FuoriFuoco
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© DeriveApprodi, 2010
I edizione: novembre 2010
DeriveApprodi srl
piazza Regina Margherita, 27
00198 Roma
tel 06 85358977 fax 06 97251992
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Progetto grafico: Andrea Wöhr
Immagine di copertina:
ISBN 978-88-6548-008-3
Paolo Do
Il tallone del drago
Lavoro cognitivo, capitale globale
e conflitti in Cina
Figura 1: la Cina e le sue province
Ringraziamenti
Anzitutto vorrei ringraziare Gerard Hanlon, Arianna Bove, Peter
Fleming e in particolare Stefano Harney dell’università Queen Mary
of London che hanno reso materialmente possibile questa ricerca. Il
loro supporto, la loro attenzione e amicizia mi hanno permesso di
spendere prezioso tempo nei luoghi dove ho svolto questo studio.
Ringrazio, inoltre, Choi Fung e i compagni di 8F e Vartivist di Hong
Kong, Debby Chan e Janny Chan del gruppo di lavoro SACOM, Antony Fung, Hui Po Keung, Lau Kin Chi, Geoffrey Crothall e Aris
Chan del China Labour Bullettin, Jackson Turner, Pun Ngai, Wang
Hui, Andrew Ross, Kuan-Hsing Chen, C.J.W.-L. Wee, Lei Qi Li,
Ryan Bishop, Francesco Stranges, Matteo Mazzoni, Angelo e Simone
Do, Ellen David Friedman, Iam Oiwan, Wang Xiaoming, Diego Gullotta, gli Smegmariot di Kunming, Cheung Siu Keung, Ting Nga Ng,
Shao Han, Lin Wang, Gaia Perini, Naoki Sakai, Jon D. Solomon.
Antonio Negri, Michael Hardt, Carlo Vercellone, Christian Marazzi, Judith Revel, Alberto de Nicola, Francesco Brancaccio, Giuliana
Visco, Serena Fredda, Serena Orazi, Cristina Morini, Andrea Fumagalli, ESC atelier, la redazione di «Common», Giovanna Medici,
Valentino Medici, Antonio Do, Sergio Bianchi, Ilaria Bussoni.
Francesco Raparelli, Davide Sacco e la redazione di Globalproject.info
che ha ospitato in questi mesi molti dei miei interventi sulla Cina.
Un particolare ringraziamento ad Augusto Illuminati per il suo costante supporto ed incoraggiamento. Infine, il mio più grande ringraziamento va a Claudia Bernardi, alla sua intelligenza e curiosità, cui
questo libro è dedicato.
7
Le molte Asia dell’inchiesta
Shanghai la Parigi dell’Est, Shanghai la New York dell’Ovest: in questa città ho iniziato le ricerche che compongono il lavoro che avete tra le mani. In questa metropoli ho vissuto alcuni mesi, studiando le istituzioni
universitarie nella regione del Pacifico come punto di
vista privilegiato per cercare di analizzare i cambiamenti globali della produzione di sapere.
Hong Kong, Singapore, Shanghai e Beijing sono
state il punto di partenza della ricerca; in seguito ho attraversato la regione del Pearl River Delta, in particolare
Guangzhou e Shenzhen, nel sud della Cina. Queste città, tra loro molto differenti, ci consegnano una nitida
immagine di cosa sia la Cina contemporanea: il contrasto tra le sue regioni, talvolta estremo, è più forte di
quell’idea di omogeneità che può venirci in mente
quando osserviamo il presente attraverso la lente dello
Stato-nazione. Un paese fatto di metropoli che si trasformano e inghiottono voracemente sempre più persone. Il motto di questo grande cambiamento è: «Un
grande passo all’anno, una nuova città in cinque anni».
A Shanghai e Shenzhen i ritmi di crescita sono ancor
più vertiginosi e rapidi.
Per parlare di Cina, alle volte una realtà davvero dif9
ficile da comprendere, ho scelto un tema estraniante
anche per questo stesso paese: la crisi che sta vivendo il
suo mercato del lavoro. Composto da oltre ottocento
milioni di lavoratori, il mercato del lavoro cinese attraversa una fase di scarsità di quella manodopera generica disposta a essere poco retribuita.
Il tentativo intrapreso per arginare questa mancanza
punta sulla formazione, estendendo e rafforzando le politiche dello stage e del tirocinio come strumento per
comprimere il salario reale della forza lavoro cinese, e
dare così nuova competitività internazionale alla «fabbrica del mondo». Questa prospettiva è forse il miglior
modo per intraprendere, a livello epistemologico, la narrazione di una paese che viene spesso descritto attraverso categorie che denunciano distanze incolmabili o culture irrimediabilmente differenti. Spiazzare ciò che
spiazza, rompere quell’esercizio che fa del disorientamento culturale la chiave attraverso la quale raccontare
la Cina, mostrare le vertigini sociali dello stesso Regno
di Mezzo: è ciò che questo lavoro si propone di fare. Per
questo il tema della formazione, con i suoi cambiamenti
repentini, è un ottimo spunto da cui partire.
Ma prima di iniziare, vorrei provare rapidamente a
fornire alcuni strumenti e categorie generali utili per
leggere il disegno di inchiesta, come se questo prologo
fosse una piccola cassetta degli attrezzi.
1. A Keetwonen, gli studenti del campus universitario, collocato nei dintorni del porto internazionale di
Rotterdam, vivono in veri e propri container provenienti
da mezzo mondo. High cube container vengono chiamati: con i loro quaranta piedi di lunghezza e nove di altezza, questi capienti strumenti di trasporto possono senza
dubbio trasformarsi in comode abitazioni. Il simbolo
della logistica del nuovo millennio, del traffico lungo le
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trade line e dello shipping globale, dopo essere stato riempito di merci, viene abitato da universitari. Questo curioso fatto di architettura moderna, che accomuna gli studenti alla logistica degli scambi commerciali internazionali, può forse servire a evocare l’emergere di una nuova
università collocata nella crisi globale: un’istituzione
sempre più focalizzata e attenta alla mobilità geografica
di studenti e professori, nonché caratterizzata da una vera e propria esplosione di campus internazionali.
In quella che potremmo chiamare «logistica della
formazione», l’università è un sistema a rete che comprende non soltanto gli elementi fisici della dimensione spaziale, della connettività e dell’interconnessione
tra differenti servizi e attori, ma anche network di dimensioni temporali1, dove i processi non sono durevoli
ma transitori, sempre aggiornabili nel paradigma del
life long learning. Una logistica della formazione che si
interseca con i fenomeni di regionalizzazione, concentrazione e asimmetria spaziale, integrazione differenziale di attori istituzionali e non.
Il nuovo sistema che emerge da questa configurazione è costituito da reti integrate e mobili dove i perimetri,
che pur esistono, sono dinamici e dotati di maggiore
flessibilità. Un’università sempre meno «disciplinare»
e sempre più «dispersiva» e «attuariale», concentrata
sulla flessibilità e la modulazione, per gestire la «logistica» di una forza lavoro globale. Sembra che, nell’epoca
della «società del controllo» descritta da Gilles Deleuze,
lo Stato-nazione e le università, affacciate alla globalizzazione, parlino il linguaggio dei flussi della forza lavoro
piuttosto che quello del suo disciplinamento e blocco.
Pensiamo a Singapore e Hong Kong, le due città1. Sullo studio della logistica rimando a S. Bologna, Le multinazionali del
mare, letture sul sistema marittimo-portule, Egea, Milano 2010.
11
Stato considerate hub della higher education, caratterizzate da un’accentuata mobilità di studenti, professori e
programmi di studio. Se osserviamo le università cinesi, ci troviamo di fronte a un fenomeno molto simile: la
maggior parte di queste sono accumunate dal fatto di
avere, ogni anno, una significativa quota di fondi pubblici per mandare i propri studenti all’estero a studiare.
Sempre a proposito di mobilità studentesca, il quotidiano «China People Daily»2 ha riportato come molti studenti abbiano fatto letteralmente carte false per entrare
nelle più prestigiose università del Regno di Mezzo. Pur
di migliorare la posizione nei global ranking di alcuni
istituti formativi nazionali, Beijing sta facendo di tutto,
compreso il differenziare l’accesso alle proprie università, per facilitare le iscrizioni di studenti internazionali a
discapito di quelli cinesi. Questo perché la composizione
internazionale di professori e studenti è uno degli indicatori principali da implementare, se si vuole migliorare
la propria posizione in questo genere di classifiche. Così
oggi è molto più semplice essere ammessi nelle migliori
università cinesi essendo straniero piuttosto che cinese!
Basta allora ottenere un falso passaporto, facilmente acquistabile al mercato nero di Guangzhou, una falsa cittadinanza (africana, malaysiana o indiana) per poter studiare all’università Fudan o Tsinghua a Beijing.
Sembra un paradosso che gli studenti per accedere
alle migliori università debbano diventare stranieri. Eppure questo ci permette di comprendere come in Cina
le stesse università siano oggi delle istituzioni disciplinari complesse, laddove la circolazione e il governo della mobilità sono al centro del loro funzionamento.
2. www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5gApdINwvraTeIOveRwE7UeeH08Q
12
Ma occorre contestualizzare questa mobilità spaziale appena descritta, osservandone un altro tipo sempre
legata al campo della formazione: la cosiddetta «mobilità verticale» ci permette di accostare il piano geograficospaziale a quello sociale. Questo terreno, prendendo a
prestito un termine dalla logistica, potremmo definirlo
«intermodale», ovvero caratterizzato dalla combinazione di elementi tra loro eterogenei.
Fino a oggi, l’università e il mondo della formazione
nelle economie avanzate erano caratterizzati dalla garanzia di una promozione sociale verso l’alto, misurabile nel raggiungimento di uno status sociale più elevato
e forme di retribuzione maggiori. L’educazione è stata
quel dispositivo che, storicamente, ha garantito agli
strati sociali più bassi un certo grado di mobilità verso
l’alto: l’ottenimento della laurea era anzitutto il punto di
precipitazione delle aspirazioni dei giovani e, ancor
più, delle loro famiglie.
Un dispositivo che sembra entrato in crisi:
l’«ascensore» sociale della higher education non porta
più da nessuna parte. Nell’epoca del capitalismo cognitivo, l’educazione non solo sembra aver perso gran parte della propria efficacia come strumento di promozione sociale, ma sembra anche non essere più in grado di
evitare alle nuove generazioni (in particolare dei paesi
cosiddetti sviluppati) l’amarezza della mobilità discendente. Le ricerche che ho realizzato in Cina mi portano
ad affermare che, nel paese più popolato al mondo, dove si va dispiegando un inedito fenomeno di «massificazione dell’educazione», la formazione universitaria
sia, per certi versi, incapace di garantire una mobilità
bottom-up. Studiare non solo è insufficiente per ottenere un reale aumento del salario della forza lavoro qualificata, ma, al contrario, la formazione sembra trasformarsi in un dispositivo capace di garantire al mercato
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del lavoro un’offerta di manodopera a basso costo e priva di diritti, oggi sempre più scarsa.
2. Il mercato del lavoro e il sistema educativo sono i
due ambiti su cui mi sono principalmente concentrato
per leggere le trasformazioni nella «fabbrica del mondo». Il mercato del lavoro è caratterizzato da un crescente tasso di disoccupazione della manodopera qualificata che incontra sempre più difficoltà a trovare lavoro
o un’occupazione ben retribuita corrispondente alle
proprie qualifiche. Il «New York Times»3 citava uno
studio che affermava come in Cina il salario di un neolaureato potesse essere anche inferiore a quello di un
generico lavoratore migrante. Il paragone dei giovani
neolaureati a una «tribù delle formiche» è indicativo del
loro incipiente impoverimento. Tale fenomeno, indubbiamente risultato di complesse relazioni sociali, ci induce a riconsiderare il ruolo della formazione e delle
aspettative sociali in essa riposte. Questo stesso lavoro
di inchiesta rivela il crescente protagonismo dello stagista alla catena di montaggio di molte fabbriche, come la
Honda o la Foxconn.
L’analisi degli indicatori di status e di reddito della
tribù delle formiche, degli stagisti e dei neolaureati cinesi ci permette di scorgere un’inedita forma di Verelendung, una pauperizzazione sempre più associata alla
formazione. In questo lavoro tenterò di distinguere due
differenti fasi del processo di proletarizzazione in Cina,
ovvero quel processo, storicamente definito, attraverso
il quale la popolazione contadina viene socializzata ai
rapporti di capitale, trasformandosi in manodopera
nella manifattura del settore export.
3. http://roomfordebate.blogs.nytimes.com/2010/03/07/educated-andfearing-the-future-in-china/
14
Una prima fase, peraltro molto ben documentata
dai lavori di autori come Pun Ngai e Chris King Chi
Chan, inizia negli anni Ottanta e ha una durata di circa
trent’anni: questa prima forma di proletarizzazione
non è accompagnata da fenomeni di pauperizzazione
della forza lavoro. Al contrario, in questo processo, che
comporta la perdita dello status di contadino, il lavoro di
fabbrica produce di fatto un generale aumento del livello medio di vita, tanto degli stessi soggetti «proletarizzati» quanto dei loro figli.
La seconda fase, che presento come risultato di quest’inchiesta, caratterizza il presente e riguarda la generazione di coloro che, nati dopo gli anni Ottanta, migrano da una città all’altra in cerca di lavoro. Nella condizione attuale, la socializzazione al lavoro di fabbrica
passa attraverso il prisma della formazione, ed è caratterizzata da forme di impoverimento sociale e dal
drammatico crollo delle aspettative nella giovane forza
lavoro. Questa fase, dove proletarizzazione e Verelendung vanno di pari passo, ci spinge a riconsiderare la
comparsa di fenomeni di nuovo impoverimento nei
processi contemporanei di accumulazione del capitale
e di crescita economica4. La formazione e l’università,
viste dal Regno di Mezzo, sono il cuore di un’inedita
produzione di povertà, dove il lavoro cognitivo scopre la
disoccupazione di massa e le aspettative inattese si trasformano in sofferenza.
Dentro la crescente mobilità geografica del capitale
multinazionale e della forza lavoro, troviamo una soffocante condizione di immobilità verso l’alto: effetto di
quell’apparato di cattura che è la valorizzazione economica. Questo processo di impoverimento è il risultato
4. Su questo un ringraziamento obbligato va alla redazione di «Common» e in particolare ad Alberto De Nicola.
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della messa a valore di quegli aspetti sociali, relazionali
e biopolitici, legati all’economia della conoscenza e ingestibili per il socialismo di mercato se non in temini
reazionari. È nel pensiero di Marx che il campo della Verelendung trova una ricchezza analitica e teorica profonda. Sono oltre sette le definizioni che, secondo Luciano
Gallino5, il genio di Treviri fornisce a tale fenomeno.
Anzitutto la Verelendung come «legge generale»: essa
descrive il peggioramento delle condizioni di vita della
forza lavoro come diretta conseguenza della diminuzione del salario reale.
In questo ambito di riferimento possiamo enunciare una sorta di ipotesi generale della mobilità nella globalizzazione, che poggia su una «geografia post-coloniale» e sulle asimmetrie spaziali legate al sapere: si ha
maggior mobilità geografica in presenza di mobilità sociale discendente, dove la prima diventa uno strumento
nelle mani della forza lavoro per arginare la seconda.
La crescente mobilità geografica degli studenti cinesi, il desiderio di studiare nelle migliori università statunitensi o europee per incrementare il proprio potere
lavorativo, ci rivela un ordine globale fatto di gerarchie
in cui la classica divisione tra mondo colonizzatore e colonizzato, oggi profondamente trasformata, sembra
passare anche per il sapere e la sua produzione. Tale divisione si riflette così nelle classifiche dei global ranking
che indicano quali siano le world class university (ovvero
le migliori università, saldamente guidate da Oxford,
Cambridge e Harvard) dove il sapere, geograficamente
embedded, rafforza l’ordine dello spazio post-coloniale.
Gli studenti, desiderosi di studiare all’estero prima
di ritornare in Cina, ci parlano non solo di tale ordine,
5. Rimando alla voce Pauperizzazione in L. Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Torino 2000.
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ma anche di come queste stesse asimmetrie siano usate
come una sorta di «rendita» da spendere nel mercato
del lavoro interno per sopravvivere dentro lo stesso processo di pauperizzazione. Rendita e geografia post-coloniale, studenti e mercato del lavoro globale sono le
condizioni su cui poggia oggi l’emersione di un’inedita
global university.
Eppure Marx, accanto alla «legge generale» della
pauperizzazione relativa6, arriva a teorizzare questo processo come «legge tendenziale», secondo la quale la
stessa condizione di impoverimento può essere attaccata e invertita, nei suoi effetti, dall’azione politica organizzata degli operai. È questo un punto teorico affascinante,
che ho cercato di usare come riferimento per orientarmi
tra le nuove forme di alienazione e povertà che emergono nella violenza dello sfruttamento del lavoro cognitivo. Il ciclo di scioperi analizzati in questa ricerca ci dice
come la composizione di una forza lavoro sempre più
istruita e legata ai processi di mobilità possa modificare
gli stessi comportamenti dei classici mingong 7: bloccare
la catena di montaggio, occupare strade e ponti per chiedere più soldi sono pratiche che rivelano una disposizione a praticare forme di lotta e resistenza radicali.
Osservando ciò che succede in Cina si scopre come,
nello sviluppo capitalistico di un paese ritenuto un’economia emergente, non ci sia nulla di ciò che l’Occidente
ha già vissuto in passato. Non solo questo paese rende
6. Si possono infatti distinguere due forme di pauperizzazione, assoluta
e relativa: quella assoluta si riferisce al peggioramento delle condizioni di
vita media dovute al generale abbassamento del salario reale, mentre
quella relativa, sviluppata nella tradizione marxiana, lega questo fenomeno storico al divario tra il benessere della classe dominante e il proletariato (cfr. pauperizzazione, in L. Gallino, cit.).
7. Con mingong si intendono i lavoratori contadini migranti. Per un approfondimento di questo termine cfr. La nuova generazione di mingong
(infra, p. 83).
17
inefficace la distinzione tra le categorie «paese sviluppato» e «paese in via di sviluppo», ma muta anche il classico significato della parola transizione: è in Asia che possiamo osservare le future prefigurazioni di lotta, dentro
le quali scorgere forse le stesse vertigini temporali dell’Occidente e i conflitti a-venire delle nostre società.
3. La crescita dell’area del Pacifico è letta da molti come un fatto eccezionale: le multinazionali e un originale modello di capitalismo avrebbero dato vita a un vero e
proprio «miracolo» economico. Al di là delle nuove forme di povertà emergenti accennate sopra, delle profonde contraddizioni sociali e dei problemi contemporanei, il «miracolo asiatico» appare come il registro linguistico con cui si è soliti descrivere i cambiamenti di
questa regione, la grammatica con cui sono scritti articoli, saggi e analisi riferiti alla crescita economia del
Dragone o delle Tigri asiatiche.
Una sorta di «mantra celebrativo» che ha fatto della
crescita economica e dei rapporti capitalistici le fondamenta per comprendere gli assetti sovrani così come gli
aspetti sociali, culturali e storici di queste zone. Una retorica, inoltre, che spesso appare come il portato di ciò
che potremmo chiamare un «desiderio di rivincita postcoloniale», laddove le storiche sopraffazioni e umiliazioni subite vengono ribaltate nella corsa per occupare
un ipotetico primo posto nel mondo. Una corsa, questa,
tutta segnata da parametri coloniali interni ai processi
storici vissuti, con cui pensare e ragionare il presente,
dove la stessa idea di Asia si mostra in realtà un dispositivo da contrapporre all’Europa e al suo passato imperialista8. In questo quadro, un certo uso della critica
8. Y. Baik, Conceptualizing «Asia» in modern Chinese mind: a Korean perspective, «Inter-Asia Cultural Studies», vol. 3, n. 2, 2002.
18
postcoloniale, animato da un desiderio di riscatto, diventa uno strumento scivoloso. Come in un gioco di
specchi, l’Asia diventa un’entità astratta e contrapposta
all’Europa, una specifica zona geografica, omogenea
internamente, che è allo stesso tempo spazio della conquista e della rivalsa, metodo per la costruzione di identità culturali e politiche. In questo solco le teorizzazioni
sinocentriche della crescita economica e della nuova accumulazione del capitale di molti autori legittimano e
riflettono, nel loro controcanto, la stessa grammatica
dell’eurocentrismo9.
Dentro questa grammatica alcuni studi degli ultimi
anni hanno comunque provato a utilizzare il «miracolo» asiatico come campo per problematizzare la stessa
idea di Asia, di modernità e di sviluppo10. Questo libro
tenta di inserirsi in questo spazio, problematizzando
quelli che sembrano gli aspetti costitutivi della regione
del Pacifico e non solo. Ma per fare questo, anzitutto occorre rompere quel perimetro geografico e disciplinare
che sembra impedire di leggere la Cina e l’est Asia come molteplicità, fornendo una descrizione soffocata da
contrapposizioni e identità regionali. Per dirla con Gayatri C. Spivak11, abbiamo bisogno di un’«impossibilità
necessaria»: una prospettiva urgente che trasformi la
contrapposizione in un principio di moltiplicazione e
che nel rifiuto di una linearità omogenea sappia leggere
il molteplice. Rompere i confini significa osservare la
crescita cinese attraverso i flussi migratori, la mobilità
9. S. Ge, How does Asia mean? (Part I), «Inter-Asia Cultural Studies», vol.
1, n. 1, 2000.
10. Mi riferisco qua in particolare ai recenti studi di autori come KuanHsing Chen, Chua Beng Huat, Lau Kinchi, Hui Po Keung, Cheung Siu
Keung, Naoki Sakai, Scott Cheshier, C.J.W.-L. Wee, Li Minqi.
11. G.C. Spivak, Our Asias: how to be a continentalist, in Id., Other Asias,
Wiley-Blackwell, New York 2007.
19
della forza lavoro e della sua composizione: un rumoroso sfondo che ci parla dell’emergere di nuovi rapporti di
forza che globalmente conquistano le proprie opportunità. In questo scenario la questione della etnicizzazione del lavoro si lega alla sua nuova divisione internazionale, mentre accanto all’economia della conoscenza
emerge, con il suo carico di violenza, una nuova Verelendung della forza lavoro qualificata.
Il «miracolo cinese» vive così dentro le contraddizioni del nuovo processo di urbanizzazione, tra i nodi problematici connessi all’identità e alla valorizzazione contemporanea del capitale. Qui si dà la possibilità di immaginare forme di organizzazione e di movimento,
quelle vertigini del nostro presente, dell’Occidente e
della stessa transizione. Scoprire percorsi di nuova soggettivazione dentro la crescita globale, i processi di valorizzazione e le sue resistenze: problematizzare significa
allora osservare ciò che in potenza può creare concatenamenti con altri movimenti e regioni, ciò che può disfare
l’orlo e il perimetro di quella zona chiamata Pacifico dentro la crisi globale che stiamo vivendo.
Quale Asia emerge da questo lavoro? Non tanto la
descrizione di una specifica area geografica, quanto la
descrizione di un metodo, di una pratica come quella
dell’inchiesta. Un dispositivo che vuole essere il tentativo di aggiornare la critica dell’economia politica, ma anche la ricerca di forme possibili di intervento nei processi che animano la crisi dello Stato-nazione e l’emergere di nuovi modelli di governance. Un dispositivo che
ci aiuti a capire il molteplice e le connessioni dell’azione
politica dentro i cambiamenti che stiamo vivendo.
20
La crisi vista dalla Cina
Assemblaggi I. Il continente Cina
Avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, caos,
sconvolgimento di tutti i ritmi. Nell’insieme il continente Cina somiglia a una vescica ribollente sospesa
fatta di grattacieli, tradizioni storiche, norme infrante e
movimenti.
La prima cosa che ti prende alla gola arrivando in
una delle regioni del sud nei mesi troppo caldi, ovvero
la maggior parte del tempo escluso forse gennaio, è il
caldo umido, atrabiliare e soffocante come lo sfruttamento nelle migliaia di fabbriche del Guangdong, una
sorta di «Manchester d’Oriente» del nuovo millennio
per frenesia e produttività. Un posto decisamente diverso dalla nuda terra della campagna, da dove ti viene voglia di scappare, di fuggire per cercare un po’ di quel silenzio delle metropoli, rifugio sia dall’odore dolce e
pungente del carbone che brucia, sia dalla carne e dalla
povertà. Ma la povertà ti segue fino agli angoli delle metropoli cosmopolite e senza mediazione alcuna, ed è
proprio questa assenza a disorientare.
Quando parliamo di Cina dobbiamo dismettere l’idea di unità spazio-temporale, connaturata a quella di
Stato-nazione. Lungi dall’essere omogenea, la sua dimensione regionale e sub-continentale ne fanno una
terra profondamente eterogenea, tanto nella sua dimensione spaziale quanto in quella temporale. Tra le
discontinuità di questo paese occorre inserire anche i
rapporti di potere che in questi anni si sono definiti attraverso il capitale globale che, affermando il proprio
dominio, ha modellato la geografia interna della Società dell’armonia.
Sotto la superficie esteriore del presente, le delocalizzazioni delle multinazionali, così come la crescente
mobilità del lavoro e dei flussi finanziari, hanno dato vi23
ta a un’originale disarticolazione, con l’introduzione di
zone di eccezione, sotto il profilo economico-politico,
che hanno portato questo paese, nel giro di trent’anni, a
diventare il nuovo protagonista dello sviluppo globale.
A partire dagli anni Ottanta, la «strategia dell’apertura» (con le riforme di Deng Xiaoping) ha istituito una
serie di «zone economiche speciali» che hanno accompagnato l’ingresso degli investimenti stranieri; tali zone, come quelle autonome speciali per lo sviluppo urbano e industriale, hanno agevolato il flusso finanziario
con sconti, agevolazioni fiscali ed esenzioni sulla tassazione. Di fatto rappresentano il dispositivo attraverso il
quale venivano assegnati al capitale globale veri e propri
«pezzi» di sovranità1 territoriale, nonché la gestione
della forza lavoro locale.
Le zone economiche speciali (Zes), insediate dapprima nelle sole regioni costiere, sono progressivamente aumentate di numero e si sono diversificate. Nel
1982, quattro anni dopo l’apertura delle prime Zes a
Shenzhen, a Xiamen, a Zhunhai e a Shantou, vennero
create le «economic and technical development zones»
in cui la razionalità guidata dal mercato ha plasmato le
differenze del territorio nazionale.
Le Zes hanno di fatto trasformato, se non quando
hanno letteralmente costruito, nuove città come Shenzhen, che è passata dai circa 70.000 abitanti del 1970
agli oltre dieci milioni di oggi. Esse, inoltre, hanno dato
inizio a quella «eccezione» politica che, rompendo l’omogenea sovranità territoriale del classico Stato-nazione, ha creato spazi di sperimentazione nella gestione
della popolazione e della forza lavoro.
I vantaggi delle Zes costiere sudorientali si sono
1. Su questo rimando a A. Ong, Neoliberalism as exception: mutations in citizenship and sovereignty, Duke University Press, Durham 2006.
