Un tema storico nelle Minores
Per una lettura della decl. 292
Lucia Pasetti
(Università di Bologna)
la declamazione 292 è uno dei pochi temi storici presenti nella raccolta delle
Minores: quattro argumenta in totale, tutti ambientati nella Grecia del iv secolo,
come si deduce già dai tituli1. i temi di per sé sono rari o unici, ma insistono su
personaggi o episodi ben noti alla retorica di scuola: così una figura di primo piano
dell’oratoria, come Demostene, ovvero personaggi di statura storica assai diversa,
come alessandro e ificrate – accomunati tuttavia da una solida fama nell’ambiente
della scuola – vengono a trovarsi al centro di controversie che sono frutto di totale
invenzione o della parziale rielaborazione di episodi noti e ben radicati nell’immaginario di età imperiale2.
il tema della Minor 292, in realtà, non insiste su una figura celebre, ma presuppone come antefatto un episodio assai noto: la distruzione di olinto, messa in atto
con l’inganno da Filippo di macedonia nel 348 a.c., e la conseguente fuga di molti
dei suoi cittadini, accolti generosamente dall’alleata atene. sia il radicale annientamento di olinto che la sorte dei superstiti lasciano un segno profondo nella memoria storica, entrando così a far parte del repertorio di vicende esemplari condiviso
dalla retorica di scuola e dalla letteratura coeva. Della ricca documentazione che
si potrebbe produrre3, mi limito a menzionare, in ambito latino, alcuni versi della
Tebaide (xii 506-511)4 che, all’interno di un excursus sull’altare della misericordia,
celebrano la tradizionale ospitalità ateniese:
1
Ps. Quint. decl. 292 (Laqueus olynthii speciosi), 323 (Alexander templum dedicans), 339 (rogatio Demosthenis), 386 (iphicrates cum gladio).
2
su alessandro e Demostene, sono numerosi i temi schedati da r. Kohl, De scholasticarum declamationum argumentis ex historia petitis, diss. Paderbonae 1915 (rispettivamente nn. 244, 246,
258, 316, 318-322, 329, 331-332, 334-349 e 235-245, 248-252, 256-257, 259-263, 265-275, 284-307,
309-315, 317-318, 422), con i relativi riferimenti alla documentazione storiografica. Quanto a ificrate, il tema ricorre, in una versione più ampia, in sen. contr. vi 5; l’episodio storico del processo che
potrebbe aver generato la controversia è rievocato da nepote (iph. 3, 3 e Tim. 3, 4-5); alle argomentazioni cui fece ricorso ificrate nel processo fa riferimento aristotele (rhet. 1405a), mentre un resoconto
dettagliato, per molti aspetti vicino al tema latino, è riportato da Polyaen. iii 9, 15 e 29. Ulteriori riferimenti in U. Kahrstedt, iphikrates, in re ix/2, 1916, pp. 2019-2021.
3
tra i più interessanti, Demosth. 19, 26; app. civ. iv 428 e Plut. mor. 406, 215b, 458c.
4
Già segnalato da m. Winterbottom, The Minor Declamations Ascribed to Quintilian, Berlin-new
York 1984, p. 410 ad loc., benché non a proposito di olinto.
Maia 70 (1/2018) 129-139
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iam tunc innumerae norant altari agentes:
huc victi bellis patriaque a sede fugati,
regnorumque inopes scelerumque errore nocentes
conveniunt pacemque rogant; mox hospita sedes
vicit et oedipodae Furias et funus †olynthi
texit et a misero matrem submovit oreste.
510
la vicenda di olinto (v. 510) sembrerebbe qui essere posta sullo stesso piano dei
casi mitici di edipo e di oreste, che trovarono rifugio ad atene, presso il celebre
altare. il verso, secondo gli editori recenti, è corrotto5; ma non manca neppure chi
ritiene che la menzione della sfortunata città sia piuttosto un segno dell’influenza
esercitata sulla poesia di stazio dalla retorica di scuola6. in ogni caso, anche se il
riferimento a olinto fosse il risultato di un errore, proprio l’errore sarebbe un documento significativo dell’esemplarità dell’episodio.
Quanto alla scuola, il nostro tema sembra costituire un unicum: il caso del bel
giovane di olinto che si impicca dopo aver trascorso un’unica notte a casa del suo
ospite ateniese, facendo ricadere su quest’ultimo sospetti di stupro nonché di istigazione al suicidio, non ha altre attestazioni; non mancano, invece, casi analoghi
che mettono sotto accusa il comportamento degli ateniesi nei confronti dei profughi della città: primo tra tutti, seneca padre accoglie nella sua antologia due casi
incentrati su soprusi commessi da cittadini ateniesi ai danni dei rifugiati di olinto7.
situazioni del genere hanno appigli nella tradizione: a dispetto della fama ospitale
di atene, il comportamento crudele di alcuni ateniesi nei confronti dei cittadini di
olinto – soprattutto donne e bambini – trova una prima, per così dire archetipica,
attestazione in Demostene8.
chiarito il contesto, lo scopo di questo contributo è di mettere a fuoco alcune
questioni che, a partire dall’interpretazione del testo, non sempre lineare, coinvolgono il problema dello status e del rapporto del declamatore con la tradizione letteraria, in particolare con seneca figlio. Verranno quindi presi in esame tre punti
specifici del testo.
