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Teatro e letteratura
di Marzia Pieri
1.1
La preistoria
All’idea bizzarra e radicata che il “teatro” – insieme alla “poesia” e alla
“prosa” – sia uno scomparto della letteratura si contrappone specularmente la risentita asserzione che le sia totalmente estraneo. Eppure, sgombrato preliminarmente il campo dal tenace pregiudizio, così
invadente nei manuali, dell’esistenza di un’autosufficiente letteratura
teatrale, resta il fatto che entrambi declinano in modo diverso qualcosa
di comune, e cioè la predilezione umana per le storie:
Decine di migliaia di anni fa, quando la mente umana era giovane e i nostri
progenitori ancora poco numerosi, ci raccontavamo storie. E ora, decine di
migliaia di anni dopo, ora che la nostra specie domina in tutto il pianeta, la
maggior parte di noi discute energicamente intorno ai miti sull’origine delle
cose e ancora ci emozioniamo per una sbalorditiva quantità di racconti di
finzione che leggiamo sui libri, vediamo a teatro o sugli schermi: storie di
crimini, storie di sesso, storie di guerra, storie di intrighi, storie vere e storie
false. Abbiamo, come specie, una vera dipendenza dalle storie. Anche quando
il corpo dorme, la mente sta sveglia tutta la notte, narrando storie a se stessa
(Gottschall, 2014, pp. 9-10).
La sopravvivenza dell’homo fictus – che governa l’immaginario producendo racconti – accanto ai cacciatori e ai guerrieri garanti della
sopravvivenza materiale della tribù è un enigma che intriga gli evoluzionisti, ma anche un possibile punto di partenza per la riflessione che
ci accingiamo a tentare. Il teatro e la letteratura sono parenti stretti in
quanto dispositivi di trasmissione di fabulae che tramano la vita individuale e collettiva, la animano e le danno senso, scandendone le fasi;
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entrambi hanno a che fare con la parola, detta e ascoltata, poi scritta
e letta, quindi confluita entro un archivio di svariate immaginazioni
ricalcate sull’imitazione della realtà, secondo il ben noto principio
oraziano dell’ut pictura poesis.
La natura e l’origine dell’istinto di narrare e di recitare sono state
molto esplorate in chiave storica e antropologica, e i più antichi documenti teorici che hanno affrontato la questione – cioè la Poetica di
Aristotele, nella Grecia del iv secolo a.C., e il Nāṭ yaśāstra di Bhārata il
Saggio (un nome dietro il quale si nascondono più autori), collocabile
in India fra il ii secolo a.C. e il ii secolo d.C. – registrano reciproche,
interessanti consonanze. Entrambi raccontano le origini e la funzione
del teatro, un fenomeno emerso dall’oralità narrativa in forme dialogiche e rappresentative, impastato di mito, veicolato dalla parola, dalla
musica e dalla danza, e condiviso comunitariamente come strumento
di conoscenza mediato dal piacere della passione. Dono degli dei agli
uomini nella prospettiva indiana, alta esperienza comunitaria secondo
Aristotele.
Negli anni Trenta del xx secolo – durante il suo malinconico viaggio sulle tracce della civiltà india già agonizzante mentre in Europa si
addensava la tragedia della guerra – il grande antropologo francese
Claude Lévi-Strauss racconta in Tristi tropici l’emozione di incontrare
il teatro nascente, in forma di recita drammatizzata di un racconto, in
un villaggio remoto nel cuore della foresta amazzonica: sul far della
sera il capo tribù
già disteso nella sua amaca, a un tratto cominciò a cantare con una voce lontana ed esitante che sembrava appena appartenergli. Immediatamente due
uomini, Walera e Kamini, vennero a rannicchiarsi ai suoi piedi, mentre un
fremito di eccitazione attraversava il piccolo gruppo. Walera lanciò qualche
richiamo; il canto del capo si fece più distinto, la sua voce si affermò. E di
colpo capii a che cosa stavo assistendo: Taperahi era in procinto di recitare
una scena teatrale o meglio ancora un’operetta, con misto di canto e di testo
parlato. Lui solo impersonava una dozzina di ruoli, ma ciascuno si poteva
distinguere per il tono di voce speciale, penetrante, in falsetto, gutturale, da
bordone; e per il particolare tema musicale che costituiva un vero leit-motiv
(Lévi-Strauss, 1960, p. 347).
Un one man show, che contiene tutti gli elementi del dramma (i personaggi, il ritmo, la musica) e ha per oggetto una fabula vicina al vissuto
degli spettatori (in questo caso gli intrighi e le rivalità per il coman16
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do fra gli animali della foresta, gabbati dal furbo pappagallo) che si
divertono insieme in una pausa festiva; Lévi-Strauss vi riconosce una
struttura nota e ricorrente, che potrebbe riferirsi allo stesso modo a
una recita giullaresca medievale, a una veglia di stalla contadina o a uno
spettacolo di narrazione dei nostri giorni.
In principio, dunque, c’è qualcuno che racconta/recita una storia
sdoppiandosi in vari personaggi con il supporto di un ritmo musicale e
di adeguate tecniche corporee; dalla narrazione (dell’aedo, dello sciamano, del cantastorie o di uno specialista qualunque di comunicazione
orale) si evolve il teatro, cioè l’azione dialogata: il mitico Tespi, per
restare alla Poetica, fa interloquire il corifeo con il coro, e così dà vita a
un’azione drammatica; in una fase arcaica di oralità il ritmo musicale
è il collante che aiuta a scandire e mappare il flusso informe della materia poetica e le tappe dell’azione scenica. Del resto sappiamo ancora
dall’antropologia che il motore primo delle relazioni sociali si struttura
precisamente intorno a un’originaria e sotterranea “musica del corpo”
preverbale, legata alla fisiologia stessa della postura eretta, che impone alla specie uomo un coordinamento poliritmico dei movimenti e
dell’andatura, e che trama sotterraneamente l’esperienza quotidiana,
in tutte le sue forme e manifestazioni.
Lo slittamento dalla narrazione epica alla mimesi drammatica
è un fenomeno che ritroviamo tutte le volte che una cultura emerge in forme scritte e codificate alla ribalta della storia. Pensiamo al
Mahābhārata indiano, ai cicli epici germanici, carolingi e bretoni, al
dramma liturgico medievale, alle narrazioni drammatizzate dei griots
maghrebini emigrati nelle banlieues francesi, che Peter Brook ha trasformato in attori shakespeariani. Prima del teatro, o accanto al teatro, c’è dunque un crogiuolo di storie fissate in “libri” di composizione
collettiva, che a un certo punto “bloccano” in forme chiuse di natura
drammatica un flusso di narrazioni; ma al centro di questo processo ricorrente – che non va, beninteso, appiattito e banalizzato – c’è sempre
la cruciale presenza dei destinatari, catturati da determinati personaggi
(Agamennone, Gesù, Lancillotto, Don Giovanni, Marguerite Gautier
ecc.) indifferentemente leggendo un libro o sedendo in platea, giacché
una larga intertestualità domina costantemente, come vedremo, i rapporti fra teatro e letteratura.
Per restare all’esempio della Grecia, in origine le tragedie estrapolano dunque frammenti di miti dal mare magnum dell’epopea, in ragione e in funzione delle esigenze del pubblico di riferimento: l’ascolto
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di un aedo che canta l’Iliade o l’Odissea è supportato e agevolato da
una serie di tecniche specifiche (riprese formulari, flashback, refrain
musicali, riassunti delle puntate precedenti) indirizzate a un’udienza
collettiva e passiva, mentre lo spettacolo tragico è una corvée sensoriale e cognitiva a cui il singolo spettatore è sottoposto sotto la propria
diretta responsabilità; deve essere costruito per questo su una griglia
strutturale ben segnalata (prologo, episodi, cori, peripezia, agnizione e
catastrofe) e, soprattutto, può contenere soltanto una porzione limitata di realtà (cioè una vicenda racchiusa entro serrate coordinate spaziotemporali), tale che egli possa memorizzarla senza troppa fatica («abbracciare il tutto con un unico sguardo», precisa Aristotele – Poetica,
1451a, #trad. ?# –, riferendosi a uno sguardo mentale, cioè a un esercizio di memoria). L’esperienza dei primi spettatori ateniesi, “obbligati”
a sedere nella cavea, senza distinzioni di censo o di sesso (sempre che le
donne fossero presenti, dato ancora controverso), dall’alba al tramonto nelle lunghe pause festive che lo Stato destinava ai concorsi tragici, e
poi anche comici, doveva essere nuova e impegnativa.
