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La Differenza che fa la differenza. Analisi dei processi culturali

La Differenza che fa la differenza. Analisi dei processi culturali. 1. Come si vede la cultura? Come un gioco di magia, la cultura c’è ma il più delle volte non si vede. O meglio, la cultura non ha una sede e un indirizzo, un profilo e un confine che può essere tracciato. Non è possibile nemmeno rintracciare una formula o una composizione che ci permetta di individuarne gli elementi costitutivi. Non che manchino i tentativi, alcuni dei quali molto sofisticati ed elaborati, per fissare la cultura. Ma questa, in definitiva, è un oggetto di studio che continua a dimostrare che la scienza non prova mai nulla ma che si conosce soltanto per differenza. Ogni informazione, per utilizzare una famosa espressione di Bateson è: “una differenza che fa la differenza”. Si conosce sempre a partire da una distinzione (la differenza è sempre relativa all’osservatore) e la conoscenza produce una distinzione che diventa operativa e quindi produce una differenza. La prima domanda è quindi: “cos’è la cultura?”. In realtà, come un riflesso incondizionato, quest’ultima domanda perde di interesse man mano che dalle astrazioni si passa all’empiria. Tra i risultati che ha avuto l’aumento di interesse per lo studio e l’osservazione della cultura che ha caratterizzato la seconda metà del novecento e i primi anni del secolo in corso, va sicuramente registrato 1) l’estensione dello spazio e dei fenomeni considerati “culturali” e 2) la propensione a trattare la cultura come una materia manipolabile, a cui si può dare e che può assumere forme differenti. In altri termini, i cultural studies, le kulturwissenschaften e in generale il cosiddetto Cultural Turn, hanno allargato l’ambito della cultura fino a renderlo potenzialmente onnicomprensivo: l’interesse per il quotidiano e l’ordinario, per la cultura popolare e per il consumo come attività produttiva, per le presunte sottoculture e le culture subalterne, ecc. ha rotto i confini che collegavano la cultura a specifici contesti sociali di produzione di pratiche, prodotti, valori e orientamenti culturali. Questi si sono invece moltiplicati e mescolati, dando origine ad una fitta rete di implicazioni che rischia di far confondere la mappa con il territorio. In definitiva, il Cultural Turn, criticando il concetto di Cultura e affermando l'attenzione per le culture e i processi che riguardano tutto il vivere quotidiano, ha riportato al centro della vita sociale proprio la Cultura, rendendola un aggettivo oltre che un sostantivo o permettendole di accompagnarsi ad altri termini che ne declinano e precisano l’accezione e l’uso. Si può così parlare di una cultura capitalista e di quella mafiosa, si può praticare un turismo culturale, informandosi sulle pagine culturali dei giornali e magari attingendo a prodotti dell’industria culturale; la scuola è diventata multiculturale e pertanto ha bisogno di mediatori culturali. Nel frattempo, però, la cultura si dichiara in crisi per mancanza di fondi, spazi e attenzione, e ogni volta che chiude un teatro, un museo o un festival rinuncia ad organizzare una nuova edizione si parla della morte della cultura. L’aumentata esposizione della cultura produce un’opacità e uno spiazzamento che ho riscontrato nei tanti studenti incontrati a lezione. La domanda: “Come si vede la cultura?” deriva non tanto da una mancanza di sensibilità o di categorie analitiche disponibili, ma al contrario dalla loro abbondanza e contraddittorietà. Chiedersi: “come si vede la cultura?” e non “cosa è la cultura” significa allora occuparsi dei processi e delle dinamiche che permettono di elaborare e riconoscere qualcosa come “culturale”, piuttosto che individuare e separare diverse identità culturali stabili e riproducibili. In altri termini, si tratta di uscire dalla visione essenzialista che ha caratterizzato gran parte della ricerca sociale del secolo scorso. “L’essenzialismo presenta i comportamenti individuali delle persone come interamente definiti e vincolati dalle culture nelle quali essi vivono in modo tale che gli stereotipi diventino l’essenza di ciò essi sono” [Holliday 2011, p. 4] Questa visione è trasversale a tanti studi che partono da presupposti apparentemente differenti ma ha trovato la sua piena affermazione in quegli approcci che presentano la cultura come un programma che determina le azioni dei singoli che in questo modo si aderiscono a gruppi sociali. La mia obiezione nei confronti di questi approcci non è tanto nel contenuto. D’altronde, le diverse teorie sulla cultura contribuiscono tutte, in diversa misura, ad elaborare degli orientamenti culturali che producono i loro effetti sulla società (la differenza che fa la differenza). L’obiezione è di tipo epistemologico e metodologico: gli approcci essenzialisti vanno a cercare quanto già presuppongono esista nel mondo “reale” e in questo senso reificano differenze che sono frutto di interpretazioni e costruzioni di senso. Così, per fare un esempio tra i tanti possibili, si ritiene si possano comparare in modo preciso le differenti culture nazionali intese come sistemi sociali completi ed auto-sufficienti (ibid.). Anche molti degli studi che rifiutano l’approccio essenzialista, in realtà rimangono neoessenzialisti perché ne conservano alcuni elementi fondamentali, tra tutti l’utilizzo delle “culture nazionali” come elemento di base della definzione delle differenze culturali. Il legame tra identità nazionale e identità culturale è alla base delle prospettive neo-essenzialiste per almeno due ragioni: da una parte, 1) ci si concentra sull’individuazione di un’identità che subordina l’azione individuale alle prospettive di una collettività (non solo definita su base etnica ma anche sulla professione, sulla coorte d’età, sulle appartenenze famigliari, ecc.). Dall’altra parte, 2) la cultura nazionale ricopre un ruolo centrale e i relativi stereotipi diventano centrali. In questo senso, la preoccupazione per le culture nazionali corrisponde ad un nazionalismo metodologico (Bhabha, 1994; Crane, 1994; Delanty, 2006; Grande, 2006; Tomilnson, 1991) che ha dominato le scienze sociali del XIX secolo e imposto un’immagine semplificata dell’organizzazione del mondo (globalizzazione). Questo approccio: “ci ha reso insensibili al processo multidimensionale di cambiamento” che è tutt’ora in corso (Beck and Sznaider, 2006: 2). In generale, è possibile individuare due approcci che hanno alimentato il confronto tra coloro che da una parte fanno riferimento alla cultura come: 1) ad un sistema di simboli e relativi significati, autonomo anche se interdipendente [es. T. Parsons, 1951] o come essenza ed entità omogenea, stabile e fortemente differenziata da tutte le altre [es. M. Mead, 1964 e R. Benedict]. Nel tempo si è però affermato un approccio per certi versi opposto e complementare che osserva le culture come: 2) degli “ibridi instabili” [Boas, 1940] che seguono dinamiche descrivibili attraverso la “metafora dei flussi” [Hannerz, 1998] sempre più globali e pluridirezionali. Entrambi gli approcci, che non esauriscono certo gli orientamenti allo studio della cultura, hanno dei meriti e forniscono spunti importanti e non trascurabili. La ricerca delle caratteristiche di omogeneità (condivisione dei significati), coerenza (integrazione tra i significati) e chiusura (di una cultura rispetto alle altre) permette di orientarsi nella ricerca di quell’ordine che, attraverso un’opera di selezione della complessità del mondo, cerca di organizzare un sistema di significati. D’altro canto, l’attenzione ai processi di ibridazione culturale pone l’accento sull’articolazione dinamica tra globalizzazione e localismi [Robertson, 1995] e mette in rilievo l’importanza della dimensione operativa della cultura, ovvero la necessità di osservare la cultura nel suo prodursi mediante pratiche, interazioni, scambi, scontri, ecc. Infine, la domanda “come si vede la cultura?” suggerisce una tendenza a considerare l’aspetto poietico della cultura. La visione essenzialista che ha dominato e continua a dominare gli studi mainstream sulla cultura, si collega ad un’idea di cultura intesa come prodotto o testo. E’ in questa maniera, si sostiene da una prospettiva essenzialista, che si manifesta la cultura: testi, comportamenti e prodotti che sono epifenomeni che vanno collegati a strutture profonde, preesistenti. Secondo questa prospettiva la cultura è ciò che