5
Una discussione in a. traglia - G. aricò, opere di Publio Papinio stazio, torino 1980: «non
riuscendo l’espressione tràdita comprensibile alla luce delle nostre conoscenze mitografiche» (p. 96
ad loc.), le proposte di correzione (e.g. funusque Coloni di imhof e funusque Corinthi di Klinnert) cercano di introdurre riferimenti a ulteriori episodi mitici; ma qui il mito potrebbe mescolarsi alla storia.
6
D.r. shackleton Bailey, statius. Thebaid, Books 1-7. introduction, Text, and Translation, cambridge mass -london 2003, pp. 286-287, ripreso da P.J. Heslin, statius and the Greek Tragedians on
Athens, Thebes and rome, in J.J.l. smolenaars - H.-J. van Dam - r.r. nauta (eds.), The Poetry of statius, leiden 2008, pp. 111-128 e 122 e da l. micozzi, stazio. Tebaide, milano 2010, p. 670.
7
sen. exc. iii 8 (un adulescens di olinto è insidiato da un ricco ateniese) e contr. x 5 (il profugo
di olinto venduto come schiavo al pittore ateniese Parrasio); inoltre sopatro v 181, 12 Waltz (eschine
propone una legge per limitare l’aiuto ai profughi) e v 202, 1 Waltz (i rifugiati di olinto, ottenuta la
cittadinanza ateniese, si trovano in difficoltà con le norme locali sulla schiavitù). ci è poi giunto il
titolo di due declamazioni in cui Demade interviene sia pro che contro l’accoglienza dei profughi di
olinto (V. De Falco, Demade oratore, Testimonianze e frammenti, napoli 19542, p. 102).
8
Dem. 19, 39 (sulla falsa ambasceria).
Un tema storico nelle minores. Per una lettura della decl. 292
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1. la Minor 292 è un caso di causa mortis; lo stesso capo d’accusa compare anche in altri due temi, nella raccolta9, sempre svolti dal punto di vista della difesa. in
tutti e tre i casi assume grande importanza la definizione di causa mortis: mentre
l’accusa promuove definizioni che la rappresentano come una semplice relazione
di causa-effetto tra l’atto compiuto e le conseguenze che ha avuto sulla vittima10,
la difesa tende a rendere il nesso più stringente, fino a farlo coincidere con il concetto di omicidio11. si tratta dunque di capire quale delle due definizioni risponda
meglio al ius. anche il sermo della 292 non manca di sviluppare riflessioni in proposito (par. 1)12:
Duplex quaestio est, iuris et facti. nam etiamsi vis inlata est, quaeritur an causa mortis sit.
sequens potior, an propter vim perierit. Circa ius illud est, ut finitione tractetur. is enim
causa mortis argui debet qui mortem intulit. Cum vero quis sua manu perierit, non debet
hoc reus tantum fecisse, ut quis mori velit, sed ut necesse habeat.
il maestro sottolinea qui la presenza di due problemi: uno relativo al fatto e uno
relativo al diritto. ma quali sono esattamente le quaestiones di cui si parla? shackleton Bailey13 propone la seguente interpretazione:
«the question is twofold, of law and fact. For even if violence was offered, there is a question
whether it was the cause of death. the second has more weight (potentior): did he die because of the violence? that is about the law, to be handled by definition. For he should be accused as a cause of death who inflicted death. But when someone has died by his own hand,
the defendant should not only have made him want to die, but made necessary for him».
se ne deduce che la questione relativa al fatto è «se sia avvenuta la violenza»
(etiamsi vis inlata est), mentre quella relativa al diritto sarebbe«se la violenza sia
la causa della morte» (an causa mortis sit). Per shackleton Bailey, inoltre, sequens
significa «la seconda (quaestio)» e riprende anaforicamente an causa mortis sit:
questa sarebbe infatti, la questione di diritto, «la più importante» delle due; per
rendere più chiaro il concetto, potior viene corretto in potentior14.
la lettura risulta poco chiara (in che senso an causa mortis sit è una questione
di diritto?) e rende difficile la comprensione della frase seguente, dove illud viene
riferito anaforicamente an propter vim perierit (la questione di diritto), e ut viene
interpretato come consecutivo («that is about the law to be handled by defini9
si tratta delle decl. 270 e 289.
cfr. 289, 3 [scil. causa mortis est] per quem factum sit ut aliquis moreretur.
11
in 270, 3-5 si consiglia al difensore di sostenere che l’accusa per causa mortis possa sussistere
solo in assenza di altri fattori esterni che possono aver determinato la morte; al par. 6 l’equivalenza tra
causa mortis e occidere viene argomentata sulla base del fatto che la pena per questo reato è identica
a quella che punisce l’omicidio; cfr. anche 289, 3 causa mortis est quae occidit omnes.