In seguito, come sappiamo, il teatro si afferma e si diffonde come
esperienza ludica ed evasiva autonoma, trasmessa anche in forme
scritte da leggere; la precettistica in materia di drammaturgia si allenta e si trasforma; il coro (originario supporter che fornisce al pubblico
naïf degli esordi appoggio emotivo e “istruzioni per l’uso” dello spettacolo) tende a ridimensionarsi fino a scomparire; gli intrecci e gli
apparati diventano sempre più complessi e fini a sé stessi. Nella partita
doppia, sempre aperta, degli scambi fra libro e scena inizia a capitare
un po’ di tutto: in palcoscenico le percentuali possibili di racconto e
di azione possono variare di molto (lo spettacolo tutto immanente
e agito dei comici dell’Arte è molto diverso dai drammi epicizzanti
di Ibsen o di Čechov, che analizzano in palco situazioni dove tutto
è già accaduto prima, per non parlare del teatro epico di Brecht, che
sollecita lo spettatore a scegliere fra vari finali possibili), così come
la scrittura può farsi letteratura drammatica “riflessa” o “potenziale”
in chiave dialogica o allocutoria: “Show, don’t tell”, raccomandava
Henry James (in compagnia, ad esempio, di Diderot, Čechov, Pirandello, Valle-Inclán o di Compton-Burnett). Il teatro può inabissarsi
carsicamente nella pagina scritta, così come il racconto può farsi più
o meno “teatrale”.
Resta il fatto che il dramma è azione e la poesia è narrazione; l’uno
si fonda sulla parola e sulla vista, l’altra sulla parola e su un genere di18
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verso di vista interiore, collegata con l’ascolto e poi con la lettura silenziosa o ad alta voce. Aristotele definisce la tragedia come imitazione di
un’azione verosimile e unitaria, rappresentata dai personaggi e dal coro
col sussidio di svariati linguaggi (musica, danza, poesia) sullo sfondo
di un apparato convenzionale, di cui gli spettatori sono in grado di
decifrare il significato sulla base di un patto condiviso e attivo. Questi
medesimi spettatori fruiscono invece dell’epica – che precede e genera
il teatro e ha a che fare col medesimo bacino di storie mitiche – in
modo collettivo e più rilassato, grazie alla mediazione dell’aedo, che
riassume in sé, con il corpo e la voce, tutti questi elementi, alternando
la narrazione in prima persona alla presa di parola dei vari personaggi
coinvolti nella vicenda narrata.
La retorica antica conserva memoria di questi processi, distinguendo tre forme di dizione, cioè di possibile comunicazione materiale dei
testi (che è cosa diversa dalla triade relativa allo stile e ai contenuti, di
cui riparleremo): quella exagematica (cioè narrativa, in cui parla soltanto il poeta), quella drammatica (in cui il poeta non parla ma parlano i
personaggi) e quella mista (in cui il poeta parla per introdurre il discorso dei personaggi); la poesia ha a che fare con la prima e il teatro con la
seconda, ma le interferenze possibili, legate alla terza, sono molteplici.
Mostrare e raccontare, rappresentare e narrare sono strettamente imparentati, e nella relazione (poco più che genealogica e niente affatto
lineare) fra narrato e agito hanno sempre contato molto le modalità di
consumo dei racconti condivisi.
1.2
Orale, scritto, digitale
Finora ci siamo riferiti a un ambito di oralità, in cui si condividono
collettivamente e “fisicamente” memorie, esperienze, fantasie e passioni, ma in verità il teatro e la letteratura, per così dire, si separano ufficialmente da quando cominciano a esistere dei testi scritti definiti
come teatrali, che negoziano in gradi diversi eventuali blasoni poetici,
rincorrendo la letteratura sul suo terreno per ragioni, spesso, meramente strumentali. È una storia avventurosa e carica di equivoci e di
mosse false, da ambe le parti (il teatro che si ammanta di letterarietà e
la letteratura che cerca di fagocitarlo), e proveremo a riassumerla qui
per grandissime linee a partire proprio dagli inizi.
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L’avvento della scrittura alfabetica nella polis greca del v secolo è
la prima delle grandi rivoluzioni mediali (la seconda è la stampa, la
terza, tuttora in corso, è il digitale, con le sue implicazioni transmediali e virtuali) che hanno sempre determinato svolte importanti nel
consumo e nella distribuzione delle storie di cui si sostanziano sia il
teatro che la poesia, e, soprattutto, hanno ogni volta inciso sulla natura
e sul senso dell’esperienza individuale e della memoria condivisa. La
Poetica di Aristotele, come si è detto, non è che un primo bilancio di
forme scritte che si definiscono appunto come letterarie e che, fino a
quel momento, restavano indefinite: «l’arte che si vale soltanto dei
nudi discorsi e quella che si serve dei metri, sia mescolandoli tra loro sia
di un’unica specie, si trovano a essere fino ad oggi prive di un nome»
(Poetica, 1447b), dichiara il filosofo, accingendosi a separare e descrivere canoni, forme e metri propri dell’epica, della lirica, della storiografia e del teatro.
All’ascolto si sta affiancando la novità della lettura e, per quanto
egli ribadisca in più luoghi che i «drammi […] imitano le persone che
agiscono» e che «la tragedia è […] imitazione di un’azione […] di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione», puntualizza che
«l’efficacia della tragedia […] si conserva anche senza la rappresentazione e senza gli attori» e che essa «produce il suo effetto anche senza
movimento […] giacché attraverso la semplice lettura si manifesta per
quel che è» (Poetica, 1448a, 1449a, 1450b, 1462a). Un’ammissione
vagamente contraddittoria, di cui si faranno scudo, in futuro, i tanti
aspiranti drammaturghi sconfitti dal palcoscenico (spesso letteratissimi), che ripiegano, con vari pretesti, sulla lettura. Fra uomini di scena e
uomini di libro si scaveranno fossati profondi: il teatro materiale degli
attori, mai all’altezza del teatro ideale sognato dagli intellettuali, si arrangerà in proprio.
Derrick De Kerckhove, uno studioso contemporaneo di teoria della comunicazione, ha identificato nell’introduzione dell’alfabeto una
svolta di grande portata di natura psicologica e cognitiva che ha avuto molto a che fare con la nascita del teatro: l’accesso dei singoli alla
scrittura (e quindi la possibilità di accumulare, per suo tramite, memorie soggettive) avrebbe segnato il decollo della civiltà ateniese, facendo dello spazio della scena «il primo modello costituito dello spazio
mentale occidentale» (De Kerckhove, 1990, p. 77), il simulacro della
nuova psiche di un soggetto totalmente responsabile di sé. L’esperienza di essere spettatori (così complessa e impegnativa, e su cui Aristo20
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tele discetta con tanta precisione in termini di pietà, terrore e catarsi)
avrebbe contribuito in modo decisivo alla formazione di una moderna
società di individui, ormai in grado di elaborare in proprio le memorie
e i sentimenti di cui si sostanziano le storie della tradizione epica, e per
questo di contribuire responsabilmente all’esercizio della democrazia.
Quando si afferma un’altra rivoluzione, quella della stampa – che
lentamente determinerà l’avvento della pratica della lettura solitaria e
silenziosa – si produce un’analoga svolta antropologica nell’Europa
occidentale: ed è in questi decenni a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento che “rinasce” un teatro drammatico culturalmente riconoscibile come intrattenimento autonomo separato dall’ascolto di liriche,
poemi e novelle, dove i personaggi delle storie si incarnano in degli attori che recitano. Nella transizione in atto fra regimi diversi di fruizione (perché a lungo le prime stampe dialogano con una perdurante produzione manoscritta di testi), gli stampatori di scritture profane (fra
cui ci sono moltissimi testi protodrammaturgici destinati alla recita)
si affidano ai cantastorie e ai buffoni per vendere la loro nuova merce,
creando con loro fruttuosi legami commerciali. Niccolò di Aristotile
detto lo Zoppino, il primo grande tipografo che a Venezia inventa il
mercato della cinquecentina teatrale in volgare, lavora in società con
il cantimpanca Vincenzo di Paolo, che va in giro per l’Italia centrale a
leggere ad alta voce i libri da vendere: i suoi sketch (in cui può recitare
ad alta voce Petrarca, i dialoghi di Luciano, un’egloga rappresentativa
o un lamento buffonesco, non importa) non sono soltanto un espediente promozionale, ma soprattutto un veicolo per intrecciare uno
scambio attivo e partecipato con il pubblico potenziale di un teatro
nascente e di una nascente cultura volgare, che promettono consolazione, divertimento, possibilità di costruire identità, comunità e partecipazione.
Oggi le nuove frontiere dei linguaggi digitali e la penetrazione
della rete in tutte le sfere della vita individuale e collettiva stanno determinando altrettante mutazioni nel nostro modo di comunicare, di
memorizzare e di relazionarci a vicenda; stanno spostando in avanti, in
direzioni inesplorate, le frontiere della corporeità, e persino incidendo
sulla nostra fisiologia neurologica. La svolta tecnologica in atto, ancora
una volta, riguarda da vicino la scrittura, la natura materiale dei testi e,
di conseguenza, la nozione di letteratura e di teatro. La scrittura non è
stata spazzata via, come qualcuno aveva previsto, dal trionfo di nuovi
media quali la radio, la televisione o il telefono, ma al contrario soprav21
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vive alla grande, intrecciando relazioni nuove con le immagini fisse e in
movimento, con la voce e con la musica; il logocentrismo della letteratura si sta rifondando nella multimedialità digitale, mentre il teatro si
misura con le trasformazioni in atto sui versanti della corporeità, delle
emozioni e delle relazioni interpersonali.
