Academia.eduAcademia.edu

Lettere per un teatro amico

Mirella Schino e Ferdinando Taviani scrivono su un teatro che conoscono e amano da molti anni: il Teatro Due Mondi di Faenza

Mirella Schino – Ferdinando Taviani Lettere per un teatro amico Mirella Schino: Ho sentito parlare di amore, per definire i rapporti tra spettatori e teatri quando sono intensi. Se sono più tranquilli, ma sempre coinvolti, si parla di interesse. Di rado, invece, si parla di un altro sentimento: l’amicizia. Eppure, l’amore può scomparire senza lasciare altra traccia che un po’ di stupore, mentre l’amicizia implica parità, un dialogo senza fine: è un sentimento forte. Forse, benché sia passato più di un secolo da quando il teatro era arte minore, è ancora difficile considerarlo in termini di rispetto, e le passioni diventano la soluzione più semplice. Il Teatro Due Mondi, per me, sono cinque persone, Alberto, Angela, Renato, Maria, Tanja. Tre di loro le ho conosciute più di trent’anni fa. Dei molti teatri che conoscevo allora, negli anni del largo movimento di giovani teatri, non tutti legati all’esempio dell’Odin o all’insegnamento di Grotowski, ma spesso pronti a raccogliersi intorno alla loro forza catalizzatrice, sono ancora in contatto con ben pochi. Provo un interesse vero solo per pochissimi teatri. Per il Teatro Due Mondi, e per un paio di altri, non di più, amicizia. Ci siamo conosciuti a un incontro voluto da Eugenio Barba. A lui e al suo teatro, a Nando Taviani e al suo gruppo di “professori” un po’ folli, noi, giovani studiosi di allora, dovevamo in quegli anni la possibilità di girare, di incontrare studiosi di altri paesi, e soprattutto gente di teatro: gente strana, che parlava di cose di cui gli altri teatranti non si occupavano e che allora, a noi della generazione più giovane, sembravano perfino un po’ faticose. Parlavano di lavoro, preparazione, precisione, energia, passione, etica. Sembravano divertirsi troppo poco. Non sapevamo, allora, quanto tutto questo fosse non sempre perfettamente bello o positivo, ma certo raro e particolare, ed eravamo quindi sensibili soprattutto alla ripetizioni di queste parole o slogan un po’ forti, che sembravano talvolta assorbiti e ripetuti un po’ troppo per l’imitazione anche inconscia che si ha nei confronti di un modello molto amato. Non immaginavamo neppure quanto fosse fragile e peritura la rete che ci trascinava tutti insieme in giro per l’Italia e per il mondo a conoscere questa gente strana, ma, almeno, fortemente motivata. Spesso ci sembrava, al più, una noia: perché non potevamo stare a casa a studiare, come tutti i giovani studiosi vorrebbero e dovrebbero fare? Non potevamo. Non si può certo dire che andassimo in giro costretti, che altri avessero deciso per noi. Se fosse stato così, non avremmo scelto come punti di riferimento persone come Taviani, Cruciani, Meldolesi o Ruffini, per quanto fossero ottimi studiosi. Li avevamo scelti noi – Gerardo Guccini, Stefano Geraci, Cristina Valenti, Raimondo Guarino e io – consapevolmente o inconsapevolmente perché erano grandi intellettuali, ma anche persone uniche, per niente ortodosse, sempre sorprendenti e molto appassionate. Inoltre, prepotenti. La loro tempesta intellettuale – passione, arroganza e intelligenza, mescolate insieme, sono come nitroglicerina – ci affascinava. Alcune delle persone di teatro strane che incontravamo erano belle e – avrebbe detto Nando – luminose. Spesso avevano avuto vite avventurose, fatte di scelte estreme, viaggi, dedizione. Qualche anno dopo, ricordo che ne raccontavo a mia figlia bambina, e lei mi stava a sentire come se le raccontassi fiabe. Noi “giovani” studiosi ci trovammo a contemplare sistemi di relazioni complessi, intrecci tra vita privata e lavoro, sistemi di parentele, di passaggio e trasmissione del sapere. Definire “vita di gruppo” tutto questo groviglio intricato, oscuro, spesso mescolato e inquinato da sentimenti extra-lavorativi è riduttivo. Era, piuttosto, uno spaccato della complessità delle relazioni che il teatro, qualsiasi teatro, deve mettere in atto per nascere e sopravvivere. Era, tra le altre cose, una fondamentale indicazione di lavoro per