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“Reddito di cittadinanza”
KEY FINDINGS
Un’alternativa, non un obbligo
• Nessun paese in Europa prevede redditi di base incondizionati.
Di Giovanni Boggero
Sempre più di frequente capita di sentir ripetere da esponenti politici,1 ma anche
da autorevoli accademici,2 che l’ordinamento giuridico italiano, insieme con quello
greco, sarebbe l’unico dell’Europa a ventotto a non conoscere alcuna forma di
“reddito di cittadinanza” quale mezzo per combattere l’emarginazione sociale. A
questa lacuna del quadro normativo italiano corrisponderebbe peraltro un preciso obbligo tanto costituzionale, quanto unionale a introdurre tale strumento nel
diritto interno. L’obiettivo di questo breve scritto è dimostrare che non soltanto
tale obbligo non esiste, ma che molti Stati membri dell’Unione europea si sono
dotati soltanto di un “reddito minimo garantito”, mentre nessuno ha dato attuazione alla proposta di un “reddito di cittadinanza” o “reddito di base incondizionato”, così come avanzata da diversi partiti europei di estrema sinistra anche tramite il cd. Basic Income Earth Network (BIEN), un’associazione nata nel 1986 con
lo scopo di promuovere il reddito minimo universale in tutto il mondo. Proprio
l’assenza di un solido inquadramento concettuale e giuridico è all’origine di tante
dichiarazioni inesatte sul ritardo normativo del nostro Paese.
• Tutti i paesi europei, Italia
compresa, hanno forme di assistenza e previdenza per le categorie più deboli della popolazione.
• L’introduzione in Italia di un
reddito di cittadinanza non è
un obbligo, ma una scelta rispetto ad altre forme di welfare.
• Un’assistenza in denaro può
essere concepita solo se alternativa all’erogazione di servizi
pubblici alla cittadinanza.
1. La garanzia del minimo vitale non equivale a un reddito
minimo universale
Buona parte degli equivoci legati al dibattito politico italiano è generata da un’assenza di chiarezza terminologica e deinitoria dello strumento proposto. A questa
assenza di chiarezza corrisponde una confusione di istituti e di pratiche che hanno
in comune soltanto l’obiettivo di garantire la “libertà dal bisogno”, ma che in realtà
hanno un impatto assai diverso tanto sull’economia quanto sulla inanza pubblica. I
fautori di questo strumento sogliono parlare alternativamente di “reddito di cittadinanza”, “reddito minimo”, “reddito universale di base”, “reddito minimo garantito” o “reddito di inserimento” come se si trattasse di sinonimi, senza mai darne
una deinizione precisa, ma anzi spesso mescolando caratteristiche proprie e improprie dell’istituto, ossia assimilandolo ora a una misura di integrazione di reddito
da lavoro, ora a una prestazione incondizionata da erogare a qualsiasi cittadino o
addirittura solo a un residente in quanto persona. Da quale deinizione partire?
1 Reddito di cittadinanza, primo sì dal Parlamento europeo, dal blog www.beppegrillo.it,16 giugno 2015.
2 Cf. C. Tripodina, Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa. Sui fondamenti costituzionali del
reddito di cittadinanza, Torino, 2013.
Giovanni Boggero è dottore di ricerca in diritto costituzionale
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Giovanni Boggero
Occorre partire dal presupposto che un conto sono misure per la sussistenza o per il sostegno al reddito da lavoro, che garantiscono il raggiungimento di un cd. “minimo vitale” ai
lavoratori più poveri e bisognosi o comunque ad alcune categorie di persone in condizioni
di disagio, e un altro sono le misure con le quali si inanziano tutti gli individui di uno Stato
con somme isse erogate tramite i proventi della tassazione, senza accertare il loro stato
di bisogno o la loro condizione economica e patrimoniale. È la diferenza nota anche nel
mondo anglosassone tra guaranteed minimum income o minimum-income benefit e unconditional basic income. Le più sommarie analisi comparatistiche paiono prescindere da questa
fondamentale distinzione e trattano misure da ricondurre ora all’uno e ora all’altro istituto
come se fossero fungibili, ingenerando così l’impressione che il “reddito di cittadinanza”
esista in tutta Europa, ma non in Italia. Tutto dipende invece da come deiniamo “reddito di
cittadinanza”. Se lo deiniamo come minimum-income benefit, e senza considerare altre forme di assistenza, l’Italia è senz’altro tra i fanalini di coda ma non è comunque sola, mentre se
lo deiniamo come unconditional basic income allora l’Italia è in buona compagnia, dato che
l’idea di un reddito garantito universale e assoluto a prescindere dalla situazione di bisogno
delle persone,3 per quanto afascini le sinistre di mezza Europa, inclusi intellettuali nostrani
come la sociologa Chiara Saraceno e il ilosofo del diritto Luigi Ferrajoli,4 è economicamente insostenibile e, se si fa eccezione per un paio di progetti pilota spermentati in Brasile, mai
è stata attuata su vasta scala in alcun Paese.5
1.1. L’esperienza in Europa: redditi minimi selettivi e mai incondizionati
A dire il vero, dunque, i due strumenti sopra menzionati sono mutualmente esclusivi e i
sostenitori dell’uno tendenzialmente rigettano l’altro.