A partire dall’avvento tardo-ottocentesco della sua riproducibilità
tecnica – di cui Walter Benjamin ha intuito per primo l’importanza –
la nozione tradizionale di arte, in tutte le sue espressioni, ha subito
profonde trasformazioni: la centralità dell’opera come manufatto, i
confini fra produzione e fruizione e un certo tipo di mimesi della realtà sono venuti meno; è subentrata la pervasiva centralità dell’“evento”,
ultimissima frontiera della “società dello spettacolo” preconizzata da
Guy Debord nel 1969. In questo scenario il teatro resta l’unico medium
in grado di resistere all’abbraccio mortale della rete (dove si può leggere un romanzo o un giornale, guardare un film, ascoltare un concerto e
visitare un museo, ma non vivere l’esperienza di uno spettacolo) perché
è fondato su una relazione fisica fra attore e spettatore che nessuna registrazione audiovisiva può duplicare, e si offre allora (secondo qualcuno) come spazio-limite in cui condividere, nella contingenza occasionale della rappresentazione, le uniche possibili esperienze di senso
concesse a noi contemporanei, in cui alla verosimiglianza aristotelica
subentra il valore prezioso (e ambizioso) dell’“autenticità”: «la ormai
diffusa trasmigrazione dal concetto di opera a quello di performance
porta un’arte preistorica, come quella del teatro, al rango di paradigma
della semiosi culturale, come prima di esso solo la letteratura poteva
pretendere per sé» (Lehmann, 2011, p. 20). Il cerchio si chiuderebbe,
simmetricamente, con il sorpasso del teatro sulla letteratura che lo aveva generato.
1.3
Il fantasma del testo
Ci siamo spinti molto in là nel tentativo di tracciare una specie di
mappa satellitare d’alta quota in grado di abbracciare fenomeni disparati e lontani fra loro nel tempo e nello spazio, ed è il caso di puntare
nuovamente l’obiettivo verso terra, zoommando su questi testi teatrali
e poetici e sulle loro complicate parentele. La definizione formale di
componimento letterario non pone particolari problemi (basta iden22
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tificarne la variabile estetica rispetto alle scritture pratiche, filosofiche o religiose, e separare gli “scrittori” dagli “scriventi”), ma quella
di componimento teatrale è meno scontata. In termini formali, e con
molta approssimazione, si può dire che un testo drammatico è fatto di
battute (da recitare o da cantare), di un eventuale corredo di didascalie interne e di altre annotazioni paratestuali (prefazioni, dedicatorie,
appunti relativi alla messinscena, note a piè di pagina ecc.), che risultano assenti (e superflui?) in presenza di tradizioni sceniche consolidate
(come nel caso delle tragedie greche antiche, del teatro sacro medievale o di quello elisabettiano); e invece tanto più esteso e dettagliato
quando gli autori cominciano a difendere e a voler comunicare una
personale idea di messinscena. Quando la loro volontà di rottura e di
innovazione è particolarmente forte, spesso la gerarchia e le proporzioni fra testo e didascalie arrivano a capovolgersi: pensiamo, per capirsi,
agli esempi di Diderot, Ibsen, Strindberg, Pirandello o Beckett ecc.
La drammaturgia, dunque, è l’insieme delle regole e delle tradizioni
in base a cui si costruiscono i drammi destinati a essere recitati, così
come la poetica, in coppia con la retorica, si riferisce modernamente ai precetti e agli strumenti per scrivere dei componimenti letterari.
Mentre la letteratura appartiene di diritto alla cultura e all’Arte con
la “A” maiuscola, i canoni della drammaturgia (cioè il parterre degli
autori che a un certo punto assurgono al rango di classici e le “regole”
formali delle varie tipologie di testi da recitare) non sono stati sempre
altrettanto autorevoli, né hanno coinciso con la realtà concreta dei repertori coltivati sulle scene. Il sistema-teatro è complesso e intrattiene
rapporti ambigui con la letteratura, perché è sempre compromesso con
la realtà materiale dello spettacolo, con tutte le sue limitazioni, i suoi
vincoli, i suoi patteggiamenti commerciali, che rimandano alla ben
nota ambivalenza semantica del termine “arte” come arte di mestiere
e/o arte d’artista, su cui si è strutturato il mito equivoco della Commedia dell’Arte, lo spettacolo degli attori professionisti italiani che per
tre secoli, carichi di miserie e di splendori, hanno affascinato l’Europa
intera.
Che cosa è dunque il testo teatrale? Roland Barthes – riflettendo intorno ai progetti drammatici abortiti di Baudelaire – provava a
inseguire, con molte esitazioni e una certa fumosità, una definizione possibile di teatralità: «Che cos’è la teatralità? È il teatro meno il
testo, è uno spessore di segni e di sensazioni che prende corpo sulla
scena a partire dall’argomento scritto. È quella specie di percezione
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ecumenica degli artifici sensuali, gesti, toni, distanze, sostanze, luci che
sommerge il testo con la pienezza del suo linguaggio esteriore»; e concludeva che «Baudelaire, contrariamente a ogni vero uomo di teatro,
immagina una storia tutta raccontata invece di partire dalla scena»
(Barthes, 1966#manca in biblio#, pp. 5, 9). Il vecchio Aristotele se la
cavava meglio, limitandosi a dichiarare che «principio e quasi anima
della tragedia è il racconto» (Poetica, 1450b), cioè un montaggio di
azioni che costituiscono la favola (il plot, l’intreccio). Prima del testo
teatrale, dunque, c’è un progetto di spettacolo (non necessariamente
disteso in pagina) in forma di montaggio di azioni; quando subentra
una stesura scritta bisogna distinguere fra una drammaturgia che è stata
definita “preventiva” (ipotesi di azioni e di battute da testare in scena)
e il suo eventuale approdo “consuntivo” all’interno di uno specifico
contenitore di genere (commedia, tragedia, farsa, dramma ecc.); senza
mai dimenticare, però, che tutto può essere recitato e messo in scena a
prescindere dalla sua forma: le agiografie medievali, la Gerusalemme
liberata di Tasso, le Operette morali di Leopardi, il Faust di Goethe o,
magari, la Costituzione italiana.
La regia, che a un certo punto rivendica il diritto a riscrivere in scena qualsiasi testo, da questo punto di vista non ha fatto niente di nuovo
(già in passato, ad esempio, si drammatizzavano Passioni evangeliche
in allestimenti che duravano anche più giorni, episodi dell’Orlando
furioso, o novelle del Decameron ecc.), ma ha certamente modificato
in profondità la funzione e l’identità stessa della drammaturgia, enfatizzando l’autonomia totale della testualità spettacolare nei confronti
di quella letteraria di partenza: in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, il dottor Hinkfuss dichiara al pubblico che lo spettacolo che
va a iniziare è ricavato da una «novelletta, o poco più, appena appena
qua e là dialogata da uno scrittore» che è stato legittimamente rimosso e cancellato dai cartelloni, giacché «la creazione scenica che n’avrò
fatto io […] è soltanto mia». L’autore in questione è, per l’appunto,
Luigi Pirandello che, a detta di Hinkfuss, della sua novella (Leonora
addio!) deve rispondere soltanto al pubblico dei lettori e dei critici letterari, «perché in teatro l’opera dello scrittore non c’è più»: «l’opera
dello scrittore è finita nel punto stesso ch’egli ha finito di scriverne
l’ultima parola». Il contrasto fra lo smilzo «rotoletto» brandito con
aria di sfida davanti agli spettatori diffidenti e la monumentale macchineria dell’allestimento scenico dovrebbe essere risolutivo, ma in verità
lo spettacolo rischierà di naufragare fra conflitti, intoppi e disastri di
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ogni genere, finché, alla fine, saranno i corpi degli attori a mediare fra
il fantasma muto del drammaturgo e la gelida onnipotenza del regista.
L’arcipelago dei testi drammatici riordinato all’interno delle varie
culture e lingue nazionali non è soltanto il backstage da saccheggiare
o un’ingombrante auctoritas con cui fare i conti negli spettacoli, ma
un archivio/museo di riferimento con cui il teatro reale intrattiene da
sempre relazioni controverse, diviso fra deferenza e insofferenza; quelli
che possiamo leggere, è bene ricordarlo, costituiscono solo la minima
punta di un iceberg di materiali per recitare spesso intenzionalmente
abbandonati al loro destino da chi li ha creati, e rimasti allo stadio di
fantasmi, nel passato remoto come in quello prossimo. Il fenomeno è
massiccio e pervasivo agli inizi della storia del teatro moderno, quando
scrivere per la festa o per la recita è poeticamente irrilevante, e gli autori
restano anonimi o non si curano affatto di queste loro fatiche: per più
di trent’anni, ad esempio, a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, si
continuano a perdere e a rifare i volgarizzamenti plautini realizzati da
vari soggetti per le recite di corte a Ferrara, a Mantova o a Milano; allo
stesso modo i primi capolavori della drammaturgia moderna, come
l’Orfeo, la Mandragola o la Calandria, sono abbandonati senza pensieri in mani altrui da Poliziano, Machiavelli e Bibbiena, e la tendenza
riguarda anche il teatro adulto di giganti come Shakespeare o Molière;
persino Goldoni ha preferito lasciare inediti ben 50 titoli della sua produzione a cui ha dedicato tante cure editoriali, e Pirandello ha escluso
dalle sue raccolte le commedie in dialetto siciliano composte per Angelo Musco, che pure lo avevano portato al successo dopo una serie di
fallimenti; per non parlare dei tanti copioni dattiloscritti naufragati
negli archivi della Società italiana degli autori ed editori (siae).