ci portiamo dietro e che determina i risultati delle azioni sociali. Cosa succede se ribaltiamo questa prospettiva e cominciamo a pensare alla cultura come un’elaborazione di senso che si produce nell’incontro, nell’interazione, nella relaizone con l’altro? “Come si vede la cultura?” è pertanto una domanda irriverente, perché spinge a guardare come e dove la cultura si forma, nel momento in cui prende forma. Spinge a inoltrarsi nella “microfisica” della cultura nel momento del suo divenire. In generale, è possibile individuare tre modalità per l’osservazione della cultura che coincidono con tre distinti oggetti d’osservazione: le prassi; il testo; l’autopoiesi. A partire dal paradigma della prassi si osservano e analizzano soprattutto le routine sociali come sintomi di implicite formazioni di conoscenza in una cultural data. Rientrano in questo paradigma l’osservazione di rituali, consuetudini, usanze, ma anche le prassi delle organizzazioni e delle istituzioni. Questo paradigma è influenzato dalla fenomenologia ermeneutica soprattutto per quel che riguarda il rapporto tra la soggettività (o intersoggettività) e le pratiche, mentre dallo strutturalismo derivano l’interesse per l’esistenza di strutture di significato tra le soggettività (o inter-soggettività). Il paradigma del testo permette un’analisi dei discorsi, dei processi e delle strutture semiotiche in una data cultura. Si osservano in questa maniera testi, discorsi, media, ecc. Le influenze sono in questo caso raggruppabili sotto l’etichetta del Linguistic Turn inteso in senso da comprendere autori come De Saussure fino a Foucault e Derrida. Il paradigma dell’autopoiesi si concentra sull’analisi della (auto)riproduzione delle operazioni all’interno di un determinato sistema. Questo approccio di stampo costruttivista e derivante dall’esperienza della cibernetica, permette di separare le diverse strutture di significazione (es. sistema psichico da quelli sociali), senza per questo rinunciare ad osservare gli abbinamenti possibili tra queste strutture. 1.1. Il paradosso del pesce. Per non perdersi nel bicchiere d’acqua in cui nuotiamo Ciascuno di noi, inteso come osservatore e soggetto agente, si trova nei confronti della cultura nella stessa, paradossale condizione di un pesce immerso nell’acqua. Come si può osservare qualcosa in cui siamo profondamente immersi? E come si può non affogare in questa paradossale ricerca? Ciascuno di noi, in realtà, è sì nella posizione del pesce ma in una distesa d'acqua ben più grande di quella di un bicchiere dai confini e dalle pareti finite. D'altronde, come sosteneva Heidegger [2006 (1927)], noi non siamo nel mondo come l'acqua nel bicchiere (o la chiave nella toppa). Il nostro abitare il mondo significa "essere abituato", "essere familiare con”, "essere solito". La capacità (e in alcuni casi, l'incapacità) di sentirci "di casa nel mondo" deriva da quell’insieme di attribuzioni di senso che siamo abituati a chiamare cultura. Questo paragrafo si occupa proprio di questo: di acqua stagnante e di flussi impetuosi, e di pesci che cercano di non affogare, ad esempio facendo ricerca. In realtà, buona parte della ricerca tenta di definire il suo campo di azione proprio come se dovesse restringere un oceano in un bicchiere o cercare di alimentare delle correnti. Ognuno di questi tentativi, come è facile immaginare, modifica il campo d’azione e quindi l’oggetto di osservazione. La cultura c’è ma non si vede. O perlomeno non nella sua interezza, nella sua complessità. La domanda di partenza va quindi affrontata in due maniere: facendo attenzione agli ordini dell’osservazione prima, alle forme dell’osservazione poi. Secondo la prospettiva del costruttivismo radicale [Von Foerster 1984, Von Glasersfeld 1988] esistono due ordini di osservazione che permettono di costruire la realtà. L’osservazione del primo ordine è osservazione di “fatti” o “eventi” così come sono nell’illusione di poterli afferrare nella loro realtà intrinseca. L’osservazione del primo ordine afferma che “il mondo è così” e non può essere diversamente. L’osservazione di secondo ordine, invece, fa riferimento ad un’osservazione di primo ordine, distinguendo ed indicando tale osservazione appunto come osservazione (e non come fatto) [Luhmann 1984]. In altri termini, l’osservazione del secondo ordine distingue altre distinzioni e osserva come sono utilizzate queste distinzioni nell’osservazione che viene osservata. L’osservatore di secondo ordine, quindi, non osserva “fatti” o “eventi”, bensì osserva che e come si può osservare, ponendosi il problema delle possibilità e delle alternative nell’osservazione. Sono queste possibilità e alternative che aprono la strada della creatività. Secondo la teoria della conoscenza di stampo costruttivista, l’osservazione è intesa come un’operazione che costruisce i significati del mondo. Potremmo quindi riformulare la domanda-chiave iniziale in questi termini: come si costruisce un processo culturale? Come costruiamo, attraverso le nostre osservazioni, ciò che identifichiamo come cultura? Questa domanda presuppone quindi che sia importante innanzitutto chiedersi quali distinzioni vengano utilizzate per l’analisi, quali siano i modi in cui conduciamo la nostra osservazione prima ancora di chiederci cosa stiamo osservando. Una domanda così formulata ha diverse implicazioni che vedremo già dal prossimo paragrafo. In altri termini, la domanda “come si vede la cultura?” non ci porta tanto ad occuparci del perché certi processi culturali si realizzino o di quali siano le caratteristiche intrinseche e generalizzabili che in questi processi si possono riscontrare. La domanda, comporta invece una riflessione su come possa essere possibile ciò che è altamente improbabile [Gehlen]. In altri termini, come si realizzano ed affermano quelli che osserviamo come processi culturali? 1.2 Complessità La prima implicazione di un’impostazione basata sugli ordini e le forme dell’osservazione è che non si osserva mai la cultura in quanto tale ma sempre le sue manifestazioni evenemenziali. In altri termini, si osservano sempre degli eventi comunicativi, mentre la cultura non si manifesta mai in modo diretto. Un libro, un film, un dipinto, un discorso, ecc. sono eventi comunicativi dotati di una loro puntualità, ovvero di un loro confine spaziotemporale. E’ vero altresì che possiamo leggere un libro in diversi momenti e in diverse situazioni, che un dipinto cambia i suoi significati a seconda delle ricezione e dei gusti del tempo, che un discorso può essere ripreso, contestato, commentato, smentito e integrato ripetutamente. Ogni evento comunicativo rinvia ad altre comunicazioni (passate, presenti e future) ed è proprio in questo insieme di rimandi che si trova ciò che siamo abituati a chiamare “cultura”. L’insieme totale dei rimandi di senso coincide con il mondo, inteso come orizzonte di senso concepibile come possibilità ma non contenibile e afferrabile in uno sguardo [Luhmann]. Il mondo, si configura così come l'infinita molteplicità e complessità del reale. Una delle funzioni attribuite alla cultura, è stata proprio quella di affrontare questa impresa impossibile: contenere il mondo, riducendone la complessità in maniera da orientare le azioni quotidiane dei vari sistemi sociali e di pensiero. La cultura è il pensiero della società [Luhmann], il modo per interpretare il mondo. Si tratta di una lettura in buona parte condivisa da autori molto diversi tra di loro [Husserl, Weber, Gehlen, Luhmann]. Con Parsons si potrebbe sintetizzare dicendo che la cultura prova a conferire un ordine al mondo. E i modi per fare ciò sono tanti e diversi, con il risultato che la Cultura ha perso la maiuscola e ha smesso di essere declinata al singolare, in favore di tante culture che – provando a dare il proprio ordine al mondo – finiscono col creare un gran disordine (e di nuovo ricompare Bateson: “perché tutte le cose finiscono in disordine?” si intitola uno dei suoi più famosi metaloghi). Il problema della riduzione della complessità non è solo un problema teorico ma anche un problema pratico perché ogni sistema è costretto a ridurre la complessità per sopravvivere. Il fatto è che la complessità, per essere affrontata e gestita va ridotta attraverso delle selezioni, le quali però hanno la conseguenza di riprodurre ulteriore complessità e di allargare l’orizzonte di senso del mondo. Quindi, ogni attribuzione di senso che viene effettuata riduce e al contempo rilancia la complessità del mondo. A suo modo, lo sta facendo anche il testo che state leggendo in questo momento: da una parte l’interpretazione qui proposta si basa su una selezione ragionata e logica dei tanti contenuti possibili, dall’altra la selezione permette di creare ulteriori collegamenti, porre dei dubbi e aprire delle critiche, suggerire degli esempi o attivare altri ragionamenti. Questo testo è quindi al contempo una riduzione della complessità e un’apertura di altre possibilità. 