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Il drago innamorato

Gabriele d'Annunzio and Eleonora Duse staying in Ravenna 1901: a fictitious piece of biography

23 Il drago innamorato di Maria Rosa Giacon Relais Villa Roncuzzi In una mattina di maggio del 1901, verso mezzogiorno, dal landò che faceva la spola fra la stazioncina e il piccolo centro di San Pancrazio di Romagna, scese una coppia di forestieri. Cittadini di sicuro, e, a giudicare dal loro abbigliamento, turisti davvero speciali, che forse, soggiornando a Ravenna, avevano deciso di visitarne i dintorni. Lei indossava un mantello di seta blu elettrico, sotto il quale s’intravedeva una veste cilestrina, cosparsa di stelle, di motivi vegetali e animali stilizzati. Così ornata, essa poteva anche essere uscita dalle mani di Mariano Fortuny, ma la luida discesa ad ampie pieghe faceva piuttosto pensare alla couture della scuola di Worth. Tutto l’universo, comunque, rivestiva questa donna, che, se non poteva dirsi bella propriamente, era però d’una grazia estrema, quasi non poggiasse in terra ma navigasse per l’aria; il capo, ch’era scoperto (la signora non portava cappello, o meglio lo teneva sottobraccio come una sporta), mostrava un’ala di capelli 317 MARIA ROSA GIACON corvini appena trattenuta in uno chignon, dal quale, a dispetto delle forcine numerose, scendevano, ora qua ora là, ciufi ribelli. E gli occhi... Che mistero quegli occhi! Neri anch’essi e balenanti, per chi li osservasse bene, di un interno vigore o d’una indomabile vitalità, contornati da un’ombra scura o, detta volgarmente, da occhiaie, che però gettavano su quel volto un fascino indicibile. I lineamenti del viso, del resto, erano ini e delicati: naso e bocca ben disegnati ed orecchi piccoli e adesi all’attaccatura del collo. In breve, sprigionava da lei una strana armonia, fatta anche di dissonanze che si ricomponevano senza lasciare traccia di stridore. L’abbigliamento del suo compagno era non solo elegante, addirittura un tantino lezioso: un mantello grigio di lana leggera (che il gentiluomo portava sul braccio) e un completo, grigio anch’esso ma d’una tonalità un po’ più chiara, di ottima manifattura inglese, che ne rivestiva la persona bassa e minuta conferendole la grazia d’un bambolino. A differenza della sua compagna, la chioma era tutt’altro che folta, mostrando larghe chiazze di calvizie che gli lasciavano qua e là il capo scoperto come quello di un infante. Gli occhi, però, bisogna riconoscere ch’erano assai belli: d’un azzurro intenso e scrutatore, lo sguardo d’un bimbo sorpreso dalla bellezza del mondo e insieme d’un ilosofo sagace, sin troppo esperto delle sue brutture; sensuale il taglio del naso e della bocca; bellissime le mani, che non parevano aver mai afferrato alcuno strumento che non fosse qualcosa di molto leggero, come una penna o, tutt’al più, un bastoncino da passeggio. Ne portava uno in effetti, con impugnatu318 IL DRAGO INNAMORATO ra d’argento e avorio, per vezzo certamente, come per vezzo indossava all’occhiello una gardenia che doveva essere stata splendida, ma che cominciava a dare segni di stanchezza. Vi era un gran caldo, infatti, in quel maggio avanzato e il sole, battendo sul capo nudo del gentiluomo, ne faceva luccicare la prorompente calvizie. D’altro canto, per via del calore, portare il cappello (un bellissimo feltro grigio-perla) sarebbe stato un martirio: se lo teneva dunque in mano e con l’altra reggeva una valigia rigonia, che non aveva l’aria d’essere affatto leggera. «Dove potremmo alloggiare, brav’uomo?», chiese Gabriele (tale era il suo nome) al conducente del landò. «Beh, signore», gli rispose costui allungando la mano per la mancia, «non lontano da qui ci sarebbe Villa Roncuzzi, che è un luogo adatto ad accogliere forestieri eleganti come siete voi...», e, ritirando la destra generosamente ricolma, «andate dritti ino al curvone là in fondo