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Storia e piccole patrie. Riflessioni sulla storia locale

2017, Società pesarese di studi storici, Atti

Atti di un convegno sulla storia "locale" svolsi a Pesaro il 1° aprile 2016 per il XXV di fondazione della Società pesarese di studi storici

Storia e piccole patrie Società pesarese di studi storici Storia e piccole patrie Riflessioni sulla storia locale a cura di Riccardo Paolo Uguccioni Società pesarese di studi storici atti Atti del convegno di Pesaro (1 aprile 2016) con il patrocinio di Giunta centrale per gli studi storici Deputazione di storia patria per le Marche Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” in collaborazione con Società editrice il Mulino, Bologna Biblioteca-archivio “Bobbato”, Pesaro Istituto di Storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino Ente Olivieri-Biblioteca e Musei Oliveriani, Pesaro con il contributo di © 2017 Società pesarese di studi storici il lavoro editoriale, Ancona Isbn 9788876638275 Riflessioni su tante storie di Riccardo Paolo Uguccioni Il convegno “Storie e piccole patrie”, svoltosi in Pesaro il 1° aprile 2016, è nato da una causa prossima, i venticinque anni della Società pesarese di studi storici. L’idea di un’associazione, che si occupasse di storia del Pesarese, nasce nell’estate 1989; il 20 aprile 1990 otto amici (Girolamo Allegretti, Massimo Frenquellucci, Claudio Giardini, Roberta Martufi, Giovanna Patrignani, Michele Sereni, Federica Tesini e chi scrive) la fondano; nel dicembre 1991 esce il primo numero di “Pesaro città e contà”, diretta poi per vent’anni da Girolamo Allegretti, mente e cuore dell’impresa. In sequenza sono poi usciti trenta numeri di “Pesaro città e contà”, affiancati da una collana di quaderni e con in più l’edizione di alcuni catasti storici di Pesaro (sostenuti, questi ultimi, dalla Fondazione Scavolini). Nel 2012, mutando la direzione, la rivista diventa “Studi pesaresi” (ma con lo stesso sottotitolo “Rivista della Società pesarese di studi storici” e la stessa autorizzazione del tribunale, integrata ad hoc); della nuova testata sono usciti finora quattro numeri e un quaderno: il quinto è in preparazione. La rivista si occupa istituzionalmente di storia in un ambito geografico definito: Pesaro e il suo contado; la delegazione apostolica di Urbino e Pesaro; la provincia di Pesaro e Urbino, ecc. Ma su ciò è inutile dilungarsi: tutte le informazioni si trovano negli Indici 1991-2011 e nel sito web del sodalizio (www.spess.it), dove gli stessi Indici compaiono. A un convegno sulla storia locale pensavamo da tempo con alterni entusiasmi, qualche perplessità nascendo dall’oggetto stesso, che in Italia ha goduto di fama incerta. Sul problema aleggia una domanda: esiste poi una storia locale o è storia tout court? La dimensione estesa o locale della storia è, crediamo, un problema di scala, non di rigore, e dipende dall’oggetto di studio e dal grado 5 di approfondimento (o di sintesi) cui si vuole pervenire. L’indagine locale ha peraltro una caratteristica che può essere punto di forza: di solito vive di ricerca, più che di letteratura, e perlustra archivi spesso sconosciuti. Il rovescio della medaglia, si sa, è l’esigenza di non esaltarsi per le “nostre glorie”, di approfondire i temi. Perché la narratività storiografica, alla fine, va intesa «come una forma di conoscenza e non solo come intrattenimento e divulgazione» 1. Questo convegno non è nato dunque per giustificare la storia locale, su cui altri consessi si sono già espressi, ma per verificare come in ambiti diversissimi – per questo abbiamo ascoltato archivisti, contemporaneisti, geografi, medievisti, modernisti, storici dell’arte, ecc. – ciascuno specialista si rapporti con la ricerca territorialmente delineata. Quello della storia locale è un argomento antico, dibattuto da tempo. Non si può non partire, anzitutto, dagli studi locali promossi dopo il 1861 da deputazioni e società di storia patria, studi che – scrisse Paolo Prodi – hanno contribuito all’integrazione culturale dell’Italia unita sia dal punto di vista geopolitico che sociale: dal punto di vista geopolitico perché [quell’attività] ha permesso la crescita di una forte attenzione alla storia locale, degli antichi Stati italiani e delle loro componenti, e nello stesso tempo di una coscienza nazionale; dal punto di vista sociale perché ha permesso nelle nostre cento città per la prima volta un dialogo tra diverse esperienze divaricanti dopo la conclusione dell’epopea risorgimentale, tra destra e sinistra, tra laici e cattolici, tra ceto elevato e popolo 2. Certo, oggi non siamo molto attratti da certi studi “patriottici”, utili ma partigiani (e perfino settari fino alla cecità), volti a magnificare le sorti del risorgimento nazionale, ma è altrettanto vero che nei decenni le cose sono profondamente cambiate. La Deputazione di storia patria per le Marche, per es., ha tenuto anni fa un convegno dai cui atti si evince la vastità di quegli studi e anche la loro profonda evoluzione nel tempo 3. Sul tema della storia locale si è svolto nel 1980 un convegno a Pisa, sui cui esiti alcuni nostri relatori hanno espresso decise riserve. Ad ogni modo fu lì che Cinzio Violante, curatore degli atti, propose il termine «storia degli ambiti», sottolineando il valore spaziale di 6 certa ricerca storiografica su spazi e temi circoscritti 4. Peraltro in quel convegno emersero concezioni molto diverse della storia locale: da un lato ricerca concreta, in ambiti delimitati, di temi afferenti alla storia generale; dall’altro la storia per così dire totale ma di un territorio molto circoscritto. Giorgio Chittolini sottolineò l’ambiguità dello stesso termine “locale”, perché temi, fonti e metodi restavano sostanzialmente quelli della storia generale, e anche il comune denominatore era lo stesso, la conoscenza approfondita del quadro territoriale cui la ricerca si riferiva 5. I relatori espressero pareri discordi anche sull’età anagrafica della storia locale: appena qualche lustro, propose Giorgio Gracco 6, facendola risalire in Italia agli anni Sessanta (non che prima mancasse, osservò, ma era nelle mani di dilettanti, di amateurs). Fra anni ’80 e ’90 è stata notevole, e antitetica, l’opera di Edoardo Grendi, anch’egli ricordato nelle pagine seguenti. Grendi ha affrontato diversi temi di ambito ligure (con particolare attenzione a storia urbana, mutualismo, associazionismo laico, pratiche devozionali in età preindustriale, ecc.) e nel 1989 ha fondato con altri colleghi il Seminario permanente di Storia locale presso il dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell’Università di Genova. La sua proposta è stata un approccio “topografico” alla ricerca, una «integrazione tra conoscenza del territorio e della società territoriale, fra storia e studi del territorio». Deplorando la mancata sinergia di studi locali tra storici e altri specialisti del territorio, Edoardo Grendi individuava in questa disertata saldatura disciplinare (di cui è spia anche la frattura tra l’esperienza di ricerca degli specialisti e quella degli storici dilettanti) le ragioni «della sostanziale inesistenza di una storia locale in Italia» e la persistenza di un modello ottocentesco di storia patria 7. Sul finire del 1987 si è tenuto un convegno all’Aquila, promosso dalla Deputazione di storia patria negli Abruzzi 8. Suddiviso per aree geografiche, vi partecipano illustri studiosi: Giovanni Cherubini per la Toscana, Sergio Anselmi per le Marche, Dino Puncuh per la Liguria, Giuseppe Giarrizzo per la Calabria, ecc. Nel discorso di chiusura Paolo Brezzi, allora vicepresidente della Giunta centrale per gli studi storici, si districa dal giudicare il rapporto fra storici illustri e studiosi «più modesti», che però conoscono «ogni più particolare vicenda» delle loro piccole patrie: 7 affrontando questa tematica ci inoltriamo sopra un terreno minato perché il dibattito sui rapporti che debbono esistere tra la storia locale e quella generale è sempre stato non solo assai vivace e frequente, ma soprattutto non sempre sereno e obiettivo 9. La relazione di Sergio Anselmi in quel convegno, dopo aver descritto le Marche in età moderna e le relative problematiche storiografiche, traccia una linea di evoluzione della storiografia regionale partendo necessariamente dall’attività della Deputazione di storia patria, di cui sottolinea meriti e demeriti: accanto a studiosi che si sono occupati di statuti, catasti, estimi, del rapporto città-campagna (Gino Luzzatto, Giulio Grimaldi, Amedeo Crivellucci, Lodovico Zdekauer, ecc.), attorno all’istituto si sono raccolti anche tardo risorgimentalisti che hanno insistito sulla storia del territorio «in chiave teleologica e nazionalistica» (il cuore di Anselmi batteva chiaramente per i primi); nel secondo dopoguerra le cose sono cambiate prima con Enzo Santarelli, poi con Werther Angelini, Dante Cecchi, Febo Allevi, Raffaele Molinelli; ma il più fecondo passaggio storiografico nella regione, secondo lo storico senigalliese, è stata l’attivazione della facoltà di Economia in Ancona, con Alberto Caracciolo alla cattedra di Storia economica, e la fondazione dei “Quaderni storici delle Marche” con Renzo Paci, Bandino Giacomo Zenobi e Ercole Sori, seguita nel 1978 dalla nascita di un’altra importante rivista, “Proposte e ricerche”. Sergio Anselmi concludeva ricordando il volume della Storia d’Italia Einaudi dedicato nel 1987 alle Marche: gli autori di oltre metà di quelle ottocentosettantacinque dense pagine, ricordava, erano docenti di scuola media, e non universitari 11. Una conclusione positiva, che sottolineava un bell’esempio di sinergia fra “strutturati” e cultori della materia. 1 adriano proSperi, Disciplinamento, in paulo Butti de lima (a cura), Historìa. Saggi presentati in occasione dei vent’anni della Scuola Superiore di Studi Storici, Aiep ed., San Marino 2010, p. 75. 2 paolo prodi, Le ragioni di un convegno, in agoStino BiStarelli (a cura), La storia della storia patria. Società, Deputazioni e Istituti storici nazionali nella costruzione dell’Italia, atti conv. Venaria 17-19 maggio 2011, Viella, Roma 2012, p. 9. 3 La storiografia nazionale e la storiografia locale negli ultimi cento anni. Il 8 contributo della Deputazione di storia patria per le Marche, atti conv. Ancona 1415 dicembre 1990, “Atti e memorie” 95 (1990), Ancona 1993. V. anche gilBerto piccinini, La Deputazione di storia patria per le Marche nei primi centocinquant’anni di attività, in BiStarelli, La storia della storia patria cit., pp. 233-252; giuliana procacci (a cura), La nascita delle istituzioni culturali nelle Marche postunitarie, atti conv. Urbino 11 aprile 2011, Il lavoro editoriale, Ancona 2013. 4 cinzio Violante, Premessa, in id. (a cura), La storia locale. Temi, fonti e metodi della ricerca, il Mulino, Bologna 1982, p. 11. 5 giorgio chittolini, A proposito di storia locale per l’età del Rinascimento, in Violante, La storia locale cit., pp. 121-122. 6 giorgio gracco, Tra le fonti letterarie di un’epoca discussa: il Rinascimento, in Violante, La storia locale cit., p. 105. 7 Vittorio tigrino, «La vocazione alla contestualità». Ricerca e didattica in Edoardo Grendi (1932-1999), in www.stmoderna.it/Memoria/DettagliMemoria. aspx?id=28 (cons. 18 febbraio 2017); sul Seminario permanente v. id., Storia di un Seminario di Storia locale. Edoardo Grendi e il Seminario permanente di Genova (1989-1999), in roBerta ceVaSco (a cura), La natura della montagna. Scritti in ricordo di Giuseppina Poggi, Oltre ed., Sestri Levante 2013, pp. 211-232. 8 Deputazione di storia patria negli Abruzzi, Storia locale e storia nazionale, atti conv. 2-5 dicembre 1987, L’Aquila 1992. 9 paolo Brezzi, Discorso di chiusura, in Storia locale e storia nazionale cit., p. 148-149. 10 Sergio anSelmi, Una regione tra economia marittima, mezzadria e montagna: le Marche in età moderna, in Storia locale e storia nazionale cit., pp. 75-85. 9 Il passato, le piccole patrie e la storia di Grado Giovanni Merlo Quanto sto per dire susciterà più di una perplessa sorpresa, all’apparenza presentandosi lontano dal tema del nostro incontro. Tuttavia, a una riflessione più attenta, la prossimità risulterà con sufficiente chiarezza, quando si capiranno le ragioni profonde della mia esposizione. Parlando in apertura dei lavori, ho ritenuto di proporre alcune considerazioni relative a un orizzonte culturale in cui si situa ai giorni nostri la ricerca storica in tutte le sue articolazioni, compresa la cosiddetta storia locale. Inizio perciò manifestando la mia ritrosia preliminare di fronte all’uso disinvolto e distratto della parola storia. Escludendo che essa vada assunta con la “esse” maiuscola, quasi si trattasse di una dea greca che dall’alto dell’Olimpo giudica ex post le opere di uomini e donne, distribuendo qua e là attestati di elogio o di riprovazione, di assoluzione o di condanna, come possiamo definirla? Per tentare una risposta, tra l’altro, si può ricorrere, in modo un po’ inattuale, a quanto si legge nelle prime pagine della Introduction à la philosophie de l’histoire di Raymond Aron, un volume del 1938 che in Italia forse avrebbe meritato maggiore attenzione di quella ricevuta: La storia, in senso stretto, è la scienza del passato umano. In senso largo, essa studia il divenire così della terra, del cielo e delle specie come della civiltà (“civilisation”). D’altra parte, in senso concreto, il termine storia designa una certa realtà; in senso formale, la conoscenza di questa realtà 1. Quattro dunque sono i «sensi» della storia – «stretto», «largo», «concreto», «formale» – con corrispondenti quattro designazioni, che quindi raddoppiano la tradizionale distinzione binaria di res ge10 stae e di historia rerum gestarum: «scienza del passato umano»; studio del «divenire» della natura e della presenza umana in essa; una qualche «realtà» del passato e «la conoscenza di questa realtà». Partendo da siffatta articolazione concettuale, Raymond Aron impiegò circa cinquecento pagine per dipanarla e chiarirla, ma senza giungere a una conclusione definitiva, dopo aver sottolineato la «antinomia fondamentale tra prospettive storiche e considerazioni filosofiche della storia, ideologie e verità progressiva della retrospezione, particolarità delle decisioni e universalità della vocazione» 2. Tuttavia, a una qualche certezza egli giunse: L’uomo è una storia se, come la durata individuale costituisce il me, la storia intera si confonde con l’umanità, se questa crea se stessa attraverso il tempo e non preesiste né nell’al di là né nella fissità di una definizione, in cui si trova incastrata. Perciò, l’ultimo termine dell’analisi saranno la temporalità e, nel contempo, la libertà. Il tempo non è uno specchio deformante o uno schermo che dissimula l’essere vero, ma l’espressione della natura umana la cui finitudine implica il camminamento indefinito. La storia è libera perché non è scritta anticipatamente, né determinata come una natura o una fatalità, imprevedibile come l’uomo per se stesso 3. Non è caso che l’Introduction à la philosophie de l’histoire si concluda con un capitolo su Temps historique et libertè 4. Né stupisce che ciò provenga da chi, poco prima della seconda guerra mondiale, si stava occupando di «philosophie critique de l’histoire», ossia delle premesse delle “teorie sulla storia” fenomenologiche, esistenzialiste e, soprattutto, storiciste. La chiarezza di un Raymond Aron non sembra essere stata apprezzata e utilizzata dai filosofi che nella seconda metà del Novecento e agli inizi del nostro secolo hanno riflettuto sulla “storia”. Anzi, in contrasto con la clarté aroniana, una certa confusione ha preso il sopravvento in relazione alla “filosofia della storia”, anche a seguito dell’impatto disastroso sul “pensiero” (occidentale) avuto dalle tragedie della prima e seconda guerra mondiale (compresi i campi di sterminio nazisti) 5. Anzi, la crisi della filosofia della storia, come è noto, risulta contestuale alla crisi dell’Occidente. Il discorso si fa, a questo punto, troppo complesso per essere affrontato in questa sede. Sia sufficiente la constatazione 11 che «crisi» è parola che connota pure, in modo eminente e da lungo tempo, la cultura europea, storica e non. I filosofi riflettono, sul piano teorico e teoretico, intorno al mistero dell’esistenza. Gli storici studiano, sul piano concreto ed empirico, il mistero delle esistenze. Le teorie del pensiero storico riguardano l’ambito filosofico e non la “fattualità” della vicenda umana del passato su cui invece dovrebbero concentrarsi le ricerche degli “storici”: i quali, per altro, in generale sono poco o nulla interessati a quella teoreticità che sarebbe indispensabile per una “pratica” cosciente del proprio “mestiere”, oppure, peggio, non possiedono la strumentazione per affrontare i fondamenti teorici che le loro ricerche implicano. Che si sia storici o che si sia filosofi, comunque per gli uni e per gli altri continua a mantenere il suo peso ineliminabile il passato: passato che uomini e donne di oggi non possono non tenere in conto e prendere seriamente in considerazione. E uomini e donne, in modo consapevole o non, lo vivono e lo interpretano in senso latamente storicistico: nessuno può pensare che il suo passato non incida sul suo presente e sul suo futuro. Certo, esistono modalità diverse di rapportarsi con lo storicismo e ampie possibilità di vederne limiti e parzialità. In questa sede è sufficiente limitarsi a un qualche volgarizzamento della “galassia storicismo” e, soprattutto, dei suoi limiti: volgarizzamento comprensibile con immediatezza anche da chi non professi la filosofia o la storia per mestiere o per passione. A tal fine soccorre, tra i mille supporti disponibili, la «parte finale di un discorso che [Norberto] Bobbio tenne a Vercelli nel 1965, nel ventennale della Liberazione» 6: La Resistenza ha permesso all’Italia di riprendere la propria storia là dove era stata interrotta: ha rimesso la storia d’Italia nella storia del mondo, ci ha fatto di nuovo procedere all’unisono col ritmo con cui procede la storia delle nazioni civili. Rispetto al fascismo è stata una svolta, rispetto all’Italia prefascista, un ricominciamento su un piano più alto: insieme frattura e rinnovamento. Non occorrono molte parole per mettere in rilievo come questo 12 brano contenga in efficace sintesi alcuni degli elementi di uno storicismo alimentato da una visione etico-politica: elementi di forza, si direbbe, che ne sono anche la debolezza. La forza è data dalla sicurezza intorno ai concetti: «la storia d’Italia», «la storia del mondo», «la storia delle nazioni civili», con i relativi valori “veri” che in essi sarebbero contenuti e da essi trasmessi. Nulla da stupire allora che il senso della «Resistenza» comporti «un ricominciamento su un piano più alto». La debolezza sta invece a due livelli: il primo riguarda il contenuto di quei concetti, che lascia più di una incertezza – quali erano e sono le «nazioni civili»? che cos’era e che cos’è la “civiltà”? –, e il secondo, ben più coinvolgente, concerne la inevitabile possibilità che le affermazioni di Norberto Bobbio vengano rovesciate da chi invece pensi esattamente il contrario, cioè che la Resistenza abbia interrotto la funzione del fascismo nella storia d’Italia e nella «storia delle nazioni civili» e che il «ricominciamento» sia avvenuto su un piano più basso, perché ha interrotto il “civilissimo procedere” del fascismo, e così via. Siamo così condotti sul piano della interpretazione ideologica, nel quale tutti e nessuno hanno ragione, e quindi, rimanendo e insistendo su tale piano, non si ricaverà alcun contributo di conoscenza: al massimo si perverrà al detestabile e volatile opinionismo. La «storiografia dello “Arrivano i nostri!”», con relative opposte e inconciliabili direzioni sollecitate dall’entusiastica passione tifosa, è un evidente frutto di certe ideologie, di certe visioni del mondo, che non rispettano il passato, anzi lo strumentalizzano, costruendosi una storia, e ne abusano 7: lasciando aperte tutte le domande relative, per riferirci al citato brano di Norberto Bobbio, a Resistenza e fascismo e alla necessaria traduzione del passato fascista e del passato resistenziale in storia, cioè in una conoscenza che faccia comprendere dell’uno e dell’altro genesi lontana e prossima, ideologia e “visione del mondo”, interessi materiali, caratteri istituzionali, strutture di potere, decisioni di politica interna ed estera, modalità fattuali, collocazione nel loro tempo, simbologia e ritualità e così via. Queste considerazioni sono del tutto estranee a un qualsivoglia cedimento a revisionismi o rovescismi di sorta 8 o, peggio ancora, al delinquenziale negazionismo 9: nella piena coscienza che proprio sulla traduzione del passato fascista e del passato resistenziale in 13 storia (storia, ovvero conoscenza storica che diventa così patrimonio comune, non “medagliere” o “galleria degli antenati illustri” degli uni o degli altri, non arma impropria con cui abbattere gli avversari) vi è un pluridecennale scontro, apparentemente storiografico, ma in realtà strumentalmente politico-ideologico. Si tratta di un’evidente manifestazione dell’uso politico del passato, o di quello che viene presentato come tale, camuffato con la maschera della “storia”: una maschera assai spesso dalla fisionomia risibile, quando non sconvolgente 10, tanto da spingere a condividere la posizione «radicale» ed estrema di Giuseppe Sergi che propone «la rinuncia a “usare” la storia» 11. Tale posizione potrebbe essere arricchita coniugandola in maniera feconda con quella di chi, Henri-Irenée Marrou, alla fine degli anni Trenta del Novecento affermava: «La storia influirà sulla nostra esistenza in un modo tanto più efficace quanto meno avremo cercato in essa anzitutto un interesse immediato» 12. La conoscenza del passato che si fa storia è connessa in modo inestricabile con la domanda «Come è potuto accadere?» 13 e, su un altro piano, con la libertà, che si dirige in senso sia retrospettivo sia prospettico, nella piena accettazione della condizione umana: una condizione umana che esprime coscienza di sé quando non è determinata e costretta, ma quando è libera. Lo studioso del passato – di qualsiasi tema egli si occupi – diviene “storico” quando è libero, vale a dire non subordina la sua ricerca a fini estranei a essa, consapevole dei propri personali limiti e condizionamenti, quando vuole capire e conoscere, contribuendo alla comprensione e alla consapevolezza per tutti. Come il passato si trasforma e si sublima in “storia”? La conoscenza del passato non può prescindere dai dati di fatto attestati dalla documentazione né deve mistificarli: dati di fatto che non si limitano alle cose e agli avvenimenti, ma che comprendono anche le istituzioni, le idee, i sentimenti, le passioni, le fantasie, i sogni, le illusioni di uomini e donne a livello sia individuale sia collettivo. Dalla documentazione, dunque, incomincia l’operazione intellettuale il cui esito noi possiamo chiamare storia, ovvero quella che noi chiamiamo storia è il risultato di un’operazione intellettuale – la ricerca storica – che ha come fine la conoscenza del passato stesso, così non lasciato al caos dell’insieme cumulativo delle testimonianze, ma rielaborato intellettualmente e, in quanto tale, passibile 14 e necessitante di controllo sia nei metodi sia nei contenuti. Si può parlare, come spesso si è fatto e si continua a fare oggi, di «scienza storica»? Credo che si tratti di una questione esauritasi al volgere dall’Ottocento al Novecento, ma soprattutto di una questione fuorviante, come sarebbe fuorviante l’analoga domanda in riferimento a qualsiasi altro settore degli studi umanistici. Al di là delle parole, la questione si incentra allora sulla «conoscibilità [o non conoscibilità] del passato» 14. La soluzione sembra oggi più facile di ieri: La conoscenza storica è possibile ed è in grado di produrre verità relative e circoscritte, come tali, confutabili e rivedibili come quelle di ogni scienza, ma non per questo meno “vere” di quelle prodotte dalle altre 15. In effetti, anche gli studiosi delle scienze cosiddette dure sembrano pervenire a conclusioni simili quando, per esempio, così si esprimono: La scienza, in realtà, significa imparare a gestire l’incertezza e a valutarla: lo dimostrano la teoria degli errori o il principio di indeterminatezza di Heisenberg, passando per la valutazione continua delle teorie 16. Gestire e valutare l’incertezza non significa rinuncia alla “verità”, ma esprime una forte e ineliminabile tensione verso la “verità”, ben sapendo che mai la raggiungeremo in modo definitivo, ma che possiamo (e dobbiamo) ad essa sempre più approssimarci. Forse la vicenda umana non contiene in se stessa una verità o, meglio, le testimonianze del passato non contengono un’unica verità: sono corpi spugnosi che rilasciano a poco a poco le gocce della verità, sono palinsesti in cui le verità si sovrappongono a strati. La stratigrafia della verità documentaria consente, talora impone un’opera continua di raschiatura di quanto è risultato o fatto risultare evidente attraverso le fonti e i documenti. D’altronde, che cosa è certo e vero in modo assoluto e immutabile in qualsiasi ambito del pensiero e del sapere umani? Qual è la verità delle idee e dei fatti, se si è voluto e dovuto fare ricorso ai dogmi, religiosi e non? Senza dogmi vi è la fatica della ricerca che non conosce fine e che sa del carattere contingente 15 delle proprie acquisizioni. Allora, lo sforzo dello studioso del passato può sembrare simile alla «eterne fatiche di Sisifo», come ha scritto Alceo Riosa, il quale però rileva nel contempo come Sisifo, nonostante tutto, «non sia disperato giacché – ricordando le parole di Albert Camus – “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”» 17. «La lotta verso la cima» non è comunque esclusiva dello studioso di storia, ma motiva e connota qualsiasi attività di ricerca, umanistica e non. La tensione comune non nasconde però le diversità. La ricerca storica è divisa in modo inesorabile dalle scienze sperimentali a ragione dell’impossibilità costitutiva di riprodurre i fenomeni che studia: il passato delle vicende umane non è ri-realizzabile in vitro; il passato umano è avvenuto una volta per sempre e non avverrà mai più. Tuttavia, ciò non significa ridurre tutto a una “storicizzazione” o a “contestualizzazioni” assolute 18. In merito le affermazione di Henry-Irenée Marrou, relative al pensiero di Agostino di Ippona, hanno un’applicabilità assai più ampia. Leggiamole: [Il pensiero di Agostino] è un insieme estremamente vicino a noi e a noi tanto estraneo, volta a volta così seducente e così sconcertante, di una portata eterna e tuttavia così “nettamente” datato 19. Il passato umano, per quanto altro, si prolunga nel presente sul piano sia culturale sia biologico e materiale. Pertanto, non c’è presente senza passato e il passato, soprattutto quando si è fatto “istituzione”, preme sul presente più di quanto di norma si pensi. Tuttavia, il passato umano è soltanto ciò che di quel passato è giunto e riesce a giungere fino a noi, anzi con esso coincide a livello di conoscenza: una conoscenza che trova il suo compimento nella elaborazione intellettuale della documentazione. L’elaborazione intellettuale ordina il passato in storia, interpretandolo. Assai suggestivo in proposito è il motto che Marc Bloch e Lucien Febvre ripresero dalla tradizione positivista, dalla quale per altro si staccavano: «Pas des documents, pas d’histoire» 20. Ma c’è da chiedersi se, in primo luogo, uomini e donne viventi siano o non siano essi stessi “documenti”, in quanto portatori in sé di un passato e, quindi, documenti per una storia, e se, in secondo luogo, uomini e donne, in quanto documenti-proble16 ma, rientrino o non rientrino nella complementare affermazione di Lucien Febvre: «Senza problemi, niente storia» 21. Ogni individuo, uomo e donna, è il prodotto presente di una lunga vicenda che proviene dal passato e ha il diritto/dovere di conoscere quella vicenda e dare a essa un “senso”: ogni individuo quando si impadronisce criticamente del proprio passato, ha così una ovvero la propria storia, che comunque è sempre collegata alle vicende di altri. La riflessione ordinativa sul passato, che coincide con la storicità del presente, è una delle condizioni attraverso cui ogni individuo può giungere a “conoscere se stesso” e a confrontarsi coscientemente con gli altri: lo stesso può dirsi per una collettività o, addirittura, per l’umanità nel suo complesso. D’altronde, la realtà del passato non giustifica se stessa se non attraverso l’operazione intellettuale il cui risultato noi chiamiamo storia: per cui il titolo di questo intervento potrebbe essere ancora modificato diventando L’insopprimibile realtà del passato che si fa storia. La realtà del passato-storia è insopprimibile in dipendenza dell’altrettanto insopprimibile storicità del presente, sia nella retrospettiva e cosciente dipendenza dal passato, sia nella prospettica e responsabile prefigurazione del futuro. La conoscenza critica del passato non è asettica e indolore. Essa non comporta algide elaborazioni di “modelli” o esaltanti e compiaciute celebrazioni. Implica, piuttosto, rigorose e libere operazioni di realismo, di demitizzazione anche, e di presa d’atto del “difficile mestiere di vivere” 22. Il bene e il male compiuti da uomini e donne del passato, più o meno prossimo, non giustificano in alcun modo le scelte dei loro discendenti, i quali davanti alle decisioni, grandi e piccole, di breve, medio e lungo periodo sono i soli responsabili di ciò che fanno e faranno: scelte tra il bene e il male che non sono dati, ma che sono essi stessi il contenuto delle scelte. Il passato non attribuisce privilegi, positivi o negativi, a chicchessia. Il passato dell’umanità appartiene a tutti e tutti devono (dobbiamo) fare i conti con esso, attraverso esercizi rigorosi di conoscenza e di comprensione. Conoscere e comprendere è esercizio di peso non lieve, che si aggrava poiché le testimonianze del passato sono contenute nella gerla che portiamo dietro alle nostre spalle. Scaricare il contenuto della gerla è rischioso, perché non sappiamo in precedenza che cosa essa contenga. Perciò affrontare ed entrare nel passato per cercare di conoscerlo e capirlo è un rischio, è un viaggio a ritroso verso l’ignoto 17 e verso la nostra oscura interiorità. Studiare il passato che è fuori di noi e in noi, per trasformarlo e sublimarlo in storia, è un esercizio che occorre compiere con una ragione e una passione/compassione 23, che richiedono «un’intelligenza con pietà» 24, poiché sparge il sale sulle ferite, incide nella carne viva, mette in diretto contatto con le miserie e le grandezze dell’essere uomini e donne: uomini e donne che nascono, vivono e passano su questa terra, chi sperando e chi disperando che questo loro essere in qualche modo si prolunghi. 1 R. aron, Introduction à la philosophie de l’histoire. Essai sur les limites de l’objectivité historique. Nouvelle édition revue et annoté par S. Mesure, Gallimard, [Paris] 1986, p. 17. 2 Ibid., p. 437. 3 Ibid., p. 404. 4 Ibid., pp. 431-437. 5 Cfr: G.G. merlo, «Rappresentare la Shoah», in «Bollettino storico vercellese», 66 (2006), pp. 119-124. 6 In «La Stampa», del 18 febbraio 2015, p. 31 (anticipazione di un testo in n. BoBBio, c. paVone, Sulla guerra civile. La Resistenza a due voci, Bollati Boringhieri, Torino 2015). 7 In merito importanti indicazioni di metodo e di contenuto in G. Sergi, Antidoti all’abuso della storia. Medioevo, medievisti, smentite, Liguori, Napoli 2010. 8 In merito importanti e condivisibili riflessioni di A. d’orSi, Il diritto e il rovescio. Un’apologia della Storia, Aragno, Torino 2006, pp. 81-119. 9 Cfr. P. Vidal-naquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah, introduzione di G. miccoli, Viella, Roma 2008. 10 Sintetiche e assai efficaci considerazioni in d’orSi, Il diritto e il rovescio cit., pp. 70-78. 11 Sergi. Antidoti all’abuso cit., p. 2. 12 H.-I. marrou, Tristezza dello storico. Possibilità e limiti della storiografia, a cura di M. guaSco, Morcelliana, Brescia 1999 (ed. orig., 1939), p. 71. 13 Cfr: le riflessioni esemplari di G. miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Rizzoli, Milano 2000, p. XI. 14 S. rogari, La scienza storica. Principi, metodi e percorsi di ricerca, De Agostini-Utet Università, Novara 2013, p. IX. 15 Ibid., p. X. 16 Sono parole del fisico Carlo Rovelli intervistato da Gabriele Beccaria, “La splendida incertezza che ci fa progredire”, in «Tuttoscienze – La Stampa» del 28 gennaio 2015, p. 16. 18 17 A. rioSa, Scrivere storia o il lavoro di Sisifo, in Conoscere per tracce, Epistemologia e storiografia, a cura di E. di nuoScio, m. gerVaSoni, Edizioni Unicopli, Milano 2005, p. 117. 18 Si vedano, sia pur da un punto di vista diverso, le analisi e le proposte di G. chittolini, Un paese lontano, in «Società e storia», XXVI (2003), pp. 331-354, con conseguente “discussione” da parte di F. Benigno e di E. I. Mineo, in «Storica», 28 (2004), pp. 127-151. 19 H.-J. marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1938, p. XIV. 20 Cfr. d’orSi, Il diritto e il rovescio cit., p. 51. 21 L. FeBVre, Problemi di metodo storico, Torino. Einaudi, 1966, p. 143. 22 Cfr. G. ricuperati, Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia, Laterza, Roma-Bari 2005. 23 Cfr. J. améry, Intellettuale a Auschwitz, presentazione di C. magriS, Bollati Boringhieri, Torino 1987, pp. 15-22. 24 E. Franzini, Rappresentazione e catarsi, in Rappresentare la Shoah, a cura di A. coStazza, Cisalpino, Milano 2005, p. 133. 19 Topografia, globalità, comparazione. Pratiche di storia dei territori locali di Girolamo Allegretti La storia locale ha, in Italia 1, una cattiva letteratura e una pessima cinematografia. Si aggira sulla storia locale lo spettro dell’allampanato avvocato di Amarcord, che contrappunta in bicicletta tutto il film, talora declamando le trite banalità che sempre accompagnano l’ignoranza della storia (“fin dalla preistoria”, origine della città “perduta nella notte dei tempi”, terra di confine, importanza strategica), talaltra esercitando una stralunata critica storica a proposito di miti vernacolari (il Principe e la Gradisca, le ben trenta baiadere sbarcate al Grand Hotel), e sempre accolto dai suoi concittadini con sonore recensioni: è insomma l’immagine, anch’essa vernacolare, della storia locale come pedanteria e irrilevanza. Si arriva a imputare la storia locale – troppo corriva! – per le alte tirature, le sale piene, la committenza bendisposta: ma questo è un discorso a parte, ingeneroso e un po’ grottesco, da sviluppare in altra sede perché non riguarda tanto gli statuti della storia locale quanto gli sbarramenti corporativi alla scienza e alla conoscenza. Chi vi parla è uno storico locale. Ha lavorato molto, e gli “capita” di riflettere sul lavoro che sta facendo, e come e perché lo fa. Il convegno pesarese gli offre oggi l’opportunità di dare una qualche organicità a quei pensieri e a quella pratica. Qualche messa a punto terminologica. Storia locale / storia generale: la contrapposizione dei due termini fu il leitmotiv del ben noto – deludentissimo – convegno pisano del 9-10 dicembre 1980 2. Le relazioni pubblicate furono di Cinzio Violante (promotore del convegno e curatore degli atti), Emilio Gabba, Umberto Laffi, Lellia Cracco Ruggini, Vito Fumagalli, Cosimo Damiano Fonseca, Giorgio Cracco, Giorgio Chittolini, Giorgio 20 Spini, Paolo Prodi, Giulio Guderzo, Gabriele De Rosa: l’accademia di quegli anni al gran completo. Agli esiti di quel convegno Edoardo Grendi riserva una serrata analisi e giudizi sprezzanti di «singolare babele» e «paternalismo clericale 3. In effetti l’impressionante dispiegamento di uomini e mezzi – una sorta di invencible armada della storiografia italiana – concluse, pur con evidente disagio e qualche timida apertura 4, che si potrebbe arrivare a legittimare la storia locale solo a patto che: a) si riconosca ancella della storia generale e non si diparta dai solchi da essa tracciati o tracciandi; b) sappia rendersi utile alla storiografia generale [la quale di far ricerca di base non ha né tempo né voglia]; c) accetti e ricerchi il controllo e la guida degli storici accademico-generali (professionisti vs dilettanti, insiders vs outsiders, che è poi il vero punto rovente della querelle), con l’intermediazione eventuale delle società di storia patria. Anche in tempi successivi Violante, constatando una pretesa «crisi della storiografia locale» nel secondo dopoguerra, l’attribuisce alla evoluzione dei tempi, che ha trasformato e spesso mortificato le condizioni dei ceti ai quali per lo più appartenevano gli studiosi di storia patria (professori di scuole secondarie, sacerdoti, professionisti, proprietari terrieri, nobili) 5. Forse che, per rivitalizzare la storia locale che peraltro non sembra proprio averne bisogno, Violante pensa di restaurare la mezzadria e il maggiorascato? Seguiranno le orme del convegno pisano i cattedratici della tradizione, con l’appendice delle deputazioni di storia patria. «La storia locale deve confrontarsi con quella generale, deve calarsi in essa e da essa trarre il quadro di riferimento» continuerà a prescrivere, anni dopo, Dino Puncuh sull’organo di una deputazione appunto; e Paolo Brezzi: «È sottinteso che la responsabilità scientifica, la direzione delle iniziative spetterà sempre ai Membri delle Deputazioni o ad altri docenti» 6. Basterà adesso notare che l’antonimo di generale è particolare, 21 mentre l’opposto di locale è universale. Oggi, più correttamente per un verso, a locale si contrappone nazionale 7, ma è facile obbiettare che anche l’Italia è un luogo: un luogo dell’Europa luogo del mondo. Che cos’è dunque la storia locale? Premetto che ciò che sto per dire ha una doppia matrice: da una parte l’impostazione teorica della cosiddetta scuola di Leicester, o English local history (da Hoskins 8 a Finberg, Tiller e Phythian-Adams 9 riproposti da Sergio Anselmi 10 e lucidamente riletti da Edoardo Grendi), dall’altra la rivoluzione delle “Annales” 11, assimilata dagli inglesi stessi e, da noi, sbarcata più o meno negli stessi anni con Luigi Dal Pane e la sua operosa scuola emiliana 12 (nelle Marche appena più tardi con Alberto Caracciolo e l’innovativa esperienza dei “Quaderni storici delle Marche”, 1966 13). «La dimensione locale – è stato detto – appariva l’ideale per cogliere la lezione annalista», e di fatto, in Italia, «una parte della storia locale è debitrice di quell’esperienza» 14. C’è un nesso forte fra la storia locale e quella dei “ceti subalterni”. Perché il luogo è di per sé subalterno al non-luogo: il nonluogo della politica, ad esempio, o del potere legislativo (lo Stato, il Super-stato, la Chiesa ...). Perché, ci viene spiegato, «la storia delle classi inferiori tende naturalmente a localizzarsi [...] in quanto [esse] hanno raggio di azione e orizzonti mentali spazialmente limitati» 15. E l’attenzione ai ceti subalterni, e ai temi – molto concreti e riconducibili alla comunità e all’individuo – del lavoro e della sopravvivenza, ha quantomeno due madri: la cultura marxista, e, ancora, la storia socio-antropologica delle “Annales”; e forse una terza, la cultura compassionevole cristiana: se no, come spiegare Manzoni? C’è un nesso, evidente, anche fra storia locale e microstoria. Ma quest’ultima è un metodo, un procedimento – e forse neanche un metodo ma piuttosto una «pratica storiografica» 16, come del resto credo sia e debba essere la storia locale 17 –, certamente fruttuoso per la storia locale ma nato per altre storie di ambito “stretto”, ad esempio la prosopografia degli archetipi (il mugnaio, l’esorcista, la strega). È chiaro che se la storia di Roccaprativa altro non può essere che microstoria (secondi e terzi nomi dei figli del notabile locale, compatres-commatres, testimoni di nozze, inventari dotali, l’imposta di focatico, la banca in chiesa e il sepolcro di famiglia, e cento 22 altri indizi e spie: tutto può condurre a qualcosa e tutto a niente, lo storico deve scegliere e scartare, il fiuto della ricerca), la storia di Pesaro potrà far ricorso al micro solo per illuminare angoli ostinatamente bui, eminenze grigie o falsi lucori, potendosi avvalere per le grandi linee di fonti ampie e diversificate, di numerosi contributi degli eruditi locali e di qualche tentativo di sintesi. Ad ogni modo, sia detto anche per il seguito, la storia dei territori locali – in quanto necessariamente globale, come più avanti dirò, anche se micro 18 – non è la microstoria, necessariamente settoriale – «un punto di vista estremamente circoscritto», «un paradigma imperniato sulla conoscenza dell’individuale» a detta dei suoi maestri 19 – almeno per come è stata praticata nel ventennio di sua massima rilevanza storiografica. Esistono innumerevoli forme di storia locale, sostanzialmente – mi pare – riconducibili a tre tipizzazioni: a) verifica in territorio circoscritto di fenomeni o strutture di ambito più vasto di cui la storiografia abbia già realizzato una prima sistemazione (si pensi ad esempio alle ricerche sui catasti, sugli stati d’anime, sulle distrettuazioni...). Può derivarne – oltre al frutto per le comunità investite – una più articolata conoscenza del tema. «Per la storia delle istituzioni – scriveva Fumagalli – è fondamentale l’accertamento del funzionamento locale delle stesse» 20: altrettanto dicasi per l’applicazione in vivo di normative che non di rado restano astratte formulazioni o si attuano solo parzialmente o solo sporadicamente; b) scoperta nel locale di filoni d’indagine nuovi, o individuazione di temi di ambito vasto e di interesse generale, poco studiati o abbandonati, ma in grazia di fonti locali suscettibili di nuova vita e vigorose propaggini 21; c) storia di un territorio locale e della comunità che vi è insediata a far data dalla formazione dell’uno e dell’altra (dunque, per la grande maggioranza dei casi, dall’incastellamento medievale). Di quest’ultima tipologia intendo di seguito occuparmi. Ma altre precisazioni terminologiche mi occorre premettere. Ventitré anni fa proponevo, certo con qualche dose d’ingenuo empirismo ma del resto solo come esempio praticabile, la comunità come 23 ambito privilegiato per gli studi locali sull’età moderna 22. L’anno seguente Edoardo Grendi, beninteso senza dipendere dal mio scritto (che non conosceva e difficilmente avrebbe potuto conoscere data la scarsa diffusione delle riviste di storia locale), e peraltro non dando al termine esattamente la stessa valenza, pubblicava un denso saggio dal titolo Storia locale e storia delle comunità 23. La comunità costituiva, nel mio quadro mentale, il contraltare giuridico-amministrativo 24 del più antropologico villaggio caro ai francesi 25, e la base solida per le escursioni nei campi che oggi più c’interessano. Ma proprio il saggio di Grendi, condivisibile appieno nella pars destruens, e un paio di libri sulle comunità in età moderna di Giovanni Tocci 26 che invece non convincono affatto, mettevano in evidenza che il termine comunità era portatore di troppi significati, e troppo diversi. D’altra parte, se l’accezione in cui io l’avevo proposto era estremamente precisa, aveva però il difetto di essere applicabile in toto solo alle comunità dello Stato pontificio, e solo per l’età moderna: dunque non valevole come paradigma comune. È stato proposto, in varie sedi e a vari livelli, il termine territorium 27 e il nesso territorio locale. Mi sembra molto buono, e stimolante. Si attaglia a territori chiusi come la comunità e il comune, il comprensorio, la regione, il ducato, la parrocchia, la diocesi, lo stato; ma anche a territori aperti, quali l’areale del guado o dell’olivo, un bacino minerario, un distretto industriale, un sistema montuoso, l’Adriatico di Anselmi o il Mediterraneo di Braudel, perfino l’area di diffusione di un culto o di una tecnica o di un’idea 28. Tutti questi sono territori locali, e lo storico locale non ha che da rimboccarsi le maniche. Perché si possa parlare utilmente di “territorio locale” e quindi di storia di un territorio locale è necessario individuare un forte efficiente di riconoscibilità. «L’ambito indagato deve avere una identità ben precisa che la contraddistingua dalle contigue realtà territoriali» – scrive Angela Maria Girelli a proposito di “nuova storia locale” –, si tratti della «circoscrizione amministrativa» oppure di un bacino «geograficamente ed economicamente ben identificato» 29. Nel caso più semplice e più comune, può essere l’unità amministrativa (comune, provincia, regione). Ma attenzione: il comune di Frontino nasce/rinasce nel 1827, la provincia di Pesaro e Urbi24 no nasce nel 1861, la regione Marche nasce nel 1970; prima sono altra cosa (e oggi, perfino, tutte e tre hanno circoscrizione diversa rispetto a quando sono nate) 30. E, se una regione Marche oggi esiste, pur con tutte le sue articolazioni e vistose differenze, perché legislazione e amministrazione vigono dal Tronto al Tavollo; se di una regione Marche si potrebbe parlare fin dall’unità d’Italia perché in quel punto se ne statuisce il nome e la circoscrizione, entro la quale effettivamente opereranno un tribunale unico di seconda istanza e le varie sovrintendenze: sembra inutile forzatura parlare di Marche preunitarie se non in quanto successivamente confluite in un unico contenitore. Sarà allora l’assemblaggio delle storie dei diversi “territori locali” (la legazione di Urbino erede del ducato, la Marca di Ancona, la Marca di Macerata, il governatorato di Fermo, e così via risalendo “per li rami”). Ma, ad esempio nel caso di Pesaro, al di là di accorpamenti e scorpori, al di là di mutazioni istituzionali anche radicali, un forte elemento di unità è ravvisabile nella continuità del centro urbano e della sua preminenza sul territorio circostante esercitata in varie forme e a vario titolo fin dalla sua fondazione (e forse meglio rifondazione 31) nel 184 a.C. Ci sono insomma strutture e lunghe durate che attraversano e unificano le mutazioni politico-istituzionali. E questo più o meno credo possa dirsi di ogni castello, terra o città d’Italia. Esiste un “territorio locale” di Pesaro così come ne esiste uno di Mombaroccio e uno di Roma, ovviamente con scale spaziali, istituzionali, documentali, economiche ecc. incomparabilmente diverse. Credo si possa parlare di “territorio locale” anche a un livello di frammentazione più spinto, perché tutti i castelli che oggi sono frazioni di comune o che addirittura non esistono più hanno avuto nel lungo passato una storia, una facies naturale e monumentale, una documentazione (catasti, tabelle, stati d’anime, libri dei nati e dei morti, suppliche e memoriali, rogiti, in qualche caso libri consiliari, in qualche caso statuti), dunque una riconoscibilità (se non vogliamo usare il termine oggi tanto deprecato di identità). Occupiamoci dunque del tipo più semplice e circoscritto di territorio, quello cui generalmente si pensa a proposito di storia locale, quello che più facilmente trova committenza e pubblico: la storia di un paese, di una città. Un territorio locale chiuso. Territorio come «formazione socio-spaziale» per dirla con Di Méo 32, ma non senza 25 un’istituzione (sovrano, primo ministro, governatore, sindaco, giudice, vescovo, parroco) che società e spazio governi: governi poco o tanto, bene o male, in un modo o nell’altro, e in questo a volte può consistere la differenza, cioè il senso di una storia. Tutto parte dalla topografia. «Incominciamo dall’ambiente fisico» raccomandava Dal Pane 33. Tutto deve partire dalla definizione spazio-temporale del territorio, definizione per la quale Lucio Gambi ha proposto utili criteri, sui quali non mi soffermo 34. Vorrei solo insinuare che allo storico spetta riconoscere, nello spazio attuale, gli spazi storici, non di rado profondamente diversi. La topografia ha una lunga illustre tradizione erudita. Ma solo recentemente, ad opera soprattutto degli inglesi (e di geografi come Gambi 35), è stata assunta, per così dire, all’onore della storia. Non per nulla il Dipartimento di English local history dell’Università di Leicester – unico al mondo, credo 36 – è fondato sulla preesistenza di un giacimento di studi topografici di eccezionale consistenza che aspettavano il soffio vivificatore della storia, a cominciare dagli studi sul paesaggio agrario di Hoskins 37. D’altra parte, come studiare la storia di un luogo senza studiare, anzitutto, il luogo? L’approccio topografico è il vero presupposto per la fondazione di una storia locale – sintetizza Grendi, riferendosi a – un territorio animato da una pluralità di segni, dalle conformazioni geologiche alle forme vegetali e animali, dalle forme dell’abitato a quelle delle coltivazioni, dai monumenti agli strumenti del lavoro quotidiano 38. L’atto fondante di ogni storia locale è lo sguardo, la ricognizione (la “scarpinata” direbbe Francesco V. Lombardi conoscitore come pochi di luoghi e monumenti e documenti). Lo storico locale inizia il suo lavoro immedesimandosi nel luogo, nel territorio. Alla storia locale viene generalmente riconosciuto il carattere intrinseco della globalità 39. Altri la chiama totalità 40. PhythianAdams distingue utilmente l’approccio “integrativo” (multidimensionale, interdisciplinare, à parte entière) proprio della storia locale (in senso lato, dunque anche regionale e nazionale), dall’approccio 26 “disgregativo” delle storie tematiche specialistiche 41: storia politica, storia economica, storia sociale, storia demografica, storia militare, e così via, a loro volta suscettibili di ulteriori e praticamente infinite suddivisioni: la storia sociale, ad esempio, in storie di classe, di professioni, di genere: quest’ultima (riconducibile di fatto alla sola trionfante storia delle donne) suddivisa in trattazioni sempre più parcellizzate: spose madri, ragazze madri, vergini, vedove, prostitute, sedotte e abbandonate, e poi la fertilità, la dote, l’abbigliamento, la cosmesi, il potere occulto. Non si vuol negare, naturalmente, la legittimità e il valore scientifico di ricerche che richiedono alti livelli di specializzazione, ricerche sofisticate e ingegnose, aggiornatissime anche perché parcelle (talvolta ancelle) degli interessi storiografici del momento: ma, insomma, pari legittimità e dignità scientifica sembra spettare allo studio di un territorio locale nella sua interezza e complessità. «Ricostruire nella sua mente, e dipingere per i suoi lettori, l’origine, la crescita, il declino e la caduta» di una comunità o di un territorio, è secondo Finberg il compito dello storico locale 42: coinvolgere il lettore nella comprensione globale è compito alto di democrazia, compito alto di pedagogia, che appartiene quasi naturalmente allo storico locale. Non sembra necessario insistere sul fatto che la globalità comporta competenze multidisciplinari che un solo individuo non può arrogarsi, e rende dunque necessario il coinvolgimento di specifiche competenze e collaborazioni, pur restando allo storico il dovere della guida (fare le domande) e della sintesi (coordinare le risposte). La storia locale non potrà non essere comparativa. Troppo ovvio – scrive Alberto Caracciolo in uno di quei suoi fulminanti interventi di due pagine che lasciano il segno – che la ricerca storica tutta quanta prende le mosse necessariamente dalla individuazione delle differenze, dalla lettura di specificità e cambiamenti 43. dove – chiosiamo – “specificità” rinvia alla comparazione spaziale sincronica, “cambiamenti” alla comparazione temporale diacronica, e “tutta quanta” postula una scienza della storia senza scompartimenti, senza gradazioni se non di qualità. 27 Solo la comparazione può rendere significativa la storia di un oggetto minimale come una piccola comunità rurale. Se Roccaprativa in cinquant’anni vede aumentare il proprio indice di alfabetizzazione dal 2 al 10% lo storico non potrà che vedervi un progresso, ma se nello stesso periodo l’indice nella vicina Roccasodiva è passato dal 2 al 50%, allora per Roccaprativa c’è un problema. Occorrerà passare in rassegna tutto ciò che assimila le due comunità e tutto ciò che le differenzia per – proprio nella differenza – trovarne la spiegazione. E sarà la spiegazione, la comprensione a “far storia”, non il dato, per le sue dimensioni effettivamente irrilevante. (Anche per la comparazione vale quanto si è detto per la microstoria: nessuno schematismo, tutto può condurre a qualcosa e tutto a niente, lo storico deve scegliere e scartare: il fiuto della ricerca, il senso della storia). Credo si possa enunciare che tanto più la differenza contiene la spiegazione quanto maggiori sono le affinità. E, come corollario a sua volta fondante, che allo storico locale non è consentito conoscere la storia di un solo luogo, anche se indagata a fondo e con tutte le regole: sconfinare è per lui necessità e dovere. L’humus nel quale affonda radici la storia locale è costituito dagli archivi locali. E qui sta forse la sua forza e originalità, nel recupero di un immenso patrimonio archivistico che la storiografia di ambiti vasti per forza di cose ignora. Direi addirittura che l’esistenza stessa degli archivi locali rende necessitata la storia locale, e allora, anche, che la capillare presenza degli archivi locali basterebbe da sola a giustificare il moltiplicarsi, che oggi appare inarrestabile, degli studi di storia locale. Moltiplicazione che risponde a una domanda che viene d’altrove, che nasce – per citare Zangheri – come tutti i veri interessi storiografici, da un bisogno del presente, dalla rivendicazione delle diversità e specificità [ ] non riconosciute o negate dagli Stati e minacciate dai modelli di vita dominanti 44. Cito in esergo un passo del famoso discorso di Luigi Dal Pane (1949) sui ”moderni indirizzi” della storia locale: La storiografia delle strutture trova in tutti gli archivi locali, anche in quelli dei centri più piccoli, anche in quelli di famiglie modeste 28 che abbiano conservato le proprie carte amministrative, un insieme unitario di dati, capaci spesso di rendere con precisione meravigliosa di particolari la vita di determinati agglomerati sia in una prospettiva statica, sia in una prospettiva dinamica 45. S’intende che, se lo storico di tendenza economicistica cerca in un archivio di famiglia soprattutto le “carte amministrative” e i “dati”, un approccio globale saprà mettere a contributo anche lettere, ritratti, memorie scritte e orali, ritagli di cronaca, arredi e abbigliamento, i quadri in chiesa, libri di preghiere e ricette della nonna, insomma tutto. Resta pur vero che il dato economico è spesso il più sensibile e veloce registratore delle mutazioni, sia congiunturali sia strutturali, sia di breve che di lunga durata. Emmanuel Le Roy Ladurie racconta la genesi del suo Contadini di Linguadoca, certo uno dei più significativi libri di storia di un territorio locale: un «buon maestro» gli aveva suggerito di studiare i compois della regione, centinaia e centinaia di registri catastali «voluminosi e scoraggianti» dispersi e dimenticati negli archivi dipartimentali. Fu una meravigliosa «avventura di storia totale», come egli stesso racconta. Avevo cominciato col sommare gli ettari e le unità catastali; alla fine dell’indagine sono arrivato a veder agire, lottare e pensare gli uomini in carne ed ossa 46. Cos’è la storia, la buona storia, se non «pensare gli uomini in carne ed ossa»? 1 edoardo grendi, Storia di una storia locale: perché in Liguria (e in Italia) non abbiamo avuto una “local history”?, in “Quaderni Storici”, 82, 1993, pp. 141198. marco de nicolò (Storia locale, dimensione regionale e prospettive della ricerca, in “Glocale”, 1, 2010, pp. 19-54: 23) attribuisce le diffidenze italiane verso la storia locale a una sorta di iperdifensivismo delle fragili «fondamenta del nostro edificio unitario», a fronte della «serenità dell’approccio locale in nazioni dall’antica solida formazione nazionale come la Francia e la Gran Bretagna». 2 La storia locale. Temi, fonti e metodi della ricerca, atti del convegno a cura di cinzio Violante, il Mulino, Bologna 1982. 29 3 edoardo grendi, Storia locale e storia delle comunità, in Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di paolo macry e angelo maSSaFra, il Mulino, Bologna 1994, pp. 321-336; id., Storia di una storia locale. L’esperienza ligure 1792-1992, Marsilio, Venezia 1996, p. 20 4 Su quanto del convegno pisano merita riflessione: girolamo allegretti, Storia e storia locale: l’ambito comunitativo negli studi sull’età moderna, in “Pesaro città e contà”, 3, 1993, pp. 45-46. 