Ad esempio, se il reddito di base incondizionato fosse davvero già realtà in tutti i Paesi
dell’Unione europea non si capirebbe come mai in Germania il partito ecologista dei Grüne
e il partito della sinistra Die Linke lottino da anni proprio contro le forme che assicurano
un minimo vitale a una certa categoria di cittadini (ALG II o Hartz IV), perché accusate di
contribuire alla “precarizzazione” dell’esistenza e siano invece a favore dell’introduzione
di un reddito di base per tutti i residenti nella Repubblica federale (bedingungsloses Grundeinkommen o BGE) che sostituisca ogni altra prestazione sociale. In Germania, Hartz IV
è stato concepito durante il secondo governo di Gerhard Schröder per accorpare due
sussidi diversi: il sussidio di disoccupazione (Arbeitslosenhilfe) e il sussidio sociale (Sozialhilfe).
Tuttavia, non ogni altra prestazione sociale è stata accorpata nel sussidio Hartz IV, visto che
rimangono pur sempre in vigore l’Arbeitslosengeld, il classico sussidio di disoccupazione e
altri sussidi sociali di invalidità. Peraltro, lo schema di reddito minimo è completato da altre
due misure: la garanzia di sussistenza di base per le persone anziane o per le persone con
ridotte capacità lavorative, versato qualora non sussistano i requisiti di Hartz IV e il cd. aiuto per il sostentamento, prestazione residuale che viene erogata qualora non sussistano i
requisiti per gli altri due sussidi. Ma il nodo principale è la condizionalità. Il sussidio Hartz IV
3 Tra i principali sostenitori del reddito di base incondizionato vi sono P. Van Parijs and Y. Vanderborght,
Il reddito minimo universale; trad. italiana di G. Tallarico, Milano: Università Bocconi, 2006.
4 C. Saraceno, “Prefazione”, in: P. Van Parijs and Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale; trad. italiana di G. Tallarico, Milano: Università Bocconi, 2006; L. Ferrajoli, Principia Iuris. Teoria del diritto e della
democrazia, Roma-Bari, 2007.
2
5 Cf. Perotti e T. Boeri, “Reddito di cittadinanza e reddito minimo garantito”, in www.lavoce.info, 5
marzo 2013.
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“Reddito di cittadinanza”: un’alternativa, non un obbligo
di circa 400 euro al mese, che con le spese di aitto e riscaldamento e i contributi sociali
arriva a circa 750 euro (senza contare i bonus per ciascun iglio), è erogato a persone tra
i 15 e i 67 anni che siano ritenute abili al lavoro (erwerbsfähig), che continuino a cercarlo e che non riiutino le proposte di lavoro loro oferte dall’Agenzia federale del lavoro
(Bundesagentur für Arbeit), pena l’irrogazione di sanzioni piuttosto severe: il sussidio viene
decurtato del 30 percento nel caso di una prima infrazione; nel caso di reiterata infrazione
del 60 percento, mentre al terzo episodio di violazione dei patti con l’Agenzia federale il
sussidio viene revocato.
In altre parole, per quanto esso sia sotto accusa per aver creato una classe di persone dipendenti a vita dai sussidi statali, l’obiettivo originario di Hartz IV non era certo di legare
indeinitamente una pletora di individui alla mangiatoia pubblica, erogando loro un assegno
per il mero fatto di essere su questa Terra.6 La pretesa di alcuni accademici italiani di slegare
del tutto dal “fattore lavoro” la corresponsione del reddito minimo è quindi destinata a
infrangersi contro il muro della sua insostenibilità economica. Delle due l’una: o si vuole un
reddito minimo, la cui erogazione è legata a condizioni ben precise e allora tra queste condizioni dovrà esservi la disponibilità alla ricerca di lavoro da parte del percettore di denaro
pubblico oppure si vuole un reddito di base privo di condizioni da erogare a chiunque e
allora non si dovrà veriicare che il beneiciario cerchi lavoro, né fare in modo che l’entrata
issa che gli viene corrisposta eviti di scoraggiare il lavoro part-time e occasionale. Viceversa,
la dottrina giuridica italiana più recente tende a mescolare elementi dell’uno e dell’altro
schema, proponendo che tra le condizioni non igurino né sanzioni ispirate al principio di
proporzionalità, né l’obbligo di accettare una proposta di lavoro oferta tramite i centri per
l’impiego e che la prestazione in denaro possa essere corrisposta anche per lavori cosiddetti non produttivi o socialmente utili.7 È evidente che un annacquamento delle condizioni
issate dalla legge faccia oscillare il pendolo verso la soluzione del reddito di base con entrata issa e non verso la soluzione tedesca del minimo vitale.
Non diverso da quello vigente in Germania è il quadro normativo in altri Stati membri
dell’UE. Innanzitutto, in Francia, dove il revenu minimum d’insertion (RMI) è stato sostituito
nel 2009 e accorpato con un’altra prestazione sociale, l’indennità di congedo parentale
(API), dal revenu de solidarité active (RSA). Questo schema, sebbene risulti economicamente più generoso di Hartz IV, non ha nulla a che fare con un reddito di base incondizionato,
visto che decresce all’aumentare del reddito: per i cittadini single è azzerato a partire da un
reddito di 15.000 euro e per le coppie a partire da un reddito di 30.000 euro.8 In questo
6 Meno ediicante è l’esperienza dei cd. “1-Euro-Jobber”, quei percettori del sussidio sociale Hartz IV ai
quali vengono formalmente oferte attività di reinserimento nel tessuto produttivo o lavori socialmente utili in cambio di risibili indennità per 1,5 euro l’ora. Il beneiciario non instaura formalmente alcun
rapporto di lavoro con un’impresa, ma di fatto è come se venisse assunto. In questo modo migliaia di
piccole e medie imprese possono godere di manodopera a buon mercato pagata dallo Stato, senza
che tali attività abbiano alcun impatto rilevante sul reinserimento delle persone nel mercato del lavoro. Cf. K. Hohmeyer, J. Wolf, A Fistful of Euros: Does One-Euro-Job Participation Lead Means-Tested Benefit Recipients Into Regular Jobs and Out of Unemployment Benefit II Receipt?, Institute for Employment
Research (January 2008) LASER Discussion Papers – Paper No. 13.