24
consolidati con anni di «sperimentazioni» del capitale,
marcando differenze sempre più profonde con il resto
del paese. Le crescenti disparità sociali ed economiche
stanno facendo della Cina un difficile laboratorio per le
politiche della redistribuzione della ricchezza e profonde ineguaglianze sociali si dispiegano su differenti piani, seppur mutualmente interconnessi.
Anzitutto abbiamo la disparità regionale prodotta
dagli insediamenti a statuto speciale: le regioni più ricche possono vantare ritmi di crescita fino a dieci volte
superiori di quelle più povere. Questo livello si accompagna alla disparità crescente tra città e campagne, così
come all’interno delle stesse città, dove la polarizzazione delle ricchezze è in crescendo. Forse è proprio per
questo che dal 2010 Beijing è stata costretta a perseguire una politica di aumenti salariali per l’incremento del
salario minimo legale.
Certamente queste pressioni sono in parte la risposta alle lotte sul lavoro che oggi interessano alcune regioni del paese, come quelle del Pearl River Delta, ma
non solo. Osservando la tabella 1 si può facilmente notare come l’aumento del salario minimo sia di fatto generalizzato in tutto il paese.
Tabella 1: Salario minimo delle provinicie e delle città autonome cinesi
negli anni 2009, 2010 e suo incremento annuo; tratta da: 2010 Blue Collar Labour HR Practice Snapshot Survey Result Sharing (Guangdong and
Fujian Province), EUCCC Workshop, 22 June 2010, Guangzhou.
Provincia
Città
2009
2010
Crescita
Tianjin
Shanghai
Jiangsu
Tianjin
Shanghai
Nanjing, Wuxi, Suzhou,
Changzhou, Nantong,
Zhenjiang, Kunshan
Xuzhou, Lianyungang,
Huai’an, Yancheng,
820
960
920
1120
12,2%
16,7%
850
960
12,9%
25
Jiangsu
Zhejiang
Jilin
Shandong
Hubei
Guangdong
Fujian
Yangzhou, Taizhou
700
790
Suqian
590
670
Hangzhou, Ningbo,
Wenzhou,
960
1100
Shaoxing, Taizhou,
Jinhua, Huzhou
850
980
Quzhou, Lishui,
Zhoushan
780
900
Jiaxing
690
800
Changchun
650
820
Qingdao, Yantai
760
920
Wuhan (Jiangan District,
Jianghan District, Qiaokou District,
Hanyang District, Wuchang District,
Qingshan District,
Hongshan District)
700
900
Wuhan (Dongxihu District,
Caidian District, Jiangxia District,
Huangpi District, Xinzhou District,
Hannan District)
600
750
Guangzhou
860
1100
Shenzhen
950
1100
Zhuhai, Foshan,
Dongguan, Zhongshan
770
920
Huizhou, Jiangmen
670
810
Zhaoqing
580
710
Fuzhou (Fuqing, Changle) 650
800
Fuzhou (Minhou, Lianjiang,
Pingtan)
570
700
Fuzhou (Luoyuan,
Minqing, Yongtai)
480
600
Xiamen
750
900
12,9%
13,6%
14,6%
15,3%
15,4%
15,9%
26,2%
21,1%
28,6%
25,0%
27,9%
15,8%
19,5%
20,9%
22,4%
23,1%
22,8%
25,0%
20,0%
Siamo forse di fronte al tentativo di riequilibrare il
surplus commerciale che la Cina detiene nei confronti
dell’economia Usa attraverso l’aumento dei salari?
Tali aumenti, che in alcuni casi eccedono generosamente anche le più ottimistiche previsioni, mostrano
tutta la paura e la fragilità di un paese in cui, negli ultimi
anni, il livello delle diseguaglianze sociali è cresciuto
senza sosta, sorpassando pericolosamente nel 2010 il
26
livello di guardia, con il coefficiente di Gini2 attestato
sullo 0,47%.
In questi anni si sono raggiunti livelli di crescita impensabili per i paesi occidentali; stupendo il mondo intero, la Cina ha mantenuto la promessa di crescere del 9%
nell’anno della recessione globale. Mentre le economie
di mezzo mondo rivedevano a ribasso le loro previsioni
di crescita, impaurite dal morso della serpeggiante stagflazione, il Regno di Mezzo confermava un obiettivo
considerato irrealizzabile anche dagli economisti più ottimisti. Eppure, la Cina sembra uscita da questa scommessa con più incertezze che altro, e gli squilibri di questo Stato-nazione si stanno inasprendo sempre più.
Le zone speciali di Shenzhen, così come quelle urbane di Beijing e Shanghai, descrivono non solo gli insediamenti produttivi più avanzati e integrati nei circuiti della finanza globale; molto lontani dalle province
dello Sichuan o dello Hunan, disegnano altresì la geografia dello sviluppo e delle contraddizioni. Il divario
fra zone rurali e costiere, che non solo si sta approfondendo, ma si sta moltiplicando all’interno dei suoi centri urbani, è il dispositivo che ha permesso di governare
la macchina economica cinese degli ultimi trent’anni.
Non solo! È ciò che ha guidato l’ingresso della Cina
nel Wto, prima che ciò si rivoltasse, come un guanto,
nello squilibrio della bilancia dei pagamenti con gli Stati Uniti, dove le contraddizioni interne di questo paese
si sono intrecciate ai problemi della politica economica
mondiale. In un prossimo futuro, la crescita economica
cinese potrebbe essere sempre più alimentata dal consumo interno anziché dipendere, come oggi, dalle
2. Il coefficiente di Gini misura la diseguaglianza nella distribuzione del
reddito e della ricchezza. Il valore «0» corrisponde all’uguaglianza perfetta; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale,
e il valore «1» corrisponde alla più completa disuguaglianza.
27
esportazioni. Questa strategia, di fatto, comporterebbe
un allargamento del mercato interno, la cui espansione
potrebbe essere usata per ridurre il divario tra città e
campagna. Una soluzione per così dire «di mercato» a
questi squilibri interni.
L’ultimo decennio ha nutrito numerose tensioni sociali e portato con sé una moltiplicazione di conflitti che
vanno dal lavoro a questioni legate allo sviluppo ambientale e sociale. La «società armoniosa» diventa progressivamente sempre più instabile e si affaccia su inedite dimensioni della crisi proprio a causa della sua crescita economica.
L’ingresso nel Wto e il socialismo di mercato
Hong Kong, ex colonia britannica, dal 1997 fa parte
della Cina come zona amministrativa speciale. Espressione della cosiddetta politica «un paese, due sistemi», la
Manhattan dell’Asia, come spesso viene definita, è uno
dei paradisi fiscali dell’economia mondiale, tanto prima
quando era una colonia inglese quanto oggi.
Lo stesso vale per Singapore, città-Stato governata da
un regime autoritario dove persino gli articoli e i libri
scritti dagli accademici delle sue università devono passare al vaglio della censura prima della pubblicazione.
Benché questi governi siano regimi autoritari privi di
forme di partecipazione e democrazia, appaiono come
formidabili macchine di partecipazione economica alla
produzione e al commercio internazionale. La Cina non
fa di certo eccezione.
Development state o hard state è la definizione con cui
tradizionalmente la scienza della politica economica ha
decsritto il fenomeno della pianificazione macroeconomica guidata dello Stato nell’est Asia. In molti paesi di
questa regione, lo Stato ha di fatto assunto un controllo
28
nella regolazione e pianificazione, nonché nell’economia, garantendo, negli ultimi cinquant’anni, la crescita
a due cifre di paesi come Cina, Vietnam, Malesia, Indonesia, Sud Corea e Taiwan. La legittimazione di questo
potere poggia interamente sulla capacità statuale di guidare la crescita economica sempre più integrata nella
globalizzazione, quella stessa globalizzazione che si è
drasticamente riformulata con il crescente protagonismo cinese. L’ingresso della Cina nel club del commercio mondiale, il Wto, da un lato ha cambiato non poco il
contesto internazionale e dall’altro ha modificato profondamente questo paese.
Gli intensi negoziati che ne hanno preceduto l’ingresso sono durati per quasi tutti gli anni Novanta: una
sorta di «lunga marcia» per rendere compatibili i suoi
assetti societari, le norme giuridiche e finanziarie con
quelli degli altri membri commerciali. Cambiamenti
nelle sue regole amministrative e nei rapporti economici internazionali che, per profondità ed estensione, sono stati dipinti come una sorta di «terza rivoluzione»3.
L’ingresso della Cina nel Wto l’11 dicembre 2001, lo
stesso anno dell’attacco alle torri gemelle di New York,
è stato un evento che ha segnato una discontinuità importante, nulla sarebbe stato più come prima. Oggi viviamo un’anemica crescita globale che, seppur trainata
dai nuovi mercati emergenti, sprofonda nella stagflazione e nella disoccupazione. In questo scenario, la Cina vede emergere conti pubblici fuori controllo, le prime aggressive lotte sul lavoro e la ricerca di nuove fonti
energetiche. Tutto ciò ci suggerisce come i problemi
della globalizzazione siano qualcosa di profondamente
3. G. Salvini, La modernizzazione della Repubblica popolare cinese, in M.
Scarpari (a cura di), La Cina. L’età imperiale dai Tre Regni ai Qing, vol. II,
Einaudi, Torino 2010
29
interno a quello che anche la stessa società cinese sta vivendo, laddove non c’è nessun confine nazionale talmente forte da arginare o isolarsi dalle trasfromazioni
che stiamo vivendo con radicale intensità.
In questo nuovo scenario globale il nazionalismo
non si è affatto affievolito, si è anzi rafforzato. E tuttavia
ci spinge a interrogarci e a riflettere non tanto su un
nuovo protagonismo dello Stato-nazione, quanto piuttosto sulla sua crisi, sulla decadenza di questo dispositivo giuridico dalla quale la Cina non è affatto immune.
Nella sua riconfigurazione attraverso la globalizzazione, tale crisi si annoda alle convulsioni dello stato socialista, di quel principio politico di eguaglianza che doveva essere perseguito dentro la sfera statale4.
La più straordinaria trasformazione economica degli ultimi tempi è stata gestita da una dittatura del proletariato, proprio in quegli anni in cui in Europa si assisteva all’abbandono dell’idea stessa di socialismo5.
Mantenendo una solida continuità istituzionale, il Partito comunista cinese ha guidato quest’importante trasformazione del paese, di fatto incorporando questa
stessa crisi: del vecchio dispositivo giuridico dello Statonazione è rimasto in piedi solo la disuguaglianza sociale, in un inedito intreccio tra neoliberalismo e controllo
statale. Ed è proprio all’interno del Wto che si manifestano in maniera evidente i legami interni tra neoliberismo e Stato, tra capitale trans-nazionale e potere politico. A questo proposito, scrive efficacemente Toni Negri: «Lungi dal distruggere lo Stato-nazione, il capitale
globale lo assorbe, lo utilizza come sua funzione inter4. C. Pozzana, A. Russo, Circostanze, politica e storia. Introduzione a Wang
Hui, Impero o Stato-nazione: la modernità intellettuale in Cina, Academia
Universa press, Milano 2009.
5. M. Jacques, When China Rules the World, Allen Lane, New York 2009.
30
na. Il mercato globale sussume lo Stato-nazione, lo fa
diventare un semplice attore del mercato»6.
Il socialismo cinese di oggi non solo è, di fatto, l’espressione di un capitalismo multinazionale monopolistico, ma lo stesso capitale globale sembra aver assunto quelle funzioni di sovranità una volta proprie della
Repubblica popolare cinese. Lo Stato ha fatto del comando sulla forza lavoro e sulla gestione dei flussi del
capitale globale il suo asse portante, con un forte impatto sulle condizioni di lavoro e sui lavoratori di tutto il
mondo come forse mai nessun altro paese. Siamo di
fronte a «un processo istituzionale in cui lo sviluppo locale dipende dal movimento dei capitali, tanto quanto
quest’ultimo dipende costitutivamente dal superamento
dei limiti, sociali ed economici, dei luoghi dello spazio
mondiale»7: è lo scenario di una nuova, quanto inedita,
globalizzazione.
Nel nuovo disordine mondiale
Shanghai è l’incrocio dei molti tempi storici: è dove il
Regno di Mezzo ha incontrato l’Europa dello Statonazione. È dove oggi il comando del nuovo nazionalismo cinese scopre la durezza dell’impero.
È solo dal recente 1950 che le cosiddette tigri asiatiche, ovvero Sud Corea, Taiwan, Singapore e Malaysia
vivono un rapido ritmo della loro crescita economica. A
loro si sono aggiunti successivamente Thailandia, Malaysia, Indonesia, nonché Cina. Quest’ultimo paese, il
più importante economicamente, in poco meno di ven6. T. Negri, Corruzione, nuova accumulazione, rifeudalizazzione, «Common», n. 0, settembre 2010.
7. C. Marazzi, E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
31
t’anni ha mostrato la capacità di sedimentare importanti relazioni politiche e commerciali in Asia centrale, nel
sud come nell’est del Pacifico, in Africa come in sud
America. Il suo crescente protagonismo, accentuato
nell’attuale fase di crisi, sembra essere stato riconosciuto anche dalle principali istituzioni mondiali.
È il caso, per esempio, del Fondo monetario internazionale che ha conferito a Zhu Min, ex vicegovernatore
della banca centrale, il ruolo di consigliere speciale, una
sorta di braccio destro di questa stessa istituzione. La
cosa non solo segna una nuova geografia dei poteri all’interno della finanza mondiale, ma fa dello stesso Zhu
Min un possibile candidato alla guida dell’Fmi in un
prossimo futuro. Questi eventi, senza alcun dubbio di
natura epocale, hanno spinto una pletora di giornalisti,
analisti e commentatori a cercare quel sostituto in grado di coprire il ruolo, fino a oggi giocato dagli Usa, di superpotenza nello scacchiere mondiale. Non solo: questa letteratura è attenta a quello che è considerato l’irreversibile declino della supremazia economia, politica e
militare dell’Occidente, la cui egemonia avrebbe i giorni contati di fronte all’inafferrabile potenza cinese.
È innegabile che la Cina, la regione del Pacifico e altri nuovi attori mondiali stiano di fatto aumentando il
loro protagonismo a livello mondiale. Aspettarsi, da
qua ai prossimi anni, l’affermazione di un unilateralismo cinese dopo il fallimento di quello americano, mi
sembra, al contrario, davvero improbabile8. Presupporre che la Cina riesca laddove gli Usa hanno fallito, sostenere che la crescita cinese restaurerà politiche unilaterali di tipo egemonico cui abbiamo assistito finora significa ipotizzare un futuro ordine mondiale con tratti
8. Su questo punto rimando in particolare a M. Hardt e T. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, trad. it. Rizzoli, Milano 2010.
32
che, nei fatti, sono quelli che l’hanno caratterizzato fino
a qualche decennio fa.
Tale punto di vista, nell’osservare i mutamenti e le
sfide che abbiamo di fronte, ha la sicurezza che solo una
certa ricorsività storica può dare loro: un nuovo ciclo di
accumulazione del capitale potrà darsi negli stessi modi in cui si è dato con gli Stati Uniti, e prima ancora con
l’impero inglese e olandese. Ciò che muta è semplicemente il baricentro della nuova crescita, sempre più
verso la regione del Pacifico. In realtà, la crisi attuale ci
mostra l’impossibilità di tornare indietro così come ci
rende impossibile immaginare, in questo mondo unificato da quell’«astrazione concreta» che si chiama denaro, la ripetizione di forme di accumulazione che, forse,
oggi parlerebbero mandarino. Di fronte al crollo della
divisione tra centro e periferia a livello mondiale – dove
le cosiddette economie emergenti stanno imponendo
una riorganizzazione geografica senza precedenti al
funzionamento del capitale e la sua cresctia economica
–, il presente ci parla piuttosto dell’urgenza di un nuovo
ordine politico globale che sappia rendere conto e confrontarsi con questi cambiamenti, con le sue sfide e i
suoi problemi.
Tale necessità parte anzitutto dallo squilibrio strutturale della bilancia dei pagamenti di Chimerica9, considerato da molti una delle cause della crisi attuale; crisi
direttamente connessa all’egemonia del dollaro statunitense sui mercati internazionali. Tale egemonia è iniziata con lo smantellamento degli accordi di Bretton
Woods e la fine del regime gold standard, che segnò l’avvio delle prime deregolamentazioni dei mercati.
9. Chimerica è un neologismo coniato dagli economisti Niall Ferguson
e Moritz Schularick per descrivere le relazioni economiche sino-statunitensi.
33
Da questo punto di vista, le politiche monetarie della Banca centrale cinese sono state caratterizzare, fino a
oggi, da uno stile diametralmente opposto a quello di
Washington. Esso si basa sulla prudenza e cautela nella
gestione della liberalizzazione dei flussi di capitale e dei
cambi della moneta. Il mantenimento entro scambi fissi ha forse evitato, in un periodo di grandi speculazioni,
possibili attacchi alla moneta (il renminbi), diversamente da quanto è avvenuto nella primavera del 2010
in Europa ai danni dell’euro. La rigidità cinese, maturata dopo aver vissuto (seppur in maniera indiretta) le disastrose conseguenze degli attacchi speculativi durante
la crisi asiatica del 1997, ha di fatto trasformato il cambio fisso dello yuan contro il dollaro statunitense in una
sorta di ancora (quello che in termini tecnici si chiama
peg) per tutto il sistema monetario internazionale, così
come accadeva con il prezzo dell’oro fissato in dollari al
tempo di Bretton Woods10.
Ma dopo quasi dieci anni, stiamo forse assistendo a
un rafforzamento di questa moneta sui mercati, cosa
che potrebbe preludere al completo libero cambio del
renminbi e di fatto lo renderebbe più importante sui
mercati mondiali, promuovendo senza dubbio un originale protagonismo finanziario della Cina11.
10. Rimando qua a una analisi più dettagliata in: M. Bagella, R. Bonavoglia, Il risveglio del dragone, Marsilio, Venezia 2009.
11. Il ruolo della divisa cinese può essere osservato a partire dalla recente
crisi greca. Dopo aver rifiutato pubblicamente l’acquisto diretto di bond
greci sotto la mediazione della banca americana Goldman Sachs, Beijing
ha preferito giocare un ruolo pubblico marginale nei salvataggi dei default
sovrani, sfruttando invece la sua partecipazione in qualità di maggior contribuente del Fmi. I bond, con cui Beijin ha dato liquidità al Fmi, sono stati pagati con 341.2 miliardi di yuan piuttosto che con i dollari delle sue riserve. L’utilizzo della moneta locale va nella direzione di utlizare lo yuan
anche nei mercati esteri, un passaggio, questo, che Beijing sta promuovendo proprio grazie a questa istituzione. Tuttavia un primo test in questi
circuiti finanziari era già stato effettuato con la vendita di bond sovrani
34
Ed è proprio la definizione di un nuovo ordine mondiale multipolare – fatto di accordi valutari regionali
con divise nazionali che promuovono investimenti e
scambi bilaterali – il risultato del meeting dei BRIC, ovvero di Brasile, Russia, India e Cina12, tenutosi a Brasilia
nella primavera del 2010. La proposta contenuta nel documento finale colpisce un Occidente che fatica a riprendersi e segna una nuova gerarchia dentro i poteri
della finanza mondiale, dove lo tsunami finanziario ha
incrementato la fiducia nelle economie dei paesi in via
di sviluppo; e per il dollaro, inteso come moneta della riserva mondiale, prepara un futuro incerto, mentre nuovi soggetti puntano a superare questa divisa come riferimento sui mercati globali.
In questo quadro, un rafforzamento degli scambi
commerciali senza passare per gli Usa (che tuttavia restano, a oggi, il maggior partner commerciale di questi
paesi), e l’uso di istituzioni internazionali come il Fmi e
la Banca mondiale potrebbero rafforzare la stessa internazionalizzazione dello yuan nel commercio mondiale. La cosiddetta «trappola del dollaro»13 e il costante pericolo di un’eccessiva dipendenza dalle esportazioni finanziate da capitali stranieri mettono oggi in luce
emessi per la prima volta in yuan sui mercati di Hong Kong. Una «vendita di patriottismo» annunciata qualche giorno prima del 1 ottobre 2009,
anniversario dei sessanta anni della Repubblica popolare cinese.
12. Questi quattro paesi, che da soli contano il 40% della popolazione
mondiale e il 16% del Pil, potrebbero raggiungere il potere economico
che oggi hanno i G7 entro il 2050. Partner privilegiati di questi paesi sono il Sudafrica (forte di un commercio interregionale in costante aumento e che ha raggiunto il volume di 26,4 miliardi di dollari lo scorso
anno), e l’Indonesia, che con i suoi 235 milioni di persone, è il quarto Stato più popolato al mondo, nonché futuro candidato a far parte dei BRIC.
13. La «trappola del dollaro» di Paul Krugman descrive una situazione in
cui la svalutazione di questa moneta creerebbe un serio danno a quei
paesi che hanno riserve monetarie in dollari statunitensi. In sostanza, il
dollaro finisce col tenere in scacco questi paesi.
35
l’importanza della moneta e delle divise nazionali, sempre più centrali nel ridefinire il nuovo assetto internazionale della globalizzazione e l’infrastruttura di un
nuovo regime monetario mondiale. Tuttavia, che tale
regime possa vedere uno yuan sostituirsi a un affaticato
dollaro sembra un’ipotesi poco plausibile.
Più della crisi finanziaria di inizio millennio ciò che
verrà ricordato di questo decennio sarà il nuovo protagonismo, politico ed economico, assunto da questi paesi,
che ci informa sull’assetto mondiale emergente dalla
crisi economica in corso. Nella geografia della produzione globale vanno nascendo differenti centri di potere e di
comando. Il darsi o meno di lotte sociali e resistenze ai
dispositivi dello sfruttamento nelle metropoli, così come
tra i circuiti dell’attività finanziaria, sarà forse l’elemento
determinante per comprendere le forme e le strategie
emergenti nella nuova governance imperiale.
Do you speak putonghua?
A inizio 2010, un attacco – che poi si scoprirà essere
partito dai computer di un’università di Beijing – è riuscito a entrare in alcune caselle di posta elettronica cancellando la corrispondenza di avvocati e attivisti cinesi
pubblicamente impegnati nella difesa dei diritti umani.
Questo fatto è stato il motivo che ha indotto l’azienda statunitense Google a trasferire il proprio traffico internet
dai server di Beijing a quelli di Hong Kong. È solo l’ultimo di una serie di attacchi che hanno avuto come obiettivo le imprese del web. Qualche tempo prima dell’affaire Google, oggetto dell’aggressione era stato Baidu, il
motore di ricerca in lingua cinese14 che, seppur vicino al
14. Baidu sarebbe stato «colpito e affondato» da parte di hacker iraniani a
firma Iran cyber army, per punire le posizioni troppo morbide assunte dal
Partito contro l’embargo commerciale che accerchia questo paese.
36
Partito, è a tutti gli effetti un’azienda privata. È iniziata la
prima «guerra delle informazioni» e non ce ne siamo accorti? Non credo, ma è un fatto che la multinazionale di
Mountain View, lasciando formalmente il mercato cinese di internet, delinea con questo gesto un nuovo scenario e una nuova prospettiva ai confini della rete.
Non è un segreto il fatto che il potere politico di Beijing abbia reso la vita di Google in Cina molto dura, soprattutto negli ultimi anni. Dal suo ingresso, è stata una
continua escalation: dall’accusa di diffondere con le sue
ricerche materiale pornografico a quella di violazione
del copyright per i servizi offerti da Google books, fino
all’ultimo attacco ai server che ospitavano il servizio di
posta elettronica Gmail. E non è un segreto che Google
non abbia mai avuto, in questo mercato, quell’egemonia schiacciante che si è conquistata nell’english speaking world. Se Baidu, motore di ricerca interamente in
lingua cinese, ha ben in saldo oltre il 60% del mercato,
Google si trovava a dover lottare e dividere la quota rimanente con altre compagnie minori.
Dopo aver recitato il copione dei paladini della libertà, del Davide che lotta contro il Golia della censura per
incrementare il proprio capitale, almeno di quello simbolico, la multinazionale di Mountain View ha infine
preso la decisione di dirottare il proprio traffico sui server di Hong Kong e di trasferirvi gli uffici.
Censura, filtri e accessi bloccati non sono caratteristiche della sola Cina: al contrario, siamo di fronte a un
protagonismo sempre maggiore dello Stato-nazione
nel restringere, conformare e manipolarne l’accesso a
internet e alle sue informazioni15.
15. Il ruolo dello Stato nel restringere l’accesso a internet è in crescente
aumento: se nel 2008 erano circa trenta i paesi che attuavano questo tipo
di politiche, ora sono quasi raddoppiati; oltre Iran, Emirati Arabi e Geor-
37
Al di là delle trasformazioni che stanno portando internet a una versione 2.0, ciò che mi preme sottolineare
è come il braccio di ferro a cui abbiamo assistito, durato
per oltre tre mesi tra promesse e minacce di ritorsioni
tra il Partito cinese e il management dell’azienda statunitense (come se quest’ultima fosse un vero e proprio
Stato alla pari), ha mostrato anzitutto il peso che le multinazionali, e Google in particolare, hanno acquisito in
una globalizzazione che intreccia liberismo, autoritarismo e monopolio. L’attacco organizzato ai danni di
Google è indicativo della strategia usata da Beijing per
far crescere le sue imprese internet, puntando a creare
un vero e proprio monopolio di mercato fondato sulla
lingua, il putonghua, e facendo del putonghua, ovvero
del «mandarino», la condizione di possibilità del mercato, con la grammatica che si trasforma in un confine
insuperabile.
Il putonghua, letteralmente la «lingua comune» a cui
fanno riferimento i linguisti Qu Quibai e Lu Xun all’inizio del Novecento, non è una lingua imperiale o nazionale, ma una sorta di lingua franca, costruita attraverso
processi sociali di migrazione, come soluzione all’articolazione delle differenze e alla comunicazione nella cosmopolita Shanghai. Successivamente, nel 1956, il termine putonghua venne adottato dalla Repubblica popolare cinese per designare la sua lingua ufficiale.
«Lingua comune» e mercato, accanto al global english
di Google, Msn o Youtube, ecco che la risposta a Google
è Baidu. Contro Msn nasce QQ; contro Youtube c’è Yougia, troviamo anche la liberale Australia. È Yahoo che ha lanciato il primo
allarme, accusando le nuove norme proposte dal governo australiano,
nate per proteggere gli utenti dalla socializzazione di materiale pedopornografico, di restringere anche l’accesso agli internauti a tutta una serie
di informazioni come i forum di discussione on line sull’ eutanasia, o
sulle esperienze sessuali di gay e lesbiche.
38
ku.com. È questa nuova segmentazione la base che farà
crescere i nuovi colossi cinesi della rete, sfruttando le
condizioni di uno strano quanto inedito monopolio, fondato sull’eccedenza anziché sulla scarsità: il vertiginoso
aumento degli utenti che masticano cinese16. La nuova
«cortina di silicio» ci rivela l’intreccio emergente tra le
mostruose forme di nazionalismo e il capitalismo finanziario globale, dove i processi interni di valorizzazione
economica sono alla prova con un’inedita potenza che fa
della vita sociale, del linguaggio e dei suoi aspetti storicosociali il proprio terreno di accumulazione.