12
cito secondo l’edizione di m. Winterbottom, The Minor Declamations, cit.
13
D.r. shackleton Bailey, [Quintilian], The Lesser Declamations, i-ii, cambridge mass.-london
2006, p. 339, nota 1.
14
cfr. id., More on Quintilian’s (?) shorter Declamations, «Harv. stud. class. Phil.» 92 (1989),
pp. 367-404, in part. p. 378: la correzione è recepita anche nell’edizione dello stesso anno; la stessa
correzione viene proposta per 272, 1.
10
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tion»). il risultato è una struttura logica non limpida e poco compatibile con l’usus
scribendi del declamatore.
a me sembra più plausibile che il maestro, dopo aver trattato del factum, introduca il problema giuridico (Circa ius illud est), spiegando che esso consiste nel
dare una definizione (dunque ut avrà piuttosto valore epesegetico). Quindi, tutto
quel che precede circa ius illud est si riferirà sempre al factum: non si tratta solo
di congetturare se la violenza sia avvenuta, ma anche se abbia avuto come effetto
il suicidio del giovane. chiarita, in questi termini, la quaestio relativa al factum, il
sermo mette a fuoco il problema di diritto: ci si chiede, cioè, se, una volta accertata
la relazione causa-effetto, la violenza possa essere definita, in termini di legge, causa mortis. Di conseguenza mi pare opportuno mantenere il tradito potior e attribuire
a sequens il suo valore più usuale («seguente»), riferendolo a un termine sottinteso,
quaestio. tradurrei pertanto:
«la questione è duplice: riguarda il diritto e il fatto. infatti, anche se è stata usata violenza,
ci si domanda se sia quella la causa della morte. meglio ancora come segue: se il ragazzo
sia morto in seguito alla violenza. È di pertinenza del diritto discutere della definizione. in
effetti, chi ha provocato la morte deve essere messo sotto accusa come causa della morte.
ma, se uno si è ucciso con le sue mani, l’imputato deve aver fatto in modo non solo che
l’altro desideri suicidarsi, ma che per lui sia inevitabile farlo».
insomma, secondo il maestro, an propter vim perierit è una rielaborazione più
efficace e quindi preferibile (potior) della quaestio relativa al fatto (an causa mortis
sit), probabilmente perché propone una definizione standard di causa mortis (cfr.
270, 23 causam mortis esse existimant eum propter quem perierit), che era oggetto
di dibattito nelle controversie e costituiva, per così dire, la via di mezzo tra le definizioni che «allentano» il nesso di causa-effetto (decl. 289, 3 [scil. causa mortis
est] per quem factum sit ut aliquis moreretur)15 e quelle che invece lo rafforzano,
assimilando la causa mortis all’omicidio (decl. 270, 6 satis ostendit ipsa poena
eum demum teneri hac lege qui idem commiserit quod si occidisset). Vale la pena di
notare che il diritto storico recepisce pienamente la sinonimia tra causa mortis esse
e occidere che nella declamazione è invece appannaggio di una pars e, di conseguenza, oggetto di dibattito16; ma anche la definizione standard trova riscontro nei
Digesta, per descrivere le cause che determinano il suicidio: cfr. dig. xxi 1, 43, 4
mortis consciscendae causa sibi facit qui propter nequitiam, malos mores flagitiumve aliquod admissum mortem sibi consciscere voluit, non si dolorem corporis
non sustinendo id fecerit.
15
cfr. Ps. Quint. decl. 292, 2 impunitum reliquit eum propter quem moriebatur; propter hospitem
morior e decl. 17, 17 p. 348, 18 Håkanson ego propter patrem mori possum, «posso suicidarmi a causa
di mio padre».
16
cfr. in proposito t. Wycisk, Quidquid in foro fieri potest. studien zum römischen recht bei
Quintilian, Berlin 2008, p. 285, sulla scia di D. nörr, causa mortis. Auf den spuren einer redewendung, münchen 1986, p. 37: l’equivalenza tra occidere e causam mortis praebere, recepita nel linguaggio corrente, è discussa dai declamatori, benché sia passata nella terminologia del diritto penale,
come risulta da dig. xlviii 8, 15 (Ulpiano 8 ad leg. iul. et Pap.) nihil interest occidat quid an causa
mortis praebeat.