noi studiosi. Forse a noi giovani studiosi questi teatri anomali non piacevano per motivi uguali a quelli per cui piacevano alla generazione più vecchia. Forse ad alcuni di noi sembravano fin troppo innamorati, dell’Odin, di Grotowski, dei “professori”, o di tutto insieme. Forse ci sembrò allora che si parlasse un po’ troppo di etica. Ma certo era un mondo che valeva la pena conoscere, valeva tutto il tempo che abbiamo speso con loro, e anche di più. Inoltre, farsi fratelli dei teatranti (per usare una espressione precisa e tagliente di Claudio Meldolesi), si rivelò essere un aiuto molto utile, per uno studioso. Fornisce una esperienza del teatro anche spicciola, materiale, di vita e non solo di mestiere, che aiuta anche nello studio del passato. Lo scoprimmo un po’ dopo: questo tipo di esperienza è l’unico strumento che riesce a fendere la superficie del teatro, e a dare la possibilità di immergersi nelle sue complicate e inaspettate viscere. Vedere gli spettacoli, conoscere dall’esterno non basta. Bisogna essere fratelli di qualcuno, per poter decifrare le tracce di un’arte come questa. La conoscenza con il Teatro Due Mondi avvenne nel corso di un incontro di qualche giorno a Frascati, nell’aprile del 1989, organizzato dal Teatro Potlach di Fara Sabina e immaginato da Eugenio Barba. Ricordo poco di questo appuntamento, quasi soltanto uno spazio in cui si succedevano dimostrazioni di teatri “giovani”, ognuno dei quali, a quel che ricordo, presentava un frammento di spettacolo e se stesso. Eravamo sedute vicine, Cristina Valenti e io, annoiandoci, credo, mortalmente. Ricordo, però, l’apparizione di Angela e Renato. Forse colpirono anche perché lo spettacolo che presentavano non aveva nulla a che fare con la “impronta Odin”. Era un frammento del loro Ubu, del 1988. Mi piacque Angela perché non aveva la bellezza canonica delle giovani prime attrici, sia pure del terzo teatro: piccola e forte, con grandi occhi, glauchi e potenti, un caso evidente di indifferenza alla grazia, alla leggerezza. Mi piacque, subito, moltissimo, con la sua spada e il suo scudo, i suoi movimenti, che ricordo un po’ da marionetta. E apprezzai allo stesso modo Renato, perché era ugualmente efficace in modo opposto, misurato, leggermente ironico, come se tra sé e sé sorridesse comunque. Colpirono – e non solo me – perché a quei tempi si parlava molto di precisione ma a noi, nella nostra ancora giovanile arroganza, sembrava di vedere in giro soprattutto pressappochismo e approssimazione. E in loro, invece, appariva finalmente, con evidenza, una ricerca di precisione. Ma soprattutto forza. E poi c’erano quegli occhi grandi, potenti, ma in qualche modo timidi, di Angela. Ci sedemmo al loro tavolo, Cristina e io. Chiacchierammo a lungo, scoprendo così che, se erano tanto più bravi degli altri “teatri giovani”, non era un merito, perché, come teatro, non erano affatto giovani, avendo una decina d’anni di vita. Erano giovani solo di età: avevano iniziato a scuola, adolescenti. Che è, secondo Jerzy Grotowski, e non è poco, l’unica età, o la più tarda, in cui un attore dovrebbe iniziare la sua difficile strada. Come persone non risultarono, allora e in seguito, diverse da come apparivano come attori: precisi e pignoli nella ricerca di un artigianato solido, di un canto perfetto. Pieni di un buon senso indistinguibile da una ventata di follia. Capaci di solidarietà. Capaci di aiutare. Capaci di pietà, di comprensione. Le loro radici erano (sono) profondamente politiche, e anche questo mi piacque. Erano (sono) coraggiosi e oculati. Qualche anno dopo, mi è capitato di sentire Alberto Grilli dire che loro erano un teatro che non aveva debiti: per poter chiudere in qualsiasi momento. Non so se sia ancora così, e probabilmente sarebbe impossibile. Però era un sintomo di oculatezza, e nello stesso tempo sembrava rispondere a un bisogno più profondo: cancellare le proprie tracce, proprio nel momento in cui, attraverso il teatro, si cerca di inciderle più profondamente. Poter sempre sparire. Non aver paura. Non subire ricatti dal denaro e dal bisogno di proteggere. Eravamo dunque sedute a tavola con loro, Cristina e io, e li