I pirati contro l’impero
Navi cargo aspettano placide ai porti di Shanghai,
Hong Kong e Shenzhen, mentre vengono caricate con
centinaia di container, pronte a frustare l’acqua degli
oceani per mesi interi. Lungo le rotte commerciali delle
spedizioni navali ogni giorno si spostano milioni di
merci aggrappate ai loro cargo-jumbo, navi formato extra large che, tra l’odore di salsedine e quello di gasolio
bruciato, attraverseranno Suez, il Mediterraneo, definendo le rotte del commercio mondiale. Prima che il
porto riesca, come una calamita dei traffici, a tirare a sé
le navi e il loro prezioso carico, i nuovi pirati delle acque
internazionali preparano attacchi, organizzano sequestri, fanno sparire nel nulla mercantili prima di scomparire a loro volta senza lasciare traccia. Nelle acque agitate dell’oceano, marinai pronti a sfidare anche il più ar16. Secondo il China Internet Network Information Centre il Regno di
Mezzo ha 400 milioni di utenti internet, e di questi oltre 200 milioni
hanno accesso alla banda larga, contro gli 80 milioni che possono disporre di questo servizio negli Usa. Il numero degli utenti cinesi è cresciuto di 86 milioni (il 24%) solo nel 2009, ovvero quasi quanto l’intera
popolazione della Germania.
39
dito arrembaggio e la presenza dell’esercito sono il nuovo volto delle linee commerciali che, sempre più, assomigliano a zone di guerra.
Nell’Oceano Indiano che lambisce le coste somale,
negli ultimi anni assistiamo a una vera e propria guerra
a bassa intensità che si è andata inasprendo, ed è proprio qui che possiamo osservare le prime manovre della
diplomazia militare cinese alle prese con la sfida dei pirati. I militari cinesi, infatti, hanno ottenuto l’appoggio
internazionale per dirigere e coordinare le sempre più
intense operazioni anti-pirateria nelle acque al largo
delle coste africane. Da qui transitano ogni giorno milioni di container che, percorrendo le rotte commerciali
che collegano Asia ed Europa, invadono i nostri mercati
di merci cinesi. Sono anche le acque solcate dalle petroliere che salpano nel vicino Medio Oriente e dirette in
Cina, cariche di materie prime per una nazione sempre
più affamata di petrolio, di cui è diventata il primo consumatore mondiale, sorpassando persino gli Usa.
Il Regno di Mezzo si è trasformato nel più importante partner commerciale del continente africano e in
questa parte del pianeta deve cercare di ammorbidire la
propria presenza dopo che sono scoppiate le prime proteste contro una sorta di «neo-colonialismo» giallo.
Sembra che la via intrapresa dalla diplomazia per raggiungere questo obiettivo passi proprio per le acque agitate dai pirati, dove Beijing sta cercando la propria legittimazione internazionale.
Dopo una serie di sequestri di imbarcazioni battenti
bandiera cinese, la «guerra ai pirati», come è stata definita dagli ufficiali dell’esercito di liberazione popolare,
è diventata una vera e propria questione politica. Per i
generali e gli alti gradi dell’esercito è la questione politica, che li vede impegnati oltre i propri confini nazionali
tanto militarmente quanto con l’intelligence: uno dei
40
migliori centri mondiali di studio sulla pirateria ha sede
proprio ad Hong Kong.
Dopo decenni di attacchi di pirateria nello stretto di
Malacca, siamo forse di fronte a una nuova dottrina e
strategia militare: la marina cerca di estendere il controllo oltre le coste cinesi, dal Medio Oriente fino all’Indonesia, dal Golfo Persico fino al Pacifico. Le esercitazioni militari, sempre più articolate e complesse, fanno
del coordinamento e della flessibilità il perno di una
strategia di cui hanno sempre una maggior padronanza, e che rappresenta il grande passo in avanti dell’esercito in termini di capacità militari. La modernizzazione
e l’espansione della marina assorbe gran parte delle
spese militari e riflette le priorità di Beijing, che intende
farne lo strumento della sua sicurezza nazionale nel
mondo. Con basi militari pronte a essere trasferite in
nuove regioni e con un esercito che fa della mobilità,
della coordinazione e dell’agire in rete i propri punti di
forza, gli stessi confini da difendere diventano labili, e
quando coincidono con le trade line del commercio
mondiale si moltiplicano.
L’esercito di liberazione popolare cinese non è più
un’accozzaglia di irregolari, di contadini come durante
la rivoluzione: pescando soprattutto nell’ampio bacino
di neolaureati disoccupati che può offrire il mercato del
lavoro, la composizione dell’esercito è notevolmente
cambiata. L’arruolamento di migliaia di neolaureati,
come misura antidisoccupazione attuata durante lo
tsunami economico del 2008, ha di fatto trasformando
le forze armate in un vero e proprio esercito high-tech.
Sono molti i laureati che hanno optato per la divisa
piuttosto che per il colletto bianco; inoltre, un accordo
con il ministero dell’Educazione, che prevede incentivi
fiscali per chi intraprende la carriera militare, ha riempito le fila dell’esercito di esperti in logistica e comuni41
cazione, di ingegneri così come di informatici. Un successo per un esercito che ambisce a essere più sofisticato
(e meno contadino) e i cui generali si preparano alla
cyber war. Non a caso il Partito devolve risorse crescenti
per rafforzare le proprie capacità di difesa e di attacco rispetto a offensive che si fanno sempre più concrete.
Il 2010 è l’anno che ha visto crescere una serie inedita di aggressioni: hacker e pirati informatici hanno bucato i sofisticati sistemi di controllo computerizzato dei robot nelle fabbriche automatizzate, nonché quelli della
produzione di alcune raffinerie e delle reti di distribuzione dell’energia elettrica. Davanti agli annunciati piani di ristrutturazioni delle fabbriche e ai problemi energetici che questo paese dovrà affrontare, siamo forse di
fronte a un esercito che, con l’idea di combattere i pirati, ha trasformato una minaccia possibile in reali attacchi da cui difendersi. E la guerra è appena iniziata.
La fragile superpotenza
Mentre le prospettive occupazionali di Stati Uniti17
ed Europa sono le peggiori da generazioni e l’impasse di
una stagflazione, in cui le economie occidentali potrebbero arenarsi, comincia a fare seriamente paura, tutte le
speranze sembrano riposte nell’economia dell’Impero
celeste, la sola in grado di guidare la crescita globale. Il
«miracolo cinese» sembrerebbe in grado di moltiplica17. Negli Stati Uniti, dalla fine del 2007 a oggi, sono svaniti circa 8 milioni di posti di lavoro. Con il mercato americano della forza lavoro che cresce di circa 1 milione di unità all’anno, Joseph Seneca e James Hunghes
hanno stimato che se anche gli Usa si trovassero di fronte a livelli di crescita dell’occupazione come quelli visti negli anni Novanta (stimati intorno ai 2,4 milioni di posti di lavoro in più all’anno), il tasso di disoccupazione non scenderebbe sotto il 5% prima del 2017! Ciò significa che un alto tasso di disoccupazione è una componente a cui dovremo abituarci nel
lungo periodo.
42
re anche le esportazioni verso un paese dal mercato potenzialmente infinito: la «fabbrica del mondo» si scopre essere il «mercato del mondo».
Incapaci di incrementare i posti di lavoro, gli Stati
Uniti pensano a stipulare nuovi accordi commerciali
per aumentare l’export dei loro prodotti. Un po’ a tutte
le economie avanzate fa gola pensare di poter chiudere i
negoziati di Doha sul libero scambio che ancora giacciono in sospeso (visti oggi come lo strumento per diminuire un tasso di disoccupazione che pare intoccabile) e poter così rianimare il Pil18. La paura del fallimento
di Stati-nazione sovrani, come successo in Grecia o Islanda, sta facendo il resto, paralizzando la manovra della
spesa sociale in molti paesi e rendendo l’economia del
Pacifico ancora più desiderabile, proprio perché così lontana da un’Europa che vive con il fiato sospeso.
I sentimenti che l’Occidente nutre nei confronti del
Regno di Mezzo (con le sue riserve record in valuta straniera e il rilancio economico del governo, che sembra
funzionare così bene al contrario di quanto avviene tra
le sponde dell’Atlantico) hanno inflessioni di ammirazione, se non proprio di invidia, accentuate da superlativi: il «mercato più grande», «la crescita più veloce»,
«le riserve record» parlano tutti cinese.
L’abilità cinese di reggere all’urto dello tsunami economico globale è stata caratterizzata dalla capacità del
Partito di ridefinire il ruolo del paese nella divisione internazionale del lavoro, nonché di stimolare economica18. Tuttavia le condizioni con cui cercare di concludere questi negoziati
sono decisamente cambiate rispetto a solo un paio di anni fa. Entro il
2016 l’Asia potrebbe dare il maggior contributo alla crescita del Pil mondiale, secondo uno studio della HSBC di Hong Kong, sorpassando Ue e
Usa. L’EMI (Emerging Market Index) della HSBC è aumentato del 56,1%
nell’ultimo quadrimestre del 2009; un segno non solo della espansione
di tali mercati, ma anche dell’aumento di autonoma interdipendenza.
43
mente un inedito sviluppo interno19. Ma tale stimolo economico lanciato da Beijing sembra aver portato, oltre a
una crescita superiore all’8% del Pil, anche un’eccedenza produttiva e di investimenti, accompagnata a una sovraesposizione del suo sistema bancario che, assieme al
pericolo dello scoppio di una bolla immobiliare, è diventato il tema prioritario dell’agenda politica del Partito. A
ben guardare, la crescita miracolosa potrebbe non essere così estranea a parole come bad loans, ovvero debiti
non ripagati, bancarotta e default. E lo spettro della Grecia è più vicino di quanto si pensi.
La Repubblica popolare cinese poggia su un solido
decentramento fiscale di province, municipalità e centri urbani ereditato dalle riforme di Deng Xiaoping.
Questo federalismo, che vieta agli enti locali di indebitarsi per finanziare il proprio deficit e i progetti di sviluppo urbani, in un primo tempo ha fatto dipendere i
bilanci locali direttamente dalle delocalizzazioni delle
società straniere. I profitti realizzati attraverso le concessioni e le vendite di terreni alle multinazionali coincidevano con il bilancio degli enti locali e servivano per
finanziarne progetti e spesa sociale. Una volta che tali
agevolazioni fiscali, concesse dal governo per un periodo di tempo limitato, si sono esaurite, le autorità locali
19. L’enorme somma di liquidità a disposizione delle banche, grazie alla
predisposizione del classico cittadino cinese a un forte risparmio, è ciò
che di fatto ha reso possibile lo stanziamento di ingenti quantità di denaro per finanziare infrastrutture e sostenere l’economia. Nel 2001 il tasso
di risparmio domestico era del 25% circa del reddito disponibile; una cifra notevolmente alta se comparata con il 6,4% di quello statunitense nel
2002. L’alta propensione delle famiglie a risparmiare passa attraverso il
sistema bancario. Secondo M. Bagella e R. Bonavoglia, con una capitalizzazione di borsa ancora non elevata seppur in costante aumento e un’emissione obbligazionaria relativamente poco sviluppata, in Cina è di fatto il sistema bancario, con il suo grande accumulo di liquidità, ad aver
giocato in questi anni un ruolo chiave nel finanziare la crescita del paese.
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hanno progressivamente ampliato il controllo sia sui
processi di nuova urbanizzazione che sul mercato della
proprietà immobiliare, come nuovo strumento di finanziamento.
Il divieto a indebitarsi direttamente attraverso emissione di bond o prestiti bancari veniva aggirato tramite
l’istituzione di compagnie, sempre a guida statale, che,
loro sì autorizzate a indebitarsi, compravano dai comuni terreni edificabili. In sostanza, il governo locale proponeva a queste imprese terreni con un alto valore economico e le compagnie, di fatto costituite dagli enti locali stessi, chiedono alle banche prestiti per poter
pagare i terreni. Il divieto era così aggirato e la liquidità
di tali acquisti finanziava a sua volta le politiche locali.
Un meccanismo che ha fatto confluire milioni di yuan
nel settore edilizio e della proprietà immobiliare per finanziare bilanci provinciali e infrastrutture.
L’edilizia, quindi, è stato il settore che ha permesso
di finanziare il funzionamento degli enti federali ma,
allo stesso tempo, ha portato a una vera e propria speculazione nel mattone dando vita a una pericolosa bolla
immobiliare. Questo cortocircuito ha di fatto permesso
a molti distretti di contrarre «prestiti nascosti», sfalsandocosì l’entità dello stesso debito pubblico complessivo
del paese. La situazione, inoltre, potrebbe essere stata
ulteriormente aggravata dal fatto che parte dello stimolo fiscale anti-crisi di oltre quattro trilioni di yuan in
realtà sia stato usato dai governi provinciali per alimentare la speculazione immobiliare ed edilizia. Uno studio del 201020 stimava che, riscrivendo i libri contabili
degli enti locali tenendo conto dei prestiti nascosti, il debito pubblico cinese potrebbe schizzare, da qui al 2012,
20. www.businessweek.com/news/2010-03-02/china-s-hidden-debtrisks-2012-crisis-northwestern-s-shih-says.html.
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a quasi il 96% del suo Pil21. Numeri che fanno rabbrividire, soprattutto a fronte del fatto che molte di queste
agenzie già oggi hanno difficoltà a ripagare i propri debiti. Le misure prospettate dalla banca centrale cinese
per raffreddare l’economia del mattone di fatto porterebbero sulla soglia del fallimento migliaia di queste
compagnie; così come alla bancarotta di comuni, metropoli e intere regioni che hanno finanziato il proprio
debito attraverso questo ciclo economico. L’aumento
dei tassi di interesse paventati dalla banca centrale per
frenare la facilità del credito e diminuire gli investimenti eccessivi renderebbe i debiti attuali, già immensi, ancora più difficili da ripagare.
In una situazione così incerta, un contraccolpo nella maggior economia asiatica potrebbe avere conseguenze pesanti tanto a livello regionale che globale, in
una ripresa contrassegnata dai rischi di default nazionali e dalla crescita debole di molti paesi occidentali.
Debito pubblico fuori controllo e crisi sembrano ciò su
cui poggia l’economia cinese. Dinnanzi a un settore
export in continuo aumento e all’accumulo record di
riserve in valuta estera, gestire una crescita che pare insostenibile e finanziata da debiti insolvibili sembra la
priorità per l’economia di questo paese. Se siamo di
fronte a una nuova bolla speculativa, questa volta le vittime saranno i mercati emergenti. E se c’è un verità da
imparare nelle bolle speculative, come Rogoff e Reinhart ci avvertono, è questa: «Più velocemente si cresce,
più dura sarà la caduta».
21. Nella regione del Pacifico le cose non sono più rosee per il Giappone,
che con un debito di quasi il 200% del Pil, è virtualmente uno Stato già in
bancarotta; nel Sol Levante, oltre il 90% dei bond di Stato sono in mano
al risparmio domestico, così come in India, dove il debito pubblico, che
ha quasi raggiunto l’80% del Pil nazionale, è finanziato per la maggior
parte dai propri cittadini.
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Vivere in gabbia
Il padrone di casa che mi ha ricevuto si aspettava almeno un paio di famiglie di mingong a cui affittare per
qualche mese l’appartamento ancora non finito, dai
muri umidi a cemento vivo, alla periferia di Shanghai.
Invece si è trovato di fronte un dottorando senza un soldo. Nel suburbio a sud di questa città, dove ho vissuto
per un paio di mesi, a un passo dall’area industriale nel
sud della città e a quasi due ore dal centro, interi distretti di gate community, ovvero nuclei abitativi di appartamenti circondati da muri, guardie e filo spinato stanno
velocemente nascendo. Queste sono le periferie di
Shanghai, stracolme di lavoratori migranti. Da casa, il
rumore di trapani e martelli, l’odore di colla e polvere
durava dalle sei del mattino fino alle undici di sera.
Quest’area era in piena costruzione e molti degli appartamenti ancora da completare, per non parlare delle ruspe che vomitavano nuove gate community a ritmi forsennati. Cantieri su cantieri, con tanto di polvere, hanno alimentato una delle più grandi bolle immobiliari di
questo paese. Ma come spiegare tale fenomeno?
Anzitutto trova le sue radici, come abbiamo cercato
di spiegare nel precedente paragrafo, dalla forma di finanziamento con cui il federalismo fiscale cinese si è
sostenuto fino a oggi. La vendita di terreni resi edificabili e venduti dalle amministrazioni locali alle agenzie
di costruzione rappresenta il meccanismo con cui si sono finanziati i bilanci pubblici, causando un eccesso di
investimento in questo settore. Ma non solo.
La spinta di milioni di migranti che, dalle campagne, vogliono trasferirsi in città, è un altro fattore significativo. La nuova generazione di migranti, nata negli
anni Ottanta, si trasferisce in città con l’idea di non ritornare più in campagna; accompagnati da un’ondata
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di scioperi per reclamare più soldi, questi giovani vogliono spendere il denaro per trasferirsi in città e comprarvi casa. Le cause della bolla immobiliare cinese vanno cercate nella gigantesca speculazione sui desideri e i
bisogni di milioni di giovani e giovanissimi. È cioè il risultato di un investimento sui bisogni e desideri sociali,
che vengono così a trovarsi al centro dei meccanismi
economici, laddove i diritti di proprietà sociale – ovvero
la garanzia di avere un’abitazione –, i diritti di proprietà
privata e la mobilità ascendente, legata all’emersione di
una nuova classe media, sono il punto di espansione e
allo stesso tempo di contraddizione delle nuove forme
di accumulazione del capitale.
Tale bolla speculativa poggia infine su un terreno
che potremmo definire opposto a quanto appena descritto, fondato sull’incentivo da parte del governo a trasformare la popolazione urbana nella nuova classe media, funzionando così da contenimento proprio all’esodo dalle campagne. È infatti la conservazione del
divario tra popolazione urbana e rurale ciò che, come
vedremo nella terza parte di questo lavoro, ha garantito
i già bassi, se non bassissimi, salari della forza lavoro
impiegata nella fabbrica del mondo.
La crescita delle agenzie immobiliari e la trasformazione del cittadino urbano in proprietario sono gli strumenti attraverso i quali si intende costruire la nuova
classe media urbana. Una classe che si concretizza nella differenziazione degli stili di vita e nel riconoscimento di status e orientamenti culturali nei quali la riconfigurazione dello spazio residenziale rappresenta un elemento centrale22. Ma tale riconfigurazione in realtà ha
come risultato l’amplificazione di quegli effetti che na22. L. Zhang, Private home, distinct life, in L. Zhang, A. Ong, Privatizing
China, Cornell University Press, Ithaca 2008.
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scono proprio dentro il gigantesco esodo dalle campagne: l’aumento vertiginoso dei prezzi degli immobili e
la conseguente impossibilità, per la maggior parte della
popolazione urbana, di acquistare una casa.
A Shanghai ormai le abitazioni costano più che a
Manhattan: secondo alcuni, l’Impero celeste si troverebbe nel mezzo della più grande bolla immobiliare
della storia, mille volte più grande di quella vista a Dubai23. Benché si tratti di una previsione forse esagerata,
occorre comunque ricordare che questo settore economico ha superato il suo corrispettivo statunitense24.
In questo contesto la regione a statuto speciale di
Hong Kong non fa di certo eccezione: proprio qui nel
2009 è stato venduto un appartamento di poco più di
cinquecento metri quadri al prezzo astronomico di sessanta milioni di dollari americani. Mai nella storia si era
speso così tanto per acquistare casa!
La zona amministrativa speciale di Hong Kong, che
sebbene formalmente faccia parte della Cina dal 1997
gode di un proprio statuto amministrativo autonomo da
Beijing, è davvero un posto strano: il Primo ministro viene chiamato «amministratore delegato» e con un dollaro di capitale sociale si può aprire la sede legale della pro23. In accordo con le statistiche ufficiali l’aumento del costo di un appartamento inferiore ai 90 mq a Beijing, Shanghai e Shenzhen è stato rispettivamente del 19,3%, 11,6% e 19,6% nel solo 2009. Il picco più alto è
stato toccato nell’isola di Hainan dove la crescita è arrivata al 57,9%; qui
la speculazione immobiliare ha trasformato in un paradiso fatto di resort
e campi da golf un’isola in cui negli anni Cinquanta venivano confinati i
dirigenti comunisti scomunicati dal Partito. Le metropoli della costa del
pacifico sembrano tutte mostrare i segni di un’economia così surriscaldata da essere sempre più difficile da maneggiare.
24. Il mercato immobiliare nel Regno di Mezzo è cresciuto del 143% nel
solo anno passato per un valore complessivo di 156,2 miliardi di dollari
americani, mentre quello americano, perdendo quasi il 64% del proprio
valore, si è portato a un valore complessivo di 38,3 miliardi.
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pria company, mentre l’acquisto di un appartamento sufficientemente lussuoso può essere la strada per ottenere
la cittadinanza di questa città-Stato. Ma dentro questa
speculazione selvaggia, per chi non può permettersi il
lusso di un tale acquisto, le cose possono andare davvero male. E al peggio, come si sa, non c’è mai fine. Se non
si hanno abbastanza soldi per comprare casa e nemmeno per affittare un appartamento o una stanza, nel cuore
della finanza asiatica ci si può sempre accontentare di affittare una cella. Sì, proprio una gabbia di poco meno di
due metri quadrati con tanto di sbarre in quartieri come
Sham shui po, Wan chai o Tai kok tsui. Il bello è che l’affitto di queste insolite e scomode «abitazioni» nel 2010
ha raggiunto una cifra al metro quadro superiore a
quella di una comoda casa extralusso25.
Nonostante lo tsunami finanziario, l’affitto delle celle non è affatto diminuito. Al contrario, è aumentato.
Proprio a causa della crisi finanziaria, a Hong Kong
molta gente ha perso il lavoro e questo comporta un vertiginoso aumento della domanda di case e celle a basso
costo: la disparità della distribuzione di ricchezza aumenta e i fenomeni speculativi la rendono ancora più
drammatica. Vista dal cuore finanziario dell’Asia, ciò è
ancora più lampante: qui oltre centomila persone vivono letteralmente in gabbia.
25. Basta infatti andare sul sito di una qualunque agenzia immobiliare
che affitta appartamenti extralusso a Hong Kong, ad esempio la Centaline Property Company (centanet.com), per scoprire che un appartamento
di quattro stanze di circa 360 metri quadri, nella zone upper class di Stanley, costa 28.000 $HK al mese, cioè circa 73 $HK al metro quadro.
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Economia della conoscenza
Assemblaggi II.
Oltre la classica divisione internazionale del lavoro
Turni massacranti di oltre dodici ore, straordinari tutti i
giorni della settimana, domenica inclusa. Sul lavoro
non si può parlare e per andare in bagno, non più di due
volte per turno, si deve chiedere il permesso e aspettare
l’autorizzazione. Se non si seguono le istruzioni, si rischia di passare la giornata a pulire i bagni della fabbrica, come punizione per la mancata disciplina. Il forte
odore delle stoffe colorate riempie l’aria, che diventa
spessa mentre si cuce, si taglia e si misura, e ancora si
cuce, si taglia e si misura. A fine giornata ci si sente esausti, svuotati, troppo stanchi per aver voglia di socializzare.
Si fila subito a dormire in una stanza che si condivide almeno con altre dieci persone. Stipati tra i letti l’aria sa di
pesante, di cibo cucinato e di stanchezza; l’ambiente ha
odore di chiuso e sembra che persino l’aria fresca si rifiuti di entrare in un luogo del genere.
Dove ci troviamo? In uno dei laboratori manifatturieri del Pearl River Delta? Negli impianti tessili insediati a qualche chilometro a sud di Shanghai? No, siamo in Italia, dove migliaia di persone provenienti dalla
Cina lavorano nei sempre più numerosi stabilimenti
gestiti da cinesi a Prato, regione Toscana. Sapere l’italiano non è richiesto per poter lavorare qui. Nessuno lo
parla o lo capisce. Tutti i lavoratori, come del resto i padroni, sono cinesi. Le condizioni di lavoro come quelle
appena descritte – una sorta di neoschiavismo contemporaneo senza diritti per i lavoratori e bassi salari – trasformano l’omogeneo territorio nazionale in uno spazio
striato, abitato da regimi di lavoro molto distanti e differenti tra loro. I centri moda di Milano e i laboratori creativi del design fiorentino coesistono con lo sfruttamento
brutale dei lavoratori cinesi, laddove centro e periferia
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della produzione mondiale sembrano coesistere geograficamente nel medesimo luogo. Questo fenomeno ci descrive bene la compresenza di ciò che una volta si chiamava «primo» e «terzo» mondo all’interno degli stessi
assi temporali e spaziali: la globalizzazione e la mobilità
dei capitali è così caratterizzata dalla compresenza di differenti modalità di estrazione del plusvalore, dove forme
di lavoro intensivo e assenza di diritti coesistono geograficamente con il lavoro tutelato e quello cosiddetto creativo. Questo tratto «contemporaneo del non contemporaneo» che caratterizza il post-fordismo ci permette di
evidenziare la molteplicità di regimi di lavoro che contestualizzano i processi produttivi contemporanei.
Dove i segmenti dell’alto valore aggiunto convivono
con forme di lavoro che sembrano direttamente rigurgitate dalla prima rivoluzione industriale, per brutalità
e mancanza di diritti, come si organizza la lotta? Come
pensare forme di solidarietà operaia e organizzazione
politica nella frammentazione che le forze produttive
subiscono oggi? Domande come queste ci consegnano
tutta la problematicità che la globalizzazione inevitabilmente porta con sé.
Accanto ai processi di delocalizzazione delle multinazionali, che spostano la propria produzione per godere del minore costo del lavoro (il cosiddetto «arbitraggio
del lavoro globale») e di politiche meno restrittive sul diritto del lavoro, ci troviamo di fronte al proliferare, tanto
in Italia come nel resto del mondo, di veri e propri
sweatshop, nelle maggiori economie avanzate, che dipendono dalla forza lavoro cinese.
In questi laboratori, come quelli che esistono in Toscana e in Emilia Romagna, l’obbedienza assoluta e la
disciplina è rafforzata dai legami comunitari dei migranti, dalla loro etnia Han; pensiamo alle chinatown
sparse pressoché in ogni paese o città del mondo (dal54
l’Asia del Sud alle Americhe fino alle città europee):
non sono affatto quel laboratorio dove reinventare sé
stessi attraverso l’interfaccia con l’altro, quel dispositivo in grado di mettere in crisi l’identità nazionale per
creare nuove forme di vita in comune oltre la stretta dell’appartenenza comunitaria. Al contrario, vivono spesso un isolamento che funziona come strumento di
grande produzione di «confini» e differenze, laddove la
diaspora cinese rappresenta una fucina in cui la razza e
il legame comunitario diventano la nuova frontiera della disciplina e dello sfruttamento del lavoro.
Se un secolo e mezzo fa molti lavoratori cinesi, impiegati dalla statunitense Union Pacific, costruirono la
prima rete ferroviaria che unì le coste di due oceani, oggi gli stessi operai cinesi continuano a lavorare all’estero, costruendo ferrovie dal Medio Oriente al Nord Africa, benché in questo caso siano assunti direttamente
dalle compagnie cinesi. Dall’Africa all’Asia centrale, dal
Sud-Est asiatico fino al suo confine orientale, il numero
dei migranti cinesi impiegati come operai generici nella costruzione di infrastrutture globali (impianti, ferrovie, strade e metropolitane) è in costante aumento.
