Academia.eduAcademia.edu

Le prime relazioni tra Giappone ed Italia nel XVI secolo.pdf

Sebbene la storiografia ufficiale consideri il 1585 l'anno in cui i primi Giapponesi giunsero in Italia, in realtà già 30 anni prima si ha notizia di un giovane convertito di Kagoshima, in visita alla Città Eterna ove giunse dopo un viaggio di due anni. Particolarmente interessante il diario del giovane fiorentino Francesco Carletti, che soggiornò in Giappone quasi un anno, da Giugno del 1597 al mese di Marzo 1598.

Le prime relazioni tra Giappone ed Italia nel XVI secolo di Costantino Brandozzi KORYUKAI ARTI GIAPPONESI A PALAZZO RIZZINI DIMOSTRAZIONI - CONFERENZE - CINEMA - MOSTRE Introduzione Ricorre quest’anno il 150° Anniversario del Trattato di Amicizia e di Commercio irmato il 25 Agosto 1866 tra il Giappone e l’Italia. Data senza dubbio storica, ma che non è stata l’inizio dei contatti tra i nostri popoli, le nostre culture. Già 300 anni prima i due Mondi ebbero occasione di interagire, di conoscersi, grazie ai primi padri gesuiti italiani che giunsero in Giappone, spinti dal proselitismo missionario, dopo che Francesco Saverio sbarcò a Kagoshima il 15 Agosto del 1549. Fra i vari missionari gesuiti italiani mi corre il dovere di ricordare innanzitutto Padre Organtino Gnecchi Soldo. Nato nel 1532 a Casto, località della Val Sabbia nel Bresciano, ha soggiornato in Giappone dal 1570 ino alla sua morte nel 1609; visse prevalentemente a Kyōto, nella quale ebbe modo di farsi apprezzare ed amare, chiamato Urugan Bateren, come riportato nell’opera Kirishitan Monogatari del 16391. E poi, Padre Alessandro Valignano, di Chieti; dal 1576 al 1606 Superiore, cioè supervisore, di tutte le missioni cattoliche in Estremo Oriente, colui che nel 1582 inviò padre Matteo Ricci in Cina. Arrivato in Giappone nel luglio del 1579, dopo due anni il Valignano scrisse in portoghese un manuale sul corretto comportamento da tenere nei rapporti con i Giapponesi e sull’etichetta in genere; pubblicato e tradotto in italiano nel 1946, con il titolo “Il cerimoniale per i missionari del Giappone”2, denota una profonda conoscenza dell’animo e dei costumi nipponici. Non mi dilungherò oltre sulla vita e sulle opere del Superiore gesuita e mi limito a segnalare al riguardo la pregevole pubblicazione di Vittorio Volpi3 del 2004. Contatti umani, quindi, non solo di Italiani in Giappone, ma anche di Giapponesi in Italia. Degna di menzione è l’ambasceria di quattro giovani nobili giapponesi, battezzati, che nel 1585 resero visita al Ponteice di Roma4. Organizzata proprio dal Valignano, la missione era guidata da Padre Diogo de Mesquita ed i 1. Urugan Bateren. Organtino Gnecchi Soldi, sacerdote gesuita (15321609) apostolo di Miyako e secondo padre della cristianità giapponese. Sandro Carminati. (Pubblicazione prodotta con il contributo del Comune di Casto/Brescia in occasione del quattrocentesimo anniversario della morte di Organtino Gnecchi Soldi) ad opera dei Padri Saveriani. Ferroedizioni, Milano 2009. 2. Advertimentos e Advisos acerca dos costumes e katangues de Jappao. Il Cerimoniale per i missionari del Giappone. Giuseppe Fr. Schutte S.J. – Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1946. 3. Il Visitatore, un testimone oculare nel misterioso Giappone del XVI Secolo – Vittorio Volpi, Edizioni Piemme S.p.A. – 2004. 4. Relatione del Viaggio et Arrivo in Europa et Roma de’ Principi Giapponesi – Paolo Meietto, Venezia, 1585. 1 componenti della legazione furono Itō Sukemasu Mancio, di circa 15 anni, ordinato prete nel 1608, pronipote di Itō Yoshisuke, daimyō di Hyūga; il coetaneo Chijiwa Seizaemon Michele, discendente di Ōmura Sumitada. Oltre ad un seguito di servitori, i due legati erano accompagnati da altri due giovani dell’alta aristocrazia, tale Hara, denominato Martino, ed inine un certo Nakaura Giuliano, diventato Gesuita nel 1608 e morto martire in Giappone durante le persecuzioni del 1630. Partiti dal porto di Nagasaki il 20 Febbraio 1582 i giovani nobili approdarono in Portogallo nell’agosto del 1584, e dopo aver visitato la Spagna, sbarcarono a Livorno il 1° marzo 1585. Passati per Pisa, Firenze, Siena, Bolsena, Viterbo e Bagnaia giunsero a Roma il 22 marzo del 1585, accolti da Papa Gregorio XIII poco prima che morisse il 10 aprile successivo, conobbero anche il successivo ponteice Sisto V. Viaggiarono e visitarono numerose città e località italiane (Napoli, Loreto, Imola, Bologna, Ferrara, Venezia, Padova, Verona, Mantova; Cremona, Milano, Pavia) ove furono 2 sempre accolti con festose celebrazioni, per giungere inine a Genova da dove il 9 Agosto 1585 si imbarcarono per Barcellona; partiti da Lisbona il 13 Aprile 1586 fecero ritorno deinitivamente a Nagasaki il 21 Luglio 1590. Circa 30 anni dopo, nel contesto di un viaggio diplomatico in Occidente, la cosiddetta Missione Keichō, il samurai Hasekura Tsunenaga Rokuemon, al servizio del daimyō di Sendai, Date Masamune, ebbe un udienza con Papa Paolo V a Roma, il 3 novembre 16155. Dopo aver succintamente richiamato alla nostra memoria fatti e personaggi stranoti alla ricerca storiograica ed alla successiva divulgazione, vorrei focalizzare il mio intervento odierno, però, su due igure particolari, due giovani ancora non così noti al gran numero di appassionati del Paese del Sol Levante: Bernardo e Francesco; giapponese il primo, iorentino il secondo; il primo venuto in Italia, il secondo andato in Giappone. Se Francesco, come vedremo, è stato oggetto negli anni successivi di varie ricerche specialmente in ambito accademico, Bernardo è ancora quasi sconosciuto. Ma ecco le loro storie. Il primo Giapponese in Italia nella metà del ‘500 Abbiamo visto poc’anzi come la prima delegazione uiciale giapponese sia giunta in Italia nel 1585 e numerose furono le descrizioni coeve che con meraviglia e soddisfazione ne hanno raccontato gli eventi. In forma più sommessa, senza troppo clamore, però ben 30 anni prima, nel 1555, per la prima volta in assoluto un piede giapponese ha calpestato il suolo italico. In realtà non ne conosciamo il nome di nascita, ma solo quello da battezzato: Bernardo. Se ne ha una prima menzione nel 1589 nell’opera intitolata “Della Ragione di Stato” di Giovanni Botero che riporta: “A tal proposito mi occorre, che, ritrovandosi in Roma quando fu creato Papa Marcello, un Giapponese, che si chiamava Bernardo, e camminando per la città in quel punto della creatione, disse prontamente che si era fatta buona elettione;…”6 Maggiori informazioni si hanno, come prevedibile, nella corrispondenza tra i missionari gesuiti in Giappone ed i dirigenti dell’Ordine in Europa. Il “Menologio di Pie Memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù”7, del 1730 5. 1615, un giapponese in viaggio verso Roma. Il resoconto di Hasekura Rokuemon. Ciofani Lorella; Ciapparoni La Rocca Teresa; Tanaka Hidemichi. Aracne Editrice, 2013. 6. Della Ragione di Stato. Giovanni Botero. Venezia, Gioliti, 1589. 7. Menologio di pie memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù raccolte dal Padre Giuseppe Antonio Patrignani; dall’anno 1538 fino 3 ne riporta una succinta biograia. Ma bisogna attendere la pubblicazione della grande collezione intitolata Monumenta Historica Societatis Jesu, iniziata con il primo volume nel 1894, per riassumere tutti i dati disponibili e permettere nel 1951 a Padre D’Elia S. J. di scrivere per la rivista “La Civiltà Cattolica” due ampi articoli8 dai quali ho estratto gran parte delle successive notizie. Padre Francesco Saverio, giunto a Kagoshima, il 15 Agosto 1549 proveniente dalla Malacca, non tardò ad amministrare i primi battesimi. Il secondo giapponese, ma forse il primo, ad essere battezzato nel 1549 fu un giovane di Kagoshima, abbastanza povero e del quale non si conosce il nome giapponese ma al quale Saverio impose il nome cristiano di Bernardo. Da questo momento Bernardo trovò in Saverio il suo maestro e non se ne distaccherà più, seguendolo in tutti i suoi viaggi missionari a Hirado, Yamaguchi, Miyako (la capitale Kyōto), mostrando grande fervore e devozione9. Anche quando Francesco Saverio, dopo due anni di permanenza in Giappone, decise di ritornare in India a Goa, Bernardo lo seguì insieme ad altri quattro conterranei tra cui un certo Matteo di Yamaguchi. Era il 1552 e nei primi mesi di quell’anno iniziò a maturare nella mente del Santo l’idea di inviare rappresentanti delle nuove Terre evangelizzate a Roma, ainché potessero dare testimonianza della loro fede cristiana, raccontare le necessità delle loro missioni, ediicarsi alla vista della grandezza di Roma Pontiicia e ritornare nelle Terre di origine per sostenere e raforzare tra i propri conterranei l’opera di evangelizzazione. Tutto ciò era anche condiviso dalle massime autorità dell’Ordine. Padre Saverio deliberò, allora, di mandare a Roma il Portoghese Andrea Fernandes, di 34 anni non ancora sacerdote, insieme a Bernardo e Matteo; poco dopo lasciò l’India il 17 Aprile 1552, in direzione della Cina che non riuscì a raggiungere perché la morte lo colse nel dicembre successivo. Nello stesso mese morì a Goa anche il giapponese Matteo, stremato dalle condizioni climatiche non favorevoli. E così nel mese di Marzo 1553 il gruppo, reintegrato con il portoghese Andrea Carvalho bisognoso di rimettersi in salute, si imbarcò con destinazione Lisbona, dove arrivò nel settembre successivo e sostò per alcuni mesi per permettere ai componenti di riposarsi dopo la spossante all’anno 1728. Tomo Secondo. Presso Niccolò Pezzana, in Venezia, 1730. 8. Bernardo, il primo giapponese venuto a Roma. P. D’Elia S.J. La Civiltà Cattolica, Anno 102, Vol. III, , Quaderno 2427, 4 Agosto 1951; Quaderno 2429, 1 Settembre 1951. 