1.3 Contingenza La seconda implicazione della domanda posta in apertura di questo capitolo è direttamente collegata con la questione della complessità e può essere sintetizzata in questa maniera: non c’è niente di necessario e ovvio nella produzione dei significati. Uno stesso evento può essere dotato di significati e letture diverse. Questo non significa che ogni interpretazione sia ugualmente capace di sopportare la complessità della catena di eventi che osserva. La contingenza non è, come molti ritengono, una forma di relativismo. Contingenza significa necessità di scelta che non esclude altre scelte possibili. Un dato è contingente quando viene osservato come selezione da un ambito di possibilità diverse, le quali rimangono possibilità nonostante la selezione. [Baraldi, Corsi, Esposito 1996] Ho sostenuto in precedenza che per costruire il senso è necessario selezionare alcune specifiche possibilità tra quelle a disposizione nel mondo, ma questa selezione non è mai definitiva in quanto essa implica sempre la possibilità che si pongano ulteriori nuove possibilità da selezionare. Sta in questo continuo rinnovarsi delle possibilità il senso della contingenza, che significa anche possibilità di essere delusi, di aprirsi ai contrasti con l’altro e di correre dei rischi. Complessità e contingenza si auto-implicano e si auto-generano. Soltanto la contingenza, ovvero la non-necessarietà e al contempo la possibilità delle selezioni operate, rinnova la complessità. E soltanto nella complessità, si può garantire quell’apertura al possibile che è alla base delle scelte contingenti. Tra i tanti esempi che potrebbero essere presentati a sostegno di questo ragionamento, ho scelto di riportare una breve storia emersa durante una lezione in cui, incidentalmente, si parlava dei primi contatti tra i conquistadores e gli indigeni di quella che verrà battezzata in seguito America Latina e di come certe storie siano sempre raccontate dalla parte dei dominatori. Quando proviamo a cambiare prospettiva, non solo scopriamo nuove storie ma anche nuovi significati in quelle vecchie. Come esempio citai “Memoria del fuoco”, un bellissimo libro di E. Galeano [2005] sulla storia dell’America Latina dalla sua “scoperta” ai giorni nostri; un romanzo-saggio composto di storie orali, diari e documenti raccolti e assemblati dall’autore. Per me, questo libro parla di complessità e di contingenza, di distinzioni che guidano la produzione di senso. In una parola di quanto possa essere importante e pericolosa la cultura. Il giorno successivo Alice, una studentessa del secondo anno, si presentò con alcuni estratti di quel libro e lesse un breve episodio intitolato “il sacrilegio”. “Bartolomeo Colombo, fratello e luogotenente di Cristoforo, assiste all'incendio di carne umana. Sei uomini inaugurano il rogo di Haiti. Il fumo fa tossire. I sei stanno bruciando per punizione ed esempio: hanno sepolto sotto terra le immagini di Cristo e della Vergine che fra' Ramón Pane aveva lasciato loro a protezione e conforto. Fra' Ramón aveva insegnato loro a pregare in ginocchio, a dire Avemaria e Paternoster e ad invocare il nome di Gesù di fronte alla tentazione, alla sofferenza e alla morte”. Nessuno ha domandato loro perché avessero sepolto le immagini. Speravano che i nuovi dei rendessero fertili i campi di mais, yuca, patate dolci e fagioli. Il fuoco aggiunge caldo al caldo umido, appiccicoso, presagio di violenta pioggia. (Galeano, 2005: 103) La lettura suscitò diversi commenti e reazioni. Tra la perplessità e la condanna politica, si insinuarono alcune osservazioni analitiche molto interessanti. Questa è una parte di un testo elaborato in aula: “Il rogo degli indigeni è il punto di collisione tra due modi di interpretare il mondo e di utilizzare i suoi simboli, quindi di ridurre la complessità. I sei uomini vengono giustiziati per “punizione” ed “esempio”, quindi per correggere un errore e per educare gli altri a comprendere cos’è giusto e cos’è sbagliato. Nient’altro che un modo per proteggere un aspetto fondamentale della cultura degli spagnoli (l’immagine di Cristo e della Vergine) e il potere di determinare la giustizia. Il frate dona le immagini votive per “protezione” e “conforto”, ma questi sono qualcosa di “culturale”. (...) Per gli indigeni, se le immagini sono potenti come il frate sostiene, potranno proteggere i campi, che sono la ricchezza e la risorsa da preservare. Quindi gli indigeni applicano un loro comportamento culturale ai nuovi simboli portati dagli spagnoli. Riducono la complessità a loro modo. Spagnoli e indigeni sono chiusi entrambi nel loro modo di costruire un mondo, non mettono in discussione i loro repertori e riproducono una coerenza interna. Soltanto che i primi sentenziano e uccidono, i secondi vengono condannati e uccisi. E questa è comunque una differenza che fa la differenza”. Non credo ci sia bisogno di aggiungere ulteriori commenti a questo testo che, nella sua brevità, ha il merito di essere chiaro, lucido ed esauriente. Al contrario, questa riflessione analitica permette ulteriori considerazioni ed approfondimenti. Barnett Pearce descrive la coerenza come il modo attraverso il quale ciascun partner cerca di dare significato alla sequenza di messaggi che si realizza nella comunicazione alla quale partecipa. Questi significati sono racchiusi in storie che devono risultare coerenti, ovvero che non si pongono il problema di entrare in contatto con i repertori, le risorse, le storie degli altri attori sociali. In questa maniera, la complessità viene ridotta drasticamente da scelte contingenti che ignorano possibili altre interpretazioni, altre idee del bene e del giusto. Come si vedrà in seguito, l’inserimento del dubbio (nei termini di Pearce il “mistero” [ib.]) che le proprie storie non siano uniche e sufficienti a spiegare il mondo, diventerà un elemento imprescindibile per fare fronte alle ripetute delusioni e ai frequenti fallimenti della comunicazione tra soggetti portatori di storie diverse. In definitiva, la tremenda punizione che i conquistadores infliggono agli indigeni testimonia il fallimento della coerenza culturale, intesa qui nei termini di indottrinamento e catechizzazione degli indigeni. La contingenza rende quindi evidente che un dato può essere anche diverso. Nelle dimensione sociale, la contingenza si manifesta in modo doppio [Parsons] ovvero attraverso un duplice orizzonte di prospettive, il mio e quello del mio interlocutore. Quello che si osserva in questo caso è innanzitutto l’esistenza di una differenza, secondariamente si possono osservare le prospettive altrui. Pertanto, al primato della coerenza, siamo sempre nel quadro teorico di B. Pearce, si affianca l’esigenza del coordinamento, ovvero la convinzione che ogni rapporto sociale si fondi sulla ricerca di un significato co-costruito nella comunicazione [ib.]