All’inizio del 2010 la Cina ha sottoscritto un progetto nel canale di Suez per replicare il successo del modello di sviluppo basato sulle Zone economiche speciali. Il
canale, porta d’ingresso dell’Africa continentale, rappresenta un’area strategica tanto per la Cina che per l’Egitto: entrambi i paesi vorrebbero infatti fare del progetto SEZone (Zona economica speciale di Suez) un inedito export gateway per le merci prodotte e commerciate
dagli imprenditori cinesi verso Africa e Europa. Un progetto ambizioso cui è immediatamente seguito un altro
patto di intesa, sempre alle porte dell’Europa, siglato
questa volta da Cina e Moldavia. Questo accordo, avviato da un prestito di oltre mille miliardi di dollari statuni55
tensi concesso da Beijing alla Moldavia, trasforma questo paese geopoliticamente debole, poverissimo di materie prime, in una nuova provincia cinese de facto. Siamo forse di fronte a un investimento per diversificare le
proprie riserve di oltre 2.4 trilioni di dollari? Forse, ma
non solo.
Alle porte di una nuova e selvaggia espansione dei
mercati, dopo anni di trasferimenti produttivi nel Regno di Mezzo da parte delle multinazionali, siamo probabilmente di fronte alle prime delocalizzazioni della
Cina in Europa. Eppure questo processo ha tratti differenti rispetto al classico arbitraggio del lavoro globale: si
accompagna allo sfruttamento esclusivo di forza lavoro
cinese. Il linguaggio della mobilità del capitale e della
forza lavoro oltre gli stessi confini nazionali, così come
quello del suo disciplinamento, se guardati attraverso le
lenti del Regno di Mezzo, sembrano essere sempre più
legati alla centralità di elementi come la razza e il legame comunitario dei lavoratori all’estero.
Il caso cinese rappresenta una forma inedita di potere, capace di organizzare combinazioni originali tra nazionalismo e produzione globale: le comunità accentuano il complesso legame tra etnicizzazione della forza lavoro e forme di accumulazione della ricchezza, laddove
l’intreccio tra nazionalismo, appartenenza e classe è l’espressione della violenza da cui bisogna partire per capire le nuove forme di sfruttamento contemporanee.
Made in China 2.0
È innegabile il fatto che stiamo vivendo cambiamenti di portata storica, in grado di trasformare radicalmente il presente che viviamo, così come siamo abituati a
pensarlo e descriverlo. Le economie più industrializzate
– quali Stati Uniti, Canada, Australia, Europa e Giappo56
ne – sono sul punto di essere superate, in termini di crescita economica, dai cosiddetti «paesi in via di sviluppo».
Un momento davvero storico, se pensiamo che nel 1973
le economie avanzate producevano oltre il 60% del Pil
mondiale. Entro pochi anni, oltre la metà della crescita
globale dipenderà dalle economie di Brasile, India, Indonesia, Africa e Cina. Tale previsione dell’osservatorio
economico OECD, che poggia esclusivamente sulla
schiacciante superiorità della popolazione asiatica e dei
paesi emergenti, ci consegna tuttavia i sintomi di un significativo cambiamento negli equilibri dei poteri a livello globale, ancora più drastico se teniamo in considerazione la produttività del lavoro e la qualità dello sviluppo che queste economie stanno affrontando.
La crescita del Regno di Mezzo sembra dipendere in
modo sempre più crescente dall’incremento di quei segmenti della produzione ad alto valore aggiunto25, nonché
dalla sua capacità di innescare processi di valorizzazione
basati sulla conoscenza. La fabbrica del mondo, che produceva fino a poco tempo fa solo giocattoli e vestiti di
bassa qualità, si scopre sempre più sofisticata e hightech: dalla finanza ai bullet train, dai computer Lenovo alla bio-ingegneria. Sono le nuove Silicon Valley cinesi,
come Zhounghzou, Suzhou o Xi’an, così come il settore
legato alle energy technology a spingere a una veloce trasformazione di questo paese verso una sorta di «made in
china 2.0». Questo fenomeno è testimoniato dal fatto
che sempre più giovani neolaureati, provenienti dalle
più prestigiose università statunitensi, decidono di ini25. L’abilità del Dragone di sfruttare una produzione sempre più sofisticata e high-tech emerge anche dall’analisi dei flussi commerciali degli ultimi anni. Laddove le esportazioni di prodotti economici e a basso valore
tecnologico sono letteralmente crollate in questi anni di crisi globale, si è
al contempo dato un vero e proprio incremento nell’export di prodotti e
servizi high-tech.
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ziare la loro carriera proprio in Asia26: prospettive professionali e una crescita economica senza precedenti fanno
della Cina una meta davvero appetibile27.
L’immagine stereotipata quanto rassicurante di un
paese in grado di copiare ma non di innovare, culturalmente incapace di insediare le fasce dell’alto valore aggiunto della produzione globale, sembra non reggere
più. Anche il nuovo volto delle delocalizzazioni occidentali ci parla di come le multinazionali, attirate dalle
università e da una forza sempre più qualificata, trasferiscano qui non solo pezzi importanti della produzione,
ma anche i loro laboratori di ricerca e sviluppo all’avanguardia. Questa tendenza designa un notevole cambiamento, tanto nella logistica quanto nella progettazione
e ricerca di nuovi prodotti, che trasforma il processo
produttivo nel suo complesso.
Una città che ben descrive questi cambiamenti è
Suzhou, cuore, motore e «polmone di idee» della vicina
Shanghai. Negli ultimi anni, questa metropoli ha sviluppato infrastrutture e attirato investitori attraverso la
ricerca nel campo dell’elettronica, dei nuovi materiali,
26. Nelle prestigiose università come la Booth School di Chicago, la
Wharton School della Pennsylvania o la Northwestern’s Kellogg, la percentuale di studenti che ha deciso di iniziare la propria carriera in Asia è
raddoppiata in soli cinque anni. Secondo il vice rettore della Kellogg University, Roxanne Hori, siamo di fronte a una tendenza che non risponde
unicamente alle difficoltà economiche, ma che si innerva in un vero e
proprio cambiamento strutturale della produzione globale di sapere.
27. Inoltre, a fine 2009 il governo di Shanghai ha intrapreso un «tour promozionale» tra New York, Chicago e Londra per far incetta di cinesi espatriati che lavorano nel settore finanziario. Shanghai si è candidata a diventare la prossima capitale globale della finanza internazionale entro il 2020,
un obbiettivo ambizioso se consideriamo che solo vent’anni fa questa città
non aveva nemmeno una borsa e un mercato azionario. Un esercito di manager, avvocati e legali, broker e altri professionisti legati al mondo della finanza sono le figure che Shanghai sta cercando di attrarre per rivaleggiare
con Londra e New York nel prossimo decennio.
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delle energie e della bio-medicina: è un vero e proprio
cluster dell’industria avanzata e bacino di innovazioni
tecnologiche.
Se ci spostiamo un po’ più a ovest, a Xian troviamo la
nuova sede dell’azienda statunitense Microsoft. Una
multinazionale che ha aperto la caccia agli alti quozienti intellettivi su questa sponda dell’Oceano Pacifico, facendo della Cina la nuova base per la ricerca e sviluppo.
Il suo primo laboratorio è stato insediato nel distretto di
Haidian, sede di circa quaranta università e di oltre un
centinaio di istituti scientifici, bacino di quasi un milione tra scienziati e ingegneri.
Alla Microsoft si è aggiunta Oracle, che ha inaugurayo un laboratorio di sviluppo Linux a Beijing, seguita da
compagnie come Motorola, Siemens, IBM, Nokia e Intel, mentre la casa automobilistica statunitense General
Motors ha aperto un centro di design a Shanghai28. La lista dei trasferimenti potrebbe essere lunga. L’interconnessione tra la produzione di questo paese e il commercio mondiale è sempre più vivida e, come già accennato
in precedenza, fa crollare la rassicurante divisione tra
centro e periferia, diventando incubatore dei nuovi laboratori internazionali e della ricerca applicata. Una
nuova divisione internazionale del lavoro e un’inedita
geografia della produzione ci mostrano un paese emergente in cui la ricerca all’avanguardia si innesta dove
prima c’era solo sfruttamento intensivo del lavoro. Tuttavia questo processo è ricco di interrogativi: quali saranno le conseguenze sul lavoro, sul fare ricerca? Come
questa coesistenza modificherà sia le forme precedenti
28. Gli interni della nuova Buick LaCrosse del 2010 sono stati interamente disegnati da questo centro. La Buick, icona senza tempo del lusso
statunitense, potrebbe diventare in un prossimo futuro il simbolo delle
abilità cinesi nel settore automobilistico.
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di organizzazione del lavoro, sia quelle basate sulla valorizzazione della conoscenza?
Questo processo potrebbe infatti essere accompagnato da una maggiore standardizzazione del lavoro cognitivo e una sorta di neo-taylorizzazione della ricerca stessa.
Forme di lavoro ripetitive, vere e proprie catene di montaggio dell’immateriale non sono infatti estranee al mondo della valorizzazione della conoscenza, dove l’alto skill
delle mansioni coincide con la loro ripetitività e si accompagna a nuove forme di alienazione sul lavoro. La gestione delle informazioni, la scrittura di software e la maggiore preparazione richiesta alla forza lavoro possono
infatti accompagnarsi all’introduzione di una sorta di
standardizzazione della produzione di conoscenza
stessa. Come funzionano i laboratori cinesi di bio-ingegneria e di sviluppo dei programmi? Bisognerebbe approfondire l’inchiesta che ancora manca in questi luoghi produttivi, per indagare ed esplorare la nuova organizzazione del lavoro nella fabbrica del mondo.
Sfida all’eccellenza
La ricerca scientifica e l’educazione universitaria si
stanno trasformando progressivamente in veri e propri
hub di ricerca e sviluppo (R&D): gli istituti pubblici, così come le stesse università, sempre più spesso mettono
a disposizione il capitale di rischio per nuovi progetti
commerciali; in alcuni settori tecnici, sono le stesse
università a fornire i laboratori alle imprese, che possono usarli come propri centri di ricerca, riducendo i rischi legati alla ricerca applicata e alla commericalizzazione di nuovi prodotti tecnologici, scaricandoli interamente sulla struttura universitaria.
In questo contesto, gli scienziati delle università cinesi stanno guidando, di fatto, la ricerca scientifica a li60
vello internazionale nel settore delle nanotecnologie e
negli ultimi dieci anni hanno quadruplicato il numero
delle pubblicazioni scientifiche, oggi precedute solo dagli Usa. Lo stesso si può dire per le pubblicazioni sulle
cellule staminali, aumentate di oltre venti volte in pochi
anni. Questo tipo di ricerca è solo una delle finestre da
cui osservare i progressi avvenuti nel campo delle scienze biomediche di uno tra i sei paesi coinvolti nella decodifica del genoma umano, e il solo tra questi a essere
considerato in «via di sviluppo».
Estrema attenzione ai ranking globali, competizione
interna, incentivi alle pubblicazioni rigorosamente in
inglese nella ristretta cerchia di alcune riviste, sono solo
alcune delle caratteristiche della produzione di sapere
scientifico. Non solo il Dragone ha un’esasperata attenzione alla competizione globale tra le università, ma ha
perfino realizzato un proprio ranking globale: l’Academic Ranking of World University (ARWU) della Jiao
Tong University di Shanghai: una delle più autorevoli
classifiche, nonché diretto concorrente del World University Ranking del Regno Unito, per valutare, indicizzare e misurare l’eccellenza del mondo accademico.
Il ranking della Jiao Tong University è costituito da
una serie di indicatori per stabilire la posizione delle
istituzioni formative a livello globale e, tra quelli più rilevanti, troviamo proprio il numero di pubblicazioni su
un esiguo numero di riviste in lingua inglese. Se il numero delle divulgazioni scientifiche gioca a favore della
Cina29, tale criterio di valutazione è anche un formidabile strumento di disciplinamento e controllo di docen29. Il rapporto della Thomas Reuters Science uscito a gennaio 2010 riporta un balzo nel campo della ricerca da parte della Cina, oggi seconda solo
agli Usa per numero di pubblicazioni scientifiche. La ricerca dell’Impero
celeste, secondo questo rapporto, si concentra principalmente nelle scienze fisiche e tecnologiche, chimica e fisica. Oltre a questi settori sono in for-
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ti e ricercatori delle stesse università, dove vale il grottesco motto «publish or perish», pubblica o muori. Il loro
salario è legato direttamente al numero di pubblicazioni, così come gli avanzamenti di carriera. Tale gestione
rappresenta il tentativo di dispiegare la misura e il controllo del lavoro cognitivo, una sorta di cognitivizzazione della misura stessa, laddove una nuova economia
politica dei saperi fondata sulla citazione, sul ranking e
sulla concorrenza sta prendendo globalmente forma.
Questo strumento è anche il metro con cui vengono
elargiti e controllati i fondi destinati alle stesse istituzioni
pubbliche. Basti pensare ai progetti 21130 e 98531, istituiti
negli anni Novanta da Beijing, con i quali si sono devoluti fondi straordinari per la ricerca e l’implementazione
dell’insegnamento di particolari discipline a un ristretto
gruppo di università. Queste politiche, volte a implementare i settori della formazione e della ricerca, ci permettono di leggere il ruolo del finanziamento statale, che
fa della «differenziazione interna», della «selezione» e
del principio di «non uguaglianza» le fondamenta del
«pubblico» nell’epoca del socialismo di mercato.
te crescita quelli legati all’energia atomica, alle scienze dello spazio, alla
biologia, alla computer and information technology, all’immunologia,
microbiologia, ingegneria molecolare e genetica. Il primo partner di ricerca della Cina sono gli Stati Uniti, la cui collaborazione pesa sull’ 8,9% del
totale della ricerca (researchanalytics.thomsonreuters.com).
30. Il progetto 211 raggruppa 106 tra università e college chiave del XXI secolo scelti dal ministero della Pubblica istruzione. Il nome del progetto è
composto dal numero 21, che rimanda al XXI secolo, e 1 che rappresenta i
circa 100 istituti formativi coinvolti nel progetto. Lo scopo è quello di dare
forma a una vera e propria elite di istituti, circa il 5% del totale, che possa
competere a livello internazionale con le migliori università e scuole.
31. Il progetto 985, annunciato il 4 Maggio 1998 dall’allora presidente
Jiang Zemin nel centenario della fondazione della università di Beijing
(da qui il nome del progetto composto da 98 e 5, che rappresenta il mese
di maggio), ha lo scopo di migliorare il profilo internazionale della ricerca e dell’educazione di un ristretto gruppo di università.
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Attraverso l’idea di una world class university, il governo ha scelto poche università cui destinare le migliori infrastrutture e il miglior staff, scegliendo di concentrare i
propri investimenti a un gruppo di università ristretto e
accrescendone l’eccellenza attraverso risorse e finanziamenti straordinari. Con il progetto 211 solo un ristretto
numero di università ha goduto di ingenti fondi per la ricerca; al contempo, il progetto 985 ha ulteriormente accelerato i processi di eccezione e differenziazione interna al sistema formativo pubblico: solo due università, la
Peking University e l’università Tsinghua, hanno avuto
a disposizione miliardi di yuan da spendere in tre anni
per cercare di entrare nelle più prestigiose classifiche
globali. Nella politica di concessione selettiva dei fondi e
delle risorse, è visibile la moltiplicazione di Zone economiche speciali: fenomeno che passa attraverso la costituzione di vere e proprie «istituzioni universitarie speciali» che si stagliano come esclusive, intensivamente finanziate dallo Stato, a discapito di tutte le altre32.
Lo sbilanciamento dei finanziamenti riflette quello a
favore delle discipline scientifiche, perché più misurabili e oggettive nei loro risultati; assieme alla concorrenza
interna (come modo di abitare non solo le università, ma
anche le comunità scientifiche) sono alcune delle caratteristiche di un modello di università emergente. A livello globale, profondamente segnata dai cambiamenti
economici in corso e dal management pubblico: un vero
e proprio laboratorio dove sviluppare la misura del lavoro immateriale sempre più egemone a livello globale,
nell’attuale divisione cognitiva del lavoro.
32. Accanto alle poche eccezioni, la maggior parte degli istituti, meno
prestigiosi, sono quasi interamente finanziati attraverso l’accumulazione di debiti a carico dei governi locali. Un elemento che si aggiunge alle
già forti preoccupazioni per un deficit pubblico cinese che appare sempre più ingestibile.
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Shanzhai
Tra i piccoli negozi stipati dentro i grandi centri
commerciali di high-tech, dove si possono trovare circuiti, memorie, hardware di ogni tipo per qualunque
esigenza, così come luci led e cellulari di ogni sorta, si
può acquistare il nuovo kit che un neolaureato in ingegneria, disoccupato e alla fame, ha appena inventato: si
chiama peel apple, ed è un geniale adattatore in grado di
trasformare un normale iPod in un iPhone. Ottima invenzione destinata a chi ha pochi yuan in tasca!
In mercati come questi si possono acquistare gli ultimi prodotti della telefonia o persino quelli che ne anticipano il loro lancio ufficiale. Pensate che da queste parti si poteva trovare l’iPad della Apple ben due mesi prima dalla sua commercializzazione.
InPad 701, iPed, ePad: un nuovo prodotto, chiamato
in molti modi differenti, eppure con medesimi design e
funzioni di quello Apple. Anzi, possiede anche una fotocamera integrata, cosa che l’azienda di Cupertino
non è riuscita ancora a inserire nel suo iPad. Ma si tratta di un prodotto che costa la metà, una copia pirata in
grado di innovare lo stesso prodotto originale, laddove è
quest’ultimo a divenire un falso nell’informalità delle
reti sociali del consumo. Dentro i laboratori pirata si
imita, si adatta, si copia, si modifica, si migliora; i circuiti dell’innovazione del prodotto e della cooperazione
produttiva passano per la sfida alle merci.
Cosa bisogna fare per innovare? Prima regola: non rispettare alcuna regola. L’innovazione è allora una sorta
di guerriglia, che prepara i propri raid tra gli slum delle
città. Qui tutto si trasfigura, tutto cambia: il consumo di
massa si trasforma in ricerca, la circolazione delle merci
nella loro stessa modifica. Da queste parti si chiama
shanzhai: la parola indica i difficili terreni montuosi dove
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si nascondevano i banditi, la «fortezza tra le montagne»
dove i fuorilegge resistevano alla sovranità statale. Oggi
diventa sinonimo dell’ingegno e della sfida che vive nell’informalità dell’industria elettronica. Non c’è copyright
che si possa salvare o brevetto da poter difendere a shanzhai, nel mezzo delle filiere di assemblaggio ed export, dove il logo sparisce e la copia diventa l’originale.
La rivoluzione verde
Nel centro del nuovo campus universitario di Nottingham a Ningbo, attiva città commerciale poco distante da Shanghai, spicca, quando l’aria è limpida, un
edificio futuristico: è la sede del centro di ricerca sulle
energie sostenibili da poco inaugurato in questo campus internazionale. Immerso per la maggior parte dell’anno in una densa coltre irrespirabile, dove il pesante
inquinamento di questa città si mischia alle polveri di
cemento provenienti da Shanghai, la struttura di questo fantascientifico edifico, dotato di turbine eoliche,
materiali ad alto risparmio energetico e un design ecofriendly, ha ricevuto visite da tutto il mondo. Anche lo
staff dell’architetto Renzo Piano vi si è recato per studiare le ultime tecniche sulle costruzioni sostenibili e
l’efficienza energetica. Questo perché la sua capacità di
risparmiare tra il 50 e il 100% dell’energia rispetto a un
normale edificio, fa dell’istituto Koo Lee sulle energie
rinnovabili un caso davvero eccezionale: di fatto è il volto di una Cina dove ricerca all’avanguardia, tutela e rispetto ambientale sono le parole d’ordine.
Certo, fa un po’ effetto osservare un siffatto virtuosismo ambientale mentre ci si strizza gli occhi e si tossisce a causa dell’aria acida e inquinata di questa città. Ma
è questa la grande contraddizione: uno dei paesi più inquinati al mondo è anche quello che ha intrapreso la più
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solida e impegnativa corsa alle energie alternative, tanto che persino una delle più prestigiose scuole inglesi,
l’università di Nottingham, ha costruito qui i suoi laboratori di ricerca e di sviluppo ecologico. E non è la sola.
L’azienda statunitense Applied Materials, una delle più
importanti industrie della Silicon Valley, si è da poco
trasferita. Famosa per le sue ricerche nella lavorazione
di chip e nanotecnologie, questa azienda leader nella
produzione di semiconduttori e pannelli solari ha insediato il suo più importante e nuovo laboratorio di ricerca a Xi’an. Se per anni ci siamo abituati al fatto che i migliori talenti e scienziati lasciassero il proprio paese per
gli Stati Uniti, «mecca» della ricerca high-tech, abbandonando una sporca, inquinata quanto invivibile Cina,
oggi sembriamo trovarci di fronte a un movimento inedito, in grado di disorientare anche il più attento osservatore dei rapidi cambiamenti contemporanei.
Chi non sarebbe disorientato dal fatto che, per la prima volta, saranno tecnici cinesi a insegnare a quelli statunitensi come inquinare meno? È infatti questo il caso
dell’American Future Fuels che ha acquistato un brevetto cinese per produrre «carbone pulito». Questa tecnica all’avanguardia – capace di trasformare il carbone
in un combustibile liquido, riducendo così di molto le
sostanze tossiche emesse dalla combustione – è stata
messa a punto nei laboratori cinesi.
Le energie rinnovabili mettono al centro la questione dei saperi, della cooperazione e della ricerca internazionale in un paese che, tra le altre cose, oggi produce i
due terzi delle turbine elettriche a livello mondiale. Il
Dragone ha sorpassato tanto Germania che Stati Uniti
nella produzione di questi postmoderni mulini a vento,
una crescita poderosa che vede sempre più multinazionali tentare di insediarsi con i propri impianti moderni.
Il fatto di essere contemporaneamente il paese più
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inquinante e quello più verde fa della Cina un paese singolare, che assomiglia a quel genere di immagini in cui
a seconda della direzione dello sguardo si possono vedere due volti oppure due candelabri. State osservando i
due volti che di profilo si guardano negli occhi oppure i
due candelabri che appaiono dalla sagoma nera dell’immagine? La risposta, naturalmente, è che si stanno osservando entrambi, ma non allo stesso tempo. Così come la sagoma dei candelabri si dissolve lasciando il posto a un nuovo punto di vista, la «rivoluzione verde»
scompare lasciandoci intravedere i contorni della distruzione ambientale e dell’inquinamento. Accanto
agli impianti solari e ai dispositivi per catturare l’energia del vento, c’è una crescita insostenibile, la contaminazione ambientale e la devastazione della natura.
Nel 2009 la Società dell’armonia si è imposta come
primo esportatore mondiale di pannelli fotovoltaici,
sbaragliando la competizione internazionale. Peccato
che per la produzione di un singolo dispositivo di un
metro quadro si consumino non meno di quaranta chilogrammi di carbone! Si potrebbe sostenere che, tutto
sommato, non sono poi così eccessivi quaranta chili.
Ma anche la meno efficiente centrale elettrica a carbone, con questo consumo, potrebbe generare abbastanza
energia da mantenere una lampadina di 22 watt accesa
per quasi trent’anni, a dispetto dei soli venti in cui si stima la vita media di un pannello solare. Per non parlare
della produzione di silicio policristallino, cuore del funzionamento fotovoltaico di ultima generazione. Dietro
la svolta ecologica si nasconde qualcosa di molto sporco
quale la lavorazione di un metallo che l’Occidente, non
a caso, ha quasi interamente delocalizzato.
Mentre i paesi occidentali si facevano promotori della
rivoluzione verde, forti proteste hanno colpito, a inizio
2010, la produzione di pannelli solari nella provincia del
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Fujian, colpevole di inquinare acqua e aria di intere città
a causa della lavorazione di questo derivato del silicio.
Ma l’inizio del 2010 è stato importante anche per un
altro evento nella corsa alle energie rinnovabili: tra le
sabbie del deserto del Gobi sono iniziati i lavori per la
costruzione del più grande impianto di energia solare
del mondo, che avrà una capacità poco meno di duecento megawatt, ovvero quasi quanto una centrale nucleare. Se sono necessarie due tonnellate di carbone per
produrre un pannello solare da un kilowatt, quanto sarà
il consumo complessivo di questo combustibile fossile
del nuovo impianto verde?
Gli atout della Energy Technology
Nel «lontano» 1990 il Dragone era ancora un paese
esportatore di petrolio, ma il suo rapido sviluppo33 ha ribaltato in poco tempo questa situazione. I suoi giacimenti, troppo limitati per garantire un’adeguata fornitura alla sua crescente fame di energia, ne hanno fatto il
più verace e aggressivo acquirente di oro nero, spingendolo addirittura a comperare compagnie petrolifere
straniere e diritti di estrazione di mezzo mondo pur di
garantirsi sufficienti rifornimenti nell’immediato futuro. Questa trasformazione si è accompagnata a una vera
e propria emergenza ambientale, testimoniata dalle
sempre più torride siccità e conseguenti migrazioni forzate dal Sud del paese, così come dagli stravolgimenti
climatici che stanno causando tragiche alluvioni in continuo aumento. Questi eventi drammatici mantengono
33. Nel 2005 la Cina ha usato più carbone per alimentare la sua impetuosa crescita che Stati Uniti, India e Russia messi insieme, senza contare
che nel 2004 è stata responsabile di un aumento di oltre il 40% nella domanda di petrolio greggio (L. Brown, A new world Order, «The Guardian», 25 gennaio 2006).
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aperta la necessità di rilanciare un accordo climatico sul
taglio delle emissioni di Co2 dopo Copenhagen dove, lo
scorso anno, i leader mondiali non sono riusciti a trovare un accordo vincolante sulle politiche climatiche proprio per il rifiuto, tra gli altri, della Cina.
Il gigante asiatico, così come altre economie, ha l’urgente problema non solo di pulire le proprie fonti di
energia, ma di diversificarle e di ridurre il costo del loro
consumo. Sono queste premesse a fare delle Energy
technology (ET) il settore economico che potrebbe trainare, da qua ai prossimi anni, la futura crescita globale.
Energia pulita e crescita sostenibile sono, infatti, non
solo una necessità per questo paese soffocato da un pesante inquinamento, ma anche un’opportunità globale
che l’Impero celeste non intende lasciarsi sfuggire.
Un paese che solo nel 2003 non aveva alcuna industria dedicata alla produzione di energia solare detiene
oggi la maggior parte dei brevetti di impianti solari per
il riscaldamento dell’acqua. La produzione di autovetture ibride ed ecologiche34, così come dei nuovi e avanguardistici treni ad alta velocità, sono per questo paese
il tentativo di conquistare terreno nella corsa alle ET, e
al tempo stesso la via da cui passare per entrare da pro34. Il governo ha individuato, come settore strategico su cui investire, proprio quello delle energie alternative, con l’ambizione di diventare il leader
nella produzione di auto ibride o elettriche. Wan Gang, attuale ministro
della Scienza e tecnologia cinese ed ex ingegnere della casa automobilista
Audi, ha lanciato la sfida alle case produttrici giapponesi, che con le auto
Toyota Prius e Honda Insight detengono oggi questa nicchia di mercato.