9. Asia in the Making of Europe. Volume I. The Century of Discovery. Book 2. Donald F. Lach, 1994. 4 navigazione; ne abbisognava specialmente Bernardo, di costituzione piuttosto cagionevole. Dalla corrispondenza intercorsa tra le Autorità dell’Ordine apprendiamo che il giovane giapponese, venuto in Europa unicamente per ediicarsi allo spettacolo della vita cristiana nei paesi cattolici e poi tornare nella sua patria, nei primi mesi del 1554 si sentì attirato dalla Compagnia di Gesù, nella quale chiese di entrare e fu ammesso dal commissario Padre Nadal, si pensa nella seconda metà di febbraio; e da lì a poco iniziò il noviziato a Coimbra. Dopo un periodo di rilessione da parte delle Autorità religiose sulla bontà del viaggio di Bernardo a Roma, Sant’Ignazio di Loyola stesso espresse il desiderio di conoscere il giovane giapponese. Il 17 Luglio del 1554 Bernardo, in compagnia di un fratello coadiutore infermiere, Ludovico Quaresma, partì da Coimbra diretto a Barcellona, ma fu costretto a fermarsi a Salamanca per problemi di salute; rimessosi in viaggio ricadde ammalato a Segovia e dopo un’ulteriore sosta arrivò inalmente a destinazione, Barcellona, ai primi di dicembre. Non tardò a salpare per la Sicilia, da dove poi ripartì alla volta di Napoli ed ove giunse per le Festività di Natale di quell’anno. Appena dopo il Natale, Bernardo partì per Roma arrivando verso il 5 o 6 di Gennaio del 1555; creò subito una buona impressione in Sant’Ignazio di Loyola. Visitò le grandi basiliche romane ed i più bei monumenti cristiani della Città Eterna, ma, volle rendersi utile e studiare un po’ di latino, perciò chiese di lasciare la casa professa e di entrare nel Collegio Romano di recente istituzione. Sant’Ignazio, conoscendo la salute cagionevole del giapponese, acconsentì a patto che si riposasse tutte le volte che si sentisse stanco e che manifestasse con semplicità ai suoi superiori ogni cosa di cui avesse bisogno. Durante la sua permanenza a Roma, Bernardo visse le circostanze straordinarie della Chiesa: l’elezione di Papa Marcello II al soglio pontiicio il 9 Aprile 1555, subito funestata dalla sua morte improvvisa per colpo apoplettico, neanche un mese dopo, il 1° Maggio, seguita dall’elezione del nuovo Papa, Paolo IV, il 23 Maggio successivo. Il 18 Ottobre di quell’anno ben diciotto scolastici di varia nazionalità, tra cui Bernardo il Giapponese, lasciarono il Collegio Romano per raggiungere vari collegi in Spagna e Portogallo. Passando per Firenze, Pisa e Lerici, il viaggio ino a Genova, a piedi od in portantine rimediate, fu piuttosto lungo e faticoso, concludendosi il 28 Novembre. Da Genova salpò il 21 Dicembre e sbarcò ad Alicante il 1° Gennaio del nuovo anno 1556. Finalmente, dopo aver attraversato tutta la Spagna, Bernardo arrivò a Lisbona il 12 Febbraio e da lì al celebre Collegio di Coimbra. 5 Il lungo viaggio dall’Italia al Portogallo minò le ultime capacità isiche di Bernardo che passò un anno, il 1556, con alti e bassi nella salute. Ma nei primi mesi del 1557 la situazione si aggravò e Bernardo morì a Coimbra nel mese di Febbraio, senza poter ritornare nella sua Patria lasciata quattro anni prima. Due mesi dopo la sua morte Padre Francesco Monclaro di Coimbra comunicava al nuovo generale dell’Ordine, Giacomo Laynez, sostituto del defunto Sant’Ignazio: “Prima della Quaresima abbiamo avuto degli ammalati. E’ piaciuto intanto a nostro Signore di prendersi tre di loro tra cui Bernardo il Giapponese... Durante il tempo della loro malattia ci ediicarono molto con la loro pazienza ed ubbidienza”. Ed un anno dopo, Padre Nicola Gracida scriveva a Padre Emanuele Lopez, rettore del collegio di Alcalà: “…egli morì come un santo, lasciandoci tutti ediicati alla sua morte, come ci aveva ediicati tutto il tempo che egli era restato tra noi.” Così si conclude la vita di Bernardo il primo Giapponese venuto in Italia, appena dodici anni dopo la scoperta del Giappone; senza trionfalismi od uicialità ma molto semplicemente, così come era semplice il ritratto che i suoi confratelli contemporanei ci hanno lasciato: quello di un uomo di buon senso, umile e molto pio. Il Giappone del ‘500 attraverso gli occhi di un giovane mercante iorentino Con un salto in avanti di 40 anni, ultimo decennio del XVI secolo, arriviamo a Francesco Carletti, iorentino, anche egli giovane, ma diverso da Bernardo per vitalità, cultura ed aspettative; tuttavia altrettanto interessante per la sua esperienza di vita, la circumnavigazione del Globo, della quale ha voluto rendere partecipi, con i suoi diari, non solo i suoi contemporanei toscani, ma anche noi, oggi, a distanza di 400 anni. Dopo la lunga peregrinazione intorno al Mondo, durata 12 anni dal 1594 al 1606, tornò in Italia, a Firenze, avendo perso tutto il suo carico, ma non i suoi ricordi. In realtà anche i suoi diari andarono persi, ma a Firenze Francesco cercò di ricostruirli, con nuove annotazioni e con racconti orali raccolti e trascritti da pazienti scrivani. Per cui si sono conservati ben quattro manoscritti: il Codex 1331 presso la Biblioteca Angelica di Roma, forse il più fedele all’originale; il Codex 47 nella Biblioteca Moreniana di Firenze; il Manoscritto Ginori-Venturi una copia diretta del Moreniano ed il Manoscritto Magliabechiano, Biblioteca Nazionale di Firenze, copia del Ginori-Venturi10. 10. 16th Century Japan and Macau described by Francesco Carletti 6 La prima stampa dei diari fu fatta nell’anno 1701 da Jacopo Carlieri, a Firenze, con il titolo “Ragionamenti di Francesco Carletti iorentino sopra le cose da lui vedute ne’ suoi viaggi”11 dedicati all’Illustrissimo Signor Marchese Cosimo da Castiglione, Gentiluomo della Camera del Serenissimo Granduca di Toscana. Una seconda, da Carlo Gargiolli, Firenze, G. Barbera Editore, 1878. Appena ripubblicati, i Resoconti sono stati oggetto di due Capitoli nella Rivista Marittima del 187912 a irma di Piero Antonio Filippi. 100 anni dopo, nel 1989 la casa editrice Einaudi13 ha stampato una riedizione a cura di Paolo Collo. Da ultimo nel 2012, Maurizio Maggini ne ha parlato nella rivista dell’Istituto Geograico Militare14. Come innanzi detto sul Carletti è stato già scritto molto, sia in epoche recenti che passate. Abbiamo una sua prima biograia nel 175415, ad opera di Domenico Maria Manni, che in undici pagine ha raccolto la storia della famiglia Carletti e la vita del giovane. In epoche più recenti si parla succintamente del Carletti nella “Storia della Toscana”16 edita nel 1843 che contiene una curiosità: “Molti iorentini viaggiarono alle Indie e in America, trasportando in Toscana le più rare produzioni di quelle contrade, e Francesco Carletti, che avea fatto il giro del globo, vi portò l’uso della cioccolata dal Messico”. Non era una notizia inedita in quanto già il Manni aveva scritto “Questo benemerito Compatriotto, che il primo forse fu a portare a noi la bevanda della Cioccolata né suoi Ragionamenti, laonde rammentato viene da varj Scrittori, che di essa, e del Caccao hanno parlato”. In realtà, in Italia si aveva già notizia del Cacao sin dal 1553 quando vennero pubblicati i celebri volumi “Delle navigationi et viaggi” del Ramusio; notizia riconfermata nel 1565 con la “Historia del mondo nuovo” di Girolamo Benzoni. (1573?-1636) - Elisabetta Colla, Centro Cientíico e Cultural de Macau, Lisbon - Bulletin of Portuguese - Japanese Studies, vol. 17, 2008, pp. 113-144, Universidade Nova de Lisboa, Lisboa, Portugal. 11. Ragionamenti di Francesco Carletti fiorentino sopra le cose da lui vedute ne’ suoi viaggi si delle Indie Occidentali e Orientali, come d’altri Paesi – Jacopo Carlieri, Stamperia Giuseppe Manni, Firenze, 1701. 12. Rivista Marittima – Anno XII, Primo e Secondo Trimestre 1879 Tipografia Barbera, Roma 13. Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo. Francesco Carletti, a cura di Paolo Collo. Torino, G. Einaudi, 1989. 14. L’UNIVERSO: Grandi Viaggi, Francesco Carletti in viaggio attorno al mondo della ine del Cinquecento. Maurizio Maggini, Istituto Geografico Militare, n.3, 2012. 15. Raccolta d’Opuscoli scientifici e filologici. Tomo 50°. Don Angelo Calogerà, in Venezia appresso Simone Occhi, 1754. 16. Storia della Toscana, compilata ed in sette epoche distribuita. Tomo 10, di Francesco Inghirami, Poligraia Fiesolana, 1843. 7 Bisognerà attendere, però, il 1905 per la prima e più completa – forse insuperata - trattazione della vita e dei viaggi di Francesco Carletti grazie agli approfonditi studi e ricerche della studiosa Gemma Sgrilli 17, alla quale sono debitore per le notizie che mi accingo ad illustrare. Compiuti 18 anni Francesco partì da Firenze per Siviglia il 20 maggio 1591, per andare a servizio del mercante iorentino Niccolò Parenti ed apprendere il mestiere della “mercatura”; il padre Antonio ambiva a farne un mercante di schiavi, come ci racconta lo stesso Francesco: “In capo a due anni venne voglia ad Antonio mio Padre di venir a Siviglia, dove per migliorare le sue condizioni stimò di mandarmi all’Isole di Capo Verde a comprar Mori per l’Indie Occidentali.” Il giovane ne ebbe in seguito rimorso e come scrive il Manni “egli provò del rammarico grande d’avere già per comando altrui comprato, e fatto traico di Schiavi Cristiani, e di averli secondo il costume fatti marcare alla maniera delle bestie”. L’8 Gennaio del 1594 partì con il padre verso le Isole di Capo Verde dal porto di San Lucar de Barrameda, alla foce del iume Guadalquivir in Andalusia, porto da cui solevano partire le navi spagnole per le Indie Occidentali. A quel tempo, Spagna e Portogallo, le più grandi potenze marinare operavano in due distinte parti del globo, separate tra loro dalla famosa “linea di demarcazione”, lungo il meridiano distante 370 leghe (1770 km) dalle Isole del capo Verde, issata da Papa Alessandro VI con bolla del 1493 e meglio determinata l’anno seguente nel Trattato di Tordesillas: ad Est della linea i territori sarebbero stati di competenza del Portogallo; ad Ovest della Spagna. Iniziata, dunque, dalla Spagna la navigazione verso Ponente lo portò dapprima alle Isole del Capo Verde, poi alle Indie Occidentali (Panama, Messico, Colombia, Perù); da lì alle Filippine, ed in successione Giappone e Cina, ove a Macao, il 20 luglio 1598 dopo quattro mesi di malattia morì il padre Antonio, di appena 57 anni ed ove conobbe i due padri gesuiti Alessandro Valignano, il Visitatore, e Lazzaro Cattanei collaboratore di Matteo Ricci. Poi, da Macao a Goa, in India; imbarcate le mercanzie e portando con sé tre servitori un giapponese, un coreano (arrivato a Roma, con il nome di Antonio Corea) ed un moro, in viaggio verso il Portogallo passando per il Madagascar, Mozambico, il Capo di Buona Speranza, l’isola di Sant’Elena. In vicinanza dell’Isola avvenne un increscioso episodio che 17. Francesco Carletti, mercante e viaggiatore fiorentino (1573?1636) – Gemma Sgrilli – Licinio Cappelli Edit., Rocca San Casciano, 1905. 