. La condivisione di una cultura ha proprio la funzione di rendere più probabile il coordinamento nella contingenza, formulando aspettative più o meno stabili. Infine, il testo ha una chiosa sagace che introduce un ulteriore elemento che sarà ripreso in seguito: la definizione dei significati costruiti socialmente e le conseguenze che questi hanno presuppongono inevitabilmente dei rapporti di potere. La coerenza dei conquistadores giustifica una violenza imposta con la logica del dominio. La cultura non è necessariamente l’ambito del bello e di ciò che è edificante. Chiede Mirco 27 settembre 2012 13:39 In che senso, la contingenza significa anche "possibilità di essere delusi, di aprirsi ai contrasti con l'altro e di correre dei rischi"? Un dato è contingente quando lo si osserva come selezione da un ambito di possibilità diverse, le quali rimangono possibili nonostante la selezione. I sistemi che si basano sulla costituzione del senso (sistemi sociali e psichici) si basano quindi sulla selettività e le loro operazioni sono solo "possibilità". Questa condizione presuppone che le selezioni non corrispondano necessariamente alle aspettative. Si apre quindi un problema 1) di coordinamento e 2) di trasmissione della selettività. Chiede Lorenzo 28 settembre 2012 07:38 A proposito della complessità dei fenomeni culturali e della vastità quasi angosciante del tema "Cultura", mi sorge spontaneo un parallelo con il racconto "Il libro di sabbia" pubblicato nel 1975 da Jorge L. Borges nell'omonima raccolta. Un registro quasi colloquiale anima le pagine di un racconto inquietante e paradossale, contemporaneamente semplice e complesso, lineare e visionario. La ricerca di nuovo sapere come unica meta dell'essere umano, la gioia ed il tormento per una conoscenza infinita. In effetti, tutta l’opera di Jorge Louis Borges è orientata dal fascino per alcune metafore della complessità rappresentate dall’idea di infinito, dalla figura del labirinto e da quella dello specchio. Questi diventano tre elementi formali che Borges usa per parlare della complessità del mondo e dell’insensata pretesa di contenerla. Nel suo racconto più celebre, L’Aleph, Borges inserisce proprio questi temi con un’attenzione specifica alla dimensione temporale. Borges osserva e ammira la complessità e i suoi paradossi, cercando di sfuggire alle operazioni di selezione, di aggirarle, di eluderle. Questa è un’impresa, forse, possibile nella finzione letteraria ma non nella vita di tutti i giorni. La pretesa di osservare il “tutto” è propria della cultura che consente di farlo attraverso delle selezioni e delle tipizzazioni del senso. A questo proposito, vale la pena ricordare come sia stato proprio un racconto di Borges, in cui si proponeva una strana classificazione degli animali secondo “una certa enciclopedia cinese”, ad avere ispirato Michel Foucault a scrivere il suo libro “Le parole e le cose”. La stranezza e la pretesa esaustività della classificazione proposta dallo scrittore argentino suggerisce a Foucault, attraverso “il fascino esotico di un altro pensiero, il limite del nostro”. L’enciclopedia di Borges diviene per Foucault il simbolo di schemi di categorizzazione che inducono a riflettere su quali siano i confini del nostro modo di pensare e in che modo noi ordiniamo i fenomeni e gli eventi. Nei termini di Foucalt (che, a sua volta cita Merquior), Borges scrive in modo da portarci a chiedere quali siano i: “codici fondamentali di una cultura che impongono un ordine alla nostra esperienza”. In conclusione, della cultura possiamo osservare il suo divenire o le sue rappresentazioni. Nel primo caso, ci si concentra sui modi di costruire la contingenza, nel secondo caso sulle rappresentazioni – più o meno coerenti – della complessità. E’ proprio nella ricorsività delle operazioni e delle rappresentazioni che possiamo osservare la cultura. In questo senso, proponendo un’immagine evocativa possiamo considerare le operazioni sociali (comunicazioni) come cultura in formazione e le formazioni culturali (simboli, significati, rappresentazioni) come operazioni sociali sedimentate. Da ciò si evince da una parte che non tutte le infinite operazioni sociali quotidiane si trasformano in orientamenti culturali e che questi non si riproducono sempre uguali all’infinito ma, al contrario, possono produrre le basi per la propria negazione. Cap. 2 Quali sono le operazioni della cultura? 2.1 Selezione, Accumulo, Riproduzione. Le tre operazioni della cultura Quanto illustrato nel precedente capitolo non semplifica il quadro delle questioni che ingombrano il campo della cultura. L’idea secondo cui la Complessità e la Contingenza si autoimplichino tramite una continua produzione di operazioni sociali ed elaborazioni di significato permette di definire un punto di partenza per l’osservazione della cultura e contemporaneamente fornisce un’alternativa alle concezioni essenzialiste che reificano la presenza della cultura e la separano dall’interdipendenza dai sistemi sociali. E’ importante allora trovare dei parametri per procedere all’osservazione di quelle operazioni che generano la cultura. La domanda più frequente in questi casi è quella che chiede conto di quali siano le operazioni della cultura, ovvero di quali siano le modalità costitutive della cultura. 2.1.1 Selezione In precedenza ho sostenuto che l’elaborazione del senso ha origine dalla ridondanza di possibilità che la complessità del mondo continuamente propone. La prima operazione osservabile è quindi quella di selezione di qualcosa dal suo sfondo che rimane comunque disponibile. Selezione significa quindi affermare e attualizzare qualcosa negando il resto. Questo “resto” però non scompare ma può essere utilizzato per ulteriori future operazioni di selezione. Il “resto” prende la forma del “mondo”, inteso come insieme della complessità generale. Per comprendere meglio cosa si intende per selezione, sono necessarie tre precisazioni. 1) Le selezioni sono necessarie nel momento in cui la complessità di un sistema si presenta nella forma del senso, inteso come premessa per l’elaborazione di ogni esperienza [Luhmann]. In questa accezione, il senso è proprio soltanto dei sistemi psichici e sociali. In altre parole, il senso è la forma dell’operare dei sistemi psichici e sociali: pensieri e comunicazioni si presentano come elaborazioni di senso che rimandano ad altre possibilità. 2) Il concetto di selezione non può essere separato dal sistema che lo elabora. Ogni selezione stabilisce un ordine all’interno di un sistema già ordinato grazie a selezioni precedenti. Ogni sistema si releziona con un ambiente fatto di altri sistemi ed è in questa relazione che il senso si genera. E’ così che il senso non proviene dal nulla ma da una catena ordinata di selezioni. in questa prospettiva, la dimensione temporale è fondamentale per comprendere come sia possibile che un determinato significato serva ad elaborare una specifica esperienza. I concetti di Dicorso [Foucault] e Narratives [Somers], per fare due esempi che verranno ripresi nelle pagine successive, considerano la dimensione della successione temporale come fondamentale per la costruzione di un ordine del senso, e più in generale della cultura, all’interno di determinati sistemi sociali e psichici. E’ bene però chiarire che l’incardinamento del senso all’interno dei sistemi sociali e psichici non significa dipendenza unilaterale del primo dai secondi e tantomeno conduce alla riproduzione infinita dell’identico. L’ordine a cui si orientano i sistemi sociali e psichici è al contempo vincolo e possibilità di apertura a nuove selezioni. 3) Ogni selezione implica anche una distinzione di qualcosa da qualcos’altro. Questa è un’operazione inevitabile e necessaria per ogni osservazione e ogni atto di conoscenza. Si seleziona a partire di una distinzione (la differenza è sempre relativa all’osservatore) e si produce una distinzione. Dice Marcello 10 Novembre 2010: “A questo proposito, si potrebbe dire che quando cerchiamo di individuare un’opera d’arte operiamo una selezione in base a distinzioni che producono una differenza tra ciò che può essere ritenuto di valore “artistico” e ciò che non lo è”?. L’esempio è pertinente ma non tiene conto dei vincoli e delle possibilità del sistema. La domanda si concentra, infatti, su una questione particolarmente complessa qual è quella della definizione e dell’autonomia del sistema artistico; in altri termini, come si determina la distinzione tra ciò che è artistico e ciò che non lo è. Non è possibile qui affrontare questa intrigante e articolata questione, ma è possibile rispondere positivamente alla domanda che pone Marcello e aggiungere che, in base a questa distinzione, se ne potranno compiere altre, ad esempio scegliese cosa selezionare per una mostra o inserire in un museo. Rimane il fatto che alla base di ogni idea di cultura c’è la consapevolezza, avvertita da autori molto diversi tra di loro, che sia necessaria una selezione, intesa come operazione di riduzione della complessità e tentativo di creare un ordine. "Non diretto da modelli culturali – sistemi organizzati di simboli significanti – il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell'esistenza umana ma – base principale della sua specificità – una condizione essenziale per essa". [Geertz 1973] La selezione è pertanto la prima, necessaria ed inevitabile operazione che devono effettuare i sistemi di senso per poter gestire (e riprodurre) la complessità del mondo. Ma questo non basta, utilizzando i termini introdotti nella citazione precedente, per costruire un “modello culturale”. Come sostiene lo stesso Geertz, la cultura diventa la “totalità accumulata” di significati. 