Inoltre, la compagnia BYD (Build Your Dream) di Shenzhen, inizialmente produttrice di batterie ricaricabili al litio, è ora passata al mercato delle
auto. Il suo passato nella costruzione e sviluppo di accumulatori ricaricabili fanno presupporre che sia solo una questione di tempo prima che questa casa sviluppi auto elettriche, non solo destinate al mercato cinese, ma
anche statunitense ed europeo. Il suo primo modello ibrido, la F3DM nel
2009 ha raggiunto un accordo di vendita in Israele.
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tagonista nei settori più innovativi della produzione capitalistica. Il balzo della tigre35 ha di fatto portato il Regno di Mezzo al secondo posto nella fornitura di energie rinnovabili tra i paesi del G-2036.
Negli ultimi anni si sta usando più silicio per la costruzione di pannelli solari che per la fabbricazione di
circuiti e processori di computer e il paese che sarà in
grado di guidare la produzione e la ricerca delle energy
technology sarà anche quello che probabilmente guiderà il nuovo ciclo della crescita economica mondiale.
Dentro la rivoluzione della green economy si gioca
quindi il nuovo assetto di potere a livello globale, e sembra che la Cina, e non gli Stati Uniti, abbia deciso di farne la più importante industria globale da qui ai prossimi anni, usando il proprio mercato interno come trampolino di lancio per diventarne leader mondiale.
Questo sforzo gigantesco poggia forse sull’idea che, in
un futuro nemmeno tanto distante, molte economie
avanzate potrebbero trovarsi dipendenti non solo dal
Medio Oriente e dal suo petrolio, ma anche, e soprattutto, dalla Cina e dai suoi impianti solari.
Questo paese ha infatti l’ambizione di dominare
l’export di tali dispositivi: il vantaggio di disporre del
maggiore mercato interno per questi sistemi energetici
(con una domanda che cresce a un ritmo annuo del
35. Con l’investimento di 34,6 miliardi di dollari americani in energia eolica e solare, la Repubblica popolare cinese è diventata il paese leader nel
settore: nel solo 2009 ha raddoppiato l’installazione del numero di impianti, moltiplicando al contempo le aziende produttrici di turbine eoliche, passate dalle sei del 2005 alle attuali settanta. La ricerca di nuovi materiali high-tech più resistenti per la costruzione degli impianti, di manti
protettivi e sulle nanotecnologie completano un settore emergente in rapida espansione.
36. I suoi 52,5 mega watt di energia pulita sono secondi solo ai 53,4 mega
watt americani (T. Woody, China Leads in Clean Energy Investments, «New
York Time», 29 marzo 2010).
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15%) è la condizione per poter sviluppare un’economia
di scala sufficiente a ridurre i costi e aggredire così il
mercato mondiale.
Da questo punto di vista non ha molta importanza
se sarà la Cina o gli Stati Uniti la più grande economia
mondiale dei prossimi anni, quanto piuttosto quale delle due diventerà capofila di un nuovo modello economico che passa attraverso l’uso di risorse rinnovabili, efficienza energetica e comando su una forza lavoro sempre più qualificata.
Le energy technology impiegano sempre più «colletti verdi», il cui numero è di anno in anno in continuo
aumento37: emerge così un terreno strategico che fa dello skill della manodopera, della produzione di sapere e
della ricerca a livello globale le questioni centrali nella
corsa alle energie rinnovabili.
37. Tra il 2008 e il 2010 il loro numero è aumentato di circa 100.000 unità all’anno e, secondo l’associazione governativa delle energie rinnovabili cinese, ha raggiunto la quota di 1,12 milioni di lavoratori. Se questi numeri possono sembrare minimi – comparati con il bacino dei quasi 800
milioni di lavoratori complessivi –, tale cifra è destinata a crescere rapidamente. Una ricerca congiunta del ministero dell’Industria e dell’Accademia delle scienze sociali di Beijing ha infatti previsto che questo campo
possa conoscere ben 6,79 milioni di nuovi posti di lavoro nel paese entro
il 2020 nel perseguire quello che Beijing chiama «sviluppo scientifico».
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Il mercato del lavoro
e la migrazione interna
Liudong renkou. La popolazione fluttuante
Il prestigioso magazine statunitense «Time» nel dicembre 2009 ha conferito il titolo di «persona dell’anno» all’anonimo «lavoratore cinese». Accanto a figure
influenti come Nancy Pelosi e l’atleta olimpionico
Usain Bolt compare anche quell’infaticabile lavoratore
che starebbe facendo uscire dalla crisi gli indebitati Stati Uniti e la vecchia Europa. La crescita impetuosa della
«fabbrica del mondo» è infatti interamente sostenuta
da una vera e propria moltitudine di lavoratori migranti
che si chiamano liudong renkou, ovvero «popolazione
fluttuante». Sono decine di milioni coloro che dalle zone remote delle campagne saltano sul primo treno per
mettersi in viaggio.
Se fluttuare può richiamare un movimento senza
meta, l’intraprendenza di coloro che partono dalle zone
rurali porta invece direttamente ai cancelli di fabbrica
delle numerose zone economiche speciali: è questo
esercito di forza lavoro migrante lo strumento con cui si
è avviato lo sviluppo economico delle aree urbane e produttive lungo la costa del Pacifico.
Alla fine degli anni Settanta, sotto la spinta delle riforme volute da Deng Xiaoping, le comuni agricole delle campagne vennero smantellate attraverso la redistribuzione delle terre e l’istituzione delle cosiddette imprese di villaggio, dando vita a un sistema basato su
responsabilità individuale, proprietà privata, lavoro
flessibile e competizione.
Attraverso l’introduzione di questi principi di mercato, nuove attività e valori hanno permeato tutti gli
aspetti della vita e spezzato le strutture sociali pre-esistenti. La liquidazione delle comuni agricole che, seppur con i loro limiti, sono state un vero laboratorio permanente di militanza, ha di fatto liberato il Partito dal
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peso «politico» che i contadini avevano ereditato dall’epoca di Mao e gettato le basi per una nuova rivoluzione:
quella del mercato.
Svincolati dall’obbligo di essere trattati come soggettività politica, gli abitanti delle campagne, a partire
dagli anni Ottanta, sono così diventati una illimitata risorsa di forza lavoro a basso costo: è attraverso questo
passaggio che si è data la costruzione di quel vero e proprio esercito di lavoratori che ha sostenuto l’ingresso
dei capitali stranieri in Cina. I governi locali e provinciali hanno avuto un ruolo non da poco nella formazione di questo bacino di forza lavoro migrante, sostenendo le direttive del governo centrale e dando vita a forme
di cooperazione e programmi di coordinamento interprovinciali. Per quasi trent’anni, i governatori delle provincie più povere hanno sistematicamente «esportato»
la loro popolazione nel Pearl River Delta, garantendosi
in cambio alte remittenze spedite a casa dai migranti.
Ma le iniziative statali non si sono limitate a questo:
hanno istituito agenzie pubbliche di collocamento in
grado di rispondere costantemente alle esigenze della
manifattura, reclutando giovani, per la maggior parte
donne proveniente delle regioni più remote, e trasferendoli direttamente alla catena di montaggio.
Le riforme di Deng Xioping, accompagnate dal
massiccio afflusso di capitali stranieri, hanno così
creato una nuova classe operaia composta da milioni di
lavoratori, approfondendo ulteriormente le disuguaglianze tra città e campagne. Questo processo di globalizzazione dell’economia, di fatto a guida statale, è caratterizzato dal paradosso di essere accompagnato da
un ritiro progressivo dello stesso Stato dalla gestione
della sicurezza sociale e dall’erogazione di servizi di
base del welfare. Questa popolazione fluttuante, infatti,
non gode né di diritti né di alcuno statuto legale, a causa
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del sistema nazionale che controlla e governa i processi
di migrazione interna: il sistema hukou. Un sistema che
non solo è stato largamente paragonato alla violenza della apartheid in Sudafrica, ma che rappresenta il dispositivo giuridico che ha permesso all’Impero celeste di diventare la fabbrica del mondo.
Inizialmente, il sistema hukou (che fissa i permessi
di residenza individuali e famigliari, nonché i diritti di
cittadinanza come l’accesso alla educazione, all’assistenza sanitaria e alla pensione) era uno strumento legale per impedire ai residenti delle campagne di raggiungere le città, controllando la crescita della popolazione
urbana tramite l’erogazione locale del welfare state.
Negli anni Ottanta il suo progressivo allentamento
ha portato a una successiva libertà di spostamento, ovvero a una graduale mercificazione della popolazione
rurale senza che, tuttavia, le misure di sicurezza sociale
sul lavoro fossero adeguate al rapido mutare delle sue
condizioni storiche. Ancora oggi, infatti, i migranti che
si spostano per lavorare senza un valido hukou urbano
sono di fatto esclusi dai contributi al reddito, alla casa e
ai loro figli è negata l’istruzione. L’hukou impone la residenza nella località natale anziché in quella lavorativa, costringendo i lavoratori migranti a vivere senza alcun diritto di cittadinanza. Attraverso l’esclusione dei
liudong renkou dall’erogazione dei servizi del welfare
state, tale dispositivo ha trasformato una porzione di
popolazione in forza lavoro a buon mercato.
In altre parole, la delocalizzazione produttiva dell’Occidente si è servita della pura violenza, quella dello
hukou. La mobilità del comando e della produzione
mondiale si fonda sull’esclusione dal welfare; l’immobilità delle garanzie si contrappone alla mobilità della forza lavoro in un regime economicamente inclusivo e politicamente esclusivo.
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L’economia necessita della mobilità della popolazione rurale e, allo stesso tempo, rifiuta il diritto di quest’ultima a vivere nelle zone urbane. Tale sofisticata
marginalizzazione, un miscuglio di inclusione ed
esclusione, è alla base di quella «cittadinanza deformata» che trasforma i lavoratori migranti in cittadini di seconda classe. Una sorta di razializzazione della forza lavoro senza il dispositivo della razza, ovvero la costruzione di una esclusività, tutta artificiale, che ha il solo scopo
di frammentare. Se l’invenzione dell’etnia han ha annullato le differenze biologiche tra i lavoratori cinesi, la
polarizzazione tra città e campagna ha creato un’artificiale divisione che poggia sulla provenienza per fondare
una gerarchizzazione esclusivamente geografica.
Dato che non avere un hukou urbano obbliga un
esercito di nuovi cittadini a risparmiare per pagarsi da
soli assicurazione medica, pensione, così come l’educazione dei propri figli, i migranti, che di fatto si autofinanziano il proprio welfare, riducono la domanda di
consumo di beni rendendo il proprio paese dipendente
da quello occidentale: questo spiega il basso tasso di
consumi dell’economia cinese. Con Deng Xiaoping si è
data una vera e propria privatizzazione dei servizi sociali di base, forse persino più radicale del neoliberalismo
di Margaret Thatcher o di Ronald Reagan.
Caratteristica del socialismo di mercato è il fatto che
né i datori di lavoro né le amministrazioni dei centri urbani e produttivi sono obbligati in alcun modo a pagare
i contributi ai lavoratori se questi sono migranti e, senza la parte di salario necessaria alla riproduzione sociale, questa funzione è interamente scaricata sulle campagne38. Sono i legami sociali, familiari e di comunità
38. Cfr. Y. Ren, N. Pun, Nongmingong laodongli zai shengchan zhong de
zhengfu quewei (The state function gap in the reproduction of peasant
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che sostengono i costi sociali della nuova classe operaia,
tanto di quella relegata alla catena i montaggio che di
quella costituita dai nuovi colletti bianchi, i quali spesso
vivono in miseria nelle città. Indipendentemente dal
tempo vissuto nelle metropoli o dal fatto che i propri figli siano nati e cresciuti dove i genitori si sono trasferiti
per lavorare, i nuovi migranti non sono considerati come cittadini urbani: per il governo sono e continueranno a essere residenti nelle campagne.
Attacco al cuore dell’Europa
Come abbiamo visto, i fondi di investimento esteri
diretti nelle zone economiche speciali hanno sedimentato, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, lo strutturale squilibrio interno tra costa e regioni rurali, reso possibile da una mano d’opera mobile potenzialmente
«inesauribile» e a basso costo grazie al dispositivo legale del sistema hukou. Ma le condizioni che hanno alimentato la crescita economica e l’accumulazione di ricchezza degli ultimi anni stanno entrando in crisi.
Da un lato, i sempre più numerosi conflitti sul lavoro nelle fabbriche a capitale straniero e non solo, dall’altro, le pressioni che da più parti premono per un radicale superamento del sistema giuridico hukou stanno ridefinendo una geopolitica i cui effetti possono avere
una portata globale. Essi non riguardano solo il mercato del lavoro di questo inedito Stato-nazione, ma potrebbero incidere profondamente anche sui sistemi di
sicurezza sanitaria e pensionistica a livello mondiale.
Per il comando capitalistico (che ha vissuto gli ultimi
decenni senza apparenti contraddizioni di classe perché
workers workforce), «Zhongguo Shehui Kexue Neikan» (Internal Journal of Chinese Social Science), aprile 2007 [in cinese].
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risolte entro la forma-stato della Repubblica popolare),
la rapida formazione di una nuova classe di lavoratori attraverso le lotte sul salario è un pericolo da scongiurare.
Gli scioperi, l’emergere di nuovi possibili soggetti sociali integrati nei circuiti globali della produzione rappresentano infatti il rischioso rafforzamento di un inedito
potere operaio su scala globale. La domanda di diritti sociali e giustizia da parte dei lavoratori cinesi, il loro sforzo per migliorare le condizioni di vita e di lavoro possono
infatti avere effetti dirompenti non solo a livello locale,
ma anche sulle politiche globali del lavoro.
A tutto questo si deve aggiungere che, a partire dalla
zone del Guandong, si stanno sperimentando riforme
per concedere un hukou urbano ai lavoratori migranti
tramite l’introduzione di un sistema «a punteggio». Tale sperimentazione, introdotta nella regione-laboratorio che ha forgiato la Cina contemporanea, coinvolge oltre trenta milioni di lavoratori migranti che potranno
così ottenere, collezionando punti preziosi, non solo la
residenza permanente, ma anche l’accesso ad alcuni
servizi base come l’assicurazione pensionistica, l’assistenza sanitaria e la formazione.
Tuttavia, così com’è stata annunciata, questa riforma sembra essere più un altro modo per differenziare
della forza lavoro piuttosto che un radicale superamento allo sfruttamento dei migranti. Il sistema a punti che
si vorrebbe introdurre non farebbe altro che accogliere
esclusivamente i migranti più ricchi o istruiti, a discapito di tutti gli altri, ovvero la maggioranza. Una laurea
universitaria vale ottanta punti, mentre con le scuole
professionali se ne conquistano al massimo cinque. Un
lavoratore alla catena di montaggio colleziona dieci
punti contro i sessanta di un tecnico con esperienza lavorativa alle spalle. Chi ha più figli di quanto consentito
perde cento punti e non gli sarà possibile chiedere la re80
sidenza per almeno cinque anni. «Non dovrebbero dividere i lavoratori migranti secondo la loro educazione, il
loro skill o o il loro status. Le autorità dovrebbero concedere la cittadinanza secondo altri criteri» ha affermato
un certo Guo Weiqing a un giornalista del quotidiano
«South China Morning Post»39. Se non fosse che la
maggior parte dei lavoratori migranti, quando va bene,
possiede la licenza elementare o media, è facile intuire
come ottenere anche solo quindici o venti punti, collezionandoli nell’intero arco della propria vita, sia cosa
difficile se non impossibile per la maggior parte di coloro cui questa riforma è dedicata.
Anche forme di erogazione di welfare state sul modello europeo, come avanzato da una recente riforma
relativa della sicurezza sociale nazionale, potrebbe
«completare» il processo di proletarizzazione in corso,
rendendo finalmente cittadini urbani e lavoratori detentori dei propri diritti coloro che si trasferiscono per
lavorare. Tuttavia, le caratteristiche di tale erogazione
sul modello europeo sarebbero molto differenti in uno
Stato che ha fatto dell’eccezione e della disomogeneità
nella sua sovranità territoriale i propri caratteri costitutivi. Questa proposta, vista da molti come minaccia, sta
suscitando un aspro dibattito laddove le grandi corporation cinesi, molti dirigenti del Partito e le multinazionali non sono disposti a cedere facilmente.
Riuscirà l’attuale dirigenza del Partito, Wen Jiabao e
il segretario di Stato Hu Jintao che terminano il loro
mandato nel 2012, a fare una vera riforma dello hukou?
È partendo da questo dibattito interno che possiamo
spiegare perché, nella primavera 2010, dall’Asia non
abbiano sostenuto i bond greci così come i titoli di Stato
39. F. Tam, Migrant Workers Get Chance for Urban Residency, «South China Morning Post», 9 giugno 2010.
81
di quei paesi europei in difficoltà. Non che le riserve in
divisa straniera manchino alla Banca centrale cinese,
tutt’altro. Il nome della minaccia si chiama welfare europeo, che la Cina e un capitale multinazionale, oggi di
fronte alle prime offensive dal mondo del lavoro nell’Impero celeste, non vogliono arrischiarsi di salvare.
Anzi, è proprio con l’attacco al welfare state europeo e
ai suoi dispositivi generali che il development state cinese
può pensare di continuare a esercitare il potere sulla sua
forza lavoro migrante, erogando servizi che in realtà sono nient’altro che violenza e puro controllo sociale. Il comando sulla manodoera globale nella nuova divisione
internazionale del lavoro passa da pesanti tagli alle politiche sociali: l’austerity europea appena inaugurata a
Bruxelles non è altro che l’assalto alle conquiste prodotte dalle lotte operaie in Europa nei decenni Sessanta e
Settanta. All’interno dei nuovi rapporti di forza tra centro e periferia della produzione globale, le nuove lotte
sul lavoro nella «fabbrica del mondo» si accompagnano
alla mercificazione e a una progressiva privatizzazione
della spesa sociale (pensioni, educazione e salute) in
un’Europa in bancarotta.
Le forme di erogazione del welfare state su scala mondiale, la riorganizzazione dei suoi principi di fondo a
partire dalle specificità storiche e sociali di regioni tra loro molto differenti non sono solo il nuovo terreno di accumulazione del capitale. Sono piuttosto l’emergere di
un inedito sforzo multipolare per gestire una forza lavoro sempre più globale, perché protagonista nei processi
di valorizzazione che travalicano i classici confini dello
Stato nazione. Per il Regno di Mezzo questo è il terreno
più delicato dell’alleanza tra il capitale nazionale e quello dei fondi di investimento stranieri. Un terreno fertile
di nuove contraddizioni e possibili rotture, di nuovi rapporti di forza e geografie della produzione globale.
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La nuova generazione di mingong
I treni a lunga percorrenza che attraversano la Cina
nella sua profondità solcano la sua terra rossa come una
bandiera, rossa come una lanterna la cui luce fugge dai
finestrini di un viaggio che può durare venti, trenta o
persino quaranta ore. Il tappo di una bottiglia di baijiou,
letteralmente «alcool bianco», un particolare alcoolico
molto bevuto da queste parti, si apre nell’atrio di un’affollata stazione che, come l’estuario di un fiume in piena, rovescia senza sosta milioni di persone nelle metropoli. Questi treni a lunga percorrenza incrociano i bullet
train, treni ad alta velocità e all’avanguardia di cui il paese sta diventando leader mondiale, mentre nelle stazioni buste di cartone, zampe di gallina da sgranocchiare e
termos di the caldo riempiono gli atri enormi nel movimento senza posa del continente Cina.
La più grande migrazione della storia umana è iniziata quasi trent’anni fa e in questi anni il ritratto del
migrante è profondamente cambiato. Nei cantieri edili
e nei ristoranti, nei servizi di pulizia, del riciclo, nei negozietti che tengono aperti tutta notte dove si possono
comprare sigarette e liquori, nei supermercati e nei
sempre più numerosi centri commerciali sono impiegati per la maggior parte lavoratori migranti. Non solo
riempiono le catene di montaggio nelle fabbriche dell’export: dalle ragazze minute che lavorano nei karaoke
bar ai bordelli, dagli addetti alla sicurezza agli autisti di
taxi, sono sempre di più i migranti impiegati nell’economia dei servizi metropolitani.
Coloro che partono sono mediamente più istruiti di
chi rimane, laddove spirito di avventura, sfida e desiderio di vita metropolitana spingono milioni di giovani a
lasciare la famiglia e i piccoli villaggi. Molti di loro non
vengono nemmeno direttamente dai campi, ma dalle
83
scuole. Coltivare la terra è qualcosa che hanno visto fare
ai loro genitori o persino ai nonni che li hanno cresciuti
mentre i genitori erano a loro volta a migliaia di chilometri di distanza, a trascorrere le loro giornate alla catena di montaggio o nei dormitori di fabbrica.
Rispetto alla generazione precedente, che ha lasciato le campagne costretta dalla disperazione della povertà, i nuovi migranti in molti casi partono in cerca di opportunità professionali, spesso incoraggiati e aiutati
economicamente dai loro genitori. Le donne rappresentano la maggior componente di coloro che decidono
di migrare dalle campagne. Se per gli uomini tale scelta
è legata alla possibilità di alti guadagni, le donne, spesso
giovani e non sposate, vedono in questa opportunità la
possibilità di cambiare vita, per fuggire la cultura tradizionale che le discrimina pesantemente in favore dei ragazzi. «Sei proprio un contadino!» è il tipico insulto che
puoi sentire a Guangzhou. Per molti migranti l’unica linea di confine che realmente conta, l’unica linea da superare, è quella tra città e campagna, laddove il destino
delle nuove generazioni sta cambiando. È la provenienza geografica lo strumento che segmenta e divide con
ferocia; eppure, si tratta di una ferocia carica di nuove
possibilità e di un destino migliore.
Differenti motivazioni, esigenze e desideri spingono milioni di persone a inseguire un posto di lavoro in
città o nelle fabbriche. Se un tempo partivano in cerca di
un’occupazione stagionale che permetteva di tornare a
casa per il raccolto o la semina, per i nuovi migranti la
vita di fabbrica assume sempre più i tratti di uno spaesamento che non è solamente fisico e affettivo. Lavorare nelle fabbriche dell’export vuol dire vivere una nuova
temporalità: quella delle merci. Qui si impone un nuovo calendario, una nuova scadenza del tempo: la stagione del raccolto si sostituisce al picco della produzione in
84
vista delle consegne natalizie e gli straordinari di fine
ottobre sfornano le merci che devono attraversare gli
oceani per presentarsi, a dicembre, sugli scaffali dei
centri commerciali di mezzo mondo. È così che i legami con le tradizioni e con il villaggio si allentano; le visite e il ritorno sono sempre meno dettati dal calendario
agricolo e sempre più da quello delle merci. È il ciclo
della produzione industriale che trasforma profondamente i rapporti umani e sociali e a casa si torna, quando va bene, una volta l’anno per il capodanno cinese o
durante il periodo di bassa stagione, quando il management di fabbrica ti concede un permesso di qualche
giorno o quando ci si licenzia.
Per garantirsi dai kuangli, ovvero i cosiddetti «licenziamenti pazzi»40, i datori di lavoro bloccano parte del
salario iniziale e lo usando come una sorta di indennità,
di fatto estorta ai lavoratori, proprio contro di loro. Un
vero e proprio deterrente contro la fuga dal lavoro. I «licenziamenti pazzi» sono una pratica sempre più diffusa tra i giovani: consiste nel licenziarsi senza alcun
preavviso o spiegazione, per andare in una nuova fabbrica dove si è riusciti a trovare una posizione migliore,
o semplicemente per spostarsi in una nuova regione
dove il costo delle vita è inferiore.
Desiderio di fuga e slealtà sembrano essere i tratti
comuni dei mingong, ovvero dei lavoratori migranti. Tale parola, che deriva dall’unione di nonming, contadino,
e gong, lavoratore temporaneo, indica lo status di una figura produttiva che si costituisce per negazione: non
più contadino e non ancora gongren, cioè operaio. In
questo vuoto di status sociale e legale lo Stato si sottrae
a ogni obbligo e responsabilità nel fornire servizi di wel40. L. T. Chang, Factory Girls: Voices from the Heart of Modern China, Picador, London 2009.
85
fare, e per questo la maggior parte è costretta a vivere nei
dormitori delle fabbriche41.
Ed è proprio da questi luoghi dove si condivide gran
parte del tempo libero che la cooperazione diviene sovversiva e si organizzano gli scioperi. Nelle città piene di
migranti – tra i grattacieli piastrellati di ceramiche bianche, che spesso lasciano dubbi sul buon gusto, e le costruzioni che si ripetono copiate da una città all’altra –
gli incroci vengono spesso invasi da scioperi illegali, veri e propri blocchi metropolitani, espressione di un radicalismo delle lotte che si è intensificato negli anni.
Lontane dalle città a misura d’uomo, dalle metropoli
che si muovono a ritmi veloci ma ordinati, le città cinesi
sono un accumulo di caos, di quello smog che rende
tutto più confuso, più indecifrabile, convulso e inaspettato, come un corteo di migliaia di lavoratori che blocca
il traffico in pieno giorno.
Il diritto a rimanere
Nome, cognome, sesso, etnia, città natale, occupazione attuale, numero di cellulare e della carta di identità: questi sono i dati che devi fornire se vuoi oltrepassare i checkpoint di Dashengzhuang, villaggio in uno dei
distretti più periferici di Beijing. Questa zona è chiusa
dalle undici di sera alle sei del mattino e fa parte di un
progetto «fiore all’occhiello» sul controllo della forza lavoro migrante: la moltiplicazione di confini interni sta
facendo assomigliare questa metropoli sempre più a
una prigione42.
41. N. Pun, C. Smith, Putting transnational labour process in its place: the
dormitory labour regime in post-socialist China, «Work, Employment and
Society», n. 21, 2007.
42. Sperimentati per la prima volta nel 2003 di fronte all’epidemia di
86
Se il sogno della prima generazione di mingong era
quello di andare in città per arricchirsi e tornare in campagna, oggi i nati dopo i fatti di Tienanmen sono veri e
propri animali metropolitani che vogliono arricchirsi
sì, ma per comprare un appartamento in città.
Le metropoli cinesi sanno di gomma bruciata, di colla, di polvere, di carbone; l’odore di petrolio, di vernice e
quello del tofu arrostito dai venditori ambulanti agli angoli della strada si mischiano a quello di vari solventi.
L’ambiente di Shanghai, per esempio, avvolto in una
coltre di nubi color rame che pesantemente nasconde il
suo skyline, ha l’odore del suo inquinamento, impenetrabile e persistente. Veleno contro veleno: in questa città percepisci un’aggressività di fondo che scende fino
alle sue stazioni metropolitane. Prendere la metropolitana vuol dire fare a gomitate: gente che spinge ovunque e che di certo non chiede scusa pur di rubarti il posto a sedere o per evitare la fila.