Fra questi copioni e le stampe ordinate di componimenti titolati e attribuiti c’è un notevole divario: sappiamo da molte testimonianze che in passato non si riteneva necessario neanche assemblare
materialmente un testo di riferimento, limitandosi a distribuire le
«parti scannate»,cioè le battute di un singolo personaggio, fra i recitanti (come nel caso dei già ricordati volgarizzamenti plautini di primo
Cinquecento); i comici dell’Arte lavoravano sulla base di canovacci,
ossature, soggetti, “generici” che fissavano schematicamente soltanto
l’intelaiatura dell’azione da riempire in scena di parole, di musiche e di
numeri di repertorio (i lazzi); la consuetudine di leggere l’intero testo
agli attori all’inizio delle prove per renderli consapevoli dell’impianto
unitario dello spettacolo è del tutto moderna (e stava molto a cuore, in25
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fatti, a grandi innovatori come Stanislavskij o Pirandello). Ritorniamo,
insomma, al concetto chiave di montaggio (già chiaro ad Aristotele)
come fondamento e origine di qualsiasi drammaturgia (alta e bassa,
colta e popolare), tecnica compositiva sempre in progress a cui ricorrono gli attori ma anche, istintivamente e operativamente, i poeti laureati
prestati alle scene: Alfieri parlava di «ideare stendere verseggiare» e
Eduardo di «scrivere il soggetto (due, tre pagine), poi fare la scaletta e
solo dopo il dialogare».
Non tutto quanto accade in scena transita sempre nel libro, che deve
fornire al lettore indicazioni supplementari rispetto allo spettacolo; la
peculiare fragilità del testo teatrale, legata alla sua genesi di mero strumento di lavoro, investe a lungo, inevitabilmente, anche la sua forma
stampata. Per molto tempo infatti il libro di teatro – inventato dagli
stampatori cinquecenteschi, “rubandolo” ai palcoscenici e agli autori
per rivenderlo in un altro circuito – conserva lo statuto anfibio di sussidio alla recita (il programma di sala) e di autonoma opera poetica,
confinato nello scomparto minore dei libri da bisaccia o “di spasso”: di
piccolo formato, messi insieme con inchiostri e carta di scarsa qualità
e fatalmente destinati a degradi e dispersioni. Ci sono poche eccezioni: celeberrima quella dell’in folio londinese del 1623, che “salva” il corpus (“un” corpus) shakespeariano, per iniziativa dei suoi colleghi John
Hemminge ed Henry Condell dopo la morte del drammaturgo (900
pagine di grande formato in grado di attraversare i secoli); e, come
beffarda antifrasi, le pompose Compositions de rhétorique che il grande
attore Tristano Martinelli dedica nel 1601 al re di Francia, disseminando di rare incisioni una serie di pagine bianche, perché la retorica di
Arlecchino non è fatta di parole.
La storia dello spettacolo è in gran parte storia di libri oscuri e deperibili e, soprattutto, di testi perduti, rubati o abbandonati a sé stessi
come un patrimonio comune, che affollano l’“isola che non c’è” della drammaturgia, spazio della memoria e della tradizione in cui si accumula un grande brogliaccio di storie e di personaggi eternamente
reinventati e rimessi a nuovo (dai Menaechmi a Beautiful, da Edipo re
ad Amleto a Ubu roi). Più che la drammaturgia scritta, infatti, quello
che conta è il sistema-spettacolo, l’hardware sotterraneo e silente della
pratica scenica che fa rete, producendo plagi, furti, riscritture e, occasionalmente, miracolosi capolavori: l’Amleto shakespeariano, che “copia” un perduto Amleto forse di Thomas Kyd; il Dom Juan ou le festin
de Pierre di Molière oppure il Dissoluto punito ossia il Don Giovanni
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di Da Ponte/Mozart, che svettano improvvisamente nell’arcipelago
affollatissimo di componimenti dedicati, per oltre tre secoli, alle avventure dell’antico burlador de Sevilla, di cui il pubblico non sembra
mai stancarsi…
Il flusso delle riscritture – di cui i tanti canovacci, libretti e drammi su Don Giovanni offrono un esempio straordinario – è regolato in
prima istanza dalle richieste di questo pubblico, che progressivamente
si emancipa come un soggetto autonomo portatore di precise esigenze
(soprattutto da quando, nel corso del xvi secolo, comincia ad accedere
al teatro pagandosi un biglietto di ingresso) al cospetto di autori non
altrettanto potenti e autorevoli. In verità è quasi impossibile decidere
chi sia l’autore di uno spettacolo, che nasce sempre dalla collaborazione a più mani fra il drammaturgo che ha scritto il testo (e che eventualmente lo recita o lo dirige), l’attore e lo spettatore che lo interpretano
a modo loro e, quando comincia a esistere, il regista che lo ricrea con
l’energia e la convinzione di cui si è detto. Lo spettacolo risulta un’opera collettiva, al cui interno è sempre difficile distinguere i singoli apporti e stabilire gerarchie; certamente, nell’ottica che qui ci interessa,
per moltissimo tempo la stesura scritta dei testi, prima o dopo la loro
messinscena, non aveva, come si è detto, alcun particolare prestigio, né
quasi mai meritava l’onore di una firma. Gli autori compaiono tardi e
in modo equivoco; molti di loro scrivono soggetti teatrali o su commissione, all’interno di strategie drammaturgiche eterodirette (nelle
confraternite religiose tre e quattrocentesche, nelle corti rinascimentali, nei collegi dei gesuiti o nelle moderne accademie teatrali), oppure
in qualità di membri o direttori di compagnie attoriali di cui condividono la vita agra (Shakespeare, Andreini, Lope de Vega, Molière). Per
lungo tempo essere riconosciuti (e riconoscersi) autori in quanto scrittori di drammi non sarà affatto scontato, finché il grandissimo Lope,
nel 1609, capovolge la prospettiva nel suo Arte nuevo: egli proclama
che il “giusto” si identifica con il “gusto” dei più; sostituisce all’autorità
ontologica della poesia aristotelica quella creativa dell’autore, che rende conto soltanto al pubblico del proprio lavoro; difende il diritto alla
proprietà intellettuale di ciò che scrive (di cui è il solo garante formale)
e al guadagno commerciale che se ne può ricavare.
Ma è una rondine che non fa primavera l’Arte nuevo, perché ancora
molto a lungo, fino alla sofferta e precaria affermazione giuridica del
concetto moderno di copyright, il teatro resta confinato nel suo limbo
paraletterario e subalterno, come parente povero della poesia. E tutta27
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il teatro e le arti
via, già dalla fine del Cinquecento, molti che scrivono per le scene cominciano – con mille esitazioni e riluttanze più o meno pretestuose – a
difendere la paternità dei propri componimenti e persino a pubblicarli,
affettando disinteresse, ma, nondimeno, protestando vivacemente contro le appropriazioni indebite, i saccheggi e i plagi che li deformano. Il
teatro sta diventando un lucroso mercato in cui si affacciano soggetti
nuovi, come gli impresari, che cominciano a costruire, un po’ in tutta
Europa, teatri a pagamento per i nuovi pubblici (che vogliono accedervi senza più ricorrere al patrocinio ecclesiastico o signorile), e gli stampatori, che, come si è detto, inventano in tipografia il prodotto-libro
di teatro, da vendere a latere delle recite. Poiché gli attori si tengono
stretti i loro copioni come un prezioso strumento di lavoro da sfruttare
per il maggior numero possibile di repliche, nasce infatti il fenomeno,
molto diffuso, delle edizioni pirata, rubate da squadre di copisti che
trascrivono in tempo reale le battute dei recitanti, poi rimontate in
bottega dallo stampatore o da qualche suo incaricato in ensemble, che
i legittimi autori giudicano appunto sgangherati e truffaldini. Fra copione e libro si instaura un polemico antagonismo: nella selva intricata
delle redazioni molteplici di un medesimo componimento, che a volte
si trova davanti, la moderna filologia teatrale ha il suo bel da fare a mettere ordine, e si deve rassegnare a una relativa impotenza, riconoscendo
in molti casi (Amleto compreso) di avere a che fare con oggetti “aperti”,
stratificati, poli-autoriali, di cui è possibile cogliere non il ritratto, ma
soltanto qualche sfocata istantanea.
