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Il drago innamorato
di
Maria Rosa Giacon
Relais Villa Roncuzzi
In una mattina di maggio del 1901, verso mezzogiorno, dal landò che faceva la spola fra la stazioncina e il
piccolo centro di San Pancrazio di Romagna, scese una
coppia di forestieri. Cittadini di sicuro, e, a giudicare dal
loro abbigliamento, turisti davvero speciali, che forse,
soggiornando a Ravenna, avevano deciso di visitarne
i dintorni. Lei indossava un mantello di seta blu elettrico, sotto il quale s’intravedeva una veste cilestrina,
cosparsa di stelle, di motivi vegetali e animali stilizzati.
Così ornata, essa poteva anche essere uscita dalle mani
di Mariano Fortuny, ma la luida discesa ad ampie pieghe faceva piuttosto pensare alla couture della scuola
di Worth. Tutto l’universo, comunque, rivestiva questa
donna, che, se non poteva dirsi bella propriamente, era
però d’una grazia estrema, quasi non poggiasse in terra ma navigasse per l’aria; il capo, ch’era scoperto (la
signora non portava cappello, o meglio lo teneva sottobraccio come una sporta), mostrava un’ala di capelli
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MARIA ROSA GIACON
corvini appena trattenuta in uno chignon, dal quale, a
dispetto delle forcine numerose, scendevano, ora qua
ora là, ciufi ribelli. E gli occhi... Che mistero quegli
occhi! Neri anch’essi e balenanti, per chi li osservasse
bene, di un interno vigore o d’una indomabile vitalità,
contornati da un’ombra scura o, detta volgarmente, da
occhiaie, che però gettavano su quel volto un fascino
indicibile. I lineamenti del viso, del resto, erano ini e
delicati: naso e bocca ben disegnati ed orecchi piccoli e
adesi all’attaccatura del collo. In breve, sprigionava da
lei una strana armonia, fatta anche di dissonanze che si
ricomponevano senza lasciare traccia di stridore. L’abbigliamento del suo compagno era non solo elegante,
addirittura un tantino lezioso: un mantello grigio di
lana leggera (che il gentiluomo portava sul braccio) e un
completo, grigio anch’esso ma d’una tonalità un po’ più
chiara, di ottima manifattura inglese, che ne rivestiva
la persona bassa e minuta conferendole la grazia d’un
bambolino. A differenza della sua compagna, la chioma
era tutt’altro che folta, mostrando larghe chiazze di calvizie che gli lasciavano qua e là il capo scoperto come
quello di un infante. Gli occhi, però, bisogna riconoscere
ch’erano assai belli: d’un azzurro intenso e scrutatore, lo
sguardo d’un bimbo sorpreso dalla bellezza del mondo
e insieme d’un ilosofo sagace, sin troppo esperto delle
sue brutture; sensuale il taglio del naso e della bocca;
bellissime le mani, che non parevano aver mai afferrato
alcuno strumento che non fosse qualcosa di molto leggero, come una penna o, tutt’al più, un bastoncino da
passeggio. Ne portava uno in effetti, con impugnatu318
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ra d’argento e avorio, per vezzo certamente, come per
vezzo indossava all’occhiello una gardenia che doveva
essere stata splendida, ma che cominciava a dare segni di stanchezza. Vi era un gran caldo, infatti, in quel
maggio avanzato e il sole, battendo sul capo nudo del
gentiluomo, ne faceva luccicare la prorompente calvizie. D’altro canto, per via del calore, portare il cappello
(un bellissimo feltro grigio-perla) sarebbe stato un martirio: se lo teneva dunque in mano e con l’altra reggeva
una valigia rigonia, che non aveva l’aria d’essere affatto leggera. «Dove potremmo alloggiare, brav’uomo?»,
chiese Gabriele (tale era il suo nome) al conducente del
landò. «Beh, signore», gli rispose costui allungando la
mano per la mancia, «non lontano da qui ci sarebbe
Villa Roncuzzi, che è un luogo adatto ad accogliere forestieri eleganti come siete voi...», e, ritirando la destra
generosamente ricolma, «andate dritti ino al curvone
là in fondo e poi a sinistra. Qualche centinaio di metri
soltanto e sarete arrivati...». «Attendete, attendete! Fateci risalire!», stava per dirgli la signora (che di nome
faceva Eleonora), ma nel breve intervallo tra l’intenzione e la parola l’uomo aveva già dato una frustata alla
bestia ed era scomparso lasciandosi dietro un nuvolone
di polvere. I due si guardarono un poco smarriti e poi
inirono per imboccare lo stradone che, effettivamente,
dopo un centinaio di metri descriveva sulla sinistra una
gran curva, dalla quale essi proseguirono verso il ristoro agognato. La strada, ahimè, non aveva quasi alberi, e
quei pochi che c’erano gettavano un’ombra troppo scarsa per alleviare il calore. Ormai il sudore imperlava loro
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MARIA ROSA GIACON
le fronti e incominciava a rigare anche il volto, quando
si ritrovarono, come per incanto, dinnanzi ad un albergo dall’aspetto decoroso, che si comprendeva essere il
restauro d’una antica villa padronale. Forse anche d’un
convento ravennate fuori mura, chissà. Fatto sta che
quell’ostello era circondato da alberi da frutto, vigneti,
campi di grano ormai verdeggiante, papaveri e girasoli,
dando ai provati forestieri la sensazione d’essere stati
all’improvviso ammessi entro i recinti dell’Eden. Eppure, «Villa Roncuzzi» recitava l’insegna. Proprio così!