2.1.2 Accumulazione La seconda operazione a cui dobbiamo guardare con attenzione è quella che definisco accumulazione. La selezione non avviene in modo arbitrario ma segue una successione che ha una sua dimensione temporale (non tutto può essere affermato e attualizzato contemporaneamente) e una relazione con le selezioni precedenti. In questa maniera si può determinare un ordine che ha una sua continuità. Con accumulazione, si intende pertanto la sedimentazione delle selezioni che permettono di costruire una storia del rapporto tra il sistema e il suo ambiente che vincola la selettività futura. Soltanto con le operazioni di accumulo è possibile, ad esempio, formulare delle aspettative oppure elaborare una delusione o una “scoperta”. Senza accumulazione non sarebbe possibile effettuare delle comparazioni tra culture e nemmeno formulare un’idea di accettabilità di un comportamento. Chiede Elisabeth 05 Ottobre 2010: “Ma allora la storia culturale può essere concepita come una stratificazione, sempre più complessa, delle idee e dei concetti elaborati in passato?” La complessità non è data dalla quantità di dati accumulati ma dalle connessioni tra questi. In questo senso, accumulazione non è semplicemente l’insieme progressivo dei significati elaborati nel tempo. Accumulazione non significa quindi crescita esponenziale della conoscenza perché questa va di volta in volta costruita a partire dal “materiale” a disposizione. Quello di materiale è un concetto che può essere compreso se lo si distingue da quello di forma. Thomas Heise, è un importante documentarista tedesco che ha realizzato una serie di importanti opere cinematografiche sulla Germania dell’Est, in particolare filmando la transizione socio-culturale avvenuta dopo il 1989. Qualche anno fa, ho avuto l’occasione di organizzare una retrospettiva sulle sue opere e di approfondire il suo lavoro, in particolare i modi in cui è riuscito ad osservare le trasforamzioni sociali e i cambiamenti culturali avvenuti negli ultimi anni nel suo Paese. Interrogato sul senso di questa osservazione, Heise risponde che: “La forma risulta dal materiale. Ha a che fare con lo scavare, il rivoltare. Poi c’è questa strana frase, che mi è venuta all’improvviso in mente e che da lì non è andata più via: la storia, la si può pensare longitudinalmente, ma essa è un mucchio”. Forma, materiale e mucchio sono i tre termini usati da Heise per indicare il modo in cui si può realizzare un film partendo da un dato “reale” e non finzionale, storicamente e socialmente situato. Il “materiale”, nello specifico di Heise, è l’insieme di immagini, suoni e parole raccolte negli anni e poi rimontate in forma di film. Questo materiale si accumula e si rende disponibile per creare nuova forma, ovvero per essere attualizzato e ricomposto. L’accumulazione è l’insieme di materiale da cui, scavando e rivoltando, traiamo elementi per costruire nuovi collegamenti, nuova forma, nuovi significati. Sul concetto di “materiale” ha impostato la sua teoria dell’arte e in particolare della musica Theodor Wiesegrund Adorno. Il compositore – sostiene Adorno - dà una forma definita alle sue idee, configurando e organizzando il materiale musicale. Il materiale si può quindi intendere come un’istanza esterna che agisce sull’opera e sull’autore in quanto “storia sedimentata” aperta a nuove possibilità. Di nuovo si presentano a braccetto vincolo e possibilità. Nella prospettiva di Adorno, la forma funziona come un “magnete” che attrae elementi empirici dalla realtà, riorganizzandoli coerentemente. La forma diventa così un condensato dell’organizzazione del materiale che “parla” coerentemente col tutto ma che resta comunque individuato e visibile come scelta. Per quanto riguarda nello specifico l’arte, Adorno sostiene che: “la forma per un verso garantisce coerenza all’opera e, per un altro verso, separa l’oggetto dal “puramente esistente”, compiendo il passaggio dall’oggetto empirico all’oggetto estetico”. La forma è organizzazione del materiale e trasformazione dello stesso in una nuova configurazione. Allargando lo sguardo dall’ambito artistico a quello della cultura in generale, ci si trova di fronte alla relazione tra materiale e forma che può essere collegato a quanto esposto finora in questo testo. L’accumulazione è il risultato delle selezioni precedenti che si rendono disponibili per ulteriori utilizzi. In questo senso ciò che si accumula è contemporaneamente forma (in quanto possiamo immaginare opere, idee, concetti, ecc.) e materiale per nuove forme (in quanto ciò che si accumula si predispone a nuovi collegamenti ed elaborazioni). Nei termini di N. Luhmann, si può dire che ci troviamo di fronte alla presenza contemporanea di medium e forma. Dove il medium è descrivibile come una connessione debole di elementi e la forma il modo in cui questi elementi vengono connessi in modo stabile. Medium e materiale stanno ad indicare cose simili all’interno di architetture teoriche differenti. Per capire meglio il concetto di accumulazione e rispondere alla domanda contenuta in questo paragrafo è necessario chiarire che il rapporto che intercorre tra medium (o materiale) e forma è temporale e relativo agli ordini dell’osservazione. L’accumulazione permette sia di osservare un prima e un dopo nell’elaborazione culturale ma anche di distinguere osservazioni di primo e di secondo ordine. Su quest’ultimo punto: Dice Marta, 2008: “Mi viene da pensare al lavoro di Andy Wharol che inseriva nelle sue opere prodotti o personaggi di successo come Marilyn Monroe o il barattolo della Campbell”. Ma si potrebbe pensare anche ad Elvis Presley, a Che Guevara, Gesù Cristo, ecc. Di questi soggetti, almeno in termini culturali, si può dire che sono icone che rimandano ad una storia specifica con un insieme di significati e pratiche peculiari. In un certo senso, sono forme ben individuabili e riconoscibili. Ma sono anche medium (materiale) per fare altro: nel caso dell’esempio di Wharol, per produrre opere pittoriche e per attivare una riflessione sullo stato dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica1. D’altra parte, l’operazione di Wharol è possibile soltanto nel momento in cui certi processi sociali e culturali si compiono e si mantengono nella forma dell’accumulazione. Per intenderci, prima che Andy Wharol consacri definitivamente Marilyn Monroe come un’icona pop, c’è bisogno che si crei uno star system, che Norma Jeane Mortensen diventi una star con il nome di Marilyn Monroe, che si trasformi in un’ideale di bellezza e in un oggetto del desiderio, che muoia in circostanze oscure, ecc. La forma cristallizza il friabile materiale che altre forme sprigionano entrando in connessione con altri forme. Si pensi alla forza evocativa che ha avuto Che Guevara per la sua generazione e quelle successive, tanto da sopravvivere alla sua morte biologica ed essere usato per scopi e azioni molto diverse tra di loro: un uomo che diventa un eroe rivoluzionario ma anche una forma culturale e che si predispone ad essere medium per altre forme2. 1 Il riferimento è ovviamente a W. Benjamin, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica ma anche Oltre che aver dato vita ad un incontrollabile e smisurato merchandising, l’immagine del Che è stata utilizzata anche a fini commerciali da alcune grandi ditte. Nel 2000 ci fu addirittura una causa tra Korda, il fotografo autore del più famoso ritratto di Ernesto Guevara, e la Smirnoff che ne aveva sfruttato l’immagine per pubblicizzare la sua vodka. Nonostante Korda vinse la causa, l’utilizzo pubblicitario del Che è continuato senza sosta. Nel 2012 la Mercedes ha presentato la sua nuova linea di automobili con il claim: ”Viva la Revolucion” sormontato da una gigantografia di Ernesto Che Guevara che indossa il caratteristico basco su cui campeggia, al posto della stella, il simbolo della Mercedes. 