Ma allo stesso tempo Shanghai è anche il luogo dai
mille volti: cinesi musulmani, cinesi del Sud, dello Xinjiang come di Beijing o del Sichuan vivono qui, rincorrendo un sogno che è forse il mito coloniale di questa
città che ancora persiste, con le sue ricchezze per pochi
e miserie per molti. È una delle mete di un vero e proprio esodo: nei prossimi trent’anni una popolazione
grande più o meno come quella di Germania, Francia,
Italia, Inghilterra, Sud Corea, Sudafrica, Spagna, Polonia e Canada messi insieme si sposterà dalle campagne
per andare a vivere nelle metropoli cinesi43.
Avete mai sentito il nome di Shanwei? È una città con
circa tre milioni e mezzo di abitanti, quasi quanti ne ha
SARS, questo modello è stato poi riutilizzato a partire dal 2008 in occasione dei giochi olimpici e da allora non è stato più abbandonato.
43. D. Pilling, Mismanaging China’s rural exodus, «Financial Times», 10
marzo 2010.
87
una città come Madrid, ma solo in pochi ne hanno sentito parlare. Se le sue dimensioni ne fanno un centro urbano che in molti paesi potrebbe essere importante, in
Cina è semplicemente una città che, con il 17% di Pil annuo e il suo anonimato, guida lo sviluppo di questo paese. È una delle 170 metropoli cinesi con oltre un milione
di abitanti: un numero impressionante se comparato alla decina di città statunitensi della stessa dimensione, o
alle due o tre italiane. Ma tale numero è ancora più sconcertante perché destinato a essere solo provvisorio44.
A due ore di autobus da Shanwei c’è Shenzhen, che
si allunga sulla costa del Pacifico adagiandosi come un
lungo serpente. Qua si impara a vivere un nuovo modo
di abitare, dove la storia e le sue sedimentazioni appaiono più come un processo futuro anziché del passato o
del presente. Ingresso del Pearl River Delta per i suoi
milioni di abitanti, Shenzhen è una metropoli interamente pianificata dal Partito. Chiamata anche «instant
city», nel 1986 il suo piano urbano prevedeva un milione di abitanti entro il 2000; lo stesso piano, rivisto a fine anni Ottanta, ne stimava due milioni. Nei fatti la sua
popolazione nel 2000 ha raggiunto i dieci milioni e da
allora cresce a un ritmo di circa un milione all’anno.
Questa accidentale invenzione della pianificazione
è costituita da una disomogeneità interna composta da
nuovi centri che, l’uno dopo l’altro, si affiancano ai
cheng zhong cun, veri e propri «villaggi dentro la città».
44. Questa nuova urbanizzazione sarà il più grande business cinese per i
prossimi vent’anni. Guangzhou sta dando vita a uno dei più avanzati sistemi di trasporto al mondo, costruendo otto linee di metropolitana e scavando sessanta tunnel in simultanea, mentre altre quindici città stanno
compiendo sforzi analoghi. Dalla bicicletta al trasporto metropolitano
d’avanguardia: così sta cambiando il volto di questo paese. Tali trasformazioni sono legate a doppio filo a nuove forme di vita e di socialità emergenti, così come di comportamenti e consumi.
88
Questi «slum» sono circa trecento, occupano pressappoco il 10% della superficie urbana complessiva e ospitano quasi la metà della popolazione di Shenzhen. È in
questi villaggi che vivono i migranti che si trasferiscono, perché in queste «ulcere della città» i prezzi degli affitti sono bassi e il costo della vita accessibile. Molti di
questi villaggi fanno parte della Zona economica speciale di questa città che, tuttavia, è destinata a espandersi nei prossimi anni fino a inglobare l’intero territorio
circostante, mettendo fine alla politica «una città, due
sistemi» che l’ha caratterizzata finora. Shenzhen ha infatti otto distretti, quattro dei quali formano la zona speciale. Tra gli altri, Baoan e Longgang da soli si estendono per i 4/5 di questa urbanizzazione e un muro fisico
di oltre cento chilometri li divide dal centro. Bisogna
passare i check point di questo confine se si vogliono
raggiungere i dormitori delle fabbriche: un’enorme development zone che assedia il centro della città.
Shenzhen è la metropoli del comando. Con le centinaia di cantieri dispersi nella sua pancia, incarna le continue accelerazioni della produzione, fornendo la percezione della sua inesorabile temporalità. I quartieri che
cambiano di colpo, i migranti che da un giorno all’altro
partono per trovare lavoro altrove sono il simbolo dello
spaesamento vissuto da una città in continua metamorfosi. Cantieri del centro, dove i grattacieli sembrano tirare
la città per i capelli, nuove arterie urbane fatte di autostrade e linee metropolitane dirette verso le zone di sviluppo
industriale: è la città della rivoluzione permanente, dove
un cantiere che chiude è un altro che si apre.
Nuove politiche sulla migrazione sono anch’esse al
vaglio per far fronte al vero e proprio esodo dalle campagne. Shenzhen sta infatti studiando una legge locale per
«ripulirsi» da tutti coloro che sono disoccupati da più di
tre mesi. Lo stesso accade a Kunming, nella provincia
89
dello Yunnan, dove è in progetto un piano legale per cacciare chi non abbia un valido permesso di residenza.
Di fronte a una forza lavoro che preferisce non lavorare piuttosto che fare lavori malpagati, poco gratificanti e faticosi, queste politiche parlano chiaro: in città o si
lavora o si è costretti ad andarsene. Sotto ricatto perché
si accetti qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, questa
nuova urbanizzazione è accompagnata da un vero e
proprio inasprimento delle restrizioni che minacciano
il diritto più prezioso: quello di poter restare.
I nuovi cacciatori di teste
Choi Fung, Chan Ngai e Wong Lai Ching. Tre nomi
femminili, tre identità che pure appartengono alla stessa persona, una ragazza di poco più di vent’anni proveniente dallo Sichuan. Choi Fung è il nome per il suo datore di lavoro in una piccola azienda di Senzhen. Chan
Ngai, nata nel 1985, è la sua identità ufficiale per l’assistenza sanitaria, grazie a dei documenti falsi comprati
in città. Questo perché Lai Ching, il nome con cui si fa
chiamare dagli amici, femmina e primogenita, non è
mai stata registrata dai genitori che, nelle remote terre
dove è nata, hanno preferito aspettare un maschio. Nel
paese dove vige il controllo delle nascite attraverso la politica del figlio unico, il caso di Lai Ching non è affatto
isolato: sono molte le ragazze invisibili, mai registrate
agli uffici anagrafici locali perché donne. In un paese di
oltre un miliardo e trecento milioni di persone che fa
della gestione demografica una delle politiche più restrittive e del figlio maschio il suo orgoglio, la moltiplicazione delle identità femminili come questa è un fenomeno piuttosto diffuso.
Lai Ching, dopo essere stata licenziata a causa della
crisi economica, ha deciso di non tornare nel Guan90
dong, visto l’eccessivo costo della vita, e di trasferirsi a
Kunming, la città dell’«eterna primavera» nell’Ovest cinese, dove la vita è decisamente più economica. Come
lei stessa sostiene, sono molti coloro i quali, a partire
dalla crisi subprime che ha colpito anche il settore dell’export cinese nel 2008, hanno deciso di muoversi, costretti dagli alti prezzi delle zone costiere e da un salario
minimo troppo basso. Sono proprio le decisioni di persone come Lei Ching a spiegare la scarsità di manodopera di cui soffre oggi tutto il settore produttivo delle regioni costiere.
Accanto alle politiche statali anti-crisi che fanno
concorrenza alle fabbriche (assumendo lavoratori migranti nelle zone occidentali del paese per costruire infrastrutture), la mancanza di forza lavoro potrebbe diventare strutturale e di lungo periodo, non solo per colpa del governo. Siamo di fronte a un inedito rifiuto del
lavoro proprio nel ventre del Dragone?
Se a partire dalla fine del 2008 molte fabbriche hanno pesantemente licenziato per far fronte alle difficoltà
economiche oggi, sebbene la crisi delle esportazioni sia
ormai alle spalle, non c’è più traccia di lavoratori, nonostante la produzione di giocattoli, telefonini e lettori dvd
richieda nuovamente forza lavoro per rispondere agli
ordini in aumento. Per scongiurare l’esodo dalle fabbriche e richiamare i giovani migranti nuovamente al lavoro, i padroni promettono aria condizionata, dormitori
nuovi, bonus di produttività e migliori condizioni di vita a coloro che ritornano. Altri offrono addirittura duecento o trecento yuan a chi riesce a portare in fabbrica
un amico. I nuovi cacciatori di teste sono alla ricerca di
forza lavoro!
Tuttavia è facile scoprire come promozioni e bonus
messi a disposizione dei lavoratori siano in realtà tutti
volti ad aumentare disciplina e produttività, laddove gli
91
incentivi hanno il volto della deregolamentazione delle
norme che limitano gli straordinari e i bonus di produzione fanno il paio con multe e tolleranza zero per ritardi
e assenteismo. Gli oltre dodici suicidi tra i giovani lavoratori che hanno colpito dall’inizio del 2010 la cosiddetta
«città proibita» Foxconn a Shenzhen (così chiamata perché nessuno può entrare o uscire liberamente da questa
fabbrica), raccontano bene l’insostenibile punizione dei
premi produttività e le dure condizioni di lavoro.
Secondo un sondaggio effettuato a inizio 2010 dalla
camera di commercio europea di Shenzhen e Dongguan, se un tempo bastavano un paio di giorni per completare la linea di montaggio di molti impianti produttivi,
oggi servono alcuni mesi per reclutare lo stesso numero
di lavoratori migranti: siamo di fronte a una nuova generazione che non accetta il contratto se la busta paga è
troppo bassa, le condizioni di lavoro non adeguate o il lavoro troppo duro. La generazione di migranti nati dopo il
1989 non sembra essere affatto interessata a spezzarsi la
schiena nelle fabbriche dell’export, a migrare senza alcuna garanzia o a lavorare in condizioni massacranti. Questi ragazzi, che rifiutano il lavoro degli sweatshop e si percepiscono più come cittadini urbani che contadini, hanno potuto beneficiare in questi anni di standard di vita
mediamente superiori rispetto a quelli di qualche anno
fa grazie ai risparmi dei genitori. Rispetto a questi ultimi,
hanno inoltre aspirazioni ben più alte: non vogliono trascorrere anni a risparmiare prima di ritornare nelle campagne; al contrario desiderano stabilirsi nelle nuove città
e, proprio per questo, ambiscono a uno stipendio alto.
Inoltre, possiedono una mobilità ancora più accentuata: lavorano per pochi mesi (altro che anni, altro che
una vita!) in una fabbrica prima di spostarsi in un’altra
della medesima regione o prima di salire su un treno ad
alta velocità verso una nuova città. La mobilità, nelle
92
fabbriche cinesi, è usata come vera e propria arma dai
lavoratori: è il «tallone del drago» giocato contro lo stesso sfruttamento di fabbrica. Se il sociologo Hirshman45
aveva concepito le policy di exit e voice come pratiche tra
loro alternative, il comportamento di questa nuova generazione di lavoratori sembra mostrarci come, nella
soggettività migrante, l’exit coincida di fatto con la voice,
laddove la minaccia della fuga diventa la forma più efficace nel determinare il rapporto di forza nei processi di
valorizzazione del capitale.
Non solo la manodopera pressoché infinita del continente Cina era una favola, ma anche la terra promessa
del capitale si è rivelata una semplice fantasia.
45. Il sociologo Albert Hirschman, nel suo libro uscito negli anni Settanta intitolato Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations, and States, descrive come i membri apparteneti a una organizzazione (sia essa un’impresa, uno Stato o un gruppo sociale) hanno
essenzialmente due azioni possibili con cui agire all’interno della realtà
sociale che vivono: possono scegliere tra l’exit, ovvero sottrarsi e abbandonare il gruppo, oppure possono agire per modificare la situazione esistente. Questa seconda opzione, chiamata voice, è vista dall’autore tedesco come irriducibile alternativa alla prima.
93
Inchiesta: la formazione, gli stage,
le lotte sul lavoro
Il cristallo della formazione
«La mancanza di forza lavoro è vera, ma la soluzione deve essere creativa»; «La Cina è a un punto di svolta. Paura per gli aumenti sul salario»; «Contanti ai migranti o
niente lavoro»: in questi ultimi mesi le pagine di quotidiani internazionali come il «Financial Time», il «New
York Time» o il «Wall Street Journal», commentando le
proteste e gli scioperi dei lavoratori scoppiati durante
l’estate del 2010, hanno decretato la fine della fabbrica
del mondo e della «bella époque» delle multinazionali,
quando potevano contare su una manodopera pressoché infinita, docile e a basso costo nell’Impero celeste.
Tra l’incredulità dei molti commentatori che si domandano come sia possibile che un paese di oltre un miliardo e trecento milioni di persone possa, paradossalmente, soffrire di mancanza di forza lavoro, un cambiamento profondo sta investendo questa regione del Pacifico.
Se la mancanza di manodopera di fatto allarma i padroni di mezza Cina, sembra che il paese tenti di correre ai ripari attraverso una sorta di «cognitivizzazione
dello sfruttamento», in grado di offrire sul lungo periodo una forza lavoro non solo abbondante ma soprattutto economica. La Cina e le multinazionali straniere che
vi hanno sede hanno infatti scoperto gli stagisti: un esercito «interno» di riserva composto da giovani che hanno
imparato la disciplina del college e che ora entrano in
fabbrica. È l’esplosione della formazione, formazione da
manodopera, formazione estensiva, formazione di
montaggio, formazione professionale che guida e costruisce il nuovo bacino della forza lavoro a basso costo46.
46. Si stima che la Cina abbia oggi circa 15.000 scuole professionali per un
totale di oltre venti milioni di studenti l’anno. Circa dieci milioni di studenti annualmente provano il gaokao, ovvero il selettivo esame per poter
97
Lo conferma il commento rilasciato dal ministero
dell’Istruzione che ha recentemente affermato come «il
governo sta incoraggiando gli studenti della formazione
professionale a intraprendere stage nelle fabbriche per
supplire la mancanza di forza lavoro nel settore della manifattura»47. Lo stesso ministro spinge inoltre le fabbriche della costa ad allacciare contatti con le scuole professionali delle regioni dell’Ovest, perché forniscano loro
gli studenti. Le istituzioni della formazione si stanno trasformando in agenzie di collocamento, attraverso la stipulazione di accordi di cooperazione inter-regionali. La
possibilità di disporre di un ampio bacino di stagisti è diventato il richiamo con cui le regioni cinesi, più economicamente povere ma ricche in termini di popolazione
che le abita (cfr. tabella 2), tentano oggi di attirare le multinazionali a insediare i loro nuovi impianti produttivi. È
proprio su questa strada che il rapporto tra imprese straniere e scuole professionali diventa più profondo, con
l’aumento di quegli istituti scolastici finanziati, in parte o
interamente, da multinazionali speranzose di garantirsi,
in questo modo, un regolare afflusso di forza lavoro con
cui riempire i posti disponibili alla catena di montaggio.
accedere alla formazione universitaria. Di questi, circa il 65% sono coloro
che falliscono l’ingresso e che ci si aspetta entreranno nelle scuole professionali. La popolazione degli studenti complessiva tra i 15 e i 24 anni si dovrebbe aggirare tra i 200 e i 225 milioni da qua ai prossimi vent’anni.
47. Xinhua, China encourages vocational student internships to ease labor
shortage, «Global Times», 26 marzo 2010.
98
Tabella 2: caratteristiche delle provincie cinesi nel 2005
(estratta da: M. Jaques, When China rules the world, cit., p. 202)
Provincia
Beijing
Tianjin
Shanghai
Hebei
Shanxi
Inner Mongolia
Liaoning
Jilin
Heilongjiang
Jiangsu
Zhejiang
Anhui
Fujian
Jiangxi
Shandong
Henan
Hubei
Hunan
Guangdong
Guangxi
Hainan
Chongqing
Sichuan
Guizhou
Yunnan
Tibet
Shaanxi
Gansu
Qinghai
Ningxia
Xinjiang
Totale
popolazione
Pil regionale
(in milioni di RMB)
Pil per
Capita(RMB)
15.360
10.430
17.780
68.440
33.520
23.860
42.200
27.150
38.180
74.680
48.940
61.140
35.320
43.070
92.329
93.710
57.072
63.200
91.850
46.550
8.260
27.970
82.080
37.250
44.420
2.760
37.180
25.920
5.430
5.950
20.080
688.633
379.762
915.418
1.009.611
417.952
398.555
800.901
362.027
551.150
1.830.656
1.343.785
537.512
656.895
405.676
1.851.652
1.058.742
652.014
651.143
2.236.654
407.575
89.457
307.049
738.511
197.096
347.289
25.121
367.655
193.398
54.332
60.610
260.419
44.843
35.452
51.486
14.752
12.469
16.372
18.979
13.334
14.436
24.515
27.458
8.791
18.598
9.419
20.042
11.298
11.425
10.303
24.351
8.752
10.830
10.970
8.997
5.313
7.818
9.102
9.886
7.416
10.006
10.187
12.969
1.306.280
18.308.480
14.016
99
Gli studenti spendono in fabbrica sempre più tempo del loro percorso formativo, lavorando a tempo pieno, ma pagati come stagisti. I programmi di stage infatti non sono regolati dalla legge nazionale sul lavoro entrata in vigore nel 2008, ma attraverso un complesso
insieme di disposizioni locali e nazionali tra loro separate e molto generiche. Questo cono d’ombra, terreno
non regolamentato nemmeno dal ministero dell’Educazione, trasforma di fatto lo stagista nella nuova figura
dello sfruttamento, senza garanzia alcuna. Assumere
stagisti significa sfruttare un sistema che consente deliberatamente di pagare il lavoro al di sotto della soglia legalmente imposta48.
Accanto ai mingong e alle migrazioni dalle campagne, oggi è l’educazione che, come un cristallo, trasforma la formazione in un dispositivo per offrire forza lavoro a buon mercato mentre lo stagista si afferma come
protagonista del mercato del lavoro cinese nel momento di carenza di forza lavoro. Sembra di essere di fronte
a un dispositivo molteplice che, per ottenere forza lavoro a basso costo, non insiste più solo sui processi migratori già conosciuti, ma si sposta su un nuovo terreno. La
figura del mingong, non contadino e non operaio, protagonista della crescita degli ultimi trent’anni, lascia il
passo agli xuegong, ovvero un inedito mix tra xuesheng,
studenti, e gongren, lavoratori: una produzione d’identità da parte del capitale che è allo stesso tempo crisi delle
identità classiche e sfruttamento. Così le identità si
moltiplicano, mentre si affermano la legge del valore e
il comando come negazione di ogni garanzia sociale.
48. Gli scioperi dello scorso giugno alla fabbrica Honda di Foshan, hanno permesso di mostrare come gli stagisti, seppure compiendo le stesse
mansioni e orari di lavoro di un impiegato regolare, vengono retribuiti
circa il 20% in meno solo perché xuesheng, cioè studenti.
100
Nella Cina e nelle sue disconnessioni, nell’assemblaggio giuridico e politico che costituisce le sue fondamenta, vi è la presenza di un continuo «fuori». È il «fuori» del «dentro», laddove l’assenza di garanzie giuridiche rende possibile forme di sfruttamento che si
nutrono di bassi salari e, in tempi di crisi, passano proprio per la formazione e la produzione di capitale umano. Dalle fabbriche che assemblano le merci destinate a
mezzo mondo fino alle recenti riforme del sistema hukou, la formazione sembra essere così l’anello che lega
accesso al welfare, forme di vita metropolitane e sfruttamento della fabbrica. Non solo è un dispositivo con cui
si tenta di costituire un bacino di manodopera docile ed
economica, ma è allo stesso tempo il differenziale con
cui filtrare l’accesso alle forme della cittadinanza metropolitana. La formazione è un dispositivo biopolitico
che si espande con l’università di massa e che allo stesso tempo gerarchizza la forza lavoro, laddove processo
educativo e mercato del lavoro sembrano essere l’uno il
rovescio dell’altro tra continue espansioni, produzione
di nuove identità, zone grigie e limiti. Da superare.
Uno stage val bene la laurea
Istituti di ricerca, università, college e centri di specializzazione, junior college, scuole avanzate professionali, formazione per adulti, istituti tecnici di training,
master e business school: queste sono solo alcune tipologie di corsi e istituzioni, tra loro molto differenti, che in
questi anni hanno moltiplicato gli accessi alla formazione in Cina. Questo paese sta infatti vivendo, come
tutta l’Asia del resto, un vero e proprio incremento dell’offerta nella cosiddetta higher education49. Ma rispetto
49. Riporta un recente studio Unesco del 2003: «In Cina, l’espansione
101
alla massificazione dell’università vissuta dalla maggior parte dei paesi Ocse, dove tale processo è avvenuto
all’interno del contesto specifico di espansione del welfare state e delle garanzie sociali tra gli anni Sessanta e
Settanta, questa nuova ondata si presenta con caratteristiche originali. Ci troviamo di fronte a un processo di
«espansione non lineare» della formazione, caratterizzata da un’accentuata trasversalità e moltiplicazione degli stessi istituti, dove le scuole professionali di Shanghai fanno il paio con la «education for profit» del settore finanziario di Hong Kong. Le università pubbliche,
semi pubbliche o private, in franchising per studenti
full-time, part-time, che studiano per corrispondenza o
a distanza, ci descrivono un vero e proprio zoo della formazione per differenze e peculiarità.
A partire da una profonda ristrutturazione del sistema avviata nel 1999, questi ultimi dieci anni sono stati
carichi di rapide riforme che, accompagnate da altrettanti rapidi e violenti conflitti studenteschi, hanno ridisegnato il volto del mondo della formazione. Se le tigri
asiatiche rispondono alla crisi finanziaria del 1997 ribaltando il loro deficit, trasformandosi da paesi debitori
a creditori sulla scena internazionale e indirizzando le
proprie economie verso l’export, la crisi in Cina è invece
dell’educazione terziaria nel settore pubblico è stata caratterizzata dal
raddoppio del numero degli studenti iscritti passati dai 6,4 milioni ai
15,1 milioni dal 1998 al 2002, mentre in India il numero degli iscritti è
passato dai 6,2 milioni del 1992-1993 ai 9,3 milioni del 1999-2000, in
Kazakhstan tra il 1995 e il 2001 si è passati dai 272.700 ai circa 442.400,
e in Bangladesh dagli 801.733 ai 962.567 tra il 1998 e il 2001. In Cina il
numero dei nuovi iscritti è aumentato del 135,2% tra il 1998 e il 2002.
Anche in paesi con un sistema educativo sviluppato, l’aumento degli
iscritti è stato impressionante. Per esempio, il numero totale degli studenti nella Repubblica di Corea è passato dai 2.950.826 ai 3.500.560 tra
il 1998 e il 2001, mentre in Australia nello stesso periodo si è passati dai
671.253 ai 726.418».
102
vissuta come un momento decisivo nel quale ampliare
la formazione e incrementare il numero dei propri studenti in chiave anti-crisi.
Questa espansione ha di fatto gettato le basi per ridefinire la relazione tra processi di esclusione e inclusione sociale laddove, con l’aumento del numero di
iscritti e laureati, sembra scomparire il classico spazio
dell’esclusione sociale basata sull’educazione: dire questo non significa affermare che sia sparita. Tutt’altro: la
razionalità del governo, nella gestione del lavoro vivo,
ha cambiato la ratio del proprio funzionamento. Se un
tempo le forme di gestione della popolazione passavano attraverso un «fuori» e un «dentro», tra chi veniva
ammesso nelle università e chi ne veniva escluso, tra inclusione ed esclusione, oggi queste stesse forme hanno
cambiato volto: ne permangono i confini, ma in un
nuovo disegno complessivo.
Il college di Shenga è un’istituzione superiore nata
negli anni Novanta su spinta del governo. Centinaia di
istituti come questo sono spuntati in pochi anni per
ospitare coloro che, pur non avendo passato positivamente il difficile esame di ammissione all’università, il
famoso gaokao, volevano continuare gli studi. Per poter
nascere, tali scuole dovevano necessariamente trovare
un istituto madre ufficialmente riconosciuto, ovvero
un’università pubblica, per la supervisione della qualità
del lavoro e dell’offerta formativa. Tuttavia, i nuovi college usavano questo legame unicamente per farsi pubblicità attraveso il prestigioso nome dell’università madre cui erano affiliati. Questo perché il valore del sapere
oggi è sempre meno connesso alla qualità e sempre più
legato a coloro che lo producono o lo acquistano nel
mercato del lavoro.
Gli iscritti a questi college, in assenza di una normativa precisa, pagavano tasse da capogiro con la promes103
sa di un diploma firmato dall’università a cui il loro anonimo istituto era affiliato. Le tasse erano cinque volte
superiori rispetto a un’università pubblica: questo era il
costo del prestigioso diploma per chi non aveva potuto
accedere all’università. L’influente e salato brand era la
credenziale giusta per competere sul mercato del lavoro, oltre che un ottimo strumento di mobilità sociale:
questa era la convinzione di chi si iscriveva in questi
istituti. Il nome dell’università, oggi, sembra infatti essere ciò che conta di più nella formazione e nel lavoro.
Ma qualche tempo fa gli stessi studenti iscritti al
Shenda College hanno protestato occupando aule e corridoi, costringendo lo stesso direttore, sequestrato nel
suo ufficio, a dimettersi. Tutto è nato quando gli studenti hanno scoperto che il loro istituto era stato obbligato,
da una nuova normativa nazionale, a utilizzare sui certificati il proprio «anonimo» nome e non quello della rinomata università di Zhengzhou. «Abbiamo pagato per
una Mercedes-Benz e guidiamo una Polo»50, si lamentava uno studente che occupava l’ufficio del rettore. Questo caso, di certo non isolato tra il 2006 e il 2008, è stato
accompagnato da molti eventi simili e da proteste studentesche, alcune anche molto violente come nella città
di Dalian, dove circa tremila studenti hanno incendiato le
strutture dell’East Soft Information Campus e si sono duramente confrontati con la polizia. E tutto ciò dopo aver
scoperto che le alte tasse pagate non garantivano più un
brand prestigioso alla loro laurea, diventata nel giro di
una notte «titolo spazzatura».
Per cercare di frenare queste proteste e regolamentare il crescente numero di iscritti ai college, la risposta
del governo è stata quella di potenziare la formazione
50. J. Kahn, Rioting in China over Label on College Diplomas, «New York
Times», 22 giugno 2006.
104
professionale, così da diversificare e ridurre il peso di
questi istituti nel mercato della formazione e il numero
dei loro iscritti, per la maggior parte figli di migranti.
L’attuale esplosione dell’educazione professionale,
fatta di stage e tirocini, è nata in un contesto ricco di tensioni e aspettative di giovani migranti. Questi fatti ci dovrebbero raccontare che siamo di fronte non tanto alla
scomparsa dell’esclusione, ma al suo opposto: una moltiplicazione degli stessi confini tra università, college e
adesso scuole professionali dove la classica divisione tra
inclusione ed esclusione si ridefinisce tutta internamente. L’espansione della formazione superiore inaugura così nuovi processi interni di differenziazione che coincidono, sempre più, con la governance del mercato del lavoro,
dove lo strumento del sapere viene esercitato per controllare, dividere e gerarchizzare la stessa forza lavoro.