«Oh, che bellezza!», esclamò Eleonora, mentre Gabriele
si precipitava al portone, facendovi ricadere con forza il
pesante anello di bronzo dorato che portava in cima un
mascherone di buona fattura. A breve si sentirono dei
passi decisi e però misurati avvicinarsi all’ingresso. E la
porta si aprì per mano d’una signora che non pareva per
nulla una comune albergatrice, una castellana piuttosto,
dotata di certa signorile eleganza, vestita com’era d’una tunica luente il cui rosa pallido poneva in risalto la
capigliatura d’un naturale biondo tizianesco, e adorna
d’una lunga collana che portava più volte girata intorno
al collo lessuoso. Alla vista di quei forestieri, la bocca le
si dischiuse in un sorriso ampio e cordiale, che, scoprendo denti bianchissimi, le illuminò l’intero volto lasciando i due come incantati. Entrarono dunque e la gran
sala che li accolse li sorprese gradevolmente per il suo
ine arredamento. «Ma vedi un po’!», si disse Eleonora,
«Una discreta riproduzione Biedermeier... E chi se lo sarebbe aspettato in quest’angolo remoto dal mondo?» E
notò che anche Gabriele lanciava occhiate di qua e di là
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con certa stupefazione. «La colazione», annunciò la loro
ospite, «si serve dalle 13 ino alle 14, ma per Voi Signori
il cuoco potrà allungare i tempi... Cosicché avrete un’oretta per ristorarvi». E, con uno sguardo comprensivo
su quei volti imperlati, soggiunse: «Sì! Fa un gran caldo
oggi per essere soltanto maggio. E il cammino per arrivare in qui non è tra i più comodi. Il viale che avete
imboccato era un tempo iancheggiato da pioppi, che,
ve l’assicuro, davano un bel refrigerio, ma c’è stato un
incendio e il rimboschimento non ha ancora prodotto i
suoi frutti». Ciò detto, vedendoli già un po’ rinfrancati
dalla frescura dell’interno, la bella albergatrice li condusse alla loro stanza, che decise di scegliere con cura
speciale. Non si trattava certo di clienti qualsiasi... Questo era chiaro come il sole! Forse intellettuali, forse artisti. E la valigia del gentiluomo sembrava esser gonia
di libri... Che c’erano venuti a fare a San Pancrazio quei
signori? Ma fornita di discrezione, tenne ogni domanda
per sé. La camera era un’ampia suite affacciata sul verde
degli alberi tutt’intorno. E verde era anch’essa, tappezzata d’un broccatello che riposava l’occhio, e allestita
con sobrio gusto. Il letto, cui andò subito lo sguardo
del gentiluomo, era sormontato da un breve baldacchino: un leggero velario verdazzurro, che s’armonizzava
perfettamente con l’insieme. «Ma guarda, Gabriele!»,
esclamò Eleonora, «broccato verde come nella tua Capponcina! Certo non è un tessuto altrettanto rafinato, ma
comunque...» «Comunque andrà benissimo!», rispose
Gabriele serrandola fra le braccia, con una forza davvero impensabile in un omino come lui, e cominciando a
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MARIA ROSA GIACON
districarle le forcine, sino a che l’ala corvina non si sciolse per intero e lui poté insinuarvi le dita sottili e vibranti
di passione. «Ma, Gabri», disse lei con voce sommessa
in cui l’ardore era frenato dal buon senso, «non sarebbe
meglio rinviare a... più tardi?». «Già...» sospirò lui, e si
discostò dalla donna desiderata non senza aver prima
gettato un’altra occhiata al letto, che, sotto quel velario
verdazzurro, prometteva indicibile felicità. Si ristorarono, dunque, e discesero per colazione un’ora dopo. La
padrona porse loro la carta sogguardandoli con un sorriso lievemente divertito. Conoscendo lo sgomento dei
suoi ospiti davanti alla vasta offerta della sua Maison,
già si igurava la reazione di questi forestieri. E difatti,
posti innanzi a quella ittissima lista di cibi e di vini, i
due trasecolarono, persino Gabriele che era un buongustaio di larga esperienza. E invocarono il suo aiuto.
