA. NOTA SU FURIOSO XXIV, 1-2* Stefano Drei · Alberto Casadei In questo breve articolo viene proposta una possibile correzione a un verso del Furioso («a chi in amor s’invecchia > s’inveschia»), in relazione alla coerenza metaforica complessiva e a varie analisi intertestuali. In this short article a correction is proposed for a line of the Orlando furioso («a chi in amor s’invecchia > s’inveschia»), in relation to the overall metaphorical coherence and to various intertextual analyses. I l lettore dell’Orlando Furioso, a cui fin dall’esordio Ariosto ha promesso di raccontare, «cosa non detta in prosa mai né in rima», come il più saggio fra i paladini sia precipitato nella follia, dovrà attendere a lungo prima di vedere mantenuta la promessa, e quindi giustificato il titolo del poema. Di tutti gli incipit ariosteschi, quello del canto xxiv, relativo alla pazzia compiutasi alla fine del precedente, è forse il più celebre e propone una precisa riflessione di carattere gnomico: 1 Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de’ savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch’altro segnale. E quale è di pazzia segno più espresso che, per altri voler, perder se stesso? 2 Vari gli effetti son, ma la pazzia è tutt’una però, che li fa uscire. Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vo’ dire: a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena, si convengono i ceppi e la catena. * Per le citazioni delle tre edizioni si fa riferimento a Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, ed. critica a cura di Santorre Debenedetti, Cesare Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1960; per confronti puntuali si è anche fatto ricorso al testo della princeps a cura di Marco Dorigatti, con la collaborazione di Gerarda Stimato, Firenze, Olschki, 2006. I testi di altri autori sono citati secondo le edizioni digitalizzate nella Biblioteca Italiana Telematica (Bibit), dove sono disponibili anche riproduzioni dei Frammenti autografi ariosteschi. Questo lavoro parte da un’intuizione e da una prima versione di Stefano Drei ed è stato poi interamente rivisto assieme ad Alberto Casadei. https://doi.org/10.19272/201701303009 · «italianistica», xlvi, 3, 2017 composto in car attere serr a dante dalla fabrizio serr a editore, pisa · roma. stampato e rilegato nella tipo gr afia di agnano, agnano pisano (pisa). * Dicembre 2017 (cz 2 · fg 21)
Il vischio e la vecchiaia Un’annotazione sul canto XXIV dell’Orlando Furioso Il lettore dell’Orlando Furioso, a cui fin dall’esordio Ariosto ha promesso di raccontare, «cosa non detta in prosa mai né in rima», come il più saggio fra i paladini sia precipitato nella follia, dovrà attendere a lungo prima di vedere mantenuta la promessa, giustificato il titolo del poema. Il celeberrimo episodio occupa la sequenza finale del canto XXIII e quella iniziale del XXIV, si colloca dunque esattamente al di qua e al di là del baricentro del poema, costituito da quarantasei canti. Va precisato che l’episodio acquisisce centralità solo nella terza e ultima edizione; chi leggeva il poema nella prima e nella seconda lo trovava già assai simile alla redazione definitiva, ma a cavallo fra il ventunesimo e il ventiduesimo, dunque oltre la metà dei quaranta canti di cui allora si componeva l’opera.1 È inevitabile comunque che, nell’assetto definitivo dell’opera, assuma un’evidenza speciale l’intervento del narratore che all’inizio del canto XXIV funge da spartiacque fra le due sequenze.2 Di tutti gli incipit ariosteschi, questo è certamente è il più celebre, dopo quello del canto primo. Il passo non manca in nessuna scelta antologica; si tende spesso a vedere nelle riflessioni lì espresse dal narratore il “sugo della storia” tutta. 1 Chi mette il piè su l'amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v'inveschi l'ale; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de' savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch'altro segnale. E quale è di pazzia segno più espresso che, per altri voler, perder se stesso? 2 Vari gli effetti son, ma la pazzia è tutt'una però, che li fa uscire. Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vo' dire: a chi in amor s'invecchia, oltr'ogni pena, si convengono i ceppi e la catena. Il tono perentorio dell’esortazione verrà smentito nell’ottava successiva, in cui il moralista si rivelerà maestro di vita inattendibile, medico che solo grazie a un «lucido intervallo» di consapevolezza è capace di riconoscere la malattia di cui egli stesso è affetto; non certo di curarla. Qualcosa di simile accadeva nel canto primo, quando alla diagnosi della pazzia di Orlando faceva seguito quella dell’autore stesso. 1 Le scansioni di tutte e tre le edizioni, nonché dei frammenti autografi (vedi nota 8) sono ora liberamente accessibili on line all’indirizzo http://www.bibliotecaitaliana.it (consultato il 7 febbraio 2017). 