5 cinzio Violante, Gli studi di storia locale tra cultura e politica, in La storia locale cit., p. 23. Settoriale, ma decisamente più “laica”, la rassegna di SteFano piVato, Storia locale, storia nazionale, storia del mondo cattolico, in “Storie e storia”, 1980/3, pp. 110-117. 6 dino puncuh, Prospettive di lavoro per le deputazioni e le società storiche italiane. Quale futuro?, in “Atti e memorie” Dep. st. p. Marche, 95, 1993, atti del convegno “La storiografia nazionale e la storiografia locale negli ultimi cento anni. Il contributo della Deputazione di Storia Patria per le Marche” (1990), pp. 151-170: 167: paolo Brezzi, Meriti e metodi della storia locale, ivi, pp. 15-26: 23. 7 guido d’agoStino, nicola gallerano, renato monteleone, Riflessioni su “storia nazionale e storia locale”, in “Italia contemporanea”, 133, 1978, pp. 3-18. 8 William george hoSkinS, Local history in England, London 1959; id., Fieldwork in local history, London 1967. 9 herBert patrick reginald FinBerg, The Local Historian and His Theme, Leicester 1952; k. tiller, English Local History, Avon 1992; charleS V. phythian-adamS, Re-thinking English Local History, Department of English Local History, Leicester 1987; id., Storia locale e storia nazionale: il caso inglese, in “Proposte e ricerche”, 29, 1992, pp. 28-43. 10 Sergio anSelmi, Storiografia e metodo storiografico: la storia locale ieri e oggi, in Nelle Marche centrali. Territorio, economia, società tra Medioevo e Novecento: l’area esino-misena, a cura di Sergio anSelmi, Cassa di Risparmio di Jesi, Ancona 1979, pp. 19-26. A lui, come direttore del Centro studi storici sammarinesi attivato nel 1992 in seno al Dipartimento di Storia dell’Università di San Marino, si deve l’organizzazione di un importante convegno e la pubblicazione dei relativi atti (Alle origini dei territori locali, San Marino 1993; contributi di Renato Zangheri, Sergio Anselmi, Charles V. Phythian-Adams, Raymund Kotje, Lucio Gambi, Guy Di Méo, Lluis Mallart i Casamajor, Vito Fumagalli), seguito a pochi mesi di distanza dal seminario su Territori pubblici rurali nell’Italia del Medioevo (quad. 3 del Centro studi storici sammarinesi, San Marino 1993; contributi di Vito Fumagalli, Massimo Montanari, Pierpaolo Bonacini, Bruno Andreolli). 11 paul leuilliot, Défense et illustration de l’histoire locale, in “Annales ESC”, XXII, 1967, pp. 154-167; id., Histoire locale et politique de l’histoire, in “Annales ESC”, XXIX, 1974, pp. 139-150; JacqueS leVron, L’histoire communale: esquisse d’un plan de travail, Gamma, Paris 1972; guy di méo, Genesi del ter- 30 ritorio locale: complessità dialettica e connessione spazio-temporale, in “Proposte e ricerche”, 29, 1992, pp. 7-27. La sterminata produzione francese di storia locale (Monographies des villes et villages de France particolarmente, 3200 titoli al 2012) tuttavia, anche dopo le “Annales”, appare – come numero – prevalentemente legata alla tradizione erudita sei-settecentesca (soprattutto ecclesiastica) e al positivismo ottocentesco: si veda Guide de l’histoire local. Faisons notre histoire, dir. par alain croix et didier guyVarc’h, ed. du Seuil, Paris 1990, e https://fr.wikipedia.org/wiki/ Histoire_locale (riletto 13.11.2016). 12 luigi dal pane, I moderni indirizzi delle scienze storico-sociali e gli studi romagnoli in questo campo, in “Studi romagnoli”, 1, 1950, pp. 17-38. 13 L’esperienza dei “Quaderni storici delle Marche” (che non a caso aprivano le pubblicazioni con la traduzione di un saggio di Fernand Braudel, Storia e scienze sociali: il ‘lungo periodo’, 1, 1966, pp. 5-48, già in “Annales”, 1958/4) dal 1970 proseguì in “Quaderni storici” e dal 1978 diede vita a “Proposte e ricerche”: v. in questo volume la narrazione di Ercole Sori, uno dei protagonisti di quella stagione assieme ad Alberto Caracciolo, Sergio Anselmi e Renzo Paci. 14 marco de nicolò, Storia locale cit., p. 24. 15 cinzio Violante, Presentazione a Fulvio De Giorgi, La storiografia di tendenza marxista e la storia locale in Italia nel dopoguerra. Cronache, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. XII (corsivo nostro). 16 oSValdo raggio, Microstoria e microstorie, in “Storia e politica”, V, 2013 (estratto on-line) Di «caractère très empirique» senza una vera «charte ‘théorique’ de la microhistoire» scrive JacqueS reVel, Micro-analyse et construction du social, in Fra storia e storiografia cit., pp. 307-320: 308. 17 La pratica rinuncia al “metodo” e sa crearsi i suoi metodi: così Bernardino FarolFi, L’uso e il mercimonio. Comunità e beni comunali nella montagna bolognese del Settecento, Clueb, Bologna 1988, che preferisce «affidarsi fiduciosamente al flusso ed al disporsi contestuale delle fonti». 18 Conservo tra i più gelosi cimeli un biglietto di Carlo Poni, uno dei padri della microstoria, che mi scrisse generose parole di apprezzamento per il volume da me curato su Frontino. Storia di un microcosmo, quad. monografico 7 di “Proposte e ricerche”, 1990 (uno dei miei primi lavori di storia dei territori locali, altamente rischioso essendone oggetto il “mio” paese). 19 Nell’ordine: carlo ginzBurg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966, p. VII; gioVanni leVi, A proposito di microstoria, in La storiografia contemporanea, a cura di peter Burke, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 111-134: 129. 20 Vito Fumagalli, Scrivere la storia, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 89. 21 Chi scrive ha la presunzione di aver contribuito a lanciare o rilanciare, partendo da localissime ricerche, temi storiografici non irrilevanti – quali l’emigrazione stagionale dalle regioni appenniniche alle maremme tosco-laziali nei secoli 31 XVI-XX, l’economia del guado nei secoli XIV-XVI, i casanolanti nelle campagne pontificie del ‘7-800 – e come tali raccolti e sviluppati in pubblicazioni di rilievo nazionale. 22 allegretti, Storia e storia locale cit., pp. 45-57. S’intendeva trattare delle comunità dello Stato pontificio, unità amministrative precisamente individuate sia nei catasti sia nelle tabelle (bilanci annuali a partire dal 1655) e “vigilate” dalle autorità centrali e periferiche, per le quali esiste ampia documentazione nel fondo Buon governo dell’Archivio di Stato di Roma (segnatamente serie II e IV) oltreché in varie serie degli archivi legatizi e – ma solo per le principali e nemmeno tutte – negli archivi storici comunali. 23 grendi, Storia locale e storia delle comunità cit. 24 Nei miei lavori (che non citerò) non mi stanco d’insistere sull’importanza degli aspetti amministrativi (forme, gerarchie dei centri, personale, cespiti, scelte) nella diversificazione delle comunità. 25 Villaggi: studi di antropologia storica, a cura di gioVanni leVi, sezione monografica di “Quaderni storici”, 46, 1981; gaBriel le BraS, La chiesa e il villaggio, Boringhieri, Torino 1979 (ed. orig. 1976); Jean-marie peSez, Villaggio, in Enciclopedia, Einaudi, 14, Torino 1981, pp. 1046-1063. 26 gioVanni tocci, Le comunità negli stati italiani di antico regime, Clueb, Bologna 1989; id., Le comunità in età moderna. Problemi storiografici e prospettive di ricerca, Carocci, Roma 1997. 27 Cfr., anche per bibliografia, andrea caStagnetti, L’organizzazione del territorio rurale nel Medioevo: circoscrizioni ecclesiastiche e civili nella Langobardia e nella Romania, Giappichelli, Torino 1979. 28 marcel roncayolo, Territorio, in Enciclopedia, Einaudi, 14, Torino 1981, pp. 218-243. Su territorio e territorialità pertinenti osservazioni in Sergio anSelmi, Sulle origini dei territori locali: alcune riflessioni, in Alle origini dei territori locali cit., pp. 8-19. 29 angela maria girelli, Il castello ‘necessario’. A proposito di una ricerca su Fiorenzuola di Focara, in “Proposte e ricerche”, 33, 1994, p. 106. 30 La formazione di un territorio locale passa per successive distrettuazioni e mutazioni circoscrizionali: è la “negoziazione dello spazio” studiata da angelo torre, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Donzelli, Roma 2011. I «luoghi» sono per Torre «costruzioni sociali e culturali frutto di una produzione continua da parte dei loro abitanti» (ivi): cito da Vittorio tigrino, Località e storia locale: un dibattito aperto, in “MinervaWeb” (Biblioteca del Senato), 24, 2014. 31 Forma Urbis. Ricostruzioni per immagini e note della storia urbana di Pesaro, a cura di maSSimo Frenquellucci, disegni di FranceSco amBrogiani, Apsa, Pesaro 1991. Ci sembra un utile approccio tematico alla storia della città. Non altrettanto può dirsi della “monumentale” (5 volumi per 7 tomi) Pesaro, vari cura- 32 tori ma senza reale coordinamento scientifico, Marsilio, Venezia 1984-2013, il cui unico criterio storiografico (a prescindere dalla validità dei singoli contributi) fu la scansione temporale. 32 guy di méo, Culture locali e territorio: origini e persistenze, in Alle origini dei territori locali cit., p. 52. 33 dal pane, I moderni indirizzi cit., p. 25. 34 lucio gamBi, Storia e ambiente in aree di confine: due casi, in Alle origini dei territori locali cit., p. 45. Parole chiave dello schema gambiano: “centro”, “spazio”, “intorno”. Stimolanti le osservazioni (p. 50) sulla rigidità dei territori rispetto alle dinamiche delle comunità. 35 lucio gamBi, Una geografia per la storia, Einaudi, Torino 1973. 36 Sulla sua scia, e facendo tesoro dell’esperienza tutta italiana della microstoria, nel 1989 è stato fondato, presso il Dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell’Università di Genova, il Seminario permanente di storia locale (fondatori e animatori – con Edoardo Grendi – Diego Moreno, Osvaldo Raggio, Angelo Torre). Affine mi pare, soprattutto nel primo decennio (1992-2001) e questo nel solco delle storiografie di Dal Pane>Zangheri e Caracciolo>Anselmi, l’esperienza del Centro di studi storici sammarinesi presso il Dipartimento di Storia dell’Università di San Marino. 37 W. g. hoSkinS, Fieldwork in local history cit. Ne segue le orme emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961. 38 grendi, Storia di una storia locale cit., pp. 16 e 18. 39 lluiS mallart i caSamaJor, Cultura territoriale, senso di appartenenza, microstati, in Alle origini dei territori locali cit., p. 72. 40 Ad esempio cinzio Violante, Premessa a La storia locale cit., p. 8. 41 phythian-adamS, Storia locale e storia nazionale cit., pp. 28 e 36. 42 FinBerg, The Local Historian cit. (da grendi, Storia di una storia locale cit., pp. 13 sg.). 43 alBerto caracciolo, A proposito di comparativismo, in Fra storia e storiografia cit., pp. 407-411. 44 renato zangheri, Introduzione a Alle origini dei territori locali cit., p. 7. 45 dal pane, I moderni indirizzi cit., p. 24. 46 emmanuel le roy ladurie, Contadini di Linguadoca, Laterza, Bari-Roma 1984 (ed. or. 1969), p. 13. 33 Storiografia e cicli politici. Le alterne relazioni centro/periferia influiscono sulla ricerca? di Roberto Balzani L’idea alla base di questa relazione è molto semplice: posto che gran parte della produzione storiografica locale, e non solo, utilizza finanziamenti pubblici o semi-pubblici, diretti o indiretti, è possibile connettere un “ciclo politico” ad una fase della storiografia? E in che modo l’uno ha influenzato l’altra? Non parlo di ideologie, né di partiti, né di egemonie culturali vecchio stile: mi occupo di cose pratiche. E le “cose pratiche”, nel nostro caso, sono le infrastrutture della ricerca e della divulgazione, esterne al circuito strettamente accademico. Anche il termine “ciclo politico” ha bisogno di una spiegazione preliminare, tuttavia. Assumo con questo termine non già una fase scandita dal prevalere di una maggioranza di governo rispetto ad un’altra, a livello centrale o periferico, ma un indirizzo più persistente e continuo della politica italiana, trasversale a diversi “cicli elettorali”. Un politologo dell’Università di Firenze, Andrea Lippi, ne ha chiarito il contenuto, riferendosi al decentramento/federalismo nella storia recente della Repubblica. Lippi distingue una prima stagione (1970-90), nella quale l’impostazione prevalente ha privilegiato l’idea di una regionalizzazione leggera e di una devoluzione di funzioni più robusta alle istituzioni locali. Sul finire del decennio Ottanta, però, il processo ha sviluppato una patologia: la ridondanza competitiva di enti e di ruoli, con una spesa pubblica crescente, un crescente potere delle élite burocratiche ed una sostanziale ambiguità circa il “chi fa cosa”. A questo periodo aurorale della regionalizzazione risale la Storia d’Italia. Le Regioni dell’editore Einaudi, inaugurata nel 1977 dal volume sul Piemonte, a cura di Valerio Castronovo. Il cantiere dura un ventennio, con alterne fortune e fra mille difficoltà. L’ambizione sarebbe quella d’impiantare una storiografia regionale che allestisca un contesto plurale di studi dal basso, in grado di “democratizzare” 34 le letture, più o meno “centraliste” e “nazionaliste” della storia patria, con le loro semplificazioni e le loro forzature. Il grande sforzo editoriale mette in risalto, più che una storiografia, il profilo di molti storici regionali, spesso raccolti sulla base dell’affiliazione ideologica. Si tratta del prolungamento della Storia d’Italia, con un allargamento della base accademica di riferimento e il coinvolgimento di una più giovane generazione. Le regioni, però, non riescono ad esprimere una diffusa propensione al regionalismo: talune restano enti intermedi, a carattere burocratico/funzionale; altre, invece, cercano d’ispessire il leggero strato identitario, residuato dalla storia e dalla tradizione. Gli storici, in genere, risentono dell’ambiguità di fondo del contesto che devono indagare: la società, l’economia e la politica nello spazio regionale, oppure l’economia, la società e la politica di uno spazio regionale, ovvero prodotto da volontà che si pensano regionali? Non è un caso che i volumi meglio riusciti siano, in genere, quelli che studiano i non molti casi italiani di regionalismo vero, a partire dalle isole. L’operazione di Giulio Einaudi inaugura una stagione. Ispirata un po’ dal tentativo di bissare il successo di pubblico della Storia d’Italia, approfittando del circuito dei venditori a rate già imbastito; un po’ ammiccando alla sinistra, che, dopo l’ampia affermazione alle regionali del 1975 (il Pci risulta il primo partito in sette regioni), pensa di poter utilizzare le istituzioni periferiche come piattaforma per giungere alla guida del governo nazionale, Le Regioni rappresentano il primo approccio, da parte di una grande casa editrice, a un settore fino ad allora riservato ad una produzione domestica e frammentata, a un pubblico di eruditi, a una pubblicistica tecnica di rango accademico specialistico e umbratile. Un’ulteriore, intensa fase di decentramento fu la successiva, dal 1990 al 2001, dalla legge 142 istitutiva del nuovo modello amministrativo, alla riforma del Titolo V della Costituzione. Le riforme Bassanini, fra il 1997 e il 1998, spinsero ulteriormente in direzione dell’autonomia del governo locale, sull’onda di una tendenza allora definita impropriamente “federalista” (giacché si attuava sul terreno amministrativo e non su quello politico). Fra il 1990 e il 2000, la spesa per acquisto di beni e servizi, da parte di Comuni e Province, raddoppiò, passando da 10,2 a 19,8 mld di euro. Ciò, naturalmente, produsse effetti considerevoli anche sul terreno culturale: la compe35 tizione locale/territoriale, infatti, generò una domanda identitaria, talvolta autentica, talaltra immaginata dalle classi dirigenti locali a puro scopo di legittimazione o di nobilitazione. Cominciò allora, fra la metà degli anni ’80 e la fine del decennio successivo, una nuova tradizione civica: quella delle “storie di città”, biografie collettive del municipalismo italiano. Né ci si fermò solo a questo. Più o meno nello stesso periodo, prese avvio la spinta verso il decentramento universitario e la moltiplicazione degli Atenei e delle sedi. Fra il 1850 e il 1920 il numero delle università statali, in Italia, era cresciuto di appena cinque unità; di altrettante crebbe fra il 1920 e il 1940; dopo il 1945, ma sarebbe più corretto dire nell’ultimo trentennio, l’incremento è stato impressionante: +33 Atenei. Se si aggiunge, sul fronte bancario, la riforma Ciampi-Amato del 1998-99, con l’istituzione di Fondazioni patrimonializzate, le cui erogazioni sono tuttora vincolate al vantaggio del territorio (e la cultura drena complessivamente oltre il 30% di quanto annualmente disponibile), il quadro è completo. Lo stato rendeva più autonomi i municipi e le province, rafforzava il ruolo delle regioni, “costringeva” le Fondazioni a sostenere iniziative locali. Le risorse disponibili, nonostante tutto, furono notevoli. Il pendolo centro/periferia oscillava vigorosamente in direzione di quest’ultima. La territorializzazione della formazione di rango superiore, in particolare, è un fenomeno che dovrebbe essere studiato insieme con quello del proliferare dell’offerta di storiografia locale; entrambi, infatti, sono il frutto di un’armatura periferica, spesso priva di un progetto di modernizzazione autentica, che i notabilati locali hanno sviluppato e poi difeso fino ai primi anni 2000. La relazione fra offerta di docenti legittimati dall’aura accademica e la domanda di sostegno ai più svariati progetti di governo nella “piccola patria” finirono per creare una miscela che funse da propellente per la produzione di una quantità considerevole di volumi su città e territorio. Una delle idee più ardite e metodologicamente aggiornate fu il cantiere, aperto dalla Giunta regionale Toscana in collaborazione con l’Istituto universitario europeo, sull’Identità urbana in Toscana, sviluppato fra la metà del decennio Ottanta e la metà del decennio successivo. Per la prima volta, una regione – intesa come istituzione – si interrogava sulla natura del proprio spazio antropico secondo criteri multidisciplinari e diacronici, che si tradussero in una serie 36 di dettagliate microstorie, alcune delle quali di qualità esemplare. Il lavoro non ebbe poi seguito, né generò una corrente storiografica incardinata nell’Università italiana: segno, anche questo, della debolezza della componente della storiografia urbana, territoriale, ambientale rispetto al mainstream accademico dominante. In seguito ai cambiamenti introdotti nella Costituzione (2001), ci si sarebbe aspettati un’ancor più marcata deriva “federalista”, tale da mutare la struttura dello stato. Invece, accadde il contrario. Le difficoltà economiche dei primi anni 2000 spinsero in direzione di un accentramento del potere reale, nonostante la retorica politica si muovesse in direzione apparentemente opposta (“federalismo fiscale”, ecc.): mentre comuni e province si trovarono a contenere la spesa, le regioni godettero di una fase ancora espansiva, forti delle funzioni attribuite loro dalla Carta. Poi, con il 2008, cominciò la crisi per tutti, e, da allora, gran parte dell’armatura di iniziative, di centri, di collane editoriali, di conferenze, di convegni, fu travolta. L’immagine forse più appropriata è quella della grande miniera esaurita: basta frequentare un po’ gli archivi locali per rendersene conto. Di accademici, pochi. Di studenti, pochissimi. La ricerca sui documenti, che aveva rappresentato uno degli elementi più positivi della golden age del decentramento, è sempre più un ambito specialistico, disertato dalla stessa storiografia, che preferisce comodi lavori sulla letteratura secondaria. C’era esagerazione, e c’è stata molta superficialità e molta dissipazione, nella fase alta del ciclo “produttivo”, quando domanda e offerta di storia locale si sono incontrate, in un momento particolare della vicenda italiana. È vero, però, che tante energie sono state liberate, e molte si sono rivelate positive. Di tutto ciò, la periferia italiana non sembra più conservare memoria. L’oblio imposto dalla presentificazione ha cancellato quasi tutte le tracce di quel protagonismo, oggi reso afono dal brusco declinare delle risorse e dalla rassegnazione al nuovo verbo centralista (che vige nei fatti, nonostante la politica preferisca non parlarne). Un altro caso interessante che vorrei sottoporvi è quello del 150° dell’Unità d’Italia. Anche qui vorrei riflettere sul contesto, per così dire, “esterno”, per poi dedicarmi ai riflessi disciplinari, intesi in senso lato, in termini di divulgazione e di “uso pubblico” della storia. Il successo di un’operazione dipende dal progetto che ne sta alla 37 base. Nel caso del 150°, esisteva un tale progetto? Se prescindiamo dalla politica perseguita in proprio e con grande determinazione dalla Presidenza della Repubblica – in questo caso, saldando il settennato di Ciampi a quello di Napolitano –, direi che non esisteva. Lo si capisce bene prima dalla destinazione dei finanziamenti immaginati ancora sotto il governo Prodi, che istituì il Comitato “150 anni dell’Unità d’Italia” con decreto del 24 aprile 2007 (opere pubbliche in alcune città italiane, nessun autentico disegno culturale, salvo idee di museificazione dell’immagine nazionale assai vaghe, una spesa prevista fra gli ottocento e i mille milioni), poi dalla riduzione dei finanziamenti medesimi a circa venti milioni di euro, infine dalle dimissioni di Ciampi dalla presidenza del Comitato dei garanti (aprile 2010), e dalla sostituzione con Giuliano Amato. Il governo ha, di fatto, attribuito a personalità eminenti della Repubblica il compito di gestire questo passaggio cruciale per la memoria collettiva, confidando nell’esperienza e nella rappresentatività di alcuni generosi testimoni, più che nella possibilità concreta di dar vita ad un autentico piano di ricerca/comunicazione/pedagogia pubblica. I pochi mesi rimasti, prima del fatidico 2011, sono stati intensi e pieni di attività anche lodevoli: tutte, tuttavia, in qualche modo generate da percorsi individuali o di gruppo e – con l’eccezione degli interventi di recupero/restauro di taluni monumenti del Risorgimento (i “luoghi della memoria”) – prive di un nesso forte fra le competenze, gli specialismi, le “nicchie” professionali e la campitura di un grande disegno politico. Ma non si tratta solo di persone. Si tratta anche di strutture. Il Comitato era un organismo tutto sommato “leggero”, pensato per la progettazione. A realizzare le politiche avrebbe dovuto pensare l’Unità di missione. Le Unità di missione sono task forces alle dirette dipendenze del Sottosegretariato alla Presidenza del consiglio, sovente in connessione con altri ministeri, con compiti politicoamministrativi e tecnici. Sono composte da dirigenti dello stato, da funzionari e da consulenti ed esperti. Esse, numericamente assai limitate (a causa dei costi), hanno l’obiettivo di realizzare in tempi certi quello che, in un’amministrazione normale, sarebbe affidato ai dicasteri competenti. Dato l’indebolimento delle funzioni e dell’organizzazione statale, la Presidenza del consiglio, per essere certa di concludere un disegno strategico, è costretta a ricorrere ad or38 ganismi di questo tipo, che però sono delicatissimi: basta sbagliare l’impostazione o il profilo dei dirigenti, per far deragliare il treno dell’Unità di missione sul binario morto del conflitto burocratico, e lì abbandonarlo al suo destino. Nel caso del 150°, a tale non secondario problema se ne è aggiunto un altro: la finalità. La “Struttura di Missione” per il 150°, volta a dar gambe alle indicazione del Comitato, era già fortemente sbandata, all’origine, sul versante “opere pubbliche”, nonostante l’impianto ancora vago del dpcm 15 giugno 2007. Dopo il sisma dell’Aquila, con ordinanza n. 3772 del 19 maggio 2009, il governo Berlusconi procedeva ad un drastico restyling (a partire dal nome: “Unità Tecnica di Missione”) di fatto ponendola al servizio del G8 e di tutte le attività, prevalentemente di natura edilizia e infrastrutturale, ad esse connesse. Ciò significa, anche se nessuno lo ha mai detto esplicitamente, che già ben prima del 2011 lo stato si era di fatto privato della struttura necessaria a supportare – al di là della concessione del logo, dei convegni, dalle piccole attività di consulenza alla volonterosa mobilitazione della periferia – la “grande narrazione pubblica” della nazione. Le ragioni di questa abdicazione stanno tutte, ovviamente, nella fondamentale strumentalità del rapporto fra ceto di governo e memoria culturale, senza grandi distinzioni di schieramento. La natura eminentemente operativa delle Unità di missione, peraltro, tradisce lo sbandamento verso côtés in cui, a contare, sono logiche per lo più relazionali, con attori forti in grado di interpellare direttamente il nucleo tecnicopolitico, secondo criteri selettivi che prescindono da analisi sistematiche a livello territoriale. È sufficiente leggere il dpcm del 2007 come un palinsesto per cogliere gli aspetti nodali del percorso testé descritto. In premessa, alla “Struttura” sono affidati “compiti di pianificazione di selezionati interventi infrastrutturali volti alla realizzazione e al completamento di opere di rilevante interesse culturale e scientifico [palese la priorità delle infrastrutture rispetto alle opere]”. Il tema è ripreso subito dopo, là dove si scrive che il “piano degli interventi”, oltre all’organizzazione di eventi di carattere storico ecc., riguarda “il miglioramento delle capacità organizzative e ricettive dei centri maggiormente coinvolti”, con positive ricadute sul “sistema di interconnessione anche infrastrutturale tale da costituire un fatto aggiunto in chiave di sviluppo turistico”. Conseguenza ovvia: “La struttura di 39 missione è posta […] alle dirette dipendenze del Capo Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo” (art. 1 c. 3). Poi, però, l’art. 2 camuffa un po’ il tutto, sostenendo che la struttura supporta il Comitato nello svolgimento dei compiti, assicurando gli adempimenti necessari alla realizzazione di “eventi” e “interventi”. D’altra parte, l’ostentata irritazione della Lega, il sostanziale agnosticismo degli ambienti più vicini al premier del tempo e la più spiccata sensibilità nazional-patriottica della componente già appartenente ad An non lasciavano spazio ad una progettazione di qualche spessore: il riflesso delle diverse anime della maggioranza si è in parte riverberato sugli assetti del Comitato dei garanti, in sede di nomina, ma non ha poi generato alcun reale “pensiero”. Se escludiamo gli scritti d’occasione e gl’immancabili discorsi, è difficile addirittura recuperare una produzione testuale immaginata per superare la contingenza e “spiegare” il senso dell’”operazione centocinquantesimo” nel lungo periodo. Si obietterà che, anche in occasione del centenario del 1961, la classe politica non era stata poi così presente: e però bisogna riconoscere che, all’epoca, l’impatto dell’evento sul mondo dell’istruzione fu enorme (basti pensare alle pubblicazioni destinate ad ogni singolo allievo della scuola pubblica); che esisteva una solida tradizione accademica di storiografia risorgimentale, di recente rivisitata e aggiornata; che, infine, l’origine della nazione pareva trovare un naturale compimento nel successo dello stato repubblicano, in epoca di boom, di Olimpiadi romane, di Dolce vita, ecc. I politici, per la verità, neppure allora seppero davvero utilizzare quella grande occasione. Basta rileggere un brano di Pier Pasolini, dedicato alla cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici di Roma, nell’agosto 1960. Parla Andreotti: E credo sia difficile immaginare un discorso più retorico e provinciale del suo. E interminabile, poi: tanto da finire miseramente tra gli zittii generali. Non parliamo dei rari romani, che cominciavano a fare «Uuuuuh!», «E piantala!», ma degli stranieri stessi, che, benché educatamente, davano segni di impazienza: veramente non riuscivano a concepire il filo conduttore di tanto municipalismo, di tanta povera retorica, di tanto ovvio orgoglio per l’opera svolta, che riduceva Roma (che noi, lo so, abbiamo visto prepararsi con tanto affanno) a un capoluogo di provincia 1. 40 Dunque, tornando a noi, nessun successo/insuccesso, perché non vi è stato alcun reale “investimento simbolico”. L’inesistenza di un interesse preciso della leadership politica è stato compensato dal ruolo crescente, nelle vicende recenti della Repubblica, del Presidente in quanto unico soggetto in grado di produrre legittimazione, mercé un dialogo diretto con gli italiani – via media – e con le istituzioni territoriali – attraverso le visite alle città. La connessione fra le premesse, per così dire, risorgimentali (stato-nazione, regime rappresentativo, sviluppo economico, internazionalizzazione) e gli esiti successivi, fino alla definizione del ruolo del paese nella geografia politica dei primi anni Duemila, hanno rappresentato una costante narrativa della ricostruzione di Napolitano, che di fatto è divenuto – in mancanza di forti coadiutori o di competitori – l’unica voce davvero coerentemente nazionale capace di parlare ai vari “pezzi”, territoriali e sociali, del paese. Occorre anche osservare che il dinamismo del Presidente della Repubblica si situa in una fase nel corso della quale la sua figura è visibilmente in ascesa in campo politico, mentre declina (è il 2011) la stella del premier Berlusconi. Di lì a poco, Napolitano passerà dalla funzione pedagogica ad una più esplicitamente politica, quale artefice del governo di Mario Monti e garante nel Paese della linea di rigore suggerita dalle istituzioni finanziarie dell’Unione durante l’estate. Certo, tutto ciò non è avvenuto senza alcune rilevanti controindicazioni. La prima riguarda il progetto di comunicazione. Con quali effetti? Il primo, forse banale, è che dell’unità del Paese moltissimi si sono a stento accorti, se non collegandola ad un’occasione festiva “fuori programma”. Diverso il caso della ricezione in “periferia”, soprattutto là dove all’attività promossa dalle istituzioni si è saldata la presenza attiva, testimoniale, del Presidente della Repubblica. In Italia, occorre sottolinearlo, un solo luogo ha davvero saputo costruire una relazione di massa fra il locale e il nazionale, attraverso un’accorta programmazione degli eventi e un calendario pensato per gran parte della comunità: Torino. Qui, la giunta Chiamparino è riuscita per tempo ad intercettare le risorse necessarie e ad attivare percorsi destinati al pubblico dei visitatori, facendo del 17 marzo il momento apicale di un “discorso” avviato in realtà molti mesi prima, tutto mirato al rilancio della prima capitale d’Italia. Ciò non toglie, tuttavia, che molti altri centri abbiano messo in campo, soprattutto 41 nel corso della prima metà del 2011, programmi “tricolori” di diverso spessore, utilizzando relazioni storicamente accertate fra piccola e grande patria, o costruendo ex novo opportunità celebrative. E qui bisogna distinguere fra quella che potremmo definire la linea convegnistico/concertistico/espositiva – frutto di “importazione” di autori o mostre o serate musicali da fuori, o della contaminazione fra presenze locali attive e “compagnie di giro” dello spettacolo nazional-patriottico – e la linea totalmente autoctona, volta a privilegiare il nesso territoriale, la riscoperta delle tradizioni ottocentesche e il recupero, lungo questa via, di spazi, materiali, memorie. Se si scorre la densa richiesta di utilizzo del logo del 150° presente sul sito ufficiale, si ha la netta sensazione della prevalenza del primo modello: costruzione di occasioni “tricolori”, pescando da un paniere di offerte assai ricco. Dal momento che “qualcosa bisogna pur fare” per ricordare l’Unità, tanto vale – hanno pensato molti sindaci – levarsi il dente cooptando “esperti” dal di fuori. Nulla di male, naturalmente, salvo la probabile irrilevanza dell’opportunità di una riflessione storica (declinata nei suoi vari momenti) sul vissuto comunitario del fatidico centocinquantesimo. Completamente diverso, ma anche più raro, l’approccio partito dal basso. In questo caso, si è trattato spesso di saldare una presenza erudita di “nicchia” ad iniziative di più largo respiro, normalmente imperniate sulle scuole o su pubblici “di riferimento” (università dell’età adulta et similia), con ulteriori opportunità di allargamento a fasce della popolazione normalmente poco sensibili al “discorso pubblico” patriottico. Il martirologio risorgimentale, adeguatamente riadattato alla bisogna, ha funto da connettivo: lapidi polverose sono state ripulite, monumenti sono stati ripristinati, eventi e personaggi recuperati, paesaggi evocativi riscoperti e ripercorsi. Il sapore delle operazioni, in generale, non ha brillato per novità: il tono non si è discostato molto da quello standard del patriottismo di provincia, noto fin dall’ultimo quarto del XIX secolo, fatto salvo, ça va sans dire, l’investimento politico del notabilato locale, all’epoca assai più cospicuo per ovvie ragioni di prossimità generazionale. La scuola, ancora una volta, ha mostrato di essere una delle poche agenzie di comunicazione istituzionale in grado di funzionare, benché in forma intermittente e sempre più dipendente dalla qualità/disponibilità soggettiva dei docenti. 42 Più arduo il compito per gli enti locali. Se le regioni hanno per lo più stanziato appositi fondi, da distribuire “a pioggia” al territorio previo esame da parte di un comitato di esperti (e qui l’autentica differenza l’hanno fatta gli euro a disposizione), comuni e province, coordinate formalmente dalle prefetture, hanno fatto ricorso alle proprie risorse umane per la regia di eventi appropriati. C’è da dire che, a causa della stessa legge istitutiva del federalismo fiscale nel nostro paese (l. 5 maggio 2009, n. 42), le funzioni culturali non appartengono formalmente alla sfera dei compiti essenziali dell’amministrazione periferica (vedi art. 21). Ciò ha comportato, anche in conseguenza della stretta finanziaria del 2010, una considerevole contrazione dei margini di manovra diretti, cui si sono aggiunti, per l’anno 2011, gli effetti della l. 30 luglio 2010, n. 122, che ha confermato la decurtazione dell’80% delle spese per mostre e convegni rispetto all’anno 2009. Molte amministrazioni, che avevano già preventivato eventi di un certo rilievo, sono state costrette ad un brusco ridimensionamento. Anche le operazioni di tutela del patrimonio storico-artistico ottocentesco, alla fine, si sono ridotte all’osso. L’anniversario della nascita della nazione ha incrociato una delle peggiori congiunture finanziarie del dopoguerra, almeno per la parte pubblica, e ne è stato, in qualche modo, la vittima più illustre. 1 P.P. paSolini, Un mondo pieno di futuro, in Id., Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. de laude, «I meridiani», Mondadori 1998, I, p. 1530. 43 Società costiere e storiografia marittima di Maria Lucia De Nicolò L’invito a partecipare al convegno “Storia e piccole patrie” permette di esprimere alcune riflessioni su un settore di studi, che solo da circa quindici anni a questa parte ha assunto il valore storiografico che merita, maturando interessi molteplici soprattutto da parte degli storici dell’economia. Dal 1994 al 2007 diversi meeting internazionali hanno indirizzato la ricerca storica sulle società litorali e sulle attività alieutiche, attivando un indirizzo di studi che, specie in Italia, risultava del tutto trascurato, almeno per quanto attiene ai secoli d’ancièn régime. Va accreditata però ad un’editoria “minore” la pubblicazione su tale argomento, già negli anni Settanta del secolo da poco concluso, di interessanti studi di storia regionale che finalmente hanno trovato un loro giusto riconoscimento, ponendosi comparativamente a modello per analoghe ricerche in altre aree del Mediterraneo. Ci si riferisce soprattutto alle indagini svolte su alcune realtà costiere del medio Adriatico tra Marche e Romagna, che hanno messo in luce, in particolari momenti di congiuntura, processi politici e socioeconomici di forte rilievo nella storia delle comunità del Mediterraneo, permettendo di individuare importanti cambiamenti non solo riguardo alle pratiche di navigazione e di pesca, ma anche nella creazione di nuovi insediamenti litoranei con peculiarità differenziate da luogo a luogo. Nell’età moderna si assiste alla formazione di società costiere “diffuse”, che gradualmente assumono una prevalente connotazione marittima per tutta una serie di contatti e mutamenti strutturali che portano all’organizzazione e ad un graduale sviluppo dell’impresa finalizzata alla pesca alturiera a strascico, foriera poi della nascita di specifici corpi di mestiere nonché di comunità marinare solidamente strutturate. Il monitoraggio di località campione, individuate quale osservatorio privilegiato di indagine, ha dato vita ad esercitazioni storiche su microcosmi rimasti fino 44 ad oggi relegati ai margini della ricerca, quasi del tutto inesplorati, ponendoli come cellule base per una più ampia e circostanziata storia delle comunità costiere del Mediterraneo. La comunità delle rive e le attività marittime Per entrare nel merito di questo filone di indagine è necessario innanzitutto porre attenzione al quadro ambientale, complice delle azioni che portano appunto, a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento, alla nascita di una particolare società costiera, quale risultato dell’aggregazione tra gruppi indigeni impegnati in occupazioni a terra e gruppi professionali forestieri, esperti invece nelle arti marittime. In pochi decenni si viene a costituire una nuova classe di lavoratori del mare, impegnata in attività promiscue (pesca e cabotaggio in primis) con un numero sempre crescente di addetti, in grado di indirizzare, per alcune località con coordinate geografiche particolarmente favorevoli, soprattutto per quanto concerne le vie di comunicazione tra la costa e i territori retrostanti, l’acquisizione di una spiccata identità marinara. Su questo presupposto, dalla fine del XVI secolo si documenta l’avvio di un’economia legata alla produzione ittica che troverà un inedito sviluppo, nei secoli a seguire, con il commercio del pesce fresco, potenziato anche dall’accresciuta rete di distribuzione su lunghe distanze. Nel litorale adriatico, lungo la fascia costiera di Marche e Romagna, si assiste nella prima età moderna al fenomeno dell’avanzamento della linea di costa contestualmente ad una sorta di regressione marina dovuto non solo a mutamenti climatici, ma soprattutto ai depositi fluviali di limo e ghiaia derivati dal dilavamento dei terreni a causa di massicci disboscamenti effettuati per conquistare nuove aree da destinare all’agricoltura. Le fasce costiere originate dall’arretramento del battente del mare, variamente denominate (albaioni, staggi, relitti o rilasci del mare, renacci), per natura sterili, prefigurandosi come terre di nessuno e sfuggendo, almeno sul nascere, al controllo delle autorità di governo, si prestano però a pratiche di sfruttamento che animano un’economia di sussistenza, con frequentazioni favorite dalla natura giuridica dei suoli, contrassegnata dal perdurare nel tempo di usi civici consentiti ab immemorabili. La pressione demografica stimola esperimenti di addomesticamento delle rive, ponendo le basi ad opere di bonifica dei terreni sabbiosi che si registrano lungo tutto il 45 litorale adriatico pontificio, dal Savio al Tronto. I cordoni sabbiosi corrispondenti all’antico battente del mare si pongono come argine di protezione per tentativi di bonifica agricola degli arenili più arretrati rispetto alla linea di riva. Le zone acquitrinose (altrimenti detti guazzi) diventano postazioni per l’esercizio della caccia all’avifauna migratoria; le distese sabbiose si prestano ad una libera frequentazione dei magri pascoli e a pratiche di raccolta di legna, alghe e fauna marina rigettata a riva dalle burrasche. Si aggiungono poi, negli specchi d’acqua poco lungi dal battente del mare, la costruzione di particolari palafitte/postazioni fisse per la pesca e ancora strutture di supporto per l’attività estrattiva di pietra e ghiaia lungo le rive, un’occupazione, quest’ultima, che anima un intenso traffico marittimo (si pensi al movimento commerciale legato alle cave di Focara nel pesarese). Il lido del mare pur inospitale, malsano per le acque stagnanti e malariche, pericoloso per i possibili incontri con banditi, pirati e corsari, prende ad animarsi. Almeno dal primo Cinquecento, nonostante le molteplici problematiche, quest’area si apre ad una metamorfosi, ben evidenziata nei sondaggi di studio già svolti per alcuni tratti del litorale riminese, pesarese e fermano, ad esempio, piegati a differenti strategie di sfruttamento del suolo e dell’ambiente, con l’adattamento di molteplici pratiche complementari fra loro 1. Al contempo però si attua anche il contatto con pescatori veneti e dalmati, richiamati ad esercitare la pesca lungo la costa occidentale dell’Adriatico con migrazioni stagionali, che darà impulso, nel giro di pochi decenni, alla costituzione delle comunità marinare nei porti/approdi di “sottovento” 2. La società impiantata sul litorale entra infatti in relazione con un’altra società, quella mobile dei gruppi che nella prima età moderna lavorano costantemente nel mare e lungo le rive della costa occidentale dell’Adriatico, sciamando dalla laguna di Venezia o spostandosi stagionalmente dalla costa orientale attirati da proficue prospettive professionali (sono i pescatori lagunari di Burano e di Chioggia, e delle ‘peschiere’ istriane e dalmate) 3. Quando questa contaminazione socio culturale si manifesta appieno, specie in corrispondenza di città dotate di porto e dunque fornite di servizi (case, botteghe) che offrono soluzioni stabili per la dimora dei pescatori/marinai forestieri, si verifica una prima aggregazione, determinante nel fenomeno di cambiamento. Da un lato si assiste alla trasmissione di saperi di natura culturale e tecnologica, 46 dall’altro ad una sorta di segregazione di questo nuovo gruppo sociale dal centro cittadino, indirizzata anche da disposizioni politicoamministrative che favoriscono la genesi di quartieri del porto o borghi di marina, ai margini se non addirittura all’esterno del recinto urbano. Si ripropone, anche se in termini meno drastici, l’antica contrapposizione tra città sul mare e città dell’interno espressa già da Platone (Leggi IV 704 e segg.) che si opponeva alla teoria di una città “ideale” situata sul mare nella convinzione che i traffici e la conseguente presenza di stranieri avrebbero potuto alterare il carattere patriarcale, “virtuoso” della polis, concetto ribadito anche da Aristotele (Politica VII, 6), ma con un giudizio più attenuato 4. Come Platone, Aristotele riconosceva il pericolo di una perdita di identità dovuto alla commistione di costumi forestieri, ma, data l’importanza dei commerci marittimi per la prosperità degli abitanti, come soluzione prospettava di tenere il porto e la sua gente fisicamente separati dal centro della città, destinandoli irrevocabilmente all’esclusione e all’isolamento. Ed è appunto su questa stessa tradizione che si innesta la creazione dei quartieri del porto delle città rivierasche, che nascono staccati dal centro propulsore della vita collettiva, con chiaro intento politico di mantenere la gente di mare isolata, per evitare contaminazioni culturali, ma anche come strumento preventivo di difesa sanitaria. Basti l’esempio delle ordinanze ducali di Senigallia del 1590, che vietavano ad ebrei e pescatori «di essere ammessi in città per essere di molto danno». Si passa insomma dall’accettazione dell’esistenza di una società costiera indigena, vagante negli arenili sabbiosi per elementari attività plurime di sfruttamento dei suoli e delle acque costiere, alla nascita di comunità marinare segregate extra moenia nei quartieri portuali delle città marittime o in nuovi villaggi cresciuti sugli approdi-caricatoi delle città paracostiere, così frequenti lungo il litorale da costituire una sorta di «porto diffuso», per dirla con la felice definizione coniata da Biagio Salvemini. Piuttosto interessante a questo riguardo appare proprio il caso del litorale marchigiano che, su un percorso di circa 170 km, conta la nascita di diversi insediamenti come sbocco al mare dei corrispettivi centri urbani collinari, ben riconoscibili ancora oggi per la presenza del termine porto accanto al nome della città a cui erano soggetti: Porto d’Ascoli, Porto di Fermo (ora Porto San Giorgio), Porto Sant’Elpidio, Porto Recanati, Porto Civitanova e così via. Le città e 47 i castelli paracostieri favoriscono insomma la gemmazione a mare di altri nuclei abitati all’interno del rispettivo ambito giurisdizionale, controllato sotto l’aspetto politico-amministrativo attraverso gli statuti cittadini, che dettano regole per l’approvvigionamento e vendita del pesce fresco, vietandone l’esportazione allo scopo di garantire “abbondanza” alla piazza locale. La società costiera autoctona, accresciutasi con l’immigrazione di famiglie provenienti dalla laguna veneta, appare dunque come una comunità composita, favorita dalle autorità di governo, interessate a far fronte alla crescita demografica con la colonizzazione dei litorali mediante progressive bonifiche e al contempo ad assicurarsi la presenza stabile di pescatori di mestiere per l’adeguata fornitura del prodotto ittico in risposta al fabbisogno. La seconda metà del Cinquecento appare un’epoca di grande interesse per la lettura di questo fenomeno, ben evidenziato in recenti studi. Per Ancona e per gli scali di “sottomonte” si accerta una diffusa immigrazione di gruppi professionali provenienti dall’isola di Burano (piscatores buranelli); a Pesaro si documenta invece la presenza di una consistente colonia chioggiotta, sia di pescatori e marinai, sia di maestranze addette alla carpenteria navale e ad altre arti marittime collaterali (velai, cordai, ecc.) 5. Le nuove società/ comunità costiere (con una percentuale rilevante di naviganti e pescatori) si riconoscono anche nelle associazioni laiche (confraternite, compagnie) costituite senza porre distinzioni professionali come invece si verifica nelle grandi città marittime, dove coesistono più compagnie di mestiere, come ad esempio a Chioggia, dove agiscono al contempo le confraternite dei marinai, dei pescatori, dei calafati. Nei porti di “sottovento” del medio Adriatico non si attesta alcuna selezione per categoria; la confraternita accoglie infatti al suo interno persone che praticano professioni diverse, legate dalla vicinanza domiciliare e dall’appartenenza al medesimo gruppo sociale. Nasce così la societas/compagnia denominata “del porto”, come si verifica a Rimini, così come a Pesaro, a Senigallia e in altri luoghi. Dei fenomeni fin qui enunciati, si trovano segnalazioni, anche se a cenni, già nella storiografia locale antica, quelle storie municipali, spesso vere e proprie laudes civitatum, che rappresentano un serbatoio di informazioni estremamente utili, dando modo, su varie tematiche, di orientare con precisione lo scavo nelle fonti d’archivio (di natura amministrativa, giudiziaria, notarile ecc.). 48 Manoscritte o edite a mezzo stampa nell’età moderna, queste trattazioni hanno giocato un ruolo significativo per la storiografia marittima regionale e in particolare per lo studio delle comunità marinare e pescherecce. Grazie agli spunti restituiti dalle storie municipali di Pesaro e di Ancona, ad esempio, è partita la ricerca, proseguita poi su altre realtà, per documentare l’evoluzione delle attività alieutiche nel Mediterraneo. Storie e cronache cittadine, pur scritte con fini encomiastici, rappresentano senza dubbio una fonte imprescindibile. Gli autori infatti non si limitano a dissertare sull’origine antica e/o mitica della città, o sul ceto nobiliare che l’ha governata e amministrata, ma spesso presentano puntuali descrizioni che riguardano caratteri ambientali e quadri socioeconomici piuttosto interessanti. Per Senigallia Ludovico Siena, tessendo le lodi del porto, accenna, specie in occasione del raduno fieristico di luglio, alla consistente frequentazione dello scalo, «capace di marciliane, tartanelle francesi e genovesi, londre, saiche, e somiglievoli grossi legni». Viene vantata, fatto singolare per le storie municipali delle città costiere marchigiane, anche l’attività cantieristica che si svolge in uno «squerro molto acconcio a lavorar nuovi legni marittimi ed a ristorarne i vecchi ed i logori, non solo per comodo delle navi di questo porto, ma non di rado d’altri ancora, che per sì fatta causa vi concorrono» (Storia di Sinigaglia, 1746) 6. A cavallo tra Cinque e Seicento, a ricordare l’importanza dello scalo pesarese come porto di transito soprattutto dei traffici per Venezia e per Roma, sono Marcantonio Gozze e Ludovico Zacconi. A quest’ultimo si deve la notizia più clamorosa, cioè l’introduzione a Pesaro nel 1614 del «modo di pescare con le trattane» da parte di pescatori provenzali che già esercitavano questo tipo di pesca nel «mar di Roma», ossia nel Tirreno. Un avvenimento assai significativo non solo per una realtà locale, nello specifico Pesaro, ma per la storia della pesca d’altura in Adriatico e più in generale nel Mediterraneo. Ne dà conferma l’analoga segnalazione richiamata nelle storie di Ancona di Camillo Albertini e di Antonio Leoni, in riferimento all’accordo stipulato nel 1610 tra pescatori francesi e la città dorica per il «nuovo modo di pescare con tartane». Le Marche si sono dunque rivelate un luogo di mediazione per la ricezione delle innovazioni tecnologiche prima e la restituzione poi nel medio e alto Adriatico delle esperienze maturate, fra Sei e Settecento, con la diffusione 49 dei nuovi sistemi di pesca alturiera. In questa nuova prospettiva la stessa città di Chioggia, da sempre considerata anche nel settore ittico il polo propulsore della cultura marinara adriatica, riceve, metabolizza e poi ridistribuisce le innovazioni tecnologiche che hanno trovato invece sperimentazione pionieristica nelle neonate marinerie pescherecce del litorale pontificio. Studi sulla storia della pesca marittima dal 1980 ad oggi. L’età moderna Nel panorama della storiografia marittima, relativamente agli studi afferenti alla pesca e al piccolo cabotaggio dal tardo medioevo al tramonto della vela, il monitoraggio sulle realtà locali ha rappresentato un punto di forza, dando la possibilità di far luce sulla prima comparsa delle principali imbarcazioni della marineria tradizionale, tartana e trabaccolo, fra Cinque e Seicento, un’epoca che avvia nel Mediterraneo profonde trasformazioni nell’attività alieutica, che porteranno al perfezionamento di tecniche di navigazione e di cattura in acque alturiere, alle quali si collegherà la diffusione della pesca a strascico. Di pari passo ad innovativi sistemi venatori si introducono altri importanti meccanismi e ordinamenti per l’incremento della produzione ittica: la costruzione di appositi contenitori ipogei (ghiacciaie, neviere, conserve) funzionali alla conservazione del pesce appena sbarcato al fine di potenziare il commercio del pesce fresco, lo stoccaggio e la rete logistica della distribuzione; mirate strategie di investimento nel settore; la regolamentazione professionale. Uno studio intitolato Ricerche sulle tecniche piscatorie fra Marche e Romagna nei secoli XVII e XVIII (“Atti e memorie della deputazione di storia patria per le Marche”, 85, 1980), a firma della scrivente, offriva già nel 1979 i primi risultati di uno scavo archivistico, apportando inedite informazioni sul diritto di pesca nel Cinquecento, sulle tipologie di pesca costiera (tratte, spontali, pesca delle poverazze) e a strascico in altura (tartana); sulle imbarcazioni in uso tra Sei e Settecento (tartane, trabaccoli, bragozzi); sull’introduzione della pesca in coppia (coccia) nel secondo Settecento; sull’analisi delle fasi operative nell’esercizio della pesca a pèlago attraverso lo spoglio di documenti di considerevole interesse quali i costituti sanitari. In questa pubblicazione, per la prima volta, le tecniche piscatorie esercitate dalla marineria tradizionale trovavano 50 collocazione storica in un lasso di tempo utile a definirne le origini, poi sviluppate in altri saggi, dati alle stampe negli anni ’90 in virtù di più circostanziati approfondimenti sui materiali d’archivio, con opportuni confronti estesi ad altri contesti mediterranei. La piena conoscenza dell’evoluzione storica avvenuta per gli insediamenti litoranei del medio Adriatico, grazie al restringimento del sondaggio/ricerca/studio ad alcune realtà campione fra Romagna e Marche, con metodo comparativo, ha permesso poi analoghe analisi per altri contesti geografici (Marche meridionali, Puglia, Campania, Lazio, Liguria, Toscana), con contributi metodologicamente adattati al confronto, consentendo di contestualizzare gli scambi culturali e di generalizzare all’intero Mediterraneo determinati cambiamenti nella formazione delle comunità costiere e della pesca marittima, costiera e d’altura. Prima di queste pubblicazioni, tutte concentrate negli ultimi tre lustri 7, le conoscenze sull’argomento si limitavano al recupero della memoria recente, come unica fonte conservativa di un sapere inveterato dei sistemi tradizionali di pesca con mezzi a propulsione removelica, acquisiti e trasmessi nel mestiere di marinaio-pescatore ab immemorabili 8. Non si supponeva affatto di poter individuare l’area (Provenza, Linguadoca, Catalogna) e il periodo storico (seconda metà secolo XVI) per la comparsa della pesca a strascico di media distanza e d’altura, né tantomeno di riuscire a giustificarne l’introduzione e la graduale inarrestabile diffusione nel Mediterraneo e in particolare nell’Adriatico, con tutte le conseguenti modifiche strutturali nel settore accertate dall’inizio del secolo XVII in avanti. Nel 1990 Sergio Anselmi lamentava una forte mancanza di interesse per questo settore di studi, affermando che la pesca era «stata poco studiata sotto il profilo storico-economico», ma aveva «avuto qualche successo nell’ambito dell’antropologia» 9. Già in precedenza, in un autorevole articolo, nel tentativo di fissare una scansione temporale in cui collocare l’“orientamento filosofico” e il “taglio critico” della storiografia marittima, relativamente all’Adriatico centrale, aveva riconosciuto al periodo 1977-1984 una valenza ancora troppo influenzata dalla antropologia. Anselmi indicava negli studi in essere in quegli anni due tendenze principali: 51 una, sempre più antropologizzante (cultura delle popolazioni marinare, ambienti, nomi, omogeneità-disomogeneità, alimentazione, tecniche piscatorie ecc.) sul modello delle proposte formulate dalla trimestrale ‘Le Chasse-Marée’, che ha prodotto la bella ricerca di Mario Marzari su Il bragozzo adriatico, il volumetto di un gruppo sanbenedettese anconitano su La costa nel Piceno: ambiente, uomini, lavoro 10 e, soprattutto, la costituzione del ‘Museo della Pesca’ di Cesenatico, che organizzò nel 1977 il convegno su La marineria romagnola, l’uomo, l’ambiente, dal quale è nato il volume omonimo […] ; una, più propriamente tecnico marittima, sui porti emiliano-marchigiani dello Stato pontificio, sul rapporto terra-mare nei trasporti su barche, tariffe, rotte, equipaggi, prestiti … 11. Nei sette anni considerati dal prof. Anselmi però, i dibattiti in atto avevano prodotto proficui stimoli anche per ricerche individuali. Tra il 1982 e il 1985, il clima culturale creatosi attorno agli aspetti demoantropologici, all’archeologia navale, alla cultura materiale, alla storia orale attinente alla pesca e alla navigazione, portava alla pubblicazione del volume collettaneo Barche e gente dell’Adriatico 1400-1900 (Bologna 1985), con un contributo della scrivente intitolato Note sull’attività cantieristica e portuale a Rimini nel Settecento, in cui si dimostra la valenza della fonte notarile, a detta di Alberto Caracciolo «preziosa e faticosa». I temi trattati erano i seguenti: 1. Pesca commercio navigazione; 2. Le fonti; 3. Maestri d’ascia: cultura materiale e aspetti organizzativi dell’arte; 4. Tipi navali e tecniche di pesca; 5. Parcenevoli e pescatori. Ad illustrare l’evoluzione delle arti marittime nell’Adriatico si prendeva a campione Rimini, la città costiera che lo studio evidenziava, nel Settecento, come il principale porto peschereccio dello Stato pontificio. Documenti di carattere amministrativo davano sostanza a una tabella statistica dei pescherecci operativi in un periodo storico particolarmente significativo (1749-1773). Venivano specificati, tra l’altro, i tipi navali in uso (tartanoni, trabaccoli, barchette), corrispondenti a differenti tipologie di pesca e dunque di produttività 12. Dai rogiti notarili erano estratte relazioni estremamente particolareggiate sulle imbarcazioni e si esibivano le caratteristiche costruttive e dimensionali contenute in 46 contratti (37 stipulati a Rimini, 9 a Chioggia) sottoscritti da armatori, pescatori e costruttori navali tra 52 il 1679 e il 1798 13. La fonte notarile aveva fornito ragguagli anche in merito al finanziamento della pesca, ovvero gli strumenti giuridici predisposti per legalizzare il rapporto tra prestatori e pescatori (creditum super cimba), argomento approfondito in studi successivi grazie soprattutto al supporto interpretativo suggerito alla scrivente dal prof. Cesare Maria Moschetti 14. In una nota si dava anche notizia del trasferimento, orchestrato e gestito direttamente dalla camera apostolica, di numerosi pescatori riminesi, chioggiotti e marchigiani che, nell’ambito di un piano economico promosso dal pontefice Benedetto XIV, salpati dal porto romagnolo a bordo di due trabaccoli, si erano trasferiti nel Tirreno per avviare il potenziamento delle attività alieutiche nella spiaggia romana (1753). Argomenti, quelli appena citati, fino ad allora del tutto sconosciuti, presi in considerazione per la loro indubbia rilevanza da altri studiosi quasi trent’anni dopo. Sergio Anselmi, nel profilo storico sulla pesca pubblicato nel 1990, citava a più riprese questo inedito filone di ricerca che aveva suscitato l’attenzione anche da parte di Mario Marzari e Pasqua Izzo. Quest’ultima, nella disamina di quanto si pubblicava in quegli anni, segnalava infatti l’approccio metodologico proposto nel saggio sul porto e la marineria di Rimini nel Settecento, come un valido presupposto per traghettare la marineria tradizionale «da oggetto del folclore a soggetto di storia», espressione poi sottolineata da Sergio Anselmi (1990) 15. L’apporto documentario e metodologico che tanto appassionava gli studiosi di cultura marinara, era rimasto comunque ignorato negli ambienti accademici e più specificamente nel saggio La storiografia marittima nello Stato della Chiesa 16 inerente alla disamina degli scritti pubblicati tra il 1980 e il 2000. L’autore, pur sostenendo che il settore della pesca era stato «oggetto di significative ricerche anche relativamente alle altre regioni adriatiche dello Stato ecclesiastico», in questa rassegna insisteva sulla carenza di articolate indagini storiche, rimarcando che «l’interesse degli studiosi si è concentrato quasi esclusivamente sui minuti aspetti di una cultura materiale della pesca, fatta di linguaggi, di tecniche piscatorie, di attrezzature, imbarcazioni, reti e così via» 17. Si sottolineava per di più che «l’economia della pesca nelle due costiere pontificie […] era principalmente legata non tanto alla pesca d’altura, per la quale i porti e la marineria dello Stato ecclesiastico non erano sufficientemente attrezzati e che alimentava solo mercati locali, quanto 53 piuttosto il prodotto delle peschiere e delle acque costiere» 18, affermazione in parte valida e condivisibile, ma solo se riferita al litorale tirrenico. Nonostante si trovi menzione in quella bibliografia del volume Barche e gente dell’Adriatico, l’autore infatti risulta ignorare i contributi sviluppati sui materiali archivistici, negando di conseguenza alle marinerie pescherecce dell’Adriatico pontificio, quel ruolo fondamentale che invece la ricerca storica aveva già assegnato con ripetute conferme documentarie. La pesca a strascico d’altura aveva trovato diffusione proprio sulle coste adriatiche pontificie e ex ducali tra Sei e Settecento, come peraltro già dimostrato in diverse pubblicazioni, purtroppo ignorate. Le nuove pratiche piscatorie unite alle inedite tecniche di navigazione, che trovano nel medio Adriatico un loro laboratorio nei secoli dell’età moderna, individuate e studiate nei “microcosmi” regionali, hanno insomma rappresentato una sorta di volano per la modifica strutturale del settore produttivo legato alla pesca, decretando la nascita e lo sviluppo della marineria peschereccia d’altura che ha così fortemente caratterizzato i centri costieri di Romagna, Marche e di altre regioni anche in età contemporanea, ben oltre il tramonto della vela. Lo studio dei sistemi di pesca dunque, è ormai entrato a pieno diritto nell’ambito storico economico. Se è vero, come osserva l’antropologa Aliette Geistdoerfer che «le tecniche di pesca costituiscono l’insieme tecnico che comprende un’imbarcazione, luogo e strumento di lavoro, attrezzi da pesca, un gruppo professionale e una pratica», va rimarcato anche che l’analisi dei territori di pesca e i tempi di lavoro di ogni singola unità applicata all’attività costiera, alla media distanza o piuttosto all’altura, consente di documentare l’incremento della produzione ittica e di verificare l’impatto ambientale ed economico. Si aggiungono cognizioni sulle forme di investimento finanziario nel settore ittico, sul sistema di reclutamento della manodopera specializzata e sulle dinamiche delle migrazioni di lavoro, sulla rete distributiva conseguente ad un aumento rilevante della produzione e della domanda, di riflesso alla pressione demografica e, non ultimo, sugli usi alimentari e sul consumo di pesce, non esclusivamente influenzati e indotti dalla precettistica religiosa. Lo studio delle attività piscatorie tradizionali inoltre può riserbare importanti elementi anche per ricostruire la storia dell’ambiente. 