7 C. Tripodina, cit., 231-239; F. Pizzolato, Il minimo vitale. Profili costituzionali e processi attuativi, Milano,
2004, 102; G. Prosperetti, Dall’art. 3 all’art. 35 della Costituzione, Relazione, G. Bronzini, Il reddito di
cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Torino, 74.
8 A. Garnero, “Reddito minimo alla francese”, in www.lavoce.info, 13 gennaio 2009.
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senso, l’erogazione del sussidio funziona secondo il modello di imposta negativa sul reddito
proposto da Milton Friedman ed è pari alla diferenza tra il reddito minimo standard e il
reddito efettivo, su cui torneremo. Il pregio di una tale soluzione sta nella sua automaticità,
che evita al beneiciario dell’assegno di dover dimostrare il proprio stato di bisogno all’amministrazione. Anche in Francia, quindi, il riconoscimento di un minimo vitale è strettamente connesso ad un preciso sistema di incentivi e al soddisfacimento di requisiti quali l’abilità
al lavoro e, almeno in teoria, alla disponibilità dei percettori di accettare oferte di lavoro.
Si consideri, poi, il caso del Regno Unito, nel quale il partito ecologista propaganda da anni
l’introduzione di un Basic Income, ma è in vigore soltanto il cd. Income Support, un sussidio
simile agli omologhi francesi e tedeschi che va dalle 200 alle 300 sterline al mese a seconda
di età e status familiare ed è versato a coloro i quali dimostrino di vivere sotto la soglia di
povertà. Chi, infatti, tra i 16 anni e l’età pensionabile, lavora più di 16 ore alla settimana e ha
risparmi per una cifra superiore alle 16.000 sterline non può percepire l’assegno, mentre
la sua erogazione è decrescente a partire dalle 6.000 sterline di risparmi. Accanto al Basic
Income, vanno ricordati anche i Working Tax Credits, integrazioni del reddito per coloro che
lavorano almeno trenta ore a settimana e hanno un imponibile piuttosto basso. A partire
dal 2017, le diverse prestazioni sociali esistenti dovrebbero essere accorpate in un unico
sussidio, chiamato Universal Credit, che tuttavia non ha nulla a che fare con un reddito di
base universale e incondizionato, ma continuerà a seguire la ilosoia pro workfare degli
strumenti in vigore oggi.
Anche in Spagna non esiste nessuna “renta basica universal” come l’avrebbe voluta, in
un programma iniziale, il nuovo partito populista Podemos, ma esistono diversi schemi di
redditi minimi di inserimento molto bassi, ossia ampiamente al di sotto della soglia del 60
percento del reddito mediano, erogati dalle Comunità Autonome e non dallo Stato centrale. Di esperimenti a livello regionale e locale, d’altra parte, se ne sono visti anche in Italia,
da ultimo quello varato in Friuli-Venezia Giulia (legge 10 luglio 2015, n. 15) e prima ancora,
ex multis, nel Lazio (legge 20 marzo 2009 n. 4), in Campania (legge 19 febbraio 2004 n. 2),
Toscana (24 febbraio 2005, n. 41), Abruzzo (legge 18 giugno 2013, n. 16) e Basilicata (legge
19 gennaio 2005 n. 3). Quindi, a rigor di logica, anche la Spagna andrebbe annoverata tra i
Paesi privi di una formula univoca di reddito minimo garantito, alla stregua di Italia e Grecia.
Stessa cosa dicasi della Croazia, che ha aderito all’Unione europea nel 2013, ma ancora non
prevede alcuna forma di reddito minimo garantito.
4
Anche in tutti gli altri Paesi dell’Unione europea, i diferenti schemi approntati si rifanno a
un’idea di minimo vitale means-tested e non universale, talora limitata al permanere delle
condizioni di bisogno, di norma assegnato ai residenti maggiorenni e non solo ai cittadini,
il cui importo è da parametrare non solo al 60 percento del salario mediano dello Stato,
che è considerata la soglia di rischio-povertà, ma da bilanciare anche con la posizione dei
lavoratori a basso reddito (in particolar modo qualora esista un salario minimo) e al livello
degli altri contributi sociali, in particolare quelli di disoccupazione. A questo proposito, va
ricordato che solo pochi Paesi garantiscono un reddito minimo pari al 60 percento del
reddito mediano. Al contrario, quasi in ogni Stato membro UE la legge issa l’importo a
una soglia più bassa, per non disincentivare del tutto i lavoratori a basso reddito o per non
disincentivare la ricerca di lavoro da parte di chi abbia già percepito per un certo periodo il
sussidio di disoccupazione. Anche includendo le integrazioni per l’alloggio e il riscaldamento, solo Regno Unito, Irlanda, Danimarca e Olanda assicurano il già menzionato standard
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“Reddito di cittadinanza”: un’alternativa, non un obbligo
del 60 percento.9
Peraltro, in alcuni Paesi il regime di condizionalità è più rigido (obbligo di cercare e accettare
un’oferta di lavoro), in altri è più lessibile (obbligo di partecipare a corsi di formazione), a
seconda della categoria di persone (giovane o anziano, disoccupato di lungo corso o meno
ecc.) che percepisce il sussidio. Nella maggior parte dei Paesi europei, poi, il reddito minimo
è un sussidio soltanto residuale, cui si può accedere soltanto dopo averne percepiti altri.