e poi a sinistra. Qualche centinaio di metri soltanto e sarete arrivati...». «Attendete, attendete! Fateci risalire!», stava per dirgli la signora (che di nome faceva Eleonora), ma nel breve intervallo tra l’intenzione e la parola l’uomo aveva già dato una frustata alla bestia ed era scomparso lasciandosi dietro un nuvolone di polvere. I due si guardarono un poco smarriti e poi inirono per imboccare lo stradone che, effettivamente, dopo un centinaio di metri descriveva sulla sinistra una gran curva, dalla quale essi proseguirono verso il ristoro agognato. La strada, ahimè, non aveva quasi alberi, e quei pochi che c’erano gettavano un’ombra troppo scarsa per alleviare il calore. Ormai il sudore imperlava loro 319 MARIA ROSA GIACON le fronti e incominciava a rigare anche il volto, quando si ritrovarono, come per incanto, dinnanzi ad un albergo dall’aspetto decoroso, che si comprendeva essere il restauro d’una antica villa padronale. Forse anche d’un convento ravennate fuori mura, chissà. Fatto sta che quell’ostello era circondato da alberi da frutto, vigneti, campi di grano ormai verdeggiante, papaveri e girasoli, dando ai provati forestieri la sensazione d’essere stati all’improvviso ammessi entro i recinti dell’Eden. Eppure, «Villa Roncuzzi» recitava l’insegna. Proprio così! «Oh, che bellezza!», esclamò Eleonora, mentre Gabriele si precipitava al portone, facendovi ricadere con forza il pesante anello di bronzo dorato che portava in cima un mascherone di buona fattura. A breve si sentirono dei passi decisi e però misurati avvicinarsi all’ingresso. E la porta si aprì per mano d’una signora che non pareva per nulla una comune albergatrice, una castellana piuttosto, dotata di certa signorile eleganza, vestita com’era d’una tunica luente il cui rosa pallido poneva in risalto la capigliatura d’un naturale biondo tizianesco, e adorna d’una lunga collana che portava più volte girata intorno al collo lessuoso. Alla vista di quei forestieri, la bocca le si dischiuse in un sorriso ampio e cordiale, che, scoprendo denti bianchissimi, le illuminò l’intero volto lasciando i due come incantati. Entrarono dunque e la gran sala che li accolse li sorprese gradevolmente per il suo ine arredamento. «Ma vedi un po’!», si disse Eleonora, «Una discreta riproduzione Biedermeier... E chi se lo sarebbe aspettato in quest’angolo remoto dal mondo?» E notò che anche Gabriele lanciava occhiate di qua e di là 320 IL DRAGO INNAMORATO con certa stupefazione. «La colazione», annunciò la loro ospite, «si serve dalle 13 ino alle 14, ma per Voi Signori il cuoco potrà allungare i tempi... Cosicché avrete un’oretta per ristorarvi». E, con uno sguardo comprensivo su quei volti imperlati, soggiunse: «Sì! Fa un gran caldo oggi per essere soltanto maggio. E il cammino per arrivare in qui non è tra i più comodi. Il viale che avete imboccato era un tempo iancheggiato da pioppi, che, ve l’assicuro, davano un bel refrigerio, ma c’è stato un incendio e il rimboschimento non ha ancora prodotto i suoi frutti». Ciò detto, vedendoli già un po’ rinfrancati dalla frescura dell’interno, la bella albergatrice li condusse alla loro stanza, che decise di scegliere con cura speciale. Non si trattava certo di clienti qualsiasi... Questo era chiaro come il sole! Forse intellettuali, forse artisti. E la valigia del gentiluomo sembrava esser gonia di libri... Che c’erano venuti a fare a San Pancrazio quei signori? Ma fornita di discrezione, tenne ogni domanda per sé. La camera era un’ampia suite affacciata sul verde degli alberi tutt’intorno. E verde era anch’essa, tappezzata d’un broccatello che riposava l’occhio, e allestita con sobrio gusto. Il letto, cui andò subito lo sguardo del gentiluomo, era sormontato da un breve baldacchino: un leggero velario verdazzurro, che s’armonizzava perfettamente con l’insieme. «Ma guarda, Gabriele!», esclamò Eleonora, «broccato verde come