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lo status della controversia merita poi qualche ulteriore osservazione: come in
altri casi, anche nella Minor 292 si manifesta una certa incongruenza tra le istruzioni del sermo e lo svolgimento del discorso. a questo proposito, michael Winterbottom17 e Joachim Dingel18 osservano che, nonostante il maestro insista sullo status
finitivus (la violenza sessuale può essere definita causa mortis in un caso come
questo?) e nonostante un caso molto simile a questo sia menzionato nell’institutio
per esemplificare il problema di definizione19, il discorso di difesa dell’ospite ateniese è tutto impostato sul factum, e quindi sulla congettura. in effetti il presunto
stupratore respinge fin da subito l’accusa di violenza, per poi contestare quella di
istigazione al suicidio (par. 1). Del resto – nota Dingel – affrontare il problema di
definizione potrebbe rivelarsi controproducente per l’imputato, che, per procedere
in questo modo, avrebbe dovuto ammettere, anche solo in via ipotetica, di aver
commesso la violenza.
in realtà, l’impostazione della difesa sembra confermare l’interpretazione del sermo che ho dato sopra: ci troviamo di fronte a un caso in cui la coniectura è duplice,
perché non si tratta solo di capire se l’imputato abbia commesso la violenza, ma
anche se, così facendo, abbia causato il suicidio del giovane. Quindi, due sono i fatti
che il declamatore si affretta a smentire: stupro e istigazione al suicidio. Questo tipo
di «congettura doppia» non è contemplato nella casistica quintilianea (Quint. vii 2),
mentre sembra trovare corrispondenze nella trattazione di ermogene, ben più ricca di
dettagli quanto ai casi di congettura incentrati su due fatti20. in particolare, il nostro
tema sembra rientrare nel tipo dello stokasmo;~ sugkataskeuazovmemo~, che si verifica quando gli indizi di un fatto si sostengono reciprocamente21 (malcom Heath22
parla di «co-confirmatory conjecture»). l’esempio proposto da ermogene riguarda
il caso di uno schiavo imprigionato dal padrone con l’accusa di adulterio. mentre
il padrone è in viaggio, lo schiavo viene liberato dalla padrona per le tesmoforiazuse; in seguito il padrone viene ritrovato cadavere e la moglie è subito accusata di
complicità nell’omicidio23. in questo caso, l’adulterio rende probabile l’omicidio e
17
m. Winterbottom, The Minor Declamations, cit., p. 450 ad loc.
J. Dingel, scholastica materia. Untersuchungen zu den Declamationes minores und der institutio oratoria Quintilians, Berlin-new York 1988, p. 85.
19
Quint. vii 2, 30-34, in part. 31 iuvenes, qui convivere solebant, constituerunt ut in litore cenarent: unius, qui cenae defuerat, nomen tumulo, quem extruxerant, inscripserunt. pater eius, a transmarina peregrinatione cum ad litus idem appulisset, lecto nomine suspendit se. dicuntur ii causa mortis
fuisse.
20
l. calboli montefusco, La dottrina degli status nella retorica greca e romana, Bologna 1986,
p. 68.
21
ead., La dottrina degli status, cit., p. 99: la tipologia è ripresa da sulpicio Vittore, pp. 331, 10–
333, 29 Halm che lo riconduce alla definizione quintilianea di coniectura duplex.
22
m. Heath, Hermogenes, on issues. strategies of Argument in Later Greek rhetoric, oxford
1995, pp. 97-100.
23
Herm. stat. 43, pp. 37-38 P. (= 57, 11-58, 2 r.) moiceivan uJponohvsa~ ti~ pro;~ to;n oijkevthn th`~
gunaiko;~ dhvsa~ ejkei`non ajpedhvmhse, luqei;~ toi`~ qesmoforivoi~ uJpo; th`~ gunaiko;~ ajpevdra oJ oijkevth~, meta; ta`ta eu{rhtai oJ ajnh;r pefoneumevno~, kai; suneidovto~ hJ gunh; feuvgei: tovte ga;r uJpo; tou`
oijkevtou aujto;n pefoneu`sqai dia; th`~ moiceiva~ kataskeuavzetai tovte ei\nai th;n moiceivan dia; tou`
uJp∆ ejkeivnou aujto;n ajnh/rh`sqai.
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viceversa, proprio come, nella nostra declamazione, la violenza e l’istigazione al suicidio si confermano vicendevolmente. nel commento a ermogene, Patillon24 riporta
anche le osservazioni dei commentatori ermogeniani che considerano la reversibilità
dell’argomentazione un difetto del tema («se sei adultera, sei assassina, se sei assassina sei adultera»); la raccomandazione è che l’accusatore parta dall’ammissione di
un fatto (per esempio, l’adulterio), per poi arrivare a dimostrare l’altro (l’omicidio)25.
Viceversa, dal punto di vista della difesa, bisognerà negare un fatto per arrivare a
contestare l’altro: ed è appunto questo il modo di procedere del nostro declamatore,
che respinge l’accusa di violenza adducendo la mancanza di indizi e negando al puer
ogni fascino seduttivo; passa quindi a disinnescare l’accusa di aver causato il suicidio attribuendo il gesto alla drammatica condizione di profugo del suo ospite.
nel nostro caso, dunque, sul sermo del maestro non gravano solo le asperità di
una prosa tecnica concepita «per uso interno»26, ma anche l’oggettiva difficoltà di un
problema logico che verrà messo a fuoco solo un secolo dopo Quintiliano. Proprio
questa lacuna teorica (che avrà forse stimolato la riflessione successiva) conferma,
se mai ve ne fosse bisogno, la stretta dipendenza delle Minores dall’institutio.