Nei Paesi dove è più lessibile, come Olanda e Danimarca ad esempio, il reddito minimo
garantito tende ad essere assimilato alle forme di reddito di base e può più facilmente essere qualiicato come “sussidio all’ozio”. Ciascuno Stato membro UE disciplina in maniera
alquanto eterogenea la materia ed è quindi diicile paragonare un ordinamento all’altro,10
anche se può ravvisarsi una certa convergenza verso un “modello sociale europeo”, in base
al quale i sussidi per l’assistenza sociale vengono progressivamente accorpati in un’unica
prestazione inalizzata al sostegno al reddito e alla garanzia della sussistenza, senza che
l’obiettivo di evitare fenomeni di dipendenza cronica sia abbandonato.
1.2. Le proposte di legge giacenti in Parlamento: reddito minimo o di base?
Parzialmente diversi dalla prassi europea qui sopra esaminata sono i disegni di legge del
M5S (Movimento 5 Stelle) e le proposte di legge del PD e del gruppo parlamentare di
SEL (Sinistra, Ecologia, Libertà).11 Tutte le proposte, per quanto si ispirino al modello di un
reddito selettivo e non universale, issano condizioni piuttosto morbide che rischiano di
avvicinare lo strumento al modello del reddito di base.
La proposta grillina stabilisce un reddito minimo standard di 780 euro al mese per tutti i residenti in Italia da almeno ventiquattro mesi, che corrisponde sì al 60 percento del reddito
mediano della Repubblica, ma è ben al di sopra della soglia di povertà relativa, che secondo
l’ISTAT nel 2013 ammontava a circa 580 euro in caso di un solo componente il nucleo familiare, e che rischia quindi di non avere adeguate coperture, specie se si considera che le
coperture previste dalla proposta sono, talune, di diicile attuazione perché già dichiarate
incostituzionali dalla Corte – dalle pensioni d’oro alla Robin Tax – altre eccessivamente ottimiste nella stima, dalle tasse sul gioco al settore bancario e assicurativo. Il sussidio, peraltro,
viene corrisposto senza tenere conto di alcuna soglia patrimoniale e mescola iniquamente
lo schema a base individuale e quello a base familiare.12 Senza contare che i beneiciari del
sussidio possono riiutare le oferte di lavoro per ben tre volte senza alcun tipo di sanzione,
né vengono previste adeguate oferte formative o di reinserimento nel tessuto produttivo.
9 Si vedano i dati e il commento in: H. Immervoll, Minimum-Income Benefits in OECD Countries: Policy
Design, Effectiveness and Challenges, IZA DP. No. 4267, December 2009.
10 Così anche: S. Spattini, “Reddito minimo garantito e prestazioni sociali alternative in Europa”, in www.
bollettinoadapt.it, 19 dicembre 2011.
11 Si tratta delle proposte di legge: A.C. n. 1683 d’iniziativa del deputato Migliore e altri, presentata il
14 ottobre 2013 e A.C. n. 720 di iniziativa del deputato Leva e altri, presentata il 10 aprile 2013 e
dei disegni di legge n. 1148 di iniziativa del senatore Catalfo e altri, comunicato alla Presidenza il 29
ottobre 2013 e n. 1670 di iniziativa della senatrice De Petris e altri, comunicato alla Presidenza il 12
novembre 2014.
12 T. Boeri e P. Monti, “Reddito minimo a 5 Stelle: può funzionare?”, in www.lavoce.info, 19 novembre
2013.
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Il disegno di legge di SEL propone un reddito minimo garantito individuale di 600 euro al
mese, limitato nel tempo ma prorogabile, non cumulabile con altre prestazioni sociali e rivolto a persone in età non-pensionabile con un reddito imponibile inferiore a 8000 euro e
residenti in Italia da almeno ventiquattro mesi, periodo di tempo suiciente per evitare casi
di “turismo sociale”, come quelli che paiono talora veriicarsi in Germania, dove il sussidio
è garantito a partire dal terzo mese di residenza. Inoltre, la proposta prevede una delega al governo per il riordino degli ammortizzatori sociali in modo da evitare duplicazioni
nell’erogazione delle provvidenze e stabilisce l’immediata decadenza dal percepimento del
sussidio, nel caso in cui il beneiciario riiuti una congrua proposta di impiego oferta dai
centri. Restano tuttavia alcune perplessità: la mancata graduazione dell’importo sulla base
del reddito per non disincentivare il lavoro occasionale e part-time, il non meglio speciicato
contributo aggiuntivo per fronteggiare spese impreviste, in merito al quale non è stabilito
alcun limite massimo di importo e la sua cumulabilità con altri assegni; i criteri per valutare
la soglia patrimoniale, che paiono piuttosto vaghi e generosi, e i casi nei quali l’oferta di
lavoro può considerarsi non congrua. A quest’ultimo proposito, va detto che, se la congruità della proposta di impiego fosse valutata esclusivamente sulla base delle aspirazioni
personali del beneiciario, il reddito verrebbe a qualiicarsi come de facto incondizionato.