nella tua Capponcina! Certo non è un tessuto altrettanto rafinato, ma comunque...» «Comunque andrà benissimo!», rispose Gabriele serrandola fra le braccia, con una forza davvero impensabile in un omino come lui, e cominciando a 321 MARIA ROSA GIACON districarle le forcine, sino a che l’ala corvina non si sciolse per intero e lui poté insinuarvi le dita sottili e vibranti di passione. «Ma, Gabri», disse lei con voce sommessa in cui l’ardore era frenato dal buon senso, «non sarebbe meglio rinviare a... più tardi?». «Già...» sospirò lui, e si discostò dalla donna desiderata non senza aver prima gettato un’altra occhiata al letto, che, sotto quel velario verdazzurro, prometteva indicibile felicità. Si ristorarono, dunque, e discesero per colazione un’ora dopo. La padrona porse loro la carta sogguardandoli con un sorriso lievemente divertito. Conoscendo lo sgomento dei suoi ospiti davanti alla vasta offerta della sua Maison, già si igurava la reazione di questi forestieri. E difatti, posti innanzi a quella ittissima lista di cibi e di vini, i due trasecolarono, persino Gabriele che era un buongustaio di larga esperienza. E invocarono il suo aiuto. La signora annuì col medesimo sorriso e a breve fu di ritorno con una zuppiera di brodo fumante. «Zuppa santé», annunciò lei posandola sul tavolo. «Buon Dio!», esclamò Gabriele, «non per nulla, cortese Signora, ma del brodo col caldo che fa!...». «I Signori ne facciano la prova e vedranno. È studiata appositamente per il mese di maggio, anche un maggio caldo come questo», rispose lei senza scomporsi e si allontanò decisa com’era venuta. E in effetti, a dispetto d’ogni immaginazione, quella zuppa di ortaggi stagionali, semplici ma tagliati con gran cura in fogge diverse, e che in luogo della pasta recava dadini di pane arrostito fritto nel più ine olio vergine, fu davvero un toccasana contro il calore. Venne poi loro ammannito un timballo di piccioni, abbinato ad 322 IL DRAGO INNAMORATO asparagi al burro che si scioglievano in bocca. E, da ultimo, giunsero fragole lavate con vino rosso e aggraziate con zucchero a velo e marsala... Il tutto in compagnia di un ottimo Sangiovese che avrebbe ritemprato le forze anche a un morto. «Che delizia!», commentò inine Gabriele, «un cibo degno di Pellegrino Artusi!». «Eh sì, Signore! Avete detto proprio giusto», commentò la padrona che aveva udito la felice esclamazione. «Nella Maison Roncuzzi cerchiamo di attenerci alle ricette del divino Artusi, come quella che avete gustato per l’appunto. Avete mai sentito parlare della Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene?». «Ma senza dubbio!», esclamò Gabriele con un sorrisetto compiaciuto, «Quel monumento eretto all’arte culinaria uscito giusto dieci anni fa... che però non avevo ancora esperimentato di persona... Una citazione di buon auspicio, Signora gentilissima!». Ma, dopo questo scambio di urbanità, non appena decenza lo concesse, l’ospite salutò la sagace padrona e, dando il braccio alla sua compagna, s’avviò alla stanza verde. Ne uscirono ch’erano ormai le cinque pomeridiane. «Perché non andiamo a visitare i dintorni?», propose Eleonora, «C’è una bella pieve, diceva la nostra albergatrice, che addirittura risalirebbe a Galla Placidia! Forse potresti trarne ispirazione per la tua Francesca...». «Ne dubito fortemente», pensò lui, un po’ risentendosi di quella lieve intrusione nel territorio della sua arte. Avrebbe di gran lunga preferito, lui, starsene seduto a leggere nel parco dell’albergo uno di quei libri sulla storia di Ravenna che aveva portato con sé. Ma, da ine conoscitore dell’animo femminile, dissimulò l’irritazio323 MARIA ROSA GIACON ne dietro un sorriso, che, per la sua gran pratica del mondo, gli uscì quasi senza forzatura: «Come meglio desiderate, mia signora adorata...». Era un uomo, questo Gabriele, che poteva anche essere spietato, specie per quanto riguarda la difesa