54 Brevi cenni sulla storia della pesca nelle Marche di età moderna In merito alla storia della pesca nelle Marche vale la pena segnalare alcuni studi basilari, per certi versi pionieristici, elaborati da studenti universitari per tesi di laurea. Assume in questo contesto una rilevanza centrale la ricerca prodotta da Ennio Panfili, dal titolo L’industria della pesca nel litorale marchigiano nel Settecento con particolare riferimento ai centri di Fermo e di Ancona, discussa presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Perugia nell’anno accademico 1965/1966 19. La ricerca di Panfili, indirizzata dal prof. Giuseppe Mira, metteva in evidenza per la prima volta documenti di particolare rilevanza, rintracciati nell’Archivio di stato di Fermo: Firmana gabellae piscium e Osservazioni di fatto e di ragione sulla proibizione delle paranze a coppia nel Mare Adriatico (1774). Oltre ad un efficace monitoraggio sul mondo dei pescatori fermani e sulle problematiche legate alla pesca a strascico nella seconda metà del Settecento, veniva indagato anche l’ambiente mercantile e peschereccio del porto dorico, sempre sulla scorta di materiale archivistico inedito, poi sviluppato, in quegli stessi anni in alcuni scritti di Werther Angelini 20. L’argomento è stato autorevolmente trattato, con proiezioni sul lungo periodo, in due articolati saggi (La pesca nel medio Adriatico tra basso medioevo ed età contemporanea, 2007 21; La pesca ad Ancona tra età moderna e Novecento, 2010 22) a firma di Marco Moroni. Tra la fine degli anni Ottanta e primi anni Novanta del secolo scorso, sull’onda di questi interessanti risultati, l’indagine sulla fonte archivistica trova altri proseliti nelle Marche meridionali, a partire da Ugo Marinangeli che, nel saggio intitolato San Benedetto del Tronto da borgo marinaro a centro peschereccio di primaria importanza (1989) 23, rilancia all’attenzione degli studiosi le due importanti e circostanziate memorie. Prodotte dalla comunità di Fermo dinanzi all’autorità superiore a difesa delle acque territoriali e in opposizione al bando proibitivo del 1773, emanato dal tesoriere generale per limitare la pesca a coppia nelle acque adriatiche pontificie, queste dettagliate relazioni, già approfonditamente esaminate nella tesi del Panfili (1965), vengono richiamate di lì a poco nelle rispettive tesi di laurea da Maria Agnese Sciocchetti e Fabrizia Pompei: Lo sviluppo dell’attività peschereccia tra il ’700 e la fine dell’800 sul litorale medio piceno (Università di Urbino, facoltà di Magiste55 ro, a.a. 1991-1992, relatore Marinella Bonvini Mazzanti); Attività peschereccia lungo la costa picena tra XVIII secolo e primo Novecento (Università di Ancona, facoltà di Economia e Commercio, a.a. 1991-1992, relatore Sergio Anselmi). Le tematiche afferenti alle memorie difensive fermane trovano ulteriore spazio nello studio di Gabriele Cavezzi e Ugo Marinangeli dal titolo Il secolo XVIII, ovvero della rivoluzione nella pesca picena (“Cimbas”, 9/1995) e, più recentemente, nel lavoro di Maria Ciotti, La pesca nel medio Adriatico nel Settecento, tra innovazione delle tecniche e conservazione delle risorse (Macerata 2006) 24. La stessa studiosa ripropone l’intera trascrizione dell’importante documento in “Per la pesca ben regolata”. Le “Osservazioni” sulla proibizione della pesca con le paranze a coppia nel mar Adriatico (1774) (Terni 2013). Il caso appena enunciato si presenta emblematico, in quanto dimostra ancora una volta le valenze della microstoria come osservatorio di importanti fenomeni che non riflettono solo momenti di congiuntura riferiti al locale, ma investono l’intero Mediterraneo. Il dibattito acceso dalla marineria picena nel Settecento mette in luce, con dovizia di particolari, un complesso di fattori che si dilata ben oltre l’Adriatico e replica le domande e le risposte di pescatori e governanti in merito al presunto impatto nocivo sull’ambiente marino delle nuove tecniche di pesca, considerate distruttive del novellame, che già da oltre un secolo si registravano nelle comunità costiere più attive nell’esercizio della pesca. Il riferimento va alla legittimità della pesca a strascico che appunto, tra Sei e Settecento, impegnava le autorità governative centrali e periferiche a emanare bandi proibitivi per la conservazione della risorsa, soprattutto dopo la graduale diffusione della pesca cosiddetta a coppia 25. Le fonti archivistiche pesaresi, in special modo le carte notarili, d’altro canto, alla stregua di quanto restituito dalla ricerca effettuata negli archivi di Rimini, Senigallia, Ancona, Ravenna 26, hanno fornito informazioni importantissime per la conoscenza dei tipi navali in circolazione nell’Adriatico fra XV e XVIII secolo e ancora delle pratiche piscatorie in uso nei secoli dell’età moderna 27. È stato possibile così scoprire e motivare l’introduzione in Adriatico (Ancona, Pesaro) della pesca a tartana, di matrice provenzale (1611-1614) 28. Questa fruttuosa indagine ha permesso dunque di documentare l’organizzazione nei porti dell’Adriatico pontificio delle marinerie 56 pescherecce d’altura 29 e la nascita di un importante settore dell’economia marittima legata alla produzione e commercio del pesce fresco, che troverà nell’età contemporanea un ulteriore inarrestabile sviluppo con le note problematiche legate al rapporto tra economia e ambiente, alla ricerca di una sostenibilità del sistema marino e di modelli di gestione ambientale integrata. 1 V. M.L. de nicolò, Per una storia delle trasformazioni del litorale romagnolo: gli “staggi” di Misano. Usi civici, investimenti, bonifiche fra XVI e XX secolo, in Storia di Misano Adriatico dal 1500 ai nostri giorni, II, Rimini 1993, pp. 20-39; ead., Il rumore delle rive. Gli usi dei litorali tra medioevo ed età contemporanea in “2° Seminario sulle Fonti per la Storia della Civiltà Marinara Picena - S. Benedetto del Tronto, 8/9 dicembre 2000”, Ascoli Piceno 2002, pp. 15-25; ead., Le pietre di Focara. Una risorsa naturale tra diritto e costumanza, “Pesaro città e contà”, 17 (2003), pp. 101-113; M. moroni, Tra “relitti di mare” e paludi costiere: nascita di una comunità di pescatori a San Benedetto del Tronto (secoli XVI-XVIII) in S. caVaciocchi (a cura), Ricchezza del mare, ricchezza dal mare, secc. XIII-XVIII, “Atti della Trentasettesima Settimana di studi dell’Istituto di Storia Economica F. Datini, 11-15 aprile 2005”, II, Firenze 2006, pp. 1041-1055; M.L. de nicolò, Le Gabicce. Insediamenti, agricoltura, caccia, pesca (secoli XV-XVIII), Villa Verucchio 2009. 2 Una sintesi del fenomeno è riportata in M.L. de nicolò, Comunità costiere e storia della pesca nel Mediterraneo (XVI-XVIII secolo), in M. d’angelo, g. harlaFtiS, c. VaSSallo (a cura), Making Waves in the Mediterranean/Sulle onde del Mediterraneo, “Proceedings of the 2nd MMHN Conference Messina and Taormina, 4-7 May 2006”, Messina 2010, pp. 749-760. 3 Si veda, per esempio quanto avviene a Rimini, dove già nel Cinquecento si attesta una nutrita colonia di pescatori provenienti dall’area lagunare veneta che si incrementa poi nei secoli successivi, M.L. de nicolò, Rimini Marinara. Istituzioni, società, tradizione navale. Secoli XIII-XVIII, Villa Verucchio 2008, in particolare pp. 111-160. 4 Cfr. R. romano, Paese Italia. Venti secoli di identità, Roma 1994, p. 97. 5 M.L. de nicolò, Il Mediterraneo nel Cinquecento tra antiche e nuove maniere di pescare, “Rerum Maritimarum”, Quaderni del Museo della Marineria Washington Patrignani di Pesaro, 7/2011; ead., La comunità dei pescatori nelle Marche di età moderna. Origini e mutamenti in L’Adriatico. Le origini di una macroregione europea, “Marca/Marche. Rivista di storia regionale”, 5/2015, pp. 27-46. 6 Anche riguardo alla cantieristica navale sono molteplici gli scambi culturali di riflesso alle migrazioni stagionali di lavoro di maestranze proveniente dall’area lagunare veneta e dalla sponda orientale dell’Adriatico, documentate fin dal XV secolo. Cfr. M.L. de nicolò, Migrazioni di maestranze navali venete e romagnole 57 verso le coste di Marche e Abruzzo. Mobilità di lavoro e dinastie di mestiere (secoli XVI-XVIII), in Fra Marche e Abruzzo. Commerci, infrastrutture, credito e industria in età moderna e contemporanea, Atti del convegno San Benedetto del Tronto ottobre 2006, “Proposte e ricerche”, 58, 2007; ead., Naviglio mercantile in Adriatico nei primi secoli dell’età moderna in G. garzella, r. giulianelli, g. petralia, o. Vaccari (a cura), Paesaggi e proiezione marittima. I sistemi adriatico e tirrenico nel lungo periodo: Marche e Toscana a confronto, Pisa 2013, pp. 137-154. 7 Fondamentale è stato l’apporto degli storici dell’economia, a cui si deve l’organizzazione dei primi convegni sulla storia della pesca nel Mediterraneo: G. doneddu, m. gangemi (a cura), La pesca nel Mediterraneo occidentale (secc. XVIXVIII), Bari 2000; G. doneddu, a. Fiori (a cura), La pesca in Italia tra età moderna e contemporanea. Produzioni. mercato, consumo, Sassari 2003; L. palermo, d. Strangio, m. Vaquero piñeiro (a cura), La pesca nel Lazio. Storia economia problemi regionali a confronto, Napoli 2007; V. d’arienzo, B. di SalVia (a cura), Pesci, barche, pescatori nell’area mediterranea dal medioevo all’età contemporanea, Milano 2010. 8 Per rimanere all’ambito adriatico, all’inizio degli anni Ottanta erano fondamentalmente due i testi di riferimento per chi si interessasse della materia: Le barche romagnole linee di una ricerca (Faenza 1975) di Augusto Graffagnini; Archeologia e tradizione navale tra la Romagna e il Po (Ravenna 1978) di Marco Bonino. 9 S. anSelmi, La pesca in Italia. Note e indicazioni per un profilo storico in aa.VV., Viaggio nel mondo della pesca. Itinerari di storia, ricerca scientifica, arte e tradizioni, Ancona 1990, p. 37. 10 aa.VV., La costa nel Piceno. Ambiente, uomini, lavoro, introduzione di Ercole Sori, Milano 1981. Autori dei testi pubblicati nell’opuscolo realizzato per conto dell’Amministrazione Provinciale di Ascoli Piceno, Assessorato all’Istruzione e alla Cultura, erano Ferdinando Felicetti, Gianni Maroni, Elisabetta Ottaviani, Gianni Ottaviani, Vermiglio Ricci, Gino Troli. 11 S. anSelmi, Il piccolo cabotaggio nell’Adriatico centrale: bilancio di studi, problemi, metodi, programmi in Tendenze e orientamenti nella storiografia marittima contemporanea, a cura di A. di Vittorio, Napoli 1986, pp. 131-132. Nello stesso volume si veda anche il contributo di C. manca, La storiografia marittima sullo stato della Chiesa, sul versante adriatico pp. 86-93. 12 Riguardo alle potenzialità della fonte notarile un primo cenno si trova in M.L. de nicolò, Le fonti notarili per la conoscenza dell’ambiente e della vita quotidiana della gente di mare, in P. izzo (a cura), Le marinerie adriatiche tra ‘800 e ‘900, Roma 1989, pp. 157-160. 13 La ricerca condotta su Rimini negli anni seguenti è stata poi applicata a Pesaro, sempre privilegiando lo spoglio dei protocolli notarili che, anche in questo caso si sono rivelati indispensabili, dando la possibilità di reperire innumerevoli informazioni sui tipi navali e sulla società dei pescatori/marinai. Basterà citare M.L. 58 de nicolò, Tartanon pesarese un veliero adriatico. Costruzione, governo, attività, usi marittimi. Secc. XV-XIX, Villa Verucchio 2005. 14 M.L. de nicolò, Microcosmi mediterranei. Le comunità del pescatori nell’età moderna, Bologna 2004, pp. 217-222. 15 P. izzo, Le marinerie tradizionali adriatiche da oggetto del ‘folclore’ a soggetto di storia, in Le marinerie adriatiche tra ‘800 e ‘900, Roma 1989, p. 11-15; anSelmi, Viaggio nel mondo della pesca cit., p. 37. 16 Il saggio scritto da l. palermo si trova in La storiografia marittima in Italia e in Spagna in età moderna e contemporanea. Tendenze, orientamenti, linee evolutive, a cura di A. di Vittorio e C. Barciela lopez, Bari 2001, pp. 253-268. 17 palermo, La storiografia marittima nello Stato della Chiesa cit. [v. nota 16], p. 267. 18 Ibid., p. 266. Vedi anche L. palermo, La pesca nell’economia dello Stato della Chiesa in età moderna, in La pesca nel Mediterraneo occidentale cit., pp. 107-149, dove il nostro saggio, inserito nel volume Barche e gente dell’Adriatico insieme ad altri articoli pubblicati in riviste storiche, vengono ignorati, così come i numerosi contributi di Gabriele Cavezzi e Ugo Marinangeli dedicati alla pesca nelle Marche meridionali nel 1989 e agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. 19 La tesi viene citata nell’opera collettanea già ricordata, La costa nel Piceno, e successivamente da G. troli, Il porto di Sant’Elpidio tra piccolo cabotaggio e pesca: elementi per una storia in Governo, economia, cultura quotidiana a Sant’Elpidio a mare fra basso Medioevo e Novecento, a cura di S. anSelmi, Ripatransone 1983, p. 212, nota 3. 20 Mi limito a segnalare il saggio dal titolo Vicende della pesca e dell’ambiente mercantile nel Settecento anconetano in “Quaderni storici delle Marche”, 7, 1968, pp. 56-85, in aggiunta ad altri contributi dello stesso autore pubblicati nella rivista “Il Gazzettino della Pesca” di Ancona, tra cui il breve contributo apparso nel numero speciale del giugno 1966 dal titolo Appunti per una storia della pesca ad Ancona nel Settecento. 21 palermo et al., La pesca nel Lazio cit., pp. 311-354. 21 Il saggio è contenuto in d’arienzo, di SalVia, Pesci, barche, pescatori nell’area mediterranea dal medioevo all’età contemporanea cit., pp. 452-469. 23 Sta in San Benedetto del Tronto, storia arte folclore, a cura di G. nepi, Ascoli Piceno 1989, pp. 275-338. Di particolare rilievo per le Marche meridionali risulta la ricerca svolta sulla fonte notarile per i secoli dell’età moderna da Gabriele Cavezzi pubblicata a più riprese nei fascicoli della rivista “Cimbas” a partire dal 1993. 24 Di maria ciotti si segnalano: Contratti di costruzione e vendita di barche a San Benedetto nel XVIII secolo, Tesi di laurea, facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli studi di Macerata, rel. Renzo Paci, a.a. 1998-1999; Le fonti notarili per lo studio del naviglio minore a San Benedetto del Trento nel XVIII secolo in “Studia Picena”, LXIV-LXV (1999-2000), pp. 281-345; Lo sviluppo delle attività 59 cantieristiche a San Benedetto del Tronto nel XVIII secolo in “Proposte e ricerce”, 45 (2000), pp. 42-69; Maestranze, commercio e navigazione a Grottammare e San Benedetto nel XVIII secolo in Fermo e la sua costa. Merci, monete, fiere e porti fra tardo Medioevo e fine dell’età moderna, II, Grottammare 2004, pp. 133-168; Caratteri della pesca e tecniche piscatorie nei porti della Marca meridionale tra XVI e XVII secolo in C. Vernelli (a cura), Le Marche tra Medioevo e Contemporaneità, Ancona 2016, pp. 197-234.. 25 Vedi de nicolò, Microcosmi mediterranei cit., pp. 141-171; ead., La pesca a coppia. Invenzione dell’età moderna o riscoperta?, Fano 2004. Lo stesso tema è stato riproposto nel 2007 da M. ciotti, Sulla ‘rotta’ delle gaetane. La pesca con le paranze a coppia tra Tirreno e Adriatico nel XVIII secolo in palermo et al., La pesca nel Lazio cit., pp. 355-388. La politica economica attivata dall’incremento della produzione ittica con la pesca a strascico è ora trattata in m.l. de nicolò, Mediterraneo delle reti Mediterraneo dei pescatori, “Rerum Maritimarum”, Quaderni del Museo della Marineria Washington Patrignani di Pesaro, 19/2016. 26 M.L. de nicolò, La pesca marittima nel Mediterraneo prima delle tartane (fine sec. XVI): precarietà delle risorse, turnazione del lavoro, conflitti sociali in d’arienzo, di SalVia, Pesci, barche, pescatori nell’area mediterranea dal medioevo all’età contemporanea cit., pp. 434-451; ead., Il Mediterraneo nel Cinquecento tra antiche e nuove maniere di pescare cit. 27 25 M.L. de nicolò, Attività marittime a Pesaro nel Quattrocento: barche traffici pesca, “Pesaro città e contà”, 1, 1991; ead., Maestri d’ascia e calafati nei porti adriatici pontifici fra Settecento e primo Ottocento, in Navi di legno. Evoluzione e sviluppo della cantieristica nel Mediterraneo dal XVI secolo a oggi, Trieste 1998; ead., Tipi navali dell’Adriatico nella documentazione archivistica dei secoli XVII e XVIII: tartane, tartanoni, trabaccoli, in “Navis”, n. 2, Sottomarina (VE) 2001. 28 M.L. de nicolò, Dal bragozzo alla tartana, una rivoluzione piscatoria a Pesaro in età ducale, “Pesaro città e contà”, 2, 1992; moroni, La pesca ad Ancona cit., p. 455-456; M.L. de nicolò, La pesca in Adriatico tra Sei e Settecento. Innovazioni tecniche e sbocchi commerciali in La pesca in Italia tra età moderna e contemporanea cit., pp. 377-400. 29 Per una visione generale nel Mediterraneo e più specificamente per l’Adriatico v. de nicolò, Microcosmi mediterranei cit., in particolare pp. 133-163 (sviluppo della pesca a strascico e diffusione della pesca a coppia); 249-286 (l’impresa di pesca, l’arruolamento delle maestranze, la partizione degli utili); 327-327 (politica e economia delle pesca: Regno di Napoli, Repubblica di Venezia, Stato pontificio); per l’area picena cfr. ancora M. ciotti, Economie del mare. Costruzioni navali, commercio, navigazione e pesca nella Marca meridionale in età moderna, “Quaderni di Proposte e ricerche”, 32/2005. 60 Passioni e sentimenti: i nuovi percorsi per la storia locale di Anna Tonelli In un recente convegno promosso a Firenze dall’Istituto nazionale per la storia della Resistenza e della società contemporanea in Italia, Marcello Flores ha lanciato una provocazione alla platea degli storici, sostenendo che compito dei professionisti della storia è quello di intrecciare conoscenza ed emozioni, altrimenti la storia finisce solo per essere appannaggio dei giornalisti e dei divulgatori 1. Si tratta di una sfida ardua, ma necessaria, che coinvolge tutte le dimensioni della ricerca storica, compresa la storia locale. Troppo spesso l’ambito localistico, quando ha affrontato episodi o biografie che hanno fatto leva sulla storia delle passioni e delle emozioni, è sfociato nel folclore o nell’aneddotica, alimentando una narrazione romanzata che ha dimenticato il rigore storico. Gli esempi sono innumerevoli: amori, tradimenti, passioni politiche, gelosie, violenze, delitti passionali. Un lungo elenco che potrebbe allungarsi all’infinito, ma che ci fa capire quanto la storia locale abbia usato e abusato di queste categorie, quasi sempre in modo sbagliato e non con i crismi della scienza storica. Da questo approccio però si può e deve uscire, per far coniugare scientificamente e correttamente la storia locale con la gamma di sentimenti. La Storia, come disciplina e strumento di analisi delle trasformazioni della società, è legittimata a partire dalle emozioni e dai sentimenti per fornire chiavi di lettura originali degli eventi, delle relazioni, dei fenomeni. Ma come può una materia così evanescente e non quantificabile, generalmente oggetto di studio della psicologia, della pedagogia, della sociologia e dell’antropologia, essere maneggiata con gli arnesi del mestiere dello storico? Per rispondere a tale quesito, occorre cercare di capire cosa si intenda per emozioni e sentimenti e come tali forme possano essere innestate nella trama storica. 61 Sulla spinta delle suggestioni letterarie, si può accogliere lo spunto di Flaubert che, ne L’éducation sentimentale, scrive che «per fare la storia morale degli uomini bisogna seguire il filo rosso dei sentimenti, tradimenti, poteri, amori e inquietudini» 2. Un filo che non solo avvolge la storia morale, ma che può essere esteso a un campo più ampio in grado di coinvolgere la storia politica, la storia sociale, la storia culturale. La «vita emotiva», per dirla con Lucien Febvre 3, si trasforma in uno specchio che rimanda le immagini di una società che esiste e cambia anche attraverso le espressioni e gli usi dei sentimenti. Spesso tale prospettiva coincide con l’analisi del privato, in un’accezione portante e decisiva, ma che non esaurisce l’intera e complessa gamma di opzioni interpretative. La strada è stata aperta al grande pubblico dagli studi sulla vita privata di Georges Duby e Philippe Arlès che, partendo dall’età classica per arrivare al Novecento, hanno descritto i riti e gli atteggiamenti più comuni dell’individuo nella sua dimensione familiare, attraversando tutte le sfumature dei sentimenti: paura, amore, violenza, pudore, malinconia, piacere, intimità, gelosia, solo per citarne alcuni 4. Un modo originale per rilevare la peculiarità della sfera privata e per registrare i cambiamenti nelle forme del vissuto, del pensiero, delle sensibilità, calati in un’area geografica molto ampia. La conseguenza è il superamento di un’impostazione di tipo ideologico per privilegiare un’analisi che si allarga alla storia dei comportamenti collettivi, studiati nei rapporti con i mutamenti economici e sociali. Solo in tempi relativamente recenti la ricerca storica, in dialogo anche con le scienze antropologiche e lo studio della memoria e della comunicazione politica, ha incrinato il monopolio psicopedagogico determinato dalla considerazione delle emozioni come requisito naturale, per trasformarlo invece in dato culturale, soggetto a modificazioni nel tempo e nella realtà storica di riferimento. Di qui lo sviluppo della cosiddetta History of Emotions come percorso autonomo gestito dagli storici 5, con l’ampliamento dell’analisi sulla storia dei comportamenti collettivi fino a comprendere i sentimenti e le relazioni amorose, le pratiche sessuali, gli affetti pubblici e privati come tessere di un mosaico composito ma indispensabile per decifrare rotture e persistenze nel costume nazionale, nella specificità dei vari contesti geografici. 62 Tali sollecitazioni, recepite anche dalla storiografia italiana, diventano indicazioni di ricerca utili anche alla storia locale. I primi esempi sono già in atto, soprattutto di fronte all’utilizzo delle emozioni all’interno del discorso nazionale, come collante funzionale all’unità di una comunità. Nella grande città o nel piccolo paese, nelle zone urbane o in quelle rurali, pur con le diversità dei casi, si può analizzare il codice emotivo come chiave di lettura originale dello sviluppo dello spirito patriottico o del senso di appartenenza politica. Ma anche le indagini sull’amore e sulla morte, tanto per prendere in considerazione poli opposti, esprimono percorsi che mettono in risalto un coinvolgimento emotivo in grado di rispecchiare differenti sensibilità ed etiche. Gli studi di Vovelle sulla morte 6 e quelli di Stone sulle relazioni affettive 7, per citare un esempio francese e uno inglese, trasformano la vita emotiva in una rappresentazione e traduzione degli schemi culturali e politici del tempo. Un metodo storico che ben si può trasferire nelle ricerche di carattere locale. Ma forse il campo più produttivo e foriero di sollecitazioni, anche per la storia locale, è quello di inserire le emozioni dentro la storia politica, per capire quanto e come una cultura politica sia in grado di tradursi in una strategia che tenga conto delle relazioni, degli affetti, dei legami, delle passioni. Una storia sociale della politica che interseca mentalità, costume, genere, memoria, con l’obiettivo di aprire nuove finestre su un mondo in evoluzione, e quindi su una storia – macro o micro – che le contenga. I sentimenti si trasformano nel motore dell’agire umano che però non è mai autonomo e spontaneo, ma sempre mediato da norme e regole destinate a influenzare usi e comportamenti. Dentro tale visuale ritorna prepotente il discorso sul potere, o meglio sui poteri, ovvero sui meccanismi di imposizione e controllo attivati dalle varie autorità – di tipo politico e religioso, spesso in simbiosi – che sovrintendono alla moderazione degli eccessi e alla condanna delle trasgressioni, individuali e collettive. Uno degli aspetti fondanti dell’identità politica va rintracciato nel codice di valori, ideali e regole capaci di aggregare una comunità e di far sentire ciascuno dei componenti parte di un gruppo omogeneo in cui riconoscersi e ritrovarsi. In questo senso i movimenti e i partiti politici svolgono un ruolo principe, cercando di trasmettere 63 un decalogo in grado di rafforzare il grado di affezione e di adesione a una fede politica. Si può affermare che l’Ottocento e il Novecento siano i due secoli in grado di condensare a pieno titolo tutto il ventaglio di rappresentazioni sentimentali offerte e fruite dalla politica. La storiografia ha indagato diversi periodi e casi servendosi di questa lente di ingrandimento. Solo qualche citazione dei lavori più innovativi: l’energia dei «piccoli cospiratori mazziniani» 8, il dolore e i lutti nel «nazional-patriottismo» ottocentesco, per usare un’espressione di Alberto Maria Banti 9, il melodramma come nuovo linguaggio della comunicazione politica 10 o ancora i sentimenti di affezione – quando non fanatismo – verso gli eroi del Risorgimento 11, si trasformano in veicoli di consenso attorno a una politica che si serve di riti e simboli per affermare proseliti e successi. Ricerche che hanno tracciato un solco, sul quale poi far partire gli studi di storia locale. L’importanza delle emozioni in politica assume un significato ancora più incisivo nella società dei media che dimostra quanto il privato sia diventato il motore delle storie personali, finendo per lasciare segni evidenti anche nella trama della Storia. Come sostiene Le Goff, con la televisione – e ancor di più con la rete e i social media – «esiste un evento nuovo per il quale servono nuovi modi di fare storia» 12. E sicuramente la storia delle emozioni e dei sentimenti rientra in questo campo, trovando nella società contemporanea nuova linfa per interpretare la storia del tempo presente. La politica contemporanea ha elevato le emozioni e i sentimenti a categoria centrale di identificazione e rappresentazione. Parole come narrazione e storytelling fanno parte del lessico politico comune, caratterizzando l’agorà come il confronto visivo ed emotivo, più che politico. In questo senso si prestano a una proficua riflessione le considerazioni di Paul Ginsborg e Sergio Labate che, nell’analisi del rapporto fra passioni e politica nella società contemporanea, rilanciano la necessità di inventare «un alfabeto inedito delle passioni» per «re-imparare a essere democratici», interrogandosi «sulla possibile vita affettiva della democrazia» 13. La sfida della diversità della storia, e quindi anche della storia locale, è quella di andare sotto la superficie e restituire valore e significato ai racconti degli individui, delle società e delle comunità 64 locali. Racconti che si possono e devono fare anche attraverso le emozioni e i sentimenti. Purché inseriti in un contesto specifico e affrontati con gli strumenti della scienza storica. 1 L’intervento di Marcello Flores dal titolo Quali contenuti per quale comunicazione storica? si è tenuto nel seminario di studio “Riviste, bollettini e altri media. La comunicazione (storica) degli istituti della Rete Insmli”, svoltosi a Firenze il 18-19 febbraio 2015. 2 G. FlauBert, L’educazione sentimentale, qui nella traduzione di G. raBoni, Garzanti, Milano 2005. 3 L. FeBVre, La sensibilità e la storia, in Problemi di metodo storico, a cura di F. Braudel, Laterza, Bari 1973, p. 43. 4 P. arièS e G. duBy, La vita privata. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1988. 5 Si veda in particolare il saggio della studiosa americana B. H. roSenWein, Problems and Methods in the History of Emotions, “Passions in Context: Journal of the History and Philosophy of the Emotions”, 1/1, 2010. 6 M. VoVelle, La morte e l’Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2010. 7 L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Einaudi, Torino 1983. 8 A. ariSi rota, I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani, il Mulino, Bologna 2010. 9 A.M. Banti, La nazione del risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000. 10 C. SorBa, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento, Laterza, Roma-Bari 2015. 11 L. riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Laterza, Roma-Bari 2007. 12 J. le goFF e J.p. Vernant, Dialogo sulla storia, Laterza, Roma-Bari 2015. 13 P. ginSBorg e S. laBate, Passioni e politica, Einaudi, Torino 2016, p. 6. 65 A proposito di memoria locale di Isabella Zanni Rosiello 1. Sui termini-concetto “memoria” e “locale”, come abbiamo ascoltato dagli interventi che mi hanno preceduto, si è, soprattutto da qualche decennio, discusso e scritto molto. La bibliografia al riguardo non solo è sterminata, data la molteplicità dei significati attribuita ai due termini, ma è anche molto variegata in quanto riguarda diversi settori disciplinari. “Memoria” e “locale” sono due termini molto spesso usati in differenziate, contraddittorie, ambigue accezioni; sono altresì da porre in relazione con altri termini-concetti; ad esempio con oblio (qualsiasi tipo di memoria è selettiva in quanto implica inclusioni ed esclusioni) e nazionale/globale o mondiale (qualsiasi contesto locale rinvia ad altri e più generali contesti). Non solo le memorie individuali sono tante, ma anche la cosiddetta «memoria collettiva» non è né unica né unificata o unificabile. Che il concetto di “memoria collettiva”, e delle sue connesse funzioni sociali, non sia di univoca definizione lo ha già, e da tempo, evidenziato Maurice Halbwach nel libro, ritenuto un classico dell’argomento, intitolato appunto La mémoire collective 1. Halbwach, oltre che la memoria individuale, analizza altri due tipi di memoria: la “memoria collettiva” che è propria di specifici gruppi sociali che si preoccupano sia di tramandarla, sia di “ricostruirla”, e la “memoria storica” che si afferma e si consolida quando la memoria dei gruppi si affievolisce e si appanna. Detto in breve, e con una buona dose di approssimazione, si è diventati sempre più consapevoli: 1) che tra memoria e oblio – e ovviamente mi rifaccio soprattutto, ma non solo, a Paul Ricoeur 2 – non c’è netta contrapposizione; ci sono piuttosto rapporti, intrecci, sovrapposizioni. Quando ci si rivolge al passato, si compiono sempre volontarie o involontarie selezioni e manipolazioni; 66 2) che dobbiamo fare i conti non solo con una pluralità di memorie, ma anche con modi, forme e vicende connesse alla loro trasformazione nel tempo. L’utilizzazione delle diverse e particolari tipologie che le connotano è parte integrante, ma mai definita una volta per tutte, dell’affermazione o riaffermazione di determinate tradizioni culturali. Alcuni anni fa è uscito un libro importante di Aleida Assmann. Assmann si rifà sia all’opera di Holbawch, che ho poco fa ricordato, sia alla notissima opera in più volumi Les lieux de mémoire curata da Pierre Nora 3. Assmann distingue, ma senza tracciare tra esse rigidi confini, tra “memoria archivio” e “memoria funzionale”. La “memoria-archivio” è «un archivio sconfinato [con] la sua mole crescente di dati, informazioni, documenti e ricordi», e «può essere considerata un deposito per la memoria funzionale a venire»; la “memoria funzionale” è invece «una memoria strutturata da un processo di scelta, di collegamento, di costruzione del senso». La “memoria culturale” le ingloba entrambe, ma non può «autodeterminarsi: essa deve necessariamente fondarsi su mediatori e politiche mirate» ed è da porre in relazione «a supporti materiali quali monumenti, luoghi di commemorazione, musei [biblioteche] ed archivi». Come ricordava anni fa Edoardo Grendi, e nel farlo aveva presente i modi di fare storia della local history inglese, «è difficile pensare alla storia locale se non nei termini di uno studio convergente delle fonti relative ad un’area specifica, quale che sia l’unità territoriale presa in considerazione». Solo così, aggiungeva, «il cosiddetto “campanilismo” [...] può essere immunizzato, indirizzato verso obiettivi più sensati e utili» 4. In altre parole occorre confrontarsi con la molteplice tipologia di materiali-fonti che si hanno a disposizione. È soprattutto a materiali-fonti che farò riferimento nell’usare, in questo mio intervento, i termini “memoria” e “locale”. 2. Nell’affrontare le diversificate tematiche che connotano specifici ambiti territoriali (un borgo, un paese, una circoscrizione amministrativa piccola o grande, un determinato paesaggio, ecc.) non sempre si è tenuto conto che potevano essere affrontate con approcci e metodi di ricerca proposti e sperimentati dalla storiografia internazionale. È pertanto utile continuare a riflettere sul concetto di “territorio”, prima di ripensare a questa o quella progettualità memoriale, 67 a questo o quel tipo di politica culturale. Un territorio – è stato detto – è come «un grande palinsesto» in cui la società, i gruppi, gli individui «riconoscono spesso una propria specifica eredità, segni nei quali si manifesta e si rappresenta la propria identità» 5. Il territorio è perciò da analizzare come spazio reale e simbolico in cui, nel corso delle varie vicende storiche che l’hanno attraversato, si sono verificate non poche modifiche e trasformazioni, con conseguente sedimentazione di diversi tipi di materiali-fonti. Ma il “territorio”, ha osservato Lucio Gambi – un geografo-storico ottimo conoscitore di questo tipo di tematiche – è termine «ambiguo e vago e lontano da una sua definizione chiara, e soprattutto inflazionato dagli usi più vari» 6. Infatti non poche sono le ambiguità che lo connotano e le conseguenze sulla trasmissione delle sue relative memorie. Così che, nel designare un territorio come uno spazio cui si riconosce una determinata omogeneità, occorre tener presente che esso è a sua volta costituito da spazi territoriali e realtà comunitarie segnati da storie, anche di lungo periodo, diverse. Ed è altresì da tener presente che non tutti i territori hanno una precisa omogeneità geografica e, anche se amministrati da soggetti formalmente definiti, non rimangono, nel corso del tempo, immutabili. Si sa che, all’interno del complessivo territorio italiano, tanti sono i luoghi, urbani e rurali, grandi e piccoli che possono vantare una notevole accumulazione di importanti patrimoni storici, artistici, archeologici, monumentali, librari, documentari, e così via. Accentramenti di materiali-fonti in istituzioni destinate a preservarle, quali musei, biblioteche, archivi, o rimasti in chiese, conventi, prestigiosi palazzi o semplici case, luoghi di vario genere di centri grandi o piccoli, ecc., hanno convissuto con parimenti rilevanti policentrismi conservativi, oltre che con molteplici e frastagliate disseminazioni. Ma la convivenza non è stata sempre pacifica. Come ha notato uno studioso «tanto più lo stato è sentito prevaricatore, autoritario e astratto, tanto più le patrie locali sono sentite originarie, autentiche e concrete». E così si può dire che «l’unificazione italiana [è] stata contemporaneamente così debole da risultare in gran parte inefficace e così energica da moltiplicare l’avversa reazione del paese e da rafforzarne i particolari sentimenti particolaristici» 7. Molti aspetti del particolarismo italiano hanno trovato spazio e suscitato interesse specialmente all’interno delle piccole 68 patrie, degli specifici municipalismi, delle glorie locali. Quanti avevano contribuito dal basso e dalle varie periferie a fare l’Italia unita hanno tardato ad entrare nel circuito storico-culturale nazionale o nel pantheon dei personaggi consacrati come eroi della nazione. Tra il centro e le singole periferie si sono instaurate relazioni complesse e difficili, spesso anche contraddittorie. Le concomitanti appartenenze alla comunità nazionale e alle singole comunità locali hanno dato luogo a rivendicazioni differenziate e talvolta a situazioni conflittuali. Ciò non vuol dire che le “patrie locali” siano state obbligate a guardare con rammarico e nostalgia a un passato del tutto datato. O abbiano insistito su un perdurante quanto stanco amore per il natìo loco. Significa piuttosto che hanno non di rado cercato, e se del caso continuano a farlo anche oggi, di resistere a eccessive omologazioni e discutibili appiattimenti malamente inseguiti da un centro spesso debole, inefficiente e distante dalle quotidiane realtà delle singole periferie. La variegata memoria non propriamente statale, specie se appartenente a singole “patrie locali”, nonostante la si volesse far diventare patrimonio della nazione, è stata, per certi aspetti, a lungo emarginata dai circuiti culturali sovralocali. Ma, e per fortuna, è stata non di rado conservata da enti, organizzazioni, istituzioni non statali. Ed è stata altresì oggetto di numerose indagini storiche da parte di eruditi e di studiosi che solo critici troppo severi o troppo miopi hanno giudicato – anche quando non lo erano – di scarso valore e irrimediabilmente datati in quanto di stampo positivistico 8. Il senso di appartenenza al proprio campanile e un forte attaccamento alla memoria dei luoghi in cui si vive o si è vissuti, non sono stati, e non sono, soltanto segni di un sentimento passatistico, venato di intenso rimpianto nei confronti di un municipalismo oramai esangue. Sono stati anche un modo per sottolineare, all’interno del processo di national building – processo peraltro tutt’altro che lineare –, la rilevanza di particolarità proprie di parti grandi o piccole del complessivo territorio italiano. E di conseguenza dell’ affermazione delle loro specifiche “identità”. Come è noto molto si è discusso sul significato da attribuire al termine “identità”, inteso come senso di appartenenza a una “comunità”, e quindi come idea da mettere in relazione con la relativa 69 “memoria collettiva”. La nozione di “identità” è esplicitamente o implicitamente presente, soprattutto da qualche decennio, anche in molte delle politiche culturali progettate o praticate da enti territoriali, da enti pubblici e privati. Ed è diventata anche nel linguaggio comune espressione utilizzata di frequente, ma spesso in modo improprio, dato il clima che caratterizza i tempi, come quelli che stiamo vivendo, in cui siamo attaccati, con il rischio di essere inghiottiti, dai tanti tentacoli di una indifferenziata globalità appiattita sul presente. Giovanni Contini, studioso di fonti e di storia orale ha peraltro osservato che identità, memoria collettiva e comunità sono concetti difficili da definire. A suo parere sostenere che preservando la memoria collettiva, o addirittura rafforzandola, si garantisca la permanenza o addirittura il rafforzamento dell’identità della comunità, è molto spesso un luogo comune cui si continua a far ricorso senza rifletterci troppo sopra 9. Ancora più incisivo Angelo Torre che, con la consapevolezza che sia opportuno «separare analiticamente il concetto di località da presenze ingombranti e fuorvianti quali “identità” e “appartenenza”», ha dedicato particolare attenzione ad analizzare questo concetto. A conclusione della sua densa ricerca ritiene di avere mostrato «con abbondanza di illustrazioni, che la visione della località come fuoco di identità – psicologica e culturale – degli individui che ne fanno parte, è parziale, fuorviante e ideologica» e che quando si indaga su queste tematiche sia invece preferibile usare espressioni come «“costruzione” e soprattutto “produzione” di località» 10. Certamente memoria, identità, comunità non sono concetti da porre in fila uno di seguito all’altro, ma piuttosto in una relazione variabile, dato che cambiano le situazioni e le circostanze temporali in cui vengono utilizzati. E forse è preferibile che questi concetti vengano inseriti all’interno di specifici universi discorsivi e di contesti che ne evidenzino le differenze. Il nesso memoria-comunità-identità non è infatti da accogliere a scatola chiusa, come una sorta di panacea dei problemi e delle contraddizioni insiti nelle realtà locali. Su tale nesso è anzi opportuno continuare a riflettere. Esso infatti rinvia a problematiche non sempre esenti da insidie e rischi, soprattutto quando per identità si intende soltanto il proprio personale vissuto o la costruzione di una rigida armatura che serva a difendersi da “altri” comportamenti e da “altre” culture. 70 In prima approssimazione – ma il discorso dovrebbe essere molto più approfondito – mi sembra che tenere presente il concetto di identità possa essere utile quando si affrontano determinate problematiche. Purché si tenga nello stesso tempo presente che nel parlare di identità non si intende parlare di un’ «unità-totalità indifferenziata», ma la si concepisca come «la risultante di processi complessi» 11. Si tratta altresì di processi in continuo mutamento, lungo i quali gli individui che vi partecipano, sono consapevoli di condividere sia tratti comuni, sia tratti diversi. A volte così diversi da generare reciproche diffidenze e, in qualche caso, tensioni o veri e propri conflitti. Così si può sottolineare l’importanza di determinate tradizioni identitarie, in quanto segno di una comune appartenenza a un complesso di radicati valori, purché si continui a confrontarsi con altre “identità” e non si escluda che si possano avere identità multiple. Ha ragione a mio parere il classicista e filologo Maurizio Bettini, quando osserva che «la nostra è una società che si allarga, una società sempre più orizzontale, in cui i modelli e i prodotti culturali delle altre comunità entrano sempre più frequentemente in parallelo o in serie con i nostri». Bettini suggerisce pertanto «di cercare immagini capaci di definire la tradizione non più in termini “verticali” – dal basso verso l’alto o viceversa – ma piuttosto in termini “orizzontali”». In tal modo meglio si contribuirà «a formare l’identità delle persone» e «delle identità collettive» 12. 3. Come che sia le tracce, i segni, gli oggetti, che appartengono alle nostre comuni e differenziate tradizioni, alle nostre comuni e differenziate memorie, al nostro comune e variegato patrimonio di fonti storiche, sono continuamente soggetti a ripensamenti e a riflessioni. Anche quanti si interessano da appassionati cittadini o da studiosi, siano essi alle prime armi o già affermati, a tematiche inerenti a specifiche realtà, sentono il bisogno, di tanto in tanto, di farlo. Di ripensare cioè su come continuare a indagare sulla vasta e variegata tipologia di materiali-fonti, che sono parte della memoria locale, ma non solo locale. Mi pare sia anche il caso del nostro odierno incontro 13. La quantità di materiali-fonti che abbiamo a disposizione è, come è noto, enorme. E lo è nonostante le latitanze, le carenze, i ritardi dell’attività di tutela e di conservazione svolta dagli organi deputati 71 a esercitarla. Lo è nonostante le dispersioni, le rimozioni, le perdite, le insidie del tempo che hanno accompagnato la sua diversificata sedimentazione e trasmissione. Che le ricerche, a seconda che siano basate su questa o quella parte di essa, siano da etichettare come appartenenti alla storia locale, o piuttosto alla storia nazionale, europea, mondiale, ecc. non è una problematica su cui mi voglio soffermare, dal momento che altri lo hanno già fatto questa mattina. Mi limito soltanto a ricordare che un grande storico come Delio Cantimori, già negli anni Cinquanta del secolo scorso, intervenendo in una discussione in corso sulla rivista “Movimento operaio” – una rivista che svolgeva in quel periodo un ruolo di rilievo proprio riguardo a tematiche di storia locale – fece un’affermazione tanto stringata quanto efficace. Cito: «la contrapposizione tra “grande storia” e “piccola storia” mi sembra sciocca» 14. In altre parole Cantimori intendeva dire che tra ricerche storiche miranti a indagare su tematiche e problematiche vaste, e ricerche interessate ad approfondire tematiche e problematiche marginali, non si possono fare pedisseque gerarchie di rilevanza. Molti studiosi di storia hanno seguito, soprattutto dagli anni Settanta del Novecento, pratiche storiografiche che hanno messo in discussione l’ordine di rilevanza dato in passato ai problemi storici. Non è tanto la scelta di un tema macro o micro, o di un’area vasta o circoscritta, che fa assegnare le relative ricerche ai livelli alti o bassi del coevo panorama storiografico. Sono piuttosto il tipo di domande e il metodo di analisi, con cui si analizza la tipologia di materialifonti che si prende in esame, che sono cambiati. E i cambiamenti sono evidenti soprattutto se lo storico utilizza uno sguardo radente, dimensione di scala ridotta o dei primi piani e non solo dei campi lunghi per usare il lessico cinematografico. Ciò consente non solo un’approfondita analisi di come e da chi una data fonte è stata “costruita”, ma anche di esaminare una quantità di fonti più vasta e diversificata, con la conseguenza di meglio scoprire lo spessore o l’esiguità della loro rispettiva trasparenza. Importante è altresì inseguire itinerari tesi ad abbattere i confini che delimitano, e in modo rigido, aree, circoscrizioni, settori disciplinari. Ma ciò non significa buttare a mare la storiografia antiquaria ed erudita che la storia locale ha spesso incrociato. Quanto agli oggetti di ricerca, si sa che muta nel tempo la loro 72 specifica rilevanza anche perché nel nostro rapporto col tempo si instaura, come osserva François Hartog nel suo Regimi di storicità, «un va e vieni tra il presente e il passato, o meglio i passati» 15. Quanto ai materiali-fonti su cui basare le relative ricerche, è da tener presente che essi non sempre restano nel luogo in cui sono stati creati o prodotti; basti pensare agli spostamenti e ai tortuosi itinerari che possono segnare la storia di un dipinto, di una scultura, di un oggetto di scavo, di singoli libri o di intere raccolte librarie, e di parti di archivi o di interi complessi documentari, e così via. «Ciascun documento [cioè qualsiasi tipo di fonte quale che sia il periodo cronologico cui si riferiscono] – scrive Arnaldo Momigliano – è il prodotto di una situazione specifica e ci dice qualcosa sulla medesima [...]. Lo scopo dello storico è di riconoscere la situazione [...] che permette di collocare il documento nel suo esatto contesto di spazio e di tempo» 16. Ma anche, il che vale soprattutto per le fonti scritte, come e da chi siano state prodotte e come i fatti realmente accaduti siano stati e da chi e in quale forma trascritti. Il che ovviamente non esclude, anzi è quello che di norma lo storico fa, che questa o quella fonte, una volta estrapolata dal contesto, originario o meno, in cui si trova, vada collocata all’interno di altri contesti problematici, e confrontata e analizzata con altri materiali-fonti. Chi, dove, quando e perché una data fonte è stata prodotta, come è stata conservata e nel tempo trasmessa, quali vicende storiche l’hanno interessata e magari allontanata dai luoghi d’origine, sono domande che, a mio parere, non passano mai di moda. E poi non è da trascurare il fatto che molti materiali-fonti sono ancora oggi poco o nient’affatto noti. O del tutto sommersi. Farli in qualche modo riaffiorare dall’oscurità cui sono stati condannati è una scommessa che forse si può vincere meglio quando si opera in ambiti circoscritti. E in ambienti dove è maggiormente diffuso un clima politico e culturale favorevole alla riappropriazione di spezzoni del passato, ritenuti significativi per il mantenimento o la riscoperta di memorie e di valori civici che non si vogliono, e giustamente, dimenticare. Mi avvio alla conclusione. Sono consapevole di aver fatto annotazioni frammentarie e disordinate. Semplice schegge di un mosaico molto più complesso. Sono consapevole di avere espresso a proposito del titolo dato all’intervento più inquietudini che certezze. Formatami da archivista e da storica nel secolo passato, non avrei 73 potuto comunicarvi rassicuranti certezze e tanto meno elencarle secondo un preciso ordine. Una cosa mi sembra al momento certa. Né la storia locale né la memoria locale sono da confinare dentro steccati rigidamente separati. La Storia con la maiuscola e le storie con la minuscola non possono procedere su strade parallele. Quanto più frequenti e intensi saranno i rapporti, gli scambi, le contaminazioni tra saperi e metodi di lavoro propri a diversi settori disciplinari, tanto più la storia locale – forse troppo a lungo ritenuta storia con la minuscola – potrà ancora avere una lunga e rispettabile vita. Del tutto peregrina sarebbe l’idea di espungere, con un tratto di penna o magari con un provvedimento normativo, le denominazioni storia e memoria locale dal linguaggio comune o dal lessico storiografico. Lo sconsiglierebbe la mole che continua a crescere di studi storici, giuridici, linguistici, sociologici, culturali, ecc. ammucchiati sugli scaffali delle nostre librerie. Lo sconsiglierebbe la notevole quantità di riviste, di centri, di istituzioni nelle cui denominazioni compaiono i termini storia locale e memoria locale. Lo sconsiglierebbe altresì una rapida consultazione sul web. Se digitiamo termini come memoria locale e storia locale (o magari i termini francesi mémoire e histoire locale, o quelli inglesi memory e local history), ci passano in pochi minuti sotto gli occhi una gran quantità di siti, di dati, di informazioni. Li dovremmo certamente sfrondare dalla ridondanza e dal cosiddetto “rumore” che li accompagnano. Ma che l’interesse per la memoria e la storia locale, sia pure inteso nella sua sfaccettata polisemia, sia a tutt’oggi diffuso, è indubbio. Tanto diffuso che, per riprendere le parole di Cantimori ricordate poco fa, sarebbe sciocco negarlo o ignorarlo. Voglio concludere l’intervento con una citazione tratta da un romanzo molto noto, un romanzo che mi capita ogni tanto di rileggere quando ripenso al significato e alle molteplici accezioni del termineconcetto “memoria” accompagnato dall’aggettivo locale.Il romanzo è Le città invisibili di Italo Calvino. le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio [...] sono luoghi di scambio [...], ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi 17. 74 Le città descritte da Calvino sono, lo sappiamo bene, inventate. Ma quanto Calvino osserva su di esse mi sembra sia estensibile a molti altri “luoghi” che inventati non sono. 1 L’opera è del 1925 ed è stata pubblicata postuma nel 1950. L’edizione italiana, paolo JedloWSki (a cura), La memoria collettiva, Unicopli, Milano 1987, è tratta dal vol. pubblicato da Presses Universitaires, Paris 1968. Il concetto di “memoria collettiva” come memoria di gruppo era già stato affrontato da maurice halBWach in Les cadres sociaux de la mémoire, Librairie Félix Alcan, Paris 1925 (trad. it., dalla ed. Albin Michel, Paris 1994, I quadri sociali della memoria, Ipermedia, Napoli 1997). Si veda anche gérard namer, Memoria sociale e memoria collettiva, Una rilettura di Halbwach in paolo JedloWSki e marita rampazzi (a cura), Il senso del passato: per una sociologia della memoria, FrancoAngeli, Milano 1991, pp. 91-105. Più in generale cfr. enzo traVerSo, Il passato: istruzioni per l’uso: storia, memoria, politica, Ombre corte, Verona 2006 (ed. or. Le passé, modes d’employ: Histoire, mémoire, politique, La fabrique éditions, Paris 2005). 2 Cfr. daniella iannotta (a cura), La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003 (ed. or. La Mémoire, l’Histoire, l’Oubli, Éditions du Seuil, Paris 2000). I temi affrontati in quest’opera sono stati successivamente ripresi da molti studiosi; mi limito a ricordare i saggi raccolti in Paul Ricoeur: Penser la mémoire, Éditions du Seuil, Paris 2013. Sull’oblio, si veda almeno harald Weinrich, Lete: Arte e critica dell’oblio, Il Mulino, Bologna 1999 (ed. or. Lethe, Kunst und Kritik des Vergessens, Beck, München 1997). 