interrogavamo a tutto spiano (più Cristina di me, essendo più preparata e disinvolta). Siamo, entrambe, ancora adesso molto legate a questo teatro, in modo differente, perché Cristina Valenti continua ad avere competenze nel teatro pratico che io non ho. Ma siamo entrambe ancora amiche del Teatro Due Mondi, dopo questo pranzo di quasi trent’anni fa, e mi sembra che voglia dir qualcosa. Da questi trent’anni vengono alcune immagini. Non sono solo ricordi personali: sono le fondamenta di una amicizia. Segnano il perimetro di un teatro che stimo. Il punto di partenza è la tecnica. Sono stata al Teatro Due Mondi nel primo dei molti viaggi-studio che ho organizzato per i miei studenti, ventisei anni fa. E, in seguito, anche per altri viaggi, con altri studenti. Dopo l’incontro a Frascati, avevo visto uno loro spettacolo per intero. Era La piccola casa dei grilli, del 1991, che portava in scena la sola Angela. Dopo tanti anni, non ricordo di che parlasse lo spettacolo (perdonami, Gigi, ma i testi del teatro sono la prima cosa che dimentico), ma ricordo invece ancora molto bene il modo in cui, nello spettacolo, Angela si piegava, raccoglieva qualcosa, si girava. Era vestita da donna, questa volta, non era un guerriero. C’era come un sospiro, al posto della arrogante intensità da marionetta dell’Ubu. Ritrovai ciò nonostante la forza e la precisione, intatte. Non erano state un caso, dunque. Così, decisi di portare i miei studenti di allora, torinesi, in gita a Faenza. C’era con noi una bambina, mia figlia. I Due Mondi ci portarono in una sala di lavoro piccola, bassa, dove ci sedemmo per terra, contro il muro (eravamo in tutto non più di una quindicina di persone). Gli attori fecero, nel mio ricordo, pezzi di training e poi una marcia circolare, con tamburi, voci, grancasse. Erano frammenti di quella che sarebbe poi diventata la Visita guidata al Teatro Due Mondi. La bambina al mio fianco li guardava, a bocca aperta, in silenzio, con mio sollievo. Rimase così, assorbita, per tutti e due i giorni della visita. Messi di fronte a un teatro per adulti i bambini reagiscono agli aspetti concreti, azioni e suoni, non ai testi, e non alle storie (a meno che non siano testi immaginati per loro). Restano sostanzialmente indifferenti alla bellezza o alla intelligenza di partiture e coreografie, come alla capacità o alla maestria fisica. Reagiscono, probabilmente, essenzialmente al modo in cui è stato orchestrato l’impatto dei corpi degli attori sui corpi degli spettatori. In genere, quando si fa uno spettacolo il corpo può avere una grande importanza visiva, anche emotiva. Più raramente, si prende in considerazione l’impatto fisico che ha su chi guarda. I bambini non sono affatto giudici migliori di noi adulti, perché il teatro ha molti altri strati e loro, nel teatro per adulti, in genere reagiscono positivamente a uno solo di essi. Che da solo sarebbe un po’ poco: però, è la base. Dopo la tecnica, c’è la politica. Qualche anno fa, nel novembre del 2011, eravamo alla inaugurazione della Casa del teatro degli Artisti Aquilani. Ha sede nell’unica nuova piazza creata nell’infinita schiera di casette-dormitorio costruite per la distrutta città dell’Aquila. Ci furono vari giorni di festa, per inaugurare questa nuova Casa. Vennero artisti e studiosi, ci furono spettacoli, canti e discorsi. La piazza sembrava molto fragile, più vicina a un desiderio che a una realtà: pochi edifici, in mezzo al nulla, la speranza di una piazza. Il calore emanato dalla neonata Casa del Teatro era grande e necessario. Alberto Grilli portò un discorso su una azione di teatro politico. Raccontò la loro recente esperienza teatrale con le operaie licenziate della Omsa. I suoi attori erano anch’essi all’Aquila, un po’ a sostenerlo con la loro presenza, un po’ per rispetto nei confronti degli Artisti Aquilani e della città devastata. Facevano mostra di essere grandemente preoccupati, non essendo Alberto uomo in genere di molte parole. Lo presero in giro, con grande affetto, perché si era preparato con tanta cura da aver voluto perfino scrivere per intero il suo discorso. Non lo lesse, però. Era un ottimo discorso: in seguito è stato