2. il secondo problema posto dalla Minor 292 si presenta al par. 4:
«At cur eadem nocte <se> suspendit?» Utrum hoc re admirabile videtur an persona an
tempore? Miratur aliquis olynthium potuisse hoc Athenis? [illud enim est tempus doloris].
il declamatore affronta l’imputazione di causa mortis cercando di spiegare
come mai il giovane, reduce dalla distruzione della propria città, abbia deciso di
suicidarsi la notte stessa in cui riceveva ospitalità. nel dare la sua risposta, il retore
sembra deciso a procedere con metodo, insistendo su tre punti della sua versione
dei fatti: la res, la persona, il tempus. mi pare che emerga qui l’impostazione tipica
di quegli esercizi proginnasiali (ajnaskeuhv e kataskeuhv nella tradizione greca),
che richiedono all’allievo di «montare» e «smontare» un racconto per metterne alla
prova la credibilità, e sono dunque strettamente propedeutici alla declamazione;
Quintiliano ne tratta in ii 4, 19 saepe etiam quaeri solet de tempore, de loco, quo
gesta res dicitur, nonnumquam de persona quoque27.
Per rendere il suo racconto credibile, il declamatore deve sostenere che è altamente probabile, per un profugo di olinto (persona), suicidarsi (res), mentre viene
24
m. Patillon, Hermogenes, Les états de cause, texte établi et traduit par m.P., Paris 2009, pp.
143-144.
25
così anche sulpicio Vittore (pp. 331, 10-332, 26 Halm), che adotta la casistica ermogeniana,
discutendo il caso di una madre adultera sospettata di aver avvelenato la figlia e di aver commesso
adulterio con il pretendente di lei (sono otto le varianti del tema tra declamazione greca e latina: cfr. l.
Pasetti, Cases of Poisoning in Greek and roman Declamation, in e. amato - F. citti - B. Huelsenbeck,
Law and ethics in Greek and roman Declamation, Berlin-münchen-Boston 2015, pp. 189-190), invita a dimostrare uno dei due crimini per poi utilizzarlo come prova per l’altro: probato enim adulterio
dicemus adesse causam veneficii (p. 332, 9-11).
26
rinvio al saggio di michael Winterbottom in questo volume (infra, pp. 73-83).
27
cfr. t. reinhardt - m. Winterbottom, Quintilian, institutio oratoria Book 2. introduction, Text,
Commentary, oxford 2006, pp. 98-99.
Un tema storico nelle minores. Per una lettura della decl. 292
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ospitato ad atene (tempus). la domanda successiva, come osserva Winterbottom28,
richiama puntualmente i tre elementi: Miratur aliquis olynthium potuisse hoc Athenis? Questa domanda, che fa leva sul valore antonomastico dei toponimi, non manca,
a mio parere, di una certa ambiguità. Due le interpretazioni possibili: «ci si meraviglia che uno di olinto possa essersi suicidato nel luogo del suo esilio?», oppure, «ci
si meraviglia che uno di olinto possa essersi suicidato nella città che lo ha accolto?».
nel primo caso si tratterebbe di una domanda retorica (non è affatto strano che un
disgraziato profugo di olinto si suicidi in esilio), nel secondo, di una domanda vera
e propria (è possibile che il profugo si sia suicidato anche dopo aver ricevuto accoglienza in un luogo ospitale). la diversa interpretazione dipende proprio dal valore
antonomastico che si attribuisce ad atene: il triste luogo dell’esilio, o la città ospitale
per eccellenza? Dalla risposta dipende l’interpretazione della breve pericope successiva, illud enim est tempus doloris, che Winterbottom espunge come glossa intrusiva.
evidentemente, se atene è il luogo dell’esilio (e dunque la domanda è retorica), l’ipotesi della glossa assume un alto grado di probabilità; anzi, l’espunzione
produce senz’altro un testo più essenziale e pregnante. Viceversa, se il nome della
città viene associato all’ospitalità e miraris pone una domanda reale, la pericope
successiva si configura come una risposta, se non elegante almeno comprensibile,
introdotta da enim con il consueto valore di «rinforzo» della replica29.
mi pare che la questa seconda possibilità – preferita, ma non argomentata, anche da shackleton Bailey 200630 – meriti credito, non solo perché la fama di atene
come rifugio ospitale è ben radicata nella tradizione ed è sfruttata anche nella declamazione – al par. 3, il declamatore, alla domanda: «perché hai offerto ospitalità?»,
risponde orgogliosamente Atheniesis sum31 – , ma anche per ragioni formali: il sintagma tempus doloris, a prima vista poco significativo, è in realtà un’espressione
piuttosto insolita, che occorre per la prima volta in cicerone, sest. 52 videtis me
tamen in meam pristinam dignitatem brevi tempore doloris interiecto rei publicae
voce esse revocatum, proprio per indicare il triste periodo dell’esilio; in seguito
mi pare che il nesso torni solo in Ciris 336 pio cum iure licebit, cum facti causam
tempusque doloris habebis. D’altra parte, una domanda analoga, seguita da una
risposta con enim rafforzativo, compare anche in decl. 349, 6 Miraris? Hoc enim
est quod te in hoc impulerit: adhuc quid feceris nescis. «ti meravigli? ma è questo
quel che ti ha ci spinto: ancora non sai che cosa hai fatto».
alla luce di queste considerazioni mi sembra ragionevole riconsiderare la necessità dell’espunzione.