3 Di quest’opera si tengano soprattutto presenti i voll. Les France, Gallimard, Paris 1992: 3/1 Conflits et partages; 3/2 Traditions; 3/3 De l’archive à l’emblèmes. Si veda in particolare in Traditions, pp. 463-525, thierry gaSnier, Le local. Sull’importanza di questa sorta di inventario critico della memoria storica della Francia e dell’influenza esercitata sulla storiografia francese, cfr., tra le pubblicazioni più recenti, phlippe Joutard, Histoire et mémoire, conflits et alliance, La Découverte, Paris 2013. 4 edoardo grendi, Storia locale e storia delle comunità, in paolo macry e angelo maSSaFra (a cura), Fra storia e storiografia: scritti in onore di Pasquale Villari. Il Mulino, Bologna 1994, p. 322. Ma di Grendi si veda anche Storia di una storia locale: perché in Liguria (e in Italia) non abbiamo avuto una local history?, in “Quaderni storici”, n. 82, 1993, pp. 141-197 e Storia di una storia locale: l’esperienza ligure 1792-1992, Venezia, Marsilio 1996. 5 Bernardo Secchi, Pianificazione del territorio, in Enciclopedia delle scienze sociali, VIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1998, p. 578 (L’A. ricorda fra l’altro che l’espressione del territorio come “palinsesto” è di André Corboz). 6 lucio gamBi, Autonomia e territorio/Autonomia e regione, in “Parolechiave”, 75 1994/1, p. 91. Sull’opportunità di distinguere tra “territorio” e “regione”, si veda dello stesso A., Un elzeviro per la regione, in “Memoria e Ricerca”, 1999/4, pp. 151-177. 7 raFFaele romanelli, Importare la democrazia: sulla costituzione liberale italiana, Rubbettino, Roma 2009, pp. 17 e 20 (il saggio dal titolo Le radici storiche del localismo italiano era già stato pubblicato in “Il Mulino”, 1991, XL, 1991, pp. 711-720). 8 Sull’attività svolta da deputazioni e società di storia patria la produzione storiografica è molto vasta; mi limito a citare agoStino BiStarelli (a cura), La storia della storia patria: Società, Deputazioni e Istituti storici nazionali nella costruzione dell’Italia, Viella, Roma 2012. Molto documentato, per quanto riguarda la letteratura storiografica, è il saggio di marco de nicolò, Storia locale, dimensione regionale e prospettive della ricerca storica, in “Glocale”, 2010/1, pp. 19-55, anche in http://www.storiaglocale.it/Documenti/Glocale%201%20%20sito%20 pippo%20%20def.pdf. 9 gioVanni contini, Un luogo comune: la memoria collettiva come fonte di identità, in “L’ospite ingrato”, Annuario del Centro Studi Franco Fortini, II, 1999, pp. 97-104. Dello stesso A. si veda anche La «comunità». Ricordo e utopia, in “Parolechiave”, 1993/1, pp. 115-130. 10 L’espressione “produzione di località” è di arJun appadurai, La produzione di località in id., La modernità in polvere: dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma 2001, pp. 251-257 (ed. or. richard Fardon (a cura), Counterwork, Routledge, London 1995). Per le citazioni di Angelo Torre, cfr. Luoghi: la produzione di località in età moderna e contemporanea, Donzelli, Roma 2011. Sull’importanza attribuita da Torre alla nozione di “località”, si veda anche il saggio Comunità e località in paola lanaro (a cura), Microstoria: a venticinque anni da L’eredità immateriale, FrancoAngeli, Milano 2011, pp. 25-58. Sul tema “Località e Storia locale”, si è tenuta nell’ottobre del 2014, presso la Biblioteca del Senato, una tavola rotonda in cui sono state riprese le proposte storiografiche avanzate e praticate, a partire dal 1989, lungo l’attività svolta dal Seminario permanente di Storia locale, istituito presso il Dipartimento di storia moderna e contemporanea di Genova, cfr. https://www.senato.it/3182?newsletter_item=1708&newsletter_numero=160. 11 loredana Sciolla, Identità personale e collettiva, in Enciclopedia delle scienze sociali, IV, Istituto dell’ Enciclopedia Italiana, Roma 1994, pp. 496 e 504. 12 maurizio Bettini, Radici: tradizione, identità, memoria, Il Mulino, Bologna 2016, p. 35. Le citazioni sopra riportate sono tratte dal cap. IV della I parte; quest’ultima, con il titolo Contro le radici: tradizione, identità, memoria, era già stata pubblicata nel 2011 sempre presso la medesima casa editrice. 13 Su precedenti similari incontri, si veda cinzio Violante (a cura), La storia locale: temi, fonti e metodi di ricerca, Il Mulino, Bologna 1980; deputazione di 76 Storia patria negli aBruzzi, Storia locale e storia nazionale, Atti del convegno 2-5 dicembre 1987, Sede della Deputazione, L’Aquila 1992. 14 Cfr. la lettera di Delio Cantimori al direttore di “Movimento operaio”, VIII, n. s., 1956, p. 323. 15 FrançoiS hartog, Regimi di storicità: presentismo e esperienze del tempo, Sellerio, Palermo 2007, p. 56 (ed. or. Regimes d’historicité: présentisme et expériences du temps, Éditions du Seuil, Paris 2003). 16 arnaldo momigliano, Le regole del gioco nello studio della storia antica (1974), in Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984, p. 481. 17 Così si legge alle pp. IX-X della Presentazione scritta dallo stesso Calvino quando il romanzo, edito per la prima volta da Einaudi nel 1972, fu pubblicato nel 1983 negli Oscar Mondadori. 77 Roma antica e il Medioevo: due mitomotori per costruire la storia della nazione e delle «piccole patrie» tra Risorgimento e Fascismo di Tommaso di Carpegna Falconieri Premessa* Come è stato costruito e quali forme ha assunto nel tempo il «regime di storicità» della nazione italiana? 1 L’Italia, che oggi stenta a individuare (e che in vasti settori dell’opinione pubblica rifiuta di trovare) nella propria storia patria un motivo aggregante, per un lungo periodo ha assegnato al racconto della storia il compito di erigere la struttura portante della propria identità 2. Questo è accaduto in particolare nel periodo compreso tra i primi decenni dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale. Nel compiere questa imponente opera edificatoria del sé nazionale, gli intellettuali, i politici, gli artisti italiani non si sono comportati in modo differente rispetto a quelli di altre nazioni occidentali, con i quali al contrario sono entrati in uno scambio culturale pressoché continuo, che oggi può essere analizzato come una histoire croisée 3. Nei sistemi storico-narrativi propri dell’Italia, i principali mitomotori (cioè i miti costitutivi dell’identità) riferiti ai tempi che precedono la modernità corrispondono, come altrove, all’età classica e a quella medievale, a cui si aggiunge, con specificità assolutamente peculiari rispetto alle altre nazioni, il Rinascimento 4. Le modalità dell’incontro tra queste grandi stagioni della storia dell’Occidente, i temi e i motivi che vi sono stati selezionati, il ruolo che a queste epoche viene assegnato nel loro intreccio con la storia contemporanea, tutto ciò ha assunto in Italia forme e significati che sono pregnanti in rapporto alla dialettica tra storia della patria nazionale e storia delle piccole patrie locali: su questo tema dunque si sofferma il presente contributo, che guarda essenzialmente al versante medievalista ed è concepito come uno sforzo di sintesi 5. 1. L’Ottocento neomedievale La grande novità dell’Ottocento, in Italia, non è stata di certo la 78 passione per Roma antica 6. La presenza talora ingombrante del retaggio classico – la cui rinascenza è una «forma ritmica della storia culturale europea» 7 – nella Penisola esiste da sempre; può avere alti e bassi, può preferire la Repubblica all’Impero o viceversa, ma non conosce soluzione di continuità. Neppure il Medioevo (paradossalmente, considerato il suo nome) si può considerare un periodo di cesura, perché gli uomini di allora si volsero con ammirazione e rimpianto all’antichità, mentre il Rinascimento guardò con occhi nuovi a un passato che però era sempre stato magnificato 8. La grande novità dell’Ottocento, invece, è stata l’immissione definitiva di una seconda epoca in cui riconoscere una fase fondamentale della storia culturale e politica della Penisola: il Medioevo. Negletto per secoli, ripreso da Muratori a metà del Settecento, nell’Ottocento il Medioevo è protagonista non solo nell’Europa delle brume del nord, ma persino nell’Italia a lungo pensata soltanto come classica meta del Grand Tour: perfino qui, per la prima volta, al Medioevo viene riconosciuto un ruolo ampiamente fondativo, anche al di fuori dell’ambito linguistico e letterario. Non ripercorreremo le ragioni per cui e le modalità con cui il sentimento per il Medioevo si incardinò profondamente nella politica, nella società, nel gusto dell’epoca, andando a formare un sentire comune ancora in buona parte presente nel vasto pubblico a livello di rappresentazioni fantastiche: basterebbe per questo ricordare le opere di Giuseppe Verdi, almeno una metà delle quali è di soggetto medievale, o la grande quantità di edifici neomedievali costruiti in tutta Italia durante l’Ottocento 9. Conta invece in questa occasione ragionare brevemente su quella che fu la principale caratteristica dell’interpretazione politica che in Italia si diede al Medioevo, quale fu cioè la funzione che venne attribuita a questo periodo storico nella definizione del rapporto peculiare tra centro e periferia, tra patria nazionale (in costruzione e poi inverata) e piccole patrie locali. In Italia coesistono due entità sovrapposte: quella nazionale e quella locale. Si tratta di un dualismo la cui cognizione è necessaria per comprendere la storia del Paese. Se non si afferra l’esistenza di questa dicotomia tra nazione e «piccole patrie», infatti, non solo non si riescono a valutare alcuni fenomeni caratteristici dell’Italia ottocentesca, ma neppure alcuni fenomeni dell’Italia contemporanea; per esempio la volontà di secessione della Lega Nord, che per 79 decenni ha tentato di rendere l’Italia uno stato federale 10. E non si riesce neppure a capire come sia possibile che nella penisola italiana sia rimasta in vita una piccola repubblica indipendente, San Marino, che è una reliquia delle autonomie municipali medievali. Nel corso del XIX secolo, mentre in molti paesi europei il Medioevo veniva raccontato come l’epoca della progressiva costruzione dello Stato/nazione, in Italia questa narrazione era impossibile per molte ragioni, prima fra tutte il fatto che la Penisola durante il Medioevo non era mai stata unita politicamente. Tuttavia, due strade furono percorse all’inverso per ritrovare anche in Italia le origini medievali della nazione. La prima si fondava sul concetto che la nazione esisteva culturalmente molti secoli prima dello Stato: erano le «itale glorie» celebrate da Ugo Foscolo nei Sepolcri (1807) 11. Giotto e Cimabue, Petrarca, Boccaccio e soprattutto Dante, padre della Patria, rappresentavano gli italiani in quanto essi stessi erano già italiani. La seconda strada percorsa all’indietro per ritrovare la nazione nel Medioevo fu invece quella di riconoscere il ruolo giocato dalle città e, a un livello geograficamentre più ampio ma identitariamente più debole, dagli stati regionali preunitari 12. Per comprendere come le piccole patrie assunsero un ruolo da protagonista nella costruzione politica dell’identità italiana dobbiamo rivolgerci alle Antiquitates Italicae Medii Aevi di Ludovico Antonio Muratori, pubblicate tra il 1738 il 1743, che per primo stabilì il concetto di una piena reciprocità tra libertà e forma di governo repubblicana (cioè civica) 13. Altrettanto e forse più influenti furono i sedici tomi della Histoire des Républiques italiennes du moyen âge dello studioso svizzero Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi, pubblicati tra il 1807 e il 1818 e più volte riediti. A partire dalla riflessione storica sulla Confederazione elvetica, ma trasferendo il concetto all’Italia, Sismondi elaborò il principio secondo il quale la libertà comunale rappresenta la massima espressione del progresso dell’individuo e della civiltà. Come si sa, l’Italia è terra di città che avevano avuto davvero, nel Medioevo, una fiera identità. E dunque il pensiero di Sismondi, tradotto e riproposto, trovò terreno fertile nel Bel Paese 14. Non tanto o non soltanto di nazione si doveva parlare, quanto piuttosto di quel mondo affascinante e vivace che era stato la gloria della vita italiana per tanti secoli: l’esperienza di libertà locale attuatasi attraverso le istituzioni a reggimento 80 comunale. L’Italia possedeva anch’essa, pertanto, una teoria politica consona alla propria realtà storica, sia a quella medievale, sia, naturalmente, a quella dell’Ottocento 15. L’istituzione comunale significava infatti libertà, statuti autonomi dall’opprimente, imperiale e feudale potere centrale. Significava altresì il trionfo della teoria politica, presente anche fuori del paese, del progresso inteso come continua perfettibilità della rappresentatività politica del popolo. In Italia, questo principio poteva essere Fig. 1 - Pontida (BG), lapide presentato in una declinazione commemorativa del settimo centenario localistica, considerando l’as- del giuramento del 7 aprile 1167 semblea dei cittadini, la libera elezione dei magistrati e la capacità di emanare leggi proprie come il perfetto equivalente di quelle che per le grandi nazioni occidentali erano gli Stati generali, le Cortes, la Magna Carta e il parlamento. Ancora, puntare l’accento sulle città poteva acquisire il senso di una riscossa della latinità contro il germanesimo. E significava infine raccontare l’ascesa di una classe, quella dei mercanti, che i borghesi del secolo XIX non avevano alcuna difficoltà a considerare i loro diretti predecessori. Insomma, pensare all’Italia medievale come all’Italia dei comuni, fieri, indipendenti, ricchi, latini, borghesi, in attesa di riscatto dall’oppressore straniero, era una soluzione perfetta. Da lì, dunque, scaturiscono le famose rievocazioni della Lega lombarda come momento in cui, per la prima volta, gli italiani si erano riuniti per combattere: con il giuramento di Pontida (1167) e la battaglia di Legnano (1176) 16 [Figg. 1 e 2]. Ed ecco che il mito delle piccole patrie, convergenti nella grande patria che si deve fare e in effetti si farà, prende piede in forma intensa nelle rievocazioni storiche locali, nella fondazione postunitaria delle deputazioni locali di storia patria a caccia di documenti 17, e nella edificazione di una gran quantità 81 Fig. 2 - Il libretto dell’opera «La battaglia di Legnano» (1849), musica di Giuseppe Verdi, testo di Salvatore Cammarano di edifici di gusto medievaleggiante. Ogni città esprime la propria appartenenza al Medioevo usando i mezzi che ha a disposizione: Firenze fiorisce di palazzi neo-gotici; a Siena, dove il palio vanta una tradizione di secoli, cavalieri e altri partecipanti vestono per la prima volta costumi medievali; a Torino, città in cui la reinvenzione del Medioevo è sposata all’esaltazione di casa Savoia, sorge dal nulla un intero quartiere medievale, il Borgo del Valentino. Nelle decadi finali del XIX secolo e al principio del secolo successivo, il Medioevo entra in tutte le case, tra le masse che cominciano ad andare a scuola e che lì imparano la storia della nazione, che conoscono gli eroi come Alberto da Giussano, recitano Dante, cantano le arie di Verdi, raccontano I reali di Francia. 2. Il ritorno di Roma Alla fine dell’Ottocento, il medievalismo propriamente nazionalistico aveva già passato la sua fase più acuta, che è da collocarsi pri82 ma dell’Unità d’Italia. Dopo il 1861 esso è ancora massicciamente presente, ma cammina verso un sostanziale ricollocamento semantico. Quando i Savoia diventano re d’Italia, diviene necessario trovare nuovi elementi di identità condivisa, che mettano insieme il nord e il sud e non insistano troppo sugli aspetti localistici. La dinastia regnante non può più dirsi solo piemontese e, dall’altra parte, le città dell’Italia del sud non hanno conosciuto l’esperienza dei comuni che era stata impiegata con successo fino a quel momento per spiegare l’identità italiana. Ma naturalmente la soluzione è a portata di mano, immediatamente intellegibile osservando la scelta delle capitali del regno unitario: prima Torino, culla italiana della dinastia; poi Firenze, capitale culturale; ma poi si arriva (e dunque si torna) a Roma. L’identità propria degli italiani viene riscoperta, ancora una volta, nella romanità. Qual era allora il ruolo che si prese ad assegnare al Medioevo nell’Italia, dall’assetto formente centralistico, unita sotto la bianca croce di Savoia? Si produsse una partizione gerarchica del ruolo politico da assegnare alle differenti epoche storiche – il Risorgimento, il Medioevo e Roma – per incarnare le identità collettive. Il Risorgimento significa il farsi storico della nazione. Al Medioevo, tempo dei gloriosi comuni che prefigurano la nazione, ma non di una patria già unita, è invece riservato un ruolo accessorio e subordinato, rappresentativo delle piccole patrie, cioè delle città che a quell’epoca facevano risalire la loro grandezza e che in seguito sarebbero confluite nella nazione italiana. Da qui dunque il compromesso storiografico che porta a un saldo e rinnovato regime di storicità, assegnando a Roma e al Medioevo due funzioni distinte nel racconto della storia della patria. Lo Stato nazionale acquisisce il Medioevo delle città come parte del suo percorso continuistico e deterministico di realizzazione, però sceglie Roma, la sua storia e i suoi linguaggi simbolici per esprimere se stesso nella sua unitarietà e “rinnovata” potenza. Il messaggio propagandato – anche nell’uso degli stili architettonici dell’edilizia pubblica – diventa dunque il seguente: «L’Italia è romana, le città italiane sono medievali». Un monumento nazionale ma al contempo neogotico come il parlamento di Budapest (1894), nell’Italia di fine Ottocento non avrebbe più senso. Al contrario, il Vittoriano di Roma è il monumento che meglio rappresenta questa bipartizione tra nazione e piccole patrie. Iniziato nel 1885, esso fu 83 Fig. 3 - Roma, il monumento nazionale a Vittorio Emanuele II, detto Vittoriano, inaugurato nel 1911 (Giuseppe Sacconi) edificato per glorificare il re Vittorio Emanuele II. Dopo che vi fu aggiunta, nel 1921, la tomba del Milite Ignoto, fu chiamato Altare della Patria 18 [Fig. 3]. La patria rappresentata nel monumento è romana, come si evince dal vocabolario architettonico e decorativo e dalla presenza al centro della prima rampa di scale della statua della dea Roma, una gigantesca guerriera armata di elmo e lancia, che sostiene una vittoria alata. Re Vittorio Emanuele II, il «Re Soldato», padre della Patria, vi è raffigurato in abiti contemporanei e non, come suo padre Carlo Alberto, in quelli di un cavaliere medievale 119. Ma la base della statua del re, che dobbiamo leggere come il basamento della monarchia, è cinta dalle statue di quattordici città che furono capitali di stati indipendenti ed ebbero una grande storia politica e culturale: Urbino, Ferrara, Genova, Milano, Bologna, Ravenna, Pisa, Amalfi, Napoli, Firenze, Torino, Venezia, Palermo e Mantova 20 [Fig. 4]. La quasi totalità di queste città personificate è in abiti medievali. Ravenna, per esempio, è vestita come l’imperatrice Teodora, mentre Torino è una guerriera in armatura. L’asse verticale del monumento funziona come una cronologia simbolica: in basso vi è Roma, sopra di essa le città medievali, più in alto il re d’Italia 21. Più o meno contemporaneo rispetto al Vittoriano, il Kyffhäuser-Denkmal (1890-1896), conosciuto anche come monumento al Barbarossa o monumento dell’imperatore Guglielmo, eretto nella Germania centrale, ci permette un interessante confronto 22 [Fig. 5]. Vi troviamo raffigurati Guglielmo I di Hohenzollern e Federico 84 Barbarossa, il primo mostrato come renovatio del secondo. Federico è stato appena risvegliato dal suo lungo sogno sotto la montagna da Guglielmo, rifondatore del Reich. Il monumento italiano e quello tedesco appaiono simili nella loro sistemazione simbolica della storia lungo un asse verticale. In entrambi i casi, il Medioevo, l’origine e la fondazione della patria sono collocati sotto il sovrano moderno. Ma in Germania, il Medioevo è rappresentato da Federico Barbarossa, mentre in Italia è simboleggiato dalle città. Questi due Medioevi sono ben diversi fra loro: il primo è simmetrico rispetto alla sua controparte moderna (il primo Reich, il secondo Reich), mentre il secondo non lo è. Il primo racconta una nazione ancestrale e un impero che si rinnovano, mentre il secondo rappresenta un nuovo regno che sorge dalla felice unione di città fra loro sorelle. E nel monumento tedesco, naturalmente, manca Roma, che invece è la base, il fondamento del monumento italiano. Il Vittoriano fu inaugurato nel 1911, l’anno del cinquantenario dell’Unità d’Italia e della guerra italo-turca (1911-1912). Si può ben dire che il marmo Fig. 4 - Roma, Vittoriano, particolare del basamento della statua equestre del re: le Città (Eugenio Maccagnani) Fig. 5 - Germania, monumento di Kyffhäuser, 1890-1896 (Emil Hundrieser) 85 bianco di questo monumento e le imprese d’oltremare in Libia e nel Dodecaneso sanciscono l’avvenuto ritorno del mito dei fasti di Roma antica. Roma era il mito risorgente, giudicato ideale per personificare la nazione unita 23. Proprio durante la guerra contro l’Impero ottomano per la conquista della Libia, erano tornati a risuonare motti come Mare nostrum, Impero di Roma e aquila romana, e le similitudini tra gli antichi legionari e i soldati italiani erano divenute di uso corrente [Fig. 6]. Subito dopo, durante la Grande guerFig. 6 - Cartolina «L’Italia brandisce ra, mentre in Gran Bretagna, la spada dell’antica Roma», 1911 in Germania e in parte anche (Edoardo Matania) in Francia i temi medievalisti erano molto presenti tanto nella propaganda che nell’immaginario dei combattenti, in Italia il medievalismo era ormai un fenomeno residuale, limitato quasi soltanto all’ambito cattolico 24. L’identità italiana tornava ad essere Roma, trionfatrice contro la barbarie germanica, come si può vedere ad esempio nel noto manifesto del pittore Giovanni Capranesi che invitava a sottoscrivere il prestito nazionale [Fig. 7]. L’Italia, in abito antico, cinta da una corona turrita, drappeggiata nella bandiera e protetta dalla lorica, punta il gladio contro un terrorizzato barbaro dall’elmo alato che stringe in una mano una torcia accesa, mentre l’altra sua mano ha appena lasciato cadere una mazza ferrata 25: «Ora il braccio di Roma era inalzato, la destra di Roma era levata a percuotere, a rompere» 26. 3. Roma e il Medioevo durante il Fascismo Durante la Grande guerra finanche gli storici del Medioevo, come Pietro Fedele e Gaetano Salvemini, inneggiavano innanzitutto alla romanità, mentre la storiografia medievistica, che dopo il conflitto 86 Fig. 7 - Manifesto «Sottoscrivete al prestito», 1917 (Giovanni Capraresi) 87 avrebbe vissuto una stagione di declino, si indirizzava soprattutto all’edizione di fonti, conservava una vocazione erudita e rifuggiva i nessi con il presente 27. E subito dopo la guerra, ecco apparire i fasci italiani di combattimento e i legionari di Fiume, che datano entrambi al 1919. E poi, naturalmente, il Fascismo (1922-1943), che porta al massimo grado il recupero della classicità in senso politico, con la ricerca di una specularità con Roma antica nella dottrina dello Stato come corpo politico e sociale che tutto ordina, con i fasci littori e l’aquila, il saluto romano, il passo cadenzato e la disciplina, un DVX, un re-imperatore e i figli della Lupa, la marcia su Roma, il Foro Mussolini, via dell’Impero, i «colli fatali», la colonizzazione rurale dell’Africa e il Mare Nostrum, la festa del Natale di Roma, le celebrazioni solenni dei bimillenari di Virgilio (1930), Orazio (1935) e Augusto (1937), i veliti del grano, le legioni di camicie nere con i loro consoli e centurioni, la Gran Bretagna vista come Cartagine 28 [Fig. 8]. Durante il Ventennio, la dialettica Roma antica/Medioevo ha – senza alcun dubbio – un vincitore dichiarato. Avendo lo Stato assunto come proprio mitomotore fondativo la romanità rinnovata nella rivoluzione fascista, qualsiasi altra epoca assume un grado subordinato. Ciò accade al Medioevo e, ancora di più, all’età moderna, due fiumiciattoli attraversati da una storiografia intenta a gettare un arco di travertino fra l’antichità e l’attualità. Durante il Fascismo, nelle classi elementari la storia medievale e la storia moderna praticamente non venivano insegnate. L’insegnamento della storia iniziava in terza elementare con il Risorgimento, proseguiva in quarta con la storia romana e terminava in quinta con una lunghissima sequenza che partiva dalle invasioni barbariche e culminava nella rivoluzione fascista: dunque un percorso circolare 29. Al Medioevo e all’età moderna (quest’ultima definita «il vero evo oscuro»: dalla discesa di Carlo VIII nel 1494 al 1815) 30, veniva riservato un numero di pagine relativamente limitato. Il Medioevo era di certo ritenuto un periodo importante, ma subordinato alla più alta mitologia nazionalista, che era romana, risorgimentale e fascista. Le varie epoche della storia (intesa sempre come storia patria), erano dunque canonizzate nei manuali scolastici secondo una gerarchia rigorosa: Roma trionfante, exemplum al quale tornare con una riattualizzazione sempre più martellante; il Medioevo come tempo della nascita 88 Fig. 8 - Copertina della rivista «Azione imperiale», numero di agosto 1936 89 della lingua, della conservazione dello spirito latino e del trionfo delle piccole patrie, che preludevano sì al rinascere della nazione, ma che avevano altresì vissuto feroci lotte intestine; l’età moderna come tempo infausto del giogo straniero nel quale avevano brillato solo alcuni fari di civiltà ed eroismo; e finalmente il Risorgimento, vero esordio della storia contemporanea, letto come il compimento glorioso dell’unità di una nazione avviata a sempre più alti destini: fino alla rivoluzione fascista, suo coronamento, e fino al rinnovato impero nel Mediterraneo. Il Medioevo, insomma, serviva soprattutto per traghettare Roma verso la contemporaneità, individuando in esso l’ancestrale italianità del popolo nella lingua, nell’arte, nella marzialità dei condottieri, nell’operosità civile dei comuni e, dopo il riavvicinamento tra Chiesa e Stato, anche nella religiosità e vicinanza con il magistero della Chiesa, essa stessa espressione autentica e imperitura della romanitas. Dunque un Medioevo che era davvero una «età di mezzo». Pertanto, durante il Fascismo non si verificò una eclissi del Medioevo, bensì si ebbe un rafforzamento della sua funzione accessoria. Dopo una fase di relativa quiescenza corrispondente agli anni Dieci del XX secolo, il Medioevo riprese il ruolo di comprimario nella storia d’Italia, affermandosi in quattro ambiti ben distinguibili ancorché interconnessi. Il primo di questi ambiti è rappresentato dall’esaltazione dei grandi italiani, poiché tra santi, poeti ed esploratori uno spazio non angusto veniva riservato a personaggi vissuti in età medievale. Tra questi spiccavano i condottieri, uomini d’arme a cavallo tra Medioevo e Rinascimento (epoche spesso trattate insieme) che avevano dato e continuavano a dare lustro militare alla patria 31. Il secondo ambito nel quale il Medioevo mantenne la propria forza simbolica fu quello politico-religioso. Il lento e contrastato riavvicinamento tra Chiesa e Stato si raggiunse pienamente attraverso la figura di san Francesco d’Assisi 32. «Il più santo degli italiani e il più italiano dei santi», che il 18 giugno 1939 diverrà patrono d’Italia insieme con santa Caterina da Siena, tra le due guerre entra pienamente nella dialettica politica. Nell’ottobre 1926 le celebrazioni per la ricorrenza del settimo centenario della morte di san Francesco davano modo ai rappresentanti della Santa Sede e del governo italiano di incontrarsi e mettevano in moto il processo che portò alla Conciliazione e ai Patti lateranensi del 1929 33. Una dimensione mi90 stica viene scoperta in Mussolini ed associata a quella del Poverello, con il quale si instaurano inusitati paragoni 34. Caduto il Fascismo, Francesco (non ancora santo della pace) diviene utile persino a scusare la fuga del re, come si vede in una cartolina propagandistica del periodo di cobelligeranza nella quale il santo, proprio come Vittorio Emanuele III, «parte per le Puglie» [Fig. 9]. Il terzo ambito di forti presenze medievali nella cultura fascista è invece di stampo colto e collegato con il misticismo e l’esoterismo 35. Infine, l’ultimo degli ambiti nei quali il Medioevo conserva grande importanza anche durante il Fascismo è rappresentato – ancora una volta – dalle città. Si può dire che proprio nella concettualizzazione fascista, ancor più che in quella dei periodi precedenti, la relazione centro-periferia resa attraverso la relazione Roma-Medioevo raggiunga una sistematizzazione organica. Mentre il capo del governo prendeva il titolo di dux e il re nel 1936 diveniva persino imperatore, dal 1926 i capi delle amministrazioni locali assumevano il nome di podestà. Infatti una delle cosiddette «leggi fascistissime», quella del 4 febbraio 1926 (estesa a tutti i comuni dal 3 settembre di quell’anno), introdusse, in analogia con le magistrature medievali delle città italiane, l’istituzione del podestà per designare il capo di Fig. 9 - Cartolina «S. Francesco d’Assisi proteggi l’Italia», 1944-1945 91 un’amministrazione comunale. Certo, il podestà medievale aveva in comune con il podestà fascista soltanto il nome, poiché posizione e funzione erano del tutto differenti (a cominciare dal fatto che il podestà medievale era eletto, quello fascista designato dall’alto); e tuttavia la scelta di impiegare un titolo come quello di podestà, dalle evidenti sonorità medievali, aveva un chiaro significato ideologico e simbolico: il capo dell’amministrazione di una comunità locale prendeva il nome di un magistrato medievale; in tal modo si dichiarava l’esistenza di linea di continuità tra l’Italia medievale, tempo delle glorie comunali, e l’Italia contemporanea, tempo delle glorie nazionali 36. Negli anni della riforma podestarile, le identità locali delle città grandi e piccole che compongono il paese vennero esaltate come piccole patrie parti della grande patria fascista 37. Mentre Roma, bianca di marmi, era la capitale dello Stato-nazione, e mentre il Fascismo modellava l’urbanistica e i nuovi edifici pubblici su forme razionaliste di ispirazione latamente classica, in moltissime città, come per esempio Firenze, San Gimignano, Arezzo e Assisi, ancora negli anni Trenta si continuava a costruire in stile neogotico. L’esaltazione della dimensione locale si traduceva nella ricostruzione del passato medievale: furono restaurati palazzi podestarili, furono reintrodotti (o inventati) palii cittadini e giostre con figuranti in abiti medievali o rinascimentali. Le feste medieval-rinascimentali di epoca fascista sono molte e datano dal 1927: si possono ricordare il Calendimaggio assisano (1927), il Cantamaggio ternano (1928), la Giostra del Saracino di Arezzo (1931), il Giuoco del Ponte di Pisa (1935), la Sagra del Carroccio di Legnano (1935), il Palio di Ferrara (1937) 38. Questo «folklore di Stato» (Stefano Cavazza), tipico dei regimi totalitari non solo fascisti del XX secolo, rispondeva a esigenze di svago nazional-popolare, di indottrinamento e rilancio del turismo nel segno del Medioevo. Svolgeva cioè al contempo una funzione ludica, ideologica e turistica e in Italia era interamente controllato dalla OND (Organizzazione nazionale del dopolavoro). «Il culmine della strumentalizzazione propagandistica fu toccato […] in Toscana durante la visita di Hitler in Italia nel 1938. In quell’occasione vennero fatte esibire a Boboli le rappresentanze del palio senese, della giostra aretina e del gioco del ponte [di Pisa], e in piazza Putti fu fatta disputare una partita di calcio fiorentino» 39. Insomma, come scrive Stefano 92 Fig. 10 - Roma, EUR, il palazzo della Civiltà italiana o palazzo della Civiltà del Lavoro, 1938-1942 (G. Guerrini, E. Lapadula, M. Romano) Cavazza: «Il ricorso al folklore medieval-rinascimentale si integrava perfettamente, come affermazione di identità locale, all’interno della cornice nazional-patriottica fascista» 40. La divaricazione tra la Roma dell’Impero e il Medioevo delle città si traduceva, in definitiva, in una semantica politica non opposta, ma integrata. Nella stessa Italia in cui si andava costruendo il «Colosseo quadrato» dell’Eur, cioè il palazzo della Civiltà italiana, si ricostruivano anche le torri di San Gimignano [Figg. 10 e 11]; nella stessa Italia che celebrava in pompa magna il bimillenario di Augusto (1937) si inaugurava il pastiche neomedievale della casa di Giulietta a Verona (1938), con il suo romantico balcone. Il richiamo al mito comunale, reso con la figura del podestà medieval-fascista e con le feste cittadine, si ritrova anche nel reimpiego delle antiche corporazioni di arti e mestieri, che nel Medioevo avevano retto i comuni di popolo e che ritornarono, perlomeno nel nome, nella politica del tempo. Il 2 luglio dello stesso anno 1926 dell’istituzione dei podestà fu creato il ministero delle Corporazioni, 93 Fig. 11 - Panorama di San Gimignano (Si) poi nel 1927 fu emanata la Carta del lavoro che definiva la dottrina del corporativismo, nel 1930 fu la volta del consiglio nazionale delle Corporazioni e infine nel 1939 fu istituita la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, dalla nomenclatura evidentemente romana e medievale insieme. Ancora, un ulteriore esempio in linea con l’idealizzazione del Medioevo delle città come compartecipe e anticipatore della grande nazione italiana è quello fornito dalle «repubbliche marinare», che compare negli anni Sessanta dell’Ottocento, è già forte durante la guerra di Libia, viene canonizzato nel numero di quattro città (Venezia, Genova, Pisa e Amalfi) dalla cultura fascista e ancora ci raggiunge nell’attuale bandiera della Marina italiana 41. Lo stemma araldico concesso alla Regia Marina nell’aprile 1941, in piena guerra, è un assemblaggio che riunisce gli «emblemi caratteristici della Marina imperiale di Roma, delle Repubbliche Marinare di Venezia, Genova, Pisa e Amalfi e della Marina imperiale. [...] In cuore, soprapposto ai quattro quarti, lo scudo sabaudo affiancato dal fascio littorio. A simboleggiare l’origine della marineria di Roma, lo stemma è sormontato dalla Corona turrita e rostrata, emblema di onore e di valore che il Senato romano conferiva ai duci di imprese navali, conquistatori di terre e città oltremare» 42. L’anno 1926, che fu quello dei podestà, delle Corporazioni e del settimo centenario francescano, pare rappresentare l’anno di svolta riguardo all’assunzione di alcuni tratti medievalisti nella politica italiana, in una chiave combinatoria insieme locale, nazionale e cattoli94 ca. A ciò avrebbe corrisposto anche un parziale ricentramento degli studi medievistici, che, benché ancora attraversati da una crisi profonda, avrebbero poi fruttificato soprattutto nel secondo dopoguerra. Dietro a questi processi si coglie la presenza del ministro dell’Istruzione pubblica (5 gennaio 1925 - 9 luglio 1928) e studioso di storia medievale Pietro Fedele, il cui ruolo nella storia culturale italiana sta cominciando a essere messo a fuoco 43. Defascistizzato dopo la Seconda guerra mondiale e completamente estraniato al sentimento nazionale, il mito delle piccole patrie reso attraverso le feste di coloritura medievale non si è perduto, rappresentando al contrario uno dei modi principali attraverso i quali le comunità locali esprimono, ancora oggi, la loro identità specifica 44. Questo saggio è dedicato alla memoria della maestra Aida Faralli, che raccontava le storie degli eroi e recitava le poesie di Angiolo Silvio Novaro: «San Francesco e il lupo», «Primavera vien danzando»… 1 F. hartog, Regimi di storicità, Sellerio, Palermo 2007. 2 Intendo con «racconto della storia» un concetto ampio, non limitato alla storiografia, ma esteso alle molte forme, scientifiche e non, assunte dalla ricostruzione, dalla narrazione e finanche dall’invenzione del passato. Sull’identità italiana si vedano E. galli della loggia, L’identità italiana, il Mulino, Bologna 1998; I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, cur. M. iSnenghi, Laterza, RomaBari 1997; nonché l’intera collana «L’identità italiana» edita dal Mulino, che annovera a oggi una settantina di titoli; sulla perdita del senso storico: S. piVato, Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza, Roma-Bari 2007; T. di carpegna Falconieri, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Einaudi, Torino 2011, pp. 162-170. 3 M. Werner, Penser l’histoire croisée: entre empirie et réflexivité, «Annales. Histoire, Sciences sociales», 58 (2003), 1, pp. 7-36; M. Werner, B. zimmermann, Beyond Comparison: Histoire Croisée and the Challenge of Reflexivity, «History and Theory», 45 (2006), 1, pp. 30-50; Manufacturing Middle Ages. Entangled History of Medievalism in Nineteenth-Century Europe, ed. by P.J. geary & G. klaniczay, Brill, Amsterdam 2013. 4 Sui mitomotori: A.D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, il Mulino, Bologna 1992; sulla dialettica medievalismo-classicismo: carpegna Falconieri, Medioevo militante cit., pp. 7-8. Nel presente contributo non tratto della specificità del Rinascimento italiano; scontato è peraltro il riferimento agli storici ottocenteschi Jules Michelet e, soprattutto, Jacob Burkhardt, che per primi lo indicarono come un’epoca distinta dalle altre. * 95 5 Il tema è molto ampio e certamente non si esaurisce nelle pagine che seguono. Tra le varie occasioni in cui me ne sono occupato, ricordo con piacere di averne ragionato con Andrea Giardina nell’ambito di èStoria 2014 – IX Festival internazionale della storia, Gorizia, 24 maggio 2014, e poi di aver tenuto una conferenza intitolata Medievistica e medievalismo politico in Italia fra le due guerre mondiali nell’ambito del XIII Convegno internazionale dell’A.P.I., Antichi moderni. Gli apporti medievali e rinascimentali all’identità culturale del Novecento italiano. The contribution of the Middle Ages and Renaissance to Italian cultural identity in the 20th century, Cape Town, 4-5 settembre 2014. Purtroppo non sono riuscito a pubblicare quel mio intervento, ma alcuni spunti in esso contenuti sono stati fatti propri da Giona Tuccini nelle sue Considerazioni introduttive alla pubblicazione degli atti del convegno da lui curati, in «Studi d’italianistica nell’Africa Australe / Italian Studies in Southern Africa», 28 (2015), 2, pp. 1-14. Dal punto di vista medievalista, per la parte ottocentesca e primonovecentesca il presente contributo è da vedere insieme agli altri miei saggi ‘Medieval’ Identities in Italy: National, Regional, Local, in Manufacturing Middle Ages cit., pp. 319-345 e Il medievalismo e la grande guerra in Italia, «Studi storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci», 56 (2015), 2, pp. 251-276; mentre il discorso sui nessi tra medievalismo e Fascismo, che qui forma il terzo paragrafo, è ancora quasi interamente da formulare e gli studi in materia sono molto pochi (qualche riferimento bibliografico sarà proposto in nota). Sul versante della costruzione e dell’impiego in chiave politica della romanità classica sono indispensabili i riferimenti a L. BracceSi, Roma bimillenaria: Pietro e Cesare, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1999; A. giardina, A. Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000; E. gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma-Bari 2007. 6 giardina, Vauchez, Il mito di Roma cit., spec. pp. 170-199. 7 S. SettiS, Futuro del classico, Einaudi, Torino 2014, p. 84, analizza questa definizione proposta da Ernst Howald nel 1948. 8 Roma antica nel Medioevo. Mito, rappresentazioni, sopravvivenze nella «Respublica Christiana», Vita e Pensiero, Milano 2001; cfr. carpegna Falconieri, Medioevo militante cit., p. 209. 9 Rimando solo a carpegna Falconieri, ‘Medieval’ Identities cit., e alla bibliografia ivi contenuta, a cui sono da aggiungere oggi I. Wood, The Modern Origins of the Early Middle Ages, Oxford University Press, Oxford 2013 (in cui un capitolo è dedicato all’Italia) e D. BaleStracci, Medioevo e Risorgimento, il Mulino, Bologna 2015. 10 R. iorio, Il giuramento di Pontida, «Quaderni medievali», 30 (1990), pp. 207-211; S. caVazza, L’invenzione della tradizione e la Lega lombarda, «Iter-percorsi di ricerca», 8 (1994), pp. 197-214; E. Voltmer, Il carroccio, Einaudi, Torino 1994, pp. 24-31; t. di carpegna Falconieri, Barbarossa e la Lega Nord. A proposito di un film, delle storie e della Storia, «Quaderni storici», 132 (2009), pp. 859-878. 96 11 U. FoScolo, Poesie e carmi: Poesie, Dei Sepolcri, Poesie postume, Le Grazie, ed. F. pagliai, g. Folena, m. Scotti, Le Monnier, Firenze 1985 (Edizione nazionale delle opere di Ugo Foscolo, vol. I); sul tema vedi specialmente E. irace, Itale glorie, il Mulino, Bologna 2003. 12 Vedi spec. I. porciani, Identità locale-identità nazionale: la costruzione di una doppia appartenenza, in Centralismo e federalismo tra Otto e Novecento. Italia e Germania a confronto, a cura di O. Janz, p. Schiera, h. SiegrieSt, il Mulino, Bologna 1997, pp. 141-82; S. caVazza, Piccole patrie. Feste popolari tra regione e nazione durante il Fascismo, Bologna: il Mulino, 1997, 20032; carpegna Falconieri, ‘Medieval’ Identities cit. 13 Cfr. M. Vallerani, Il comune come mito politico. Immagini e modelli tra Otto e Novecento, in Il Medioevo al passato e al presente, a cura di E. caStelnuoVo, g. Sergi, Einaudi, Torino 2004, pp. 187-206: p. 187. 14 Lo stesso Sismondi pubblicò nel 1832 una sintesi della storia d’Italia nella quale il rapporto tra libertà, indipendenza e città era ancora più stringente: J.-Ch.L. Simonde de SiSmondi, Histoire de la Renaissance de la liberté en Italie, de ses progrès, de sa décadence et de sa chute, Treuttel et Würtz, Paris 1832. Sul tema in generale si vedano N. d’acunto, Il mito dei comuni nella storiografia del Risorgimento, in Le radici del Risorgimento. Atti del XX Convegno del Centro di studi Avellaniti, s.n., Fonte Avellana 1997, pp. 243-264; C. SorBa, Il mito dei comuni e le patrie cittadine, in Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, cur. M. ridolFi, B. Mondadori, Milano 2003, pp. 119-130; S. Soldani, Il Medioevo del Risorgimento nello specchio della Nazione, in Il Medioevo al passato e al presente cit., pp. 163-173; Vallerani, Il comune come mito politico cit.; J. peterSen, L’Italia e la sua varietà. Il principio della città come modello esplicativo della storia nazionale, in Centralismo e federalismo tra Otto e Novecento cit., pp. 327-346. 15 Fino all’opera celebre di Carlo Cattaneo, rappresentativa di quanto si va dicendo: C. cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, «Il Crepuscolo», IX (1858), fasc. 42, 44, 50, 52. 16 Oltre alla bibliografia citata nelle note precedenti si vedano anche E. SeStan, Legnano nella storiografia romantica, in id., Scritti vari, vol. III: Storiografia dell’Otto e Novecento, a cura di G. pinto, Le Lettere, Firenze 1991, pp. 221-240; M. FuBini, La Lega lombarda nella letteratura dell’Ottocento, in Popolo e Stato nell’età di Federico Barbarossa. Alessandria e la Lega lombarda, Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1970, pp. 399-420; P. Brunello, Pontida, in I luoghi della memoria cit. pp. 15-28; P. grillo, Legnano 1176. Una battaglia per la libertà, Laterza, Roma-Bari 2010. 17 Su cui si veda ora La storia della storia patria: Società, Deputazioni e Istituti storici nazionali nella costruzione dell’Italia, a cura di A. BiStarelli, Viella, Roma 2012. 97 18 Sul monumento si vedano C. Brice, Monumentalité publique et politique à Rome. Le Vittoriano, École française de Rome, Rome 1998; M.R. coppola, Il Vittoriano, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008. 19 Su Carlo Alberto come cavaliere medievale e omologo del suo antenato il Conte Verde (Amedeo VI di Savoia) si veda R. Bordone, Lo specchio di Shalott. L’invenzione del medioevo nella cultura dell’Ottocento, Liguori, Napoli 1993, pp. 77-96. 20 Le statue furono scolpite da Eugenio Maccagnani, su cui si veda A. imBellone, Maccagnani, Eugenio, in Dizionario biografico degli italiani, 66, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2006, pp. 781-785. 21 Sul fregio superiore del monumento sono rappresentate anche sedici regioni, due delle quali (Lombardia e Piemonte) nelle vesti di guerriere medievali: porciani, Identità locale cit., pp. 173-174; Brice, Monumentalité publique cit., p. 289. 22 Vedi G. mai, Das Kyffhäuser-Denkmal 1896-1996. Ein nationales Monument im europäischen Kontext, Böhlau Verlag, Wien-Köln-Weimar 1997. 23 giardina, Vauchez, Il mito di Roma cit., pp. 196-199; A. caracciolo, Roma, in I luoghi della memoria cit., pp. 209-218. Per una lettura diversa, fondata sugli autori che – da Vincenzo Cuoco a Massimo Pallottino – hanno insistito sulla persistenza nella penisola di culture preromane, che portano a una visione storiografica non unificatrice nel segno di Roma, bensì frammentata anche in questo caso in piccole nazioni: A. de FranceSco, The Antiquity of the Italian Nation: the Cultural Origins of a Political Myth in Modern Italy, 1796-1943, Oxford University Press, Oxford 2013. 24 T. di carpegna Falconieri, Il medievalismo e la grande guerra, «Studi storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci», 56 (2015), 1, pp. 49-78; id., Il medievalismo e la grande guerra in Italia cit., con la bibliografia citata, a cui si può aggiungere W. Blanc, Les moyen âges de la grande guerre, «Histoire & Images Médiévales», 12 novembre 2015, http://www.him-mag.com/les-moyens-ages-dela-grande-guerre/ (cons. 5/01/2017). 25 Sull’iconografia dell’Italia: N. Bazzano, Donna Italia. Storia di un’allegoria dall’antichità ai nostri giorni, Angelo Colla, Costabissara (VC) 2011; alle pp. 159 e 161-162 il riferimento a questa immagine. 26 G. d’annunzio, Tre salmi per i nostri morti, I, v. 1, in id., Canti della guerra latina [1914-1918, poi confluiti nelle Laudi], Istituto nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele D’Annunzio, Milano 1933. 27 Cfr. carpegna Falconieri, Il medievalismo e la grande guerra in Italia cit., p. 264 e nota 56, a cui si aggiunga oggi La figura di Pietro Fedele intellettuale, storico, politico, atti convegno nazionale di studi storici (Minturno 29 settembre 2012) a cura di C. croVa, Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 2016. Pietro Fedele evoca per esempio l’immaginario dialogo tra un legionario della X Legione e un fante del Piave nella iscrizione sul fregio del monumento alla Vittoria 98 di Bolzano del 1918: cfr. C. croVa, Regesto bibliografico di Pietro Fedele, in La figura di Pietro Fedele cit., pp. 145-165: p. 150 nota. 28 giardina, Vauchez, Il mito di Roma cit., pp. 212-296; gentile, Fascismo di pietra cit., passim; M. Winkler, The Roman Salute: Cinema, History, Ideology, Ohio State University Press, Columbus 2009; L. Scuccimarra, Il fascio littorio, in Simboli della politica, a cura di F. Benigno e L. Scuccimarra, Viella, Roma 2010, pp. 23-44. 29 F.V. lomBardi, I programmi per le scuole elementari dal 1860 al 1955, La Scuola, Brescia 1975, pp. 319, 346-347, 405-406, 456-460 in merito ai programmi di storia della riforma Gentile del 1923, modificata nel 1934 e poi nel 1945. Ho compulsato il «libro unico» delle classi elementari terza, quarta e quinta del periodo 1930-1942. Da notare che diversi autori della sezione storica erano letterati di fama (Grazia Deledda, Angiolo Silvio Novaro) e storici che erano o sarebbero diventati molto noti (Ottorino Bertolini, Roberto Paribeni, Alfonso Gallo). Sul «libro unico di Stato» in uso dall’anno scolastico 1930-1931 e sulla sua opera di ideologizzazione capillare delle masse, vedi J. charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime 1922-1943, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 393-417; P. genoVeSi, Il manuale di storia in Italia. Dal Fascismo alla Repubblica, Franco Angeli, Milano 2009, p. 20, pp. 60 ss. 30 Ibid., pp. 87-90. 31 Sul condottierismo: P. del negro, La storia militare dell’Italia moderna nello specchio della storiografia del Novecento, in Istituzioni militari di Italia fra Medioevo ed Età Moderna, a cura di L. pezzolo, numero monografico di «Cheiron», 23 (1995), pp. 11-33: pp. 19-20; D. iacono, Condottieri in camicia nera: l’uso dei capitani di ventura nell’immaginario medievale fascista, in Medievalismi italiani, a cura di T. di carpegna Falconieri, Gangemi, Roma, in corso di stampa. Esito palese di questa celebrazione degli eroi si ha nei nomi assegnati ad alcuni velivoli (per esempio il caccia Macchi «Veltro» di dantesca memoria durante la Seconda guerra mondiale) e soprattutto nei nomi di alcune navi della Regia Marina: nomi di repubbliche marinare, esploratori, dogi e condottieri. Ricordiamo per esempio i sommergibili della classe «Vettor Pisani» degli anni Venti e della classe «Marcello» degli anni Trenta (con, tra gli altri, il sommergibile Barbarigo, dal nome di un doge del XV secolo), gli incrociatori leggeri di quei medesimi anni della classe «da Giussano»: Alberto da Giussano, Alberico da Barbiano, Bartolomeo Colleoni e Giovanni dalle Bande Nere (del varo di quest’ultimo fu madrina la principessa Maria Adelaide di Savoia-Genova: vedi «Giornale Luce» A0569 del 05/1930 riprodotto alla pagina web www.youtube.com/watch?v=OnkUrfr8qI4 [cons. 4 gennaio 2017]). Gli incrociatori della classe «Condottieri» (1931-1936) avevano invece nomi di comandanti dell’età moderna e contemporanea, da Muzio Attendolo ad Armando Diaz. A riprova della disposizione gerarchica conferita alle fasi storiche, i nomi medievali non furono assegnati alle grandi unità navali: le corazzate portava- 99 no i nomi di Conte di Cavour, Giulio Cesare e Leonardo da Vinci (classe Cavour), Littorio, Roma e Vittorio Veneto (classe Littorio). 32 Si vedano T. caliò, Santi d’Italia, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, dir. A. melloni, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2011, pp. 405-421; San Francesco d’Italia. Santità e identità nazionale, a cura di R. ruSconi e T. caliò, Viella, Roma 2011 (in particolare F. torchiani, 4 ottobre 1926. San Francesco, il regime e il centenario, ibid., pp. 67-99); D. menozzi, «Il più italiano dei santi, il più santo degli italiani»: la nazionalizzazione di san Francesco tra le due guerre, in Cattolicesimo, nazione e nazionalismo, a cura di D. menozzi, Edizioni della Normale, Pisa 2015, pp. 87-110. 33 A. Fortini, Il ritorno di san Francesco: cronaca del settimo centenario francescano, 1926-1927, Treves, Milano 1937. Sulla figura di Arnaldo Fortini, scrittore e podestà di Assisi, vedi oggi T. di carpegna Falconieri, L.E. yaWn, Forging Medieval Identities: Fortini’s Calendimaggio and Pasolinis Trilogy of Life, in The Middle Ages in the Modern World: Twenty-first-century Perspectives, ed. by B. Bildhauer and C. JoneS, Oxford University Press, in corso di stampa. 34 P. ardali, San Francesco e Mussolini, Edizioni Paladino, Mantova 1926. 35 Esoterismo e Fascismo, a cura di G. de turriS, Edizioni Mediterranee, Roma 2006; F. de giorgi, Millenarismo educatore. Mito gioachimita e pedagogia civile in Italia dal Risorgimento al Fascismo, Viella, Roma 2010. Si pensi per esempio all’opera poetica di Ezra Pound e a libri come quelli di D. Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, Nuova Italia, Roma ca 1927 e di L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore», Optima, Roma 1928. 36 Come esempi di questo continuismo vedi A. guerra, Il podestà: esposizione storica dell’istituto dalle origini ai tempi nostri: commento organico alla legge 4 febbraio 1926, n. 237, E. Pietrocola, Napoli 1926; S. rumor, I podestà vicentini nei secoli XII-XX, Peronato, Vicenza 1927; S. Brongo, Il podestà nel Medio-Evo ed oggi, Artale, Torino 1933. Si cercò anche di dare ai podestà un loro santo patrono, identificato in Pietro Parenzo, podestà di Orvieto, ucciso dai catari nel 1199, già venerato dopo la morte ma canonizzato solo nel 1879: vedi P. perali, Il protettore dei podestà italiani s. Pier di Parenzo romano podestà di Orvieto, Tip. Rubeca Scaletti & Scarmiglia, Orvieto s.d. [ma il libretto è del 1931]; San Pier di Parenzo protettore dei podestà italiani, «Corriere della Sera», 24 novembre 1931; A.C., I podestà avranno il loro santo, «La tribuna illustrata», 3 aprile 1932, p. 14; ringrazio Lucio Riccetti per le informazioni che mi ha gentilmente fornito. Solo Roma sfuggiva – ovviamente – a questa classificazione localista e medievalista: il capo dell’amministrazione dell’Urbe, che nel Medioevo era chiamato senatore, durante il Fascismo portò il titolo di governatore. 37 caVazza, Piccole patrie. Feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo cit., spec. pp. 171-224; D. medina laSanSky, The Renaissance Perfected: 100 Architecture, Spectacle, and Tourism in Fascist Italy, University Park, Pennsylvania State University 2004. 38 L’Istituto Luce ha messo online diversi cinegiornali dell’epoca, nei quali queste feste sono ben documentate. 39 caVazza, Piccole patrie, cit., p. 216. 40 Ibid., p. 217. 41 Si vedano G. FioraVanzo, L’organizzazione della Marina durante il conflitto, tomo II. Evoluzione organica dal 10-6-1940 all’8-9-1943, Ufficio storico della Marina militare, Roma 1975, p. 133, e soprattutto F. pirani, Le repubbliche marinare: archeologia di un’idea, in Medievalismi italiani cit. 42 Cfr. http://www.marina.difesa.it/storiacultura/storia/tradizioni/Pagine/LaBandiera.aspx (cons. 6/01/2017). 