8 vide la nave sulla quale era imbarcato scambiare colpi di artiglieria con alcuni vascelli zelandesi della “Compagnia dei Mercanti”, fatto che costò al Carletti non poche tribolazioni successive: il sequestro delle mercanzie, la cattura, il viaggio via nave verso la Zelanda (parte dell’attuale Olanda) con arrivo a Middelburg nel 1602, la lunga lite giudiziaria contro la Compagnia, la sentenza sfavorevole delle autorità zelandesi, il ricorso, l’accordo transattivo nel 1605 con la rinuncia del Carletti a tutti i beni coniscati in cambio di una somma di poco superiore ai costi giudiziari sostenuti. Demoralizzato, stanco e praticamente povero, Francesco tornò a Firenze nel 1606, come già detto, ove a servizio dei Granduchi di Toscana, Ferdinando I e Cosimo II dei Medici, godette tutto sommato di una certa tranquillità, ino alla sua morte avvenuta il 12 Gennaio 1636. Tornando all’argomento principale della presente relazione, Francesco soggiornò quasi un anno in Giappone, con il padre: arrivato a Giugno 1597, dalle Filippine ino al porto di Nagasaki; partito a Marzo 1598 sempre da Nagasaki con destinazione Cocincina, l’attuale Vietnam. Era il periodo di Toyotomi Hideyoshi, militare di basso rango che uniicò il Giappone e ne divenne il governatore supremo, che sarebbe morto qualche mese dopo (settembre 1598); della seconda spedizione militare in Corea (dopo la prima del 1592); dei primi martiri cristiani, ventisei, crociissi il 5 Febbraio 1597 sulle colline di Nagasaki. Durante la sua permanenza sul suolo nipponico, come per gli altri Paesi visitati, Francesco annotò tutto ciò che aveva visto e sentito, trattando argomenti relativi all’alimentazione, ai costumi, al carattere della gente, alla cronaca del tempo. Così i Resoconti giunti a noi sono un ricordo esatto di esperienze personali o frutto di ricostruzione basata su racconti altrui? Sono rispondenti alla realtà vissuta o frutto di fantasia? E’ diicile esprimere una valutazione deinitiva; è certo, comunque, che i riscontri di natura storica, geograica ed antropologica sono abbondantissimi e questi conferiscono una solida base di veridicità a quanto descritto dal Carletti. Il testo che segue è riportato nella sua forma originaria, del 1701, in un linguaggio lontano dall’attuale, ma brioso e vivace; sono state modiicate solo poche virgole qua e là, per un miglior scorrimento della frase, ed aggiunte alcune note integrative laddove il testo lo richiedesse. Chiudo con le stessa esortazione che il Carlieri rivolgeva al lettore nella sua premessa: “Godi dunque delle fatiche di questo gran viaggiatore, approfittane e porgi a me occasione di somministrarti nuove notizie col prevalerti di queste; e vivi sano.” 9 Seconda Parte, Ragionamento Primo Che contiene la partenza dall’Isole Filippine a quelle del Giappone ed altre cose notabili di quel Paese. Nel primo ragguaglio dell’Indie Occidentali distinto in sei Ragionamenti, io ho narrato a V.A.S.18 tutt’i Viaggi, che facemmo per que’ Paesi, partendo d’Italia per Ispagna, e di la camminando ino ad essere arrivati nell’Isole Filippine, ultimo termine dell’acquisto fatto dagli Spagnuoli Castigliani, venuti sempre per l’Occidente in Oriente, ed insieme ho fatta menzione d’ogni altra particolarità sovvenutami alla memoria già invecchiata nel corso di tant’anni, e nella confusione di tante varie cose vedute, e fatte da me in così lunga peregrinazione, che l’una confonde l’altra. Ora forse in questo secondo racconto dove la memoria sarà più fresca, m’andrò meglio ricordando di tutto quello feci, e vidi, m’accadde, ed osservai ne’ Viaggi, che feci, per via dell’Indie Orientali, inino all’esser ritornato in Europa; de’ quali, e del Paese ancor ci sarà molto più che dire; dove ancora per tutto i nativi del Paese vivono e ritengono i loro antichi, e proprj costumi, e la maggior parte i riti, e le cirimonie delle loro Leggi vane, e superstiziose. In questo dunque mi allargherò nel dire, quanto la memoria delle cose vedute mi somministrerà; poiché gli scritti, che di ciò aveva messo insieme copiosamente, si sono per mia disgrazia perduti, e l’avergli ora mi sarebbe carissimo, per poter con essi maggiormente dilettare V.A.S. Ma poiché non c’è rimedio, incomincerò, senz’essi a dire prima del Viaggio che facemmo dall’Isole Filippine a quelle del Giappone, per qual luogo imbarcammo del Mese di Maggio dell’anno 1597 sopra un Vascello di quelli ch’i Giapponesi chiamano Somme19; i quali sono in tutto diferentissimi da’ nostri, e fra le altre hanno le loro vele fatte d’alberi, e d’altri viticci tessuti insieme a guisa di stuoie, e poi tramezzate, e rinforzate con verghe, e canne fesse; in tal modo acconce, che quando vogliono ammainare si ripiegano, come fa un ventaglio. Le portano legate all’albero a foggia d’una bandiera, e navigano con quelle, nella maniera che navigano ne’ Paesi bassi di Zelanda20, e d’Olanda quelle Nazioni colle loro Barche; e volendole voltare, fanno nel medesimo modo, pigliando il vento per la prua, e lasciando scorrer la vela con impeto, e furiosamente dall’altra banda tenuta da una scotta sola legata in più d’una parte all’estremità della 18. Vostra Altezza Serenissima 19. Temma, 哨船, piccola imbarcazione usata in genere come spola tra una barca e la terra ferma (diz. Hepburn, 1888) 20. Provincia sud-occidentale dei Paesi Bassi, con capitale Middelburg 10 vela, simile a quell’altra vela del Trinchetto, ma molto più piccola a proporzione di quello che noi usiamo alle nostre Navi. Con queste Somme senz’altre vele si naviga, con molto pericolo di sommergersi a cagione del timone, che con ogni po’ di Mar grosso porta risico di rompersi, non ostante che per riguardarlo all’onde, che non lo percuotano, usino di portar da una banda, e dall’altra di dette Somme due lunghe, e grosse travi in foggia di remi, i quali in tempo di tempesta calan giù nell’acqua, acciocché in essi si rompano l’onde, che altrimenti darebbero nel timone, e lo spezzerebbero, e in un medesimo tempo danno aiuto al Vascello, che non travaglia tanto, benché molte volte ne anco questo giova, e subito ch’il timone è rotto bisogna tagliare l’albero grande, si perché non avendo sarte21, non si può sostenere in quell’agitazione, che fa allora il Vascello senza timone, si perché quell’albero andrebbe anch’a risico di sfondarlo. Imperocchè queste Somme sono fatte debolmente e senz’esser impeciate; usando però in quel cambio un certo bitume fatto di calcina, e olio di pesce con stoppa trita, che subito mescolato insieme chiamano Seiucui22, e per tutta l’India Gala Gala, col quale impiastrano le tavole per di fuori del Vascello, e fa una presa molto dura, e tenace, la quale le difende dall’acqua, e da vermi, che genera il Mare, perché non rodano le tavole. L’Ancore di queste Somme sono di legno, e le gumine23 di esse le fanno d’una sorta di vinchi molto forti, ch’i Giapponesi chiamano Ziù24, e quelli dell’isole Filippine Vesciuco, e nell’Indie Orientali Botta; i quali crescono sempre sopra gli alberi in gran lunghezza, ed hanno i nodi come le canne a ogni tanto spazio, e sono di scorza durissima, che a gran pena, quando sono secchi, vi si può far entrar il coltello; anzi perché sono così lisci vi sdrucciola sopra e non vi s’attacca più che si farebbe sopra una cosa invetriata. Per lo contrario perché hanno il midollo molto tenero, fendendoli si spaccano proprio come i salci in quattro parti, e scarnendogl’in quel medesimo modo si servono solo della scorza, siccome noi ci serviamo di quegl’in legar i cerchi delle botti; ed essi legano con quelli qualsivoglia cosa, e degl’interi attorcigliati insieme ne fanno canapi d’una durezza incredibile, che durano assai, ne mai s’infradiciano, ancorché sieno sempre nell’acqua, anzi in essa rinverdiscono, e si fanno più forti, e più facili a piegarsi per ridurgl’in qualsivoglia forma, e non è mai possibile, che si rompano, quando sono verdi, o stanno nell’acqua. E perché sono tanto forti, ed arrendevoli, a’ Cattolici è 21. 22. 23. 