La proposta di legge sembra invece fare riferimento a criteri oggettivi, laddove stabilisce
che il centro per l’impiego deve tenere conto del salario precedente del soggetto interessato e della professionalità acquisita, della formazione ricevuta e del riconoscimento delle
competenze formali e informali. In ogni caso, la nozione di “congruità dell’oferta di lavoro”
non è nuova nella legislazione lavoristica, ma anzi trova già una deinizione nella legge, da
ultimo nella legge 28 giugno 2012 n. 92, e va tendenzialmente legata sia al compenso della
precedente occupazione, sia alla distanza del luogo di residenza dal posto di lavoro. Sulla
base della potestà legislativa concorrente in materia di tutela del lavoro di cui all’art. 117, co.
3 Cost., sono le Regioni a poter modiicare i requisiti. Per il resto, questa disposizione della
proposta di legge presuppone un alto livello di eicienza da parte dei centri per l’impiego, i
quali, complice la riforma delle Province e delle Città metropolitane ancora in piena fase di
attuazione, sono essi stessi in una fase di ripensamento e riorganizzazione.13 Più appropriato sarebbe poi graduare le sanzioni sul modello tedesco.
Inine, la proposta di legge di alcuni deputati del Partito Democratico, tra cui anche il Ministro per la sempliicazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia, issa un reddito
minimo garantito a 500 euro, per tutti i residenti maggiorenni con regolare permesso di
soggiorno da almeno trentasei mesi e con un ISEE inferiore a 6880 euro. L’importo può
essere incrementato di un terzo per ogni famigliare a carico e ha il pregio di essere più
vicino alla soglia di povertà assoluta che non al tasso di povertà relativa, scelto invece come
parametro dal M5S. La scelta della soglia non è questione da poco e incide inevitabilmente
anche sul costo complessivo dell’operazione che, secondo l’ISTAT, si aggira intorno ai 15
miliardi nella proposta del M5S e 23 in quella di SEL, dal momento che in quest’ultimo
caso non si riduce al crescere del reddito familiare. Non vi sono numeri disponibili, invece,
con riferimento alla proposta dei parlamentari del PD, che pare insomma abbandonata.14
A diferenza della proposta di SEL, il reddito minimo del PD è pensato come una misura
temporanea (12 mesi + 12 mesi di eventuale proroga) e prevede obblighi di formazione
precisi, anche se nulla stabilisce in tema di disponibilità del beneiciario alla ricerca attiva di
13 V. sul punto A. Giuricin, Eliminare le Province. Alcuni consigli per procedere spediti, IBL Brieing Paper n.
129, 2 dicembre 2013.
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14 ISTAT, Audizione del Presidente dell’Istituto Nazionale di Statistica – Giorgio Alleva, Roma, 11 giugno 2015.
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“Reddito di cittadinanza”: un’alternativa, non un obbligo
lavoro e prevede in maniera alquanto vaga che la decadenza dal percepimento del sussidio
non operi nel caso in cui i centri per l’impiego non ofrano proposte di lavoro congrue.
2. Non “ce lo chiede” né la Costituzione, né l’Europa
Come emerge dall’analisi delle proposte in Parlamento, al di là della rubrica e dei nomi, la
diferenza tra reddito di base incondizionato e garanzia di un reddito minimo sta e starà, in
concreto, nella più o meno stringente previsione di limiti e controlli e veriiche delle condizioni necessarie per ottenere e mantenere l’assegno. Anche laddove lo si volesse chiamare
reddito minimo, sarebbe suiciente una regolamentazione a maglie larghe per renderlo
una forma assistenziale generale e priva di controllo.
Sgombrato comunque il campo dall’equivoco ingenerato dalla confusione tra reddito di
base incondizionato e garanzia di un reddito minimo, occorre ora brevemente interrogarsi
se esista un obbligo costituzionale e/o europeo a introdurre nel nostro ordinamento tale
garanzia.
Partendo dal diritto dell’UE, occorre sottolineare come anche i più convinti assertori del
reddito minimo garantito abbiano qualche diicoltà a sostenere la tesi che esistano norme
con una qualche cogenza che obblighino l’Italia a mettere mano alla propria legislazione
sociale al ine di accorpare i sussidi sociali attualmente in vigore in un unico assegno su base
individuale o familiare qualora vi siano particolari condizioni di bisogno. Nello speciico, il
più volte richiamato art. 34, co. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
in base al quale l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale in quanto volto a
garantire un’esistenza dignitosa a coloro che non dispongono di risorse suicienti, non fonda alcuna nuova competenza a legiferare in materia, ma al massimo impone che l’Unione si
astenga dal legiferare in maniera contraria al sopracitato diritto, così come le legislazioni e
le prassi nazionali lo intendono. Che il diritto a un reddito minimo sia diventato un diritto
fondamentale perché solennemente proclamato nell’art. 34 della Carta è quindi una forzatura bella e buona della lettera del trattato. L’assistenza sociale volta a garantire un’esistenza
dignitosa non passa in maniera obbligata per uno strumento preciso, ma è subordinata
all’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui godono i legislatori nazionali.