2 2.1.3 Riproduzione La terza azione fondamentale per parlare di cultura è la riproduzione delle selezioni. Non tutte le selezioni sono, infatti, in grado di riprodursi nel tempo e, nonostante l’accumulo, non tutti i temi disponibili vengono continuamente attualizzati e quindi riprodotti. Grazie alle capacità di collegamento con altre selezioni, alcune riescono a stabilizzarsi e diventare parte di una struttura sociale più o meno stabile. In realtà, il concetto di riproduzione introduce anche la possibilità dell’evoluzione (socio)culturale, ovvero della variazione delle selezioni. In definitiva, la riproduzione solleva il problema del rapporto tra conservazione ed innovazione della cultura o, in altri termini, del rapporto con la tradizione. La riproduzione e la stabilizzazione sono alla base della possibilità di riconoscere una tradizione, un’origine e una radice comune in una cultura. Concetti questi che hanno avuto una enorme risonanza non soltanto nella riflessione scientifica ma anche in quella di senso comune. La riproduzione non può però essere concepita in modo separato dalle altre due operazioni precedentemente descritte perché è possibile soltanto grazie alle selezioni e all’accumulo di parte di queste. Chiede Letizia, 17 Novembre 2011: ”Com’è possibile concepire un cambiamento culturale se i presupposti sono continuamente riprodotti? La cultura non si presenta così come un modo per dare coerenza nel tempo a ciò che accade nel mondo?” Prima ancora di entrare nel merito di questa domanda, bisognerebbe tornare su una questione aperta in precedenza e che verrà approfondita nei prossimi capitoli: qual è il rapporto tra cultura e (inter)azione sociale? Soltanto sciogliendo questo nodo è possibile formulare delle risposte fondate e articolate alla domanda di Letizia. Gran parte delle ricerche nel campo delle scienze sociali, dell’antropologia, della linguistica, si sono occupate proprio di affrontare questo quesito. Il tema è complesso e le risposte differenti, ma si può provare a fare un po’ di chiarezza. Nel vocabolario classico dell’Antropologia, con inculturazione ci si riferisce proprio al processo con cui un gruppo sociale trasmette e riproduce le proprie “tradizioni” al suo interno da una generazione all’altra. Un concetto assai discusso e spesso accompagnato a quello di socializzazione, con cui si intende convenzionalmente l’apprendimento e l’assimilazione delle norme sociali. Inculturazione e socializzazione sarebbero, secondo le accezioni ancora oggi dominanti, i modi attraverso cui in generale un gruppo si assicura l’adesione del singolo e in questa maniera la continuazione del gruppo stesso. Questi due concetti sono quindi fortemente legati all’idea di identità collettiva e individuale che sostiene quelle prospettive precedentemente definite essenzialiste. Ma in questa maniera tradizione e cultura finiscono con il coincidere, diventando: “una programmazione collettiva della mente che distingue i membri di un gruppo o di una categoria di persone dagli altri”. [Hofstaede] Le conseguenze che si generano da questa prospettiva sono numerose e importanti. Innanzitutto: “the serious implication here is that people are not allowed to step outside their designated cultural places” [Holliday, Intercultural Communication and Ideology, Sage 2011, p. 5]. Le forme dell’ibridazione culturale, ad esempio, sono trattate come eccezione della norma piuttosto che come realtà dotate di una propria specificità. E questo è possibile, soprattutto perché si individuano a livello macro-sociale dei confini netti tra le culture che si ripercuotono sul piano micro- sociale. A questo proposito, Appadurai propone di distinguere gli approcci alla cultura di tipo primordialista da quelli di tipo costruzionista. I primi considerano la cultura e la qualità delle sue influenze sulle persone come dati di fatto che i singoli non sono in grado di modificare [Appadurai, Arjun (1996). Modernity at large. Cultural dimensions of globalization. Minneapolis: University of Minnesota Press, p. 14]. Appadurai, invece, si dichiara a favore di una visione strumentalista sulla cultura . Da questo punto di vista, le differenze culturali non sono date, ma sono costruite di volta in volta per rispondere a fini e situazioni differenti. Tuttavia, un breve sguardo alle principali ricerche sui fenomeni cross-culturali rivela come quest’ultimo approccio sia ancora largamente ignorato e poco utilizzato, come sottolineato in maniera critica da autori come Spivak [Spivak, Gayatri Chakravorty (1987). In other worlds. Essays in cultural politics. New York: Routledge]. Anche nell’ambito degli interventi o della formazione le cose non cambiano molto. Ad esempio, Dahlén (1997) ha mostrato come gran parte della gestione della formazione interculturale negli Stati Uniti sia ancora basata su concetti di cultura molto generalizzati e primordialisti. Ignorando i concetti e gli approcci elaborati nell’ambito della ricerca culturale, il sistema scolastico diventa, secondo Dahlén, una vera e propria “culture shock prevention industry” il cui scopo sarebbe quello di evitare l’incontro (e lo scontro) tra diverse opzioni in favore del riconoscimento e del rispetto di una diversità radicata e pertanto indissolubile [Hannerz, Ulf (1992). Cultural complexity: Studies in the social organization of meaning. New York: Columbia University Press, p.251]. Il concetto di riproduzione chiama in causa proprio questo genere di scelte. La riproduzione non è una mera trasmissione dei dati culturali elaborati in precedenza ma un processo che dipende innanzitutto dal modo in cui un sistema sociale elabora di volta in volta il rapporto tra le proprie operazioni e al contempo le indicazioni che gli provengono da altri sistemi (dal suo ambiente). In secondo luogo, la riproduzione è frutto di scelte e di rapporti di potere in grado di affermare valori e significati a determinati eventi e processi sociali. Quello della riproduzione è un campo di contesa in cui operano forze contrastanti e spesso divergenti. I processi di riproduzione, punto di convergenza di rapporti di significazione e di potere, non sono quindi esenti dalle operazioni di selezione. Alcuni studiosi come Swidler si sono concentrati sui limiti e sui difetti derivanti dalla separazione dell’ottica promoridialista e di quella costruzionista. Al fine di comprendere meglio le influenze culturali sulle (inter)azioni sociali, Swidler propone invece di combinare entrambi gli approcci, sostenendo che la cultura può essere concepita come un repertorio di conoscenze che ciascuno può, ma non deve necessariamente utilizzare [Swidler, Ann (1986). Culture in action: Symbols and strategies. American Sociological Review, 51]. In base a questa scelta, da una parte si strutturano le interazioni, dall’altra la teoria può osservare queste interazioni come influenzate dalla cultura. Altri autori, hanno invece concepito la cultura come orientamenti valoriali di cui i singoli non sono necessariamente consapevoli. Questi valori orienterebbero le scelte degli attori sociali in specifici ambiti di interazione. Sarebbero quindi i valori orientativi ad essere riprodotti nel tempo, tanto da rendere più o meno prevedibile il comportamento sociale. Da questo punto di vista, l'approccio di autori apparentemente distanti come Bordieu, Elias e Hofstaede è molto simile, soprattutto nella convinzione che siano i valori impliciti sottostanti a permettere agli individui di esprimere le proprie preferenze. Come si può constatare, non è certamente possibile negare la presenza di tradizioni e premesse culturali ma queste si possono inserire in un quadro in cui si presentano come vincoli imprescindibili o, al contrario, come costruzioni culturali a loro volta. La differenza fondamentale sta nel posto che viene assegnato alla cultura nell’interazione sociale. La cultura viene osservata come precedente le interazioni, che dalla cultura vengono determinate, oppure è nelle interazioni, negli incontri e negli scontri che i repertori culturali vengono messi in gioco e quindi si manifestano, si creano e si riproducono? 3. Che cosa produce la cultura? Semantica e Autorappresentazione. La domanda di questo capitolo, può essere intesa in due maniere. Da una parte una prima riformulazione può essere: qual è il prodotto della cultura? Dall’altra, possiamo ritornare sulle azioni e sulle dinamiche che generano significati e cultura, cercando di identificare chi o che cosa produce la cultura. Cercherò di affrontare il primo aspetto in aspetto nelle prossime pagine, mentre il secondo sarà oggetto del capitolo successivo. E’ essenziale però da subito chiarire che queste sono domande che possono generare risposte molteplici e con livelli di dettaglio molto differenti. Per quanto riguarda la prima accezione della domanda, piuttosto che guardare ai singoli prodotti culturali, la mia scelta – in coerenza con l’impostazione dei capitoli precedenti – è quella di approfondire le forme in cui si sedimentano le operazioni della cultura. Una selezione può essere considerata un evento e l’accumulazione come il risultato di un processo, portato avanti nel tempo grazie alla sua continua attualizzazione e riproduzione. Selezione, accumulazione e riproduzione sono pertanto interdipendenti perché sono l’una la premessa per le altre. Per dirla in modo più chiaro e diretto: “La società è comunicazione e la comunicazione si alimenta dell’archivio di temi culturali (semantici). La struttura sociale e la semantica (comunicazione e cultura) si motivano reciprocamente”. 