24. Sartìe Forse Rekisei, 瀝青, asfalto, bitume per calafatare Gomene Ryū, 柳, salice 11 proibito sotto pena di Scomunica, che non possano con essi sferzare i loro Schiavi. Non si servono nelle loro Navigazioni di Carte, né di Astrolabio; ma hanno bensì la cognizione de’ venti, e si servono della Calamita, e della bussola in diferente modo dal nostro; benché vi sieno le due materie principali, cioè la Calamita, e l’Acciajo. Imperocchè la formano in una scodellina di terra piena d’acqua del Mare, che spesso mutano; e questa scodellina la mettono in una bussola di legno in forma rotonda, sopra la quale vi sono attorno disegnati certi Caratteri, che denotano tutt’i venti principali. Per dimostrare i quali, e per poter drizzare il cammino, secondo il loro bisogno, mettono in detta scodellina già piena d’acqua una foglietta d’acciajo sottilissima tanto grande quanto appunto sarebbe un’ala di Mosca, a quel modo aguzza da una banda, e dall’altra mozza. L’una delle parti essendo stata tocca dalla pietra Calamita, e quella stando a galla, si rivolge, e riguarda verso tramontana, come per naturale segreto, e virtù Iddio le ha conceduto di fare; e così distinguono, e riconoscono gli altri venti, e fanno le loro Navigazioni senz’altri strumenti; servendosi solamente del conoscimento della terra, e pigliando il fondo delle costiere, osservano per mezzo di quello, e per gli scritti, che altri Piloti hanno lasciati, il luogo, dove si possano ritrovare, secondo la qualità della rena, o del sabbione, che ritraggono col piombino mandato abbasso. Non sanno, che cosa si sia l’Astrolabio per pigliar l’altezza del Sole, ne meno Balestriglia, ne gradi, ne linea Equinoziale, ne Carte da punteggiare giorno per giorno il cammino, che fanno le navi, e dove si ritrovino. Con tutto ciò fanno i loro viaggi, e navigazioni; siccome facemmo ancor noi, che dopo aver navigato fastidiosamente per le continue bonacce, che ci tennero trenta giorni per quel golfo di Mare Orientale, che contiene 1000 miglia in circa di cammino, dalle predette isole Filippine ino a quelle del Giappone, arrivammo a salvamento nel Mese di Giugno del medesimo anno 1597 in una di esse detta Nagansachi25, dove pigliammo Porto. Quivi è una piccola Città del medesimo nome situata alla latitudine boreale di trenta in trentadue gradi, dalla quale mentre stavamo ancor lontani per esser verso la sera, e non tirava alcun alito di vento, uscirono da quel porto un grandissimo numero di piccole barche, che essi chiamano Funeè26 per rimburchiarci27. Queste remano in tutto diferentemente dalle nostre barche; e dove noi vogando 25. Nagasaki 26. Fune, 舟 27. Rimorchiarci 12 tiriamo il remo verso la prua, e icchiamo, e ributtiamo sempre nell’acqua, e guardiamo, stando a sedere, verso la poppa, questi vogando, non tirano altrimenti il remo, ne meno lo cavano dell’acqua, ne meno seggono, ma rivolti con viso verso il Mare, e ritti in piedi sopra le sponde di dette barchette, e volte le reni l’un Marinaro all’altro, co’ remi sempre sotto l’acqua, che pajono tanti piedi attaccati alle due bande delle barchette, che vadano brancolando pel Mare, le vanno spingendo velocissimamente, e mentre vogano cantano allegre, e marinaresche canzoni, all’armonia delle quali entrammo nel Porto di Nagansachi, luogo popolato quasi tutto di Giapponesi Cristiani, e dove sono alcune poche Case di Mercanti Portughesi. La mattina avanti che noi sbarcassimo in terra, vennero i Ministri della Giustizia per comandamento del Governatore del luogo a far la cerca fra tutt’i Marinari, e Mercanti, e Passeggeri di certi vasi di terra, che sogliono essere portati dall’Isole Filippine, e da altre di quel Mare, i quali per legge del Re del Giappone, si comandava a tutti sotto pena della vita, che si dovessero manifestare, perché li volea comprar tutti. Ma chi lo crederà, e pure è verissimo, e s’io non l’avessi nel mio arrivo quivi veduto, non ardirei raccontarlo a V.A.S. e dirle, come questi vasi vagliono inino a cinque, sei, e dieci mila scudi l’uno, che non si stimerebbero per un ordinario valore un giulio. Per confermazione di questa verità, dico di più che l’anno 1615 passando per Firenze il Padre F. Luigi Sattelo28 Spagnuolo dell’Ordine di S. Francesco di quelli chiamati degli scalzi, che veniva di Roma, dove era stato ambasciatore con alcuni Giapponesi per un Re di quel Paese, mi disse in questo proposito in presenza di molti Gentiluomini, e de’ suoi compagni religiosi, e Giapponesi, che s’era trovato a vederne comprar in quel paese uno di questi vasi per 130 mila scudi, da quel Signore, che lo mandò a Roma, afermando il medesimo ancora quei suoi compagni Giapponesi. Io non me ne meravigliai, ne meno alcuno se ne dee meravigliare, sapendo, ch’i Giapponesi stimano più quelle cose, che sono buone a conservare la sanità, che qualsivoglia altra cosa preziosa; così lo diciamo noi, ma non l’osserviamo come essi. Per questa cagione ancora fanno grandissima stima dell’armi quando son buone, perché difendono, e ofendono il nemico ne’ bisogni, e però comprano le scimitarre dette Catane29 a prezzi grossissimi, e stimano più che al- 28. Padre Luis Sotelo che nel 1615 giunse a Roma, alla guida della Ambascerìa giapponese denominata Missione Keichō. 29. Katana, 刀 13 tro tutte cose, che sono atte a conservare la vita; e nulladimeno non è nazione al mondo, che tema meno la morte. Ma per ritornar là donde ci dipartimmo, in questi vasi si paga la proprietà, e virtù ch’hanno di conservare, che mai non si guasta per dieci, o venti anni una certa lor foglia, che chiamano Cià30, ovvero The, che viene prodotta da una pianta simile a quella del Bossolo, salvo che ha le foglie tre volte più grandi, e si mantiene verde tutto l’anno; e fa il suo iore odorifero in forma di rose dommaschine31. Delle foglie ne fanno polvere, che poi posta in acqua calda, che di continuo tengono al fuoco per questo efetto, beono quell’acqua più per uso di medicina, che per gusto, essendo di sapore amarognolo, benché lascia poi la bocca buona, ed a chi usa berne fa buonissimo efetto. Giova assai a quelli ch’hanno debolezza di stomaco, e ajuta meravigliosamente alla digestione, e spezialmente è ottima a levare, ed impedire i vapori, che non vadano alla testa, ed in fatti il berne dopo cena leva il sonno. Perciò il suo uso è berla subito dopo aver mangiato, e massime quando uno si sente carico dal vino. L’uso di bere questo Cià infra Giapponesi è tanto, e tale, che non s’entra mai in casa di nessuno, che non sia oferto amichevolmente, e quasi per creanza, costumandosi da loro per onorare gli ospiti amici, siccome s’usa né paesi di Fiandra, e di Germania di oferire il Vino. Fra l’altre cose, che dicono di questo Cià, una è, che la sua foglia quanto è più vecchia, tanto è migliore; ma perché si conservi, e si mantenga nel medesimo essere, non trovano mai il modo, se non mettendola ne’ soprammentovati vasi, perché né que’ d’Oro né d’Argento, né d’altro Metallo, non la conservano tale, quale essi desiderano. In verità pare ciò una vana superstizione, ma in efetti essi veggono per esperienza, che detta foglia non si mantiene buona, se non in que’ vasi di semplicissima terra, di quella però, che ha questa virtù, che se ne trovano pochi, che maravigliosamente sono conosciuti da questa nazione subito, che li veggono a certi segni, e caratteri di lettere antichissime, e per conseguenza d’antica manifattura. In oggi di questi non se ne trovano, se non di quelli, che sono di già stati da molte centinaia di anni in qua fabbricati, e sono portati loro dal Regno di Cambogia, da quello di Sian32, e di Coccincina33, e da tutte l’Isole Filippine, e da altre di questo mare; i quali a vista giudico che potessero valere tre o quattro quattrini l’uno; e molti Mercanti, ch’hanno avuto fortuna di portare di quella sorta, ch’hanno tal virtù, o superstizione ch’ella si sia, si sono arricchiti. Ed è cosa verissima ch’il Re di questo paese insieme con 30. 31. 32. 33. Cha, 茶 Rosa damascena Siam, attuale Tailandia Cocincina, zona meridionale del Vietnam, vicina alla Cambogia 14 tutti gli altri Principi del Regno, hanno un numero grandissimo di questi vasi, e li tengono in stima, com’un loro principalissimo tesoro sopra ogn’altra cosa, che di pregio si possa stimare, e per vanagloriosa burbanza fanno a gara a chi ne possiede maggior numero, e se li mostrano l’uno all’altro con loro grandissima contentezza, e soddisfazione. Fatta che fu la ricerca de’ sopraddetti vasi da que’ ministri di Giustizia, subito ci fu data licenza di poter sbarcar in terra, dove ci trovammo in diferenza nel contare de’ giorni tra noi, che venivamo dalla Città di Manila, ed i Portughesi, che venivano da quella d’Amacao34 Isola della Cina, dove fanno la loro residenza. Perché questi partendosi di Lisbona Città di Portogallo, e navigando verso Oriente, sono arrivati inino al Giappone ultimo termine della loro navigazione; nella quale perché il Sole è loro andato levandosi tuttavia più presto, hanno guadagnato dodici ore d’un giorno naturale; e noi per lo contrario, ch’eravamo partiti dal porto di S. Lucar di Barrameda di Spagna, e navigato sempre verso Occidente, nel qual viaggio andavamo perdendo del giorno, perché il Sole ci si levava più tardi, onde nel contare avevamo smarrito altre dodici ore, talchè nell’abboccarci con detti Portughesi, venimmo a ritrovarci in diferenza d’un giorno intero. E questo basti per l’intelligenza d’un tal accidente, forse non mai più inteso per non essersi mai più ne’ tempi antichi (che si sappia) girato il mondo, come ora si gira, per valore e virtù di queste due Corone di Castiglia, e di Portogallo, che n’hanno mostrato il cammino. Questa navigando verso Oriente è arrivata inino alla Cina, l’altra navigando verso Occidente, è pervenuta ino all’Isole Filippine appresso all’isola d’Amacao nella Cina, dove riseggono i Portughesi mille miglia lontano da quelle; e così queste due Corone insieme vengono ad aver fatto un cerchio a tutto il Mondo; ch’è cosa certo da esser lodata, ed esaltata molto, essendo che con la lingua di queste due nazioni, e