La nuova centralità delle scuole professionali ha a sua
volta influenzato, e non poco, la «nobile» formazione
universitaria, alimentando un fitto dibattito da quando il
preside del dipartimento di giornalismo dell’università
Sichuan ha proposto di trasformare la scrittura della tesi,
necessaria per ottenere la laurea, in un vero e proprio apprendistato. La notizia ha suscitato scalpore, se non altro
perché questo istituto è una delle più prestigiose università del paese, direttamente legata al ministero dell’Educazione: una sorta di laboratorio del Partito dove nulla
succede o avviene per caso. Secondo l’università Sichuan
gli atenei dovrebbero offrire training pratici e professionali, trasformandosi di fatto in agenti istituzionali del
mercato del lavoro, in grado di fornire quella duttilità e
competenze direttamente spendibili per l’occupazione
giovanile e l’inserimento lavorativo. Ad assegnare la prestigiosa qualifica di «dottore», quindi, non sarà più la
consegna di un approfondito lavoro di ricerca: uno stage
val bene la laurea! Sarà infatti la valutazione del lavoro da
105
stagista a conferire, in periodo di crisi economica e disoccupazione intellettuale, la tanto desiderata laurea.
Nice work if you can get it!
Hong Kong, una città-Stato di poco meno di dieci
milioni di abitanti, è un luogo dove la compresenza del
potere finanziario e di quello del plusvalore della manifattura sembra vivida, dove si respira la capacità di far
coesistere tra loro lo spirito di città molto diverse come
Shanghai e Guangzhou. Crocevia e porta di ingresso
per i numerosi capitali stranieri diretti in Cina, passaggio obbligato per la forza migrante che dal sud est del
Pacifico si muove verso il nord dell’Asia, è una metropoli dove si ha l’impressione che tutti pensino unicamente alla rendita e ai profitti realizzabili facendo
transitare merci o capitali sui mercati di mezzo mondo.
L’economia di questa ex colonia britannica (che dal
1997 fa formalmente parte della Cina, seppur con uno
statuto speciale), profondamente integrata nei circuiti
globali, è stata quella che in Asia ha maggiormente sofferto lo tsunami finanziario scoppiato nel 2008. Il suo
tasso di disoccupazione ha toccato lo scorso anno quota
28,7%: il peggiore dato dalla crisi seguita all’epidemia
SARS che ha colpito la regione nel recente passato. La
situazione per i giovani laureati, con un’età compresa
tra i 20 e 24 anni, è stata quella tra le più critiche, con
una percentuale a due cifre dei senza lavoro e ben al di
sopra della media.
Il signor Donald Tsang, Chief Executive di Hong
Kong, ha annunciato una serie di misure rivolte a fronteggiare i selvaggi licenziamenti e a dimezzare, in tempi brevi, gli alti tassi di disoccupazione. Anzitutto, il governo ha lanciato un’aggressiva «campagna morale» per
106
modificare l’attitudine dei giovani e la loro indolenza nel
vivere il lavoro e la disoccupazione. Le parole di Rain Lau
Wing-heun, di professione assistente sociale incaricato
di aiutare i giovani di Hong Kong a trovare lavoro, non
potrebbero essere più chiare: «Bisogna invertire la rotta
e responsabilizzare i giovani. Se non si ha un lavoro la
colpa non è della crisi, ma di chi è disoccupato»51, così ha
più o meno tuonato sulle pagine del quotidiano «China
Daily». Sempre nelle sue parole: «Molti di questi giovani
disoccupati si rifiutano di accettare un salario mensile
inferiore ai seimila dollari di Hong Kong (HKD), [circa
cinquecento euro]. Ma data la loro scarsa qualifica accademica e inesperienza lavorativa, il mercato può offrire
solo dai quattromila ai seimila HKD». Secondo Rain
Lau, il problema della disoccupazione è aggravato dalle
«degradanti» abitudini delle famiglie che supportano finanziariamente questi nullafacenti. L’intervista pubblicata a questo rispettabile esponente del servizio civile,
non è in realtà nient’altro che un attacco alla distribuzione familista del welfare.
Fatto l’elogio a un giovane ingegnere fresco di laurea,
che è riuscito a ottenere un lavoro dopo «solo» una trentina di tentativi, Rain Lau ha rincarato la dose, affermando che non sono di certo questi i tempi per chiedere un
alto stipendio. I giovani cinesi senza esperienza pratica
dovrebbero avere, sempre nelle sue parole, «una visione
un po’ più ampia, in vista della loro futura carriera».
Per trovare lavoro e contribuire in questo modo a
migliorare il quadro di una situazione economicamente difficile, il governo di Hong Kong ha inoltre varato un
massiccio piano per incrementare le possibilità di fare
stage e tirocini. Considerati a tutti gli effetti nuovi posti
51. P. Chan, Job picture poses risk of conditioning youth to unemployment,
«China Daily», edizione di Hong Kong, 13 ottobre 2009,
107
di lavoro, sono generosamente finanziati con sovvenzioni pubbliche alle imprese private e con la garanzia di
uno stipendio minimo per lo stagista di turno, che riceve un massimo di quattromila HKD mensili52. Molti di
questi stage sono svolti tramite contratti stipulati con
compagnie cinesi della zona continentale della Cina,
dove vengono spediti i giovani neolaureati. Sembra un
paradosso per Hong Kong: se per anni ha sfruttato il lavoro a basso costo della Cina53, adesso è lei a trasformarsi in un bacino di mano d’opera economica, seppur
qualificata.
Da un lato i nuovi stagisti guadagnano un po’ di più
grazie all’aumento del potere di acquisto fornito dal
cambio del dollaro di Hong Kong (valuta con cui sono
pagati i loro rimborsi) in yuan, la moneta cinese. Dall’altro lato, benché formalmente non vi sia alcuna restrizione per loro a ritornare ad Hong Kong durante il periodo
dello stage, questa possibilità gli viene di fatto impedita
con «ogni mezzo burocratico necessario», dato che questa mobilità consumerebbe tutta, o gran parte, della loro
già ridotta paga mensile.
Le forme di sfruttamento come lo stage – vero e proprio lavoro non retribuito e mascherato come formazione professionale sul luogo di lavoro – si stanno generalizzando anche in Asia, laddove la retorica della life long
52. Il primo impiego ha di solito una retribuzione media che si aggira attorno ai dieci, dodicimila HKD, e che la soglia di povertà in questa cittàStato si attesta sui quattromila HKD.
53. A partire dagli anni Ottanta, il confine «interno» che divide Hong
Kong dalla Cina, ha di fatto trasformato la regione del Guangdong nel distretto produttivo della città-Stato. Hong Kong ha usato la frontiera interna per spostare ingenti quantità di capitali pronti a sfruttare una manodopera disposta a lavorare in condizioni massacranti. Si calcola che delle
circa 100.000 fabbriche presenti attualmente nella regione del Pearl River Delta, quasi 70.000 di esse sono di imprenditori provenienti da
Hong Kong.
108
learning si rivela essere nient’altro che una prestazione
di lavoro per la maggior parte delle volte gratuita. Da
questo punto di vista, la crisi globale in corso segna un
vero e proprio spartiacque nella gestione della forza lavoro di questa regione, che da sola raccoglie oltre la metà
dell’intera forza lavoro mondiale. Lo stage, una vera novità per l’ex colonia britannica, è stato introdotto proprio
attraverso la crisi globale dei subprime, con l’intenzione
di moltiplicare le opportunità di lavoro e migliorare le
statistiche sulla disoccupazione. Il funzionamento del
capitale globale si lega così alla moltiplicazione e disseminazione di inediti regimi di lavoro in aree geografiche
tra loro profondamente eterogenee, che la crisi attuale
contribuisce a connettere. Non si tratta tanto di «importare o esportare un modello» occidentale in un nuovo
contesto, come quello dell’Asia. Quello che in realtà stiamo osservando ci racconta piuttosto l’emergere di un’inedita forma di governance, comando e regolazione della
forza lavoro che si va affermando su scala globale.
La logistica della dequalifica
Un’ indagine dell’accademia delle Scienze sociali di
Beijing del febbraio 2010 stimava come oltre il 30% degli studenti laureati in ingegneria non troverà lavoro il
prossimo anno. Allo stesso tempo, le fabbriche dedicate all’export, così come il settore dell’edilizia, non riescono a trovare un numero adeguato di forza lavoro generica. Siamo immersi in un mercato del lavoro incapace di occupare manodopera qualificata e allo stesso
tempo in preda a una vera e propria carenza di forza lavoro generica.
Qualche tempo fa gli organizzatori della fiera di giochi on line della regione del Pacifico, la Game Convention Asia, hanno avuto una brillante idea per incrementa109
re la presenza di visitatori. Includere, tra joystick e giochi
di ruolo sempre più sofisticati, la possibilità per i visitatori di trovarsi un lavoro proprio visitando gli stand di questa fiera commerciale. La grande attrazione dell’ottava
edizione di questo evento non è stata la presentazione di
giochi attesi, né di playstation pronte a entrare nelle case
di milioni di impazienti giocatori. La novità è stata la possibilità di cercare un lavoro come grafico, designer o tecnico qualificato offerto da una delle tante case produttrici
presenti con i loro prodotti. Per sottolineare quanto questa idea sia stata azzeccata, basta accennare al fatto che,
con questo escamotage, gli organizzatori hanno quasi
raddoppiato il numero dei visitatori paganti rispetto agli
anni passati. Trasformare una fiera come la Game Convention Asia in un vero e proprio talent market non è certo un gioco, come non lo è, di questi tempi, trovarsi un lavoro nella «fabbrica del mondo».
Dopo «il grande balzo in avanti» voluto da Mao Zedong alla fine degli anni Cinquanta e «la rivoluzione del
mercato» a opera di Deng Xiaoping negli anni Ottanta, la
Società dell’armonia si trova oggi di fronte a milioni di
disoccupati con medio e alto skill: una vera ondata di disoccupazione intellettuale. I nuovi colletti bianchi soffrono di un’ampia, quanto inedita, mancanza d’impiego54, i cui numeri sono tuttavia generosamente falsati,
dato che nelle statistiche ufficiali si considerano lavori
anche stage e tirocini molto spesso non pagati. Se osserviamo il mercato del lavoro delle aree metropolitane delle medie/grandi città come Beijing, Shanghai o Guangz54. Solo nel 2010 oltre 6,3 milioni di laureati sono entrati nel mercato del
lavoro; di questi, la previsione è che almeno la metà resti disoccupata. Secondo uno studio dell’Accademia delle Scienze Sociali di Beijing, la percentuale dei laureati che trova lavoro entro un anno dalla laurea è relativamente elevata, ma per molti di loro il lavoro corrisponde solo in parte o
per niente alle proprie aspettative o saperi studiati.
110
hou, secondo i dati disponibili è possibile notare come
l’occupazione sia effettivamente cresciuta, negli ultimi
sei anni, di circa il 4% annuo, con un incremento nella
domanda di forza lavoro migrante che ha nettamente superato quella dei residenti urbani (il 5,1% contro il
3,3%)55. Tuttavia il tasso di disoccupazione per i neolaureati nelle stesse città è quasi raddoppiato, passando dal
6,3% del 2000 all’11,9% nel 2005, a fronte di una media
nazionale del 4,9%. Davanti a questi dati, sono molti gli
economisti che si sorprendono di come i nuovi laureati
non abbiano, ancora, modificato e rivisto le proprie
aspettative per riequilibrare la mancata corrispondenza
tra le speranze individuali e la realtà dell’offerta di lavoro.
Si tratta di un problema complesso che riguarda tanto la mobilità sociale del paese quanto la considerazione
della stessa educazione da parte della generazione attuale e di quelle future, che evidenzia l’emersione di
una nuova tipologia di migranti: una generazione educata, decisamente più metropolitana che rurale, sceglie,
seppur senza lavoro, di rimanere nelle grandi città dove
si è trasferita a studiare, piuttosto che ritornare nelle
campagne. Tale mismatching si intreccia a una difficile
corrispondenza «spaziale», dove la geografia di posti di
lavoro disponibili stride con le affollate metropoli, sedi
non solo delle più prestigiose università, ma altresì luoghi dove i giovani vogliono vivere.
È a partire da questa difficile situazione che bisogna
leggere le politiche sul lavoro, inaugurate dal governo
centrale alla fine del 2009. Entrate in vigore per cercare
di risolvere una situazione forse destinata a peggiorare,
queste misure in realtà non consistono altro se non nello spedire migliaia di neolaureati nelle campagne e nei
55. L. Brandt, College Educations, Needed and Desired, «New York Time»,
25 marzo 2010.
111
luoghi più remoti del paese. Una nuova, quanto inedita,
sent down generation, che ricorda rumorosamente gli anni Cinquanta della Rivoluzione culturale quando, sotto
Mao, migliaia, se non milioni, di giovani con un’educazione superiore sono stati costretti, volenti o nolenti, a
lasciare le aree urbane per trasferirsi nelle campagne (da
qui il termine sent-down). «Le campagne sono una vasta
distesa del cielo e della terra dove possiamo prosperare»
proclamava Mao nel 1955, costringendo i neolaureati a
partecipare al lavoro agricolo e a coltivare la terra. Se un
tempo tale politica era servita per esiliare di fatto le anime troppo critiche del Partito a cui si prescriveva la povertà contadina, oggi i neolaureati diventano cun guan,
ovvero una specie di assistenti locali agli ufficiali di villaggio, il cui compito è quello di occuparsi del buon funzionamento dell’amministrazione e della macchina burocratica di fronte ai molteplici problemi della vita contadina nella campagne. Con un salario mensile che non
supera i tremila yuan al mese, meno di trecento euro,
dopo tre anni di servizio prestato nelle zone più remote
del continente, il premio consiste nel diritto al ritorno
in città acquisendo il permesso permanente di residenza dove si sono trascorsi gli anni di studio. Da punizione a sistema di occupazione per i nuovi laureati, da esilio politico a strategia di impiego: questa nuova sent
down generation ci descrive bene il fenomeno di quando
le speranze mancano il proprio compimento e diventano un’illusione.
Fare lavori in zone geografiche povere e considerate non adeguate allo stile di vita che si ricerca, impiegare il proprio tempo in occupazioni umili e non corrispondenti al proprio skill è la versione cinese di un
problema che sta investendo pesantemente anche l’Italia. Questa «logista della dequalifica» è la ricetta cinese, interamente giocata sulla mobilità, alla scarsa
112
possibilità occupazionale per un certo tipo di figure lavorative, ovvero quelle più qualificate e rimanda a una
compressione di quella composizione tecnica del lavoro che fa della conoscenza il proprio strumento. L’elemento interessante è che questi processi di dequalifica
della forza lavoro si dimostrano essere una peculiarità
di cui soffrono anche le economie a capitalismo avanzato come Italia o Francia, dove le ricerche su questo
tipo di problematiche sono approfondite. Tale fenomeno sembra in realtà intrinseco al funzionamento del
capitalismo cognitivo e presente anche nella transizione di paesi come la Cina, dove le fondamenta della sua
economia si orientano sempre più verso la valorizzazione intensiva delle conoscenze.
«Non ho speso i risparmi dei miei genitori per buttare la mia educazione indossando un stupida uniforme ai cancelli di una fabbrica» ha confessato Wang, un
neolaureato in ingegneria e disoccupato, rifiutando un
lavoro come addetto alla sicurezza in una fabbrica per
circa cento euro al mese56. L’incapacità di un paese ad
accogliere la domanda di lavoro qualificato, le accuse a
un sistema formativo considerato incapace di sviluppare quelle competenze richieste dal mercato del lavoro,
fanno il paio con la retorica anti-intellettualistica troppe
volte sentita anche nel nostro paese. «Dovete abituarvi a
fare lavori umili, manuali e non desiderati. Soprattutto
non corrispondenti alla vostra laurea»: memorabili le
parole pronunciate da Sacconi, ministro delle Politiche
sociali della Repubblica italiana, durante una conferenza stampa del 2009.
Parole rivolte ai giovani… forse cinesi?
56. M. Liu, M. Vlaskamp, Smart, Young, and broke. With collar workers are
China’s newest underclass, «Business Week », 28 giugno 2010.
113
La tribù delle formiche
«Vattene per il bene della tua comunità!», «Più comunicazione e cooperazione, meno resistenza!», e ancora: «Più veloce ci si muove, più veloce si trovano nuove opportunità!». Sono solo alcune delle frasi che ho ricopiato dagli striscioni rossi appesi praticamente
ovunque nel villaggio di Tangjianling, a circa venti chilometri da piazza Tienanmen a Beijing. Una vera e propria giungla di vicoli stretti e polverosi porta in questo
slum metropolitano dove macerie, fango, furgoni carichi di mobili in attesa di partire sono parcheggiati a
ogni angolo nel caldo afoso di un pomeriggio di luglio.
«Grazie alle imprese straniere che hanno voluto investire nella modernizzazione di questa zona», si legge su un altro striscione attaccato in un’ampia distesa
di macerie, dove alcuni lavoratori stanno recuperando
mattoni, ferro e legno, resti di quella che, fino a poco
tempo prima, era forse una casa o un ostello della gioventù. Fa un certo effetto vedere il simbolo chai, dell’imminente abbattimento, disegnato su molti edifici
da poco abbandonati, sullo stipite dell’ingresso di negozi e ristoranti ancora aperti, sebbene semivuoti, così come sulle case ancora abitate. Sembra di camminare in
una città fantasma mentre nelle strade campeggiano
ancora i cartelli che pubblicizzano l’affitto di piccole
stanze a buon mercato.
Tangjianling, che in pochi anni è passato da 3000 a
oltre 70.000 abitanti, è circondato dalla distruzione come da un cappio al collo, dopo che il Partito ha deciso di
demolirlo interamente assorbendolo nel nuovo piano di
urbanizzazione di questa zona, a due passi dal parco tecnologico ZPark che ospita aziende come Siemens, Baidu, IBM e Lenovo. Ci troviamo infatti nel nord della
Zhongguancun, la cosiddetta «Silicon Valley di Beijing»
114
che il governo della città ha deciso, nel dicembre 2009,
di rinnovare con un nuovo piano urbano. Se nello spazio
oggi occupato dalle poche case ancora rimaste in piedi
sorgerà un nuovo parco tecnologico o altro, poco importa. Ciò che conta è che gli oltre 50.000 abitanti sono stati costretti ad andarsene. Un fatto abbastanza comune,
se non fosse che questa volta la maggioranza degli abitanti è composto da neolaureati, per la maggior parte
senza lavoro fisso nei vari uffici di Zhongguancun.
Sono la «tribù delle formiche», ovvero giovani colletti
bianchi che hanno lasciato le zone rurali per trasferirsi a
lavorare a Beijing, seppur senza hukou. Vivono insieme
proprio come formiche, per risparmiare sulla spesa dell’affitto di stanze piccole e talvolta senza finestre, ma con
connessione internet super veloce. Beijing ospita circa
sette «colonie» di questo tipo: veri e propri slum metropolitani stipati di giovani che passano il loro tempo tra lavoretti temporanei, job fair e interviste di lavoro. Sono oltre tre milioni le formiche come loro in Cina che, nonostante l’università, non riescono a superare i 1500 yuan
al mese, circa 150 euro. Sembra, anzi, che spesso siano
addirittura troppo qualificati per i lavori disponibili che
trovano e l’ansia di lavorare li porta a fare stage, magari
gratuiti. Questo è il risultato di un «esperimento sociale
di massa», come l’ha definito provocatoriamente il quotidiano «Asia Times».
Lian Si, docente di economia della prestigiosa università Peking University, nel 2009 ha pubblicato un
libro di inchiesta sulle condizioni di vita di questi giovani intitolato proprio «La tribù delle formiche» (yizu
in mandarino): seicento interviste frutto di due anni di
lavoro a Tangjianling. Dalla ricerca emerge che oltre il
60% dei nuovi neolaureati proviene dalle zone rurali
dell’Impero celeste e molti di questi, vero orgoglio e
speranza delle famiglie povere delle campagne, hanno
115
deciso di non tornare a casa ma di rimanere in città,
seppur senza alcuna registrazione. In un paese dove
l’università ha ancora un significativo carico di aspettative legate alla mobilità sociale, è duro scoprirsi poveri
seppur con una laurea in mano, a volte più poveri dei
propri fratelli che hanno deciso di non studiare ma di
lavorare in fabbrica. Così, le attese di questa generazione di nuovi laureati, tutti per la maggior parte lavoratori con contratti a tempo determinato, hanno un riscontro duro nella realtà. Il disincanto e il crollo delle aspettative si riversano nella vita collettiva di villaggi come
questi, dove si sopravvive assieme perché meno costoso. Il disincanto rompe la solitudine dell’individualismo forgiato dalla politica del figlio unico, produce la
necessità della cooperazione e della condivisione per
vivere nelle metropoli.
Nel 1999 il Partito comunista ha lanciato un ambizioso piano per aumentare le iscrizioni universitarie di
quasi il 30% annuo. Il forte investimento pubblico nel
settore della formazione superiore è stato il primo passo per trasformare un’economia basata quasi esclusivamente sull’export e sullo sfruttamento intensivo verso
il nuovo protagonismo di una forza lavoro intellettuale:
premessa necessaria per un’economia basata sulla conoscenza. Il numero degli studenti iscritti all’università
ha così raggiunto l’impressionante cifra di venti milioni nel solo 2008, mentre nel 2009 le università hanno
sfornato oltre sei milioni di nuovi laureati57. Una situazione al limite dell’esplosivo, laddove tra questi nuovi
laureati la crescente disoccupazione intellettuale è tenuta a bada a colpi di patriottismo, povertà e offerta di
57. Rispetto agli anni precedenti il numero degli iscritti ai corsi universitari nel 2008 è aumentato del 165%, mentre quello degli studenti all’estero è salito di oltre il 150% secondo il ministero della Educazione.
116
stage. In assenza di efficaci misure volte a rendere sopportabile una vita fatta di aspettative mancate, il Partito
non solo ha fatto dei tirocini il dispositivo per correre ai
ripari obbligando al lavoro i nuovi laureati, ma ha ordinato di radere al suolo il villaggio di Tangjianling. Forse
era troppa la paura che questa concentrazione di giovani, disillusi e troppo formati, potesse condividere le rispettive esperienze di vita: un’aggregazione che potrebbe esplodere con la rabbia e l’indignazione che solo un
movimento di massa possiede.
Per ora a difesa di Tangjianling c’è solo il folto gruppo dei proprietari che vogliono alzare il prezzo prima
di abbattere la propria casa. La tribù delle formiche,
ben consapevole che su questa terra non ha alcun diritto, se ne sta semplicemente andando, chi un po’ più
lontano dal centro, chi in altre città dove la vita costa
meno. Dopotutto in Cina l’economia si fonda sulle migrazioni interne. Ma la sfida che si gioca oggi a Tangjianling, come nelle altre «colonie» disperse nelle nuove metropoli, è trasformare quest’attitudine e potente
arma rappresentata dalla fuga nella capacità di inventare una «Comune» del nuovo millennio, mentre si abbandona uno slum di Beijing.
Lost generation era il titolo che la rivista statunitense
«Business Week» ha dato nell’ottobre del 2009 alla sua
prima pagina, in cui si discuteva del mercato del lavoro
anglosassone. La crisi globale ha di fatto reso diffusi
molti aspetti di un’intera generazione, laddove avere
una laurea non è più garanzia di mobilità e la «tribù» è
diventata una moltitudine.
In trappola. Riding Foxconn’s «suicide express»?
Un cappuccino a uno Starbuck costa 25 yuan, circa la
metà della paga giornaliera di un normale colletto blu
117
impiegato in fabbrica o del ragazzo che mi sta servendo
il caffè appena ordinato. È un adolescente, sui diciotto o
vent’anni, dai lineamenti molto delicati che quasi scompaiono sotto la pesante montatura degli occhiali che indossa. È questa la moda nelle metropoli: gli adolescenti
portano pesanti occhiali ma, qui sta l’interesse, senza
lente alcuna. Nuda montatura senza lenti: è forse il gusto ironico, e un po’ sbarazzino, dell’età adolescenziale?
Indossare un paio di occhiali che servono per vedere, svuotandolo completamente del suo significato togliendone le lenti, decostruendo così la sua funzione e
utilità, può essere un comportamento ben più complesso di una semplice questione estetica. Può celare
un significato più profondo, espressione di un desiderio di ribellione: può voler dire infatti «non voler vedere», rifiutarsi di vedere ciò che ci circonda. Una forma
di rifiuto che mescola l’estetica della vita metropolitana con il lavoro a tempo determinato come commesso
in una catena commerciale a Shenzhen.
Questa città ospita oggi oltre dieci milioni di persone. Di queste solo il 30% circa ha lo status di residente
permanente, il resto è classificato come residente temporaneo, vale a dire escluso da ogni servizio pubblico
che la città offre e costretto a vivere nei dormitori di fabbrica. Quello che viene chiamato «dormitory labour regime»58 esercita di fatto il controllo non solo sul tempo
di lavoro, ma anche su quello di non lavoro degli operai
stessi. In questo particolare regime, la spaziale integrazione tra tempo di lavoro e di non lavoro è stretta e annodata dalle imprese che controllano, in questo modo,
l’intera vita dei lavoratori.
58. N. Pun, The making of a global dormitory labour regime: labour NGOs
and workers empowerment in South China, Working Paper, Hong Kong
University of Science and Technonogy, 2007.
118
Ed è forse un gesto di rifiuto estremo per questo modo di vita e di lavoro quello compiuto da alcuni lavoratori
della multinazionale Foxconn, che si sono suicidati gettandosi proprio dai tetti dei loro dormitori nella fabbrica
di Shenzhen. Dall’inizio del 2010 sono oltre dodici i ragazzi che hanno tentato di togliersi la vita. Nove di loro ci
sono riusciti, gli altri sono sopravvissuti seppur paralizzati. Tutti lavoratori migranti con un’età compresa tra i
18 e i 25 anni, erano lavoratori della catena di montaggio
della Foxconn, fabbrica di precisione taiwanese tra i
maggiori fornitori di elettronica al mondo. Con un fatturato di oltre 550 milioni di dollari nel primo trimestre
2010, impiega oltre 800.000 lavoratori in tutto il mondo, per la maggior parte in Cina. Il campus Longhua
Science and Technology, di cui stiamo parlando, impiega circa 300.000 lavoratori, per il 90% migranti.
Rencai shi Hon Hai de pinpai: «La qualità della Foxconn è il talento dei suoi lavoratori» è l’efficace messaggio usato dall’azienda per reclutare forza lavoro. Questa
multinazionale, dove vige la disciplina militare sul lavoro, è tuttavia considerata una delle migliori fabbriche
dove poter lavorare nel Guangdong dal punto di vista
igienico e sanitario, nonché per il salario. In effetti lo
stipendio base è, seppur di poco, superiore al minimo
legale di questa città. Se alla catena di montaggio, dove
si assemblano gli Ipad e gli Iphone per la Apple, lavora
l’elite della forza lavoro migrante, come si spiega che
proprio qui siano avvenuti ben dodici suicidi? Perché
questi eventi tragici proprio dove le condizioni di lavoro, seppur terribili, sono migliori che altrove?