La signora annuì col medesimo sorriso e a breve fu di
ritorno con una zuppiera di brodo fumante. «Zuppa
santé», annunciò lei posandola sul tavolo. «Buon Dio!»,
esclamò Gabriele, «non per nulla, cortese Signora, ma
del brodo col caldo che fa!...». «I Signori ne facciano la
prova e vedranno. È studiata appositamente per il mese
di maggio, anche un maggio caldo come questo», rispose lei senza scomporsi e si allontanò decisa com’era
venuta. E in effetti, a dispetto d’ogni immaginazione,
quella zuppa di ortaggi stagionali, semplici ma tagliati
con gran cura in fogge diverse, e che in luogo della pasta recava dadini di pane arrostito fritto nel più ine olio
vergine, fu davvero un toccasana contro il calore. Venne
poi loro ammannito un timballo di piccioni, abbinato ad
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asparagi al burro che si scioglievano in bocca. E, da ultimo, giunsero fragole lavate con vino rosso e aggraziate
con zucchero a velo e marsala... Il tutto in compagnia di
un ottimo Sangiovese che avrebbe ritemprato le forze
anche a un morto. «Che delizia!», commentò inine Gabriele, «un cibo degno di Pellegrino Artusi!». «Eh sì, Signore! Avete detto proprio giusto», commentò la padrona che aveva udito la felice esclamazione. «Nella Maison
Roncuzzi cerchiamo di attenerci alle ricette del divino
Artusi, come quella che avete gustato per l’appunto.
Avete mai sentito parlare della Scienza in cucina e l’arte
di mangiar bene?». «Ma senza dubbio!», esclamò Gabriele con un sorrisetto compiaciuto, «Quel monumento
eretto all’arte culinaria uscito giusto dieci anni fa... che
però non avevo ancora esperimentato di persona... Una
citazione di buon auspicio, Signora gentilissima!». Ma,
dopo questo scambio di urbanità, non appena decenza
lo concesse, l’ospite salutò la sagace padrona e, dando
il braccio alla sua compagna, s’avviò alla stanza verde.
Ne uscirono ch’erano ormai le cinque pomeridiane.
«Perché non andiamo a visitare i dintorni?», propose
Eleonora, «C’è una bella pieve, diceva la nostra albergatrice, che addirittura risalirebbe a Galla Placidia! Forse
potresti trarne ispirazione per la tua Francesca...». «Ne
dubito fortemente», pensò lui, un po’ risentendosi di
quella lieve intrusione nel territorio della sua arte.