per mezzo delle loro navigazioni, può ciascheduno mettersi in così nobile, e grande impresa, ed in meno di quattro anni scorrer in giro il mondo tutto. Siccome averei fatto io in simigliante spazio di tempo, se non mi fossi intrattenuto dove un anno, e dove molto più; e nientedimeno non consumai più tempo, che dall’anno 1594 che mi partj di Spagna ino a quello del 1602 che fui condotto in Zelanda preso da quelli di Midelburgo com’a suo luogo si dirà. Ma chi volesse far questo meraviglioso viaggio; più facilmente, e più sicuramente bisognerebbe partendo di Spagna, imbarcarsi colla Flotta, che va nell’Indie Occidentali, che parte del mese di Luglio, e arrivare alla Città del Mes34. Macao 15 sico, e di quivi quel medesimo anno andarsi ad imbarcare nel Porto di Acapulco nel mar Paciico sopra quelle navi, che partono per l’Isole Filippine nel Mese di Marzo, e ino a questo tempo si sarebbero consumati nove mesi; e di poi, come si fosse arrivati all’Isole Filippine, si potrebbe il Maggio dell’altro anno imbarcarsi pel Giappone, che sarebbero quattordici mesi di tempo. Dal qual luogo poi l’Ottobre del medesimo anno, o al più lungo il Marzo che segue, si trova passaggio per l’Isola d’Amacao, colle medesime navi, o con altre pure di Portughesi si passa all’Indie Orientali nel mese di Novembre, o Dicembre, e s’arriva alla Città di Goa nel mese di Marzo dell’altr’anno, che sarebbero altri cinque mesi, e di quivi il medesimo anno si può andare a Lisbona colle medesime navi, che di la vengono, le quali si partono da Goa, del mese di Dicembre, o Gennaio, e arrivano in sei, o sette mesi dopo la loro partenza in Portogallo; talché in tutto farebbero quindici, o sedici mesi, quali insieme cogli altri sarebbero i sopraddetti quattro anni, sempre che si trovassero comodità di passaggi, come ordinariamente si trovano. Ma chi volesse con una nave attender a navigare a di lungo, e passar lo stretto di Magaglianes35 posto in cinquantadue gradi dalla banda da Antartica, farebbe il viaggio di circondar il Mondo tutto in meno di diciotto mesi; poiché di Spagna al Messico vi si va in tre mesi; da Acapulco alle Filippine in altri tre; dalle Filippine in Giappone in un mese; dal Giappone all’Isola d’Amacao in un mezzo mese; d’Amacao a Goa in tre mesi, e di quivi a Lisbona in sei mesi, che sono in tutto sedici mesi, e mezzo. E molto meno si metterebbe di tempo facendo il viaggio addirittura, cioè di Spagna passar lo stretto di Magaglianes, e seguitare verso le Molucche; e da quelle navigare verso il Capo di Buona Speranza, e di la alla volta di Spagna, siccome fece la Nave chiamata Vittoria di Ferdinando Magaglianes nel discoprimento di detto stretto l’anno 1520 e dopo lui Francesco Dracch36; e Tommaso Gavundish37 ambi Inglesi, e Guglielmo Vannot38, e Giorgio Spilbergh39 Olandesi. In oggi questo passaggio dello stretto di Magaglianes non è più frequentato perché gli Olandesi hanno trovato il passo aperto in cinquantatre gradi, e trenta minuti l’anno 1616*. [* Questo passo del quale parla il Carletti in questo luogo è 35. Stretto di Magellano 36. Francis Drake (1540-1596), politico, navigatore e corsaro inglese. 37. Thomas Cavendish (1560-1592), navigatore, esploratore e corsa-ro inglese. 38. Olivier Van Noort (1558-1627), navigatore ed esploratore olandese 39. Joris van Spilbergen (1568-1620), navigatore ed esploratore olandese 16 lo stretto di Maire posto a gra. 53 e 30 tra Statellando40, e l’Isola del Fuoco; trovato da Jacopo Maire Olandese l’anno 1616 a’ 25 di Gennaio dal quale ha preso il nome ancor che dagli Spagnuoli venga alle volte chiamato lo Stretto di S. Vincienzo.]41 D’un parlare nell’altro son ito troppo lungi dal mio discorso, sul quale rimettendomi, dico a V.A.S. come quest’Isole del Giappone sono le più Orientali che in rispetto dell’Europa si possano considerare nel Globo del Mondo, situate nell’ultimo termine dell’Asia tra la linea Equinozziale, ed il Polo Artico ne’ trenta inino a’ trentasei gradi per latitudine, e la longitudine di esse dicono essere 900 miglia poco più, o poco meno. La Maggiore di tutte quest’Isole ha di lunghezza 750 miglia, e di larghezza 180 dicono esser divisa in cinquantadue Regni, o sieno Signorie; e l’altre due Isole contengono undici di queste Signorie, ch’in tutto fanno sessantasei, ripiene tutte di grandissime Città, e d’innumerabile popolo. E’ Paese piacevole alla vista, assai fertile di Riso, e di grano, e d’ogni altra sorta di biade, legumi, e frutti proprj di quel Paese, e delli nostri ancora, in particolare agrumi, come sarebbe a dire Arance, delle quali ve ne sono di quelle, che si mangiano con tutta la buccia, e le chiamano Cunebos42. Ve ne sono d’un’altra sorta ancora tanto piccoline, che se ne può far un boccone dell’una, come si fa delle Ciliegie. Vi sono ancora de’ Limoncini, i quali si mangiano colla buccia, e canditi sono preziosissimi. Vi sono delle Pere quasi tutte d’una spezie assai buone, e molto grosse, e sugose con una buccia sottilissima, che a gran pena si possono mondare, ed acconce in conserva con Zucchero sono molto buone. Evvi delle Pesche, e dell’Albicocche assai, e de’ Poponi, ch’hanno il seme com’i nostri, ed in tutto il restante sono dissimilissimi, tanto nella foggia, come nella buccia, sapore, e qualità, e si possono quasimente mangiare senza mondarli, perché la scorza è tanto sottile, che si leva come quella d’una Cipolla, e quando sono ben maturi screpolano. Costoro in cambio di tagliarli per lo lungo a fette li tagliano pel traverso a ruotoli, com’i Cetrivuoli, ed in quella maniera se li mangiano col seme, e col iore, che levandolo resterebbero senza sapore, consistendo tutto in quel iore, che ha un agretto, che avviva tutto il resto del Popone per se stesso scipito, e di nessun sapore. Vi si trovano ancora de’ Cocomeri, de’ Cetrivuoli, e altre 40. Stretto di Le Maire, tra la Terra del Fuoco e l’Isola degli Stati, in Argentina. 41. Commento di Jacopo Carlieri al testo del Carletti. 42. Kunenbo, pompelmo giapponese 17 sorte di frutte, che mangiano più volentieri acerbe, che mature, e molti usan condirle col sale a quel modo verdi, che durano poi tutto l’anno, come facciamo noi dell’Ulive. Vi sono tutte le sorte d’erbaggi, spezialmente Rape, e Radici di tanta maravigliosa grandezza, che tre o quattro d’esse a gran pena le può portar un uomo; ed io ne ho vedute, e prese nelle mie mani di quelle grosse quanto una coscia d’un uomo. Sono di sapore molto dolce, e tenere, e ne fanno insalate tritandole, e tagliandole per lo lungo minutamente, che sono molto gustevoli; delle foglie se ne servono tutto l’anno seccandole, e mettendole nel sale, ed in particolare l’inverno ne fanno con esse le minestre, mescolandole con tutte le altre sorte d’erbe, che pure seccano, e salano. Con queste condiscono il Pesce; comune, ed ordinario mantenimento, del quale ne hanno tanta la gran quantità, che non vale quasi niente, ed il modo più ordinario di mangiarlo è a quel modo crudo, passato prima per aceto bollente. Hanno certi pesci grossi molto sanguigni, e proprj per questa lor vivanda, la quale è cagione, che in questi paesi si sieno dimolti infetti di male di S. Lazzero. Di questo Pesce ne fanno ancora molt’altre sorte di vivande, le quali assaporano con una certa lor salsa, che chiamano Misol43, fatta d’una sorta di Fagiuoli, de’ quali abbondano; che cotti, e pesti, e mescolati con un po’ di Riso, e poi lasciati star in una bigoncia ammassati inforzano, e quasi infradiciano, e diventano di sapore, come il Formento ma molto più acuto, e piccante, col quale, usandone un poco per volta, danno il sapore alle loro vivande, che così acconce chiamano Sciro44, e noi diremmo Intingolo. Fanno le loro vivande, come s’è detto, d’erbaggi, di frutte, e di Pesce tutto mescolato insieme, e ancora alle volte con qualche carne salvatica. Il tutto poi mangiano con Riso, che serve loro in luogo di pane, il quale cuocono semplicemente con acqua, e poi messo in certe scodelle di legno inverniciate di rosso, pulitamente, e senza toccar niente colle mani mangiano il tutto. Imperciocchè si servono di due fuscellini fatti in forma rotonda, e spuntati, e lunghi un palmo, e grossi quanto una penna da scrivere, fatti di legno, o d’oro, e questi chiamano Fasce45; i quali adoperano, pigliandoli nelle mani, tra le due dita pollice, e indice, posando, e fermando prima l’uno di detti fuscellini sopra l’estremità del dito pollice, o del mezzo, e l’altro fuscello preso colle due dita suddette, e dimenandolo, s’aggiustano insieme le punte d’ambedue 43. Miso, 味噌 44. Shiru, 汁, sugo, zuppa 45. Hashi, 箸 18 colle quali pigliano ogni cosa, per piccola che sia, molto pulitamente, e senza imbrattarsi le mani, e però non usano né tovaglia, né tovagliolini, né manco coltelli, perché tutto viene in tavola tagliato minutamente e portato con certi taglieri quadri, e inverniciati, ne’ quali vi mettono i piatti, e le scodelle piene di vivande, e di Riso, del quale per esser molti gli usi, a’ quali serve, ne darò qualche ragguaglio particolare. Il Riso quando è crudo lo chiamano Come46, e quando è cotto Mesci47; di questo ne fanno Vino in abbondanza, mettendolo a cuocere in una Caldaja, e mescolandolo con ior di cenere dopo che è cotto, e lasciandolo poi stare ino a che non è mufato. A questo, che è del tutto la minor parte, aggiungono altra quantità di Riso cotto nel medesimo modo, ma senza cenere, e senza esser mufato, e tutt’insieme rimescolando, lo mettono in un vaso con dell’acqua, dove ribolle da per se stesso alcuni giorni, e poi lo colano con certi sacchetti simili alle stamigne, come si cola il vino bianco, ed in questo modo fanno il vino gagliardo, e assai gustevole; al quale