43 Cfr. supra, nota 27. Sul suo ruolo di ministro: charnitzky, Fascismo e scuola cit., pp. 211 ss. 44 carpegna Falconieri, Medioevo militante, cit., pp. 106 ss. 101 Fortuna e sfortuna della storia locale di Stefano Pivato Un tempo, per risolvere il dilemma posto dal titolo del mio intervento, lo svolgimento dell’argomentazione si sarebbe svolta su un unico binario: che sarebbe stato quello della fortuna della ricerca storica. Da sempre, allorché si discuteva di storia, i punti di riferimento canonici erano classici come Bloch, Carr, Topolski, riviste come le Annales, correnti di pensiero – per rimanere in Italia – come defeliciani e antidefeliciani, storici di formazione marxista da una parte e di estrazione liberale dall’altra. E così via. In definitiva il dibattito sulla storia (anche di quella locale) e sulla sua ricezione coincideva per gran parte – se non del tutto – con quello della ricerca storica, della riflessione storiografica e dei suoi esiti. Io credo che oggi, a fronte di vistosi mutamenti della trasmissione dei saperi, il problema possa (anzi, debba) porsi in termini differenti. Nel senso che un tempo esisteva una relazione diretta fra la ricerca e il pubblico, cioè a chi comunicare: una relazione diretta che aveva come risultato finale non solo la pubblicazione del libro o della rivista ma, anche, la formazione di un senso comune storico o comunque il raggiungimento dei risultati della ricerca a un pubblico esteso. Non credo di essere apocalittico se affermo che oggi queste relazioni si sono in gran parte interrotte. Da una parte gli storici, la ricerca, le riviste la pubblicazione dei risultati della ricerca. Dall’altra la formazione di un senso comune storico (qualcuno direbbe di una coscienza civile) che viaggia per conto proprio o che comunque si forma attraverso altri canali che non sono più quelli un tempo forniti dalla scienza di Clio e dai suoi cultori, ma da una serie di comunicatori. Fra questi i giornalisti e i politici. Oggi la storia non è più, come un tempo, quella scienza che aiutava a diventare grandi. E non lo è più in conseguenza delle modificazioni intervenute a partire fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio 102 degli anni Novanta. Fin troppo ovvio e banale sottolineare che l’era di internet e dei nuovi linguaggi ha stabilito inedite gerarchie all’interno dei saperi. In particolare all’interno di quei saperi che – almeno un tempo – contribuivano alla formazione del cittadino. Già un ventennio fa, all’inizio di quello che va considerata come l’epoca della grande mutazione della gerarchia dei saperi, Eric Hobsbawm, introducendo Il secolo breve scriveva che: La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono 1. Fin qui Hobsbawm. In realtà se proviamo a gettare lo sguardo sulle diverse generazioni che hanno attraversato il Novecento il dato balza alla attenzione con maggiore evidenza. Non esistono ricerche comparative ma si ritiene non esser lontani dal vero se si afferma che mai, lungo il corso del Novecento, le generazioni scolarizzate hanno sofferto di così vasti debiti nei confronti della storia. I giovani cresciuti negli anni Settanta del Novecento hanno fatto largamente i conti con la storia della Resistenza. La baby boom generation è cresciuta in un dialogo costante con la storia del nostro paese: la Resistenza, la Seconda guerra mondiale e il Fascismo erano riferimenti costanti per quanti intendevano capire il presente attraverso il passato. Per i giovani nati negli anni Ottanta, vissuti in una dimensione costantemente dominata dal presentismo, la storia è un frammento, spesso ignorato, che sta solo nelle pagine di un manuale e non contribuisce a formare quella che comunemente si definisce “coscienza civile”. Falsi storici, luoghi comuni, pregiudizi e, soprattutto, vuoti di memoria sembrano in realtà informare la cultura giovanile a cavallo dei due millenni. Tutto ciò porta a dire che, molto probabilmente, per quanti sono nati nell’ultimo quarto del Novecento il secolo descritto da Hobsbawm non è breve. È brevissimo. Non credo sia il caso di cita103 re le numerose inchieste condotte nelle aule universitarie sul grado di conoscenza della storia da parte dei giovani ventenni. Quelle inchieste che, spesso, sono oggetto di curiosità da parte dei giornalisti che ripropongono nei loro servizi una sorta di Io speriamo che me la cavo riferito alla scarsa conoscenza del passato dei giovani. E qui, sia pure sommariamente, c’è una prima risposta alla necessità di comunicare storia. Non so se qualcuno ha presente, a proposito di modificazioni intervenute, l’inchiesta sul sapere nell’era digitale, realizzata dal Censis in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani presentata all’inizio del 2016. Secondo quella inchiesta la figura più rappresentativa dell’immaginario della popolazione italiana acculturata è lo scienziato (viene indicato al primo posto dal 22,2% del campione intervistato), segno che il sapere scientifico ha assunto nel tempo una maggiore considerazione rispetto alle discipline umanistiche. Al quarto posto e indicato dal 14,9% segue l’insegnante. Per una generazione cresciuta nel mito di don Milani e della funzione pedagogica della scuola non c’è male come rovesciamento dei valori. L’inchiesta in questione non contempla a quale gradino di gradimento sia il mestiere di storico, resta il fatto che la sensazione è che sia di parecchio scesa la sua considerazione nell’immaginario. Scesa anche nel suo ruolo di agente di trasmissione anche presso il grande pubblico. Negli anni Settanta erano frequenti discussioni pubbliche fra storici su temi che riguardavano la storia del nostro paese. Discussioni che non avvenivano solo nelle aule universitarie. Si pensi al rumore che fece l’uscita di un libro come Intervista sul fascismo nel 1975. Ma, soprattutto, al fatto che a discutere sui giornali e in televisione delle tesi che Renzo De Felice proponeva erano soprattutto – se non solo – gli storici. Come, per esempio, nel dibattito, coordinato da Giuseppe Giacovazzo, che il secondo canale Rai mandò in onda il 25 luglio 1975 in occasione della pubblicazione della famosa intervista rilasciata da Renzo De Felice a Michael Ledeen 2. A quel dibattito – di recente riproposto sulle pagine “Mondo contemporaneo” – parteciparono, oltre allo stesso De Felice, Gaetano Arfé, Gabriele De Rosa, Aldo Garosci, Gastone Manacorda e Rosario Romeo. Come a dire gli storici più autorevoli del tempo ed espressione di varie correnti di pensiero che discutevano attorno a 104 un libro di un loro collega. A quel tempo era la norma. Oggi non è più così. Gli storici sono stati – nel corso dell’ultimo ventennio – emarginati dai circuiti di comunicazione della storia. Prendiamo, ad esempio, una puntata della trasmissione televisiva Porta a Porta andata in onda il 26 ottobre 2006 e condotta da Bruno Vespa per la prima rete TV. In quella occasione si discute del libro di Pansa, La grande bugia. Invitati al programma i parlamentari Ignazio La Russa (An), Marco Rizzo (Comunisti italiani), Francesco Caruso (indipendente eletto nelle liste di Rifondazione comunista) e Sandro Curzi (giornalista). In una trasmissione che dura quasi due ore scarso lo spazio dedicato agli storici: attorno ai 4-5 minuti per Francesco Perfetti e poco più a Massimo Salvadori che interviene in collegamento video da Torino. Tutta la trasmissione si risolve in un continuo battibecco di asserzioni e sentenze fra i politici presenti. Non è solo il caso della Rai. Il 4 luglio 2007, in occasione della ricorrenza del bicentenario garibaldino Otto e mezzo, la trasmissione del canale televisivo La 7, manda in onda una puntata dal titolo Garibalderie. Anche il quella occasione il parterre in studio è tutto formato da politici. A cominciare da Mario Borghezio, deputato della Lega Nord. Il secondo ospite è Raffaele Lombardo, leader del siciliano movimento per l’autonomia. A difendere la memoria degli scomposti e anche un po’ sgangherati attacchi antigaribaldini di Lombardi e Borghezio è ancora un politico, Claudio Martelli, ex-delfino di Craxi che negli anni Ottanta aveva rilanciato il mito garibaldino proprio con l’intento di sganciare il socialismo italiano da residui leninistici. A difendere le ragioni degli storici Eva Cecchinato, fresca autrice di Camicie rosse. Garibaldini dall’Unità alla grande guerra collegata in studio da Venezia. Un compito davvero arduo quello della Cecchinato. Di recente la situazione sembra migliorata per quanto riguarda la televisione. Rai storia inizia a trasmettere dal 2009 con il contributo di storici. A questa trasmissione si affianca, dal 2013, Il tempo e la storia. Resta il fatto che nell’ultimo ventennio si è assistito attraverso i canali di informazione a un uso politico della storia che non ha precedenti nel settantennio repubblicano. Credo ci sia parecchia materia di riflessione per capire quanto nell’ultimo ventennio i dibattiti televisivi, le mostre documentarie e le fiction si siano prestate 105 a un uso smaccatamente politico per riscrivere la storia per il grande pubblico. Non c’è dubbio che, dopo la parentesi dei governi di centro-destra succedutisi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ci ritroviamo con un Fascismo più buono, con gli italiani brava gente più di prima, con la Resistenza spesso posta sotto processo, per richiamare alcuni fra i luoghi più comuni indotti recentemente da uno smaccato uso politico della storia. In questo senso credo che le riviste e i luoghi di dibattito pubblico sulla storia debbano fare i conti con una divulgazione spesso disorientata. Questo per quanto riguarda mutazioni di carattere generale. Esiste poi una profonda mutazione anche per quello che riguarda la storia locale. Fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta la storia locale esprimeva il desiderio di riscrivere quella nazionale. È in questa temperie che si inserisce l’invito a scoprire la storia sociale. Allora, in una stagione storiografica che aveva come punti di riferimento esclusivi i re, le istituzioni, le guerre, iniziarono a entrare nuove categorie espresse da una terminologia forse ingenua ma assai significativa: le classi subalterne, la storia dal basso, mentalità, antropologia, cultura popolare diventavano terreni di confronto e sperimentazione per quanti si avvicinavano alla storia locale. Nel 1976 usciva un libro destinato a condizionare fortemente il corso della ricerca storica: Il formaggio e i vermi. L’autore, Carlo Ginzburg, sperimentava quella che egli stesso definiva una «storia dal basso». Non per niente nella prefazione Ginzburg citava Bertolt Brecht e un suo interrogativo: «Chi costruì Tebe dalle sette porte?». Chi sono stati in definitiva gli oscuri protagonisti della storia? Qualche anno dopo, a partire dal 1981, diretta da Carlo Ginzburg e Giovanni Levi usciva la collana Microstorie. Titoli come Società patrizia, cultura plebea: otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento; Franco Ramella, Terra e telai: sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento (1983); Alessandro Portelli, Biografia di una città, storia e racconto: Terni, 18301985 (1985) offrivano nuovi stimoli e inediti indirizzi di ricerca. Si pensi, ad esempio, alla scoperta delle scritture popolari, un campo che contribuì potentemente a rinnovare la ricerca nella rete degli Istituti. Oppure alla fortuna di un libro come quello di Nuto Revelli, Il mondo dei vinti (1977). Alla fortuna, ancora, della storia 106 orale o di inedite piste di ricerca come quelle della storia delle donne, della famiglia o dell’infanzia. Per almeno un ventennio, dalla seconda metà degli anni Settanta alla prima metà degli anni Novanta, la contemporaneistica italiana è stata attraversata da un inedito fervore che ha contribuito a innovare, sperimentare e individuare nuove piste di ricerca. Senza voler stabilire meccanicistiche sovrapposizioni, quella che è stata definita l’età del “riflusso” sembra avere avuto non poche ricadute non solo nella ricerca storica ma anche nella sua trasmissione. Lo stesso fenomeno interessa anche un settore come la storia locale. In alcune sue declinazioni la storia locale si è manifestata nell’ultimo ventennio come un insieme di tante piccole realtà vandeane opposte a una “Roma ladrona” che avrebbe imposto nei decenni il suo imperio alle realtà locali prima con il Risorgimento e poi con la Resistenza e poi ancora con la Repubblica. Al pari della storia nazionale, attraversata da semplificazioni e revisionismi, anche quella locale ha subito nell’ultimo ventennio non poche metamorfosi che, a mio modo di vedere, poco investono il dibattito scientifico ma che condizionano fortemente il senso comune. In certe sue manifestazioni la storia locale si è espressa attraverso un campo semantico nel quale abbondano sostantivi come popolo, difesa, autonomia, territorio e, soprattutto, un termine che andrebbe per statuto abolito da quanti fanno ricerche di storia contemporanea: “identità”. Il termine conduce alla espulsione dei tanti paradigmi di Menocchio e finisce per assumere connotati e venature di emarginazione di una categoria come quella della “diversità”. Come a dire, in un fin troppo rapido assunto, che se negli anni Settanta e Ottanta il locale esprimeva la “diversità” che nella sua varietà di accezioni si opponeva al nazionale, oggi esiste un filone, distante dalla ricerca storica ma che condiziona fortemente il senso comune, destinato a trasformare il locale, e il suo passato, in una cittadella a difesa della varietà delle differenze. 1 E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, pp. 14-15. 2 Vedi ora il testo di quella trasmissione in Un dibattito sul fascismo, in «Mondo contemporaneo», 2006, n. 2, pp. 143-163. 107 Categorie geografiche e storia locale di Carlo Pongetti Un dibattito aperto Parlare di storia locale è compito impegnativo per chi si occupa di geografia e corre il rischio di sembrare fuori luogo, se non pure di peccare di presunzione. Nell’intraprendere un tale percorso bisogna munirsi di prudenza, per scongiurare le insidie di una ambigua giustapposizione disciplinare. Né basta relegare sullo sfondo l’ormai lontano pregiudizio, eppure sempre in agguato, che tende a porre la geografia in posizione ancillare rispetto alla storia, così come appare superficiale e limitante ammettere quale autentica relazione interdisciplinare l’ineluttabile necessità di un inquadramento geografico degli eventi storici, ossia di una preliminare descrizione territoriale entro cui collocare protagonisti e avvenimenti di un dato periodo temporale. È un processo lungo, segnato da convergenze e caratterizzato da specificità, quello che intreccia i percorsi di queste due scienze, fin dalla tradizione classica e che qui è bastevole solo menzionare. Merita un cenno in più il dibattito contemporaneo sulle interrelazioni che, in varia misura, si sono rese palesi nelle formalizzazioni teoriche, nelle collaborazioni scientifiche e nei percorsi formativi 1.Un dibattito laborioso e complesso, con avanzamenti e qualche battuta d’arresto, quello che nei reciproci rapporti tra storia e geografia vede quest’ultima riconosciuta per il suo ruolo consustanziale e per l’irrinunciabile sostegno che fornisce alla comprensione dei fatti e delle vicende storiche. Non sembra secondario ricordare che siamo ancora condizionati da una serie di concause attive sui due versanti. Fino a tempi recenti un considerevole strascico della tradizione universitaria guardava con una certa sufficienza all’ibridismo della geografia storica, ritenendola una alchimia tra le due scienze e poco più di un passatempo 108 aristocratico 2. Ora «ci troviamo da tempo nel bel mezzo dello “spatial turn”» 3 che assiste all’avanzare della simultaneità dei caratteri spaziali sul dominio del tempo e vivifica il dibattito epistemologico sui contatti tra storia e geografia. A favorire nuove posizioni e reciproci avanzamenti ha senz’altro contribuito una questione per molti aspetti comune ai due ambiti di ricerca: il rapporto tra il livello scientifico generale e quello particolare, dunque tra storia nazionale e storia locale da un lato 4 e, dall’altro, per la geografia, tra la visione mondiale e la concezione regionale, tra metodo deduttivo e metodo induttivo, tra il lontano e il vicino. Se sul versante della storia la tematica può ricondursi – ma ad un primo scandaglio – tra l’ampia ricostruzione degli eventi del passato e la storia locale, a successivi livelli di approfondimento deve necessariamente soffermarsi sui nessi tra quelle ricostruzioni e la progressiva valorizzazione dell’individuo quale attore e osservatore della storia, deve prestare attenzione per gli esclusi dalla histoire événementielle, con opportune aperture sui vissuti, sulla dimensione soggettiva e sulla documentazione memorialistica, nelle sue varie tipologie di prodotti, quali fonte preziosa che, spesso proprio muovendo dal locale, apre a letture e interpretazioni di fatti storici di contesto molto più ampio. Un processo analogo investe anche la geografia e insiste sulle focalizzazioni del concetto di spazio 5 per precisare il ruolo di categorie quali quelle di ambiente, territorio, paesaggio, regione, in definitiva le categorie appropriate per saggiare le interrelazioni sottese al confronto tra società e natura. Se poi con la locuzione “piccole patrie” scelta per la titolazione di questo convegno si vuol fare riferimento alla “storia locale”, come a più riprese è emerso – né può essere altrimenti – allora non occorre rimarcare più di tanto che l’aggettivo locale chiama in causa lo spazio, che è oggetto della geografia. Locale quale ambito per saggiare la congiunzione delle coordinate spazio-temporali, garante di risultati fecondi in virtù di una dilatata pregnanza semantica dei due termini (vicino / locale) che sprona a superare i localismi, a rimuovere gli stereotipi, a oltrepassare, con la comprensione, le distanze di matrice culturale. A sottolineare le potenzialità euristiche ed esegetiche del “vicino” per la geografia e del “locale” per la storia sopraggiunge il cul109 tural turn cui va ascritto il merito di aver focalizzato la portata del significato simbolico sviluppato nei luoghi, con incisive ripercussioni sulle dinamiche del potere, sulla produzione dello spazio urbano, sui trend economici e la mobilità sociale 6. «Il sapere locale è sapere di continuità» afferma Karl Schlögel e nel trattare di “topografia sovversiva” aggiunge: «il sapere che riguarda i luoghi storici è talora visto come pericoloso, soprattutto finché circola liberamente», con riferimento alle problematiche urbane nel “decennio d’oro” della corografia russa, gli anni Trenta 7. Sapere locale quale sapere di continuità: una nozione che, sul fronte degli studi territoriali, può affiancarsi a quella di Genius loci proposta da Norberg-Schultz per esplicitare la relazione tra individuo / gruppo sociale e territorio. Una formulazione che prende spunto e approfondisce la credenza degli antichi, secondo la quale c’è un implicito suggerimento dell’ambiente naturale a ispirare la qualità delle scelte umane. Traluce una forma di determinismo, ma esso è filtrato da una sorta di psicologismo ambientalista che Augustin Berque conduce a sintesi teorizzando come chiave di lettura la médiance, una ontologia della natura che va ben oltre l’utilitarismo nelle scelte territoriali 8. Tale accostamento è ancor più utile ad aprire un possibile varco «sul fatto che la dimensione identitaria locale richieda la produzione di categorie culturali capaci di connettere sistemi di relazioni che si presumono altrimenti discontinui. Raramente, invece si è disposti a riconoscere la natura processuale di questa costruzione identitaria» 9, compito in cui si è cimentato Arjun Appadurai parlando di “produzione di località”. Un sasso nello stagno capace di generare ampi cerchi, ad iniziare proprio dalla attenzione al rapporto locale / identitario quale esito di un processo che crea e svela “etnorami”, nuovi scenari, nuovi landscapes. È infatti evidente per Appaduraj la rilevanza che, nel sistema globale, detengono le reti sociali e le loro manifestazioni spaziali capaci di originare specifici paesaggi da lui denominati mediascapes (flussi dei simboli), technoscapes (movimenti delle tecnologie), financescapes (movimenti del denaro), ideoscapes (flussi delle idee). Ne consegue che per Appadurai fenomeni spesso considerati quali effetti della “globalizzazione” si rivelano in un certo senso con forme di “indigenizzazione”, con un sopravanzare del locale che è 110 indotto dall’esasperazione del globale 10. La riprova può trarsi da un tema d’indagine comune a geografi e storici, quello dei movimenti migratori. Soggetti deterritorializzati come i migranti si costruiscono identità contingenti generando condizioni quasi paradossali di etnicità e producono connotazioni di spazialità, di interstizialità evidenti e significative: producono ethnoscapes. Ben a proposito è stato osservato quanto Appadurai consideri poco la storia. Egli muove da un pregiudizio anti-storicistico di cui, forse, gli storici sono in qualche modo responsabili – così Angelo Torre – perché il contributo offerto alla discussione sul locale «pur non irrilevante, è stato parziale e riduttivo» 11. D’altra parte anche per la storiografia che più ha sviluppato il rapporto con la dimensione geografica, quale la scuola raccolta attorno alla rivista Annales, lo spazio, pur fortemente rivalutato, risulta meglio leggibile nella longue durée, dunque inquadrato nei ritmi ampi della temporalità che lo configurano come una struttura rigida e quasi immobile, su cui poco può incidere la variabile locale, dandosi così enfasi agli elementi di persistenza e poco a quelli di cambiamento e ciò farà avvertire, sul fronte della geografia, l’incombente rischio del passatismo 12. La messa in valore del vicino / locale si sostanzia corposamente sia negli indirizzi a caratura ambientalista, sia in quelli a carattere sociale. Nel primo caso si riconosce a un particolare approccio della ricerca, compreso sotto l’indicazione di Historical ecology, l’aver messo in luce le difficoltà e le incertezze «di chi muove dalle generalizzazioni stabilite in un definito ambito di ricerca – degli storici, dei geografi, dei botanici – per scendere sul terreno e confrontarsi con quella che possiamo chiamare la storia “reale” dei singoli siti» 13. Nel secondo caso l’interesse per la dimensione locale intende recuperare alla ricerca sociale quella dimensione spaziale da cui progressivamente si è allontanata. D’altro canto è ormai acclarato quanto «alla base dei processi di mutamento sociale e culturale […] stiano utilizzazioni pratiche delle istituzioni che […] è possibile rilevare solo con un’analisi alla scala locale» 14. Geografia, ambiente e storia locale Molte possono essere le esemplificazioni del ricorso alle categorie geografiche nella ricerca geostorica, con l’avvertenza che – in riferimento ai due indirizzi sopra citati – non è nell’un caso probante 111 la mera scelta di un tema ecologico proiettato su un conveniente arco temporale per suffragare l’ecologia storica se venisse meno la tensione previsionale. «Inseguire e riconoscere questo nucleo previsionale – lo ha puntualizzato Alberto Caracciolo – richiede un lavoro generalmente non da tecnici, non da statistici, non da quantitativisti ma precisamente da storici» 15. Altrettanto vale per la geografia che, nel proprio statuto scientifico contempla i concetti cardine di connessione e di dinamismo dei fenomeni, unitamente alla percezione degli stessi e al loro finalismo. Si aggiunga a favore di una intersezione disciplinare, la necessità di una esegesi basata su archi temporali profondamente diversi quali quelli della dinamica naturale e della storia degli uomini. Non basta distinguere fra tempo del sovrano, del vagabondo, della Chiesa, del mercante e aspettative di vita in date epoche ma «l’ottica dovrà essere rivolta anche […] agli effetti sopra sistemi “naturali” costruiti su temporalità lunghe, ecologiche». Insomma, avverte Caracciolo, «se bastasse, per fare studi storico-ecologici, avere scelto una determinata classe di fenomeni e processi», non si apporterebbe molto di nuovo alla storiografia tradizionale 16. Va sottolineato che una maggior pratica delle ricerche in questa direzione si è coniugata con la presa d’atto degli aggravati impatti antropici sull’ambiente perpetrati nell’arco del XX secolo da uno sconsiderato ricorso alle tecnologie, alla chimica, alla urbanizzazione inopinata dei litorali, delle piane vallive, di versanti collinari instabili. La perdita dei valori ambientali, la degradazione del paesaggio e le conseguenze funeste che talvolta ne sono derivate hanno esortato ad approfondire e valutare su più scale, temporali e spaziali, le relazioni tra società e natura, a “ricostruire”, su base documentaria, aspetti ambientali obliterati e a valorizzare i paesaggi storici 17. Basilare si è dimostrata l’importanza degli accertamenti settoriali e l’esigenza di raccordarli in una interpretazione complessiva. La disseminazione nelle fonti memorialistiche di notizie e informazioni su quelle forze della natura che si sono rese manifeste con fenomeni calamitosi ha sospinto la ricerca geostorica a indagare i luoghi, le piccole patrie, per disporre di sequenze cronologiche più o meno complete, valutate su base di impressioni soggettive e senza misure scientifiche ma, in ogni caso, adeguate a dare smalto a tante piccole tessere, al fine di comporre un mosaico ampio ed esplicativo della predisposizione di un territorio al rischio ambientale. 112 Dalla memorialistica familiare, odeporica, epistolare, prodotta in età moderna e nella prima età contemporanea, si ricavano con abbondanza luttuose infaustorum kalendae 18 redatte sulla base delle menzioni di terremoti, alluvioni, frane, burrasche e perniciose carestie riconducibili a inasprimenti climatici che, oggi, le specializzazioni della ricerca scientifica come la dendrocronologia, la paleopalinologia e l’archeopalinologia, ci consentono di collocare in una storia del clima documentata e di ampio respiro. Non può sfuggire, nelle fonti anzidette, la sottesa aleatorietà delle valutazioni dei fenomeni. I terremoti sono misurati in durata col tempo di recita di un miserere, di un pater, di un buon detto di credo, oppure annotati in relazione all’unica forma di prevenzione perseguita per questa e altre calamità: la celebrazione di sacri riti espiatori 19. Ma in assenza di altra documentazione il vaglio delle cronache locali apporta luce sul ricorrere di eventi catastrofici, contribuisce a ricostruire la dinamica dell’ambiente nel breve corso della storia civile, a prosieguo di quanto si può ricavare dalla più lunga storia naturale. Alle durata plurimillenaria delle variazioni climatiche in epoca quaternaria si susseguono, in epoca storica, periodi alterni di optimum e di pessimum climatico che, nel definire una storia del clima vera e propria 20, favoriscono la comprensione della storia in sé, sia politica, economica o sociale. I casi locali di studio concorrono a comporre un più ampio quadro e a passare dal livello analitico a una strutturata sintesi tematica. È in età moderna che l’interesse dei singoli eruditi confluisce e si aggrega di sovente in società, circoli, accademie in cui si affrontano assunti naturalistici. Dunque, nelle piccole patrie si riscontra un avvio regolare di tali studi, spesso congiuntamente all’evolvere di antiche accademie letterarie in accademie scientifiche e agrarie. Paradigmatico è il caso della Società dei Sollevati di Treia che nell’ultimo quarto del Settecento si trasforma nell’attuale Accademia Georgica 21. Il progresso agronomico viene pensato e perseguito grazie al concorso delle varie scienze. La climatologia, la nascente geologia, la botanica, l’economia: tutte debbono fornire ai proprietari terrieri conoscenze che guidino le scelte colturali e produttive. Una esperienza che ben rivela come il secolo delle scienze positive lasci ampi margini di azione alla percezione soggettiva, chiamata a colmare le carenze derivanti dalla scarsa disponibilità di strumenti 113 di rilevamento e a ovviare alla inesistente rete di strutture finalizzate alla raccolta di dati, a iniziare da quelli meteorologici, che l’Accademia treiese si avvia ad annotare negli ultimi due decenni del Settecento 22. L’incarico viene affidato al socio don Pietro Perugini, parroco di Paterno di Treia, che con costanza compila per oltre un ventennio il suo giornale meteorologico. Un impegno che si interrompe alla sua morte, nel 1801, e che, per le vicende storiche attraversate dall’Accademia all’inizio Ottocento, non avrà prosieguo. L’osservazione dei fenomeni atmosferici viene condotta dall’assiduo parroco annotando ogni giorno l’età della luna, il vento dominante (tramontana, greco, levante, scirocco, ostro, garbino, ponente e maestro), lo stato del cielo, le meteori acquose (pioggia, neve, grandini, brina, gelo, rugiada, caligine); le meteori ignee (lampo, tuono, fulmini, aurore boreali), le temperature (caldo, freddo). Quest’ultimo elemento considerato in modo speditivo, esprime appieno la soggettività di quelle osservazioni, non per questo trascurabili o secondarie. Esse, accanto a quelle di altri memorialisti, appaiono assai importanti se si considera che proprio l’Ottocento è il secolo che assiste all’abbandono di una nozione di clima “vissuto”, legato all’esperienza breve e personale degli individui per una concezione oggettiva, costruita su più rigorosi parametri. Tale passaggio, anche a livello di dibattito scientifico, avviene con lenta gradualità, col concorso di varie figure di studiosi e con la distinzione tra tempo (combinazione momentanea delle situazioni atmosferiche) e clima (risultante da quelle situazioni, ossia stato medio del tempo di un dato luogo) 23. Al concetto scientifico occorre necessariamente un fondamento su una lunga serie di valori medi, serie mai inferiore al decennio. Le Marche per tali osservazioni debbono attendere la metà del secolo XIX. Col Settecento si chiude la “piccola età glaciale”, periodo di pessimum climatico iniziato nella seconda metà del Cinquecento 24. Ma l’Ottocento esordisce con un vero suo colpo di coda, ricordato anche come “la glaciazione di Napoleone” «che riguarda segnatamente il periodo 1802-1818. Sono tempi di carestie e il 1816 viene ricordato come un anno senza estate» 25. Le fonti memorialistiche offrono generosamente informazioni altrimenti non disponibili in riferimento alle oscillazioni climatiche di quel periodo di trapasso verso una fase di innalzamento termico che si registra con costanza nella seconda metà del secolo. Per l’area recanatese si può ricordare il diario me114 teorologico di Antonio Bravi, nel quale si perpetua il metodo che fu del Perugini con annotazioni dell’età della luna, atmosfera e temperatura espressa in “caldo” e “freddo” 26. Copiose sono altresì le notizie sparse nelle memorie storiche e nelle cronache cittadine redatte dagli eruditi e rimaste manoscritte: una messe di dati su anomalie climatiche, alluvioni, eventi sismici, dettata da impressioni personali dei redattori ma che dischiude la possibilità di ricostruire, su un arco cronologico anche lungo, un più minuzioso quadro ambientale e territoriale per vari ambiti della regione 27. Bisogna comunque arrivare alla metà del secolo per veder riproposta, in termini più avanzati e formalmente nuovi, la questione dell’indagine ambientale tra oggettivazione scientifica e percezione soggettiva. È infatti nei decenni centrali dell’Ottocento che l’attitudine agli studi climatologici compie un sostanziale progresso, seppur risentendo della troppo disomogenea copertura sul territorio della embrionale “rete” di rilevamento. «Talora anche in breve volger di anni le stazioni cambiano, cessano le rilevazioni» 28. Gli Osservatori dipendono ora da un comune, ora da una accademia o da una scuola «e comunque spesso dalla buona volontà del primo che capita» 29. Due contributi significativi, e utilmente accostabili, giungono rispettivamente dall’Accademia Agraria di Pesaro, presso la quale opera Luigi Guidi, e dall’Osservatorio meteorologico del Regio Istituto Tecnico di Ancona, diretto da Francesco De-Bosis. L’iniziativa del Guidi privilegia la definizione delle misure, da conseguirsi con l’impiego di una dotazione di strumenti molteplici e sempre più esatti, che egli continuamente cerca di ottenere da varie parti d’Europa per condurre una rigorosa rilevazione delle condizioni atmosferiche 30. Nel 1856 istituisce in Pesaro, nel belvedere di casa Spada, l’osservatorio meteorologico che sarà intitolato al Commissario straordinario per le Marche, Lorenzo Valerio, e stabilisce un rapporto con la Corrispondenza Meteorologica Telegrafica di Roma. Guidi si allontana definitivamente dalle valutazioni soggettive ma rimane costretto nell’angusto ambito di una analisi puntiforme, ossia limitata al solo sito della sua abitazione in Pesaro. Per ovviare a quel limite, egli confida nella estensione delle strutture preposte allo studio della meteorologia e mantiene contatti con l’osservatorio urbinate retto dal Serpieri. Prossima a quella del Guidi è l’esperienza di Francesco De-Bosis 115 il quale, anche per attività professionale, si muove in un’ottica più ampia. Nel 1865 riceve l’incarico dal direttore dell’Ufficio centrale meteorologico per il Regno d’Italia, facente capo al Ministero della Marina, di visitare 16 porti del Regno per sistemare altrettante stazioni di rilevamento e organizzare una rete di base. Il suo resoconto su quella missione tradisce in più tratti l’emozione dell’uomo di scienza che giunto presso una Capitaneria, “scassati gli istrumenti” riesce a fissarli e a dar vita a un polo stabile di studio. Nella maggior parte dei casi si tratta di strumenti essenziali: Ancona ad esempio dispone di termometri, psicrometro, barometro a mercurio e di un anemoscopio 31. Dopo un decennio di registrazioni De-Bosis fondatamente ritiene di aver costituito un archivio importante per la conoscenza oggettiva non solo della meteorologia ma dell’ambiente in genere e di aver resa più ampia la rete scientifica in cui le Marche si sono inserite, grazie ai quotidiani scambi di informazioni con gli Osservatori di Parigi e di Vienna. Soprattutto importante il traguardo decennale delle registrazioni climatiche: «così questa cospicua città di Ancona […] possiede ora per il periodo di un decennio una ricca collezione di giornaliere annotazioni» intorno agli eventi climatici e ai terremoti, confrontati inoltre «con le burrasche di mare, e l’andamento delle campagne» 32. Il magistero del De-Bosis consente di spostare l’attenzione su ambiti ulteriori dell’approccio valutativo e di richiamare altre notizie care alla memorialistica dei secoli precedenti, su alluvioni, mareggiate, frane e terremoti 33. Per prevenire le progressive manifestazioni del dissesto idrogeologico «dopo le molte inondazioni e le terribili frane avvenute negli ultimi tempi» si appella al “raziocinio” degli avi e alla loro severità nella tutela forestale 34. Una blanda percezione del rischio ambientale, il ricorso a valutazioni soggettive giudicate ora inefficaci nella ricerca delle acque sotterranee (attraverso la tanto diffusa quanto ridicola pratica della rabdomanzia), sono in questi casi colpevolmente all’origine di errate scelte territoriali e urbanistiche. I frequenti episodi meteorici dell’autunno 1858, palesano a chiare lettere all’uomo di scienza il rischio di frane nella zona del Montagnolo. Deduzioni sul drenaggio delle acque, sull’inclinazione e la natura degli strati litologici, sulla loro permeabilità ed impermeabilità, connotano il suburbio di Ancona come una zona 116 ad alto rischio, generato dalla lubrificazione degli strati discontinui a causa dei ristagni di acque che sarebbero utilissime «all’uomo, che ne va in cerca per alimentare l’industria agricola; ma spesso rinserrate e sconosciute, perché rintracciate più con la bacchetta divinatoria che mediante osservazioni ed esperienze, agiranno con la loro forza distemperante impaludando gli strati immediatamente sovraposti» dando origine ad «ammottamenti e frane di effetti tanto lacrimevoli» 35. Il pericolo minaccia una vasta area che il De-Bosis, carta topografica alla mano, stima «non minore di 2000 tavole censuarie, comprendendo la nascente borgata di Posatora, molte case coloniche e di delizia, oltre le fornaci ed altre case di pigionanti lungo la strada litorale e prossime alla medesima» 36. In riferimento alla cronologia dell’attività sismica De-Bosis fornisce per Ancona una rapida sintesi 37. Rilevanti i passi compiuti in merito alla valutazione dei singoli episodi perché alla quantificazione dell’intensità e durata di un terremoto, comparati al tempo necessario a recitare una giaculatoria o una preghiera, subentra nei bollettini ufficiali l’adozione della scala Mercalli, notoriamente articolata in 12 gradi che si basano sulla percezione umana dei danni provocati da un sisma. Si tratta ancora di un procedimento soggettivo, fondato su gradi empirici nella determinazione dell’intensità dei sismi; sarà posto in disuso dall’adozione del concetto di magnitudo proposto dal Richter. L’interrogazione delle fonti storiche locali sulla dinamica ambientale è risultata premessa ineludibile nella prospettiva di un monitoraggio dei fenomeni connesso ad azioni preventive. Ne è scaturita una articolata elaborazione di saggi e cronologie che mantengono ancora piena rilevanza e utilità 38. Il paesaggio, categoria assorbente L’esordio del concetto di paesaggio in età moderna evolve e transita dalle prime formulazioni estetiche, sorte nell’ambito della pittura e significativamente registrate nell’Encyclopédie, a quelle geografiche avviate a fine Ottocento da Oppel, Wimmer, Porena. Si dischiude una nuova tematica, destinata ad alimentare un vivace dibattito sui rapporti disciplinari intrattenuti dalla geografia sia con le scienze naturali, sia con la storia. Non mancano – ed anzi sono rappresentative di un forte sentire – le posizioni assolute che stabiliscono una piena identità tra geografia e paesaggio, riconducibili alla esemplare esternazione di 117 De Martonne al XV Congresso Geografico Internazionale di Amsterdam nel 1938 39. Quella categorica fermezza nei decenni successivi è sottoposta a vaglio critico. Il paesaggio geografico viene inteso quale «sintesi astratta di quelli visibili» 40, definizione innovativa ma che non chiarisce appieno il peso da attribuirsi alla componente umana, ricondotta, secondo Gambi, ad una preminente visione ecologica rispetto al ruolo dell’uomo della storia 41. Il paesaggio si avvia a divenire da un lato una categoria “assorbente” che aspira all’esplicitazione della “realtà totale” (al pari della categoria di regione, di cui più avanti), e dall’altro a ridursi, nella prassi, a un «elemento della pianificazione, feticcio nella riflessione sullo spazio e il territorio» 42, puro strumento d’indagine che, per i limiti della percezione umana nella comprensione del totale, può esprimere la realtà solo parzialmente 43. Di qui il doppio carattere del paesaggio «insieme concreto, perché riflette l’esperienza, e astratto o speculativo in quanto fa sorgere il fondamento dell’esperienza» 44. Nel definirsi della triade speculativa ordita sulle categorie di “ambiente”, “territorio”, “paesaggio”, quest’ultimo viene dunque ad assumere un significato di mediazione e di sintesi rispetto agli altri due termini, viene ad essere espressione di incontro tra i rigidi processi naturali che regolano l’ambiente e le esigenze socio-economiche che animano il territorio 45. Col XXI secolo fa il suo esordio la Convenzione Europea del Paesaggio la quale pone in evidenza proprio le interrelazioni tra fattori naturali e umani che conferiscono al paesaggio il «valore di patrimonio» da tutelare e gestire. La nozione patrimoniale del paesaggio risulta utile non solo a metterne in luce gli elementi con caratteristiche particolarmente apprezzate o minacciate nella loro sopravvivenza ma anche la condivisa acquisizione della sua rilevanza documentaria, «come sedimento di storia e come spazio di ricerca storiografica» 46. Giunge così a formalizzazione istituzionale quanto avanzato e dimostrato dalla innovativa lezione di Emilio Sereni, incentrata sullo studio del paesaggio agrario. Lezione che fu di spunto per una cospicua serie di tematiche (evoluzione insediativa; trasformazioni urbane; archeologia industriale e così via) le quali, negli ultimi decenni, si sono sostanziate in progetti di ricerca generati dall’incontro tra categorie geografiche e storia locale. L’apporto della geografia passa largamente attraverso programmi 118 nazionali finalizzati ad approfondire la dinamica degli insediamenti in relazione al paesaggio. Tematiche saggiate a varia scala ma in genere con la ricomposizione a livello regionale e nazionale di ricerche condotte in ambiti sub-regionali o locali. Di straordinaria rilevanza rimane l’indagine sulle dimore rurali in Italia promossa da Renato Biasutti fin dal 1924. La collana composta di monografie apparse dal 1938 fino agli anni Ottanta (ancora oggi richieste in anastatica) rappresenta un contributo monumentale offerto alla cultura del nostro Paese 47. Anche sulla base di quell’esperienza, avvalorata da rilevazioni dirette sul terreno e da accertamenti documentari, nel 1970 il Comitato dei Geografi Italiani avvia la ricerca sulle sedi scomparse ispirandosi agli studi condotti in Francia sui villages désertés, un progetto poi riformulato con la più ampia titolazione di “Geografia storica delle sedi umane in Italia”. La focalizzazione e la scelta dell’oggetto sono di per sé eloquenti della fiducia da un lato nel proficuo incontro tra geografia e storia, dall’altro della messa in valore del “vicino”, dell’importanza del “locale” dato che la scala più adatta per analizzare tale fenomeno è proprio quella delle “piccole patrie”. E tornano sotto la lente le modalità di approccio e le questioni di metodo che non possono riferirsi in maniera esclusiva all’uomo dell’ecologia, né all’uomo della storia événementielle, né all’uomo produttore e consumatore della geografia e della storia economica ma all’uomo che, «per la sua condizione di abitare in un certo modo, è inserito in un contesto di relazioni sociali, più o meno complesso a seconda del tipo di sede, attraverso il quale si mediano tutti i rapporti con l’ambiente e la storia esterna» 48. Pur suscettibile di valutazioni tra loro lontane, fu quella un’esperienza che obbligò i geografi al confronto tra il punto di vista geostorico, volto al passato, quello geo-economico teso verso il presente 49. Un confronto che ebbe modo di esprimersi su nuovi argomenti dallo spiccato contenuto locale, tra cui lo studio delle comunanze agrarie, storiche forme associative delle zone montane. Investite dal riformismo post-unitario e segnate dalla flessione demografica delle aree interne, sono state consegnate al nostro tempo assieme al mutato uso dei suoli, a una larga privatizzazione dei terreni e con un rapporto tutto da costruire con le Comunità Montane, istituite nel 1971 poi recentemente soppresse 50. 119 Ad arricchire con le applicazioni la riflessione contemporanea sul rapporto tra geografia e storia hanno concorso e ancora contribuiscono le ricerche sulle dinamiche migratorie internazionali. La ricorrenza del quinto centenario della scoperta dell’America ha suggerito di approfondire le variabili locali connesse ai fattori espulsivi che sono all’origine dei flussi transoceanici fra Otto e Novecento. Parallelamente hanno preso l’abbrivio gli studi sull’attrazione locale dei contingenti in entrata, i quali presiedono allo strutturarsi di comunità etniche 51. Né si sono esaurite le potenzialità del filone incentrato sulla geografia delle sedi che ha ricevuto nuovo impulso col guardare al ruolo territoriale svolto, nel tempo, da peculiari tipologie insediative dotate di spiccata forza plasmatrice del paesaggio: ville suburbane, monasteri, castelli. Sedi accomunate da un elevato rango funzionale che le contraddistingue come manifestazioni spaziali «tanto più spiccate quanto più profondamente “ideologizzata” è la società che le origina» 52. Se insomma le precedenti ricerche avevano lumeggiato le embricazioni ambientali, politiche ed economiche responsabili delle fasi regressive o di scomparsa dell’insediamento, i più recenti percorsi hanno messo in luce la tenuta funzionale del territorio nel lungo periodo, tenuta procurata dall’avvicendamento tra le sedi stesse. Siti e strutture di antiche ville romane vengono riutilizzati da abbazie o castelli in età medievale che poi la ricolonizzazione agricola dell’età moderna o le soppressioni di ordini religiosi in età contemporanea, rimodellano in residenze gentilizie attente ad organizzare la produzione agricola e al controllo sociale delle campagne. I caratteri formali dei tre ordini di insediamento sono profondamente diversi e ognuno si articola in tipologie proprie. La classificazione tipologica già perseguita nelle indagini sulla casa rurale, continua a essere un supporto essenziale per condurre la ricerca ma l’obiettivo è quello di decifrare la tenuta dell’organizzazione territoriale basata sull’assolvimento di funzioni cardine, che queste sedi, pur diverse, sostituendosi tra loro in un sito, garantiscono nel tempo 53. Il ruolo funzionale dà senso alla persistenza e al contempo, esplicandosi con mutati tipi di insediamento, stempera la rigidità insita nell’assunto della longue durée. Anche gli storici e gli archeologi convergono a ricercare nessi di continuità tra i mutamenti insedia120 tivi, ad approfondire quei transiti di funzione che risultano essere tanto distintivi della storia locale quanto assertivi dell’assunto generale. Gli ambiti regionali forniscono riscontri emblematici. Nell’Italia centrale i castelli hanno spesso occupato la localizzazione di una antica villa romana 54; nell’attuale territorio delle Marche sono numerose le pievi e le abbazie che occupano il sito e le strutture superstiti di ville romane cui viene aggiunto l’edificio ecclesiale ma l’abbas si inserisce nel luogo del villicus di cui recepisce «la funzione di sorveglianza e con essa la di lui abitazione» 55. L’avvicendamento è significativo dell’esigenza di mantenere, recuperandole e inglobandole, tutte quelle funzioni territoriali, produttive ed aggregative appartenute alla sede preesistente. Ne trae senso la vicenda plurisecolare dell’abbazia di Santa Maria in Potenza, con i suoi annessi, la quale ingloba sostruzioni romane ma, ciò che più conta, polarizza per molti secoli l’area della antica colonia di Potentia, fino a quando, a seguito della soppressione napoleonica, essa torna, nell’Ottocento, ad essere una dimora di villeggiatura agreste 56. Altrettanto vale per l’abbazia cistercense di Santa Maria di Chiaravalle di Fiastra, eretta nel XII secolo impiegando materiali provenienti dalla distrutta Urbs Salvia. Divenuta nel 1456 bene commendatario di illustri cardinali, nel 1581 fu affidata ai Gesuiti che la potenziarono quale polo dell’organizzazione rurale locale e commissionarono il prezioso cabreo che ci attesta l’assetto agrario delle numerose possessioni dipendenti. Ne ressero le sorti fino al 1773, anno in cui l’ordine venne soppresso. Sullo scorcio del Settecento, l’abbadia di Fiastra divenne enfiteusi, e nel 1803 proprietà, dei marchesi Bandini che la valorizzarono quale residenza di campagna dando incarico all’architetto Ireneo Aleandri di progettare il palazzo principesco addossato al lato sud del complesso monastico. Molti posso essere gli esempi di questo imprinting territoriale marcato e profondo, che contrasta il regresso e si dimostra capace di conservare le proprie prerogative. Esso fa leva sulla resilienza delle funzioni connesse all’organizzazione agraria, le quali si esprimono attraverso tipi di sede formalmente diversi. All’inizio dell’età moderna in area pesarese, come in quella camerte, si coglie la capacità plasmatrice del paesaggio propria del potere politico, che si manifesta con le forme ricercate dei barchi, dei giardini e delle ville ducali. Anche queste sedi talora derivano da 121 fortilizi, come nel caso della villa-castello di Lanciano a Castelraimondo, rimodellata nel 1489 su una preesistente rocca con mulino da Giovanna Malatesta Varano che doveva serbare un ricordo non labile di quale e quanta valenza polarizzatrice una villa potesse esercitare e, conseguentemente, del senso politico che può assumere. L’azione di governo del suo avo Galeotto Malatesta, signore di Fano, nel 1365 si era tradotta anche nella costruzione della villa fortificata delle Camminate ma la sede, poco più di un secolo dopo, nel 1472, aveva subìto la damnatio memoriae da parte della comunità cittadina che, orgogliosa del suo ritorno alla libertas ecclesiastica, ottenne da Sisto IV il “placet” a demolire il Palatium ossia il «Forte, o Castello delle Caminate il quale essendo stato le delizie de’ Malatesti, da Pio II era stato incamerato colla confiscazione di tutti i beni di Sigismondo Malatesta» e a riutilizzarne i materiali nel ripristino della cinta urbana dalla parte del mare 57. Solo la fama delle feste e delle battute di caccia alle Camminate, oltre ai libri di amministrazione della fiorente azienda agraria, cui la villa-fortezza presiedeva, ci restituiscono alcuni vividi squarci della sua vita e del suo ruolo territoriale. Tra le strutture figurano le pantiere, ridotti specchi d’acqua presenti, quali proprietà malatestiane, pure in altri ambiti delle Marche, destinate alla cattura di anatre e oche 58. Mentre sul colle Accio alle porte di Pesaro svetta la villa Imperiale voluta nel 1452 da Alessandro Sforza, nel contado fanese la libertas ecclesiastica rade al suolo un emblema del potere signorile e tiene a freno, per un altro secolo almeno, la diffusione nel suburbio delle dimore di villeggiatura, quasi guardando con sospetto al sorgere in campagna di sedi aggregative dotate di un potenziale economico, cui poteva sovrapporsi qualche velleitarismo giurisdizionale e politico. Nel XVI secolo, col perfezionarsi della ricolonizzazione agricola, nuove istanze intervengono a saldare il rapporto città-campagna che nelle Marche, in virtù del diffondersi della mezzadria, si conforma alle esigenze della commercializzazione cerealicola e alle pratiche della “tratta del grano”, pratiche che, fino al primo Ottocento, garantiscono larghi utili ai proprietari terrieri. La villa si rivela una entità territoriale adatta al controllo delle plebi rurali e della produzione granaria. Al contempo assurge a elemento tanto più di spicco nel plasmare il paesaggio quanto più “ideologizzata” è la società che la origina. Attraverso le sue forme, nel paesaggio locale si materia122 lizza una molteplicità di istanze ideali, simboliche e politiche che un approccio incline a letture meramente funzionaliste potrebbe ignorare «eclissando del tutto dall’orizzonte storiografico la capacità del paesaggio locale di suggerire una pluralità di simboli» 59. Il rapporto città-campagna mediato dalla villa, sia essa bene rifugio o status symbol o le due cose insieme, si specifica a scala locale. Le comunità proiettate verso l’economia marittima e commerciale si volgono al possesso terriero e alle potenzialità economiche della villa quale opzione cautelativa e rassicurante nel caso di tracolli mercantili. La presenza di una villa urbana (Colloredo Mels) a ridosso delle mura di Recanati, nel quartiere di San Flaviano, costituisce una attestazione peculiare di interessi cittadini che nel XVI secolo si rivolgono all’investimento fondiario, contemporaneamente al declinare della città quale luogo di fiera e piazza commerciale di riferimento per gli scambi nel bacino adriatico. A una fida garanzia terriera guardano pure le più cospicue famiglie di mercanti anconetani e la città dorica, dal XVI al XIX, secolo assiste al fiorire nel suburbio di sedi di villeggiatura che ben documentano anche il processo di nobilitazione del ceto borghese. In effetti la lettura di questo fenomeno insediativo non sarebbe adeguata se non considerasse le variabili metaeconomiche, politiche e simboliche che ne motivano la diffusione capillare anche nei dintorni dei piccoli centri urbani. La spiegazione dell’approccio economico lumeggia la tendenza a una rifeudalizzazione delle campagne in età moderna. Tale tendenza presuppone una marcata gerarchia sociale che si esprime anche attraverso segni, simboli, maniere. L’annuncio si rintraccia già nel trattato sull’agricoltura di Piercrescenzio: «ma se la nobiltà de’ signori et la potenza è tanta, che schiffino d’abitare con suoi lavoratori in una medesima corte, potranno agiatamente nel predecto luogo così disposto fare il loro luogo ordinato di palagi et di torri et di giardini secondo che alloro nobiltà e possanza si converra» 60. Considerare la villa in questa prospettiva conduce a leggere il territorio e la società che lo produce attraverso la pluralità di simboli del paesaggio. Si palesa allora una duplice ascensionalità nel corso dell’età moderna: quella dei coltivi che risalgono i versanti alto-collinari, arrecando danni all’ambiente, per sostenere la commercializzazione dei cereali; quella dei borghesi possidenti che aspirano alla nobilitazio123 ne e al raggiungimento di un ruolo politico. Tra avere ed essere, tra carattere economico e status symbol la villa favorisce l’evoluzione sociale, particolarmente quando nei territorio pontificio svaniscono i tentativi riformistici avviati dai papi per dotare lo Stato di un efficace apparato amministrativo potenziando la nobiltà di toga. Falliti quegli sforzi e stante la necessità delle magistrature cittadine di raggiungere la composizione numerica prevista, l’accesso alla nobiltà avviene per aggregazione di coloro che da tempo si sono uniformati al vivere more nobilium, che dunque fondano il loro status sulla possidenza fondiaria nel contado cittadino, sulla disponibilità di un palazzo urbano, di una villa in campagna o casino di caccia, di una cappella gentilizia 61. È una fase essenziale, soprattutto per cogliere nell’ambito delle Marche, dell’Umbria e parzialmente della Romagna il diffondersi di ville di medie o piccole dimensioni e di qualità media, spesso nell’ambito territoriale di minuscoli centri urbani. È però proprio la presenza diffusa di una qualità “media” a costituire di per sé un fatto eccezionale 62 in questa ampia porzione dell’Italia centrale che indirizzi storico-disciplinari, a iniziare dalla storia dell’architettura, non aveva mai preso in considerazione per questo tipo di insediamento se non per i casi illustri legati alle corti ducali. A ben vedere la villa, repressa nelle sue potenzialità di autonomo esercizio del potere dall’affermarsi di un superiore potere urbano, diviene anche mezzo e strumento di accesso ai poteri cittadini. Una ponderata interpretazione del divenire territoriale animato dalle ville può tentarsi alla luce di quanto riferito, verso la fine dell’Ottocento, dall’Inchiesta Jacini la quale censisce nelle campagne marchigiane 89.484 sedi sparse di cui 1.520 sono casini di villeggiatura, 73.136 case coloniche, 12.785 case d’affitto abitate da operai agricoli, 2.043 chiese e fabbricati annessi 63. Un rapporto che computa all’incirca una villa ogni 56 case rurali, proporzione eloquente della polifunzionalità di tale sede e delle intense relazioni tra città e campagna che, tra economia, diletto e promozione sociale essa media. La regione: una categoria transcalare Al pari del concetto di paesaggio anche quello di regione ha conosciuto un lungo affinamento, pur senza approdare a una accettazione condivisa. Categoria che emerge con speciali aggettivazioni 124 dai diversi paradigmi che hanno ispirato la ricerca geografica durante il Novecento, rimane segnata da una pregiudiziale di fondo, se sia cioè una realtà oggettiva, suscettibile di conoscenza scientifica, oppure un prodotto intellettuale, una artificiosa convenzione. Netta dunque, e di difficile accomodamento, la contrapposizione tra fautori dell’approccio regionale, al quale attribuiscono una funzione assorbente per interpretare l’organizzazione del territorio, e gli oppositori che non ritengono possibile ridurre la complessità territoriale in singole frantumazioni. La convinzione dei sostenitori enfatizza le peculiarità della regione; il rigetto degli obiettori l’alea di una formulazione puramente teorica. Da un lato viene propugnata l’unicità che contraddistingue l’assetto di una porzione territoriale per avvalorare la categoria stessa di regione; dall’altro lato viene rimarcata la constatazione che fatti geografici simili non conducono né a coincidenza, né a somiglianza tra le aree in cui appaiono, dimostrando una incapacità euristica, per cui «l’ambizione di numerosi geografi di determinare la regione “integrale” mediante una sintesi di rapporto fra un certo numero di fenomeni, i più diversi fra loro per natura (come ad es. il rilievo e la vegetazione e l’operosità umana) è basata su un’astrazione» 64. All’ostico tornante teorico si accosta quello metodologico, disgiunto tra l’orientamento idiografico e quello nomotetico: sia la singolarità della regione, sia la ricerca di una sua regolare molteplicità non consentono di attribuirle una scala unica. Pertanto, pur muovendo da posizioni diverse, ambedue gli orientamenti concorrono a imprimerle un connotato transcalare. Certamente la regione, vista nella sua originalità, offre il destro alla ricerca applicata e sembra costituire un «cadre commode pour prendre en compte les faits humains dans la partition de l’espace» 65; assumerla come categoria oggettiva impone di considerare che ogni cultura, nel tempo, ha generato e genera una propria regionalizzazione, la quale raggiunge livelli tenui o molto intensi in rapporto alle forme di economia prevalente, al grado tecnologico, all’urbanizzazione 66. Ne deriva una ricaduta sia sui criteri di delimitazione degli spazi regionali, sia sul rispetto dei valori ad essi sottesi, essendo la regione un prodotto culturale. L’età contemporanea assiste a repentine riformulazioni del concetto di regione: umanizzata (storicismo), funzionale o polarizza125 ta (strutturalismo), vissuta (behaviourismo). Riformulazioni tutte idonee a recepire la duttilità dei comparti areali ma diversamente reattive al variare dei rapporti di scala. L’indirizzo comportamentista privilegia la dimensione minima del privato, dell’abitazione e dello spazio quotidiano, con una spiccata valorizzazione del vissuto e della sfera soggettiva e si apre a intersezioni con la storia sociale e con le fonti memorialistiche familiari. Quello storicista predilige le sedimentazioni culturali, le persistenze territoriali e dei valori identitari. Vigorosa rimane la valenza della regione funzionale la quale, rispetto alle altre citate, «è categoria strutturale, è regione macroeconomica incapace di cogliere le connessioni minute» 67. In sintesi, occorre tenere distinta la regionalizzazione «intesa come operazione di cui lo stato si è servito per dare organicità e uniformità istituzionale ai complessi umani – territorialmente definiti in entità di diversa origine storica – che lo formano», dal regionalismo, riferibile ad «aree contrassegnate da una omogeneità, o meglio da una particolare forma di coesione e coordinazione per ciò che riguarda in primo luogo la struttura economica e i patrimoni culturali: aree che esistono in molti casi, con una loro chiara individualità, prima di una regionalizzazione» 68. La storia registra perimetrazioni e denominazioni che mutano nel tempo; deve così anch’essa confrontarsi con l’interrogativo di una fondatezza e di una praticabilità della storia regionale. Due questioni che anche la recente e qualificata esperienza storiografica promossa dalla casa editrice Einaudi ha ritenuto risolvibili mutuando la partizione amministrativa vigente: ben adatta alla organizzazione dei singoli volumi e della collana, anche se, all’atto pratico, la funzione della categoria si riduce a mero strumento operativo. Senza dubbio la tematica regionale funge significativamente da catalizzatore del dibattito sui rapporti di scala dell’organizzazione territoriale, dunque tra livello nazionale e livello locale, tra centralismo e autonomie locali. Si profila un confronto con i più serrati nodi della governance, dunque tra processi attivati dall’alto e istanze che muovono dal basso, tra strategie bottom-up e top-down, col risultato di rimettere in discussione la fissità dei confini amministrativi, in particolare quelli provinciali e regionali, individuati in sede costituente sulla base dei compartimenti statistici definiti dal Maestri a metà Ottocento e sull’ordito delle province create dopo 126 l’Unità d’Italia, non senza incongruenze, come i geografi ebbero a evidenziare 69. Una regione plurale e di confine – quale le Marche dichiarano di essere già nel nome – ha affrontato le questioni anzidette su differenti fronti. Su quello della ricerca rimane significativa l’esperienza del convegno promosso dalla Deputazioni di storia patria per le Marche e da quella negli Abruzzi sul tema del confine tra le attuali regioni. Dai lavori presentati da archeologi, storici, geografi, antropologi emerge una doppia azione, sincronica e opposta, che investe l’organizzazione territoriale in età moderna e contemporanea: quella dei poteri superiori, dello Stato pontificio e del Regno di Napoli che dall’alto tendono a rafforzare la linea confinaria; quella delle comunità locali che, dal basso, tendono invece a disfarla attraverso transiti, contatti e tutta una serie di fenomeni osmotici di carattere materiale e culturale 70. La questione confinaria si ripropone in tutta la sua complessità storica e giuridica nel corso dell’Ottocento. Con l’unificazione nazionale il Tronto assume quasi un significato simbolico per i governanti del Regno d’Italia, a cominciare dal Minghetti per il quale incarnava la profonda divisione tra Nord e Sud. Il suo superamento equivaleva dunque ad una rimozione del deprecato passato borbonico e sembrava rispondere alle istanze delle stesse comunità locali abruzzesi, propense ad una aggregazione amministrativa con l’area dell’antica Marca. In questa temperie affiora un’ulteriore problematicità, ossia l’aspirazione al rango di provincia da parte della città di Fermo e del territorio ad essa storicamente legato. L’ipotesi di un aggancio dell’area a sud del Tronto alla provincia di Ascoli Piceno sembra costituire una opportunità funzionale anche ad un sufficiente dimensionamento della provincia fermana. Ma il “concetto politico” di cogliere l’occasione per spezzare quei confini che avevano segnato la divisione dell’Italia non passa, per varie opposizioni, tra le quali risultò forse decisiva quella di Silvio Spaventa. Né ciò accade con i tentativi di revisione confinaria nei decenni postunitari, contro i quali nel 1891 si esprime la memoria di Francesco Savini Sulla storica costituzione della Provincia di Teramo. Significativamente quello scritto viene ripubblicato nel 1927, quando però le amputazioni della provincia teramana vengono da sud, a favore della costituita provincia di Pescara 71. 