Avrebbe di gran lunga preferito, lui, starsene seduto a
leggere nel parco dell’albergo uno di quei libri sulla storia di Ravenna che aveva portato con sé. Ma, da ine
conoscitore dell’animo femminile, dissimulò l’irritazio323
MARIA ROSA GIACON
ne dietro un sorriso, che, per la sua gran pratica del
mondo, gli uscì quasi senza forzatura: «Come meglio
desiderate, mia signora adorata...». Era un uomo, questo Gabriele, che poteva anche essere spietato, specie
per quanto riguarda la difesa della propria arte, della
quale era gelosissimo: nessuno, neppure la persona più
cara, poteva penetrarvi. In nome d’essa sarebbe stato
capace d’uccidere l’amore estirpandoselo dal petto che
ino a un momento prima ne era tutto palpitante, lasciando colei che lo amava morire dissanguata. Ma, per
il resto, con le donne è innegabile che ci sapesse fare: ne
intuiva le più intime corde, ne percepiva ogni inlessione, ne decifrava con immediatezza gli stati di pensiero e
gli atti di volontà inespressi. Questa donna, poi... con
quell’ala di capelli copiosi, quegli occhi balenanti e
quelle ombre dintorno come oscure violette; dalle mosse aggraziate, dalla voce suadente che sapeva far vibrare i tasti più reconditi dell’animo suo, molcendolo e lusingandolo... Ebbene, questa donna lo intrigava
profondamente, più, ne era certo, di tutte le altre, che
erano state parecchie a dire il vero... E dunque, ricacciando un sospiro, si avviò con lei all’uscita dell’albergo. Per fortuna il sole non era più tanto alto e, ad ogni
modo, lui s’era coperto il capino con una paglietta, che
magari avesse pensato prima d’estrarla dalla valigia!
N’era uscita tutta schiacciata, come una brioche, ma le
abili mani di Eleonora erano state capaci di restituirla
quasi alla forma originaria. Del resto, il verde tenero su
cui sorgeva la pieve non poté non suscitargli una forte
emozione, tanto da fargli venire in mente qualcuno dei
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IL DRAGO INNAMORATO
suoi versi: «Fresche le mie parole ne la sera...», si ritrovò
a mormorare tra sé, e, ine interprete dei suoi pensieri,
Eleonora gli disse: «Osserva, Gabriel, non ti sembra il
prato del Cimitero di Pisa?». Vi erano stati insieme, infatti, ed ora quel ricordo avvolse entrambi in un caldo
abbraccio. Sì, bello davvero quel verde, e bella quella
chiesa protoromanica, dalla semplicità armoniosa ch’è
tipica del Ravennate. In fondo, non v’erano andati anche per questo, per raccogliere qualche dato per la sua
Francesca, come aveva detto Eleonora, non solo per diporto? Così l’ombra di dispetto che aveva provato dinnanzi si dissolse in lui del tutto e il nostro Gabriele fu
restituito al migliore degli umori e al più spontaneo dei
sorrisi. Accarezzò dolcemente i capelli della sua compagna, ne baciò le palpebre socchiuse, morbide e lisce, con
un moto d’intensa gratitudine verso la vita. Distaccandosi da quel luogo loro malgrado, fecero ritorno a Villa
Roncuzzi ch’era quasi l’imbrunire, ma, giunti ai piedi
dell’ospitale dimora, vi notarono inissa una forma che,
troppo stanchi e accaldati, non avevano scorto al loro
primo arrivo. Si trattava, aggettante da un muro esterno, d’una gran palla di pietra simile a un proiettile di
bombarda, ma che, onestamente, non si riusciva esattamente a capire che cosa fosse. Rimasero così a guardare
quella stranezza cogitabondi e curiosi al tempo stesso.
Quando all’improvviso, avvolto in un tabarro che lasciava scoperti solo un paio d’occhi metallici e un naso
grifagno, si appressò loro un vecchio. E costui, con voce
cavernosa, quasi venisse di sotterra, pronunciò queste
incredibili parole: «Quella che vedete, Signori miei, non
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MARIA ROSA GIACON
è una palla di bombarda come scrivono i libri di storia,
ma la testa pietriicata d’un drago feroce. Noi del luogo
lo chiamiamo il Biscione della Torre, perché qui, in tale
via, lui aveva la sua tana. Essendo golosissimo di latte,
assaltava le madri intente a nutrire i loro iglioletti. Seminava strage e terrore in tutta San Pancrazio e anche
più in là. Finché un brigante condannato a morte, non
avendoci nulla da perdere, gli si fece innanzi con un
gran mastello di latte e, mentre il drago v’immergeva le
fauci ingordamente, gli mozzò la testa, che è contenuta
proprio in quella palla, vedete. Questa, ricordatevelo, è
verità sacrosanta, e, se non la ricorderete, in qualche
modo ne farete la prova». E, così com’era apparso, repentinamente si dileguò nell’aria bruna. Eleonora non
poté trattenere un brivido di sgomento: quel vecchio
grifagno, dallo sguardo pungente e dalla voce di tomba,
le aveva incusso un inspiegabile timore. Ma Gabriele,
accarezzandole con passione la sommità del polso non
coperta dal guanto, le fece scordare ogni cosa. La cena
fu altrettanto deliziosa che il pranzo, ma questa volta,
su desiderio di Eleonora, oltre al vino locale ordinarono
un biondo Chablis. «Uuhm», commentò l’albergatrice,
«non è un vino nostro... Ma vediamo che cosa riesco a
fare. Forse ce n’è qualche bottiglia in cantina». E infatti
il vino giunse, d’una qualità lievemente fruttata che
scendeva giù per la gola come un torrentello. Si alzarono da tavola decisamente ebbri, soprattutto Eleonora,
che ne aveva bevuto più del suo compagno. La giornata
era stata faticosa e non priva di emozioni, sicché si addormentarono subito d’un sonno profondo. Ma, sarà
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stato a causa del vinello francese o per altra ragione,
Eleonora si girava e rigirava sul letto, talvolta lagnandosi inché non dette in un gemito profondo, quasi un grido, destando Gabriele. Che la vide sedere discosta dal
cuscino, erta sul letto, gli occhi sbarrati e pieni di orrore.