per dare maggior sapore, aggiungono ancora un’altra sorta d’erba di gran virtù; ma questa non è comune a tutti, e solo s’usa per Vino de’ ricchi, che la tengono segreta. Ell’è così fumosa, che imbriaca, ed ha proprietà di conservare il Vino lungamente. Fanno ancora molti stillare questa decozione per lamicco48, e quel che n’esce, serve di Vino molto buono, e potente come l’acquavite49. Di questo scaldato prima al fuoco, sicché sia tiepido50 danno a bere nelle loro visite agli amici, dandone un bicchiere51 per ciascheduno, facendosi i brindisi scambievolmente l’uno all’altro, cominciando il Padrone di Casa, sempre dal più onorevole Forestiero, che lo venga a visitare, avendo in ciò grandissima l’avvertenza. Bevono sempre il Vin caldo e di state, e di verno, sorbendolo a centellini, ed assaporandolo, col quale spesso s’imbriacano, e si rallegrano amichevolmente. Oltre a tutte le sopraddette cose hanno delle Vitelle, delle quali si servono a portar some. Ma fra’ Gentili, e ancora tra Cristiani s’usa mangiarne pochissimo per una certa loro vana superstizione, e ne meno beono il loro latte, avendolo non meno contro a stomaco, che noi avremmo a bere il sangue. Vi sono molte Galline, come le nostre, a vilissimo prezzo, Porci domestici, e salvatichi, ed il maggior Cignale, che vi 46. Kome, 米 47. Meshi, 飯 48. Alambicco 49. Sake, 酒 50. Kan, sake caldo, 燗 51.Sakazuki, 盞 19 si trovi non vale più d’uno scudo; il medesimo vale un Caprio, ma né l’uno, né l’altro sono troppo buoni a mangiare; e credo che venga da non sapere accomodar quella sorta di carne, nel modo che si fa tra noi. Vi sono de’ Tordi, i quali furono gli unichi, ch’io vidi in tutti questi Paesi. Vi sono de’ Fagiani, che per la viltà del prezzo non parevano tali, quali pajono qui tra di noi, che non se ne vede se non di rado, e pochi, e cari; e quivi spesso, abbondantemente, e quasi senza prezzo; poiché me li davano per un pezzetto d’argento, che poteva valere quattro, o cinque quattrini, e bene spesso mi trovai ad averne sei, o otto in casa, e con essi me la passava senza cercare altra sorta di carne. Hanno delle Tortore di squisita bontà, come le nostre, e d’un’altra sorta ancora, che hanno la penna gialla, ma non sono così buone, avendo la carne di sapore alquanto amarognolo, e tanto questa, quanto l’altra sorta l’ammazzano con l’archibuso, tirando loro con una palla sola, sforzandosi di parere con ciò bravi tiratori. Hanno ricchissime miniere d’argento, il quale senza farne altrimenti moneta coniata, spendono a quel modo solo, tagliato in pezzetti, per aggiustar il prezzo alle cose, che si comprano. Si pesa con certe bilance, fatte alla maniera d’una staderina, che sempre portano a cintola, o in tasca, benché ne’ paesi più poveri di quest’Isole usano per minor moneta certi, come quarteroli di rame coniati, e bucati nel mezzo, che chiamano Casce; i quali per ispendere con facilità, e comodo li portano inilzati con una cordicella; e ne danno dieci per un pezzetto d’argento di peso d’un Conderino, de’ quali ne vanno dieci per un Maes, e dieci Maes fanno un Fael, che corrispondono al peso, e valore di undici reali di Spagna, o vogliamo dire uno scudo di moneta Fiorentina, o poco più. Questo modo di contare serve ancora nelle loro misure, dividendo quelle in Casce, Conderini, Maes e Fael; come se noi dicessimo Grani, Denari, Once, e Libbre. In quest’Isole si potrebbe passare la vita comodamente, e con pochissima spesa; perché quelli, che quivi son padroni di 1000 scudi, stanno meglio, che non istarebbe altri in quei nostri paesi, che ne possedesse 10 mila. E se questa terra fosse coltivata d’Ulivi, de’ quali i PP. Gesuiti, ve n’hanno introdotti alcuni, che si vede che vi farebbero bene; e fosse ancora coltivata di Viti, che essi tengono solamente nelle pergole per delizia, sarebbe molto abbondante d’ogni bene. Ma quella nazione dedita tutta alla milizia, ed a guerreggiare continuamente lascia ogni sorta di coltivazione, e solo si provvede del Riso, che è il loro mantenimento, come tra noi il Grano; del quale ne raccolgono essi ancora, e ne fanno farina con certe piccole ruote, che loro stessi girano con una mano. 20 Non usano di farne il pane, ma lo mangiano in focacce cotte tra la brace, e ancora in altri diversi modi, ma tutti inferiori al pane; e la maggior parte va all’isole Filippine nella Città di Manila, dov’abitano gli Spagnuoli. Di tutto questo Paese del Giappone, nel tempo, ch’io vi arrivai, n’era Signore universale Taico Sama52, e poi Cambacù53, che vuol dire Governator generale del regno, restando ancora il titolo di Re nell’antica stirpe regia, che risiede nella Città del Meaco54, rappresentando la Maestà reale senza alcuna autorità, eccetto che di dar il nome a quelli, che si fanno Signori del paese, onorandoli in diversi titoli, secondo il merito loro. Siccome onorò questo Tiranno di quello di Governator Generale, il quale si nominava ancora Qiam Baccodono55, e prima quando era Soldato, e uomo privato Fasciba Chicugim56 allora tiranno, e non Re naturale di quel Regno, ne meno di Sangue Regio, ma era pervenuto al dominio per suo valore, e colla violenza dell’armi. Era prima stato Contadino di vile, e povera condizione, e poi fattosi Soldato diventò Capitano, e quindi militando negli esercizi del re Nobunanga57 divenne suo Generale, e colla cattiva fortuna del suo Re, che fu ammazzato da uno de’ suoi Capitani insieme col suo primogenito a tradimento, vendicata la morte del Re, con ammazzare il traditore, e colla parte dell’esercito rimastavi, guidato da miglior fortuna, dato addosso a quelli, che seguitarono il Capitano della parte contraria, quasi vincitori per la morte del Re, gli superò tutti, ed egli solo restò vittorioso. In questa maniera si fece Monarca di sessantasei Regni, i quali tutti ridusse a sua divozione, e comandò sotto l’ubbidienza del suo scettro, che resse e stabilì, mentre visse, in grandissima pace, usando varj modi di prudente Tiranno, e prima fece ammazzare tutti quelli, che potevano pretendere quella Monarchia. Di poi tramutò quasi tutte quelle Signorie, o Regni, scambiando il dominio dell’uno, e dandolo all’altro, con privarne ancora molti, e investirne altri, che dependessero totalmente da lui. Ma quello che più gli giovò a godersi, e mantenersi con quiete questa Monarchia fu, che nel medesimo tempo quelle stesse armi, che gli fecero conseguire l’Imperio, le fece andar fuori del regno, senza nessuna cagione a muovere un’ingiusta guerra in una penisola congiunta colla terra ferma della Cina secondo alcuni. 52. 53. 54. 55. 56. 57. Taikōsama, 大公様, titolo onorifico di governatore Kanpaku, 関白 Miyako (Kyōto) Kanpaku-dono Hashiba 羽柴 Chikuzen no kami 筑前の守, Toyotomi Hideyoshi 豊臣秀吉 Oda Nobunaga 織田信長 21 Altri dicono esser divisa da un piccolo Canaletto d’acqua del Mare, che la circonda tutta, passando tra la terra ferma, e la detta penisola, o vogliam dire isola, chiamata comunemente Corèa. Da’ Cinesi vien detta con queste tre sillabe Cio, Sei, En, ovvero Tau, Sei, Em; co’ quali conina tra Ponente, e Tramontana, dove è la Provincia di Pachin, e da oriente ha il Mare; e da Mezzogiorno vi sono l’Isole del Giappone, tanto vicine, che dall’ultima di queste chiamata Gotto, dove vi sono ancora quelle di Iscio, e di Zuscima58, vi si passa in poche ore, e con piccole barchette. A questa guerra vi tenne sempre un Esercito di 300 mila persone, parte Soldati a piede, e parte a Cavallo59. * Usano cavalcare montando dalla banda destra, mettendo il piede nella stafa in una strana foggia, perché aggravano il calcagno, e non la punta de’ piedi, come noi; e la briglia la tengono con ambedue le mani a modo di cavezzone, tirandola ora coll’una, ed ora coll’altra; ed è fatta a modo d’un cordone di seta, o di bambagia. Tengono in bocca al cavallo un morso di ferro molto semplice, e quando combattono, si legano le briglie al petto, e mentre vogliono guidar il Cavallo si travolgono colla persona in qua, e in là, e colle mani maneggiano le loro armi, che sono archibugi, lance, ed archi da tirar frecce. Adoperano ancora quelle loro Catane, delle quali ne portano sempre a cintola due, o tre; una più grande a foggia di spada, e l’altre più piccole a foggia di pugnali; ma tutte con una poca di storta, e d’un sol taglio. E come che nel Giappone sia costume, che i Signori delle Terre sono obbedienti al Re supremo ad ogni suo comando esser in pronto e lesti colle loro armi, e vassalli, in simili occasioni, e bisogni di guerreggiare, e che i Vassalli sono ancora obbligati a quei Regoli, da’ quali sono possedute le Terre colle medesime condizioni; questo Taico Sama, per levarsi d’intorno questi Signori li mandò quasi tutti all’impresa di Corea, dando loro ad intendere, che subito ch’avessero fatto acquisto de’ luoghi Marittimi, e fattavi l’entrata libera, che egli appresso si muoverebbe in persona, e verrebbe col restante della sua Milizia per proseguire avanti la vittoria, e conquistare per quella via tutto il gran regno della Cina, e così con questa sua invenzione, che fu creduta, distrusse tutt’il paese di Corea, innocentissimo di quella persecuzione, ed assicurò il suo da’ tumulti. Il Paese di Corea, dicono esser diviso in nove Provincie, le quali sono Cioscien capo di quel Regno, e nome della Città Reale; l’altre Quienquì, Conguan, Honliay, Cioala, Hiension, Tioncion, Hanquien, Pianchin. 