Il management di fabbrica ha inizialmente chiamato psicologi e preti taoisti59, per poi cercare di risolvere
59. www.globalproject.info/it/mondi/La-proletarizzazione-incompiuta/5454
119
un problema affrontato in principio come se fosse una
questione di fengshui, ovvero di psicologia soggettiva. La
lettura esclusivamente psicologica di questa drammatica situazione, che poggia sulla debolezza umana o su
casi di stress personale, in realtà non ha fatto nient’altro
che scaricare i rischi e le responsabilità del management sulle singole persone60. L’eccessivo, se non esclusivo, peso rivolto a questa spiegazione non restituisce
affatto la ricchezza sociale delle contraddizioni e dei
conflitti propri della società.
I lavoratori migranti sono infatti carichi di aspettative che li portano a lasciare la campagna e a trasferirsi a
Shenzhen per lavorare. Come si può leggere in un appello a sostegno dei lavoratori: «Da quando la nuova generazione di migranti lascia casa, nessuno di loro penserà più nemmeno una volta a tornare in campagna come i loro genitori. Proprio per questo non vedono altra
alternativa, se non rimanere in città a lavorare. Ma nel
momento in cui percepiscono che, con il loro duro lavoro, è praticamente impossibile farsi una vita decente in
città, tutte le loro certezze crollano»61.
Ma indietro non si torna. Se la strada davanti è bloccata, quella per tornare indietro è sbarrata. In trappola, la
nuova generazione di migranti vive una vera e propria
crisi. Solo addentrandoci in questo profondo livello pos60. Intervista a J.P. Le-Goffe, Stress et harcelement. Sortir de la psychologie,
«Cadres-CFDT», n. 428, marzo 2008.
61. L’appello originale, scritto il 19 maggio 2010, Concerns about new generations of peasant-workers (guanzhu xinshengdai nongmingong) lo potete trovare pubblicato su Sina Tech: http://t.sina.com.cn/ 1743939945. I
primi nove firmatari sono: Shen Yuan (Tsinghua University), Guo Yuhua (Tsinghua University), Lu Huilin (Peking University), Pun Ngai
(Hong Kong Polytechnic University), Dai Jianzhong (Beijing Academy
of Social Sciences), Tan Shen (China Academy of Social Sciences), Shen
Hong (China Academy of Social Sciences), Ren Yan (Zhongshan University), e Zhang Duifu (Shanghai University).
120
siamo provare a comprendere il dramma dei lavoratori
alla Foxconn. Questa condizione sembra, tra le alte cose,
avere un’eco in quello che accade alla France Telecom,
un’azienda tra le più importanti in Francia, anch’essa
scossa da una vera e propria ondata di suicidi tra i suoi
manager e dipendenti. In Europa questi tragici gesti
sembrano mostrare la disperazione e l’impossibilità di
fuggire, la mancanza di alternative possibili per una fascia di lavoratori di mezza età, incapaci di reinventare la
propria carriera, che vivono l’impossibilità della fuga
con la crisi del welfare state. Proprio una sensazione di
immobilità sembra essere alla base di questi tragici fatti,
tanto alla Foxconn quanto alla Telecom France, laddove
la percezione di essere in trappola è ciò che accomuna lavoratori che abitano non solo luoghi differenti come Cina ed Europa, ma anche temporalità tra loro differenti: il
post-fordismo e la catena di montaggio, la soggettività
messa in produzione e il lavoro muto, ripetitivo.
La risposta del direttore Chilh Yu Yang della Foxconn, per arginare una situazione destinata a peggiorare, ha promesso per ottobre 2010 un aumento degli stipendi a tutti i dipendenti del campus, prima della sua
chiusura. Questo colosso ha infatti annunciato l’abbandono progressivo del modello «città fabbrica», ovvero
un modello dove la fabbrica – vale anche per il campus
universitario – ospita al proprio interno non solo gli impianti della catena di montaggio, i vari laboratori e i magazzini, ma anche i dormitori e le strutture ricreative
per gli operai che, di fatto, vivono e lavorano al suo interno. Quest’ampia ristrutturazione verrà compiuta
smembrando il parco industriale e vendendo i dormitori alla città di Shenzhen, per poi affittarli in un secondo
tempo. Ci troviamo di fronte a una sorta di delocalizzazione in situ, dalla città-fabbrica si passa a un divenire
fabbrica della città stessa.
121
A questa originale esternalizzazione, che di fatto trasformerà il campus di Shenzhen in un laboratorio di ricerca sulle tecnologie con poco meno di 150.000 lavoratori, tutti tecnici, seguirà un trasferimento: la Foxconn
ha confermato che sposterà la produzione del Guangdong nel nuovo impianto che la multinazionale sta insediando nel vicino Hunan, forte di un contratto con la regione che ha messo a disposizione oltre cento differenti
scuole professionali in grado di riempire la fabbrica di
studenti, pardon, lavoratori. Ma è lo stesso.
La produzione di auto e le fabbriche Honda
del Guangdong
Le immagini dei picchetti, girate con i telefonini dagli stessi operai, hanno fatto il giro della rete: è stata
questa diffusione molecolare ed estensiva ciò che ha
permesso alle lotte di circolare, di combinarsi tra loro,
amplificando la portata della protesta e della loro capacità offensiva. A luglio 2010, la notizia dell’aumento del
salario ottenuto alla Honda ha moltiplicato queste rivendicazioni: perfino alle porte di Beijing si sono organizzati scioperi ispirati a quelli della Honda.
Inoltre, è grazie a queste lotte che si è profondamente
trasformato il significato pubblico dei tragici e disperati
gesti suicidi alla Foxconn: il suicidio si è rovesciato in un
atto di rifiuto e protesta, la fengshui in una questione di relazioni industriali. Gli scioperi vincenti ai vari stabilimenti Honda del Guangdong nell’estate 2010 hanno rivelato una strana composizione operaia. Coloro che si sono scontrati con i sindacati, che hanno fatto perdere
milioni di yuan ai padroni bloccando l’intero circuito della produzione auto del Guangdong, sono in gran parte
stagisti provenienti dalle scuole professionali regionali.
Molti di loro si conoscevano già prima di condivide122
re la catena di montaggio, erano compagni di classe e il
comune background scolastico ha facilitato non poco
l’organizzazione dello sciopero: il legame preesistente
è infatti diventato un potente fattore di organizzazione
politica. Insieme ai dormitori, luoghi della vita condivisa nonché di organizzazione, i fatti alla Honda ci dimostrano come la scuola stia assumendo lo stesso ruolo.
Gli studenti lavorano nella fabbrica Honda a tempo
pieno per ottenere… il proprio diploma! Aspiranti tecnici di neanche vent’anni «studiano» letteralmente in fabbrica e garantiscono il basso costo della manodopera.
Durante i giorni di protesta, molti di loro sono stati minacciati: da un lato i delegati sindacali hanno provato a
disincentivare i nuovi ribelli, dall’altro le intimidazione
provenivano dai loro stessi professori, che agitavano lo
spauracchio della bocciatura.
La produzione automobilistica in Cina non solo è connessa alla ricerca sulle energie rinnovabili, ma è un settore che occupa sempre più forza lavoro con alto e medio
skill, tecnici professionali, manodopera di «alta qualità»,
gao suzhi. Se quindi da un lato la formazione viene usata
per abbassare il costo del lavoro, allo stesso tempo questo
rivela una produzione che poggia su una manodopera
non più generica, ma sempre più specializzata.
Qualche tempo fa, la studiosa americana Beverly Silver ha analizzato come negli anni Ottanta lo spostamento della fabbricazione delle auto verso il Sud America sia
stato accompagnato dal nascere di una nuova classe operaia che, tra le altre cose, ha dato vita alle importanti sigle
sindacali brasiliane di oggi. Bisogna aggiungere a quelle
analisi che «il ciclo lungo del prodotto» comporta una
modificazione non solo della produzione, ma anche della stessa composizione della sua forza lavoro.
Così, in questo upgrade della fabbrica del mondo gli
studenti si combinano alla classica figura del lavoratore
123
migrante, modificandone profondamente le attitudini e
i comportamenti. Questi scioperi ne sono stati un chiaro
esempio: rivendicazioni fino all’80% in più di salario,
un’ottima ed efficiente organizzazione tanto dei picchetti che della contrattazione (molto differente dalle caotiche proteste degli ultimi anni), richiesta di rappresentanze sindacali autonome sono solo alcune delle caratteristiche di questa originale soggettività in trasformazione.
La Honda non ha fatto eccezioni: il 100% delle iniziative di sciopero viene dalla proposta autonoma dei lavoratori piuttosto che dalle loro organizzazioni sindacali.
Alla Honda Lock di Zhongshan, il presidente del sindacato è anche il vicedirettore della fabbrica mentre gli altri sindacalisti sono per la maggior parte ex-manager in
pensione. Forme di sindacalismo indipendente sono
vietate, poiché tutti devono confluire nella ACFTU (AllChina Federation of Trade Unions) che raccoglie le sigle organizzative di tutti i settori produttivi. Le organizzazioni ufficiali sono più che altro una mediazione tra il
corpo dei lavoratori e il management, non propriamente un’organizzazione di parte, e quando lo sono, stanno
dalla parte dei padroni. Ma alla Honda questa situazione è stata respinta: la vittoria ha infatti affermato un
movimento di lavoratori autorganizzati che ha costretto
il management aziendale a contrattare direttamente
con gli scioperanti e che, contro i delegati sindacali,
hanno chiesto di eleggere proprie rappresentanze autonome per negoziare l’aumento del salario. Tuttavia, resta da vedere quale tipo di spazi apriranno queste lotte,
laddove una nuova generazione di operai sta scoprendo
l’urgenza e la possibilità di autonomia nell’organizzazione collettiva nei luoghi di lavoro.
La Cina non è solo la fabbrica del mondo, ma è oggi
il nuovo epicentro delle lotte sul salario. Come questo
trasformerà i conflitti sul lavoro a livello globale? Nel
124
Regno di Mezzo ogni trasformazione quantitativa è anche qualitativa, e i conflitti fra capitale globale e mondo
del lavoro porterà forse a un nuovo dispositivo politico e
sociale delle lotte. Un percorso e un possibile evento necessariamente di dimensioni globali.
Arricchirsi è glorioso
«Domani ricordatevi tutti di portare l’ombrello», si
legge in uno dei messaggi chat su QQ in un appiccicoso
giovedì sera di Guangzhou. Giugno è il mese delle piogge nel sud della Cina, e domani è previsto un picchetto
ai cancelli della Honda a Foshan per fare pressione e attendere una risposta dal management. Di fronte alla richiesta di un aumento dell’80% dello stipendio per stagisti e lavoratori regolari, la direzione si è presa tempo
per pensare e ancora non ha risposto.
Grazie alle proteste, parole come sciopero e aumenti di
salario sono sulla bocca di tutti e si sentono pronunciare
ovunque nella capitale del Guandong: «Ti hanno già dato un aumento?»; «Quelli della Pacific Trade lo hanno
ottenuto». Bevendo un caffè in un centro commerciale
sento due ragazzi, decisamente diversi dai colletti blu
delle zone industriali, che parlano proprio di questo.
A rendere ancora più gravosa la mancanza di forza lavoro ci ha pensato un’ondata di scioperi che rivendica fino al 40, al 50 o addirittura l’80% in più del salario. Già,
perché non è una generica forza lavoro che scarseggia,
ma quella disposta a lavorare per pochi yuan. Queste lotte, scoppiate con un’intensità e frequenza singolare in
molti comparti della manifattura, in meno di un anno
hanno ottenuto un aumento medio della paga di circa il
20%, senza contare quello del salario minimo legale di
molte regioni, che era bloccato da oltre due anni.
Gli scioperi a gatto selvaggio e i picchetti ai cancelli
125
delle fabbriche sembrano la risposta operaia a una sorta
di stato d’eccezione nelle relazioni industriali che, durante la crisi del 2008-2010, ha permesso ai padroni di
licenziare in massa.
Alla fabbrica Denso di Foshan hanno bloccato per tre
giorni la produzione delle iniezioni auto destinate a Honda, Toyota e Volkswagen, mentre altri impianti avevano
già chiuso per la mancanza di pezzi da assemblare. Le
centinaia di ragazzi che hanno incrociato le braccia volevano impedire ai tir e ai loro rimorchi, pieni di pronte
consegne, di uscire dai cancelli. Un intero indotto, regolato sull’orologio del just in time, ovvero senza magazzini e i relativi costi di stoccaggio merci, si trova così a
dover contrattare con una generazione di lavoratori
completamente indifferente alle minacce di licenziamento e che vogliono solo una cosa: più soldi. L’organizzazione decisamente più collettiva di queste lotte, rispetto a qualche anno fa, rende forse questi giovani più
sicuri di se stessi e più determinati.
Seppur senza una precisa forma di solidarietà tra i diversi scioperi, le azioni collettive si muovono formando
un «effetto onda» che ha coinvolto tanto le industrie private che quelle pubbliche, connettendo settori produttivi
tra loro eterogenei come la manifattura e i servizi62. Cercano tutti di scioperare nello stesso momento, con le
medesime parole d’ordine, per creare delle condizioni a
loro favorevoli. Infatti, la minaccia di sostituire i lavoratori che si ostinano a scioperare si scontra con la mancanza di forza lavoro e i padroni, incapaci di trovare nuovi giovani disposti a entrare in fabbrica alle loro condizioni, non riescono a reclutare altri se non figuranti,
62. Una contrattazione con il colosso del fast food KFC ha ottenuto un discreto aumento del salario per tutti i suoi impiegati a partire da ottobre
2010.
126
letteralmente attori pagati a giornata. È ciò che è successo quando, sotto la pressione degli operai che hanno incrociato le braccia reclamando un aumento, il management di una fabbrica che produceva materie plastiche vicino a Shenzhen ha pensato di assumere un centinaio di
comparse e metterle tutte in fila, ben visibili, ad aspettare all’ufficio reclutamento alle sei e mezza del mattino.
La messa in scena delle contrattazioni per gli aumenti vede protagonisti la nuova generazione di migranti, descritta da alcuni media come i nuovi «pionieri» dello sciopero. «Molti di loro conoscono il diritto del
lavoro meglio di noi», si sono sfogati alcuni preoccupati manager sulla pagine del «Business Week». E forse è
proprio così, visto che questi lavoratori seguono le lezioni che ogni domenica i centri per il lavoro migrante
organizzano per loro. Questi corsi di formazione, offerti da Ong più o meno clandestine, sono molto diversi da
quelli dei datori di lavoro. Questi ultimi, volti all’automiglioramento o a come risparmiare i pochi soldi della
busta paga, formano in realtà a un individualismo che
nulla ha a che fare con la capacità di migliorare il proprio peso contrattuale sul lavoro.
L’autoformazione dei lavoratori nel Guangdong ha
inoltre nuovi alleati: gli universitari. Molti di coloro che
frequentano le prestigiose università di Beijing sono
cresciuti assieme, fianco a fianco nelle campagne, a coloro che oggi bloccano la catena di montaggio. Si sono
così organizzati gruppi di studenti che, anche con l’aiuto di professori, cercano di fornire supporto e aiuto agli
scioperanti: quel legame che è la comune provenienza
dalle campagne, luogo in cui si esternalizza il costo di
riproduzione della forza lavoro migrante, viene così
messo a valore nei processi di lotta, laddove il massimo
della discriminazione e dello sfruttamento viene ribaltato in strumento di organizzazione politica.
127
Se la prima generazione di migranti non scioperava
e lavorava in condizioni decisamente peggiori di quelle
attuali, invece i loro figli, che stanno decisamente meglio, oltre a scioperare, frequentano scuole professionali e hanno aspettative decisamente più alte rispetto alla
generazione precedente.
«Arricchirsi è glorioso!»: questa frase è forse una delle più famose di quelle pronunciate da Deng Xiaoping.
Rivolta contro quelle lotte divampate mentre le sue riforme travolgevano il settore delle industrie di Stato, facendone chiudere molte (perché non competitive sul mercato), questa frase è oggi sulla bocca degli operai in lotta.
Infatti, il motto sembra essere diventato la parola d’ordine di una forza lavoro che, praticando conflitti e sostenendo originali rapporti di forza, vuole aumenti salariali. Nei picchetti, nei serrati faccia a faccia con i padroni,
contro i dirigenti dei sindacati ufficiali si intravede una
nuova, formidabile, opportunità per le lotte: è la tempesta che viene dal sud in cui bisogna addentrarsi.
Che mille conflitti sboccino!
Ciò che accomuna le lotte sotto l’Impero celeste è
forse la loro frequenza e partecipazione, che le rende vere e proprie proteste «di massa». Se fino a poco tempo
fa questo termine indicava l’ideologia dell’esercito di liberazione popolare e lo sviluppo socialista, oggi la retorica della Repubblica popolare cinese sta profondamente cambiando questo aggettivo facendogli assumere
sempre più una connotazione negativa. Questo perché,
malgrado il Partito, negli ultimi tempi la parola massa è,
inevitabilmente, sempre più associata a conflitti, incidenti e rivolte molto partecipate. Se per Mao Zedong la
«massa» indicava il vero eroe della rivoluzione, oggi viene esplicitamente usata per demonizzare e screditare le
128
lotte, per sottolineare l’ignoranza e la meschinità di chi
si rivolta, per invocare il pericolo e giustificare la repressione. Segno, questo, non tanto dei tempi che cambiano, ma del fatto che la Società dell’armonia, nei suoi rapidi mutamenti, è attraversata da forti tensioni sociali e
aspri conflitti.
Schematicamente possiamo riassumere questi
eventi in tre categorie.
Anzitutto, le resistenze contro le forme di espropriazione statale che coinvolgono le aree urbane e il territorio della Cina in generale. Gli ultimi anni, in particolare, hanno visto il loro aumento significativo dovuto a un
piano economico anti-crisi che ha fatto crescere i casi di
confische e sequestri di terreni da parte dello Stato in
nome del progresso. Lì dove passerà una nuova linea
ferroviaria, dove il Partito ha deciso che dovrà nascere
una centrale elettrica o crescere un centro commerciale, gli abitanti sono costretti a fare spazio alla «modernità» che avanza. Il progetto gargantuesco della diga «Le
tre gole» ha investito migliaia di cittadini costringendoli a lasciare le terre e i villaggi che ora giacciono sul fondo della chiusa più grande al mondo. Stessa sorte per gli
abitanti degli hutong, i classici villaggi di Beijing, che,
investiti dai processi di gentrification, hanno dovuto abbandonare le loro tradizionali abitazioni smantellate in
vista delle olimpiadi nel 2008.
Eventi come questi, e come molti altri, seppur abbiano prodotto importanti resistenze, possono avere comunque esiti imprevedibili. Tali espropri, perpetuati ai
danni di cittadini e gente comune, generano conflitti
che, potenzialmente esplosivi, rischiano di portare a un
risultato che potremmo dire spurio, ambiguo: sembra
che tali lotte, su pressione dello Stato, non siano in grado
di sedimentare stabili forme di solidarietà collettiva tra
gli espropriati. La comune difesa di zone che devono es129
sere abbandonate e rimpiazzate con nuove case, uffici o
centri commerciali, si traduce in un’inedita conquista di
diritti che, tuttavia, rompe ogni possibile progettualità
collettiva. «Comunismo» permettendo, queste lotte sociali sono l’affermazione di una proprietà privata63, poiché di fronte alle ruspe e agli espropri ci si scopre essere
detentori di una proprietà da rivendicare di fronte al Partito e alle autorità locali.
Di più, per convincere molti proprietari, il governo
non si limita a garantire una nuova abitazione in cui trasferirsi. Davanti alla loro testardaggine e alla dura contrattazione, il compenso dello Stato arriva fino all’assegnazione di nuove proprietà: due o tre appartamenti da
affittare come risarcimento. Anziché la terra, saranno
così le nuove abitazioni da far fruttare ciò di cui vivranno gli ex-contadini trasformati da ribelli in rentier, figura quest’ultima emblematica del boom edilizio che sta
vivendo il Regno di Mezzo.
Nella seconda categoria introduciamo i movimenti
contro l’inquinamento ambientale che spesso si trasformano in vere e proprie contestazioni politiche contro le amministrazioni locali, la corruzione nel Partito e
lo sfruttamento delle multinazionali. Rappresentano
ormai una costante forma di mobilitazione nelle zone
più densamente industrializzate, dove assenza di controlli, sfruttamento brutale e selvaggio del territorio ai
danni della popolazione residente sono le caratteristiche della fabbrica del mondo. Nel Pearl River Delta, una
zona non solo tra le più densamente popolate ma anche
tra le più produttive dell’Asia, l’emergenza ambientale è
63. Nel marzo 2007, l’Assemblea Nazionale del Popolo ha riconosciuto
per la prima volta la proprietà privata, che lo Stato si impegna a difendere
e affermare. La proprietà diventa quindi un diritto «legittimo protetto
dallo Stato».
130
orientata tanto a ricercare modelli di sostenibilità urbana
che a sostenere le esigenze dello sviluppo industriale.
Proprio in questa regione migliaia di residenti si sono ritrovati sotto il palazzo del governo locale a Guangzhou
per protestare contro la costruzione di nuovi inceneritori
previsti a qualche metro dal centro abitato. Di fronte ai
dimostranti che hanno sfidato le autorità e il divieto di
manifestare, i rappresentati locali si sono affrettati a proferire rassicurazioni affermando che gli inceneritori saranno più che sicuri, perché interamente realizzati con
le più avanzate tecnologie europee (sic!). Un vero e proprio pezzo di Europa in Cina, chiamato inceneritore.
Queste proteste, che richiamano davvero l’Europa di
Chiaiano e Terzigno in Campania, insieme al coraggio di
tanti che mettono in gioco la propria vita contro l’ennesimo disastro ambientale annunciato, sono il volto della
crescente capacità di legare tra loro sostenibilità ecologica, rispetto ambientale ed esercizio del potere sui territori che si vivono.
Infine, è nel mondo del lavoro che si danno gli eventi
più importanti: lo sciopero. Il diritto di sciopero fu revocato dal Partito nel 1982, pochi anni dopo l’inizio delle
riforme socialiste del mercato volute da Deng Xiaoping.
Da allora scioperare è considerato illegale, anche se lo
statuto dello scioperante rimane tutt’oggi una zona grigia della giurisprudenza: né illegale né legale. Eppure, è
un evento sempre più comune nelle fabbriche e nella vita degli operai: blocco del traffico, blocco selvaggio degli
impianti, sabotaggio, manifestazioni di migliaia di lavoratori sull’autostrada, sui ponti o lungo le linee ferroviarie sono pratiche sempre più comuni, laddove il protagonismo sindacale è pressoché inesistente e le forme di
autorganizzazione sembrano prendere piede.
Se osserviamo il presente nel suo complesso, consi131
derando anche quello che sta avvenendo in questo paese, è facile accorgersi che di fatto le lotte sul lavoro si sono globalmente intensificate negli ultimi anni come risultato della crisi economica in corso. Una visione del
tutto diversa da quella che si ricava guardando l’Europa,
dove la difficile situazione economica sembra aver messo in crisi, seppur con le dovute eccezioni, anche la capacità di reazione dei movimenti e della loro iniziativa
di produrre conflitto.
Durante le mie ricerche mi sono maggiormente concentrato nella zona del Pearl River Delta, muovendomi
tra Hong Kong e la regione del Guangdong: ovvero dove
si sono svolte alcune delle lotte più interessanti non solo
a livello quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Negli
scioperi che hanno coinvolto le fabbriche Honda e nei
suicidi alla Foxconn nel 2010, fatti su cui ho raccolto diversi materiali e interviste, possiamo tracciare una sorta
di discontinuità per livelli organizzativi e composizione
operaia. Ovviamente questi eventi non sono un fulmine
a ciel sereno: è dall’ingresso della Cina nel Wto che possiamo osservare un vera e propria esplosione delle proteste legate al mondo del lavoro. Le lotte scoppiate nel
2010 seguono immediatamente quelle nel settore pubblico del 2008-2009, quando alcuni operai sono arrivati ad assassinare il loro direttore dopo averlo tenuto diverse ore in ostaggio, protestando contro la privatizzazione dell’impresa siderurgica dove lavoravano.
In termini generali, possiamo dividere il movimento operaio cinese in due segmenti. Da un lato, i nuovi
lavoratori, migranti che provengono dalle campagne e
che raggiungono le città per partecipare al settore privato della produzione capitalista: questa è la componente che oggi agita le lotte principali. Dall’altro, il settore importante riguarda la forza lavoro delle imprese
di Stato. Negli ultimi anni questi lavoratori hanno or132
ganizzato scioperi davvero impressionanti, soprattutto
contro la privatizzazione del settore pubblico e rappresentano il segmento operaio più politicizzato, perché
diretto contro le privatizzazioni e mosso dal desiderio
di ritornare al passato o dalla sfida di pensare a forme
di socialismo del nuovo millennio. È proprio la combinazione di queste lotte, ovvero tra il settore pubblico e
privato, ciò che caratterizza questa ondata di scioperi
cui stiamo assistendo. Animati dalla nuova generazione dei colletti blu, oggi questi conflitti si moltiplicano
proprio dove la composizione tecnica del lavoro muta,
dove l’operaio generico lascia il posto a quello più qualificato. La catena di montaggio comincia a richiedere
forza lavoro con determinate qualifiche e skill tecnico
mentre lo stagista entra in fabbrica. Questa nuova composizione ci rimanda ai «colletti bianchi» che, in Cina,
si affermano come i nuovi poveri delle metropoli.
Come si legheranno i sogni infranti di questa forza
lavoro urbana con la capacità organizzativa mostrata da
chi sciopera in fabbrica? Quello che ci si può aspettare da
qui ai prossimi anni è la nascita di un nuovo attivismo
sul lavoro e inedite forme di organizzazione. Ciò che abbiamo di fronte è solo l’inizio: occorre continuare a fare
inchiesta per scoprire i molteplici risvolti del nuovo volto delle lotte sul lavoro. Che mille conflitti sboccino!
133
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Indice
Le molte Asia dell’inchiesta
9
La crisi vista dalla Cina
Assemblaggi I. Il continente Cina
L’ingresso nel Wto e il socialismo di mercato
Nel nuovo disordine mondiale
Do you speak putonghua?
I pirati contro l’impero
La fragile superpotenza
Vivere in gabbia
23
28
31
36
39
42
47
Economia della conoscenza
Assemblaggi II.
Oltre la classica divisione internazionale del lavoro
Made in China 2.0
Sfida all’eccellenza
Shanzhai
La rivoluzione verde
Gli atout della Energy Technology
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56
60
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65
68
Il mercato del lavoro e la migrazione interna
Liudong renkou. La popolazione fluttuante
Attacco al cuore dell’Europa
La nuova generazione di mingong
Il diritto a rimanere
I nuovi cacciatori di teste
Inchiesta: la formazione, gli stage, le lotte sul lavoro
Il cristallo della formazione
Uno stage val bene la laurea
Nice work if you can get it!
La logistica della dequalifica
La tribù delle formiche
In trappola. Riding Foxconn’s «suicide express»?
La produzione di auto e le fabbriche Honda
del Guangdong
Arricchirsi è glorioso
Che mille conflitti sboccino!
Bibliografia
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finito di stampare nel mese di novembre 2010
presso la tipografia Graffiti – Pavona (Roma)
per conto delle edizioni DeriveApprodi