3.1 Semantica L’accumulo di temi disponibili per orientare la comunicazione può essere definito semantica, un termine spesso associato alla linguistica ma che possiamo qui estendere a ciò che 28 riguarda il patrimonio concettuale di una società. Le operazioni di accumulazione convergono quindi in un “archivio” di temi pronti per essere immessi nella comunicazione. Ma questi temi, e qui sta un primo livello di interdipendenza reciproca, sono il risultato di precedenti comunicazioni (selezioni). La semantica è quindi la prima forma generale che prende la cultura grazie alla combinazione di selezione, accumulazione e riproduzione. Chiede Danilo: “Qual è allora la differenza tra semantica e accumulazione, non si tratta forse di sinonimi ed equivalenti funzionali?” Finora ho evitato di fare riferimento a entità o soggetti a cui attribuire il compito di generare o far scaturire la cultura. Il riferimento è piuttosto alle operazioni che permettono di generare processi di cui possono essere osservati le “inter-connessioni” o i “precipitati”. E’ proprio nel rapporto tra operazioni, processi e prodotti che si può concepire, ad esempio, il legame tra selezione, accumulazione e semantica. Pertanto, semantica ed accumulazione non sono la stessa cosa, ma non potrebbero esistere l’una senza l’altra. Il rapporto tra operazioni, processi e prodotti non va concepito però come necessario, consecutivo e unidirezionale. I processi culturali sono il frutto di una selezione di eventi che non sono necessariamente continui e non dipendono quindi da una concatenazione causale costante e definita: «Con la rinuncia alla contiguità si ottiene anche che non solo ciò che è immediatamente precedente, bensì anche eventi anteriori possiedono rilevanza selettiva, sebbene nel frattempo altri sono seguiti» [N. Luhmann, Geschichte als Prozess und die Theorie sozio-kultureller Evolution, in K.G. Faber & C. Meier (Hsgb), Theorie der Geschichte 2: Historische Prozesse, München 1978, pp. 413-440, cit., pp. 430-431.] La semantica fornisce così una struttura d’ordine all’organizzazione processuale delle selezioni e delle distinzioni. Non la stabilità, la continuità, la costanza forniscono la regola, ma la variabilità stabilisce la regola delle norme e dei valori che devono essere osservati. : «ciò che è permanente si fonda allora su ciò che è “transeunte”: un pensiero inconcepibile per la tradizione ontologica» [Struttura sociale e tradizione semantica, in: N. Luhmann, Struttura della società e semantica, Roma-Bari 1983, p.7]. In questo quadro, è proprio la semantica a permettere «la non arbitrarietà della variazione» [ib.]. Questo significa che le variazioni di cui è capace la semantica permettono di riformulare in continuazione il linguaggio della provvisorietà e della trasformazione della società come sistema sociale e in questo modo garantiscono un ordine e una probabilità a ciò che è imprevedibile e improbabile. Più aumenta la complessità dei sistemi e la contingenza delle operazioni che si svolgono al loro interno, più la semantica diventa necessaria, non tanto come elaborazione individuale ma come forma sociale. L’aumento delle co-implicazioni di un sistema (o del mondo) rendono impossibile conoscerlo o accedervi nella sua pienezza ma soltanto attraverso selezioni, seriazioni o aggregazioni. Si accede al mondo tramite elaborazioni di senso non casuali ma il più delle volte “tipizzate”, ovvero basate su differenze che gli individui riconoscono come legittime e quindi applicano. E’ proprio questo che fa la semantica, che non va quindi considerata soltanto come un insieme di temi disponibili ma bensì come una “riserva di regole di elaborazione del senso già approntato” [M. Ricciardi, La dissolvenza dell’individuale]. Da una parte la semantica si compone di frammenti di ogni sorta che si incrociano e s’intersecano (come dice ironicamente Luhmann, per la semantica conta “ogni maledizione dei vogatori nelle galere”). Dall’altra parte, la semantica si condensa in forme e in regole utilizzabili per l’elaborazione del senso e quindi selezionano contenuti e rammenti in base a questa funzione. In altri termini, da un lato la semantica è dipendente dalla struttura della società e dall'altro lato è in grado di orientare i processi comunicativi. La differenza tra l’accumulazione di temi e la semantica sta proprio in questa creazione di forme e regole da cui scaturiscono le elaborazioni di senso ed è in questo modo che siamo in grado di osservare una trama continua definita da regole riconoscibili. Chiede Marina: “Ma questo meccanismo non è sostanzialmente lo stesso che descrivono altri autori come, ad esempio, Michel Foucault?” Anche se non parlerei di meccanismo, nel senso che non c’è niente di meccanico nel legame sopra descritto, questa domanda coglie un aspetto molto interessante che interseca diverse teorie contemporanee. Il terreno in cui si muove M. Foucault è quello dei discorsi, intesi non come il risultato ultimo di un’elaborazione linguistica e teorica che avviene altrove (nel campo della lingua o del pensiero), ma come sistemi caratterizzati da precise regole di emergenza e di esistenza che esercitano una funzione concreta nella storia delle idee e delle istituzioni. Ecco quindi ritornare l’idea secondo cui il senso è possibile grazie a regole di composizione e di legittimità. Quello che interessa M. Foucault è proprio descrivere le regole che in una data epoca e società definiscono “i limiti e le forme di dicibilità”, che determinano di che cosa è possibile parlare e come è possibile farlo. I discorsi non rimandano ad altro, a un fondamento unico esterno, nè ad un soggetto trascendentale o empirico, nè a condizioni economiche e storico-sociali, nè allo spirito dei tempi. I discorsi si presentano come “pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano” [ib.] e in quanto tali si autoregolano. E’ lo stesso Foucault ad avvertirci che: “non bisogna rimandare il discorso alla lontana presenza dell'origine; bisogna affrontarlo nel meccanismo della sua istanza” [ib.]. Infine, Foucault individua una sorta di “filiera” del discorso che scaturisce dai codici fondamentali elaborati da una società (episteme) , che consentono aggregazioni discorsive, le quali si presentano come singoli discorsi e sono osservabili come enunciati. L’episteme, in particolare, indica non tanto una razionalità che determina in modo sovrano un soggetto o lo spirito di un’epoca ma: “è piuttosto l’insieme delle relazioni che, in una data epoca, si possono scoprire tra le scienze quando le si analizza a livello delle regolarità discorsive” [ib.]. Una definizione che ricorda molto quella di Semantica introdotta precedentemente. Per riassumere, l’impostazione seguita in queste pagine condivide con quella foucaltiana tre aspetti principali: 1) il tentativo di uscire da spiegazioni causalistiche in favore di strutture più complesse fondate su elementi e processi di auto- implicazione; 2) ne scaturisce un allontanamento progressivo dalla centralità del soggetto, inteso sia come autore che come “prodotto” di forze sociali e culturali; nonostante i primi due puntpi, si mantiene la ricerca dei modi in cui 3) viene garantito un ordine attraverso un sistema di “regole di composizione”. L’archeologia del sapere e gli studi sui rapporti tra sapere e potere che conduce M. Foucault sono preziosi perché sono in grado di porre l’attenzione su ogni manifestazione della vita quotidiana intesa come parte di un discorso costruito in base ad elementi stabili, ricorrenti ma non necessari. 