58. Goto, Iki e Tsushima, grandi gruppi di isole al largo di Nagasaki 59. Le campagne di invasione della Corea furono due ed ebbero luogo nel 1592 e nel 1598 22 Da queste Provincie, ma particolarmente da quelle più Marittime, ne conducevano per ischiavi numero grande d’Uomini, e di Donne d’ogni età; fra le quali vi erano assai belle fanciulle, e tutti in diferentemente eran venduti a vilissimo prezzo; ed io ne comprai inino a cinque per poco più di dodici scudi e fattili battezzare gli menai meco, e nella Città di Goa li lasciai liberi, e solo uno di essi condussi con me in questa Città di Firenze, che oggi si ritrova in Roma, chiamato Antonio Corea. In questa guerra che durò molti anni, i Corei la facevano molto peggio, se non fossero stati aiutati da’ Cinesi; a’ quali, con tutto che abbiano Re proprio, pagano ogni anno certo tributo. In questa, oltre a un numero ininito di popolo, che dall’una, e l’altra parte vi si consumò, vi pericolarono la maggior parte di quei Signori del Giappone, de’ quali morendone molti senza igliuoli, e senz’eredi, quel Re, o Tiranno come vogliamo dirlo, s’impadroniva delle loro terre, e stati, e molti ancora ne coniscava loro, per qualsivoglia minimo errore, che nella guerra facessero, dalla quale non dava mai licenza a nessuno di poter ritornare a casa, sotto pena di lesa maestà. E così stando fuori del Regno la guerra, ed 23 i Signori d’esso, il soprannominato Tiranno faceva quanto voleva, senza contrarietà di nessuno. S’aggiugneva a questo, che la nuova conversione de’ Cristiani andava freddamente, per aver questo Re avuto qualche disgusto co’ Padri della Compagnia di Gesù, che sono penetrati per tutti que’ Regni, a’ quali aveva fatto torre la Città di Nagansachi, ch’era stata lasciata loro, e guastare la loro Chiesa, e preso tutto quel legname, di che era fabbricata, se n’era servito in un suo ediizio. Finalmente proibì, che non predicassero più quella lor Legge, la quale egli non istimava, che convenisse, che in quel Paese fosse insegnata, ne approposito per i suoi Vassalli, quantunque non credesse in alcuna setta; e spesso soleva dire, che le Leggi, e le Religioni sono state ritrovate dagli Uomini solo per ridurgli a vivere con modestia, e civiltà sotto quei precetti, e regole da loro non per altro inventate, tenendo per ferma oppinione, che dopo la morte del corpo, non ci fosse altra vita immortale. Ma egli si sarà avveduto benché tardi, senza rimedio di quella sua barbara, e bestiale oppinione nell’Iferno, dove ora si ritroverà, essendo egli morto in quell’errore d’anni settanta nel 1599 siccome si è di poi inteso, lasciando suo erede un suo igliolo di cinque anni chiamato Fideyori60, e raccomandatolo inino che abbia l’età di quindici anni a tre di quei regoli principali di quel Paese sotto nome di Governatori del Figliuolo61, inché sia pervenuto all’età di poter governare da perse stesso. Dicono che uno de’ tre Governatori, chiamato Dayfù Signor poderoso62, e che teneva più particolar contro di detto Fideyori, invidiato, e fattogli congiura contro dagli altri Governatori, fu forzato a venire all’armi, colle quali vinse, e restò solo Signore al governo del Re Pupillo, e parendogli d’essere l’istesso Re, poiché non aveva compagni nel comandare, e Governare quel Regno, si faceva chiamare Xogum63, che vuol dire Capitano Generale, lasciando vivere il piccolo Re insieme colla madre in una fortezza, che chiamano Ozzaca64; e fatta giustizia pubblica delli Capi della congiura, se ne stava come Padrone assoluto, governando quel Paese. Ma tornando al Re Taico Sama, egli fu quello, che fece Crociiggere sei Religiosi di S. Francesco dell’Ordine degli Scalzi di Spagna insieme con altri venti Giapponesi Cristiani a’ cinque del Mese di febbrajo nell’anno 1597 tra’ quali v’erano tre Giapponesi, che in quel punto avevano preso 60. Toyotomi Hideyori 61. Trattasi del Consiglio dei Cinque Reggenti (五大老 Go-tairō) composto da Ukita Hideie, Maeda Toshiie, Uesugi Kagekatsu, Mōri Terumoto e Tokugawa Ieyasu 62. Daifu 内府, Tokugawa Ieyasu 徳川家康 63. Shōgun 将軍 64. Ōsaka 24 l’abito della Compagnia di Gesù; ed io li vidi tutti al mio arrivo in Nagansachi, che ancora restavano interi in sulle croci poste sopra la sommità d’un Monte lontano dalla Città un tiro d’archibuso. Queste erano fatte come quella, nella quale fu crociisso il nostro Redentore, nondimeno diferenti alquanto di come si igurano, perché queste hanno più un pezzo di legno nel mezzo dell’asta, o tronco, che esce fuori dalla banda dinanzi, che ajuta a sostenere il corpo al paziente, che vi si accomoda sopra a cavalcioni. Di più hanno un legno a traverso a’ piedi nel quale si legano colle gambe aperte, ed in cambio di chiodi, usano certe maniglie di ferro, che coniccano nel legno della Croce aferrando i polsi delle braccia, il collo, e le gambe presso alla noce del piede, ovvero legano con fune tutte le dette parti del corpo; e mentre fanno nell’uno, e nell’altro modo questa giustizia; tengono la croce in terra; e fanno che il Paziente vi si distenda sopra, e accomodatovelo, subito alzano la croce, e messo il piede d’essa in una buca fatta apposta per questo, la rincalzano perché stia salda. Fatto questo, il Giudice, che li condanna, il quale è obbligato a star presente all’esecuzione della Giustizia, comanda al Manigoldo quello debba fare, il quale secondo l’ordine avuto con una lancia trapassa il Corpo al paziente; mettendogliene dal lato dritto, e passando pel manco gli attraversa il cuore; e gli va fuori dalla parte della spalla sinistra, trapassando tutt’il corpo da parte a parte. Molte volte vanno due Manigoldi ciascuno colla sua lancia, dandogli uno da una banda, e l’altro dall’altra, che incrociandosi le lancie vanno a riuscire tutte due le punte sopra le spalle, e così in un subito muojono: e se qualche volta accade ch’il paziente non inisca la vita con quelle due prime lanciate, lo ritornano a ferire nella gola, ovvero nel lato sinistro della banda di dietro che corrisponde al lato del cuore, e così lo iniscono. E questo è uno de’ modi di crociiggere nel Giappone. Usano ancora di lasciare star i pazienti vivi sopra le croci; e lasciarli morir quivi da per loro disagio, e di fame; ma questo segue secondo i delitti. Mettono ancora sopra le croci le donne co’ loro bambini lattanti a’ lor petti, e così tutti si muojono di stento. La loro Giustizia è veramente crudele, barbara, ed inumana, usando di gastigare per i malefatti d’uno tutta la sua famiglia, e spesso ancora gli altri suoi parenti in alcuni casi, come di fuoco, che abbruci case, ovvero latrocinj, ne’ quali casi gastigano, e fanno patir il danno anche a’ vicini di chi ha fatto il male. E per minime cose a mio tempo crociiggevano molti solo per aver rubato una radice, o simili bagattelle non punto meritevoli della morte d’uomini, della morte de’ quali ne tengono quel conto, che noi terremmo d’ammazzar una 25 Mosca, e per tutte le strade del Paese, non si vede altro da una parte, e dall’altra, che croci piene d’uomini, di donne, e di ragazzi senza quelli a’ quali tagliano la testa, che sono un numero indicibile, tanto è severa la Giustizia tra questa Nazione. Costumano ancora un’altra barbarie, e crudeltà, che è di far prova delle loro scimitarre, che chiamano Catane, sopra i corpi dopo che son morti, e ne fanno tanta stima, che trovandosene, come spesso se ne trova di quelle, che tagliano un corpo d’uomo pel mezzo, una coscia, o gamba, o braccio senza intaccarsi, vagliono migliaia di scudi, secondo che essi dicono. Ho veduta fare questa esperienza delle loro armi in uno, ch’era stato giustiziato, il quale subito che gli fu tagliata la testa, fu preso, e spogliato, e messo sopra un rialzo di terra, che fu accomodato apposta tanto largo, e lungo, che vi capiva quel cadavere. Ve l’acconciarono a giacere per in lato, e acciocché vi si potesse sostenere, e che non si rivoltasse, iccarono da una banda, e dall’altra delle mazze, e subito il principale di que’ Signori, che spesso viene ad essere l’esecutore di quella Giustizia, cavata fuori del fodero la sua Catana, ed impugnatala con ambe le mani, fece la sua prova, se poteva in un colpo, che egli s’ingegnò di dare con tutta la sua forza, tagliare a traverso quel corpo, e subito guardò la sua storta, se era intaccata; e ciò perché dall’uno efetto o dall’altro viene biasimata, o lodata, e per conseguenza tenuta in pregio; e molte alle volte sono state in istima tale, che sono state comprate in quel cimento 20 mila e 30 mila scudi l’una. Dopo che il principal Signore ebbe fatta la sua prova, molti altri ancora, che in quel medesimo tempo la si trovarono, provarono le loro armi, chi in una coscia, chi in uno stinco, e chi in un braccio, e chi dove potè; a talché il miserabile corpo fu fatto in minutissimi pezzi, che restarono quivi per cibo de’ cani, e degli uccelli, con che si inì quella festa di provar le Catane, la quale tra di noi si terrebbe a grandissima impietà da fare, come si dice, raccapricciare i capelli. Ma tra di loro fanno tutto per ispasso senz’alcuna alterazione, siccome appunto fra di noi si fa la notomia de’ corpi morti per istudio della medicina. La cagione, che quei soprammentovati Cattolici furon Crociissi fù, ch’al tempo di Taico Sama, vennero dall’Isole Filippine in questo Regno del Giappone l’anno 1593 quattro Religiosi di S. Francesco con titolo d’Ambasciatori, che la Città di Manila mandava a quel Re, con lettere del Governatore dell’Isole Filippine. Avendo detti Frati esposta la loro Ambasciata, e presentatogli quello, che gli portavano, domandarono licenza, con sua buona grazia di poter andar vedendo il Regno, e specialmente la famosa Città del Meaco Capo di tutto 26 quel Paese. Fu conceduto loro, e di più ancora fu a loro assegnata una casetta della Corte [mentre non se n’andavano] e provvisione da vivere a spese del Re; nel qual luogo cominciarono a predicare il Vangelo, ed a battezzare, senza pensar di tornar più a Manila, di dove erano venuti a quest’efetto, sotto quella coperta