Che l’Unione non goda di alcuna competenza in materia è poi chiarito dall’art. 153 TFUE,
in base al quale essa si limita a sostenere e completare l’azione degli Stati membri in settori
tra i quali igura anche la lotta all’esclusione sociale. In particolare, il Parlamento europeo e il
Consiglio possono adottare delle misure che favoriscono la cooperazione tra Stati membri,
lo scambio di informazioni e migliori prassi, ma senza che ciò risulti in proposte di armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Più nello speciico,
proprio in materia di lotta all’esclusione sociale, l’Unione non può approvare direttive con
le quali si adottino le prescrizioni minime applicabili progressivamente. In altre parole, il diritto dell’UE riserva alla competenza esclusiva degli Stati membri di deinire i propri sistemi
di sicurezza sociale. Tutto ciò che il Parlamento europeo ha quindi potuto fare sinora è
raccomandare gli Stati membri tramite atti non vincolanti quali risoluzioni e raccomandazioni a la previsione di meccanismi di reddito minimo garantito, mentre il reddito di base
incondizionato per tutti è stato derubricato a ipotesi sulla quale la Commissione dovrebbe
svolgere un’analisi di eicacia. Alla luce di ciò, stupisce allora che le sinistre europee abbiano
lanciato di recente la cd. “European Citizens’ Initiative for Unconditional Basic Income”,
una petizione popolare dei cittadini europei per imporre all’Unione europea l’adozione di
un reddito di base incondizionato. Infatti, stando all’art. 227 TFUE, la petizione dei cittadini
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europei può essere rivolta al Parlamento europeo in una materia che rientra tra quelle di
competenza dell’Unione. Come abbiamo appena visto, non è questo il caso del reddito
minimo garantito e tantomeno di quello di base. La petizione, qualora venisse irmata da
un milione di cittadini dell’Unione, non avrebbe altro efetto se non quello di costringere la
Commissione europea ad esaminare la proposta e il Parlamento ad esprimersi, eventualmente, con l’ennesima raccomandazione.
Per quanto riguarda, invece, quei costituzionalisti che sostengono che l’introduzione del
reddito minimo garantito sarebbe quantomeno da considerarsi una misura costituzionalmente necessaria, occorre esaminarne le argomentazioni. Innanzitutto, essi considerano
che il combinato disposto degli artt. 2, 3, 4 e 38 della Costituzione stabilisca il diritto di
una persona e non solo del lavoratore o dell’inabile al lavoro a vedere assicurata la propria
esistenza qualora si trovi in condizioni di debolezza sociale ed economica. In questa categoria rientrano senz’altro le persone in stato di povertà assoluta (circa 4 milioni, secondo
le ultime indagini ISTAT), che non possono permettersi nemmeno di acquistare il minimo
indispensabile per vivere. Come ha riconosciuto anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 10/2010, la garanzia dell’esistenza sarebbe dunque costituzionalmente necessaria.15 Fin qui, davvero poco da dire. Molto più opinabile è, invece, l’equazione stabilita tra
garanzia dell’esistenza così come desunta dalle disposizioni costituzionali sopra menzionate
e reddito minimo garantito, ossia afermare che una legge sul reddito minimo garantito sia
una legge costituzionalmente necessaria, quasi che al legislatore non fosse lasciata discrezionalità alcuna nella scelta dello strumento o degli strumenti che assicurino un’esistenza
libera e dignitosa a chi fosse rimasto privo di lavoro per un periodo prolungato e si trovasse
in condizione di bisogno. Ad oggi, l’ordinamento italiano conosce una serie frammentata
di misure, tutte però egualmente intese a garantire lo ius existentiae. Tra queste occorre
ricordare l’assegno sociale (legge 8 agosto 1995, n. 335) e la cd. social-card per minori e
anziani (D.L. 25 giugno 2008 n. 112, convertito con modiicazioni dalla legge 6 agosto 2008,
n. 133), evolutasi poi nella cd. carta acquisti e nel SIA o Sostegno per l’Inclusione Attiva (D.L.
9 febbraio 2012 n. 5, convertito in legge 4 aprile 2012 n. 35 e legge 27 dicembre 2013,
n. 147). Seguendo l’esempio tedesco dell’Existenzminimum, anche la no-tax-area, ossia il
limite di reddito imponibile al di sotto del quale non si debbono pagare le imposte (in
Italia pari a 8000 euro per i lavoratori dipendenti e assimilati, a 4800 euro per i lavoratori
autonomi), rappresenta uno strumento importante di garanzia del diritto a un’esistenza
libera e dignitosa. Allo stato attuale, comunque, non esiste una misura per una platea più
vasta di persone o di cittadini in stato di bisogno, a parte, per il solo 2015, il cd. ASDI che,
a dispetto del nome “assegno di disoccupazione”, può essere percepito per un massimo
di sei mesi da coloro i quali non soddisino più i requisiti per ottenere il sussidio di disoccupazione (NASPI), ma si trovino comunque in una situazione di bisogno (art. 16 del D.lgs. 4
marzo 2015, n. 22). Il reddito minimo garantito potrebbe quindi supplire a questa carenza
dell’ordinamento, ma non possono essere escluse altre prestazioni selettive e categoriali,
monetarie o anche in natura di beni di prima necessità (cibo, indumenti, casa, trasporti). Il
reddito minimo garantito è quindi certamente conforme a Costituzione, ma pare franca-
8
15 Corte Costituzionale, sentenza n. 10/2010, Punto 6.4. del Considerato in Diritto, in base alla quale «una
normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana, qual è quella
oggetto delle disposizioni impugnate, benché incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza
di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali
degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, secondo comma, lettera m),
Cost.».