In età moderna alcuni drammaturghi cominciano ad affezionarsi
all’idea di poter padroneggiare il destino dei loro componimenti attraverso dei libri che contengano le norme d’autore sulle possibili messinscene; è un’utopia affascinante che, forse per la prima volta in Europa,
seduce e cattura Giovan Battista Guarini, geloso custode del suo Pastor
fido, di cui confeziona, nella stampa uscita a Mantova nel 1602 presso
il Ciotti, un ambizioso ircocervo editoriale con il testo della tragicommedia, un ampio paratesto critico (il Compendio della poesia tragicomica) a difesa della sua pretesa ortodossia aristotelica, e un apparato
di dettagliate incisioni, concepite come altrettante indicazioni protoregistiche di tipo scenografico e costumistico. Dopo di lui anche altri si
proveranno, in epoche diverse, a blindare e sterilizzare il proprio lavoro
drammaturgico in archivi editoriali incorniciati in chiave autobiografica e memoriale (Goldoni, Alfieri), “romanzati” in cornici unitarie a
posteriori (le Maschere nude di Pirandello o le Cantate dei giorni pari
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1. teatro e letteratura
e dei giorni dispari di Eduardo), oppure museificati in portali digitali
onnicomprensivi (è il caso di Dario Fo). Forse è alle prese con lo stesso
fantasma anche chi si sottrae fermamente ai libri e persino a qualsiasi
registrazione audiovisiva dei propri spettacoli, o chi, come fanno Marco
Paolini e Ascanio Celestini, seppellisce a un certo punto un componimento scenico che giudica esaurito, e su cui non intende più tornare, in
un dvd venduto in cofanetto insieme a qualche pagina scritta. Qualsiasi trascrizione documentale della recita viva, alla fine, resta parziale e
ingannevole; qualunque moderna edizione critica (oggi ne abbiamo a
disposizione di straordinarie e impeccabili, per esempio su Shakespeare,
Molière o Pirandello) si deve arrendere all’evidenza del fatto che la realtà dello spettacolo non si lascia catturare al di là dello spettacolo stesso.
Accanto ai testi drammatici, ci soccorrono altre testimonianze scritte di natura altrettanto indiziaria e altrettanto poco referenziate sul
versante letterario: il vasto arcipelago di scritti servili tecnici e manualistici (sulla recitazione, la scenografia, l’illuminotecnica, l’architettura, i costumi, il trucco, le maschere, il marketing ecc.), gli appunti di
scena, le recensioni, i documenti disparati usciti dalla penna di uomini
di spettacolo estranei alla cultura ufficiale, che pure hanno sempre affidato alla scrittura la speranza ambiziosa di far sopravvivere a sé stessi la
propria arte attraverso un medium più potente e referenziato di quello
effimero della recita. Già nella Roma del i secolo a.C. l’attore Roscio,
ex schiavo, maestro e amico di Cicerone, aveva composto un trattato
sulla recitazione, ma la storia non si è degnata di conservarlo; i giullari
medievali, invece, non ci hanno provato nemmeno, e i loro componimenti ci sono giunti soltanto tramite le trascrizioni colte dei notai
bolognesi trecenteschi; i moderni comici dell’Arte, in epoca di stampa,
si sono affannati a scrivere, alternando a canzonieri, commedie, tragedie, pastorali e trattati di poetica (spesso posticci e raffazzonati) un
arcipelago di canovacci e generici che tentano l’impresa impossibile di
verbalizzare la loro arte caduca. Tutti questi documenti costituiscono
un corpus anomalo e poliforme di fossili spettacolari di ardua decifrazione, ancora in gran parte da esplorare e dal potenziale storiografico
e critico immenso, che non ambisce ad alcuna cittadinanza letteraria.
A restituire l’anima inafferrabile dello spettacolo soccorrono piuttosto altre narrazioni, di natura romanzesca, memoriale ed epistolare,
che, dal secentesco Roman comique di Scarron in poi, lo hanno raccontato attraverso la trama di esistenze singole, rimontate in pagina
come favole sceniche. In particolare nel corso del xviii secolo l’au29
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il teatro e le arti
tobiografia teatrale, o il romanzo teatrale narrato in prima persona,
è diventato un vero e proprio genere, con cui i guitti, prima, e molti
intellettuali di diverso calibro, poi, si sono misurati (da Goldoni a Da
Ponte, da Casanova a Gozzi). Anche grandi poeti, come Alfieri o Goethe – affascinati dalla trasgressione antiborghese della bohème teatrale
che surclassava, ai loro occhi, il prestigio polveroso delle lettere – vi si
sono cimentati con esiti straordinari, e dopo di loro moltissimi attori
non hanno resistito alla tentazione auto-apologetica e memoriale (da
Talma a Morrocchesi a Petito, da Salvini alla Ristori a Musco), saccheggiando le strutture narrative della fiaba e del romanzo per raccontare le loro epopee personali, fra vocazioni infantili, segni premonitori,
agnizioni improvvise, prove da superare, successi millantati, peripezie
avventurose ecc. Il catalogo continua a essere affollato e in crescita;
personaggi diversi, come Charlie Chaplin, Simon Signoret, Vittorio
Gassman, Arnoldo Foà, Marcello Mastroianni, Ingmar Bergman, Liv
Ullmann, Sandro Lombardi, hanno continuato a cercare di catturare
il teatro attraverso il prisma della vita vissuta. Con tutte le inevitabili
interferenze del caso.
Conclusione provvisoria: i testi teatrali possono essere qualunque
cosa, appartengono a tutti e non sono neanche testimoni attendibili…
E tuttavia – pur così inaffidabile e difficile da definire – la letteratura
teatrale esiste, distinta nei suoi ordinati scomparti di genere, e vanta un
pantheon di autori di prestigio letterario assoluto, che non muta anche
se molti di loro sono stati consacrati tali soltanto a posteriori, dopo
essere stati, magari, ignorati e misconosciuti in vita (pensiamo al povero Molière). Alla fine è stata la scrittura, pur con tutti i suoi vincoli e
le sue pretese, a garantir loro quella gloria quasi sempre negata ai loro
colleghi attori.
1.4
Muse e poesia, ars theatrica e filologia
Gli antichi attribuivano alle nove muse, figlie di Zeus e di Mnemosine,
il patrocinio sulle arti: linguaggi, forme artistiche e saperi diversi derivavano in vario modo da questo armonioso sostrato divino, legato alla
natura ed espresso dalla musica e dal canto; fra loro ci sono già Melpomene e Talia a proteggere la tragedia e la commedia. Nella Poetica si
fa riferimento a tre generi diversi di drammi, distinti per la materia, lo
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1. teatro e letteratura
stile e la metrica; una tripartizione che sarà di lunga durata, destinata a
innestarsi nel dna stesso del teatro occidentale: la tragedia, popolata
di personaggi di rango alle prese con il mistero del dolore e del male
che riguardano l’esistenza dell’uomo (come, nella Bibbia, il libro di
Giobbe); la commedia, legata al corpo, al cibo, al sesso e alla trasgressione del riso, in cui agiscono personaggi comuni; e infine un terzo
genere, liberamente mescolato di elementi diversi di natura fiabesca,
amorosa, erotica e variamente occasionale, che si declinerà come satiresco, pastorale, boschereccio o tragicomico, e dove troveranno accoglienza tutti i materiali di risulta che non possono essere accolti negli
altri due, in contenitori estranei a regole poetiche cogenti e liberi dai
vincoli del verosimile, in cui è lecito intrecciare liberamente parola,
musica e danza (dai drammi mitologici agli intermedi, alle egloghe, ai
masques, fino al vaudeville, al varietà e all’operetta).
In origine le trilogie tragiche presentate dagli autori ai concorsi
pubblici ateniesi erano provviste di un’appendice satiresca in forma
di atto unico, mentre alla commedia erano destinati specifici concorsi
comici durante altre feste religiose, ma nella storia successiva – già ellenistica e romana e poi medievale – le distinzioni nette fra tragico e
comico, riso e pianto, si attenuano, e la griglia formale che distingue
il tragico, il comico e il satiresco, separata dal dramma, si applica alle
forme della scrittura, collocando il tragico sul gradino più alto della gerarchia (stilistica e contenutistica) e il comico su quello più basso: per
descrivere la propria impotenza a esprimere in parole umane la celestiale trasfigurazione di Beatrice in paradiso, Dante dichiara che nessun
«comico» o «tragedo», cioè nessun poeta tout court, si è mai trovato
altrettanto a mal partito come lui in quella circostanza: «da questo
passo vinto mi concedo, / più che giammai da punto di suo tema / suprato fusse o comico o tragedo» (Paradiso, xiii, vv. 22-24). Nei commenti medievali la Commedia è intitolata come tale in quanto testo
recitato in prima persona in stile umile e volgare, che ha per oggetto
una vicenda privata inaugurata nel dolore e conclusa gioiosamente. Il
termine “commedia”, infatti, rimanda a una nozione esclusivamente
letteraria, priva di riferimenti a un sistema rappresentativo; siamo in
un’epoca in cui la drammaturgia è momentaneamente in sonno, e in
cui si pratica il teatro sacro e profano, disseminato in un arcipelago di
forme festive e musicali, senza “riconoscerlo” come tale: l’ars theatrica
è annoverata fra le arti meccaniche in quanto scientia ludorum (musicale, ginnica, sportiva e anche verbale) tutta agita e non scritta, mentre
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il teatro e le arti
l’antica tripartizione della materia drammatica è traslocata all’interno
della scrittura poetica.