28
m. Winterbottom, The Minor Declamations, cit., p. 410.
cfr. ThlL v/2 572, 45-62, s.v. enim.
30
D.r. shackleton Bailey, [Quintilian], The Lesser Declamations, i, cit., ad loc.; lo studioso segue invece Winterbottom nella precedente edizione (Quintilianus. Declamationes minores, ed. D.r.
shackleton Bailey, stutgardiae 1989). la pericope è conservata dagli editori precedenti; la difficoltà
del passo è però percepita da ritter (M. Fabii Quintiliani Declamationes quae supersunt cxlv, rec. c.
ritter, lipsiae 1884), che, per giustificare la menzione del tempus doloris interviene su an tempore?
(Utrum hoc re admirabile videtur, an persona? [an tempore?] miratur aliquis, olynthium potuisse hoc
Athenis? <an tempore?> illud est enim tempus doloris).
31
cfr. m. Winterbottom, The Minor Declamations, cit., p. 410 ad loc.
29
136
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3. Veniamo ora all’epilogo, e in particolare al par. 6: nullus maior iniuria est
quam mea. Perdidi beneficium et adhuc suspectus sum.
l’accusato conclude, dunque, che qualunque sia stata la motivazione del suicidio, quella morte ha danneggiato lui più di chiunque altro. la pericope contiene
una tessera senecana32: nella sua apparente banalità, beneficium perdere è in effetti
un sintagma rarissimo prima di seneca figlio (ne ho trovata solo un’occorrenza nelle Verrine ciceroniane33, in un passo non particolarmente pregnante). D’altra parte
l’espressione occorre con la frequenza di un refrain nell’opera di seneca e soprattutto nel De beneficiis: tra le nove attestazioni presenti nel trattato34, spiccano gli
incipit dei paragrafi vii 29 e 30, in cui un generico «tu» – il polemico interlocutore
fittizio con cui il filosofo entra spesso in dialogo – avanza vivacemente la protesta
«perdidi beneficium», riportata in forma di sermocinatio, come spesso accade in seneca. aldo setaioli ha a suo tempo segnalato la tendenza del filosofo a includere nel
proprio discorso il «discorso altrui», distinguendolo anche per «certe caratteristiche
del parlato»35. nel nostro caso è proprio perdo, di uso comune per indicare la perdita
economica, a conferire all’espressione il sapore del sermo; non sarà forse irrilevante che il nesso faccia la sua comparsa nelle prime pagine del trattato, attraverso la
citazione di un anonimo poeta comico, com. pall. inc. 83-84. ribbeck3 Beneficia in
vulgus cum largiri institueris, / perdenda sunt multa, ut semel ponas bene.
la perdita del beneficium è, del resto, una delle questioni centrali nella riflessione senecana: l’idea che il beneficium non possa essere perso perché estraneo alla
logica contabile del dare e dell’avere – suggerita proprio da perdo – si ripropone
con insistenza all’inizio e alla fine dell’opera, come ha recentemente sottolineato
miriam Griffin36. l’espressione beneficium perdere riflette chiaramente il punto di
vista dei più, talora manifestato dall’interlocutore filosofico, e sempre confutato,
con logica controintuitiva, da seneca. così la perdita del beneficium è ora presentata come una percezione psicologica soggettiva (i 3, 1 is perdet beneficia, qui cito se
perdidisse credit)37, ora come un’iniuria inconsistente (i 10, 4 Haec est enim iniuriae summa: beneficium perdidisti)38, ora come la conseguenza di un atteggiamento
32
non è la sola: al par. 6 alieno munere richiama epist. 59, 18 (scil. gaudium) Quia non est alieni
muneris, ne arbitrii quidem alieni est; per il concetto, cfr. 298, 15 tu vivis aliena liberalitate.
33
cic. Verr. ii 2, 9 cum omnia sua commoda iura beneficia senatus populique romani unius scelere ac libidine perdidissent.
34
sen. benef. i 3, 1; i 10, 4; ii 11, 5; ii 13, 3; iii 6, 2; v 20, 7; vi 43, 2; vii 29, 1; vii 30, 1; vii 32, 1.
35
a. setaioli, Facundus seneca. Aspetti della lingua e dell’ideologia senecana, Bologna 2000, pp.
12-13; quanto alla funzione dell’interlocutore fittizio nel De beneficiis, cfr. P. li causi, Una mediazione conflittuale per una pratica della teoria. Dinamiche e funzioni dell’interlocutore immaginario
in alcuni loci del de beneficiis, in G. Picone - l. Beltrami - l. ricottilli (a cura di), Benefattori e
beneficati nel de beneficiis di seneca, Palermo 2009, pp. 211-231.