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“Reddito di cittadinanza”: un’alternativa, non un obbligo
mente forzato considerarlo anche costituzionalmente obbligatorio,16 visto che altre prestazioni potrebbero rispondere – e già rispondono – allo stesso indispensabile obiettivo di
garanzia. In altre parole, è costituzionalmente necessario garantire per legge provvidenze
che assicurino un’esistenza libera e dignitosa agli indigenti. Su quali siano i mezzi più idonei
decide in ultima istanza il legislatore.
Quel che è certo è tuttavia che la Costituzione italiana, nella sua impostazione lavoristica,
non ofre alcun assegno in bianco all’ozio, come pure taluni afermano.17 In particolare, per
sostenere la conformità a Costituzione anche di un reddito incondizionato, è stato sostenuto che, di fronte all’irrealizzabilità delle politiche di piena occupazione di cui la Costituzione
repubblicana costituiva una generosa promessa, sarebbe oggi pur sempre possibile individuare norme costituzionali volte ad assicurare lo ius existentiae a prescindere dall’attitudine
di un individuo a svolgere un lavoro. Un discorso approfondito circa l’interpretazione originalista e a un tempo sistematica della Costituzione ci porterebbe lontano. Qui basti dire
che il combinato disposto dei sopracitati articoli si riferisce ai casi di cittadini che si trovino
in uno stato di debolezza sociale ed economica, il che fa quindi pensare che tale condizione
di bisogno debba essere limitata nel tempo. Strumenti quali il reddito minimo devono cioè
assicurare la sussistenza e sostenere il reddito senza disincentivare il lavoro, né contraddire quelle politiche di workfare atte a consentire che una persona possa reinserirsi quanto
prima nel mercato del lavoro. L’idea per cui “il lavoro non c’è”, ovvero che la promessa (?)
del Costituente di creare lavoro per tutti non sarebbe stata mantenuta e che quindi oggi il
legislatore sarebbe chiamato a creare una categoria di sussidiati a vita mescola determinismo e socialismo.
Innanzitutto, la Costituzione stabilisce che debba essere lo Stato a procurare materialmente lavoro ai propri cittadini (a tal proposito, sono state scritte molte pagine sull’interpretazione dell’art. 1 Cost.). L’impostazione lavoristica della Costituzione e il ruolo ancillare
dell’assistenza sociale non possono quindi essere snaturati sulla base dell’idea pur in voga
secondo la quale la disoccupazione è una costante invariabile con cui dover fare i conti. Essi
mantengono, invece, oggi immutato il loro originario valore. Per questa ragione, se è vero
che un reddito minimo garantito sarebbe senz’altro conforme a Costituzione, non altrettanto potrebbe dirsi per un reddito di base incondizionato.
Diverso è poi il caso di chi è inabile al lavoro, ed ha quindi diritto, in un’ottica solidaristica del
sistema anche previdenziale italiano, a misure anche temporanee quali gli assegni sociali, le
pensioni e gli assegni di invalidità e accompagnamento, l’indennità di frequenza per i minori
invalidi. Si tratta, tuttavia, di ipotesi speciiche condizionate all’esistenza o al sopraggiungere
di una condizione involontaria nella vita di una persona che le rende impossibile o ridotta
una capacità lavorativa.
16 Così, tuttavia, C. Tripodina, op. cit., 241 e sgg.
17 Ibidem, 132 e sgg.
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Giovanni Boggero
3. Conclusioni
L’Italia non è l’unico Paese europeo a non aver ancora introdotto un reddito minimo garantito su base nazionale. Se, oltre a Spagna, Croazia e Grecia, si contano anche diversi Paesi
dell’Est Europa, nei quali il sussidio ammonta a una cifra al di sotto della soglia di povertà e
si considera che l’assistenza sociale in Svezia e Finlandia non passa attraverso l’erogazione
di un reddito minimo, ma attraverso altre provvidenze si può concludere che il quadro è
in realtà molto variegato e la lotta all’emarginazione sociale è condotta secondo modalità
diverse Stato per Stato. Senz’altro, nessuno dei 28 Stati membri dell’UE conosce una forma
di reddito di base incondizionato, che è molto costosa per le casse dello Stato e deleteria
per la propensione al lavoro dei cittadini.
Quel che più conta, tuttavia, è che già in Italia esistono forme assistenziali che necessariamente debbono essere considerate come alternative al reddito minimo garantito. Non è
quindi corretto sostenere che l’Italia è maglia nera in Europa senza voler considerare che
aiuti all’indigenza e alle situazioni di bisogno possono e sono già dati con altri strumenti,
quali indennità di disoccupazione, assegni di invalidità e accompagnamento e gli altri sopra
menzionati, nonché l’accesso gratuito ai servizi di welfare, come istruzione, sanità, trasporti.