127 Le proposte di regionalizzazione susseguitesi nel secondo dopoguerra si ispirano al criterio statistico, alla programmazione territoriale, alla logica strutturale e, in minor misura alla rilevanza della storia e dell’identità locale 72. Anzi, la fiducia nella categoria della regione funzionale rimette in discussione la storia delle piccole patrie. Così almeno nel caso delle Marche che, un secolo dopo le congetture di ampliamento a sud, conoscono la sottrazione dell’area più a nord, quella dell’Alta Valmarecchia. La legge 117 del 3 agosto 2009 che, su un’istanza bottom-up, sancisce il distacco di sette comuni e loro aggregazione alla regione Emilia-Romagna, nell’ambito della provincia di Rimini, all’art. 1 cita la «particolare collocazione territoriale» dei comuni interessati: una espressione che lascia intendere la loro gravitazione sulla città di Rimini più che su Pesaro. Meno suffragabile il prosieguo dell’articolo che chiama in causa i «peculiari legami storici, economici e culturali con i comuni limitrofi della medesima provincia» 73. Il dibattito sulla ridefinizione del mosaico regionale si ravviva negli ultimi decenni del secolo scorso, sempre ispirandosi a criteri funzionalisti. Una nuova proposta di regionalizzazione viene avanzata a metà degli anni Novanta dalla Fondazione Agnelli che elabora e presenta «non un esercizio geometrico astratto, ma una base di dibattito civile» per perseguire «la maggior flessibilità e resilienza di un sistema economico-territoriale policentrico, la migliore utilizzazione del capitale fisico esistente» 74. A raggiungere tale traguardo poteva contribuire, secondo quel progetto basato su istanze federaliste, una Regione Mesoadriatica costituita da Marche, Abruzzo, Molise. Il 1989 era ancora prossimo, il conflitto nei Balcani in atto, lo sguardo dunque rivolto all’interno del nostro Paese. Qualche anno dopo, sull’esperienza della Iniziativa Adriatico-Ionica tenutasi ad Ancona nel 2000, si fa strada l’idea di una aggregazione regionale concepita in modo nuovo, non come struttura amministrativa bensì quale strategia transfrontaliera, condivisa tra soggetti territoriali gravitanti sugli stessi mari: è la Macroregione Adriatico-Ionica riconosciuta dall’Unione Europea nel 2014. Giocoforza il tradizionale concetto di regione amministrativa ne sente l’influenza e alla ormai dimenticata Mesoregione Adriatica si avvicenda il progetto di una Macroregione dell’Italia centrale (o Macroregione dell’Italia di Mezzo) che, in virtù di una aggrega128 zione funzionale e di una convergenza nelle strategie tra Toscana, Umbria e Marche mira a superare lo schema duale Nord-Sud valorizzando l’asse Est-Ovest. Anche in questo caso le legittime necessità di adeguamenti infrastrutturali e della condivisione dei servizi su un’area vasta possono correre il rischio di non cogliere le connessioni minute. È tuttavia assodato che ad ogni flessione delle compagini intermedie corrisponde una ripresa di quelle estreme: il rafforzarsi delle proiezioni globali è accompagnato dal rinvigorirsi dei caratteri locali. Nell’avanzare dell’approccio macroregionale l’analisi del “vicino” e la storia delle “piccole patrie” mantengono intatta la loro piena dignità. 1 Nell’ordine, per una esemplificazione degli esiti nei tre ambiti citati, si può far riferimento a: lucio gamBi, Una Geografia per la storia, Einaudi, Torino 1973; alle pionieristicche collaborazioni tra carlo maranelli, gaetano SalVemini, La questione dell’Adriatico, Libreria della Voce, Roma 1919 e quella tra mario ortolani, nereo alFieri, Deviazioni di fiumi piceni in epoca storica, in “Rivista Geografica Italiana”; LIV, 1947, 1, pp. 2-16; e Sena Gallica, in “Atti della Accademia Nazionale dei Lincei”, vol. 8., fasc. 3-4, marzo-aprile 1953, pp. 153-180; giuSeppe rocca (a cura), La formazione universitaria degli insegnanti di Geo-Storia nella scuola secondaria di domani, atti convegno (Genova, 21-22 dicembre 2015), in “Liguria geografia” XVIII, 2016, 6-7-8, pp. 7-22. 2 paola Sereno, La Geografia storica in Italia, in a.r.h. Baker (a cura), Geografia storica. Tendenze e prospettive (ed. it. a cura e con prefazione di P. Sereno), Angeli, Milano 1981, pp. 167-187. 3 karl Schlögel, Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 7. 4 Questione ancor più avvertita con l’esordio della World History e della “Storia globale”, approcci che si appellano alla dimensione spaziale e trovano precoci espressioni nello strumento dell’atlante: geoFFrey Barraclough, Atlante della storia 1945/1975, Laterza, Roma - Bari, 1977; laura di Fiore, marco meriggi, World history. Le nuove rotte della storia, Laterza, Roma - Bari 2011. 5 hildeBert iSnard, Lo spazio geografico, Angeli, Milano 1980. 6 girolamo cuSimano, Sotto il segno della cultura. Mondo attuale e New Cultural Geography, in c. palagiano (a cura), Linee tematiche di ricerca geografica, Pàtron, Bologna 2002, pp. 193-222; angelo torre, La produzione storica dei luoghi, in “Quaderni storici”, XXXVII, 2002, 2, pp. 443-475. 7 Schlögel, Leggere il tempo nello spazio cit., p. 151. 8 chriStian norBerg-Schulz, Genius loci. Paesaggio, ambiente, architettura, 129 Electa, Milano 1979, pp. 18-23; auguStin Berque, Médiance de milieux en paysages, Reclus, Montpellier 1990. 9 torre, La produzione storica dei luoghi cit., p. 448. 10 arJun appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma 2001, pp. 50-65; 244-257. 11 torre, La produzione storica dei luoghi cit., p. 449. 12 roBert marconiS, Les relations entre la géographie et l’histoire, in La géographie française à l’époque classique (1918-1968), L’Harmattan, Paris 1996, pp. 59-68; ronald John JohnSton, paul claVal (a cura), La Geografia dopo la seconda guerra mondiale. Un confronto internazionale, Unicopli, Milano 1986. 13 diego moreno, Dal documento al terreno. Storia e archeologia dei sistemi agro-silvo-pastorali, il Mulino, Bologna 1990, p. 9. 14 torre, La produzione storica dei luoghi cit., p. 443. 15 alBerto caracciolo, L’ambiente come storia. Sondaggi e proposte di storiografia dell’ambiente, il Mulino, Bologna 1988, p. 29. 16 Ibid., pp. 20; 28. 17 roBerta ceVaSco, Memoria verde. Nuovi spazi per la geografia, Diabasis, Reggio Emilia 2007; M. agnoletti (a cura), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010. 18 L’espressione è ripresa dalla titolazione adottata da alBerto polVerari, Senigallia nella storia. 3. Evo Moderno, Edizioni 2G, Senigallia 1985, pp. 208-210 nel redigere l’elenco delle calamità naturali intervenute a Senigallia e annotate nelle cronache cittadine. 19 Una accorta trattazione delle tematiche connesse alla conciliazione del senso temporale inteso nell’ottica delle dinamiche ambientali o delle vicende sociali, viene utilmente presentata nei lavori afferenti alla sezione curata da E. Sori, Geodinamica e storia sismica: Le Marche, in “Proposte e ricerche”, VII, 1984, 13, pp. 53-107: in particolare si vedano i contributi di M. Stucchi, Terremoti e ricerca storica, pp. 54-62; S. anSelmi, Sui terremoti a Senigallia: alcune fonti e appunti per la ricerca, pp. 70-77; C. leonardi, Movimenti tellurici della Massa Trabaria, pp. 82-90. 20 mario pinna, La storia del clima. Variazioni climatiche e rapporto climauomo in età postglaciale, Società Geografica Italiana, Roma 1984 (Memorie della SGI, XXXVI); emmanuel le roy ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno Mille, Einaudi, Torino 1982. 21 L’Accademia Georgica di Treia. Un centro di cultura nella Marca, atti convegno (Treia, 5-6 novembre 1994), SICO, Macerata 1997. 22 Treia, Archivio dell’Accademia Georgica, b. 65, Osservazioni meteorologiche fatte da D. Pietro Perugini Parroco di Paterno 1780-81; 1785-1801. 23 mario pinna, La teoria dei climi. Una falsa dottrina che non muta da Ippocrate a Hegel, Società Geografica Italiana, Roma 1988, pp. 365-366 (Memorie della SGI, XLI). 130 24 Per maggiori dettagli si rimanda ancora ai lavori di m. pinna, Le variazioni del clima in epoca storica e i loro effetti sulla vita e le attività umane. Un tentativo di sintesi, in “Bollettino della Società Geografica Italiana”, Roma, CVI, 1969, serie IX, vol. X, pp. 198-275; id., La storia del clima cit. 25 periS perSi, Ambiente, salute e calamità nelle Marche tra Rinascimento e periodo napoleonico, in “Atti e Memorie” della Deputazione di storia patria per le Marche, 97, 1992, atti convegno Medicina e salute nelle Marche dal Rinascimento all’età napoleonica (Ancona-Recanati, 28-30 maggio 1992), 1994, pp.13-38. Si veda a p. 22. 26 paola magnarelli, La vita difficile di un intellettuale “piccolo borghese” nella Recanati di metà Ottocento, in “Proposte e ricerche”, X, 1987, 19, pp. 77-82, in cui si traccia un profilo completo della formazione e degli interessi del Bravi. 27 Un puntuale lavoro è stato condotto in tal senso da perSi, Ambiente, cit., (particolarmente alle pp. 19-30) attraverso l’analisi di vari manoscritti quali le Memorie del Morosini e le Notizie del Tenaglia per Fossombrone, la Storia dell’Albertini per Ancona, la Cronaca del Bonamini per Pesaro, le Diverse notizie del Baldi per Osimo, e altre fonti. 28 Brunello BedoSti, Il clima del Pesarese, in “Esercitazioni della Accademia Agraria di Pesaro”, CLII, 1979, s. 3° vol. 11°, p. 5 dell’estratto. 29 Ibid. Significativamente si può riscontrare, tra gli studiosi di generazioni contigue di questo periodo, quasi una ideale consegna dei compiti di ricerca che si esprime col deferente recupero di un precedente magistero: nel 1865 Alippi pubblica i dati climatologici raccolti negli anni immediatamente precedenti dal Serpieri (n. p. alippi, Il clima di Urbino studiato sotto alcuni rapporti igienici, Urbino, 1965); FranceSco de-BoSiS compone la sua guida Ancona e dintorni. Cenni di storia naturale (Ancona 1860), proponendo attente deduzioni meteorologiche ricavate dalle registrazioni della temperatura effettuate per 17 anni (1834-1850) dal professor L. Zazzini. 30 In questo egli si affida al magistero dei grandi Osservatori europei del tempo (di Versailles, Vesuviano ed altri) e alla letteratura internazionale divulgata dalle riviste di settore: luigi guidi, Di un osservatorio meteorologico in Pesaro. Lettera al Direttore della Corrispondenza Meteorologica Telegrafica di Roma, in “Esercitazioni dell’Accademia Agraria di Pesaro”, XII, 1856, II, pp.137-141. Precisi riferimenti alla figura di Guidi e al suo operato per coniugare scienze ambientali e progresso dell’economia agraria si debbono a marco moroni, Istruzione agraria e sviluppo agricolo nelle Marche dell’Ottocento, Ancona 1999 (Quaderni di “Proposte e ricerche”, 25). 31 FranceSco de BoSiS, Sulla organizzazione del servizio meteorologico nei porti di mare del Regno d’Italia, Ancona 1866. 32 Ibid., p. 5. 33 Tali argomenti, affrontati con il supporto di casi di studio confluiscono in vari 131 suoi scritti: FranceSco de-BoSiS, Il Montagnolo. Studi ed osservazioni, Fano1859 (estr. dalle dispense 7°, 8 e 9 del Vol. III serie 2° anno 1859 dell’Enciclopedia Contemporanea edita in Fano da G.A. Gabrielli); id., Le burrasche di mare osservate l’anno 1864, Ancona, 1865; id., L’inverno 1863-64 in Ancona. Osservazioni meteorologiche, Ancona, sd.; id., Osservazioni meteorologiche eseguite l’anno 1865 nell’osservatorio del Regio Istituto Tecnico in Ancona, Ancona 1866. 34 id., Ancona e dintorni, cit., pp. 27-28. 35 id. Il Montagnolo, cit., p. 23. 36 Ibid., p. 25. 37 id., Ancona e dintorni, cit., pp. 39-40. 38 mario Baratta, I terremoti d’Italia. Saggio di storia, geografia e bibliografia sismica italiana, Bocca, Torino 1901; roBerto almagià, Studi geografici sulle frane in Italia, Società Geografica Italiana, vol 1, Roma 1907: vol. 2, 1910 (Memorie della SGI, 13-14). 39 In quella occasione il De Martonne stigmatizzò certi accademismi un po’ troppo oziosi dichiarando: « À quoi une section du paysage? Mais le paysage c’est toute la géographie!». Si veda adalBerto Vallega, Compendio di geografia regionale, Mursia, Milano 1982, p. 38. 40 renato BiaSutti, Il paesaggio terrestre, Utet, Torino 1962, p. 2. 41 «Ma al di là dell’uomo dell’ecologia vi è l’uomo della storia: che non può negare il valore del primo […] ma insieme lo ingloba in sé e […] lo domina e fa agire»: lucio gamBi, Critica ai concetti geografici di paesaggio umano, Fratelli Lega, Faenza 1961, ripubblicato dall’A. in Una Geografia per la storia, cit., p. 151. 42 Berardo Cori, Il paesaggio negli studi geografici in Italia, “Bollettino della Società Geografica Italiana”, s. XII vol. IV, 1999, pp. 327-330. Si veda a p. 329. 43 FaBio lando, Paesaggio e geografia culturale. In merito ad alcune recenti pubblicazioni, in “Rivista Geografica Italiana”, CII, 1995, pp. 495-511. Si veda a p. 506-507. 44 claude raFFeStin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di Paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Firenze 2005, p. 11. 45 periS perSi, Il ruolo dell’ambiente nell’organizzazione territoriale, in P.M. mura (a cura), Una geografia per la pianificazione, Gangemi, Reggio Calabria 1988, pp. 167-181. 46 carlo toSco, Il paesaggio come storia, il Mulino, Bologna 2007, p. 9. 47 Contributo ragguardevole almeno per la geografia, l’etnografia, la storia e l’architettura minore: per una sintesi si rinvia al volume di G. BarBieri, l. gamBi (a cura), La casa rurale in Italia, Olschki, Firenze 1970. 48 maSSimo quaini, Geografia storica o storia sociale del popolamento rurale? in «Quaderni storici», VIII, 1973, 24, pp. 691-744. Si veda a p. 736. 49 Ibid., p. 711. 132 50 carla catolFi, Le comunanze agrarie nella transizione al Novecento in S. anSelmi (a cura) Nelle Marche centrali. Territorio, economia, società tra Medioevo e Novecento: l’area esino-misena, Cassa di Risparmio, Jesi, 1979, t. II, pp. 14271473; Indagine preliminare per lo studio delle Comunanze Agrarie dell’Appennino umbro-marchigiano, in “Quaderni dell’Istituto Policattedra di Geografia-Università degli Studi di Perugia” 1983, 5; claudio cerreti, Comunanze agrarie e terre collettive nelle Marche. Note geografiche, Università, Ancona 1993. 51 C. cerreti (a cura), Genova, Colombo, il mare e l’emigrazione italiana nelle Americhe, atti XXVI Congresso Geografico Italiano (Genova, 4-9 maggio 1992), Istituto della Enciclopedia Italiana G. Treccani, Roma 1996, vol. 2; F. citarella, Emigrazione e presenza italiana in Argentina, CNR, Roma 1992; C. BruSa (a cura), Immigrazione e multicultura nell’Italia di oggi. Angeli, Milano 1997 (vol. 1); 1999 (vol. 2). 52 mario ortolani, Geografia delle sedi, Piccin, Padova 1984, p. 4. 53 Ville suburbane residenze di campagna e territorio, atti Convegno (Palermo, 29 settembre-1ottobre 1986), Istituto Grafico Italiano, Napoli, 1987; g. arena, a. riggio, p. ViSocchi (a cura), Monastero e castello nella costruzione del paesaggio, atti I Seminario di Geografia storica (Cassino, 27-29 ottobre 1994) RUX Editrice, Perugia 2000. 54 giorgio muratore, Insediamenti e paesaggio, ambiente fisico e cultura materiale, in P. marconi (a cura), I castelli. Architettura e difesa del territorio tra Medioevo e Rinascimento, De Agostini, Novara 1978, pp. 42-53. 55 michelangelo cagiano de azeVedo, Fonti scritte e archeologiche per l’alto medioevo nelle Marche, in “Atti e memorie” 86, 1983, pp. 147-157. Si veda a p. 150. 56 giulio menghini, L’Abbadia di Santa Maria in Potenza, in “Il Casanostra”, 1968, 85, pp. 117-120. 57 pietro maria amiani, Memorie istoriche della città di Fano, Fano 1751, II, p. 24 e sommario LXXXIV. 58 Sergio anSelmi, Organizzazione aziendale, colture, rese nelle fattorie malatestiane, 1398-1456, in “Quaderni storici”, XIII, 1978, 39, pp. 806-827; si veda p. 811. 59 torre, La produzione storica dei luoghi cit., p. 445. 60 La citazione è ripresa da reinhard Bentmann, michael muller, Uno proprio paradiso. La villa: architettura del dominio, Lavoro, Roma 1986, p. 116, che la traggono dall’Opus ruralium commodorum secondo l’edizione vicentina del 1490. 61 Bandino g. zenoBi, L’organizzazione delle classi al potere tra Cinquecento e Settecento, in S. anSelmi (a cura), Economia e società: le Marche tra XV e XX secolo, il Mulino, Bologna 19781978 a., pp. 93-107. 62 Sergio agoStinelli, Territorio e tipologie insediative, in S. anSelmi (a cura), Economia, cit., pp. 167-181. 63 Atti della Giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe 133 agricola, Provincie di Perugia, Ascoli-Piceno, Ancona, Macerata e Pesaro, Roma 1884, vol. XI, t. II, p. 361. 64 lucio gamBi, Questioni di Geografia, ESI, Napoli 1964, p. 14. 65 paul claVal, Continuité et mutations dans la géographie régionale de 1920 à 1960, in La géographie française, cit., pp. 159-184: si veda p. 179. 66 adalBerto Vallega, Regione e territorio, Mursia, Milano 1976, p. 23. 67 paola Bonora, Regionalità. Il concetto di regione nell’Italia del secondo dopoguerra (1943-1970), Angeli, Milano, 1984, p. 13. 68 lucio gamBi, Le «regioni» italiane come problema storico, in “Quaderni Storici”, XII, 1977, 34, pp. 275-298. Si veda a p. 276. 69 Sileno FaBBri, La circoscrizione politico-amministrativa delle provincie del Regno d’Italia. Relazione presentata al X Congresso Geografico Italiano (Milano, 6-15 settembre 1927), Touring Club Italiano, Milano 1927. 70 r. ricci, a. anSelmi (a cura), Il confine nel tempo, atti convegno (Ancarano, Ascoli Piceno, 22-24 maggio 2000), Deputazione di storia patria negli Abruzzi, L’Aquila 2000. 71 coStantino Felice, La provincia aprutina tra identità e assetto istituzionale: momenti del dibattito ottocentesco, in ricci, anSelmi, Il confine nel tempo, cit., pp. 487-499. 72 gamBi, Le «regioni» italiane, cit.; Bonora, Regionalità, cit. 73 Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie generale n. 188 del 14 agosto 2009, p. 81: legge 3 agosto 2009, n. 117: Distacco dei comuni di Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, San Leo, Sant’Agata Feltria e Talamello dalla regione Marche e loro aggregazione alla regione Emilia-Romagna, nell’ambito della provincia di Rimini, ai sensi dell’articolo 132, secondo comma, della Costituzione. 74 Fondazione agnelli (a cura), Il nostro progetto geopolitico, in “Limes. Rivista italiana di geopolitica”, II, 1994, 4, pp. 147-156. 134 Dalla microstoria al microstato, incrociando la storia locale di Ercole Sori Tratterò il tema “storia locale” in chiave autobiografica, come si conviene a un anziano professore in pensione, dopo esattamente cinaquanta anni di onorato (si spera) servizio. Questo approccio, naturalmente, non pretende di avere la dignità del contributo di storia della storiografia. Esso è solo la ricapitolazione di un percorso, non so quanto esemplare, ma credo non sconosciuto a chi si sia occupato di storia tra gli anni Sessanta e oggi. Sia ben chiaro, comunque, che questa è l’autobiografia di chi ha praticato la storia locale molto poco, direi quasi per nulla, se si eccettuano due lavori sulla città in cui vive, Ancona 1, e un saggio sulla comunità israelitica anconitana tra Ottocento e Novecento 2, quest’ultimo forse il lavoro meglio definibile come contributo di storia locale. Naturalmente da questo elenco ho espunto i lavori di scala “regionale” (in senso geografico e amministrativo: Marche, Provincia di Ancona) nei quali mi sono trovato spesso impegolato e che non meritano metodologicamente la qualifica di “storia locale”. I cinquanta anni partono dai primi mesi del 1966, quando Alberto Caracciolo mi assegna la tesi di laurea dal titolo “Urbanizzazione e sviluppo economico”. Qui l’approccio alla storia delle città è di tipo sistemico, aggregativo, seriale, dunque lontano dal tema che oggi stiamo trattando. Tuttavia, dalle buone letture che a quel tempo ho fatto sia della letteratura sociologica nord-americana sul cultural and social change in ambiente urbano, sia sulla urban history di tradizione britannica 3, credo di aver ricavato un paio di buoni insegnamenti per una rinnovata storia locale: a) la comparazione (quali tipi di città generano sviluppo e quali no e, viceversa, quali tipi di città derivano da diversi sentieri e modelli di sviluppo); b) l’interdisciplinarità, come allora si diceva, perché nella storia 135 urbana ad essere coinvolte sono, per lo meno, economia, geografia, demografia, urbanistica, sociologia, ma si potrebbe continuare l’elenco con altre discipline. Il passo successivo di questa ricostruzione biografica è la fondazione, nel 1966, della rivista “Quaderni storici delle Marche”, di cui sono stato segretario di redazione. Scopo dichiarato della rivista, che apre il primo numero con un articolo di Fernand Braudel: Storia e scienze sociali: il “lungo periodo”, è rinnovare la storia locale. Innovare dunque, ma come? O, meglio, contro chi? Il ben noto nemico da battere è la storiografia municipalista, erudita, metodologicamente autarchica, assolutamente non comparativa, spesso intrisa di patriottismo civico; è la storiografia dei monsignori, degli ex-combattenti e reduci dalle patrie battaglie, dei gelosi e possessivi custodi degli archivi locali, spesso protagonisti di gustosi episodi relativi ai percorsi di ricerca 4. Questi lavori si autorappresentavano ed estorcevano dignità storiografica da una istituzione: le deputazioni di storia patria (e sarebbe interessante accertare se e quanto la situazione sia oggi cambiata). Possiamo considerare le deputazioni come le prefetture della storiografia italiana, “deputate” a vigilare sulla storia locale e a darle dignità nazionale in appositi contenitori ideologici. Alberto Caracciolo entra nella deputazione marchigiana nel 1962; Sergio Anselmi e Renzo Paci nel 1966 e le date non sembrano casuali. Si tenterà poi l’assedio e la “scalata” da parte dei novatori al governo di questa istituzione (tra i novatori sono stato reclutato anch’io come bassa fanteria), ma dai bastioni del castello gli assediati hanno spinto via le scale. A proposito di istituzioni che si occupano programmaticamente di storia locale, devo almeno citare l’esperienza degli istituti regionali e provinciali per la storia del movimento di liberazione. A quello marchigiano ho aderito per breve tempo e la brevità della partecipazione si deve alla scarsa compatibilità tra la mia idea di un’aggiornata storia contemporanea locale e gli indirizzi storiografici seguiti a quel tempo dell’istituto. Forse anche qui le cose oggi sono cambiate, ma l’imprinting di corpo separato, semi-autarchico, talvolta di vera e propria riserva indiana 5, con cui questi istituti sono nati, mi pare che si faccia ancora sentire. Nel 1970 i “Quaderni storici delle Marche” salgono di grado e 136 diventano “Quaderni storici”, con cui ho continuato a collaborare fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Con l’abolizione dal titolo della rivista della dizione “delle Marche”, i “Quaderni storici” sembrano abbandonare l’ambito locale, ma non è così. Dopo sei o sette anni di preparazione del terreno, con una forte semina di storia sociale, la rivista apre la strada alla cosiddetta microstoria. Il 1976 e il 1977 sono gli anni della svolta. Due numeri dei “Quaderni” fanno esplicito riferimento a un’analisi di livello micro, da condursi preferibilmente con strumenti antropologici. I titoli dei fascicoli monografici suonano come Famiglia e comunità oppure Oral History: fra antropologia e storia, ma altri se ne potrebbero citare. Le variabili di contesto sono del tutto favorevoli a questa svolta: nel 1975 è uscito in Francia Montaillou, di Le Roy Ladurie, tradotto in Italia nel 1977. Se ne discute sui “Quaderni”, come prototipo di storia totale, fino al 1979 6. Nel 1976, poi, appare Il formaggio e i vermi, di Carlo Ginzburg, che registra un grande successo di critica e di pubblico. Dal 1979 i corifei della microstoria in Italia sono tutti nella direzione dei “Quaderni”: Carlo Ginzburg, Edoardo Grendi, Giovanni Levi 7. Si susseguono i fascicoli monografici in linea con il nuovo indirizzo: Azienda agraria e microstoria (1978), Religione delle classi popolari (1979) e altri. Tra il 1981 e il 1991 l’editore Einaudi dà vita alla collana “Microstorie”, diretta, non a caso, da Carlo Ginzburg e Giovanni Levi. Nel suo decennio di vita produce ventuno titoli, poi la collana si estingue: sembra un chiaro sintomo di riflusso della nouvelle vague microstorica o, forse è meglio dire, un sintomo dell’uscita dall’avanguardismo e del deflusso (non riflusso...) nel corrente e multivariato lavoro storico. Personalmente, sul nesso tra metodologia della ricerca storica e storia locale, ho imparato cose importanti da alcuni lavori di questa collana, come quelli di Raul Merzario 8 e Franco Ramella 9, soprattutto per trovare il nesso tra economia e società (con l’intermediazione della demografia): tutti approcci che mi sono sempre sembrati essenziali oltre che congeniali. Anche nei “Quaderni”, forse anche prima del 1991, la microstoria dà segni di stanchezza, incalzata dalla fase “intimista” e di “genere”, che si invera in alcuni fascicoli monografici, i cui titoli suonano così: Parto e maternità (1980), Bambini (1984), Storia delle donne 137 (1990), Verginità (1990), Maschile e femminile (1992), Fratello/sorella (1993), Fratelli e sorelle (1994). Nel 1977, con Carlo Carozzi, Valerio Castronovo, Franco della Peruta, Lucio Gambi, Alberto Mioni e Renato Rozzi, abbiamo fatto nascere presso l’editore Franco Angeli la rivista “Storia urbana”, ancor oggi esistente. Si tratta di un fritto misto disciplinare che, sul tema della storia locale, intesa come storia della città e del territorio, unisce redazionalmente architetti-urbanisti storicizzanti (Carozzi, Rozzi, Mioni), storici economici (Castronovo e Sori), il geografo storicizzante per antonomasia (Gambi) e uno storico socio-politico (Della Peruta). Mi pare che la rivista sia stata e sia ancor oggi un passo avanti in direzione della pluralità di discipline chiamate a interpretare le trasformazioni di oggetti complessi come le entità urbane e i sistemi territoriali. Partiti dall’Italia, gli interessi della rivista evolveranno poi in senso internazionale e perciò potenzialmente comparativo, e anche questo mi sembra un progresso. Nel 1978 inizia la vicenda dei sequel per le collane storiche che hanno avuto successo. La pista è aperta dall’editore Einaudi che, reduce dal trionfo della “Storia d’Italia” di Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, cerca di perpetuarne i buoni risultati di mercato con la “Storia delle regioni” (1977) e gli “Annali” (1978). Anche l’editore Laterza si incammina su questa pista, miniaturizzando ancor più la storia d’Italia, prima con la collana di storia urbanistica “La città nella storia d’Italia” (1980; trentanove volumi), poi con una collana generalista, ma limitata al periodo unitario, “Storia delle città italiane” (1986). L’esito sul mercato non deve essere molto positivo, stante il ritmo sempre più rallentato delle uscite, al pari di quello sul piano storiografico. A entrambe le collane ho partecipato. Per il volume Ancona della collana “La città nella storia d’Italia” ci è sembrato necessario, a differenza degli autori che ci hanno preceduto, unire almeno un architetto pratico di storia dell’urbanistica (Rosario Pavia) e uno storico economico e sociale, cioè me stesso. Anche questo mi sembra un piccolo passo in avanti. La collana ha certamente dato un contributo importante, anche se parziale, a «la città considerata come principio ideale delle istorie italiane», per dirla con Carlo Cattaneo. Il più volte annunciato volume di Ercole Sori Ancona nella col138 lana Laterza “Storia delle città italiane” non ha mai visto la luce, per un motivo molto semplice: era diventato troppo grosso (settecentoquattordici pagine) per un mercato così ristretto. La sua lievitazione era dovuta a due o tre idee che io e il coautore, Mario Ciani, ci eravamo fatti su come scrivere la storia contemporanea di una città: a) che i volumi della collana già usciti si limitassero effettivamente a una miniaturizzazione della storia nazionale, per di più in chiave essenzialmente di storia politica; dunque occorreva affrontare anche altri aspetti della vita associata di una città, possibilmente facendoli interagire tra loro (ad es., urbanistica, gruppi sociali insediati e culture politiche); b) che gli ottanta anni di storia post-unitaria di Ancona potessero essere “raccontati”, facendo “parlare” direttamente le fonti (atti consiliari, stampa, atti giudiziari, ecc.). Pensavamo di estrarre, da queste citazioni testuali, le voices from within e con esse cogliere lo “spirito del tempo”. Sottolineo il concetto di “storia raccontata”, poiché esistono ormai e hanno onorevole cittadinanza storiografica alcuni buoni esempi di storia “narrativa” 10; c) che, per lo meno in età contemporanea, non si possa fare storia politica locale senza fare la storia dell’amministrazione, il che sembra ovvio ma, di fatto, poco praticato. Arriva infine l’esperienza sammarinese. A tirar fuori dalla mitografia la storia della piccola repubblica aveva già pensato Sergio Anselmi e il suo Centro sammarinese di studi storici, che io ho ereditato alla scomparsa di Sergio. Pensavo che il più fosse fatto e che bastasse proseguire l’opera di aggiornamento della storiografia locale ai correnti standard tematici e metodologici della storiografia internazionale, tutt’al più aggiustando un po’ il tiro. Ad es. dedicando una maggiore attenzione alla storia contemporanea, con l’intento di “pacificare” storiograficamente periodi, episodi e figure oggetto ancor oggi di fiere polemiche e contrapposizioni nella Repubblica di San Marino (il fascismo, i due “galli” fascisti che si sono beccati durante il ventennio – Ezio Balducci e Giuliano Gozi –, il governo social-comunista del 1945-57). In realtà c’era ancora qualcos’altro da fare. Io e Marco Moroni, interpellati da una banca locale per coordinare una collana di storia dei castelli sammarinesi, abbiamo dichiarato la nostra sostan139 ziale incompetenza. Ci è sembrato che, molto più di noi, Girolamo Allegretti avesse conoscenza ed estro per affrontare e vincere una sfida difficile: storiografare le micro-comunità di un micro-stato. Lo ha fatto e lo sta facendo. L’esito mi sembra estremamente positivo, in grado di dimostrare che, anche per un’entità territoriale e istituzionale di dimensioni molto ridotte, è possibile costruire una storia “dal basso”. Una storia “dal basso” intesa non tanto o non solo in senso “classista”, ma proprio come bio-storia delle cellule che formano un organismo territoriale funzionante, con il loro complesso DNA fatto di economia, società, politica, istituzioni, cultura, ambiente naturale e, forse, quel qualcosa di impalpabile che è il comune o diverso sentire. Il Centro sammarinese di studi storici, che dirigo, si appresta a dare un piccolo contributo di metodo alla storia locale, mediante un convegno che, nel 2017, affronterà il tema del trattamento quantitativo dei big data relativi ai territori locali, in ideale prosecuzione del seminario internazionale Alle origini dei territori locali tenutosi a San Marino nel 1992 e con il quale il Centro ha iniziato il suo lavoro scientifico 11. Verrà messo in discussione un grande data base che un giovane ricercatore franco-sammarinese, Michael Gasperoni, attualmente allocato presso l’Ecole Française de Rome, ha costruito per l’area che dal Riminese sale fino al Montefeltro, passando per San Marino. Su questo caso di studio e su altri convergeranno interventi di ricercatori della Società Italiana di Demografia Storica e della Maison des Sciences de l’Homme. Colgo l’occasione per invitarvi fin d’ora. 1 R. paVia, E. Sori, Ancona, “Le città nella storia d’Italia”, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 231; M. ciani, E. Sori, Ancona contemporanea, 1860-1940, CLUA, Ancona 1992, pp. 714. 2 E. Sori, Una “comunità crepuscolare”: Ancona tra Otto e Novecento, in S. anSelmi, V. Bonazzoli (a cura), La presenza ebraica nelle Marche. Secoli XIX-XX, Quaderni monografici di “Proposte e ricerche”, n. 14, 1993, pp. 189-278. 3 In particolare i lavori che ruotano attorno al Department of Economic History dell’Università di Leicester e al suo esponente di spicco in materia di storia urbana, H.J. dyoS, che di lì a poco promuoverà il bollettino “Urban History Newsletter” (poi “Urban History Yearbook”) e la monumentale opera di H.J. dyoS and M. WolFF (eds), The Victorian City. Images and Realities, 2 voll., Routledge and Kegan Paul, London and Boston 1973, pp. 957. 140 4 Si narra di un noto storiografo marchigiano, oggi scomparso, che, quando si reca all’Archivio di stato di Ancona, ordina tre “buste” di argomento diversissimo allo scopo di depistare gli eventuali colleghi e ricercatori che avrebbero potuto sbirciare sul registro delle richieste i titoli delle buste e, eventualmente, imitare quel percorso di ricerca. 5 Mi sembra che, negli istituti per la storia del movimento di liberazione, sia stato spesso presente un sentimento antiaccademico, proveniente da “esclusi” dal mondo universitario che intendono rivalersi di questa esclusione. Sentimento di per sé non cattivo, se non nelle ricadute sulla qualità e gli indirizzi della ricerca. 6 G. Sergi, g. Filoramo, g.g. merlo, a. petrucci, Storia totale fra ricerca e divulgazione: il “Montaillou” di Le Roy Ladurie, in “Quaderni storici”, n. 40, 1979. 7 Tra essi, anche Osvaldo Raggio, entrato nel 1981 come segretario di redazione. 8 R. merzario, Il paese stretto. Strategie matrimoniali nella diocesi di Como, secoli XVI-XVIII, Einaudi, Torino 1981. 9 F. ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento, Einaudi, Torino 1983. 10 Ci sono ormai ottimi esempi di storia “narrativa”: G.B. tindall, d.e. Shi, America: a narrative history, Norton, New York-London 1999, pp. 1690. 11 S. anSelmi, g. di méo, V. Fumagalli, l. gamBi, r. kottJe, l. mallart i caSamaJor, V. phytian-adamS, Alle origini dei territori locali, atti del seminario tenutosi a San Marino il 16 ottobre 1992, Centro di studi storici sammarinesi, Università degli studi, 1993 (n. 2 della Collana di Studi Storici Sammarinesi). 141 Pittura della Controriforma, centro e periferie di Bonita Cleri Alcune riflessioni sul rapporto centro e periferia nella pittura del periodo della Controriforma credo possano essere utili nel sondare i riferimenti al dibattito sulle immagini sacre 1 e all’attenzione nei confronti dei modelli romani da parte di artisti attivi nelle Marche. La committenza di un certo peso era dovuta alla corte papale, agli emergenti ordini religiosi quali i gesuiti, gli oratoriani, i teatini: è bene ragionare sul dibattito sulle immagini sacre a seguito del concilio tridentino apertosi nel 1542 e concluso, tra sospensioni e riprese, alla fine del 1563. Alla riapertura conciliare del 1562 il cardinale Ercole Gonzaga è il primo dei legati presidenti e il cardinale Girolamo Seripando l’effettiva intelligenza teologica: questi muoiono a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro; i due nuovi legati nominati dal papa sono Bernardo Novagero e Giovanni Morone 2 che sceglie a presiedere l’ultima fase del concilio di Trento in qualità di consigliere giuridico il bolognese Gabriele Paleotti. Le ultime fasi del Concilio sono abbastanza concitate: nella XXV sessione si decreta su De invocatione, veneratione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus con l’indicazione che: Omnis superstitio in imaginum sacro usu tollatur; omnis turpis quaestus eliminetur, omnis denique lascivia vitetur, ita ut procaci venustate imagines nec pingantur nec ornentur. Postremo tanta circa haec diligentia et cura ab Episcopis adhibeatur, ut nihil inordinatum, aut praepostere aut tumultuarie accommodatum, nihil prophanum, nihilque inhonestum appareat, cum domum Dei deceat sanctitudo. Gabriele Paleotti 3, appartenente alla media borghesia bolognese, alla morte del padre compie studi giuridici conseguendo il dottorato in diritto civile il 14 maggio 1546, diviene quindi titolare della catte142 dra di Diritto civile all’Università di Bologna, poi nominato uditore della Sacra Rota Romana. Nel contesto tridentino compone un Diarium conciliare (note quotidiane scritte a matita), custodito gelosamente per secoli dalla famiglia, che ha resistito anche alle pressioni di Paolo V per la consegna all’Archivio Vaticano 4. Consacrato vescovo di Bologna nel 1566, fa il solenne ingresso in città dove è uno dei massimi interpreti della riforma tridentina, in parallelo con l’attività che Carlo Borromeo intraprendeva a Milano. Nel 1577 scrive: Insegnino con cura, i nostri vescovi, che attraverso l’immagine dei misteri della nostra religione, espressa in pittura o con qualunque altro mezzo, il popolo vien istruito e rafforzato nel ricordare e custodire gli articoli della fede. Così da tutte le sacre immagini deriva un gran frutto, non solo perché al popolo vengono fatti presenti i benefici e i doni largitigli dal Cristo, ma anche perché attraverso i santi vengono messi sotto gli occhi dei fedeli i miracoli e i salvifici esempi di Dio, così che essi ne rendano grazie a Dio, impostino la loro vita morale a imitazione dei santi, e siano spronati ad adorare e ad amare Dio e vivere nella pietà. E chi insegnasse in modo contrario a questi decreti, sia condannato 5. Basilare è il suo scritto Discorso intorno alle imagini sacre et profane diviso in cinque libri…, stampato a Bologna nel 1582 6: le edizioni moderne sono dovute a Paola Barocchi 7e Paolo Prodi 8, infine all’edizione critica pubblicata dalla Libreria editrice vaticana nel 2002 9; particolare attenzione alla politica delle immagini è dedicata in apposito volume da Ilaria Bianchi nel 2008 10. Nel capitolo XXIII del suo testo Paleotti commenta: Che le imagini cristiane servono grandemente per ammaestrare il popolo al ben vivere. Il fondamento posto di sopra della similitudine degli oratori e dei libri, per provare il diletto che ci apportano le cristiane imagini, serve ancora al capitolo presente per dimostrare la mirabile loro facoltà ad instruire gli uomini nella disciplina cristiana. La quale è tale e tanta, che in varie cose, secondo la loro proporzione, avanza la industria dei libri; imperoché, se vorremo guardare la commodità, la facilità, la brevità, la stabilità et altre circostanze non picciole che 143 rendono un’opera lodevole, troveremo che nelle imagini ne concorrono molte, che sogliono nei libri essere disiderate. Egli compone il suo trattato avvalendosi dei confronti con intellettuali del periodo da Carlo Borromeo ad Antonio Carafa, gesuiti, filosofi e artisti: suddivide le immagini nelle due categorie di sacre e profane riconoscendovi una funzione importante per la dottrina cristiana, quindi affronta il tema degli abusi; infine sollecita e dà indicazioni nel merito ai parroci, ai pittori, a tutti i luoghi religiosi. Illuminante è il testo di Paolo Prodi Arte e pietà nella chiesa tridentina del 2014, nel quale lo storico ragiona sullo stato degli studi e le relative conseguenze alle indicazioni conciliari sulla rappresentazione delle storie sacre ripercorrendo gli studi sull’iconografia post tridentina 11 e le conseguenze derivate dalle osservazioni del Paleotti, inoltre indaga sulla consapevolezza da parte dell’alto prelato della scarsa attenzione nei confronti delle sue elaborazioni. Nel corso del tempo infatti il bolognese rivede il testo stampato per revisionarlo, arricchirlo di note e osservazioni; diversi anni dopo, compie un sondaggio nell’ambiente ecclesiastico romano ponendosi l’interrogativo sulla verifica della rimozione degli abusi nelle pitture non decorose da parte dei vescovi: infatti successivamente la stampa del volume si rende conto che: […] la sua fatica sarebbe caduta nell’indifferenza generale perché il male era ormai troppo radicato e incancrenito senza che ne fosse presa coscienza nel mondo cattolico 12. Precedentemente in territorio marchigiano la problematica relativa alla rappresentazione delle immagini sacre è trattata nel testo composto da un prelato che a ridosso della conclusione dei lavori conciliari (1564) – quindi ben prima del Paleotti 13 – compone Due dialogi. […]. Nel secondo si ragiona de gli errori de Pittori circa l’historie. Co’ molte annotationi fatte sopra il Giuditio di Michelangelo, e altre figure tanto de la vecchia, quanto de la nova Cappella: et in che modo vogliono esser dipinte le Sacre Immagini 14. Si tratta del fabrianese Giovanni Andrea Gilio, che mai si allontana dalla terra natale essendo canonico della chiesa di San Venanzio; non se ne conosce la data di nascita, mentre si sa che venne a mancare nel 144 1584. Lo troviamo documentato per la prima volta nel 1550 quando a Venezia pubblica 15 un Trattato de la emulatione che il Demonio ha fatta a Dio ne l’adorazione, ne’ sacrificii e ne le altre cose appartenenti alla divinità 16; di seguito si dedica al genere agiografico, di attuali- tà essendo funzionale alla dottrina cristiana attraverso la narrazione delle vite esemplari dei santi. Lo scritto sugli errori dei pittori si mostra tradizionalista attraverso una requisitoria contro gli “abusi” che elenca: egli fa riferimento al decoro come adesione al testo sacro raccomandando l’illustrazione delle storie sacre ricostruite filologicamente per potere rendere evidente il fine morale della pittura religiosa. Pietro Zampetti riteneva che il suo testo avesse determinato una riflessione negli artisti attivi nelle Marche dove: [ ] la pittura si orienta verso espressioni di semplicità, quasi un invito all’innocenza delle origini, del resto implicito nello stesso ragionamento del Gilio 17. Ciò che viene ribadito e sottolineato dal Gilio è l’esigenza del decorum, in particolare come adesione al testo sacro: egli si inserisce nel dibattito relativo al Giudizio finale di Michelangelo, come recita il titolo del suo secondo libro, ma prima ancora, tra gli altri, leggiamo il commento sul Cristo flagellato dipinto da Sebastiano del Piombo nella chiesa di San Pietro in Montorio: Conciosia che’l battuto di frate Sebastiano mostra che i flagelli, e le battiture fatte con le sferze di bambagio, e per ischerzo; e non con grosse, e annodate funi, ò con altra cosa peggiore. E con queste dimostrazionj leggieri nissuno imparerà mai a sapere qual fusse l’acerbità del dolore, i scherni, l’afflittioni, le pene, e l’altre miserie grandi 18. Egli intende le immagini quali testi figurati molto fedeli alle scritture e al vero, che ispirino la devozione del fedele. In terra marchigiana emblematico è il dipinto del 1594 di Simone De Magistris 19 realizzato per un’antica chiesa intitolata a Santa Maria della Pietà 20 a San Ginesio ed ora nel museo cittadino [Fig. 1]: la raffigurazione della Pietà tra i Santi Ginesio, Rocco, Sebastiano e Bartolomeo è caratterizzata dalla presenza a terra di strumenti della passione con un cartiglio che esplicita Hec pietas te docet esse 145 Fig. 1 - Simone De Magistris, Pietà tra Santi, San Ginesio, Museo Civico 146 Fig. 2 - Michelangelo Buonarroti, Pietà, Città del vaticano, Basilica di san Pietro pium. La Vergine con in grembo il corpo di Cristo morto cita il soggetto michelangiolesco del gruppo marmoreo della Pietà in Vaticano [Fig. 2] con maggiore adesione al vero, come è stato sottolineato dalla critica 21, poiché non è più la giovane del Buonarroti, ma una matura donna la cui età corrisponde a quella di Maria alla quale venne a mancare un figlio trentatreenne. Pietro Zampetti così definisce il dipinto: […] la Madonna anziana e lacrimosa (non è certo la giovinetta senza tempo della Pietà di Michelangelo a San Pietro) sembra denunciare in Simone un ritorno ad una umanità più vera immersa nelle sofferenze, e con una coscienza viva dei mali del mondo 22. Come si è già indicato, un bersaglio del reazionario Gilio è proprio il Giudizio finale di Michelangelo, d’altra parte attaccato da 147 diversi fronti: quello che sconcertava era lo stravolgimento dello schema iconografico che offriva la visione della fine del mondo e il giudizio divino; l’artista illustra un sistema basato sul caos, sull’incertezza della catastrofe. Egli sa restituire il senso angoscioso della: […] visione del naufragio di un’umanità dolente cui, dopo il crollo degli ultimi rifugi intellettuali e morali, non resta che attendere con trepidazione il compiersi della promessa della ‘resurrezione dei giusti’ 23. Il Giudizio michelangiolesco era alquanto dibattuto, ancora prima che fosse completato, con reazioni contrastanti: chi lo ammirava, chi lo criticava per la presenza dei nudi, per la mancanza di decoro e per errori dottrinali che gli fecero sfiorare l’accusa di eresia. Regnanti Paolo III e Giulio III le contestazioni non ebbero conseguenze, mentre a conclusione del Concilio tridentino si propose di abbattere la composizione, infine vennero ridipinte alcune parti 24 quali le raffigurazioni dei Santi Caterina e Biagio. Ora conosciamo la struttura della versione originale attraverso una copia 25 su tavola del 1550 (180 x 145) di Marcello Venusti 26, conservata alla Galleria di Capodimonte a Napoli, commissionata dal cardinale Alessandro Farnese. Proprio il commento che ne fa il Gilio ci aiuta a comprendere il motivo del rifacimento: Credete voi che in quel giorno San Pietro abbia a mostrar le chiavi, San Bartolomeo la pelle, San Lorenzo la graticola, San Sebastiano le frezze, San Biagio i pettini, Santa Caterina la rota; e altri santi gli strumenti del martirio loro? Per meglio fare le persone ridere, l’ha fatta chinare [santa Caterina] dinanzi a san Biagio con atto poco onesto, il quale, standole sopra coi pettini, par che gli minacci che stia fissa, et ella si rivolta a lui in guisa che dice “che farai?” o simil cosa 27. Mettendo a confronto le due scene – la copia di Venusti e l’originale [Figg. 3-4] – comprendiamo quale sia stato il motivo della contestazione: la figura nuda di Santa Caterina sovrastata da San Biagio piegato dietro di lei. Interessante è la constatazione che diverse opere venissero replicate e copiate in alcuni centri marchigiani: mi piace citare uno 148 dei maggiori rappresentanti della pittura manieristica nato nelle Marche che ebbe grande fortuna non solo a Roma ma anche in Spagna e in Inghilterra, oltre che in tante altre località italiane. Si tratta di Federico Zuccari, del quale va ricordata l’attività all’interno della chiesa dei gesuiti al Collegio romano intitolata alla Madonna annunciata, chiesa distrutta nel 1626 per costruire quella nuova di Sant’Ignazio di Loyola: in una parete a lunettone egli aveva dipinto una Annunciazione con profeti e litanie lauretane con l’aggiunta nei triangoli dell’arco di Adamo ed Eva da parte del fratello Taddeo 28. La decorazione è andata distrutta con l’abbattimento della parete, attualmente nella chiesa di Sant’Ignazio resta il frammento della figura dell’Annunziata trasferito su tela 29; una copia dell’Annunziata viene realizzata da un anonimo ed è ora conservata nella Galleria del cardinale Fesch ad Ajaccio con la paternità zuccaresca, a dimostrazione del successo dell’affresco che per pochi decenni vi rimase visibile 30. Del dipinto vennero realizzate diverse incisioni: nel 1571 da Cornelis Cort (Hoorn 1533-Roma 1578), nel 1572 da Girolamo Olgiati (Venezia, attivo dal 1567 al 1575) e nel 1580 [Fig. 5] da Raffaello Sadeler (Anversa 1570-Praga 1629) 31. Sono state realizzate copie o citazioni dal dipinto nella maggior parte dei casi conosciuto attraverso le citate incisioni 32: un esempio è rappresentato dalla pala della Pinacoteca civica di Fano, proveniente dalla chiesa di Santa Croce, che sviluppa la stessa tematica in verticale, indubbia citazione dall’o149 Fig. 3 - Marcello Venusti, I santi Biagio e Caterina, particolare, Napoli, Museo di Capodimonte Fig. 4 - Michelangelo Buonarroti, Daniele da Volterra, I santi Biagio e Caterina, particolare, Città del Vaticano, Cappella Sistina Fig. 5 - Cornelis Cort, da Federico Zuccari, Annunciazione e litanie, incisione pera zuccaresca ma che, nella quinta architettonica con la cupola in sezione di un grande tempio, rimanda a suggestioni da opere di Pierantonio Palmerini 33. Per meglio segnalare il rapporto della periferia con il centro è da evidenziare il dipinto nella chiesa di Santa Maria dei Servi, il paese natale di Federico Zuccari: il primo altare della navata destra della chiesa sormontato dallo stemma degli Ubaldini è dedicato all’Annunciazione attraverso un dipinto su tela e due monocromi ai lati della mostra d’altare [Fig. 6]. Lo storico Vincenzo Lanciarini aveva collegato la tela al testamento redatto da Orivia Ubaldini nel 1480 la quale dava disposizioni per dotare la locale chiesa di Santa Maria dei Servi di un dipinto con l’Annunciazione: la tela che ci interessa però è stata palesemente realizzata più di un secolo dopo e ripresa da una parte del dipinto di Federico Zuccari della chiesa romana dei gesuiti. Ai lati dell’altare, in basso, sono realizzate a monocromo le figure di due profeti che annunciano la nascita della Vergine: Elia e Davide; Sara Bartolucci ritiene che l’autore, da lei identificato in Girolamo Cialdieri, non abbia ripreso alla lettera la pittura zuccaresca 150 ipotizzando «[…] una stesura indipendente dall’illustre precedente o semplicemente allo spazio limitato, in cui era necessario inserire un testo assai breve» 34. Certamente le incisioni citate sono state buon tramite per il pittore, ancora anonimo, che ha scelto di riprendere la scena centrale del dipinto di Zuccari. Dal centro alla periferia si ritrova ancora una volta l’episodio nel dipinto conservato nella chiesa collegiata di San Ginesio, databile attorno dal 1594 al 1598, datazione resa certa per la presenza dello stemma e del nome di Virginio Vannarelli, podestà di Ripe San Fig. 6 - Anonimo marchigiano, Altare dell’Annunciazione, Sant’Angelo in Vado, Ginesio in quegli anni 35. Nella prima cappella chiesa di santa Maria dei Servi sinistra della cattedrale di San Venanzio di Fabriano è conservato un gruppo ligneo policromo risalente al Seicento, copia della Pietà di Michelangelo e tele raffiguranti 36 il Cristo alla colonna dal corpo piagato [Fig. 7] 37, rispondente pertanto alle osservazioni del cardinale Gilio il quale imponeva di mostrare al fedele con evidenza i segni del martirio di Cristo e dei santi al fine di far comprendere la portata della loro fede, e il Cristo bendato [Fig. 8]: si tratta di due teloni verticali che evidenziano le considerazioni di Federico Zeri, il quale individuava nella ripresa del verticalismo di stampo neo medioevale una delle caratteristiche dell’arte controriformata 38. Giampiero Donnini correttamente sottolinea quanto tali immagini fossero riprese dalla tradizione figurativa romana di tardo Cinquecento, commentando che il Cristo bendato 151 Fig. 7 - Anonimo marchigiano, Cristo alla colonna, Fabriano, cattedrale di san Venanzio Fig. 8 - Anonimo marchigiano, Cristo bendato, Fabriano, cattedrale di san Venanzio 152 «[…] ricalca ai limiti della sovrapponibilità l’analogo soggetto eseguito per la chiesa romana del Gesù da Giuseppe Valeriano» 39: il riferimento è alle decorazioni ideate da Giuseppe Valeriano e dipinte da Gaspare Celio. Valeriano, dopo soggiorni in Spagna e in Portogallo dai quali rientrava nel 1580, entrò a far parte della Compagnia di Gesù che lo spinse a maturare 40 «[…] la formula ‘senza tempo’ che poi ebbe l’ultima definizione negli affreschi eseguiti in collaborazione con Pulzone (Scipione Pulzone da Gaeta) al Gesù di Roma» 41: infatti nella cappella di Santa Maria della Strada egli dipinge le tavole decorate da Pulzone 42. Nella cappella della Passione Valeriano ugualmente idea le composizioni poi dipinte da Gaspare Celio poiché non è interessato tanto all’esecuzione quanto al fatto che la finalità delle pitture rispondano all’intento devozionale: tale dato corrisponde agli scritti di Gabriele Paleotti il quale non dava importanza all’esecuzione di un’opera quanto al suo significato didascalico. Lo stesso Giuseppe Valeriano nella chiesa di San Vito a Recanati lascia una Crocifissione, rientrante anch’essa nei canoni dei dettati controriformati con particolare ispirazione alle forme michelangiolesche e in particolare al disegno che questi aveva realizzato per Vittoria Colonna. Chiaramente la tematica della Crocifissione è previlegiata dagli artisti dell’epoca: si riprendano le considerazioni di Federico Zeri, il quale riteneva Scipione Pulzone e Federico Zuccari consapevoli di realizzare le loro opere sul terreno dell’arte riformata, riscontrando però nell’artista vadese una rigidità disegnativa e accademica. Il pittore di Gaeta nella chiesa oratoriana di Santa Maria in Vallicella realizza una Crocifissione [Fig. 9], palese citazione da quella dipinta da Tiziano per la chiesa di San Domenico di Ancona della fine degli anni cinquanta del Cinquecento [Fig. 10]: in questo caso la periferia è da esempio al centro, certamente attraverso l’opera di un artista quale Tiziano che usa una gamma cromatica quasi simbolica, ripresa da Scipione che ne accentua l’impronta pietistica: «Il dolore della Maddalena diviene così ineffabile languore, tenerissimo ripensamento introverso» 43. A sua volta l’opera di Scipione trova ascolto nelle Marche esistendo già nella chiesa di Santa Croce di Petrignano, ora nel Museo civico di Pievebovigliana, una puntuale ripresa del tema datata 1629. 