Quando si produce, durante il Rinascimento, la reinvenzione moderna del teatro, il riordino testuale e la regolamentazione teorica di
una serie di pratiche recitative di consumo orale riportano lo spettacolo sul terreno della cultura letteraria, stringendo fra i due ambiti la
sofferta parentela a cui stiamo facendo riferimento; mettendo insieme
la Poetica ritrovata e l’Ars poetica di Orazio con il De architectura di
Vitruvio (che nel quarto libro descrive le tre scene possibili dell’edificio teatrale romano, tutto da identificare), si ripristina la triade comico/tragico/satiresco come traliccio e fondamento di una complessa e fantasiosa esegesi dell’antico. Le incerte acquisizioni dei filologi
umanisti intorno al fantasma del teatro classico si intrecciano fecondamente con un preesistente sostrato di socialità festiva e musicale: i
drammi sacri recitati in forma narrativa sullo sfondo di scene multiple
a luoghi deputati, i contrasti rusticali e buffoneschi delle comunità
periferiche, i tornei cavallereschi a tema, le egloghe drammatizzate, i
balletti mitologici, gli apparati viari delle feste municipali e signorili,
i giochi di veglia si contaminano con la drammaturgia latina riemersa
dai manoscritti.
Plauto, Terenzio e Seneca, ma anche le Bucoliche di Virgilio e i dialoghi di Luciano che vengono percepiti come “teatrali”, catalizzano una
serie di esperimenti scenici, in latino e in volgare, che in pochi decenni, soprattutto grazie alla sponsorizzazione mecenatesca dei principi
italiani, pongono il teatro al centro della cultura moderna, separandolo dalla recita orale di poemi e liriche amorosi in uno spazio specifico, quello della festa, i cui partecipanti, già attivamente coinvolti
come udienza partecipe, si trasformano in spettatori consapevoli, in
grado di stringere con la scena ritrovata quel famoso patto di sospensione dell’incredulità che fonda la rappresentazione. È un’impresa
collettiva in cui si cimentano, spronati dalla concorrenza “politica”
fra le corti della penisola, poeti, pittori, architetti/scenografi, musici, eccellenti dicitori e buffoni oscuri; a lungo si procede a tentoni,
lungo#percorrendo# binari separati, senza cogliere necessariamente
l’interdipendenza fra la costruzione letteraria della commedia volgare
e quella spaziale e architettonica del palcoscenico e dell’edificio. Ogni
spettacolo fa storia a sé, come un unicum effimero e non ripetibile, per
cui si approntano di volta in volta testi, scene, costumi e musiche. Gli
scrittori, come si è detto, se ne stanno defilati, assolvendo il compito di
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servizio di fornire le parole da recitare; all’interno della festa la moderna commedia (prima volgarizzata dai modelli latini, poi riscritta in forme originali) emerge come trattenimento di élite destinato a celebrare
appuntamenti dinastici o politici di prestigio sullo sfondo di apparati
sontuosi e ingegnosi ispirati a un’idea alta di teatro come opus, posto al
centro della città ideale per onorare il principe committente.
In questa fase della storia la commedia, con il suo blasone di antichità, fa la parte del leone e si separa per prima dal magma delle recite
consuete nella festa profana: sul calco plautino e terenziano (una favola unitaria, in cinque atti con prologo, di ambientazione realistica
e cittadina e di lieto fine matrimoniale) molti autori di prima grandezza – come Ariosto, Bibbiena, Machiavelli, Ruzante, Aretino, o gli
aristocratici e letteratissimi accademici Intronati della Repubblica di
Siena – ne sfornano, nel primo trentennio del secolo, una serie di eccellenti, testando sperimentalmente in scena la recita (in prosa o in versi,
all’antica o in abiti moderni e con più o meno inserti musicali) con
tassi molto diversi di mimesi della realtà circostante e diversi livelli di
aggressività comica. Il bacino letterario della novellistica è un naturale
serbatoio di riferimento, ma anche il romanzesco patetico dei poemi
cavallereschi e la rusticalità della poesia villanesca danno il loro contributo alla sua creazione: da sperimentale e antiquaria la commedia
volgare si emancipa a vero e proprio genere letterario con la svolta normalizzatrice degli anni Quaranta #del Cinquecento#, che vede coincidere i riordini linguistici prescritti da Pietro Bembo con l’incipiente
influenza controriformistica.
Accanto alla trionfante commedia, i palcoscenici cinquecenteschi
registrano, in rapida successione, anche l’affermazione della tragedia e
della favola pastorale, previsti al suo fianco dalla drammaturgia classica,
e per cui Sebastiano Serlio, nel 1545, fissa tre bozzetti scenografici di riferimento prima ancora che se ne sia definito il modello poetico. Il recupero moderno della tragedia pone una serie di problemi di difficile soluzione agli intellettuali moderni, e prima di tutto quello del suo possibile
senso: in un contesto cristiano è naturale sostituire alle disgrazie del Fato
quelle della Ragion di Stato, che diventa l’autentico serbatoio del tragico moderno in un mondo dilaniato dall’ascesa sanguinosa dell’assolutismo. Ma la tragedia volgare italiana, che esordisce nel primo ventennio
del secolo come laboratorio di riflessione politica, virerà quasi subito in
altre direzioni, vittima di censure e autocensure, e finirà storicamente in
un vicolo cieco nell’Italia tridentina dei piccoli principi, passando il te33
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il teatro e le arti
stimone alle grandi drammaturgie elisabettiana, spagnola e francese del
xvii secolo, affollate invece di straordinarie tragedie “politiche”.
In Italia – dove i signori riluttano a investire ingenti risorse su spettacoli giudicati luttuosi e di cattivo augurio – si afferma una formula
tragica prevalentemente inoffensiva, che offre evasioni mitologiche,
orrorose o romanzesche a un pubblico avido di brividi e di lacrime. Nel
frattempo una folta serie di commentatori della Poetica discute appassionatamente sui nodi del problema tragico: la legittimità di mostrare
in scena episodi cruenti, i limiti del verosimile, la natura pedagogica
o evasiva della catarsi, l’opportunità o meno di rinunciare al coro ecc.
Mentre i letterati, scoraggiati da tante impasse, ripiegano sulla soluzione delle letture accademiche, sono gli attori a sancire la fortuna scenica
del genere con i loro canovacci barocchi tragici e tragicomici, tanto
eterodossi sul piano letterario quanto avvincenti per il pubblico.
Il sogno di comporre la perfetta tragedia italiana di poesia continuerà a sedurre gli intellettuali italiani fino agli Arcadi#arcadi# e ad
Alfieri, ma il vuoto, nel frattempo, sarà felicemente colmato dall’eccellenza scenica della favola pastorale, incarnata nel dittico Aminta di
Tasso e Pastor fido di Guarini, due dissimili e complementari capolavori di lunga e duratura fortuna europea, che teatralizzano i codici del
lirismo petrarchista in una forma scenica versatile e popolare, dove un
classicismo di facciata si coniuga con una notevole icasticità scenica. Se
i modelli antichi di tragedia e di commedia erano stati relativamente
facili da rielaborare, a proposito della terza scena mancavano invece le
fonti di riferimento. Sul dramma satiresco greco – di cui sopravvive
come è noto soltanto il Ciclope di Euripide – la Poetica tace, e il terzo
polo della triade drammaturgica a cui alludono Orazio e Vitruvio si
collega filologicamente alle nozioni molto generiche di satira, pastoralità arcadica e tragicomico amoroso, ingredienti base di una scena
teatrale fluida e indistinta, che diventa, nel Cinquecento italiano, lo
spazio residuo di sperimentazioni sceniche magiche, erotiche, rusticali
o fantastiche, mescolate di dizione, canto e danza.
Gli amori delle ninfe, dei pastori e dei semidei antichi erano oggetto, peraltro, della poesia bucolica virgiliana e ovidiana; l’egloga aveva
offerto alla cultura medievale un dispositivo allegorico estremamente
versatile e fortunato, di impianto lirico e didascalico, già pronto per
trapassare in forme drammatiche. La (s)fortuna dell’Arcadia di Sannazzaro, in questo senso, è esemplare: si tratta, come è noto, di un capolavoro unitario e chiuso (un “romanzo” misto di versi e di prosa che
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1. teatro e letteratura
trasfigura l’amara denuncia della fine del regno di Napoli in un’impeccabile allegoria poetica e umanistica) che viene immediatamente saccheggiato e fruito per frammenti, come un centone di topoi pastorali
e rusticali, buono per canzonieri come per monologhi e dialoghi di
destinazione recitativa.
Il contrasto pastorale, così carico di letterarietà, è l’unità di misura
drammaturgica da cui si sviluppa questo terzo genere rappresentativo, che, per attrazione della commedia, tende ad articolarsi, dagli anni
Trenta del Cinquecento in poi, in forme più ampie, in tre o cinque
atti con prologo. Il modello vincente di favola pastorale su scala europea sarà il già ricordato Pastor fido di Giovan Battista Guarini, una
tragicommedia barocca in cinque atti, ricca di colpi di scena e affollata
di numerosi personaggi, ambientata in un’Arcadia incantata e crudele:
un testo chiave destinato a grande fortuna e a infinite riprese, sempre
meno classicistiche e sempre più romanzesche, amorose e fantastiche.