36
m.t. Griffin, seneca on society. A Guide to De Beneficiis, oxford 2013, p. 119 proprio a proposito di vii 29, 1 e vii 30, 1.
37
J.s.t.o. Zeyl, seneca’s De Beneficiis, Book one. A Commentary on Chapters one to Ten, diss.
toronto 1974, p. 99; r. raccanelli, esercizi di dono. Pragmatica e paradossi delle relazioni nel de
beneficiis di seneca, Palermo 2010, p. 34.
38
J.s.t.o. Zeyl, seneca’s De Beneficiis, Book one, cit., p. 333 e r. raccanelli, esercizi di dono,
pp. 145, nota 22 (con bibliografia sul rapporto tra beneficium e iniuria) e 207-208, ad loc.
Un tema storico nelle minores. Per una lettura della decl. 292
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errato del benefattore (ii 13, 3 Uno modo istis [scil. superbis] persuadebimus, ne beneficia sua insolentia perdant). Per seneca, si sa, perdere beneficium non è possibile: il beneficio perso non è mai stato dato.
naturalmente il concetto non manca di trovare riscontro nelle precedenti riflessioni sul tema: l’idea che beneficio non ricompensato si traduca in una perdita ricorre, per esempio, anche in aristotele, dove pure si lega spesso a espressioni attinte dal
lessico economico. mi pare avvicinarsi particolarmente allo spirito del sermo senecano il passo dell’etica a nicomaco in cui un amico deluso lamenta di aver investito
risorse in un’amicizia utilitaristica senza ottenere un contraccambio adeguato: «si
tratta di contribuzione, non di amicizia, se i vantaggi dell’amicizia non saranno proporzionali al valore delle prestazioni» (en 1163a29-30 [fasi;] leitourgivan te ga;r
givnesqai kai; ouj filivan, eij mh; kat∆ ajxivan tw`n e[rgwn e[stai ta; ejk th`~ filiva~). la
metafora della contribuzione sgradita, la leitourgiva, è tuttavia abbastanza occasionale: niente a che vedere con la sistematica ricorsività di beneficium perdere.
tornando al nostro declamatore, che evidentemente aspira a calarsi nel ruolo del
benefattore, a prima vista il suo atteggiamento sembrerebbe collimare con quello
dell’immaginario interlocutore senecano: la morte dell’ospite ha mandato a monte il
suo atto di generosità impedendogli di riscuotere un contraccambio. ma la prospettiva
cambia se guardiamo alla frase conclusiva della declamazione, introdotta ex abrupto,
come spesso accade in questi testi, caratterizzati da un rimarchevole parsimonia di
nessi logici: Habiturum me putabam qui veniret in locum liberorum. l’intenzione
espressa dal declamatore-benefattore di tenere con sé il giovane profugo trattandolo
come un figlio suggerirebbe piuttosto una prospettiva integralmente senecana, quella
del beneficium che trova la sua realizzazione perfetta proprio nella creazione di un
rapporto destinato a durare nel tempo e alimentato dall’erogazione continua di benefici39. Una relazione che in benef. ii 11, 5 è esemplificata proprio dall’amore filiale:
numquid ulla maiora [beneficia] possunt esse, quam quae in liberos patres conferunt? haec
tamen inrita sunt, si in infantia deserantur, nisi longa pietas munus suum nutrit. eadem ceterorum beneficiorum condicio est: nisi illa adiuveris, perdes; parum est dedisse, fovenda
sunt. si gratos vis habere, quos obligas, non tantum des oportet beneficia, sed ames.
il beneficium perduto sarebbe quindi, in linea con seneca, il beneficio non dato.
abbiamo a che fare con un declamatore-filosofo? la domanda è pura provocazione: è seneca, semmai, ad assumere la fisionomia del filosofo-retore. Quanto
al De beneficiis, in particolare, è ormai un dato acquisito – anche grazie agli studi
di mario lentano40 – che la retorica di scuola costituisce una sorta di «brodo di
coltura» per il tema centrale del trattato. l’apertura della riflessione etica senecana
all’analisi dei casi particolari41 e, d’altra parte, la costante ricerca di un’espressione
39
cfr. e.g. m.t. Griffin, seneca on society, cit., p. 37 «What matters here is the conception of
beneficence as creative of relationships».
40
in particolare, m. lentano, La gratitudine e la memoria. Una lettura del De beneficiis, «Boll.
stud. lat.» 39 (2009), pp. 1-28.