della propria arte, della quale era gelosissimo: nessuno, neppure la persona più cara, poteva penetrarvi. In nome d’essa sarebbe stato capace d’uccidere l’amore estirpandoselo dal petto che ino a un momento prima ne era tutto palpitante, lasciando colei che lo amava morire dissanguata. Ma, per il resto, con le donne è innegabile che ci sapesse fare: ne intuiva le più intime corde, ne percepiva ogni inlessione, ne decifrava con immediatezza gli stati di pensiero e gli atti di volontà inespressi. Questa donna, poi... con quell’ala di capelli copiosi, quegli occhi balenanti e quelle ombre dintorno come oscure violette; dalle mosse aggraziate, dalla voce suadente che sapeva far vibrare i tasti più reconditi dell’animo suo, molcendolo e lusingandolo... Ebbene, questa donna lo intrigava profondamente, più, ne era certo, di tutte le altre, che erano state parecchie a dire il vero... E dunque, ricacciando un sospiro, si avviò con lei all’uscita dell’albergo. Per fortuna il sole non era più tanto alto e, ad ogni modo, lui s’era coperto il capino con una paglietta, che magari avesse pensato prima d’estrarla dalla valigia! N’era uscita tutta schiacciata, come una brioche, ma le abili mani di Eleonora erano state capaci di restituirla quasi alla forma originaria. Del resto, il verde tenero su cui sorgeva la pieve non poté non suscitargli una forte emozione, tanto da fargli venire in mente qualcuno dei 324 IL DRAGO INNAMORATO suoi versi: «Fresche le mie parole ne la sera...», si ritrovò a mormorare tra sé, e, ine interprete dei suoi pensieri, Eleonora gli disse: «Osserva, Gabriel, non ti sembra il prato del Cimitero di Pisa?». Vi erano stati insieme, infatti, ed ora quel ricordo avvolse entrambi in un caldo abbraccio. Sì, bello davvero quel verde, e bella quella chiesa protoromanica, dalla semplicità armoniosa ch’è tipica del Ravennate. In fondo, non v’erano andati anche per questo, per raccogliere qualche dato per la sua Francesca, come aveva detto Eleonora, non solo per diporto? Così l’ombra di dispetto che aveva provato dinnanzi si dissolse in lui del tutto e il nostro Gabriele fu restituito al migliore degli umori e al più spontaneo dei sorrisi. Accarezzò dolcemente i capelli della sua compagna, ne baciò le palpebre socchiuse, morbide e lisce, con un moto d’intensa gratitudine verso la vita. Distaccandosi da quel luogo loro malgrado, fecero ritorno a Villa Roncuzzi ch’era quasi l’imbrunire, ma, giunti ai piedi dell’ospitale dimora, vi notarono inissa una forma che, troppo stanchi e accaldati, non avevano scorto al loro primo arrivo. Si trattava, aggettante da un muro esterno, d’una gran palla di pietra simile a un proiettile di bombarda, ma che, onestamente, non si riusciva esattamente a capire che cosa fosse. Rimasero così a guardare quella stranezza cogitabondi e curiosi al tempo stesso. Quando all’improvviso, avvolto in un tabarro che lasciava scoperti solo un paio d’occhi metallici e un naso grifagno, si appressò loro un vecchio. E costui, con voce cavernosa, quasi venisse di sotterra, pronunciò queste incredibili parole: «Quella che vedete, Signori miei, non 325 MARIA ROSA GIACON è una palla di bombarda come scrivono i libri di storia, ma la testa pietriicata d’un drago feroce. Noi del luogo lo chiamiamo il Biscione della Torre, perché qui, in tale via, lui aveva la sua tana. Essendo golosissimo di latte, assaltava le madri intente a nutrire i loro iglioletti. Seminava strage e terrore in tutta San Pancrazio e anche più in là. Finché un brigante condannato a morte, non avendoci nulla da perdere, gli si fece innanzi con un gran mastello di latte e, mentre il drago v’immergeva le fauci ingordamente, gli mozzò la testa, che è contenuta proprio in quella palla, vedete. Questa, ricordatevelo, è verità sacrosanta, e, se non la ricorderete, in qualche modo ne farete la prova». E, così com’era apparso, repentinamente si dileguò