La storia “letteraria” del teatro italiano cinquecentesco, che offre
all’Europa i modelli del classicismo drammatico, si esaurisce tuttavia in
questo sfolgorante esordio cinquecentesco: normato, stampato e passato al vaglio dell’esegesi aristotelica, il teatro “regolare” si riduce ben
presto a sogno astratto degli intellettuali, chiusi nelle loro accademie,
senza contaminarsi con il tumultuoso mercato dello spettacolo, che
si afferma, fra libri e scene, a partire già dagli anni Trenta del secolo,
grazie alla Commedia dell’Arte, cioè allo spettacolo venduto in giro
per l’Europa dagli attori di mestiere al nuovo pubblico degli spettatori
paganti.
Pur attrezzati per recitare a memoria anche i componimenti distesi
della drammaturgia erudita, essi lavorano secondo logiche commerciali e seriali, conservando le strutture di base del classicismo, ma facendo
a meno dei testi scritti: rinunciano al premeditato per utilizzare schemi di azione (i canovacci, appunto) su cui “improvvisano” in scena le
parole da recitare in un “concertato” che è frutto di molta tecnica e di
accurati trainings preparatori; questo metodo di lavoro garantisce loro
l’agilità e la versatilità produttiva indispensabili per variare al massimo
il repertorio nel frammentato mercato della penisola, e soprattutto per
farsi intendere entro la variegata galassia dei dialetti italiani e poi presso i pubblici stranieri, che subito li accolgono come acclamate vedette.
A monte c’è una preliminare suddivisione dei ruoli fra i membri della
compagnia, riferita agli schemi drammaturgici della commedia letteraria: i singoli attori si specializzano ciascuno nell’interpretazione di
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una serie di “parti”, cioè di famiglie di personaggi, distinte in “parti
fisse” (i vecchi, gli innamorati e i servi) e “parti mobili” (la servetta, il
capitano), rese immediatamente riconoscibili per gli spettatori da una
stilizzazione costumistica, linguistica e gestuale che prevede per le parti comiche la recitazione in maschera e in dialetto, e per quelle serie
degli innamorati il registro verosimile e patetico di quella in toscano
senza maschera. La disinvolta mescolanza di riso e di lacrime, che connoterà anche le grandi poetiche teatrali barocche d’oltralpe, è un altro
formidabile punto di forza dei comici dell’Arte, che – nonostante lo
scandalo degli aristotelici e delle varie Chiese cattoliche e protestanti
ostili al teatro in quanto veicolo di corruzione – creeranno, con le loro
tournées che si spingono fino al Portogallo, alla Polonia e alla remota
Russia, un’Europa teatralmente globalizzata e italianisante fino alla
fine del xviii secolo.
La civiltà rinascimentale italiana mette a punto, dunque, tutte le
forme e i linguaggi del teatro moderno (la drammaturgia letteraria, i
modelli della scenografia, della sala e dell’edifico, le macchine degli apparati) insieme alla Commedia dell’Arte e al melodramma, che costituiranno un marchio di eccellenza e di italianità di lunga durata. Questo primato – di natura, dunque, non libresca e poetica, bensì tecnica,
recitativa e musicale – sarà consacrato e disseminato dalle migrazioni
cinque e secentesche di maestranze, musici e artisti al seguito di principi e principesse delle corti italiane sposati a monarchi stranieri, con in
testa le due medicee regine di Francia Caterina e Maria. Le commedie
e le tragedie italiane – gravate da troppe ipoteche letterarie e penalizzate da una lingua artificiale come quella bembiana, buona soltanto per i
versi aulici delle pastorali e dei libretti per musica – non potranno competere con la vitale drammaturgia barocca d’oltralpe, che fonda, di lì a
poco, la “classicità” moderna; fra gli scrittori cinquecenteschi di teatro
svetta soltanto Guarini, che riuscirà a far parte, insieme a Castiglione,
Tasso e Ariosto, di un pantheon letterario italiano universalmente riconosciuto, e a godere di altrettanta popolarità scenica. In questa storia
di dignitosa mediocrità “letteraria” della drammaturgia, dove il comico
sarà relegato nella minorità del dialetto, ogni tanto compaiono, misteriosamente e all’improvviso, dei “grandi” (Giovan Battista Andreini,
Metastasio, Goldoni, Alfieri; e più tardi Pirandello, Eduardo, Fo), che
la letteratura ufficiale, di solito, esita a riconoscere come suoi, mentre
gli scrittori patentati (da Manzoni a Pasolini, da Svevo a Moravia) il
teatro non lo sanno quasi mai scrivere.
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1. teatro e letteratura
1.5
Dall’ancien régime alla globalizzazione
Nelle capitali dell’Europa moderna il teatro drammatico si forma
dunque guardando al modello italiano come a un riferimento autorevole, mediato da migrazioni di persone e di tecniche, più che di libri:
ingegneri militari, meccanici e idraulici, esperti di pirotecnia e arte
dei giardini (pronti a riciclare sulle scene le loro competenze), musici,
cantori, attori ecc. Il viaggio è l’autentico elemento generativo di una
cultura spettacolare cosmopolita, legata alla diplomazia matrimoniale di corti grandi e piccole, plurilingui e, fino al Settecento, in grado
di condividere l’italiano come lingua colta. I carteggi fra le cancellerie cinquecentesche e secentesche registrano fitti scambi di natura
teatrale, che si intrecciano da vicino con la grande politica e talvolta
persino con lo spionaggio: da Parigi, Madrid, Lisbona, Praga, Vienna
o da Landshut, in Baviera, maestranze, compagnie dell’Arte e cantanti
italiani vengono richiesti con insistenza ai principi di Ferrara, Mantova o Firenze che, finché possono, capitalizzano al massimo in termini
politici il loro patrocinio, concedendo graziosamente il “prestito” di
questi ambiti specialisti.
La recita della commedia letteraria, lo spettacolo delle maschere e
più tardi l’opera in musica schiudono nuovi orizzonti a questi pubblici ancora digiuni di teatro, come accade con la rappresentazione della Calandra del cardinal Bibbiena allestita a Lione nel 1548, in onore
della corte francese, dai mercanti della colonia fiorentina, o con quella
dei Suppositi di Ariosto organizzata a Valladolid per Filippo ii da un
nobile senese membro dell’Accademia degli Intronati. Ancora una volta, però, il peso dei modelli testuali è molto relativo: il teatro colto,
tradotto dal latino o dall’italiano nelle università e nei circoli poetici,
è rapidamente surclassato da quello commerciale, che anche oltralpe
si sviluppa dal basso, separato dalla poesia, in forme mescidate e irregolari, romanzesche e tragicomiche, su misura per i suoi pubblici di
riferimento.
In Francia, nei paesi iberici e in Inghilterra il declino della plurisecolare tradizione medievale degli spettacoli sacri – di cui le tumultuose
lotte di religione sconsigliano la pratica – è un ulteriore, potente catalizzatore del nuovo teatro profano, che fonde in inediti crogiuoli nazionali le suggestioni classicistiche italianizzanti veicolate dalle corti, le
locali tradizioni festive folkloriche e popolari, l’eredità della scena sa37
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il teatro e le arti
cra e le esigenze di nuove committenze politiche ed economiche. Così,
a partire da metà Cinquecento, la scena elisabettiana inglese, il teatro
del Siglo de oro spagnolo, la grande tragedia francese e la commedia di
Molière diventano potenti e vividi osservatori dei grandi conflitti politici e religiosi legati all’avvento dell’assolutismo, con cui le coscienze
dei singoli devono imparare a misurarsi. Dovunque in Europa nobili,
borghesi e popolani, intellettuali e sovrani diventano contemporaneamente pubblici teatrali e comunità nazionali, che si rispecchiano in
modo dialettico e dialogico con i loro palcoscenici, su cui si dibattono
le grandi questioni del libero arbitrio; dei conflitti fra etica, ragion di
Stato, passioni e doveri; del confronto fra i privilegi aristocratici del
sangue e l’onore mercantile; delle differenze sociali; dell’eros; del matrimonio e degli scontri generazionali e si esaltano le memorie storiche
degli Stati nascenti. Il teatro moderno, da simbolico, tende a farsi realistico documento di vita quotidiana, ma conserva ancora a lungo i suoi
forti legami con l’immaginario classico, arcadico e cavalleresco e con le
suggestioni fiabesche e meravigliose del barocco.
Vale, al solito, la legge della domanda e dell’offerta, per cui questa
crescita tumultuosa si compie, di volta in volta, negoziando i propri
spazi con le istituzioni culturali dominanti, e soprattutto facendo i
conti – nei paesi cattolici come in quelli protestanti – con la censura
religiosa, diffidente e ostile verso pratiche ludiche fondate sulla fascinazione sensoriale ed emotiva, sulla trasgressione beffarda del comico e sullo scatenamento di passioni fini a sé stesse; anche le autorità
politiche temono l’arengo delle scene per ragioni non solo di ordine
pubblico, mentre gli intellettuali e i letterati lo ammirano come spazio
di socialità e di svago, anche se non sanno ancora bene come rapportarvisi. È il pubblico a consacrare la grandezza dei drammaturghi, ormai riconoscibili come tali, che lottano duramente per conquistare il
prestigio letterario (precluso, ça va sans dire, a chi pratica la commedia
e la farsa come Molière), affiancando ai componimenti scenici poemi
e canzonieri (come fanno Lope de Vega, Calderón de la Barca, Racine
o Corneille e persino Shakespeare), o, al solito, mettendosi all’ombra
di sovrani e accademie.