Ciò in piena sintonia, peraltro, con la Costituzione italiana, la quale garantisce il diritto ad
un’esistenza libera e dignitosa non soltanto al lavoratore, ma a qualunque persona, cittadina o residente nel nostro Paese. Tale garanzia costituzionale si sostanza in un diritto
all’assistenza sociale non incondizionato e che nemmeno obbliga il legislatore ad adottare
un reddito minimo garantito, ma che al massimo gli impone di individuare misure speciiche rientranti nei livelli essenziali delle prestazioni inerenti l’esercizio dei diritti sociali al
ine di combattere l’esclusione e l’emarginazione sociale. Tali provvidenze potranno essere
improntate a una concezione maggiormente universalista oppure selettiva del sussidio, distinguendo tra categorie diverse di beneiciari e individuando un regime di condizionalità
che gradui supporto e sanzioni.
Quel che è diicile mettere in discussione, è che i due metodi – assegnazione di un reddito
minimo garantito o erogazione di servizi sociali e forme di assistenza speciica – debbono
essere considerati alternativi, dal momento che si tratta solo di forme diverse nel modo
ma univoche nel risultato di attuare gli impegni che uno Stato sociale ha deciso di assumere
su di sé.
È proprio quest’alternatività che rende inattendibile la facile comparazione da cui l’Italia
risulterebbe inadempiente, ed è proprio da quest’alternatività che bisognerebbe avviare la
scelta se mantenere forme diverse, settoriali e speciiche di assistenza, compreso l’accesso
gratuito ai servizi, o se introdurre un reddito minimo garantito che in via universale si sostituisca a queste.
10
Una scelta non indiferente che potrebbe portare anche, a ben vedere, a preferire un
reddito minimo, una sorta di «voucher» onnicomprensivo che riduca l’intermediazione
politica e amministrativa nella distribuzione delle risorse per i servizi sociali e nella decisione
di dove, come e a chi assegnarle: in deinitiva, nella politica di welfare State. In questo senso
può essere compresa la rilessione di Hayek sul reddito minimo: partendo dal presupposto
della opportunità di forme di intervento a sostengo di chi non può provvedere a se stesso,
Hayek riteneva infatti preferibile un sostegno in denaro piuttosto che in servizi, come forma – solo supericialmente paradossale – di minimizzazione dell’intervento pubblico e di
libertà dall’ingerenza del decisore pubblico nel decidere quale sia e come si debba attuare
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“Reddito di cittadinanza”: un’alternativa, non un obbligo
la «giusta» distribuzione delle risorse.18
Una simile preoccupazione di eliminare oneri e arbitri burocratici e politici si riscontra
anche nell’idea di un’imposta negativa sul reddito teorizzata da Milton Friedman, secondo
cui i percettori di un reddito sotto una soglia minima possono beneiciare di una somma
equivalente a una percentuale della diferenza tra quanto efettivamente percepito tale
soglia. Una proposta di cui Friedman stesso non nascose le implicazioni negative, in particolare «[v]i sarebbe quindi il pericolo che un meccanismo in virtù del quale una consistente
maggioranza degli elettori si tassa al ine di aiutare una minoranza meno fortunata inisca
con il tramutarsi in un sistema che permette a una maggioranza di imporre per il proprio
beneicio tasse su una minoranza recalcitrante».19
L’impostazione lavoristica della Costituzione e in particolare l’obbligo di ciascun cittadino di
partecipare al progresso materiale e spirituale della comunità, invece, impediscono l’approvazione di un reddito di base universale e incondizionato.
Inine, i dati di Eurostat risalenti al 201320 mostrano che l’esistenza di un reddito minimo garantito non è automaticamente indice di tassi più contenuti di povertà (Bulgaria, Romania,
Lettonia, Lituania, Ungheria, Irlanda, Cipro e Portogallo sono sopra la media UE), mentre
l’assenza di un reddito minimo garantito non si accompagna necessariamente a percentuali
di povertà relativa molto più allarmanti rispetto a Paesi che hanno introdotto questo tipo di
sussidio. A questo proposito, occorre sottolineare come sia impossibile veriicare quale sia
la spesa per esclusione sociale nei singoli Paesi, dal momento che la voce “social exclusion
& housing nec” è un reisiduo contabile che include spese eterogenee (per l’appunto “not
elsewhere classiied”) e non è quindi un indicatore aidabile per stabilire il tasso di spesa
contro l’esclusione sociale. In conclusione, si può sostenere che in Paesi come Italia, Spagna
e Grecia sono misure di politica sociale diverse, che risultano in una spesa sociale complessivamente molto generosa (rispettivamente al 29,9%, 25,7%, 29,1% del PIL), a mantenere
la povertà entro limiti non superiori alle dinamiche della povertà di Paesi che invece assicurano il reddito minimo garantito.21
18 F. von Hayek Law, legislation and Liberty, Vol. III: The Political Order of a Free People, University of Chicago
Press, 1979, 55.
19 M. Friedman, Capitalismo e libertà, IBL Libri, 2010, p. 288. Per una prima e compiuta critica a tale
proposta v. H. Hazlitt, Man vs. The Welfare State, New Rochelle, NY, 1969, pp. 84-100.
20 EUROSTAT – European Commission, European Social Statistics, 2013 Edition, ISSN 1977-7930.
http://ec.europa.eu/eurostat/documents/3930297/5968986/KS-FP-13-001-EN.PDF/6952d8367125-4f5-a153-6ab1778bd4da
21 Così già: S. Spattini, Ancora su salario e reddito minimo, in www.bollettinoadapt.it, 10 maggio 2013.
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Chi Siamo
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