2 Nelle prime due edizioni, il canto XXII iniziava a metà pagina, seguendo il normale flusso del testo. Nella terza, l’incipit del canto XXIV (e di pochi altri canti) inaugura il recto di una nuova carta. Non escluderei che la coincidenza sia stata determinata da calcolata geometria compositiva. Nel passo si affollano riferimenti letterari che i commentatori hanno avuto buon gioco a segnalare: Orazio, Ovidio, Dante, Petrarca, Pulci, Poliziano, Bembo; ed è un catalogo incompleto.3 Minore attenzione è stata rivolta a una piccola smagliatura nella tessitura retorica del passo, costituita da quel «chi in amor s'invecchia» del verso 2,7, che compare, pressoché identico,4 anche nelle prime due edizioni. Che c’entra la vecchiaia? Principiis obsta ci sta dicendo il nostro moralista. O meglio, rifuggi dal secondo passo. Se non puoi evitare il primo contatto con le insidie nascoste dell’innamoramento (mettere il piede nella pania), puoi però, anzi devi evitare di assecondarle (invischiarvi le ali): rimarresti coinvolto senza scampo in quella follia d’amore di cui il furore di Orlando è solo un caso limite. Stando così le cose, non c’è dubbio che chiunque protragga la condizione di innamorato fino alla vecchiaia vada qualificato come pazzo da legare, ma questo inoppugnabile corollario appare marginale, anche perché privo di attinenza con la vicenda narrata: Orlando vecchio non è e nemmeno è destinato a invecchiare in amore; anzi non raggiungerà mai la terza età. Non si capisce dunque perché il poeta abbia sentito il bisogno di collocarlo con tale rilievo al culmine della digressione. Volendo forse attenuare l’incongruenza, qualche commentatore attribuisce al verbo invecchiarsi un’accezione un po’ diversa: «indugiare troppo a lungo, consumare la propria vita» (Caretti,5 ripreso da altri). Ma il risultato non cambia molto e una locuzione del tipo invecchiarsi in amore con questo significato è pressoché inedita, non solo in Ariosto. C’è però un’altra soluzione che sana l’incongruenza e restituisce coesione al testo: «s’invecchia» è lectio facilior per un assai più pertinente «s’inveschia», che riprenderebbe il «v’inveschi» del verso 1,2 concludendo efficacemente ed elegantemente la digressione. A questa soluzione ci indirizzano diversi segnali: le frasi relative che aprono e chiudono il passo si richiamano a vicenda con più riprese lessicali («CHI mette il piè su l'AMOROSA ... non v'INVESCHI» / «CHI in AMOR s'INVESCHIA») e il richiamo è rafforzato dalla doppia locuzione avverbiale «per concludere», «in somma». Come a ribadire che il distico finale costituisce il condensato, la summa di quanto sostenuto nelle due ottave; non un'aggiunta. Va ricordato inoltre che, rispetto alla vecchiaia, la metafora del vischio trova ben altre risonanze nella vicenda narrata: Ariosto ha poco prima paragonato Orlando all’«incauto augel che si ritrova / in ragna o in visco aver dato di petto» (XXIII, 105) e quando Astolfo volerà sulla luna vi troverà, prima ancora dell’ampolla contenente il senno di Orlando, «gran copia di panie con visco / ch'erano, o donne, le bellezze vostre» (XXXIV, 81). Anche l’uso della particella pronominale in «s’invecchia» desta qualche sospetto. La forma invecchiarsi, benché attestata in vari autori fra cui Boccaccio, è nettamente minoritaria rispetto a invecchiare: se Ariosto avesse proprio voluto introdurre una divagazione sulla vecchiaia, avrebbe probabilmente scritto «a chi in Amor(e) invecchia». La forma riflessiva, o pseudoriflessiva è invece tipica dei dialetti emiliano-romagnoli:6 si può dunque ipotizzare un tipografo ferrarese (edizione del '16) che sbaglia componendo sotto dettatura, oppure normalizza a orecchio (o forse per ipercorrettismo). È vero che Ariosto scrive una volta «s'invechiasse Ruggier più di Nestorre»,7 ma lì l'apostrofo elide un se, non un si (anche se Ruggero vivesse più a lungo di Nestore). 3 Il «lucido intervallo», congiunto con l’«insania» della prima ottava, è, più che reminiscenza, allusione esplicita agli «intervalla insaniae» che secondo san Girolamo consentirono a Lucrezio, impazzito per avere assunto un «poculum amatorium», di comporre il suo poema. Nessuna edizione commentata ne fa però menzione. 4 Per la precisione: «a chi i amor ś invecchia oltra ogni pena» (1516), «a chi in amor śe ĩvecchia oltra ogni pena» (1521). 5 LUDOVICO ARIOSTO, Orlando Furioso, a cura di Lanfranco Caretti, in Orlando Furioso e opere minori, MilanoNapoli, Ricciardi, 1954, vol. 2, p. 1000. 6 «Invccirs», con suffisso pronominale, è l’unica forma registrata in CARLO Azzi, Vocabolario domestico FerrareseItaliano, Ferrara, Fratelli Buffa, 1857, p.153. Il Nuovo vocabolario storico-etimologico del dialetto ferrarese di ROMANO BAIOLINI e FLORIANA GUIDETTI, Ferrara, Edizioni cartografica, 2008, p. 494, riporta sia Invciàr sia Invcìrs. 