La storia del teatro secentesco è accidentata, rocambolesca, talvolta drammatica (basti ricordare la cancellazione materiale quasi totale
della cultura spettacolare elisabettiana operata dai puritani inglesi), ma
la sua ascesa è inarrestabile e irreversibile: i sovrani, quando conviene,
ne fanno un raffinato instrumentum regni e il pubblico se ne appropria
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1. teatro e letteratura
con entusiasmo dal basso; di questa vicenda sono protagonisti per eccellenza gli attori, che imparano a destreggiarsi con abilità in un difficile equilibrio fra le protezioni mecenatesche (ancora indispensabili)
e l’autonomia economica consentita dal mercato, stringendo con la
letteratura i rapporti ambigui di cui si è detto. A poco a poco il consenso di massa che circonda ormai il teatro ne determina anche l’emancipazione culturale, a prezzo, naturalmente, di sistemazioni teoretiche e
ambigui riordini filologici che sono spesso delle riscritture traditrici,
come quelle che toccano a Shakespeare, a Molière o a Corneille nel
corso del Seicento e del Settecento. Gli accademici francesi e spagnoli
e anche i letterati inglesi (dopo la riabilitazione shakespeariana operata
da Dryden) cominciano finalmente a riconoscere i propri classici della
scena, opportunamente “rivisti e corretti”, come un patrimonio identitario di alto valore artistico, e iniziano a coltivarne la memoria storica
e i testi a stampa, mentre in Italia, forse, questo processo non è ancora
mai iniziato sul serio.
Da questa vicenda è parzialmente esclusa la Germania, dove la dottrina luterana contribuisce a ritardare di un paio di secoli il decollo di
un moderno teatro in lingua tedesca: nelle piccole corti dell’impero
arrivano, in sostituzione, gli spettacoli degli attori italiani e inglesi,
mentre nei collegi dei gesuiti fiorisce la pedagogia teatrale del dramma barocco; soltanto nel Settecento si recupererà il tempo perduto per
impulso di principi illuminati (come i duchi di Weimar o di Sassonia),
di cenacoli intellettuali alla ricerca delle proprie radici nazionali e di
città-Stato (quali Amburgo) che ambiscono a dotarsi di teatri propri,
in cui decolla rapidamente una drammaturgia subito letterariamente
“adulta” e provvista di statuti artistici riconosciuti.
Siamo in un secolo in cui l’Europa illuministica scommette su una
cultura riformistica e pedagogica in grado di migliorare la politica e la
società con l’ausilio della ragione; le auctoritates della cultura aristocratica di ancien régime si ridimensionano e si affermano nuovi linguaggi,
accessibili a individui intesi come creature sociali, con le loro umane
passioni e i loro legittimi gusti. Il piacere e la fantasia cominciano a contare più dei codici estetici, nuovi generi appassionano un vasto pubblico interclassista di spettatori e di lettori, che trovano nel teatro, e nel
nascente romanzo, gli strumenti per avviarsi a diventare opinione pubblica. Il teatro in particolare, che è ormai il motore di una grande macchina commerciale, è sognato dagli intellettuali come una potenziale
palestra educativa e riformatrice, ed è fatto oggetto di un’imponente
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riflessione collettiva di natura colta. Come sempre la dialettica fra le
utopie libresche, inclini al verosimile classicistico, e la realtà anarchica
delle platee popolari, avide di passioni forti, è aperta a esiti imprevedibili: un po’ dappertutto, in Europa, si discute molto, si stilano precetti
e programmi, ci si applica a riordini storici e filologici, ci si accapiglia sui
primati, si liquidano gli eccessi barocchi del teatro musicale. I molti “riformatori” teatrali del secolo – Voltaire, i classicisti francesi e gli arcadi
italiani, Metastasio, Goldoni, Lessing, Diderot, Moratin – pensano che
la scrittura drammaturgica possa essere il vettore decisivo del rinnovamento, ma naturalmente devono, come sempre, scendere a patti con le
leggi del palcoscenico. Nel corso di questo processo la triade classicistica vitruviana tramonta per sempre, sostituita dal dramma borghese,
patetico, realistico e appassionato, da nuove forme di tragedia politica
e da un arcipelago di trattenimenti scenici misti per i pubblici popolari
delle periferie; la Commedia dell’Arte delle maschere chiude la sua avventura plurisecolare con il passaggio al sistema dei ruoli; i libretti per
musica accolgono al proprio interno l’opera buffa.
Il teatro globale delle corti assolutiste si frantuma definitivamente
in tanti teatri nazionali nell’Europa romantica, dove i popoli lottano
per l’indipendenza anche per via teatrale, e, in molti casi (sicuramente
in Italia), imparano a riconoscersi tali proprio commuovendosi sulle
sorti della patria celebrate nei drammi storici e nelle opere liriche. Lo
spettacolo drammatico e musicale è ormai al centro di un vasto indotto giornalistico, politico e commerciale, che coinvolge un pubblico
interclassista sempre più numeroso; gli autori, al solito, sono oscuri
e poveri; gli attori comprano i loro drammi e se ne impadroniscono
artisticamente ed economicamente in assoluta libertà. Nei vari paesi, tuttavia, le cose cominciano a cambiare quando il riconoscimento giuridico del diritto d’autore (in Inghilterra nel 1709, in Francia
nel 1791, in Italia soltanto nel 1865) induce gli intellettuali ad assaltare la cittadella del teatro: personaggi di primo piano come Victor
Hugo, Alexandre Dumas, Émile Zola, Henrik Ibsen, Johan August
Strindberg, Oscar Wilde o George Bernard Shaw scendono personalmente in campo per assicurarsi, se possibile, popolarità e buoni guadagni, facendone lo spazio di accese battaglie politiche e ideologiche,
legate a poetiche teatrali di prestigio. Ma i loro trionfi, in età romantica e naturalista, saranno tutto sommato di breve durata, perché la
rivoluzione della regia e l’avvento delle Avanguardie, che si disfano
tumultuosamente dei testi, li ricacciano ben presto in seconda linea.
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1. teatro e letteratura
Aspre le loro frustrazioni, ma inutili le loro rimostranze fra Ottocento
e Novecento; ne offre un celebre esempio il saggio pirandelliano del
1908, Illustratori, attori, traduttori, dove è decretata l’irredimibile non
artisticità del teatro, che sempre tradirebbe, per colpa dell’intermediazione degli attori, la poesia del testo: solo uno sfogo che sarà più
tardi rinnegato dall’interessato stesso.
Nel corso del Novecento l’antinomia fra gli autori, che sognano a
tavolino spettacoli impossibili (da D’Annunzio a Kraus), e gli uomini
di scena, che riscrivono in forma di libro i loro copioni, resta immutata, ma il sistema teatro si intreccia ormai inestricabilmente con un’industria dello spettacolo sempre più articolata e complessa, allargata al
cinema, alla televisione e a nuovi linguaggi, e i problemi all’ordine del
giorno sono altri. Il fenomeno inizia già negli anni Venti del Novecento negli Stati Uniti, dove i primi grandi drammaturghi del nuovo mondo (Eugene O’Neill, Thornton Wilder, Tennessee Williams, Arthur
Miller) scrivono senza soluzione di continuità drammi per i palcoscenici di Broadway e sceneggiature per Hollywood. Ormai anche in Europa siamo immersi in una totale intertestualità, dove romanzi, drammi, serie televisive e persino giornalismo d’inchiesta (pensiamo al caso
emblematico di Gomorra di Saviano, o ai riusi teatrali, cinematografici
o televisivi per esempio di Elena Ferrante, Andrea Camilleri, Emmanuel Carrère o Joanne Rowling) confluiscono in un bacino indifferenziato di storie che, come sempre, servono a curare, a vincere la paura o
a differire la morte (nelle Mille e una notte, o nel Decameron, come nei
drammi dello scrittore libano-canadese Wajdi Mouawad, che parlano
delle sanguinose vicende medio-orientali utilizzando i Menaechmi e
l’Edipo re).
Una postilla conclusiva: nel corso del secolo scorso, accanto agli
attori che scrivono – e che sono sempre il corpo vivo del teatro – anche dei grandi scrittori hanno scelto il linguaggio del dramma come
estrema frontiera dell’arte, come una forma di scrittura “assoluta” oltre
la narrativa: da Pirandello di fronte allo scandalo della Prima guerra
mondiale, a Beckett alle prese con il ricatto atomico e la Guerra fredda, a Elfriede Jelinek disgustata dal patriarcato fascista austriaco. Ed è
davvero interessante ricordare, concludendo queste rapide note, quante volte, nel corso del Novecento, il premio Nobel per la letteratura sia
stato assegnato dagli accademici svedesi proprio a dei drammaturghi:
Bernard Shaw, Pirandello, O’Neill, Eliot, Beckett, Fo, Pinter ecc. Le
frontiere, forse, sono cadute davvero.
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