153 Fig. 10 - Tiziano Vecellio, Crocifissione, Ancona, Pinacoteca Civica Fig. 9 - Scipione Pulzone da Gaeta, Crocifissione, Roma, chiesa di santa Maria in Vallicella L’opera fu realizzata a Roma su commissione di Nicolò Liberato 44 ed è una delle più felici derivazioni dal prototipo originale, di certo non direttamente legata a Pulzone essendo stata realizzata a quarantasei anni di distanza 45, il che fa escludere che si tratti di una sua riedizione rimasta in bottega e licenziata diverso tempo dopo la sua scomparsa. È doveroso citare l’esperienza fabrianese di Orazio Gentileschi e in particolare i dipinti per la Cappella della passione di pertinenza della famiglia Vallemani, nella cattedrale di San Venanzio 46, dove il pittore di origine toscana ha la possibilità, proprio per trovarsi in periferia, di sperimentare un nuovo linguaggio essendo libero da condizionamenti e confronti con artisti attivi a Roma dove tiene bottega. La cappella è decorata da affreschi illustranti la passione di Cristo sulle pareti e sul soffitto, con il dipinto sull’altar maggiore raffigurante la Crocifissione [Fig. 11], anche questo memore sia dell’opera di Tizia154 no che di quella di Scipione Pulzone. Non si hanno le date certe sulla sua attività, copiosa, per Fabriano 47, da circoscrivere nel secondo decennio del Seicento per concludersi certamente nel 1620 48. La critica ha variamente ragionato sugli affreschi nelle pareti della cappella dove viene illustrata la Passione di Cristo, scene quasi contrapposte al tono scuro della pala d’altare con utilizzo di colori chiari memori, se non proprio citazioni, di Masaccio nella cappella Brancacci nella fiorentina chiesa del Carmine. Da un lato il recupero dei valori dell’austerità della pittura del Quattrocento Fig. 11 - Orazio Gentileschi, Crocifissione, è in linea con il clima Fabriano, cattedrale di san Venanzio controriformato, che invita a riferirsi al messaggio nostalgico del cristianesimo primitivo 49, dall’altra la provincia richiede un prodotto meno innovativo, maggiormente ancorato alla tradizione [Fig. 12]; gli stessi affreschi risalenti alla seconda metà del Trecento nella cattedrale dipinti da Allegretto Nuzi possono averlo indirizzato a tale linguaggio. Inoltre Keit Christiansen 50 ha rapportato l’operazione di Gentileschi a quella effettuata da Domenichino ancora una volta nelle Marche con gli affreschi delle Storie della vita della Vergine nella cappella della famiglia Nolfi nel duomo di Fano, con l’obiettivo di 155 Fig. 12 - Orazio Gentileschi, Cattura di Cristo, Fabriano, cattedrale di san Venanzio illustrare gli episodi con una parlata colloquiale tendente ad illustrare una religiosità semplice e domestica. Anche sul versante artistico non esiste cesura tra le elaborazioni del centro e della periferia, risultando spesso le opere realizzate nelle grandi città modelli da elaborare nelle “piccole patrie” che, in alcune occasioni, a loro volta hanno saputo elaborare linguaggi innovativi. 156 1 B. cleri, Le immagini sacre nelle visite pastorali, Ancona 1990. 2 Cfr. L’uomo del Concilio. Il cardinale Giovanni Morone tra Roma e Trento nell’età di Michelangelo, cur. r. pancheri, d. primerano con consulenza scientifica di M. Firpo, Trento 2009. 3 p. prodi, Paleotti, Gabriele, in Dizionario biografico degli italiani, v. 80, Roma 2014. 4 Pubblicato per la prima volta a Londra nel 1842 dall’anglicano Joseph Mendham, quindi a Friburgo nel 1931 a cura di S. merkleora (Concilium Tridentinum. Diariorum, Actorum, Epistularum, tractatuum nova collectio, Diariorum, III,1, pp. 231-762), rappresenta una delle fonti fondamentali per la storia moderna del concilio. 5 G. paleotti, Instructiones Fabricae et Supellectilis ecclesiasticae, Milano 1577. 6 Fu tradotto in latino con il titolo De imaginibus sacris et profanis ... libri quinque, Ingolstadt 1594: Ulisse Aldrovandi aveva consigliato al Paleotti di scrivere il testo in latino affinché fosse accessibile anche fuori d’Italia; infatti a Colonia le copie andarono presto esaurite per essere poi disponibili alla fiera di Francoforte. 7 Rispettivamente nelle pubblicazioni Trattati d’Arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, Roma-Bari 1961, e Scritti d’arte del Cinquecento, Milano, 1971-1977. 8 Stampa anastatica del 1990, Sala Bolognese. 9 Discorso intorno alle immagini sacre e profane 1582 (Monumenta studia instrumenta liturgica). 10 I. Bianchi in La politica delle immagini nell’età della Controriforma. Gabriele Paleotti teorico e committente, Bologna 2008; la studiosa ha condotto ricerche d’archivio, in particolare nell’Archivio privato Isolani dove riscontra momenti di confronto da parte di Paleotti con religiosi sul ruolo delle reliquie o quella del pittore Prospero Fontana, che imputa al mercato e alla committenza la realizzazione di opere non decorose da parte di artisti per sbarcare il lunario. 11 p. prodi, Ricerche sulla teorica delle arti figurative nella riforma cattolica, in id., Arte e pietà nella chiesa tridentina, Bologna 2014, pp. 53-80. 12 Ibid., p.147. 13 Il testo di Paleotti rappresenta «[…] un culmine della trattatistica tridentina, che, superando le incertezze del Gilio, porta alle estreme conseguenze le proprie premesse pragmatistiche contro ogni tradizione di stile, sia essa nel segno del classicismo o del manierismo»: p. Barocchi, Trattati d’arte del Cinquecento cit., nota critica, p. 402. 14 Stampato a Camerino presso Antonio Gioioso con dedica al cardinale Alessandro Farnese, quindi in anastatica con introduzione di Paola Barocchi per Edizioni Scelte, Firenze 1986, è significativo, come ha osservato Federico Zeri (Pittura e controriforma. Alle origini dell’arte “senza tempo”. L’arte senza tempo di Scipione Pulzone da Gaeta, Torino 1970), che il testo sia stato dedicato al 157 Farnese «[…] l’ultima delle grandi figure del Rinascimento e la prima dei nuovi tempi; erede della norma secondo cui suprema misura dell’Universo è la mente umana, ed erede del culto della ragione […]»: Pittura e controriforma cit., p. 46. 15 Tale trattato venne ripubblicato a Venezia nel 1563 per i tipi di Francesco de’ Franceschi. 16 Cfr. m. di monte, Gilio, Giovanni Andrea, in Dizionario biografico degli italiani, v. 54, Roma 2000. 17 p. zampetti, Aspetti della pittura nelle Marche tra Cinque e Seicento, in Giovan Battista Salvi “il Sassoferrato”, Cinisello Balsamo 1990, pp. 11-13. 18 g.a. gilio, Due dialogi, ed. anast. Camerino 1564, intr. P. Barocchi, Firenze 1986, p. 87. 19 Cfr. il lavoro collettaneo coordinato da Pietro Zampetti, Simone De Magistris e i pittori di Caldarola, Camerano 2001, con bibliografia precedente. 20 La chiesa era popolarmente detta “della scopa” per gli strumenti della flagellazione utilizzati dai confratelli dei Flagellanti con sede in quella chiesa, cfr. l. m. armelllini, scheda n. 68 in V. SgarBi (a cura), Simone De Magistris. Un pittore visionario tra Lotto e El Greco, Venezia 2007, p. 250. 21 r. petrangolini, in p. dal poggetto, p. zampetti (a cura), Lorenzo Lotto nelle Marche. Il suo tempo il suo influsso, Firenze 1981, pp. 498-488. 22 zampetti, Simone De Magistris cit., p. 13. 23 P.L. de Vecchi, La cappella sistina, Roma 1999, p. 217. 24 Fu il pittore Daniele da Volterra a essere incaricato di ricoprirne le nudità. 25 Venusti intervenne in alcune parti sostituendo ad esempio il profeta Giona con Dio padre e la colomba dello Spirito santo. 26 Il pittore (1512-1579) ebbe una formazione lombarda che affinò attraverso la conoscenza dell’utilizzo del colore da parte di Sebastiano del Piombo. 27 gilio, Due dialogi cit., p. 106. 28 Per ripercorrere i giudizi da parete dei contemporanei sull’affresco cfr. B. monteVecchi, in B. cleri (a cura), Per Taddeo e Federico Zuccari nelle Marche, Sant’Angelo in Vado 1993, p. 126. 29 Cfr. B. cleri, Federico Barocci e Federico Zuccari. Due botteghe a confronto, in D. tonti, S. Bartolucci (a cura), Zuccari una dinastia di pittori vadesi. Sacro e profano alla maniera degli Zuccari. Taddeo, Federico e Giovampietro Zuccari, Sant’Angelo in Vado 2010, pp. 77-79. 30 Per le notizie sulla raccolta Fesch cfr. l. Vanni, Presenze marchigiane nella collezione del cardinale Joseph Fesch (1763/183), in B. cleri, c. giardini (a cura), L’arte venduta. Mercato, diaspora furti nelle Marche in età moderna e contemporanea, Ancona 2016: l’immagine citata è pubblicata alla pagina 67. 31 Un utile confronto fra le varie incisioni dello stesso tema è possibile coglierlo in a. Fucili in d. tonti, S. Bartolucci (a cura), cit., pp. 194-198. 32 All’interno della nuova chiesa è presente una Annunciazione di Giacomo 158 Courtois, il quale dopo la morte della moglie fece il noviziato presso la casa dei seguiti a Roma; una riproduzione della scena zuccaresca nella sacrestia è realizzata dal fiammingo Pierre de Lattre anch’esso gesuita (monteVecchi, cit., p. 126; C. acidini luchinat, Taddeo e Federico Zuccari fratelli pittori del Cinquecento, Roma 1998, I, p. 264, nota 177 ne segnala ben tre: a Firenze in collezione privata una versione assegnata a Aurelio Lomi; una passata in asta a Berlino nel 1917 e un’altra nei magazzini del museo di Berlino nel 1920). 33 È stata attribuita a Domenico Sacchetta poiché un documento del 1583 certifica che l’artista aveva terminato “una cona” per la chiesa di Santa Croce (cfr. F. BattiStelli, g. Boiani tomBari, Documenti inediti sul pittore Domenico Sacchetta, in “Fano. Notiziario di informazione sui problemi cittadini”, 1984, 4 supplemento, pp. 135-145). 34 S. Bartolucci, L’annuncio nel dettaglio nascosto: l’altare dell’Annunciazione nella chiesa di Santa Maria dei Servi di Sant’Angelo in Vado, in “Arte marchigiana”, 3/2015, p.102. 35 B. monteVecchi, 19. Annunciazione. Felice Damiani (attr.), in cleri, Per Taddeo e Federico Zuccari cit., pp. 160-161. 36 Cfr. a. antonelli, La presenza di Salvator Rosa, in B. cleri, g. donnini (a cura), La cattedrale di Fabriano, Camerano 2003, p. 188. 37 Un riferimento a tale opera è il Cristo alla colonna di Federico Zuccari realizzato dall’artista in più edizioni (per tale tema cfr. B. cleri, Il Cristo alla colonna di Federico Zuccari: originali, copie, repliche, in “Arte marchigiana”, 2/2015, pp. 59-80). 38 Zeri, Pittura e controriforma cit. p 47. 39 g. donnini, Guida alla cattedrale di Fabriano, Urbino 1981, p. 53. 40 La critica ha ipotizzato che l’artista avesse contribuito alla progettazione della stessa chiesa anche perché precedentemente aveva dato il suo contributo alla costruzione di diverse chiese gesuitiche. 41 M. calì, Da Michelangelo all’Escorial. Momenti del dibattito religioso nell’arte del Cinquecento, Torino 1980, p. 290. 42 G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori e architetti, Napoli 1733, p. 79. 43 zeri Pittura e controriforma cit., p. 92. 44 Questi è definito “il fornaio di Petrigano”, si trasferì nel 1619 a Roma dove impiantò un forno che lo rese ricco: non si dimenticò della terra d’origine dove inviò dipinti e donazioni varie fino al 1641 (cfr. M. mazzalupi, Il fornaio di Petrignano, in B. cerrina Ferroni, a. ciuFFetti, m. mazzalupi, (a cura), La Crocifissione di Petrignano. Storia e restauri di una tela del Seicento romano, Pievebovigliana 2009, pp. 31-34. 45 a. marchi, Scipione Pulzone, copia da, 59. Crocifissione, in V. SgarBi, S. papetti (a cura), Meraviglie del Barocco nelle Marche. 1. San Severino e l’alto maceratese, Cinisello Balsamo 2010, p. 250, ricorda altre edizioni del tema a Fabriano, Fermo e Cingoli. 159 46 B. cleri, La Passione di Cristo raccontata da Orazio Gentileschi, in B. cleri, g. donnini (a cura), La cattedrale di Fabriano, cit., pp. 103-115. 47 Il pittore a Fabriano, oltre alla decorazione della cappella della Passione in cattedrale, esegue una Maddalena penitente per l’omonima chiesa, una Madonna del rosario per la chiesa di San Domenico, la Vergine che porge il Bambino a Santa Francesca Romana per la chiesa di Santa Caterina degli Olivetani, il San Carlo Borromeo per la chiesa silvestrina di San Benedetto, un altro San Carlo (in collaborazione con Giovan Francesco Guerrieri?) per la cattedrale. Ci sono da aggiungere le pitture dei Quattro dottori della chiesa San Francesco, andati distrutti (cfr. Istoria di Fabriano del conte Gio: Vecchio De Vecchi, Fabriano, Archivio Storico Comunale, ms. 250, c. 12 v). 48 Il cardinale Bonifacio Bevilacqua inviava il 20 febbraio 1619 una richiesta al duca Francesco Maria II della Rovere presentandogli il pittore disponibile a dipingere la tribuna della chiesa pesarese di Sant’Ubaldo non ottenendo però esito positivo (cfr. g. gronau, Documenti artistici urbinati, Firenze 1936, pp.273-274): ad evidenza l’artista era alla ricerca di nuove committenze dopo avere dato risposta al mercato fabrianese. 49 Cfr. e. Buttari, “Quasi un Bronzino fattosi caravaggesco” Gentileschi nella terra di Gentile, in S. BlaSio (a cura), Marche e Toscana terre di grandi maestri tra Quattro e Seicento, Pisa 2007, p. 239. 50 k. chriStianSen, in k. chriStianSen, J. mann, r. Vodret (a cura), Orazio e Artemisia Gentileschi, Ginevra-Milano 2012, p. 150. 160 Storia locale, nazionale, d’Europa e del mondo. La sfida della ricerca alla memoria collettiva di Giuseppe Ricuperati Mi è capitato di porre questi problemi più volte, partecipando attivamente a un confronto locale, accanto alla collaborazione alla “Rivista storica italiana” e poi a “Studi storici”, essendo stato dall’inizio agli anni Novanta nel comitato scientifico del “Quaderno di storia contemporanea” legato all’Istituto per la storia della Resistenza di Alessandria 1. In una forma più ampia e consapevole ne ho poi parlato in un libro che si intitola Apologia di un mestiere difficile, pubblicato da Laterza nel 2005 2. È un testo che avevo scritto anche perché stavo assumendo la responsabilità della direzione della “Rivista storica italiana”. È facile capire che cosa significa il titolo, che richiama consapevolmente il precedente di Marc Bloch 3. Il sottotitolo precisa le responsabilità etiche e politiche della disciplina e riflette quindi problemi e le tensioni sottese, che hanno direttamente a che fare con il tema. La storia sta infatti attraversando un momento difficile perché il tempo della sua grandezza e della sua stessa fondazione come disciplina non solo universitaria, ma anche scolastica, affonda nell’età delle nazioni e nella trasformazione dell’intellettuale pubblicista del secolo XVIII, dove era stata esemplare l’esperienza di Voltaire 4. Questi, protagonista di molti generi letterari, era, come è noto, autore di un saggio di storia universale, che rovesciava il classico modello di Bossuet 5, legato non solo alla tradizione classica, che qui comprendeva anche il mondo ebraico testimoniato dalla Bibbia, offrendo una visione provvidenzialistica del mondo, con non pochi echi di Agostino e Orosio. Voltaire secolarizzava questa avventura conoscitiva, definendo il proprio testo Essai sur les moeurs, mentre il seguito del titolo richiama le caratteristiche nazionali – facendo di questa svolta laica una chiave di lettura del mondo non solo europeo. Offre quindi 161 un modello che inaugura un progetto di storia del tutto secolare, anticipando quella che oggi è per noi la storia del mondo, allora conosciuta come universale. Mostra anche che questo terreno può essere un’attività redditizia per un pubblicista, lasciando regalmente, ma non senza consapevolezza del distacco, al vescovo gallicano, i tempi dell’antichità e del primo Medioevo, individuando per sé un percorso che comprende la seconda parte del Medioevo e tutta l’età moderna, che per lui è contemporanea e che completerà in altri saggi storici, dal Siècle de Louis XIV 6 alla Storia della Russia da Pietro il grande 7. È un tratto immenso, che significa un confronto con tutte le storiografie succedutesi, dal modello cronachistico medievale, alla grande storiografia politica italiana, non solo Machiavelli e Guicciardini 8 ma anche Sarpi 9. Non mancava un notevole confronto con Michel de Montaigne 10, dai cui saggi aveva tratto la lezione di un concreto relativismo culturale, e con quella storiografia gallicana che rispecchiava l’orrore delle guerre civili, ma anche il ricomporsi nazionale della Francia 11. Non mancavano i grandi storici europei del primo Settecento, da Pietro Giannone 12 a Lodovico Antonio Muratori 13. Ma in questa esperienza pur fondativa della storiografia illuministica la disciplina di Clio non trovava ancora un mestiere specifico. Emergeva semmai un’attitudine interdisciplinare, che ricomponeva lezioni già consolidate dalla filologia, a quanto aveva a che fare con memoria e storia, ma anche con politica e diritto, e in parte, già con le prime intuizioni economiche del mercantilismo. Tale approccio rivelava un pubblicista europeo. Il mestiere dello storico sarebbe in realtà nato come professione specifica e quindi curriculum formativo, rendendo comune a tutti i paesi, ben oltre mezzo secolo più tardi, un modello professionale individuato da protagonisti giganteschi, legati alle università tedesche, frutto di uno spazio che connetteva queste all’insegnamento della storia non solo nelle sedi accademiche più prestigiose, ma anche con la scuola dello stato nazione. Il passaggio dal pubblicista onnivoro e dominato da una curiositas che presupponeva una circolazione aperta e senza confini, con un solo vero interlocutore che era la pubblica opinione, al mestiere di storico, significa un progresso che eliminava gran parte dei dilettanti, ma che condizionava all’apologia implicita dello stato nazione al quale si era non solo legati, ma anche formati e selezionati con 162 rigide e difficili prove. Spesso il passato diventava una metafora per il presente e il futuro. In complesso si diffondeva il modello seminariale tedesco. È in ogni caso difficile sottrarsi alla coscienza che la professionalizzazione abbia aumentato la qualità scientifica e l’uso di criteri comuni, dove forse lo spazio della fantasia non era ridotto, ma certo più controllato in una formazione in cui la conoscenza storica e la sua stessa scrittura appaiono comuni ad altre discipline, a loro volta sempre più tese a darsi una forma interpretativa critica, dalla filosofia alla filologia, alla geografia, al diritto, all’economia. La storia dei professori universitari non ha solo il pubblico degli studenti, ma cerca di conquistare anche quello dello spazio pubblicistico come del resto aveva anticipato Kant, definendo l’Aufklärung. Inoltre ha un interlocutore specifico nella misura in cui forma i docenti della scuola secondaria anche in questo campo. Fioriscono i grandi manuali che insegnano come si fa ricerca e poi si scrive la storia, dove per gran parte del XIX secolo è il modello tedesco a dominare, dettato da Johann Gustav Droysen 14, ma consolidato come ricerca da Leopold Ranke 15. Dopo un lungo tratto imitativo, solo negli ultimi decenni del secolo altri stati nazione cercano di creare propri modelli di storia adatti al loro passato, ma anche a preparare il futuro. Una rete di riviste storiche nazionali documenta l’estensione della professionalità specifica, non priva di competizioni e di confronti. In questo senso i paesi con tradizioni coloniali si sarebbero attrezzati più di altri a elaborare non solo storie nazionali ma anche del mondo, come per esempio è il caso dell’Inghilterra, che già nel primo Settecento aveva elaborato una prima ampia Universal History 16, ripresa in Italia, Germania, Olanda e poi Francia, non a caso conclusa mentre stava iniziando la crisi delle colonie americane e il loro definitivo distacco. Alla fine dell’Ottocento la stessa Inghilterra offriva al mondo la Cambridge History of the World, progettata e voluta da Lord Acton 17, destinata a provocare nella Germania storicista e poi in Italia, con Benedetto Croce, una severa critica al modello stesso delle storie universali. Solo il tempo della prima guerra mondiale e la sconfitta degli Imperi avrebbero cancellato per un lungo tratto la supremazia germanica in campo storico, che, attraverso l’Austria imperiale, aveva condizionato una parte dell’Europa centrale 18. All’iniziale supremazia europea si sarebbe contrapposta la ricer163 ca statunitense, che aveva diverse ragioni per occuparsi non solo dei mondi contigui, ma anche delle proprie composite radici europee. A questo punto è utile riprendere almeno in parte il contenuto del mio libro del 2005, per sottolineare come oggi la crisi della storia sia legata allo sfilacciarsi del modello nazionale, allo spostarsi della ricerca creativa e finanziata con mezzi che l’Europa non può permettersi negli Stati Uniti, i quali, a loro volta, hanno perso una parte dell’interesse alle origini europee della loro civiltà, a favore di altri settori come l’Africa e i paesi orientali, per non parlare del mondo sudamericano, che è presente e contiguo anche attraverso l’immigrazione messicana. Un momento magico per gli studi europei in America era stato non a caso il fiorire della ricerca in settori come il Rinascimento, l’Illuminismo e la stessa Rivoluzione francese da fuorusciti italiani, ma soprattutto da grandi intellettuali ebrei tedeschi. Qui si può accennare soltanto al paradosso di un’Europa che ha costruito una vincolante economia monetaria comune, ma senza aver affrontato il problema della creazione di un’immagine collettiva di quello che resta uno spazio residuale degli stati nazione, sempre meno credibili e sempre più in preda a tentazioni di chiusura nel passato, nel mito stesso che reinventare le frontiere possa salvare alcune aree privilegiate dall’emigrazione epocale, un esempio di miopia tragica, del quale la Brexit inglese appare un esempio drammatico e maturato da un pericoloso ricordo di un passato, che ha forse radici nell’antico e ormai tramontato modello coloniale e imperiale. Inoltre va preso atto che l’Europa non a caso non ha ancora un storia condivisa, così come manca di una costituzione, che possa confrontarsi con la ricchezza passata e presente delle storie nazionali. Non significa poco, come limite che nasce da un esile senso della responsabilità collettiva, dalla tendenza di scaricare gli immensi problemi del futuro, compreso quello dell’emigrazione epocale non solo dall’Africa, con la furberia irresponsabile della sottrazione a doveri collettivi che renderebbero affrontabile il problema. E questo avviene in una fase in cui solo una profonda, comune e articolata passione politica europea potrebbe salvarci, dato che tutta l’Europa è profondamente minacciata nei suoi valori fondamentali da un terrorismo versatile e capace di cavalcare una forzata, poco autentica sul terreno testuale del Corano, ma dogmatica visione religiosa che si contrappone ai valori conquistati attraverso secoli di sofferenza, 164 carichi di impulsi dialogici, che consentono di rispettare i diritti individuali, le scelte religiose e politiche come patrimonio condiviso e rispettato. È quanto richiederebbe uno slancio di appartenenza comune, da condividere con tutto l’Occidente, e per l’Europa, almeno quale coscienza che i problemi non possono essere affrontati da una parte, solo perché per ragioni geografiche è la più esposta alle pressioni demografiche di chi sfugge alla violenza, alla guerra, al terrore, alla fame, tutte ragioni che un senso comune umano dovrebbe trovare cogenti e senza scappatoie tragicamente inadeguate e meschine. E qui mi tocca affrontare un tema che va oltre le mie competenze di storico e che rischia di essere dominato da un scelta soggettiva di cittadinanza europea. Ho elencato nel titolo quattro tipi di storia, quella locale, quella nazionale, quella europea e infine quella del mondo. Sarebbe facile pensare che ormai dovremmo occuparci solo della storia dell’Europa e del mondo, come quelle che pongono al futuro i problemi più ampi e significativi. In realtà, nella misura in cui la storia ha un rapporto che è difficile da negare con la memoria, e che, a loro volta, entrambe dialogano con terreni condizionanti come la tradizione, la cultura territoriale, il rapporto con modelli scolastici complessi e ancora nazionali, con le letterature del passato e con quella ormai dialogica che si costruisce in itinere, ogni risposta perentoria ed escludente rischia di cancellare ricchezze che forse sono ancora da esplorare come autentiche caverne di Aladino, in nome di una selezione dogmatica e senza risultati creativi. Prendiamo quella che sembra il terreno più fragile, la storia locale 19, il cui rischio maggiore è che, nel pensarla, prevalgano confini mentali condizionati da una fantasia povera di avventura, considerati in spazi che si percorrono a piedi ogni giorno. Ma questa è di fatto la dimensione in cui gli esseri umani vivono prevalentemente. Ed è inevitabile che il modo più profondo di vivere questo rapporto, che è di contiguità, ma anche di memoria mitica, dal dialetto alla connessioni con la lingua, alle culture locali, comprese le leggende e i miti che li hanno sfiorati, ai monumenti, ai modi di pensare, ai riti religiosi e funerari, alle feste e alle fiere che allargano il territorio, sono tutti legami irrinunciabili e che vanno riportati a una storia come bene comune. Ma per essere tale deve andare oltre alla cronaca, o all’esagerazione degli eventi locali, magari importanti, 165 fino a costituire un patrimonio di racconti condivisi, di mestieri riproposti alla curiosità dei più giovani, anche se ora perduti, fino alle sagre locali di piccole località di montagna, che hanno la sola risorsa del turismo, ma che in questa ritualità costruttiva si ricompongono, provando anche altri momenti, comprese le feste religiose e civili, o i funerali di persone che hanno vissuto intensamente nel territorio facendo parte della sua memoria. Sto scrivendo queste pagine dopo aver partecipato, con mia figlia e i due nipotini, a una di queste celebrazioni, dove la gente riporta in piazza il passato e dove i vecchi spiegano i mestieri che abbiamo perduto, i modi di cucinare, o di lavare con la cenere, ripetendo gesti antichi e ora sacrali. Tutto questo è avvenuto a Vernante, sotto Limone, dove chi ci aveva venduto l’appartamento in cui riusciamo a stare solo d’estate, aveva abbattuto (ma lo abbiamo saputo dopo, quando era fallito) una parte del castello che consentiva agli uomini del Medioevo di controllare un territorio difficile e non privo di conflitti con le altre comunità, compresa Limone, quando per carestie era senza cibo. Il costruttore avrebbe cancellato un segno fondamentale del passato feudale della piccola comunità, per aprire nuove strade alla marcia del cemento. La reazione locale lo costrinse precipitosamente e lavorando anche di notte per ricostruire la parte abbattuta. Non a caso. La nostra strada si chiama via del Castello (o della Turusela, fatta costruire da Pietro Balbo conte di Tenda nel 1260 ). E qui prevalentemente si svolgono i riti di ritorno al passato. Quanto ho dovuto scrivere una storia del Piemonte sabaudo per una geniale Storia d’Italia per regioni e territori curata per la Utet da Giuseppe Galasso, mi sono state utilissime le ricerche su parte di queste comunità di un vecchio prete da tempo scomparso 20, che ha utilizzato bene i fondi parrocchiali, restituendo una dimensione demografica secolare delle comunità vicine, compresa Vernante, che altrimenti avrei ignorato. Il problema della storia locale è tutto nella sua capacità di liberarsi da quella che un mio collega medievista, Giuseppe Sergi, ha definito la retorica della meraviglia o dello stupore, quella che fa raccontare analiticamente una rivolta che coinvolge il territorio, senza rendersi conto che sulla strada che porta alla capitale gli stessi eventi si ripetono e si moltiplicano. Mi riferisco a momenti conflittuali che contrapponevano le province alla capitale. Qui parlo di Torino 21 e 166 quindi di tempi lontani, ma non troppo, sull’onda della Rivoluzione francese. Ciò che lo storico locale non sapeva cogliere era che eventi del tutto simili avvenivano con una logica che non a caso si dilatava sulle vie di comunicazione ed era spesso una risposta atavica a una fame collettiva, che rendeva ostili le comunità di montagna, contro quelle più basse, che popolavano colline, dove la meliga da polenta era oggetto di contesa e sopravvivenza, e contro le stesse pianure, ricche di grano, che, a loro volta, tendevano ad affamare la capitale, trattenendolo in loco per i bisogni essenziali. L’isolamento di un fatto pur significativo appare in questo eloquente esempio, un cattivo servizio di rievocazione perché lo vede nella sua unicità povera, mentre è legato a molteplicità che gli consegnano un senso storico più ampio. Sono molte le comunità che hanno ritrovato una loro storia corretta nei tempi e negli spazi, ma soprattutto nel nesso con storie più vaste e spesso non solo locali, attraverso tesi di laurea, che nascevano da una passione iniziale talvolta ingenuamente locale, ma poi raffinata dai docenti universitari, che hanno costretto la memoria locale a raffinarli con modelli di ricerca consolidati e non solo italiani. Da questo punto di vista, per quanto riguarda il Piemonte, è sempre da consultare il vecchio lavoro erudito di Goffredo Casalis, che, nel tratto carloalbertino della storia sabauda, ha restituito una secca, ma competente identità a tutte le comunità del Piemonte 22, raccontandone in breve le vicende feudali, i modelli amministrativi, la produzione locale, con criteri almeno confrontabili e legati a una vasta rete d’informatori. Parte di questi dati talvolta erano già al centro, negli archivi torinesi, raccolti da inchieste territoriali fornite dagli intendenti settecenteschi, a loro volta spinti a dare preziose descrizioni dei loro territori da sagaci ministri del tempo di Giambattista Bogino, prezioso collaboratore di Carlo Emanuele III. Il rischio da superare in questa storia locale è quello della memoria troppo stretta, acritica e sottratta ai modelli di ricerca nazionali e internazionali. Ma quante informazioni ci mancherebbero senza quella provvidenziale rete di tesi locali, cui ho accennato, nate da passioni educate e non da semplice identificazione nel proprio ambito ristretto. Per quanto riguarda la storia nazionale è indubbio che essa stessa debba subire un profondo ripensamento, nel senso che l’esistenza 167 dell’Europa come realtà, ma soprattutto come speranza, rende meno credibili ricerche che abbiano come oggetto esclusivo uno spazio che oggi si colloca in un contesto più ampio. Ha senso solo quando accetta di essere una provincia dell’Europa e più ampiamente del mondo. Come questo processo possa realizzarsi è scelta che passa attraverso diverse possibilità. Per fare alcuni esempi in cui sono stato coinvolto, l’Italia del dopoguerra ha avuto almeno tre storie che meritano di essere considerate. La prima riguarda il progetto in realtà legato alla letteratura, realizzato da Raffaele Mattioli 23 con gli auspici di Benedetto Croce, che fin dall’inizio voleva essere una riflessione memoriale complessa per la repubblica democratica che stava nascendo non solo dalla rovina del Fascismo, che aveva ampiamente manipolato storia e letteratura per crearsi una tradizione, ma soprattutto dalla esperienza della Resistenza e della Liberazione, processo non a caso avvenuto in un contesto non solo europeo, ma mondiale. Offrire all’Italia e al mondo una nuova storia letteraria come coscienza civile e piena offerta di riscatto, ma soprattutto di confronto con il contesto europeo, era già di per sé un’avventura profondamente originale. La grandezza di Mattioli, crociano senza riserve, ma anche senza miti, fu quella di aprirsi a nuove lezioni, compresa quella indiretta, ma condizionante, di Antonio Gramsci 24 e poi al nesso letteraturalingua-tradizione suggerito da Gianfranco Contini e poi da Cesare Segre, come, nel campo della storia, di incontrare la innovatrice lezione di Franco Venturi 25 legato a straordinari collaboratori del grande banchiere, come Ugo La Malfa e Leo Valiani, entrambi del partito d’Azione, ma quest’ultimo legato allo storico dei Lumi dal fuoruscitismo in Francia, come ebreo laico, con radici mitteleuropee. La ripresa di questa avventura – con il passaggio della Ricciardi alla Società dell’Enciclopedia italiana –, come testimonia un recente volume dedicato a Ippolito Nievo 26, testimonia la vitalità perdurante di uno dei grandi progetti di autocoscienza nazionale, un monumento non a caso presente in tutte le grandi biblioteche del mondo. Una seconda avventura è la Storia d’Italia Einaudi 27, nata proprio nel tratto in cui la morte di Mattioli corrispondeva allo sfrangiarsi del progetto di una vita di mecenatismo illuminato e creativo. Va tenuto presente che i due coordinatori dell’avventura torinese 168 erano stati legati al modello francese delle “Annales”. Mi riferisco a Corrado Vivanti e in particolare a quello che era uno dei principali italiani legati a Fernand Braudel, Ruggiero Romano, e quindi intensamente al secondo grande tratto delle “Annales”, sulle tracce di una storiografia fondata da Lucien Febvre e Marc Bloch, quest’ultimo fucilato a Lione come resistente francese. Era quindi fin dalle radici un’opera dalle ambizioni europee, come mostra non solo il diretto coinvolgimento di Braudel, accanto a Venturi sul tema dei viaggi, il dialogo con una storiografia che avrebbe sperimentato con intelligenza il trasferimento creativo dei modelli internazionali, confrontandosi con quanto di più originale esisteva in Italia, da Franco Venturi, a Giuseppe Galasso, a Carlo Ginzburg, per indicare tre diverse generazioni strettamente connesse e insieme diverse Le anime culturali di questa impresa erano decisamente insieme europee e nazionali. E non a caso sarebbe stata seguita da una notevole Letteratura italiana 28, il dialogo fra specialisti di letteratura e storici era stato particolarmente intenso. Il terzo progetto è quello coordinato per la Utet di Torino da Giuseppe Galasso 29. Questi aveva offerto un volume d’apertura, che resta una grande scrittura di riferimento, che va decisamente oltre le ipotesi di un Maestro postumo come Benedetto Croce, che Galasso non ha mai dimenticato, partecipando all’edizione delle sue opere più significative. Su un punto la divergenza era inevitabile. Croce aveva perentoriamente stabilito che la storia d’Italia si poteva scrivere solo dal 1861, mentre Galasso proponeva di scavare nei compositi territori, che avevano dato anima alle regioni, le vere radici di una storia italiana di lunga costruzione, fatta anche dalla auto-percezione identitaria e dalla cultura e lingua comuni. Galasso quindi connetteva la storia degli antichi territori alla futura unità, costruendo insieme una storia della nazione e delle stesse regioni, spesso, come quella di Napoli, dalla dimensione internazionale, con profondi e inevitabili intrecci alla storia europea e mondiale, che non passava solo attraverso il confronto con i modelli storiografici, ma anche attraverso le diverse presenze di conquistatori stranieri, i quali avrebbero però consegnato agli spazi italiani diverse ricchezze, che andavano dalla vita materiale, come il cibo, alla storia politica ed economica, fatta di dominio, sfruttamento e inevitabile trasferimento di modelli, dalla letteratura alla linguistica. Ho citato solo le 169 opere collettive di maggior rilievo che rendevano invecchiate, anche se non del tutto inutili, le storie nazionali precedenti, spesso condizionate dal Regime. La casa editrice Einaudi, dopo una lunga crisi, che ha segnato pesantemente la stessa cultura italiana, assorbita dalla Mondadori e quindi connessa ad una delle cordate editoriali che hanno il monopolio del libro, ha tentato anche l’avventura di una Storia d’Europa 30 un terreno complesso e che comunque merita interesse anche per il carattere interdisciplinare di questa storia insieme unitaria e multipla, una sfida coraggiosa non solo al presente ma anche al futuro da costruire, e come diremo infine, anche una storia del mondo. Naturalmente va sottolineato il fatto che ogni progetto del genere non solo nasce su radici che affondano nella creatività e nell’apertura della storiografia italiana a quella del mondo, ma che soprattutto ciascuna avventura di approfondimento ha creato non solo i testi degli autori coinvolti, ma avuto effetti alone su ricerche locali, portando sguardi analitici su spazi che non erano facili da esplorare. È naturalmente impossibile in questa sede valutare i lavori che hanno rinnovato nodi locali significativi nel tempo lungo, dalla religiosità, alla sopravvivenza territoriale delle grandi famiglie aristocratiche, alle istituzioni laiche e religiose, ai comuni, alle stesse città come specchi complessi di relazioni territoriali di incivilimento, ma anche di asservimento e di consumo. È quanto potrei documentare attraverso gli importanti lavori nati sia da collaboratori alla stessa storia del Piemonte come Pierpaolo Merlin e Claudio Rosso, sia per i tre volumi curati da me riguardanti la Storia di Torino in età moderna, studiosi di corte e di burocrazia sabaude. Penso per esempio alle fondamentali ricerche di Lodovica Braida sugli almanacchi piemontesi e poi sui librai del Settecento, ora storica del libro e della stampa di fama internazionale. La storia dei territori minori, dalle piccole città alle comunità contadine, si è naturalmente avvantaggiata da un processo di diffusione magari fin troppo localistica delle sedi universitarie, nate talvolta in spazi che non avevano quella tradizione di materiali bibliografici necessari alla ricerca e quindi costrette ad un affannoso e a volte impossibile aggiornamento. In ogni caso anche le ambizioni locali sbagliate e legate a piccole sedi hanno favorito un nuovo rapporto fra storia internazionale, bibliograficamente più facile da 170 intercettare, e storia locale, come materiali per esercitazioni e tesi. Qui vorrei sottolineare un aspetto che ripropone il nesso fra cultura nazionale e scuola sul terreno della acquisizione storica. Almeno parte della ricerca si trasforma attraverso i nuovi manuali in stereotipi didattici che rinnovano, quando sono frutto di una lettura storiografica corretta, il patrimonio culturale non solo del paese, ma anche di quanti vi arrivano e sono portatori di nuovi modelli, tradizioni, religioni, confronti, che costringono ad andare oltre la storia nazionale e a misurarsi con altre culture, comprese quelle religiose e in particolare oggi con l’Islam. È un terreno che non solo non può essere ignorato per drammatici e contraddittori eventi cui assistiamo, ma anche perché ci sfida a trasformare l’ora di religione cattolica in storia delle religioni. Questo avviene attraverso una sua radicata presenza moderata nei nostri stessi spazi, da favorire, permettendo loro di esercitare in luoghi corretti e non improvvisati i loro culti, se è vero che il confronto culturale è in buona parte un modo di superare non solo le involuzioni sanguinarie ed esclusive, ma per aprire un dialogo che non si limiti ai monoteismi. In questo senso va detto che alcuni buoni manuali scolastici (tra i quali comprendo anche quelli che ho scritto con Frédéric Ieva 31, come sviluppo di una parte del vecchio e fortunato testo delle scuole secondarie, pubblicato dalla Loescher nel 1976, dove il Medioevo era di Rinaldo Comba, allievo di Giovanni Tabacco, e l’età contemporanea di Massimo Salvadori, ripensato ora per l’università e la formazione degli insegnanti) sono ancora forse i contributi più vicini a una storia del mondo scientificamente corretta, ma anche comunicativa. Sono infatti sintesi coerenti ed aperte al dialogo fra discipline, dove la storia si confronta con geografia, antropologia, diritto, differenze culturali e religiose, o stili di civiltà. Proprio perché chi li scrive mette tutto il suo ingegno nel trasformare in stereotipi comunicativi quanto ha ricavato da sterminate letture, che non possono essere solo nazionali, piegate ad un progetto di comunicazione il più aggiornato possibile, e partendo da categorie come spazio e tempo, dilatate al massimo, ma colte nella loro progressiva evoluzione, tali opere, nate con scopo didattico, si avvicinano alle storie del mondo, molto di più di quei tentativi selettivi di trovare argomenti comuni o in evoluzione in tutte le civiltà, dall’agricoltura alle malattie, ai materiali di consumo, che ho avuto 171 occasione di misurare come esempi di ricerca storica sul mondo una decina di anni fa. Del resto la desolante mancanza di scale di misura e confronto e di archivi che consentano uno sguardo universale continua ad essere oggetto di riflessione critica da parte degli storici su questo genere desiderato come terreno per crescere nel futuro, ma difficile da ripercorrere con sicurezze filologiche e documentarie verificabili. Ma il problema oggi si pone nella misura in cui è proprio la mondializzazione che arriva a casa nostra e che coinvolge non solo le scuole di tutti i livelli, ma anche l’università. Tale dato costringe ad un confronto complesso su come sono evolute le storie di altri continenti, sia sul piano politico, economico, culturale, ma anche religioso. E qui la risposta corretta non è quella di rinunciare alla propria profonda appartenenza, che deve diventare patrimonio comune, per una corretta convivenza, ma la scelta di aprire nuovi campi di studio che rendano il meno nazionale possibile la nostra accoglienza e soprattutto imparino da un inevitabile scambio. Questo significa ripensare democraticamente quello che finora avevano avuto occasione di fare solo i paesi coloniali, che non a caso avevano inventato l’orientalismo 32, prima per dominare territori lontani e diversi, poi per continuare a ricordar loro un debito di riconoscenza e di mediazione della loro storia verso il mondo. Fare quest’operazione democraticamente significa ricuperare quel senso positivo della relatività dei modelli e costumi, che ci aveva insegnato precocemente Michel de Montaigne, a trasformare la diversità in oggetto di studio e di dialogo, accettando le possibili alterità come arricchimento e conoscenza, ma ponendo confini e regole. E qui riemerge un problema che avevo cercato di affrontare, sulla scia di grandi maestri, del rapporto fra storia e memoria. È indubbio che la memoria sia un punto di partenza della storia, ma non bisogna dimenticare le differenze e gli antagonismi impliciti. La memoria rischia di creare dei miti e quindi manca di quella responsabilità critica che è invece della storia come si è costruita nel tempo, liberandosi da alcuni vincoli condizionanti, come il potere politico, che la utilizzava per celebrarsi, o quello religioso, che imponeva una differenza invalicabile fra ortodossia ed eterodossia, favorendo una conoscenza ambigua fra le alterità che venivano studiate soprattutto per essere represse. 172 Un libro recente di uno dei maggiori esponenti della storia orale ripropone in modo condizionato dalle competenze dell’autore, ma anche consono ai nostri tempi, il tema affrontato da Jacques Le Goff 33. Mi riferisco a Philippe Joutard 34: il suo libro ha un titolo che rispecchia profondamente la problematicità del rapporto, Histoire et mémoires, conflits et alliance. Joutard è troppo esperto su questo terreno per mettere a caso le parole al singolare e al plurale. Nella sostanza questo titolo dice che la storia è una, mentre le memorie sono tante e, se suscitano conflitti, creano anche la condizione di una nuova alleanza con la prima. Il vero obiettivo del libro è però quello di inserire la storia orale all’interno del rapporto fra storia e memoria. Ma non solo è utile tutta la ricostruzione del dibattito teorico, affrontato compiutamente da Le Goff, per arrivare alla grande opera di Pierre Nora sui luoghi della memoria, ma anche la solida premessa che, partendo dai dati quantitativi riguardanti la presenza delle voci memoria e archivio della memoria, nota che la prima sfiora le ottanta mila citazioni su Facebook, superandole con la seconda voce 35. Non a caso riaffronta, a partire da una celebre definizione di Pierre Bayle, uomo che apre l’Illuminismo come dialogo internazionale, la condizione ideale per essere autentici storici: affermare la propria estraneità alle passioni politiche e religiose, non avere né partito, né sovrano, assicurando al proprio lettore la totale indipendenza di giudizio 36. Non è forse del tutto vero che la stessa storia orale assicuri questa totale indipendenza da nuovi possibili condizionamenti. Diventa in ogni caso interessante quando consente di rintracciare quanto viene espulso dalla memoria collettiva e quanto invece viene animato dalle passioni del ricordo. Per esempio è di notevole interesse il rilievo dato dopo la prima Guerra mondiale alla drammatica nuova e dolorosa avventura delle trincee, che ha segnato più di una generazione, mentre poco significativo appare il ricordo della seconda guerra mondiale nella memoria francese, forse anche perché nasconde una tragica sconfitta, mentre è molto presente, e per ragioni ovvie e complesse, non esclusi i sensi di colpa, la memoria ebraica delle persecuzioni. È forse un peccato che l’autore, guidato dalla fortuna europea e mondiale della storia orale, che è la sua autentica competenza, nella ricostruzione della fortuna del modello dei luoghi della memoria, progetto coordinato da Pierre Nora 37, giustamente molto apprezzato 173 e fondamentale per quanto specifica analiticamente su concetti come repubblica, stato, nazione, territorio francese, trascuri del tutto di citare una importante ripresa dei luoghi della memoria sugli spazi italiani coordinata per l’editore Laterza da Mario Isnenghi 38. Le uniche avventure italiane considerate sono quella teoricamente solida e di caratura europea di Luisa Passerini a Torino 39 (che, come lo stesso Joutard per la Francia, è stata la protagonista italiana in questo settore) e Il mondo dei vinti di Nuto Revelli 40. Il contributo del Francese è comunque il più recente confronto sul rapporto storia e memoria, non a caso attento a quanto è avvenuto su questo terreno non solo in Gran Bretagna, che è un po’ la patria della storia orale, ma anche negli Stati Uniti, che precedono entrambi la Francia, anche se l’autore mostra come dalla fine dell’Ottocento non manchino nella ricerca positivistica utili prodromi a tale forma di conoscenza che avrebbe coinvolto non solo la storia orale, ma anche l’antropologia e la sociologia. È un libro ricchissimo, che spazia dalla storiografia alle letterature, oltre alle scienze sociali che si sono dette, su un tempo che comprende parte del secolo precedente e molto di questo, costituendo non solo un esempio di storia della storiografia di un genere, del quale ci restituisce il respiro internazionale, ma anche confrontandosi con quel modello di Egohistory 41, non a caso strettamente legato alla proposta di Nora, anche qui protagonista, avendo dato il nome a un genere da lui sollecitato come autoriflessione degli storici. Può essere interessante confrontarlo per intensità al grande e coraggioso libro di Roger Chartier, Au bord de la falaise. L’histoire entre certitudes et inquiétude 42, bilancio non solo soggettivo di una scuola multipla, e ormai a più generazioni, come quella delle “Annales”, e insieme rivelazione di un itinerario critico che rivaluta Febvre, rispetto allo stesso Bloch, consapevole di alcune conquiste, ma anche di possibili incertezze che la falaise richiama drammaticamente. Joutard ha forse meno dubbi, collocando il proprio itinerario in un contesto ugualmente internazionale e di confronto. L’autore riporta correttamente anche le obiezioni al modello di grandi storici, a partire da Pierre Goubert, e ad altri protagonisti, fino a pensare che la resistenza a questo modello di storia sia solo francese, cosa forse non vera. Attraverso un percorso che ricostruisce il possibile definirsi della memoria collettiva con le sue diverse pieghe, l’autore consente di rintracciare quanto viene 174 espulso da questa e quanto viene invece animato dalle passioni del ricordo. In ogni caso è un libro non solo da leggere attentamente, ma anche da ammirare per il coraggio sfidante, dopo Le Goff e Nora, di una nuova lettura del secolo incipiente del tema storia e memoria. Devo confessare con un certo orgoglio che gran parte dei suoi temi generali sono presenti ed erano già stati individuati nel mio libro del 2005, che non solo utilizzava autori come Le Goff e Nora, ma si misurava con i grandi problemi teorici che emergono dall’opera di Paul Ricoeur 43 e con le analisi di Harald Weinrich su Lete, oblio e tempo. Mi è grato concludere questo testo, che inevitabilmente si proietta su una frontiera del presente, concludendo sull’ultimo modello con l’importate segnalazione di un volume di Wolfgang Reinhard, grande studioso del colonialismo e dello stato moderno (entrambi libri noti e tradotti per il pubblico italiano, il primo da Einaudi nel 2002 e il secondo dal Mulino nel 2010) ma ancora più recentemente curatore del terzo volume della Storia del mondo Einaudi, progettata in sei volumi. Il III, Imperi e oceani (1350-1750), è a sua cura, Torino, Einaudi, 2016, ma coinvolge studiosi come il giapponese Akira Irye, esperto di relazioni internazionali e recentemente autore di The Human Rights Revolution, con Petra Goedde e William Hitchkock, edito a Oxford nel 2012. Per quanto riguarda tale storia del mondo, nata dalla ancora fertile fucina einaudiana, uno dei curatori accanto a Irye è Jürgen Osterhammel, studioso a sua volta di colonialismo e di storia euro-asiatica, dalla formazione internazionale, docente a Costanza. Il IV e il V sono ancora da uscire, mentre il VI, che conclude l’opera fino ai nostri giorni, era già edito nel 2014 precedendo il III. Ma il volume che voglio segnalare dello stesso Reinhard si intitola Die Unterwerfung der Welt. Globalgeschichte Europäischen Expansion 1415-2015 44. L’Autore va ben oltre i limiti temporali indicati, parlando della capacità di sottomissione (termine che traduce Unterwerfung) di altri spazi, a partire dai Romani ai Vichinghi, per entrare nel tema della modernità europea conquistatrice degli stati coloniali, a partire dai tentativi del Portogallo, della Spagna, e poi dell’Inghilterra, Francia e Olanda, meritando ampiamente, anche per la ricchezza bibliografica mondiale di tale lavoro, il titolo di storia globale. 175 1 Oggi tale rivista è arrivata al LVIII numero e rappresenta un notevole modello di storia locale connesso alla ricerca universitaria e quindi a modelli nazionali e internazionali. 2 Cfr. G. ricuperati, Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia, Laterza, Roma Bari 2005 3 M. Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino 1998. 4 Voltaire, Essai sur les moeurs et l’esprit des nations, Classiques Garnier, Bordas, Paris 1990, voll.2. 5 J.B. BoSSuet, Discours sur l’histoire universelle, Flammarion-Garnier,Paris 1966. Su Bossuet rimando al mio Un canone senza alterità. Jacques Bénigne Bossuet e la storia universale, in La formazione storica dell’alterità. Studi sulla storia della tolleranza nell’età moderna offerti a Antonio Rotondò, promossi da H. méchulan, R.H. popkin, G. ricuperati, L. Simonutti, Olshki, Firenze 2001, voll.3, II, pp.637-678. 6 Voltaire, Le siècle de Louis XIV, Folio Classiques, Paris 2015. Riprende l’edizione a cura di R. Pomeau, il grande biografo di Voltaire, prefazione di N. Cronk. 7 id., Histoire de l’empire de la Russie sous Pierre le Grand. Cfr. l’edizione Oeuvres complètes de Voltaire, a cura di H. maSon, Voltaire Foundation, Oxford 1999. Su queste ultime opere cfr. F. diaz, Voltaire storico, Einaudi, Torino 1958. 8 Cfr. F. BauSi, Tra politica e storia. La riflessione di Garin su Machiavelli e Guicciardini in Eugenio Garin dal Rinascimento all’Illuminismo, a cura di O. catanorchi, V. lepori, Premessa di M. ciliBerto, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2011, atti conv. Firenze 6-8 marzo 2009, pp.124-155. 9 V. FraJeSe, Sarpi scettico. Stato e chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna 1994. 10 Cfr. M. Firpo, La libertà risiede nel dubbio, in “Il sole 24 ore”, n. 195, 7 luglio 2016, recensione a T. gregory, Michel de Montaigne, o della modernità, Edizioni della Normale, Pisa 2016. 11 C. ViVanti, Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Einaudi, Torino 1963 12 G. ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970. Dovrebbe uscire presso La Scuola di Brescia una nuova edizione di tale testo, con poche correzioni formali, ma con un’ampia postfazione che ricostruisce non solo i contesti in cui tale libro è nato, ma che riflette anche sugli sviluppi delle ricerche mie e di altri e di altre studiose, compreso il libro che dovrebbe uscire da Champion nella collana di Antony Mc Kenna nel 2017 sul Giannone, a cura di Gisela Schlüter e mia. 13 S. Bertelli, Erudizione e storia in Lodovico Antonio Muratori, Istituto italiano studi storici, Napoli 1960. Il mio profondo legame con Sergio Bertelli, morto nel 2015, è legato al volume P. giannone, Opere, Ricciardi, Milano-Napoli 1971, che abbiamo curato insieme. 176 14 Cfr. J.G. droySen, Istorica. Lezioni di Enciclopedia e Metodologia della Storia, a cura di L. emery, Ricciardi, Milano-Napoli 1966; cfr. ora le più recenti edizioni di S. caianiello, Guida, Napoli 1994, 2003. 15 Sul ruolo mondiale di Ranke cfr. E. Fueter, Storia della storiografia moderna, traduzione di A. Spinelli, R. Ricciardi, Napoli 1943,1944. Ma cfr. la riedizione Ricciardi, Milano-Napoli 1970. 16 Cfr. il mio “Universal History”: storia di un progetto europeo. Impostori, storici ed editori nella Ancient Part, in “Studi settecenteschi”, 2, anno I, 1981, pp. 7-90. Cfr. anche ivi, G. aBBattiSta,”The Literary Mill”: per una storia editoriale della Universal History (1736-1765), pp. 91-133. Per la Modern Part rimando al mio recente volume Una storia moderna. Le parole di Clio per raccontare il mondo, “Quaderni della “Rivista storica italiana”, ESI, Napoli 2015, pp. 23-41, che riprende i contributi successivi di Abbattista e miei. 17 Cfr ora T. tagliaFerri, La Rivoluzione francese nella “Storia universale del mondo moderno”: Lord Acton, il progetto della prima Cambridge History e le Lectures on the French Revolution, in Tra insegnamento e ricerca. La storia della Rivoluzione francese, Entre enseignement et recherche, L’histoire de la Revolution française, a cura di A.M. rao, Cliopress, Napoli 2015, pp. 379-410. Per un’analisi dell’importante volume rimando alla mia recensione nel. fasc. 3 del 2016 della “Rivista storica italiana”. Sul tema cfr. ancora E. ragionieri, La polemica sulla Weltgeschichte, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1951. 18 J.W. maSon, Il tramonto dell’Impero asburgico, Il Mulino, Bologna 2000. 19 Ho affrontato questi problemi in L’avvenimento e la storia. Le rivolte del luglio 1797 nella crisi dello stato sabaudo, in “Rivista storica italiana”, CIV, 1992, fasc.2, pp.349-424, poi utilizzato come capitolo nel volume P. merlin, C. roSSo, G. Symcox, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, Utet, Torino 1994, VIII, i, Storia d’Italia, diretta da G. galaSSo, della quale si parlerà successivamente. Cfr. anche G. ricuperati, Lo stato sabaudo nel Settecento. Dal trionfo delle burocrazie alla crisi d’Antico regime, Utet, Torino 2001. 20 Cfr. M. riStorto, Vernante, Gribaudo, Cuneo 1972. Dieci anni dopo avrebbe scritto anche una storia di Limone. 21 Cfr. Storia di Torino, Einaudi, Torino, per Accademia delle scienze di Torino, 1998-2002, voll.9. I curatori sono stati G. Sergi, I; R. comBa, II; G. ricuperati, III-IV-V; U. leVra, VI-VII; N. tranFaglia, VIII e IX. Per un bilancio e confronto con le storie di altre città cfr. Storie di città. storie di Torino, Il Mulino, Bologna, per l’Accademia delle scienze di Torino. 22 Sul Casalis e i suoi precedenti cfr. G.P. romagnani, Storiografia e politica culturale nel Piemonte di Carlo Alberto, Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1985, cap. X; id., Il “Dizionario storico-geografico degli stati sardi”: un secolo di progetti da Carena a Casalis, pp.301-339, in “Rivista storica italiana”, 95 1983, pp. 447-498. 177 23 Cfr. ora La casa editrice Riccardo Ricciardi. Cento anni di editoria erudita, a cura di M. Bologna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, che ricostruisce attraverso diversi contributi anche il tratto controllato da Raffaele Mattioli. 24 La bibliografia su Gramsci è ormai indominabile. Mi permetto di rinviare al volume Attualità del pensiero di Antonio Gramsci, che riproduce gli atti del convegno tenutosi presso l’Accademia dei Lincei, svoltosi il 30-31 gennaio 2014, con la partecipazione dei maggiori specialisti, Bardi edizioni, Roma 2015. 25 Cfr. il mio Un laboratorio cosmopolitico. Illuminismo e storia a Torino nel Novecento, ESI, Quaderni della “Rivista storica italiana”, Napoli 2011, ma ora soprattutto la splendida biografia di A. Viarengo, Franco Venturi. Politica e storia nel Novecento, Carocci, Roma 2014. 