3.2 Auto-descrizione Finora ho fatto riferimento al concetto di cultura in termini astorici, ma in realtà se ci si sofferma a riflettere sulla storia del concetto di cultura, troviamo che esso si afferma nel XVIII secolo per intendere soprattutto l’auto-descrizione della società. Con auto-descrizione si intendono i testi e le opere che contengono e fissano la continua auto-osservazione della società. Così diventa possibile descrivere e delimitare una certa cultura o far coincidere un gruppo di persone con una specifica cultura, tanto che si può arrivare a sostenere non soltanto che un gruppo o una persona “ha” ma addirittura che una cultura esiste come entità autonoma, quasi fosse un attore sociale. Nelle diverse epoche storiche, l’auto-descrizione della società ha preso spunto dai diversi sistemi sociali, che di volta in volta hanno fornito gli elementi per costruire un senso di unità globale: ecco perché siamo in grado di parlare di cultura (e di società) “capitalista”, “democratica”, “postmoderna”, dello “stato di diritto”, del “pluralismo dei valori”, ecc. Ogni auto-descrizione della società (o dei sistemi sociali) è una “costruzione immaginaria dell’unità del sistema” [N. Luhmann, Die Gesselschaft der Geselleschaft]. L’idea della cultura come auto-descrizione della società ha assunto in passato forme etnocentriche (cultura/barbarie; civilizzazione/arretratezza) e gerarchiche (cultura alta/bassa; Cultura alta/Cultura popolare) che hanno caratterizzato rispettivamente il confronto e lo scontro tra comunità e Stati-nazione così da far deflagrare conflitti all’interno di una stessa società. L’auto-descrizione si lega così indissolubilmente alla costruzione di un senso identitario e la cultura si trasforma nello “studio della perfezione”, la “ricerca di ciò che di 39 meglio è stato pensato e detto nel mondo”. Ovviamente, le visioni del “meglio” sono multiple e difficilmente entrano in sintonia tra di loro. Pertanto, questa impostazione diventa, con il passare del tempo, sempre meno solida e dirimente. L’autodescrizione della società si fa così sempre più polifonica e contrastata, e il “campo della cultura” diventa un campo di battaglia. Chiede Federico: “Ma è possibile parlare di un campo della cultura o sarebbe più corretto riferirsi ai diversi campi della cultura che sono prodotti in diversi posti del mondo? E se la cultura orienta la comunicazione, che cosa succede se ci sono più culture all'interno di una o più società?” Parlare di cultura come se si trattasse di un sistema omogeneo è diventato sempre più difficile e, più in generale, risulta sempre meno plausibile l’idea che possano esserci degli insiemi di simboli coerenti e condivisi dai partecipanti alla comunicazione, in grado di indirizzare i processi comunicativi. In sintesi, una cultura unitaria non è più visibile nell’osservazione empirica e si presenta così una comunicazione che viene definita, seppure con molti distinguo, “interculturale”. La questione principale, che è centrale anche per questo libro, riguarda il modo in cui si osserva il rapporto tra cultura e società. Si tratta di una questione metodologica che implica una scelta di prospettiva: se ci si concentra prioritariamente sulle culture si tende a costruire degli stereotipi culturali e delle differenze culturali relativamente stabili e rigide. Si può invece osservare se e come talune differenze si esprimono nella comunicazione, quindi concentrarsi su situazioni comunicative specifiche per chiedersi se vi si può osservare la costruzione di una diversità culturale. Se partiamo da questo presupposto, le “culture” non sono mai nazionali, né “di gruppo”: sono prodotte in determinati sistemi di comunicazione. Nell’ultima parte di questo testo presenterò alcuni modi per osservare empiricamente i modi in cui nella comunicazione si costruiscono le differenze culturali. Per il momento, mi interessa qui rispondere alla domanda posta da Federico, riformulandola. Piuttosto che parlare di campo o campi della cultura, è possibile riferirsi agli ambiti, alle situazioni e ai sistemi di comunicazione in cui si manifestano e si generano le differenze culturali. Soltanto in questa maniera possiamo osservare un insieme coerente o incoerente di simboli culturali. La semantica e l’auto-descrizione possono assumere anche la forma generale della memoria sociale, che non va intesa tanto come conservazione del passato ma piuttosto come un dispositivo basato sulla distinzione ricordare/dimenticare che permette di gestire la semantica dei significati nel tempo. In altri termini, per poter continuare ad operare, una cultura deve creare delle occasioni di collegamento per le selezioni. La memoria permette di individuare quali elementi siano da mantenere e quali altri da dimenticare, e la dimenticanza è in questa accezione una funzione importante per permettere al sistema di continuare a sopravvivere e operare. 4. Come si distingue ciò che è cultura da ciò che non lo è? Le dimensioni del senso Le dinamiche di costruzione del senso, ovvero ciò che abbiamo finora definito selezioni, seguono tre dimensioni che vanno di volta in volta individuate: 1) la dimensione fattuale costruisce l’identità e l’unità del senso di una comunicazione mediante il ricorso a argomenti relativi alla “sostanza” e alla “qualità” dei fatti osservati. La dimensione fattuale è quella che ci permette di dire, ad esempio, che due aerei che si schiantano sui grattacieli di New York rappresentano un complotto, un attentato o un atto di vendetta. 2) la dimensione temporale collega quel fatto ad altri passati, costruendo nel presente gli scenari futuri. La dimensione temporale è quella che ci fa dire, ad esempio, che un evento ha un senso se legato ad un processo. 3) la dimensione sociale inserisce un evento, un’opera, una comunicazione al consenso (o al dissenso) che riceve in un contesto sociale. Negli ultimi interventi la Semantica è stata definita come: 1) l'insieme delle forme utilizzabili per la selezione di contenuti di senso che sorgono nella società (senso generalizzato e tipizzato) e, contemporaneamente, 2) come riserva di temi a disposizione da immettere nella comunicazione (patrimonio di idee rilevanti per la comunicazione). Questa duplice accezione e funzione della semantica è utile per ritornare al rapporto di co-implicazione tra comunicazione e cultura a cui si è fatto già accenno ma che approfondiremo dalla prossima volta. Prima è però necessario chiarire che parlare di semantica al singolare non è propriamente corretto. Innanzitutto perché i diversi sistemi di funzione producono semantiche specifiche come prodotto e premessa del loro continuo operare. Il sistema economico, ad esempio, attribuisce un significato ad un prodotto in relazione al valore che questo assume sul mercato. Lo stesso prodotto, in un sistema religioso come quello induista, assumono significati molto diversi, determinati dall'atto di privarsene per tenere fede ad un legame con Shiva che deve continuamente rinnovarsi (dimensione fattuale, sociale e temporale). La seconda considerazione che scaturisce da questa analisi è che è possibile individuare una semantica di senso comune ed un'altra specifica e curata nei sistemi di funzione. Questa distinzione è più importante di quanto sembri ad un primo sguardo. Si tratta, infatti, di un cambiamento di paradigma, rispetto a distinzioni tradizionali nell'ambito degli studi sulla cultura tese a distinguere le espressioni di una Cultura "alta" da quelli di una cultura, di volta in volta definita "bassa", "subalterna", "popolare" o "di massa". Queste distinzioni sono legate a fasi storiche e a teorie che hanno operato una selezione che afferma la differenza di valore tra un lato e l'altro. Piuttosto che entrare nel merito di queste distinzioni (chi volesse può consultare la sezione approfondimenti), è importante chiedersi se sono ancora efficaci, ovvero e riescono a permetterci di trattare la crescente complessità culturale con cui abbiamo a che fare oggi. La complessità, come si è già detto, consiste dell'insieme di relazioni che possono stabilire tra di loro gli elementi di un sistema. Più sono le relazioni possibili, più il grado di complessità è alto. I fenomeni di interconnessione globale (che abbiamo imparato a conoscere con il nome di globalizzazione) hanno fatto crescere esponenzialmente il livello di complessità nei termini del confronto tra culture non riconducibili a paradigmi e forme uniche e condivise. Ma lo stesso potrebbe dirsi per la cultura di massa e la cosidetta industria culturale che propone un consumo culturale disponibile non più soltanto per un'elite ma potenzialmente per tutti. Questi fenomeni ci pongono quindi di fronte alla difficoltà di distinguere tra una cultura di valore ed un'altra subordinata o di grado inferiore. E' necessario quindi operare un cambio di distinzione, operando una riflessione teorica.