nell’aria bruna. Eleonora non poté trattenere un brivido di sgomento: quel vecchio grifagno, dallo sguardo pungente e dalla voce di tomba, le aveva incusso un inspiegabile timore. Ma Gabriele, accarezzandole con passione la sommità del polso non coperta dal guanto, le fece scordare ogni cosa. La cena fu altrettanto deliziosa che il pranzo, ma questa volta, su desiderio di Eleonora, oltre al vino locale ordinarono un biondo Chablis. «Uuhm», commentò l’albergatrice, «non è un vino nostro... Ma vediamo che cosa riesco a fare. Forse ce n’è qualche bottiglia in cantina». E infatti il vino giunse, d’una qualità lievemente fruttata che scendeva giù per la gola come un torrentello. Si alzarono da tavola decisamente ebbri, soprattutto Eleonora, che ne aveva bevuto più del suo compagno. La giornata era stata faticosa e non priva di emozioni, sicché si addormentarono subito d’un sonno profondo. Ma, sarà 326 IL DRAGO INNAMORATO stato a causa del vinello francese o per altra ragione, Eleonora si girava e rigirava sul letto, talvolta lagnandosi inché non dette in un gemito profondo, quasi un grido, destando Gabriele. Che la vide sedere discosta dal cuscino, erta sul letto, gli occhi sbarrati e pieni di orrore. «Ma che ti succede, piccola mia?» le chiese accostandola a sé. Ma lei si sottraeva al suo tenero abbraccio e piangeva, invece, d’un pianto lamentevole come quello d’un bimbo impaurito, senza riuscire ad articolar parola, inché: «Il vecchio, il vecchio!», esclamò con voce rotta da singulti, «Era mandato dal diavolo, ne sono sicura! Noi ci eravamo scordati del drago... E il drago è venuto qui, su questo letto! E si è messo ai miei piedi e i suoi occhi giallo-rossi mandavano bagliori che mi magnetizzavano; e poi ha incominciato a leccarmi la mano con la sua lingua enorme, ruvida come per scaglie di metallo. Me la bagnava d’una saliva putrida, tanto che avevo le narici piene di quel terribile odore. In ogni ibra del mio essere avrei voluto sottrargliela, ma non ci riuscivo, non ci riuscivo, Gabriele! Ero come paralizzata dal suo sguardo che, non credermi pazza, aveva qualcosa di umano. Finché, a un certo punto, l’ho visto ergersi in tutta la sua mostruosa potenza e accostarsi a me con le fauci spalancate, pronto a divorarmi. Perché, così ho d’istinto intuito, per questi esseri, come talvolta per i maschi degli umani, amore e sangue, cibo e desiderio fanno tutt’uno. Oh, quale orrore, quale orrore, Gabriel mio! Avverto ancora qui la presenza del mostro e ancora vedo puntarsi su di me gli occhiacci di quel vecchio maligno. Perché tutto il suo racconto era diretto a me, come 327 MARIA ROSA GIACON un avvertimento, come una minaccia!» E incominciò a piangere più forte di prima. Questa volta, però, il suo compagno riuscì a cingerla tra le braccia, cullandola, quasi, con un moto dolce, baciandole ripetutamente gli occhi belli e le loro ombre dintorno che s’erano fatte più scure, come viole prima d’appassire. E, così baciandola e ribaciandola, le disse: «Rassicurati, mia adorata! Non sai che fra le mie numerose onoriicenze possiedo anche il titolo di Cavaliere dell’Ordine di San Giorgio? Io, se mai quel drago ti s’accostasse di nuovo, lo ucciderei con una lama la più afilata, dell’acciaio il più temprato, come nel dipinto di Giorgione!» A tal punto Eleonora, portando su di lui i begli occhi luccicanti di lacrime, volse il pianto in sorriso e prese a sua volta ad accarezzargli e a baciargli il capo liscio come quello di un infante. E poi... e poi Gabriele ed Eleonora si strinsero con rinnovata passione. Non tutti i draghi, dunque, vengono per nuocere, se, come quello di San Pancrazio, sanno infondere un dolce ardore nei cuori degli amanti. E così, di ritorno a Ravenna, prima di volgere le spalle all’ospitale dimora, Eleonora e Gabriele accarezzarono d’uno sguardo grato e commosso la gran palla aggettante dal muro di Villa Roncuzzi. ’ ➜ Indice