7 VII, 44, 8. «Invecchiasse» nella prima edizione. Lo scempiamento della c, benché accolto nell’edizione critica, non può che essere un altro refuso, trascorso indenne dalla seconda alla terza edizione: Ariosto scrive sempre vecchio con Purtroppo, ci manca la possibilità di acquisire sugli autografi la prova definitiva. Come è noto, nulla è sopravvissuto del manoscritto del 1516; di mano dell’autore ci restano solo carte contenenti le aggiunte del ’32, ora quasi tutte accessibili anche on line.8 La loro consultazione può fare insorgere un’obiezione: in esse Ariosto usa abitualmente la lettera ś “lunga” davanti alla c dura (e la s “corta” davanti alla c dolce). È improbabile che inveśchia scritto con la ś lunga sia stato scambiato in tipografia con invecchia. Ma, anche a non tener conto del fatto che si tratta di testi cronologicamente poco pertinenti, l'obiezione si supera facilmente se si è ipotizzato un errore dell'orecchio anziché dell'occhio. Inoltre, a un controllo più accurato, si trovano non poche incoerenze negli stessi usi grafici di Ariosto.9 L’obiezione più forte è un’altra: una volta assodato che la forma «s’invecchia» fece la sua comparsa nell’edizione del ’16 come lectio facilior, come si spiega che Ariosto non sia intervenuto a correggere l’errore in nessuna delle due edizioni successive? Qui possiamo solo avanzare congetture. Non possiamo escludere che Ariosto abbia consapevolmente rinunciato a correggere l’errore, convalidando retroattivamente un’allusione all’invecchiamento in amore, incongrua per Orlando ma diventata pertinente per lo stesso Ludovico, che entrerà in scena nell’ottava successiva (eppure anche la metafora della pania con vischio non era priva di potenziale autobiografico). Ma nemmeno l’ipotesi della doppia svista va esclusa. Molto sappiamo sulle travagliate vicende che accompagnarono le tre stesure e molto è stato scritto sulla tipologia delle varianti e sulle motivazioni che ad esse presiedono; ma molto irrimediabilmente ci sfugge. Sappiamo che né nel ’21 né nel ’32 Ariosto portò in tipografia un nuovo manoscritto: tutte e due le volte lavorò su correzioni apportate alla stampa precedente e ciò rende un po’ meno sorprendente una doppia distrazione, in un’opera di tali dimensioni.10 Abbiamo anche visto che il passo, cruciale per il lettore moderno, non appariva tale al lettore dell’epoca. Comunque, nemmeno le stampe rimaneggiate dall’autore si sono conservate. Depone certamente a favore della doppia svista la ben nota aneddotica biografica che ritrae Ariosto come un uomo assai distratto. Ora si tende a dare minore importanza a questi aneddoti, nello zelo di contrastare un’immagine stereotipata del poeta, di ascendenza romantica. Salvo poi recuperare la distrazione come sola spiegazione di certi refusi. «Era distrattissimo» scriveva già Santorre Debenedetti. E poi: «Molte cose si attribuiscono agli stampatori, ma chissà quante volte la colpa è proprio di lui, di messer Ludovico, un distrattone così distratto che più non si potrebbe dire».11 Il poeta era infaticabile negli interventi, nelle limature che apportava al testo prima, dopo e anche durante la stampa; nonostante questo (o forse proprio per questo) non dobbiamo attribuirgli l’acribia del filologo. Basti vedere gli errata corrige posti in calce alle prime due edizioni. In quella del 1521, dopo avere elencato in poco più di mezza pagina alcuni errori senza molto ordine, l’autore se la sbriga invitando il lettore a trovare gli altri e correggerli da sé: «Questi et simili falli potrà il lettore facilmente conoscere et con poca fatica correggerli». Che è appunto, a prescindere dalla fatica, ciò che si è tentato di fare qui, dopo cinque secoli. Questa è la versione originale. Per chiarimenti, [email protected] due c. Ma vedi la Nota al testo in LUDOVICO ARIOSTO, Orlando Furioso, a cura di Santorre Debenedetti e Cesare Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1960, pp. 1689, 1691. Naturalmente, se invechiare con una sola c appartenesse veramente all’usus scribendi di Ariosto, questa sarebbe un’altra prova dell’inautenticità di «s’invecchia». 8 Per la descrizione di questo materiale, vedi CONOR FAHY, L’«Orlando Furioso» del 1532. Profilo di un’edizione, Milano, Vita e Pensiero, 1989, p. 133. Il materiale ora fruibile in rete (vedi nota 1) corrisponde a quello posseduto dalla Biblioteca Ariostea di Ferrara, quindi alla massima parte degli autografi superstiti. 9 Vedi ad esempio la grafia di «scorta»: carta 31v, riga 1. 10 Peraltro, più che la doppia distrazione d’autore, può sorprendere la secolare disattenzione della critica nei confronti di una lectio facilior che a posteriori appare piuttosto evidente. 11 LUDOVICO ARIOSTO, Orlando Furioso, a cura di Santorre Debenedetti, Bari, Laterza, 1928, vol. 3, pp. 413, 433-34.