41
cfr. B. inwood, rules and reasoning in stoic ethics, in K. ierodiakonou, Topics in stoic Philosophy, oxford-new York, pp. 95-127, per cui seneca «mediates between the need for situational
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Lucia Pasetti
pedagogicamente efficace42 sono all’origine delle molte convergenze tra la trattazione senecana e la retorica di scuola, a partire dalla costruzione del ragionamento
per theseis43 fino alla discussione dell’actio ingrati e all’assorbimento, nella ricca
casistica dei possibili conflitti tra benefattore e beneficato, di alcuni casi limite trattati dai declamatori44.
il retore delle Minores, che pure attinge alla stessa tradizione retorica da cui
seneca è ispirato, senza essere un declamatore filosofo, può ben essere, tuttavia, un
lettore diretto del De beneficiis, un’opera che poteva farsi apprezzare come repertorio di argomentazioni concettualmente e formalmente funzionali ai suoi discorsi.
non sarà forse un caso che proprio un’espressione così pregnante come beneficium perdere, quasi inattestata prima di seneca (manca anche nella raccolta di seneca padre), ricorra invece per tre volte nelle Declamationes minores, dove il tema
del beneficium è in generale molto ben rappresentato45. Un’occorrenza interessante
è, per esempio, in 247, 17 Queritur quippe de fortuna quod beneficium perdidit: a
lamentarsi di aver perso il beneficium è una puella rapta che ha deciso di avvalersi
della ben nota optio per salvare la vita al suo aggressore. Quest’ultimo però si è suicidato, sottraendosi alla generosità di un atto che gli avrebbe consentito di evitare
la pena di morte e di ottenere il matrimonio. sono piuttosto evidenti le somiglianze
tra questo caso e quello discusso nella Minor 292, dove pure il suicidio interviene
a troncare un beneficium che, nelle intenzioni del benefattore, non si limita a far
fronte alle immediate necessità del beneficato, ma mira, come direbbe myriam
Griffin, alla costruzione di una relazione duratura. considerazioni simili possono
valere anche per la seconda occorrenza del sintagma, in min. 259, 10 non perdidit
beneficium: et puella se nihil non huic debere credidit et pater ita interpretatus est
munus istud ut existimaret amico in se ac suos omnia licere. il benefattore al centro
del caso è un povero che, dopo aver salvato la figlia di un ricco dal naufragio, è
riuscito a farsi sposare da lei in virtù della optio raptae; la scelta è contrastata dal
padre ricco, che, a dispetto del beneficio ricevuto in passato, minaccia di abdicare
la figlia se sposerà il povero. nel rievocare l’antica amicizia che legava il povero al
ricco, il declamatore ricorda che il beneficium del salvataggio era stato remunerato
dalla piena fiducia della ragazza e da un rafforzamento del legame preesistente con
il ricco padre di lei. ecco un altro caso, dunque, in cui la ricompensa del beneficium
non si estrinseca nella logica economica della remunerazione immediata, ma nello
sviluppo di un rapporto di fiducia e di amicizia, alimentato dalla gratitudine e dunque in linea con la riflessione senecana.
si potrebbero citare altri casi, ma credo che gli esempi forniti bastino per documentare il percorso circolare attraverso il quale un autore nutrito di cultura retorica
come seneca finisce per alimentare quella stessa cultura.
sensitivity and the demand for stable general principles» (a p. 110), recepito da m.t. Griffin, seneca
on society, cit., p. 128, che parla di «situation ethics».
42
ibi, pp. 125-142.
43
ibidem, in part. pp. 135-138.
44
m. lentano, La gratitudine e la memoria, cit.
45
al di là delle actiones ingrati di 333 (su cui m. lentano, La gratitudine e la memoria, cit.) e
368, mi pare che il beneficium sia un tema rilevante nelle decl. 247, 251, 257, 259, 278.
Un tema storico nelle minores. Per una lettura della decl. 292
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nella sua brevità, la Minor 292 consente, dunque, di mettere fuoco alcuni tratti
della fisionomia del «maestro»: un attento lettore dell’institutio, che sembra ignorare alcuni sviluppi della dottrina degli status databili alla seconda metà del ii secolo d.c.46; un conoscitore di cicerone, con cui instaura un rapporto consapevole
che pare andare al di là del semplice riuso di materiali scolastici. infine, un attento
lettore del De beneficiis senecano, da cui sa trarre spunti argomentativi validi per
affrontare il suo caso alla luce questioni di carattere generale.
Abstract: this article addresses some interpretative issues concerning the text of decl. 292.
in paragraph 1 (sermo), the obscure way in which the master faces the problem of the status
confirms the dependence from Quintilian’s institutio, where this particular case appears to
be known but is not fully theorized (as will be, later, by Hermogenes). in par. 4 it is advisable to retain (with shackleton Bailey 2006) the reading of the mss. (illud enim est tempus
doloris), deleted as antintrusive gloss by m. Winterbottom 1984: the sequence recalls cic.
sest. 52 (on the sufferings of cicero’s exile). in par. 6, the expression perdidi beneficium,
used in a pregnant sense, posits a direct relationship between the master of the Minores and
seneca’s De beneficiis.
Keywords: Ps. Quintilian, Declamation, status theory, seneca, beneficium.
46
come osserva michael Winterbottom nel presente volume (cfr. supra, pp. 73-83), il maestro
evita di affrontare esplicitamente gli aspetti teorici della dottrina degli status («the status system is
hardly mentioned»); tuttavia, nell’applicarla, la presuppone: nel nostro caso, il presupposto teorico è
dettato da Quintiliano, non da ermogene.