pubblicato Alberto Grilli, Il teatro d’ogni giorno. Lettera per l’apertura di una Casa del Teatro, “Teatro e Storia”, n. 33, pp. 21-32. . Era un intervento impegnato e combattivo, appassionato. Alberto disse che era venuto all’Aquila “con l'idea che la cosa importante era dimostrare, agli altri ma soprattutto a me, che c'è ancora la possibilità di costruire, oltre a luoghi, anche relazioni vive. Per dimostrare che non siamo definitivamente soli in una trincea assediata (forse la guerra non è mai cominciata). Altri ancora sono come noi, Teatro Due Mondi: alla ricerca di amici”. Raccontò il progetto Omsa: fare spettacolo con un gruppo di operaie licenziate, fare spettacolo come forma di protesta, come manifestazione spettacolarizzata. Le sue parole colpivano, forse anche perché quelle manifestazioni di operaie stavano avendo, per una volta, un risultato concreto, portarono ad una almeno parziale riassunzione, se non certo alla riapertura della fabbrica. Ma la particolarità del suo discorso era nel fatto di avere due facce: da una parte quella politica. Attraverso Grilli, il Teatro Due Mondi dichiarò la sua volontà di aprire il teatro – la loro casa – non solo alla città, come è giusto e frequente, ma, soprattutto, a chi la casa non ce l’ha. Detto così, in modo molto semplice. Detto dopo che era già uno stato di cose reale, dopo che qualcosa era già stato fatto, non come un progetto. L’altra faccia di questo discorso era invece una lucidissima e fredda constatazione tecnica: Alberto disse di aver notato come una motivazione profonda, totale, come quella per esempio delle operaie, era un equivalente della vita scenica raggiunta da un attore veramente esperto, che aveva lavorato a lungo, per anni, sulla propria presenza fisica. Era peso. Un altro punto del mio percorso riguarda gli spettacoli, uno spettacolo, in particolare: Cuore. Lo vedemmo, un ennesimo gruppo di studenti in viaggio-studio e io, un paio di anni fa, a Faenza. Avevo portato ai Due Mondi gli studenti dell’Università di Torino, poi quelli dell’Aquila, ora portavo i giovani di Roma Tre. Ci fecero vedere un frammento di Cuore, senza luci né costumi. Poi, cedendo alle insistenza di noi tutti, cambiarono i programmi che avevano fatto per noi, e ce lo fecero vedere tutto intero, ma a puntate, sempre così, nudo. Uno spettacolo bellissimo: intelligente, appassionante, divertente, di alta qualità. Da quando l’ho visto desidero rivederlo e portarlo a Roma. Il perno del libro Cuore è una classe. Gli attori dei Due Mondi impegnati in questo spettacolo sono solo tre. I bambini sono stati sostituiti da grandi pupazzi morbidi di stoffa. Fatti, ovviamente, dalle mani degli attori. In mezzo a loro, a un passo da noi spettatori, nella sala dei Due Mondi, senza luci a plasmare e ad alterare la nostra visione, sedeva un solo attore, Angela, vestita da bambino. Rideva, si voltava, prendeva appunti, dava uno scappellotto al compagno, gli prendeva qualcosa, rispondeva a un altro, spalancava la bocca, si offendeva, faceva pace, chiacchierava con il vicino, si arrabbiava, salutava un bambino nell’ultima fila. Tutto in un solo momento. I pupazzi erano, all’improvviso, tutti vivi, di fianco a lei che non era né donna né bambino, ma qualcosa di simile a una piccola, potente divinità domestica del teatro. L’ultima tappa di questo brevissimo viaggio intorno al perimetro del Teatro Due Mondi riguarda il gruppo. Benché non abbia parlato degli spettacoli di strada dei Due Mondi, né dei loro canti, né di Brecht, né di tutto quello di cui sarebbe stato più giusto scrivere, il ricordo con cui concludo riguarda la loro semplice presenza. Ogni volta che, in questi anni, è successo qualcosa che loro, attori e regista del Teatro Due Mondi, ritenevano importante, erano sempre lì. Ed erano lì tutti, in gruppo. Non ho parole per descrivere il piacere che può fare incontrarli, tutti insieme, presso l’Aquila distrutta e la sua nascente Casa del Teatro; oppure a un festival, quando c’è qualcosa di veramente interessante; a Bergamo, quando il Teatro Tascabile ha compiuto quarant’anni: o a Bologna, quando è stato ricordato Claudio Meldolesi, a qualche anno dalla sua