«Ma che ti succede, piccola mia?» le chiese accostandola
a sé. Ma lei si sottraeva al suo tenero abbraccio e piangeva, invece, d’un pianto lamentevole come quello d’un
bimbo impaurito, senza riuscire ad articolar parola, inché: «Il vecchio, il vecchio!», esclamò con voce rotta da
singulti, «Era mandato dal diavolo, ne sono sicura! Noi
ci eravamo scordati del drago... E il drago è venuto qui,
su questo letto! E si è messo ai miei piedi e i suoi occhi
giallo-rossi mandavano bagliori che mi magnetizzavano; e poi ha incominciato a leccarmi la mano con la sua
lingua enorme, ruvida come per scaglie di metallo. Me
la bagnava d’una saliva putrida, tanto che avevo le narici piene di quel terribile odore. In ogni ibra del mio
essere avrei voluto sottrargliela, ma non ci riuscivo, non
ci riuscivo, Gabriele! Ero come paralizzata dal suo
sguardo che, non credermi pazza, aveva qualcosa di
umano. Finché, a un certo punto, l’ho visto ergersi in
tutta la sua mostruosa potenza e accostarsi a me con le
fauci spalancate, pronto a divorarmi. Perché, così ho d’istinto intuito, per questi esseri, come talvolta per i maschi degli umani, amore e sangue, cibo e desiderio fanno tutt’uno. Oh, quale orrore, quale orrore, Gabriel mio!
Avverto ancora qui la presenza del mostro e ancora
vedo puntarsi su di me gli occhiacci di quel vecchio maligno. Perché tutto il suo racconto era diretto a me, come
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un avvertimento, come una minaccia!» E incominciò a
piangere più forte di prima. Questa volta, però, il suo
compagno riuscì a cingerla tra le braccia, cullandola,
quasi, con un moto dolce, baciandole ripetutamente gli
occhi belli e le loro ombre dintorno che s’erano fatte più
scure, come viole prima d’appassire. E, così baciandola
e ribaciandola, le disse: «Rassicurati, mia adorata! Non
sai che fra le mie numerose onoriicenze possiedo anche
il titolo di Cavaliere dell’Ordine di San Giorgio? Io, se
mai quel drago ti s’accostasse di nuovo, lo ucciderei con
una lama la più afilata, dell’acciaio il più temprato,
come nel dipinto di Giorgione!» A tal punto Eleonora,
portando su di lui i begli occhi luccicanti di lacrime, volse il pianto in sorriso e prese a sua volta ad accarezzargli
e a baciargli il capo liscio come quello di un infante. E
poi... e poi Gabriele ed Eleonora si strinsero con rinnovata passione.
Non tutti i draghi, dunque, vengono per nuocere, se,
come quello di San Pancrazio, sanno infondere un dolce
ardore nei cuori degli amanti. E così, di ritorno a Ravenna, prima di volgere le spalle all’ospitale dimora,
Eleonora e Gabriele accarezzarono d’uno sguardo grato
e commosso la gran palla aggettante dal muro di Villa
Roncuzzi.
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