26 Cfr. I. nieVo, Opere, LVII, ii, La letteratura italiana. Storia e testi, a cura di U.M. oliVieri, Ricciardi, Milano 2015. Non solo ho presentato quest’opera ripresa dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana e coordinata da Carlo Ossola, ma ho partecipato al successivo convegno su Nievo tenutosi all’università di Tor Vergata, con una relazione già consegnata, Le confessioni di un italiano. Ipotesi di relazione sul gioco fra passato del futuro e futuro del passato. 27 L’opera nasce da un progetto comune di Ruggiero Romano e Corrado Vivanti e comprende la serie iniziale di sei volumi in dieci tomi, che percorrono tutta la storia del territorio aprendo importanti finestre sia sulle strutture economiche e sociali, sia su problemi, come testimonia il volume V in due tomi, intitolato Documenti o l’ultimo, ricco di dati statistici, e presentato come Atlante. L’opera, aperta dal volume sui “caratteri originari” del 1972, era stata completata per questa parte nel 1976, ma si è arricchita di due importanti serie, sulle regioni, di cui alcune ancora in preparazione per un totale di venti volumi previsti. La serie più aperta e con avventure conoscitive originali è certamente quella degli Annali, iniziata con il notevole volume. a cura di Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, Dal feudalesimo al capitalismo, del 1978 ed è giunta nel 2011 a 26 tomi. 28 La letteratura italiana era nata su progetto, elaborato da Alberto Asor Rosa con altri. Il primo volume Il letterato e le istituzioni era uscito nel 1982; l’immenso e articolato lavoro collettivo era destinata a chiudersi nel 2000 con due preziosi dizionari degli autori e delle opere 29 Qui rimando al mio Una storia moderna. Le parole di Clio cit., pp. 117 ss. 30 La Storia d’Europa Einaudi è un progetto profondamente internazionale, come rivelano gli ideatori, qui citati per ordine alfabetico, da Perry Anderson, studioso di notevole fama inglese, conoscitore di Antonio Gramsci, a Maurice Aymard, legato alla scuola di Fernand Braudel e che abbiamo giù detto connesso con il progetto di Storia d’Italia, e a Paul Bairoch, mentre gli italiani sono Walter Barberis e Carlo Ginzburg. Significativo è il rovesciamento del comune senso cronologico. Il primo volume, Einaudi, Torino 1993, non accetta le temporalità tradizionali, come rivela lo stesso. titolo, Europa oggi, mentre i successivi, riprendono le scansioni 178 tradizionali, coinvolgendo notevoli studiosi italiani e, prevalentemente, europei. È un’opera in cinque volumi (sei tomi), completata fra il 1993 e il 1996. Il primo coinvolge tutti i curatori, mentre il secondo, dedicato alla preistoria è curata da Jean Guilaine, un importante archeologo francese, e Salvatore Settis; il III, sul Medioevo, dal grande medievista Gherardo Ortalli; il IV, L’età moderna, da Aymard e il V, L’età contemporanea, dal noto studioso belga Paul Bairoch, e da Erich Hobsbawm, legato alla casa editrice da antiche amicizie, edizioni e ambiziosi progetti, come la storia del marxismo. 31 Cfr. G. ricuperati, F. ieVa, Manuale di storia moderna. La prima età moderna (1450-1660) e L’età moderna (1660-1815), 2006-2008, voll. 2. 32 Cfr. E.W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 1995, ma era già stato pubblicato a Torino da Bollati Boringhieri nel 1991. L’edizione inglese dello studioso d’origine palestinese, ma affermatosi negli Stati uniti, risaliva al 1978,e gli aveva dato fama internazionale. 33 J. le goFF, Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982. 34 Tale lavoro di Joutard, noto esperto e teorico della storia orale, è stato pubblicato da La Découverte-Poche, Paris 2013 e ripubblicato nel 2015,edizione che cito. 35 Ibid., pp. 3 ss. 36 Ibid., pp.15-16. 37 P. nora (a cura), Lieux de mémoire, Paris 1984, in tre volumi, a loro volta suddivisi in 6 tomi, a partire dal II, 202. Cfr. il mio Apologia di un mestiere difficile cit., pp.136 ss. In realtà esamino tutte le opere, a partire da Faire de l’histoire, con Le Goff. 38 Cfr. I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, a cura di M. iSnenghi. Laterza, Roma-Bari 2011. 39 L. paSSerini, Storia orale. Vita materiale e cultura materiale delle classi subalterne, Rosemberg e Sellier, Torino 1978, citato più volte a partire da p. 132. 40 Joutard, Histoire et mémoires cit., passim, a partire dalle pagine iniziali 41 Egohistory, a cura di P. Nora, Gallimard, Paris 1987 42 Albin, Paris 1988. 43 Cfr. il mio Apologia di un mestiere difficile cit., su Ricoeur cfr. pp. 143-159; un paragrafo è dedicato a Weinrich e a Ricoeur. 44 Beck, München 2016. 179 Abstract Riccardo Paolo Uguccioni, Riflessioni su tante storie L’occasione prossima del convegno “Storia e piccole patrie. Riflessioni sulla storia locale” è stato il XXV di fondazione della Società pesarese di studi storici, una associazione aperta che si occupa istituzionalmente di ricerca storiografica su Pesaro e il suo territorio. Ma la ragione profonda del convegno è stato il tentativo di ridiscutere un tema sempre controverso, più volte trattato nei decenni scorsi, sempre senza risultati conclusivi: l’autonomia della storia locale, le regole cui soggiace, le relazioni con le diverse professionalità storiografiche, soprattutto il rapporto tra storia locale e storia generale. Reflecting on so many histories The conference on “History and small homelands. Reflections on local history” was a way of marking the 25th anniversary of the foundation of the Società pesarese di studi storici, an open association that as its own mission deals with historiographical research on Pesaro and its surrounding area. The overall aim of the conference was to re-discuss an ever-controversial theme, addressed several times in recent decades but without conclusive results being produced: the independence of local history, the rules governing it, its relations with the various historiographical professions, and especially the relationship between local history and general history. Grado Giovanni Merlo, Il passato, le piccole patrie e la storia Il saggio propone riflessioni relative all’orizzonte culturale in cui si situa ai giorni nostri la ricerca storica in tutte le sue articolazioni, compresa la cosiddetta storia locale. Partendo dalla distinzione tra passato e storia, si sottolinea come la insopprimibile realtà del passato, conoscibile attraverso la documentazione conservatasi, non giustifichi se stessa se non attraverso l’operazione intellettuale il cui risultato noi chiamiamo storia. La realtà del passato-storia è insopprimibile in dipendenza dall’altrettanto insopprimibile storicità del presente, sia nella retrospettiva e cosciente dipendenza dal passato, sia nella prospettica e responsabile prefigurazione del futuro. 181 The past, small homelands and history This paper explores the contemporary cultural context for historical research in all its elaborations, including so-called local history. Starting from the distinction between past and history, the author highlights how the irrepressible reality of the past, knowable through surviving documents, can only be explained through an intellectual operation, whose results we call history. The reality of the past-history is irrepressibly dependent on the equally irrepressible historicity of the present, both in the retrospective, conscious dependence on the past, and in the perspective, responsible prefiguring of the future. Girolamo Allegretti, Topografia, globalità, comparazione. Pratiche di storia dei territori locali La storia locale ha cattiva fama e pessima letteratura. Il noto convegno di Pisa del 1980, muovendo dalla buona intenzione di riabilitarla, finì per legittimare la ‘storia locale’ solo in funzione subordinata, ancillare a una pretesa ‘storia generale’, e sotto stretto controllo di cattedratici e deputati. Allacciandosi alla storiografia delle “Annales” e alle esperienze della English Local History, e nel solco di nuove sensibilità e nuovi metodi, l’A. propone l’adozione di ‘territorio’ come termine più proprio e comprensivo per le varie pratiche di storia locale, e sostiene la necessità che essa – fondandosi su una precisa conoscenza del luogo, sostanziandosi del patrimonio di fonti inesplorate disponibili negli archivi locali – adotti un approccio globale-multidisciplinare e una disposizione mentale comparativa. Topography, globality, comparison. Practices in the history of local areas Local history has a bad reputation and terrible literature. The celebrated conference of Pisa in 1980, starting from the good intention of rehabilitating “local history” actually only justified it as being in a subordinate, auxiliary relationship to purported “general history”, and under the strict control of university professors and deputies. Linking up with the historiography of the Annales and the experience of English local history, and in the wake of new sensibilities and methods, the author proposes ‘territorio’ (local area or region) as the correct and all-embracing term for the various practices of local history, and argues for the need to adopt a global, multidisciplinary approach and a comparative mindset on the basis of accurate knowledge of a specific place, substantiated by the heritage of unexplored sources available in local archives. Roberto Balzani, Storiografia e cicli politici: le alterne relazioni centro/periferia influiscono sulla ricerca? Il saggio si occupa della relazione fra promozione della ricerca a livello locale e ciclo politico. “Ciclo politico” è qui inteso nel senso ampio di indirizzo generale della politica statale italiana (decentramento, accentramento, ecc.), e delle sue 182 ricadute, in termini di risorse disponibili per la ricerca storica. L’autore osserva la debolezza della politica nazionale come elemento di lungo periodo e, viceversa, la maggiore vivacità del contesto locale, ma solo in coincidenza con una fase di ampio decentramento (1970-2000), poi venuta meno a causa della crisi economica e degli eccessi di spesa riscontrati nelle amministrazioni periferiche Historiography and political cycles: do changes in centre-periphery relations influence research? This paper deals with the relationship between the promotion of research and studies at local level and political cycles. Here “political cycle” signifies the general direction in the widest sense of Italian state politics (decentralisation, centralisation, etc.) and its repercussions in terms of resources available for historical research. The weakness of national politics is seen as a long-term factor, whereas the local context is characterised by greater liveliness, albeit only during a period of considerable decentralisation (1970-2000), which then halted due to the economic crisis and the need to curb overspending in peripheral local administrations. Maria Lucia De Nicolò, Società costiere e storiografia marittima Nell’età moderna si assiste alla formazione di società costiere “diffuse”, che gradualmente assumono una prevalente connotazione marittima per tutta una serie di contatti e mutamenti strutturali che portano all’organizzazione e ad un graduale sviluppo dell’impresa finalizzata alla pesca alturiera a strascico. Il monitoraggio di località campione, individuate quale osservatorio privilegiato di indagine, ha dato vita ad esercitazioni storiche su microcosmi rimasti fino ad oggi relegati ai margini della ricerca, quasi del tutto inesplorati, ponendoli come cellule base per una più ampia e circostanziata storia delle comunità costiere del Mediterraneo. Nel panorama della storiografia marittima, relativamente agli studi afferenti alla pesca e al piccolo cabotaggio dal tardo medioevo al tramonto della vela, il monitoraggio sulle realtà locali ha rappresentato un punto di forza, dando la possibilità di far luce sulla comparsa delle principali imbarcazioni delle marineria tradizionale fra Cinque e Seicento, epoca in cui si avvia nel Mediterraneo la pesca a strascico in alto mare. Coastal societies and maritime historiography The Modern age saw the rise of the widespread phenomenon of coastal societies, which gradually assumed a mainly maritime character due to a series of contacts and structural changes that led to the organisation and gradual development of fishing enterprises based on open-sea trawling. Monitoring sample localities, chosen as the best places for the purposes of inquiry, gave rise to historical studies on almost unexplored microcosms, previously relegated to the margins of research. These localities were thus adopted as the basic units of a broader, circumstantiated history of Mediterranean coastal communities. In the world of maritime historio- 183 graphy, as regards studies on fishing and cabotage from the late Middle Ages to the waning of the sailing ship, the monitoring of local communities was particularly useful, making it possible to cast light on the advent of the principal vessels in traditional marine activities in the sixteenth and seventeenth centuries – the age that saw the introduction of open-sea trawling in the Mediterranean. Anna Tonelli, Passioni e sentimenti: i nuovi percorsi per la storia locale Lo studio delle connessioni fra riti ed emozioni non riguarda solo le scienze cognitive, ma può aprire nuove prospettive di ricerca anche per la storia e soprattutto per la storia locale. L’uso politico delle emozioni si è rivelato nel corso dei secoli, e in modo particolare nel Novecento, uno dei mezzi più efficaci per disciplinare comportamenti e costumi, fino a declinare il modello del/la cittadino/a esemplare. Le culture politiche dominanti – cattolica e comunista –, soprattutto in Italia, si caratterizzano per un impegno diffuso diretto alla moderazione degli eccessi e alla condanna delle trasgressioni, individuali e collettive. Dentro tale prospettiva, la politica diventa l’osservatorio più adatto per capire quanto le implicazioni sentimentali siano basilari per la costruzione delle identità, del senso comune, del consenso, anche nelle realtà più piccole che sfruttano i sentimenti come mezzo promozionale e di riconoscimento per tutta la comunità. Passions and sentiments: new pathways for local history The study of the bonds between rites and emotions is not only a subject for the cognitive sciences. It may also open up new research prospects for history, and primarily local history. Over the centuries, and especially in the twentieth century, the political use of emotions has turned out to be one of the most effective means for controlling behaviour and customs, and has even gone so far as to elaborate a model of the exemplary citizen. Particularly in Italy, the dominant political cultures – Catholic and communist – have been characterised by a widespread commitment to curb excesses and condemn individual and collective transgression. From this point of view, politics is the most useful field of study in understanding how emotional implications are of fundamental importance in constructing identity, common sense, and consensus also in smaller communities, which exploit sentiments as the means of promoting and identifying the whole community. Isabella Zanni Rosiello, A proposito di memoria locale “Memoria” e “locale” sono due termini spesso usati in differenziate, ambigue e, talvolta, contraddittorie accezioni. A parere dell’autrice anche sui concetti di “territorio” e di “identità”, in quanto segno di appartenenza a una “comunità”, è opportuno riflettere. Spazi fisici e realtà comunitarie sono segnati da storie diverse e in continua trasformazione. Chi si occupa di storia locale deve pertanto confrontarsi non solo con una variegata pluralità di memorie e di materiali-fonti, ma altresì con 184 le differenziate e non lineari vicende che hanno caratterizzato modi e forme della loro trasmissione-conservazione. A propos of local memory “Memory” and “local” are terms often used in differentiated, ambiguous and at times contradictory definitions. Here it is argued that there is also a need to reflect on the concepts of ‘territorio’ (local area or region) and “identity” as signs of belonging to a “community”. Physical spaces and community situations are characterised by various, continuously changing narratives. Local historians must tackle therefore not only the various forms of memory and materials-sources, but also the differentiated, non-linear events which have characterised the modes and forms of their transmission-preservation. Tommaso di Carpegna Falconieri, Roma antica e il Medioevo: due mitomotori per costruire la storia della nazione e delle piccole patrie tra Risorgimento e Fascismo In questo lavoro si esaminano i modi in cui, dal principio dell’Ottocento alla Seconda guerra mondiale, per costruire l’identità politico-culturale della nazione italiana vennero impiegati temi e simboli desunti dall’età classica e da quella medievale. Il vincolo con i retaggi del passato trovò in Italia modalità di espressione peculiari rispetto alle altre nazioni europee; in particolare, il percorso che viene qui descritto è quello della sempre più chiara gerarchizzazione delle due epoche, interpretate non come contrapposte, bensì integrate. La prima, la classicità romana, andò a significare la nazione nella sua unità e nella sua rinnovata potenza; la seconda, il medioevo, servì invece a raccontare la nazione nella sua costruzione composita a partire dalle prospere città fiorite nel periodo comunale. Tra i molti possibili, due esempi sono emblematici di questo linguaggio politico: il Vittoriano di Roma, in cui la statua della dea Roma campeggia sotto le statue delle maggiori città italiane, che a loro volta fanno da basamento alla statua del re d’Italia, e la scelta di chiamare, durante il Fascismo, rispettivamente “Dux” il capo del governo e “podestà” i capi delle singole amministrazioni comunali. Ancient Rome and the Middle Ages: two “myth-making forces” in constructing the history of the nation and small homelands during the Risorgimento and Fascism This study considers how, from the early nineteenth century to the Second World War, themes and symbols borrowed from Antiquity and the Middle Ages were enlisted to construct the political and cultural identity of the Italian nation. The bond with the legacies of the past in Italy took on peculiar forms compared to other European nations. The development described here reveals an increasingly clear hierarchy of the two periods, interpreted not as opposed but integrated. The first, 185 Classical Rome, was adopted to stand for the nation in terms of unity and refound power; the second, the Middle Ages, was used to narrate a nation and its composite construction, starting from the prosperous cities that flourished in the age of the communes. Among the many possible examples, two are particularly emblematic of this political language: the Vittoriano monument in Rome, with the statue of the deity Roma depicted beneath the statues of the largest Italian cities, which in turn form the base of the statue of the King of Italy; and the choice during the Fascist period to call the head of government Dux and the heads of local communal administrations podestà. Stefano Pivato, Fortuna e sfortuna della storia locale Un tempo la storia aiutava a “diventare grandi”, faceva cioè parte di quelle discipline formative che contribuivano a rendere consapevole il cittadino come parte di una comunità. Oggi, di fronte a una generalizzata smemoratezza, la storia non sembra più assolvere quel compito che ha svolto per secoli. All’inizio degli anni Quaranta Marc Bloch finiva per scrivere un testo base della storiografia contemporanea sul mestiere di storico proprio di fronte alla ingenua domanda del figlio (Papà, dimmi a che cosa serve la storia?). Oggi di fronte alla crisi della storia gli eredi di Marc Bloch rimarrebbero probabilmente muti di fronte a quella domanda posta ormai un secolo fa. The mixed fortunes of local history History was once thought to have helped people to “grow”, i.e. it was one of those formative disciplines that contributed to making citizens aware they were part of a community. Today faced with a widespread amnesia, history no longer seems to fulfil the task that it did for centuries. In the early 1940s Marc Bloch wrote a seminal work for contemporary historiography concerning the craft of the historian, having been inspired by an innocent question raised by his son (“Daddy, what is history for?”). Today, given the crisis in history, Bloch’s heirs would probably remain silent, if they were asked that question from almost a century ago. Carlo Pongetti, Categorie geografiche e storia locale Le relazioni epistemologiche tra storia e geografia sono state al centro di riflessioni reiterate nel corso del XX secolo. Agli approfondimenti teorici si sono accompagnate le ricerche applicate che hanno posto in evidenza l’apporto derivante dallo studio del vicino e dalle indagini a scala locale. Il contributo si sofferma sulla focalizzazione delle categorie di ambiente, paesaggio e regione avvenuta nell’ambito della geografia e sulle convergenze euristiche ed esegetiche che tali categorie hanno favorito nei rapporti con la storia, dando conto delle risultanze di alcune linee di ricerca. 186 Geographical categories and local history The epistemological relations between history and geography was often a topic of reflections in the twentieth century. Theoretical studies were accompanied by applied research highlighting the contribution from the study of local situations and enquiries on a local scale. As well describing the results of some lines of research, this paper dwells on the focus on the categories of environment, landscape and region in the field of geography and the heuristic and exegetic convergences that these categories encouraged in the relations with history. Ercole Sori, Dalla microstoria al microstato, incrociando la storia locale Attraverso la sua esperienza nella fondazione, direzione e consulenza di riviste (“Quaderni storici”, “Storia Urbana”, “Proposte e ricerche”), nonché nella produzione di ricerche e di prodotti editoriali, l’autore ripercorre cinquanta anni di tendenze storiografiche che hanno in qualche modo incrociato la storia locale, con particolare riferimento alla storia delle città, alla demografia storica e alla cosiddetta microstoria. Questa esperienza viene ora spesa nella direzione di un Centro di ricerca presso l’Università di San Marino, nel quale viene affrontata, con aggiornati strumenti analitici, la storia economica, sociale, urbanistica e politica della Repubblica di San Marino. From micro-history to the microstate, by way of local history The author has considerable experience of working on journals (“Quaderni storici”, “Storia Urbana” and “Proposte e ricerche”) as a founder, editor or advisor, and in the production of research studies and other publications. In this paper he reviews fifty years of historical trends that have in some way involved local history, with special reference to the history of cities, historical demography and so-called micro-history. This experience is now being applied to managing a Research Centre at the University of San Marino, where the latest analytical tools are being used to address the economic, social, urban and political history of the Republic of San Marino. Bonita Cleri, Pittura della Controriforma, centro e periferie Il saggio si propone di indagare sul rapporto tra centro e periferia in pittura in un periodo rilevante per le raffigurazioni sacre, quale quello della Riforma cattolica, nel quale si attiva il dibattito sulle immagini sacre e il loro ruolo, come sancito in una delle ultime sessioni del Concilio tridentino. In prima analisi viene evidenziato il ruolo del vescovo di Bologna, Gabriele Paleotti, che nel 1582 dà alle stampe un volume riguardante le immagini sacre e profane; il suo testo era preceduto da quello del fabrianese Giovanni Andrea Gilio relativo al dibattito sul Giudizio finale di Michelangelo e alla problematica legata al decoro e alla finalità didascalica nei dipinti collocati nelle chiese. Vengono prese ad esempio pitture realizzate a Roma e la loro 187 ricaduta nel territorio marchigiano (Sant’Angelo in Vado, San Ginesio, Fabriano, Ancona) attraverso copie e citazioni: dal centro alla periferia. Painting of the Counter-Reformation: centre and peripheries This paper explores the relationship between centre and periphery in painting during the Catholic Reformation. In this important age for sacred images, their significance and role were the subject of debate, as sanctioned by one of the last sessions of the Council of Trent. An initial analysis highlights the part played by the Bishop of Bologna, Gabriele Paleotti, who published a book on sacred and profane images in 1582; this publication was preceded by a book written by Giovanni Andrea Gilio from Fabriano concerning the debate on Michelangelo’s Last Judgement and the issue of decorum and the instructive aims of paintings in churches. Some examples of paintings produced in Rome are considered and their repercussions, through copies and citations, in towns in the Marches (Sant’Angelo in Vado, San Ginesio, Fabriano and Ancona): from the centre to the periphery. Giuseppe Ricuperati, Storia locale, nazionale, d’Europa e del mondo. La sfida della ricerca alla memoria collettiva Il saggio fin dal titolo precisa i suoi obiettivi, colti nel rapporto fra storia locale, storia nazionale e storia del mondo. È un problema che ha radici nel Settecento, ma diventa significativo nel secolo successivo, quando l’Italia cessa di essere un’espressione geografica e diventa una nazione. Ma essere tale, collocata in una Europa dalla lunga storia, pone il problema sia di ciò che precede la nazione, sia lo stretto rapporto con l’Europa e il mondo. Nel Novecento emergono due grandi modelli in parte connessi, quello di Croce e quello di Gramsci. Mentre il primo condiziona la prima metà del secolo, Gramsci domina la seconda, alla quale l’autore appartiene come studioso che ha attraversato i diversi modelli, dando identità non solo ad Alessandria come terra della sua formazione, ma anche a Torino dove con altri ha organizzato una storia della città che resta un modello di ricerca. Il saggio cerca anche le radici delle storie universali, saldamente connesse in una prima fase al colonialismo imperiale inglese e poi al contrasto di modelli francese e, più tardi, tedesco. La versione povera delle storie universali sopravvive nel manuale scolastico, che è ormai non solo storia nazionale o solo europea, ma anche del mondo, sia pur spesso accettando acriticamente l’egemonia occidentale. Local, national, European and world history. The challenge of research to the collective memory As the title suggests, this paper explores the relationship between local, national and world history. The issue is rooted in the eighteenth century but grew in significance in the following century, when Italy ceased to be simply a geographical entity and became a nation. But being a nation, situated in the long history of Europe, 188 raised the problem of what preceded the nation and the development of its close relationship with Europe and the rest of the world. In the twentieth century two partly interconnected theoretical models were produced by Benedetto Croce and Antonio Gramsci, respectively. While Croce influenced the first half of the century, Gramsci dominated the second half, to which the author belongs as a scholar who tried out various models. This led him to give an identity not only to Alessandria as the town of his formative years, but also to Turin, where with other scholars he organised a history of the city that is still a model for research. The paper also seeks the roots of universal histories, initially closely associated with British imperial colonialism and then with the contrasting French and later German models. The poor version of universal histories survives in school textbooks, which now do not concern only national or only European history but also world history, albeit often acritically accepting Western hegemony. 189 Biografia degli autori Girolamo Allegretti. Laureato in lettere classiche. Storico locale. Cofondatore della Società pesarese di studi storici. Ha diretto per vent’anni “Studi montefeltrani” (1989-2009) e “Pesaro città e contà” (1991-2011). Ha ideato e diretto “Costellazione”, collana di agili monografie su ‘luoghi’ e centri minori del comune di Pesaro. I suoi interessi sconfinano su luoghi e territori di Romagna, Toscana e Lazio. Attualmente coordina la collana “Storia dei castelli della Repubblica di San Marino”, giunta all’ottavo volume. È membro del comitato scientifico di “Proposte e ricerche” e del consiglio direttivo del Centro sammarinese di studi storici. Tra i suoi lavori si ricordano contributi sui casanolanti, sulla crisi di fine ‘500, sull’emigrazione stagionale. Roberto Balzani è ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna, dipartimento di Storia Culture Civiltà. È stato preside della facoltà di Conservazione dei Beni culturali dell’Università di Bologna, sede di Ravenna, fra il 2008 e il 2009. È stato sindaco di Forlì fra il 2009 e il 2014. Dal 2015 dirige il Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Bologna. Ha fatto parte del consiglio di amministrazione dell’Ibc Emilia-Romagna sotto la presidenza di Ezio Raimondi e ha collaborato ad alcuni progetti della Scuola normale superiore di Pisa sotto la direzione di Salvatore Settis. I suoi interessi di ricerca riguardano, in particolare, la storia del Risorgimento, dell’amministrazione pubblica e del patrimonio culturale. Fra le pubblicazioni ricordiamo La Romagna (2001, nuova ed. ampliata 2012); Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana (2003); la cura dei Discorsi parlamentari di Giosuè Carducci (2004); L’arte contesa nell’età di Napoleone, Pio VII e Canova (Silvana, 2009); I territori del patrimonio. Dinamiche della patrimonializzazione e culture locali (secoli XVII-XX) (2015). Bonita Cleri. La sua carriera si è svolta su due binari, quello del docente presso l’Università degli studi di Urbino e quello politico dell’amministratore presso il suo Comune (Fermignano) e presso l’Assemblea regionale delle Marche, di cui per cinque anni è stata vicepresidente. Dall’a.a. 2000/2001 è docente di Storia dell’arte moderna e di altri insegnamenti. Fa parte della redazione della rivista dell’Istituto di Storia dell’arte dell’Università di Urbino “Notizie da Palazzo Albani”, degli “Atti 191 e studi” dell’Accademia Raffaello, di cui è membro; della redazione della rivista “Studi pesaresi”, in quanto membro del consiglio direttivo della Società pesarese di studi storici. Ha partecipato a numerosi convegni; mostre e convegni ha inoltre organizzato in prima persona (per es. sugli Zuccari, su Giovanni Santi, su Fra’ Carnevale nella cultura urbinate del XV secolo, su Barocci). È anche presidente del Centro studi Mazzini di Fermignano, di cui dirige l’attività e le collane editoriali. Maria Lucia De Nicolò ha iniziato la sua attività di ricerca a metà degli anni Settanta concentrandosi sull’origine ed evoluzione economica e sociale delle comunità costiere del medio Adriatico e sulla storia delle attività alieutiche nel Mediterraneo nei secoli dell’età moderna. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni e incarichi di direzione scientifica in progetti CE. Dal 1999 ricopre la docenza presso la Scuola di Lettere e Beni Culturali dell’Università degli studi di Bologna (area MSTO02) per Storia del Mediterraneo in età moderna e Storia del Rinascimento. Tommaso di Carpegna Falconieri insegna Storia medievale all’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” e attualmente è presidente della Scuola di Lettere, arti e filosofia di quell’ateneo. Le sue ricerche vertono sulla Storia di Roma, della Chiesa romana e dell’Italia centrale; inoltre indaga il tema generale della testimonianza storica, soprattutto in relazione al falso e all’impostura. Di recente si è occupato dell’uso dell’idea di Medioevo nella cultura politica contemporanea. Tra i suoi numerosi saggi, spesso tradotti in altre lingue, ricordiamo Il clero di Roma nel medioevo (2002), Cola di Rienzo (2002), L’uomo che si credeva re di Francia (2005), Medioevo militante (2011). Grado Giovanni Merlo. Dal 1990 è ordinario di Storia della Chiesa medievale e dei movimenti ereticali presso l’Università di Milano, passando in seguito all’insegnamento di Storia del cristianesimo. Presso l’ateneo milanese ha ricoperto numerosi incarichi e ha fatto parte del senato accademico. È stato inoltre presidente dell’Accademia Tudertina – Centro di studi sulla spiritualità medievale di Todi; dal 1994 è presidente della Società internazionale di studi francescani ed è socio ordinario della Deputazione subalpina di storia patria. Ha partecipato alla vita di numerose riviste, alcune delle quali ha contribuito a fondare; tra l’altro è direttore di “Franciscana. Bollettino della Società internazionale di studi francescani” e membro del comitato scientifico delle riviste “Bollettino della Società di studi valdesi”, “Heresis”, “Studia Picena”, ecc. Dirige la collana “Studi di storia del cristianesimo e delle Chiese cristiane” del dipartimento di Studi storici (medioevo, età moderna, età contemporanea) dell’Università di Milano. Stefano Pivato. Già magnifico rettore dell’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo”, nella stessa Università ha ricoperto la carica di preside della facoltà di 192 Lingue e letterature straniere dal 2000 al 2008, e di coordinatore del dottorato in Storia dei partiti e dei movimenti politici. Ordinario di Storia contemporanea, ha pubblicato fra l’altro La bicicletta e il sol dell’Avvenire. Tempo libero e sport nel socialismo della Belle Epoque (1992); L’era dello sport (1994, tradotto anche in francese); Italia vagabonda. Gli italiani e il tempo libero dall’Ottocento ai nostri giorni (2001, in coll. con Anna Tonelli); La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana (2002), Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia (2005, in coll. con Amoreno Martellini); Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana (2007); Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento (2011), I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda (2013) e Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto rosso e la guerra fredda (2015). È membro del direttivo della Società pesarese di studi storici. Carlo Pongetti. Ricercatore nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università degli studi di Urbino, poi associato di Geografia sociale a Scienze della Formazione dell’Università degli studi di Perugia, quindi professore straordinario nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università degli studi di Macerata, è oggi ordinario di Geografia a Macerata e afferisce al dipartimento di Studi umanistici-Lingue, mediazione, storia, lettere, filosofia. È presidente dell’Accademia georgica di Treia e vicepresidente della Deputazione di storia patria per le Marche. La sua attività di ricerca privilegia lo studio della geografia delle sedi, della geografia della popolazione, della tutela ambientale, della geografia storica e della storia della cartografia. Giuseppe Ricuperati. Docente emerito di Storia moderna presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino, è direttore della “Rivista storica italiana”, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, corrispondente dell’Accademia nazionale dei Lincei. Gran parte dei suoi lavori colgono il nesso fra città, regione, nazione e dimensione europea a partire dal secolo dei Lumi. Studioso di Pietro Giannone, tra i suoi lavori più recenti si ricordano Manuale di Storia moderna (con Frédéric Ieva, due volumi, 2006-2008); L’Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, Lumi (con Dino Carpanetto, 2008); Un laboratorio cosmopolitico. Illuminismo e storia a Torino nel Novecento (2011); Storia della scuola in Italia (2015); Un Piemontese in Europa. Carlo Denina 1731-1813 (2015, con Elena Borgi); Il caso Beccaria. A 250 anni dalla pubblicazione del «Dei delitti e delle pene» (2016, con Vincenzo Ferrante). Ercole Sori. Ha insegnato storia economica presso l’Università Politecnica delle Marche (Ancona). Attualmente dirige il Centro sammarinese di Studi storici presso l’Università di San Marino. Alla storia dell’economia in senso stretto ha affiancato lo studio della sua intersezione con la società e l’ambiente fisico. Studioso dell’emigrazione, è stato relatore a convegni e seminari internazionali su questo tema, da Milano a Sidney, Genova, Lione, Buenos Aires e Montevideo. Ha 193 organizzato il convegno internazionale “Le Marche fuori dalle Marche. Migrazioni interne ed emigrazione all’estero dal XVIII al XX secolo”, di cui ha curato gli atti. Nel 1999 ha organizzato il convegno internazionale “Migrazioni internazionali e piccoli stati. Dalla storia all’attualità”. Nel 2002 ha ricevuto il premio “Iglesias” (Sez. “Ambiente”) per il volume La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, edito dal Mulino. Anna Tonelli è professore di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo”, dove insegna anche Storia del giornalismo e Storia dei sistemi e dei partiti politici, ed è coordinatrice del dottorato in Culture Umanistiche. È direttore scientifico dell’Istituto di Storia contemporanea di Pesaro e Urbino. Fa parte della direzione scientifica di “Storia e problemi contemporanei” e del comitato scientifico della collana di storia contemporanea “Le ragioni di Clio”. È consulente della direzione scientifica de “L’Indice dei libri”. Si occupa di storia culturale e di storia politica e sociale, con un’attenzione particolare verso la mentalità, il costume, la memoria. Fra i suoi libri più recenti, pubblicati per Laterza, Per indegnità morale. Il caso Pasolini nell’Italia del buon costume (2015); Gli irregolari. Amori comunisti al tempo della Guerra fredda (2014); Falce e tortello. Storia politica e sociale delle Feste dell’Unità 1945-2011 (2012). Riccardo Paolo Uguccioni. Cofondatore della Società pesarese di studi storici, di cui è presidente. Già professore a contratto di Storia moderna presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo”, dal 2008 è presidente dell’Ente Olivieri-Biblioteca e Musei Oliveriani; è inoltre deputato della Deputazione di storia patria per le Marche (di cui è stato vicepresidente dal 2010 al 2016), membro dell’Accademia agraria di Pesaro e dell’Accademia Raffaello di Urbino. Ha studiato aspetti di storia politica e sociale dell’Ottocento napoleonico e pontificio, occupandosi fra l’altro di procedura giudiziaria, brigantaggio, censura politica, viabilità, ferrovie, comunità ebraiche, leva militare, ecc., e approfondendo di recente il tema della carboneria. Isabella Zanni Rosiello è stata per oltre un ventennio direttrice dell’Archivio di Stato di Bologna e dell’annessa scuola di Archivistica paleografia e diplomatica. L’intreccio fra archivistica, storia dell’amministrazione e metodologia delle fonti è sempre stato al centro delle sue riflessioni, come testimonia la sua produzione di recensioni, saggi, monografie. Tra le più recenti pubblicazioni Gli archivi tra passato e presente (2005); Gli archivi nella società contemporanea (2009); Il potere degli archivi. Usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea (con Linda Giuva e Stefano Vitali, 2007); I donchisciotte del tavolino. Nei dintorni della burocrazia (2014). È del 2015 il saggio Del linguaggio burocratico, pubblicato nella rivista “Le Carte e la Storia”, del cui comitato scientifico è membro. 194 Indice dei nomi Acidini Luchinat, Cristina, 159 Agnoletti, M., 130 Agostinelli, Sergio, 133 Agostino di Ippona, 16, 61 Aladino, 165 Albertini, Camillo, 49, 131 Aldrovandi, Ulisse, 157 Aleandri, Ireneo, 121 Alfieri, Nereo, 129 Alighieri, Dante, 100 Alippi N.P., 131 Allegretti, Girolamo, 5, 20, 30, 32, 140, 182, 191 Allevi, Febo, 8 Almagià, Roberto, 132 Amato, Giuliano, 36, 38 Ambrogiani, Francesco, 32 Améry, J., 19 Amiani, Pietro Maria, 133 Andreolli, Bruno, 30 Angelini, Werther, 8, 55 Anselmi, Sergio, 8, 9, 7, 22, 24, 30-34, 51-53, 56, 58, 59, 130, 133, 134, 136, 139-141 Antonelli, A., 159 Appadurai, Arjun, 76, 110, 111, 130 Ardali, P., 100 Arena, G., 133 Arfè, Gaetano, 104 Ariès, Philippe, 65 Arisi Rota, A., 65 Aristotele, 47 Aron, Raymond, 10, 11, 18 Asor Rosa, Alberto, 178 Assmann, Aleida, 67 Augusto, Ottaviano, 88, 93 Aymard, Maurice, 179 Baglione, G., 159 Bairoch, Paul, 178, 179 Balbo, Pietro, conte di Tenda, 166 Baldi, Giovanni, 131 Balducci, Enzo, 139 Bandini, marchesi, 121 Balzani, Roberto, 34, 182, 191 Banti, Alberto Maria, 64, 65 Baratta, Mario, 132 Barbarossa, v. Federico I Hohenstaufen Barberis, Walter, 178 Barbieri, G., 132 Barciela Lopez, C., 59 Barocchi, Paola, 143, 157, 158 Barraclough, Geoffrey, 129 Bartolucci, Sara, 150, 158, 159 Bassanini, Franco, 35 Battistelli, Franco, 159 Bausi, F., 176 Bayle, Pierre, 173 Bazzano, N., 98 Beccaria, Cesare, 193 Beccaria, Gabriele, 18 Bedosti, Brunello, 131 Benigno, F., 19, 99 Bentmann, Reinhard, 133 Berlusconi, Silvio, 39, 41 Berque, Augustin, 110, 130 Bertelli, Sergio, 176 Bertolini, Ottorino, 99 195 Bettini, Maurizio, 71, 76 Bevilacqua, Bonifacio, 147, 149 Bianchi, Ilaria, 143, 157 Biasutti, Renato, 119, 132 Bildhauer, B., 100 Bistarelli, Agostino, 8, 9, 97 Blanc, W., 98 Blasio, S., 160 Bloch, Marc, 16, 102, 161, 169, 174, 176, 186 Bobbio, Norberto, 12, 13, 18 Boccaccio, Giovanni, 80 Bogino, Giambattista, 167 Boiani Tombari, G., 159 Bologna, M., 178 Bonacini, Pierpaolo, 30 Bonamini, Domenico, 131 Bonazzoli, Viviana, 140 Bonino, Marco, 58 Bonora, Paola, 134 Bonvini Mazzanti, Marinella, 56 Bordone, R., 98 Borghezio, Mario, 105 Borgi, Elena, 193 Borromeo, Carlo, 143, 144, 160 Bossuet, Jacques Bènigne, 161, 176 Braccesi, L., 96 Braida, Ludovica, 170 Braudel, Fernand, 24, 31, 65, 136, 169, 178 Bravi, Antonio, 115, 131 Brecht, Bertold, 106 Brezzi, Paolo, 7, 9, 21, 30 Brice, C., 98 Brongo, S., 100 Brunello, P., 97, 131 Brusa, C., 133 Buonarroti, Michelangelo, 147, 149, 187, 188 Burke, Peter, 31 Burkhardt, Jacob, 95 Buttari, E., 160 Butti de Lima, Paulo, 8 Cagiano de Azevedo, Michelangelo, 133 Caianiello, S., 177 Calì, M., 159 Calvino, Italo, 74, 75, 77 Cammarano, 82 Camus, Albert, 16 Cantimori, Delio, 72, 74, 77 Capraresi, Giovanni, 87 Caracciolo, Alberto, 8, 22, 27, 31, 33, 52, 98, 112, 130, 135, 136 Carafa, Antonio, 144 Carlo Alberto, re di Sardegna, 84, 98, 177 Carlo VIII, re di Francia, 88 Carozzi, Carlo, 138 Carpanetto, Dino, 193 Carr, Edward, 102 Caruso, Francesco, 105 Casalis, Goffredo, 167, 177 Castagnetti, Andrea, 32 Castelnuovo, E., 97 Castronovo, Valerio, 34, 138 Catanorchi, O., 176 Catolfi, Carla, 133 Cattaneo, Carlo, 97, 138 Cavaciocchi, S., 57 Cavazza, Stefano, 92, 93, 96, 97, 100, 101 Cavezzi, Gabriele, 56, 59 Cecchi, Dante, 8 Cecchinato, Eva, 105 Celio, Gaspare, 153 Cerreti, Claudio, 133 Cevasco, Roberta, 9, 130 Charnitzky, J., 99, 101 Chartier, Roger, 174 Cherubini, Giovanni, 7 Chiamparino, Sergio, 41 Chittolini, Giorgio, 7, 9, 19, 20 Christiansen, Keit, 155, 160 Cialdieri, Girolamo, 150 Ciampi, Carlo Azeglio, 36, 38 Ciani, Mario, 139, 140 Ciliberto, M., 176 Cimabue, 80 Ciotti, Maria, 56, 59, 60 Citarella, F., 133 Ciuffetti, A., 159 Claval, Paul, 130, 134 Cleri, Bonita, 142, 157, 158-160, 187, 191 Colleoni, Bartolomeo, 99 Colonna, Vittoria, 99 Comba, Rinaldo, 171, 177 Contini, Gianfranco, 168 Contini, Giovanni, 70, 76 Coppola, M.R., 98 Corboz, Andrè, 75 Cori, Berardo, 132 Cort, Cornelis, 149, 150 Costazza, A., 19 Courtois, Giacomo, 159 Cracco, Giorgio, 20 Cracco Ruggini, Lellia, 20 Crivellucci, Amedeo, 8 Croce, Benedetto, 163, 168, 169, 188, 189 Croix, Alain, 31 Cronk, N., 176 Crova, C., 98, 99 Cuoco, Vincenzo, 98 Curzi, Sandro, 105 da Barbiano, Alberico, 99 da Giussano, Alberto, 82, 99 da Siena, Caterina, santa, 90 da Vinci, Leonardo, 100 da Volterra, Daniele, 149, 158 D’Acunto, N., 97 Dal Pane, Luigi, 22, 26, 28, 31, 33 Dal Poggetto, Paolo, 158 196 Dalberg-Acton, John, 163, 177 delle Bande nere, Giovanni, 99 Damiano Fonseca, Cosimo, 20 D’Angelo, M., 57 D’Annunzio, Gabriele, 98 Dante, v. Alighieri, Dante D’Arienzo, V., 58-60 d’Assisi, Francesco, santo, 90 De Felice, Renzo, 104 De Francesco, A., 98 De Giorgi, Fulvio, 31, 100 de Lattre, Pierre, 159 De Magistris, Simone, 145, 146, 158 De Martonne, Emmanuel, 149, 158 De Montaigne, Michel, 162, 172, 176 De Nicolò, Marco, 29, 31, 76 De Nicolò, Maria Lucia, 44, 57-60, 183, 192 De Rosa, Gabriele, 21, 104 De Sismondi, Jean-Charles Lèonard Simonde, 80, 97 De Turris, G., 100 De Vecchi, Gio. Vecchio, 160 De Vecchi, Pier Luigi, 158 De Bosis, Francesco, 131 Del Negro, P., 99 del Piombo, Sebastiano, 145 Deledda, Grazia, 99 Della Peruta, Carlo, 138 della Rovere, Francesco Maria II, duca d’Urbino, 160 Denina, Carlo, 193 Di Carpegna Falconieri, Tommaso, 78, 95, 96, 98100, 185, 192 Di Fiore, Laura, 129 Di Méo, Guy, 25, 30, 33, 141 Di Monte, M., 158 Di Nuoscio, E., 19 Di Rienzo, Cola, 192 Di Salvia, B., 58-60 di Savoia, Amedeo VI di (Conte verde), 98 di Savoia-Genova, Maria Adelaide, 99 Di Vittorio, A., 58, 59 Diaz, Armando, 99 Diaz, F., 176 Domenichino, 155 Doneddu, G., 58 Donnini, Giampiero, 151, 159, 160, D’Orsi, Angelo, 18, 19 Droysen, Johann Gustav, 163, 177 Duby, Georges, 62, 65 Dyos, H.J., 140 Einaudi, Giulio, 35 Emery, L., 177 Fabbri, Sileno, 134 Faralli, Aida, 95 Fardon, Richard, 76 Farnese, Alessandro, 148, 157, 158 Farolfi, Bernardino, 31 Febvre, Lucien, 16, 17, 19, 62, 65, 169, 174 Fedele, Pietro, 86, 95, 98, 99 Federico I Hohenstaufen, imperatore, 85, 97 Felice, Costantino, 134 Felicetti, Ferdinando, 58 Fesch, Joseph, cardinale, 149, 158 Filoramo, G., 141 Finberg, Herbert Patrick, Reginald, 22, 27, 30, 33 Fioravanzo, G., 101 Fiori, A., 58 Firpo, Massimo, 157, 176 Flaubert, Gustave, 62, 65 Flores, Marcello, 61, 65 Fontana, Prospero, 157 Fortini, Arnaldo, 100 Foscolo, Ugo, 80, 97 Frajese, V., 176 Francesco, santo, 91 Franzini, E., 19 Frenquellucci, Massimo, 5, 32 Fubini, M., 97 Fucili, A., 158 Fueter, E., 177 Fumagalli, Vito, 20, 23, 30, 31, 141 Gabba, Emilio, 20 Gabrielli, G.A., 132 Galasso, Giuseppe, 166, 169, 177 Gallerano, Nicola, 30 Galli della Loggia, Ernesto, 95 Gallo, Alfonso, 99 Gambi, Lucio, 26, 30, 33, 68, 75, 118, 129, 132, 134, 138, 141 Gangemi, M., 58 Garosci, Aldo, 104 Garzella, G., 58 Gasnier, Thierry, 75 Gasperoni, Michael, 140 Geary, P.J., 95 Geistdoerfer, Aliette, 54 Genovesi, P., 99 Gentile, Emilio, 96, 99 Gentileschi, Artemisia, 160 Gentileschi, Orazio, 154156, 160 Gervasoni, M., 19 Giacomo Zenobi, Bandino, 8, 133 Giacovazzo, Giuseppe, 104 Giannone, Pietro, 162, 176, 193 Giardina, Andrea, 96, 98, 99 Giardini, Claudio, 5, 158 Giarrizzo, Giuseppe, 7 Gilio, Giovanni Andrea, 144, 145, 147, 148, 151, 157, 158, 187, 188 Ginsborg, Paul, 64, 65 Ginzburg, Carlo, 31, 106, 137, 169, 178 197 Gioioso, Antonio, 157 Giona, profeta, 158 Giotto, 80 Girelli, Angela Maria, 24, 32 Giulianelli, Roberto, 58 Giulio Cesare, 100 Giulio III, papa, 148 Giuva, Linda, 194 Goedde, Petra, 175 Gonzaga, Ercole, 142 Goubert, Pierre, 174 Gozi, Giuliano, 139 Gozze, Marcantonio, 49 Gracco, Giorgio, 7, 9 Graffagnini, Augusto, 58 Gramsci, Antonio, 168, 178, 188, 189 Gregory, Tullio, 176 Grendi, Edoardo, 7, 9, 21, 22, 24, 26, 29, 30, 32, 33, 67, 75, 137 Grillo, P., 97 Grimaldi, Giulio, 8 Gronau, G., 160 Guasco, M., 18 Guderzo, Giulio, 21 Guerra, A., 100 Guerrieri, Giovan Francesco, 160 Guerrini, G., 93 Guglielmo I, Kaiser, 84 Guicciardini, Francesco, 176 Guidi, Luigi, 115, 131 Guilaine, Jean, 179 Guyvarc’h, Didier, 31 Halbwach, Maurice, 66, 75 Harlaftis, G., 57 Hartog. François, 73, 77, 95 Hitchkock, William, 175 Hitler, Adolf, 92 Hobsbawm, Eric J., 103 Hoskins, William George, 30 Hundrieser, Emil, 85 Iacono, D., 99 Iannotta, Daniella, 75 Ieva, Frèdèric, 171, 179, 195 Imbellone, A., 98 Irye, Akira, 175 Isnard, Hildebert, 129 Isnenghi, Mario, 95, 174, 179 Izzo, Pasqua, 53, 58, 59 Janz, O., 97 Jedlowski, Paolo, 75 Johnston, Ronald John, 130 Jones, C., 100 Joutard, Philippe, 173, 174, 179 Kant, Immanuel, 75 Klaniczay, G., 95 Kottje, Raymund, 141 La Malfa, Ugo, 168 La Russa, Ignazio, 105 Labate, Sergio, 64, 65 Laffi, Umberto, 20 Lanaro, Paola, 76 Lanciarini, Vincenzo, 150 Lando, Fabio, 132 Lapadula, E., 93 Le Bras, Gabriel, 32 Le Goff, Jacques, 64, 65, 173 Le Roy Ladurie, Emanuel, 29, 33, 130, 137, 141 Ledeen, Michael, 104 Leonardi, Corrado, 130 Leoni, Antonio, 49 Lepori, V., 176 Leuilliot, Paul, 30 Levi, Giovanni, 31, 32, 106, 137 Levra, U., 177 Levron, Jacques, 30 Liberato, Nicolò, 154 Lippi, Andrea, 34 Lombardi, Francesco V., 26, 99 Lombardo, Raffaele, 105 Lomi, Aurelio, 159 lord Acton, v. Dalberg-Acton, John Luzzatto, Gino, 81 Maccagnani, Eugenio, 85, 98 Machiavelli, Nicolò, 162, 176 Macry, Paolo, 30, 75 Magnarelli, Paola, 131 Magris, C., 19 Mai, G., 98 Malatesta Varano, Giovanna, 122 Malatesta, Galeotto, 122 Malatesta, Sigismondo, 122 Mallart i Casamajor, Lluis, 30, 33, 141 Manacorda, Gastone, 104 Manca, C., 58 Mann, J., 160 Manzoni, Alessandro, 22 Maranelli, Carlo, 129 Marchi, A., 159 Marconi, P., 133 Marconis, Robert, 130 Marinangeli, Ugo, 55, 56, 59 Maroni, Gianni, 58 Marrou, Henri-Irenée, 14, 16, 18, 19 Martelli, Claudio, 105 Martellini, Amoreno, 193 Martufi, Roberta, 5 Marzari, Mario, 52, 53 Masaccio, 155 Mason, H., 176 Mason, J.W., 177 Massafra, Angelo, 30, 75 Matania, Edoardo, 86 Mattioli, Raffaele, 168, 178 Mazzalupi, M., 159 Mc Kenna, Antony, 176 Méchulan, H., 176 Medina Lasansky, D., 100 Melloni, Alberto, 100 Mendham, Joseph, 157 Menghini, Giulio, 133 Menocchio, 107 Menozzi, D., 100 Meriggi, Marco, 129 Merkleora, S., 157 Merlin, Pierpaolo, 170, 177 Merlo, Grado Giovanni, 10, 18, 141, 181, 192 198 Merzario, Raul, 137, 141 Miccoli, G., 18 Michelet, Jules, 95 Milani, don Lorenzo, 104 Mineo, E.I., 19 Minghetti, Marco, 127 Mioni, Alberto, 138 Mira, Giuseppe, 55 Molinelli, Raffaele, 8 Momigliano, Arnaldo, 73, 77 Montanari, Massimo, 30 Monteleone, Renato, 30 Montevecchi, Benedetta, 30 Monti, Mario, 41 Moreno, Diego, 33, 130 Morone, Giovanni, 142, 157 Moroni, Marco, 55, 57, 60, 131 Morosini, Modesto, 131 Moschetti, Cesare Maria, 53 Muller, Michael, 133 Mura, P.M., 132 Muratore, Giorgio, 133 Muratori, Ludovico Antonio, 79, 80, 162, 176 Mussolini, Benito, 88, 91, 96, 100 Muzio Attendolo, v. Sforza, Muzio Attendolo Namer, Gèrard, 75 Napolitano, Giorgio, 38, 41 Nepi, G., 59 Nievo, Ippolito, 168, 178 Nolfi, famiglia, 155 Nora, Pierre, 67, 173, 174, 175, 179 Norberg-Schultz, Christian, 110 Novagero, Bernardo, 142 Novaro, Angiolo Silvio, 95, 99 Nuzi, Allegretto, 155 Olgiati, Girolamo, 149 Oppel, Albert, 117 Orazio, Flacco, 88 Orosio, Paolo, 161 Ortalli, Gherardo, 179 Ortolani, Mario, 129, 133 Ossola, Carlo, 178 Osterhammel, Jurgen, 175 Ottaviani, Elisabetta, 58 Ottaviani, Gianni, 58 Paci, Renzo, 8, 31, 59, 136 Paleotti, Gabriele, 142-144, 153, 157, 187, 188 Palermo, L., 58-60 Pallottino, Massimo, 98 Palmerimi, Pierantonio, 150 Pancheri, R., 157 Panfili, Ennio, 55 Pansa, Giampaolo, 105 Paolo III, papa, 148 Paolo V, papa, 143 Papetti, Stefano, 159 Parenzo, Pietro, podestà di Orvieto, 100 Paribeni, Roberto, 99 Pasolini, Pier Paolo, 194 Passerini, Luisa, 174, 179 Patrignani, Giovanna, 5 Pavia, Rosario, 138, 140 Pavone, Claudio, 18 Perali, P., 100 Perfetti, Francesco, 105 Persi, Peris, 131, 132 Perugini, Pietro, don, 114, 115 Pesez, Jean Marie, 32 Petersen, J., 97 Petralia, C., 58 Petrangolini, R., 158 Petrarca, Francesco, 80 Petrucci, A., 141 Pezzolo, L., 99 Phytian-Adams, Charles V., 141 Piccinini, Gilberto, 9 Piercrescenzio (Pietro de’ Crescenzi), 123 Pietro il Grande, zar, 162 Pinna, Mario, 130, 131 Pinto, G., 97 Pio II, papa, 122 Pirani, F., 101 Pivato, Stefano, 30, 95, 102, 186, 192, 193 Platone, 47 Polverari, Alberto, 130 Pompei, Fabrizia, 55 Pongetti, Carlo, 108, 186, 193 Poni, Carlo, 31 Popkin, R.H., 176 Porciani, I., 97, 98 Porena, Filippo, 117 Portelli, Alessandro, 106 Pound, Ezra, 100 Primerano, D., 157 Procacci, Giuliana, 9 Prodi, Paolo, 6, 8, 21, 143, 144, 157 Prodi, Romano, 38 Prosperi, Adriano, 8 Pulzone, Scipione, 153-155, 157, 159, Puncuh, Dino, 7, 21, 30 Quaini, Massimo, 132 Raboni, Giovanni, 65 Raffestin, Claude, 132 Raggio, Osvaldo, 31, 33, 141 Ragionieri, E., 177 Ramella, Franco, 106, 137, 141 Rampazzi, Marita, 75 Ranke, Leopold, 163, 177 Rao, A.M., 177 Reinhard, Wolfgang, 175 Revel, Jacques, 31 Revelli, Nuto, 106, 174 Riall, L., 65 Riccetti, Lucio, 100 Ricci, R., 134 Ricci, Vermiglio, 58 Ricoeur, Paul, 66, 75, 175, 179 Ricuperati, Giuseppe, 19, 161, 176, 179, 188, 193 Ridolfi, M., 97 Riggio, A., 133 Riosa, Alceo, 16, 19 Ristorto, M., 177 Rizzo, Marco, 105 Rocca, Giuseppe, 129 199 Rogari, R., 18 Romagnani, G.P., 177 Romanelli, Raffaele, 76 Romano, M., 93 Romano, Ruggiero, 57, 138, 169, 178 Romeo, Rosario, 104 Roncayolo, Marcel, 32 Rosso, Claudio, 170, 177 Rovelli, Carlo, 18 Rozzi, Renato, 138 Rumor, S., 100 Rusconi, R., 100 Sacchetta, Domenico, 159 Sacconi, Giuseppe, 84 Sadeler, Raffaello, 149 Said, E.W., 179 Salvadori, Massimo, 105, 171 Salvemini, Biagio, 47 Salvemini, Gaetano, 86, 129 Santarelli, Enzo, 8 Sarpi, Paolo, 162, 176 Savini, Francesco, 127 Savoia, casa, 82, 83 Schiera, P., 87 Sciocchetti, Maria Agnese, 55 Sciolla, Loredana, 76 Scuccimarra, L., 99 Secchi, Bernardo, 75 Segre, Cesare, 168 Sereni, Emilio, 33, 118 Sereni, Michele, 5 Sereno Paola, 129 Sergi, Giuseppe, 14, 18, 97, 141, 166, 177 Seripando, Girolamo, 142 Serpieri, Alessandro, 115, 131 Sestan, E., 97 Settis, Salvatore, 96, 179, 193 Sforza, Alessandro, 124 Sforza, Muzio (detto Attendolo), 99 Sgarbi, Vittorio, 158, 159 Shi, D.E., 141 Siegriest, H., 97 Siena, Ludovico, 49 Simonutti, L., 176 Sisto IV, papa, 122 Smith, A.D., 95 Sorba, C., 65, 97 Sori, Ercole, 8, 31, 58, 130, 135, 138, 140, 187, 193 Spaventa, Silvio, 127 Spinelli, A., 177 Spini, Giorgio, 20, 21 Stone, L., 63, 65 Strangio, D., 58 Stucchi, M., 130 Symcox, G., 177 Tabacco, Giovanni, 171 Tagliaferri, T., 177 Tenaglia, Giuliano, 131 Teodora, imperatrice, 84 Tesini, Federica, 51 Tigrino, Vittorio, 9, 32 Tiller, K., 22, 30 Tindall, G.B., 141 Tocci, Giovanni, 24, 32 Tonelli, Anna, 61, 184, 193, 195 Tonti, D., 158 Topolski, Jerzy, 102 Torchiani, F., 100 Torre, Angelo, 32, 33, 70, 75, 111, 129, 130, 133 Tosco, Carlo, 132 Tranfaglia, Nicola, 177 Traverso, Enzo, 75 Troli, Gino, 58, 59 Tuccini, Giona, 96 Ubaldini, famiglia, 150 Ubaldini, Orivia, 150 Uguccioni, Riccardo Paolo, 3, 5, 181, 194 Vaccari, O., 58 Valeriano, Giuseppe, 153 Valerio, Lorenzo, 115 Valiani, Leo, 168 Vallega, Adalberto, 132, 134 Vallemani, famiglia, 154 Vallerani, M., 97 Valli, L., 100 Vannarelli, Virginio, 151 Vanni, L., 158 Vaquero Piñeiro, M., 58 Vassallo, C., 57 Vauchez, André, 96, 98, 99 Vecellio, Tiziano, 154 Venturi, Franco, 168, 169, 178 Venturini, D., 100 Venusti, Marcello, 148, 149, 158 Verdi, Giuseppe, 82 Vernant, Jean Pierre, 65 Vernelli, Carlo, 60 Vespa, Bruno, 105 Viarengo, A., 178 Vidal-Naquet, Pierre, 18 Violante, Cinzio, 20, 21, 23, 30, 31, 33, 76 Virgilio, Marone, 88 Visocchi, P., 133 Vitali, Stefano, 194 Vittorio Emanuele II, re 200 d’Italia, 84 Vittorio Emanuele III, re d’Italia, 91 Vivanti, Corrado, 138, 169, 176, 178 Vodret, R., 160 Voltaire, Arouet Jacques detto, 161, 176 Vovelle, M., 63, 65 Weinrich, Harald, 75, 175, 179 Werner, M., 95 Wimmer, J., 117 Winkler, M., 99 Wolff, M., 140 Yawn, L.E., 100 Zacconi, Ludovico, 49 Zampetti, Pietro, 145, 147, 158 Zangheri, Renato, 28, 30, 33 Zanni Rosiello, Isabella, 66, 184, 194 Zazzini, Z., 131 Zdekauer, Lodovico, 8 Zenobi, Bandino G., 8, 133 Zeri, Federico, 151, 153, 157, 159 Zimmermann, B., 95 Zuccari, Federico, 149-151, 153, 158, 159, 194 Zuccari, Giovampietro, 158 Zuccari, Taddeo, 158, 159 Indice riccardo paolo uguccioni Riflessioni su tante storie 5 grado gioVanni merlo Il passato, le piccole patrie e la storia 10 girolamo allegretti Topografia, globalità, comparazione. Pratiche di storia dei territori locali 20 roBerto Balzani Storiografia e cicli politici. Le alterne relazioni centro/periferia influiscono sulla ricerca? 34 maria lucia de nicolò Società costiere e storiografia marittima 44 anna tonelli Passioni e sentimenti: i nuovi percorsi per la storia locale 61 iSaBella zanni roSiello A proposito di memoria locale 66 tommaSo di carpegna Falconieri Roma antica e il Medioevo: due mitomotori per costruire la storia della nazione e delle “piccole patrie” tra Risorgimento e Fascismo 78 SteFano piVato Fortuna e sfortuna della storia locale 102 carlo pongetti Categorie geografiche e storia locale 108 201 ercole Sori Dalla microstoria al microstato, incrociando la storia locale 135 Bonita cleri Pittura della Controriforma, centro e periferie 142 giuSeppe ricuperati Storia locale, nazionale, d’Europa e del mondo. La sfida della ricerca alla memoria collettiva 161 Abstract 181 Biografia degli autori 191 Indice dei nomi 195 202 Finito di stampare nel mese di Aprile 2017 per conto della casa editrice il lavoro editoriale