scomparsa. Non solo c’erano, ma erano tutti lì, compatti, “la nostra delegazione di Faenza”, con riferimento al fatto che sono rivoluzionari dell’anima. La loro presenza cambia le situazioni. Il teatro è fatto di pluralità di strati e relazioni, quella tra spettacolo e spettatore non basta. I numeri migliori non sono quelli pari, che chiudono, ma i dispari, che aprono, e aiutano ad andare avanti, e permettono così ai gesti fragili del teatro di essere assorbiti, di ramificare, di attecchire non si sa dove. Il Teatro Due Mondi è un teatro che genera radici, e non per sé solo. Parigi, 11 marzo 2016 Ferdinando Taviani: Ho scritto tanto, nella mia vita, ho parlato, ho combattuto per tante idee. Adesso, motivi di salute mi hanno chiuso in una bolla (temporanea) di silenzio. Ma almeno poche righe per questo teatro amico ci tengo a scriverle. Partendo dal nome. Mi ha sempre colpito il vostro nome: Teatro Due Mondi, anche per il modo in cui vi ho visto reagire non appena qualcuno provava a chiamarvi “Il teatro dei due mondi”. Eroe dei due mondi, Teatro dei due mondi: sembrava logico, in fondo la differenza stava tutta in una preposizione articolata. Invece, la vostra reazione mostrava come dietro ci fosse qualcosa di più. Quanto meno, una scelta precisa. L’aneddoto, l’origine del vostro nome, l’ho scoperto pochi anni fa: una canzone. Avete raccontato di aver raccolto il vostro nome dal testo di una canzone famosa – Battisti e Mogol, se non ricordo male. Forse avete pensato che, capendo le origini, avrei perso interesse per il nome. Invece, per me non cambia nulla, perché le cose importanti spesso si colgono nei luoghi più disparati, lungo il bordo di una strada, vicino a uno scarico così come in un nido. Si può non accorgersi, sul momento, del valore di quel che abbiamo raccolto solo perché scintillava. Ma prima o poi si capisce di aver raccolto un diamante per poi trovarsi in tasca un pezzo di vetro, o viceversa. Tra la separazione e l’unione dei due mondi, voi avete scelto la seconda possibilità, quella di racchiudere in voi una realtà doppia. Questo è il teatro: l’unione di due mondi senza ponti tra loro. È l’emblema dell’arte dell’attore, che è se stesso, un piccolo essere umano, ed è anche una grande realtà diversa. Avrei potuto parlare di voi come di una delle poche Case del teatro autentiche che conosco. Avrei potuto scrivere sulla qualità del vostro canto, sull’artigianato teatrale, sulla vostra bravura e integrità politica, che non è mai rigidezza, e non è mai ortodossia, va dai testi di Brecht, al lavoro con i rifugiati, va dagli spettacoli con le operaie licenziate della Omsa alla semplice presenza solidale quando vi sembra che una situazione la richieda. Ho scelto invece di ricordare di voi in queste poche righe la capacità di abitare in uno stesso momento due livelli differenti del reale. Di essere persone dalle mani abili, persone di buon senso, che pensano alla solidarietà in termini fattivi e concreti, e di rimanere però sempre sognatori come solo possono essere i poeti. In queste settimane passo molto tempo in poltrona, e mi vengono alla mente più del solito frammenti di poesie, versi amati, citazioni a brandelli. Penso a qualcosa o a qualcuno, e mi appaiono versi. Così, quando ho preso la penna in mano per scrivere di voi, mi sono trovato invece a tracciare sulla carta qualche riga famosa di Borges, pochi versi che amo, quelli di Ariosto y los árabes. Ve li dedico, perché spiegano, molto meglio di quanto non potrei fare io, la qualità di Alberto e dei suoi compagni, che, come accade solo di rado, sono, nel lavoro, come una persona sola, un poeta più grande di quanto può essere un singolo individuo. Anche a questo individuo, o poeta, formato da un intero gruppo: Como a todo poeta, la fortuna O el destino le dió una suerte rara: Iba por los caminos de Ferrara Y al mismo tiempo andaba por la luna. Così siete anche voi: doppi. La sola differenza è che le vie che percorrete non sono quelle di Ferrara, ma di un’altra città, vicina, oppure, quando siete in tournée, di tutti i possibili mondi, uno, due o più. La luna che vi ospita e vi guida rimane sempre la stessa. Roma, 11 marzo 2016 1