d’Ambasciatori. Anzi di poi ne vennero altri del medesimo Ordine, e dell’istesso luogo col medesimo desiderio, e zelo di fondar quivi, e per tutto il Regno la loro Santa Religione, e con ardentissima volontà di perpetuarvi il nome di S. Francesco. E cominciando a Predicare con più fervore, che forse non conveniva in quel tempo, correva il popolo a sentir questi nuovi Ministri di quei Santissimi Misterj, che tutti celebravano con molta carità, e divozione, non ostante che fosse proibito loro sotto pena di scomunica, che pronunziò il Vescovo, che era della Compagnia di Gesù, contro detti Frati, in virtù d’un breve dato a quelli di detta Compagnia da Papa Gregorio XIII che proibisce, che nessun altro, che loro possa venire in quel Paese a predicar il Vangelo sotto pena della scomunica. I buoni Frati, replicando dicevano non esser soggetti, atteso ch’avevano un altro Breve di Sisto V che concedeva alla loro Religione di potere andare per tutto il Mondo a predicare Cristo Crociisso, senza eccezione alcuna, non facendo menzione più d’un paese, che d’un altro. Non potendo andar contro detta proibizione, attendevano all’incominciata opera d’insegnare quello, che Nostro Signor Gesù Cristo insegnò, e disse di sua propria bocca a tutti li suoi Apostoli, ch’andassero, e predicassero per tutto il Mondo. E quantunque il Re del Giappone sapesse tutti questi andamenti de’ Frati nulla dimeno non se ne curava molto; ma il caso, ch’avvenne della perdita d’una nave Spagnuola65, gli fece far quello, che forse non averebbe mai fatto non avendo alcuna parzialità e passione. Il caso fu, che detta nave perduta, venendo dall’Isole Filippine per andar secondo il solito alla Nuova Spagna, carica di ricche merci della Cina, comandata, e signoreggiata da Spagnuoli Castigliani, e per fortuna di vento contrario al suo viaggio, avendo di già rotto il timone, e ritornandosi allora sopra l’Isole del Giappone, fu forzata ad accostarsi alla terra, come sbandata, e per salvarsi, venne ad approdare nell’Isola di Scicocù66, dov’è la famosa Città di Tossa67. La qual cosa saputasi in Corte, il Re subito pensò di farsene padrone, siccome appunto gli riuscì coll’autorità delle sue leggi, che condannarono per coniscare tutte le robe 65. Il galeone San Felipe, proveniente dal Messico, nel 1596 naufragò ad Urado sulle coste dell’isola Shikoku. 66. Shikoku, 四國 67. Prefettura di Tosa, 土佐 27 delle navi, che per disgrazia di Mare danno a traverso, o si vero arrivano sbandate per salvar la gente, o per altre necessità ne’ lidi, e porti del suo Regno. La qual legge parve molto strana, e rigorosa a que’ poveri Spagnuoli, che venivano in detta nave, e non vi potevano star sotto, né accomodarsi a perder tante ricchezze, che in essa avevano. Perciò cominciarono a raccomandarsi a quei Frati, che stavano nel Meaco, dove risedeva il Re, appresso la quale giudicavano poter esser mezzani a moderare tanto rigore, ed impietà. Parendo a’ Frati aver qualche amicizia con quel Re, com’in efetto avevano molto credito di buone persone, s’interposero volentieri, mossi da carità, e da amore della patria, e della loro nazione, che si trovava in quella miseria, a pregar per loro, non lasciando di fare qualsivoglia buono uizio appresso a quel Re, acciocché quelle robe fossero restituite a que’ poveri Spagnuoli, e non testassero coniscate. Questo fu il principio della loro persecuzione inino alla morte, sdegnandosi molto quel Re, che dicessero, quelle mercanzie esser la maggior parte de’ loro Frati, che stavano nella Città di Manila, siccome essi dissero per meglio ajutar questa causa. Ma il Re, che non era un balordo, infastidito di tal domanda, avendo di già messo a entrata la roba per sua, si adirò in così fatto modo dicendo: come dunque questi Frati, che dicevano esser così poveri, dicono ora, che questa roba della nave sia loro? Certamente io credo, che debbano essere persone di male afare, false, e bugiarde. In oltre avendo io comandato, e proibito, che non s’insegni quella loro impertinente Religione, so benissimo, che non ostante questo mio comandamento l’hanno insegnata, e predicando fanno dimolti Cristiani, e son rimasti in questa Corte, e fatto tutto il contrario di quello avevan detto di voler fare, ed io comandato. Perciò avendo essi trasgredito alla mia volontà, voglio, e comando, che sieno presi, e crociissi insieme con tutti quelli, che si son fatti della loro Religione, e questo voglio, che si faccia nella Città di Nagansachi. Alla qual sentenzia pronunziata dalla propria bocca di quel Re non vi fu chi replicasse parola, anzi fecero come comandava, e così furono messi in croce i detti Frati con venti Giapponesi, che eran familiari di casa loro, tre de’ quali presero l’abito della Compagnia di Gesù, quando andavano per esser crociissi, e tutt’insieme diedero la vita per amor di Gesù Cristo nel primo anno di Cheico68, alli venti dell’undicesima Luna, contando alla Giapponese, 68. Epoca Keichō 慶長 (1596-1615) 28 che fanno gli anni Lunari, cominciando l’anno dal far della Luna di Marzo, e allora veniva a essere alli cinque del mese di febbraio dell’anno 1597 che furono crociissi. Ancorché intorno a questo successo accadessero molt’altre cose, e accidenti, che saria troppo lungo a raccontare, questa fu nondimeno la cagione più potente della persecuzione contro questi Frati, la quale non mancò molto, che s’allargasse per tutta quella Cristianità coltivata da quelli della Compagnia di Gesù, e loro persone, dalla quale iddio per suo divino consiglio li Liberò, aine che non si perdesse il frutto, che hanno fatto, e fanno in quel Paese, convertendo tante Anime a Cristo Signor Nostro. E sebbene in quel tempo se ne stavano tutti fuggiaschi, e con le loro Chiese serrate, travestiti in abito di Giapponesi, scorrevano in tutte quell’Isole, procurando di mantenere, ed accrescere il numero di quei Cristiani, ch’allora si diceva esser più di 300 mila, e che ogni anno se ne battezzavano 25 mila e 30 mila; ed ora che quel Paese resta bagnato dal sangue di quei Religiosi, ed altri Cristiani crociissi, non è dubbio, che ogni giorno sieno per augumentarli. I corpi di quei Cristiani, che furono crociissi, furono levati via di sulle croci, e data a ciascuno degna sepoltura, benché a molti di loro, e spezialmente a’ Religiosi, erano già state tolte di notte molte membra, e principalmente le teste, non ostante, che vi stessero sempre le guardie, e che vi fosse la proibizione del Re, e del Vescovo Gesuita, che non si toccassero sotto gravi pene. Ma la divozione poté molto più, che il rigore della Giustizia regia, che in pena di ciò condannava alla morte, la quale non eseguivano a tutto rigore, che se l’avessero eseguita, averebbero potuto a molti farla provare, atteso che nel Giappone si possono far poche cose, che non si sappiano per la squisita vigilanza, che si tiene per quelle Città. Conciossiaché le strade sono da capo serrate con porte, dove, stando di notte chiuse, vi tengono le guardie, che non lascian passar nessuno, che non dia il nome, e dica dove vada, e che non sia ben ben riconosciuto da quelle. Di più ciascuna strada ha il suo Maggioringo69, o vogliamo dir Capitano, il quale è obbligato a tener cura di tutti gli altri, che abitano in quella Contrada, e se vi succede qualche misfatto, è tenuto a darne conto ino a mettere il delinquente in mano della Giustizia. I più vicini ancora sono tenuti l’uno per l’altro a fare il medesimo, quando accade qualche disgrazia intorno alle case loro. Queste nella Città di Nagansachi sono tutte fatte di legnami commessi insieme con artiizio, e lavorati con disegno, e misura tutti li materiali, che vi vanno. 69. Maggiorente 29 Si può in due giorni rizzare una casa, gli stili delle quali per reggerle si fermano sulle pietre grosse a foggia di base, fondate la metà sotto terra, e l’altra metà sopra; e questo fanno perché il legno non tocchi terra, e per conseguenza non infradici. Poi mettono le traverse incastrate ne’ sopraddetti stili, e sopra quelli coniccano le tavole, colle quali fanno le pareti alle stanze, che coprono poi con certa sorta di legno in asserelle, che si fendono a scheggie, com’il Pino, e quelle coniccano con bullettine, e servono in cambio di tegole, o embrici con soprammetterli l’uno all’altro, acciocché coprano le fessure, che non possa passar l’acqua. E perché essendo così di legname sono facili ad abbruciare, tengono per tutte le strade le Guardie, che tutta notte vanno gridando: Abbiate cura al fuoco; che quando s’appicca d una Casa abbrucia tutta la Città, come è accaduto a quella di Nagansachi; e allora Taico Sama ordinò, che il Padrone della casa, dove prima s’appiccase il fuoco, fosse crociisso con tutta la sua famiglia; ma in oggi questa legge più non s’osserva. In queste lor case, in una stanza, o sala fanno a lor posta degli altri appartamenti con tramezzarle, e rizzarvi una sorta di quadri grandi dipinti di varie cose, i quali s’aprono, e serrano, come un ventaglio, in quanto alle pieghe, e angoli, che fanno quando son ritti, ed aperti per reggersi interra sopra li detti angoli, e fanno oltre il comodo bellissima vista, e prospettiva. E benché in quelle medesime stanze vi sieno altre persone, [oltre al diletto, che si ha della pittura, varia di diversi uccellami, e iori, ed animali, e altre fantastiche invenzioni di disegni galantemente fatti, e coloriti a guazzo, e miniati con oro inissimo] non s’è veduti, perché sopravanzano l’altezza d’un uomo; ed essi se ne servono ancora per mettere intorno a’ letti acciocché li coprano; e con essi parano le muraglie, e fanno mirabile, ed allegra vista. Questa sorta di quadri sono chiamati in lingua Giapponese Biobus70, i quali fanno con molti fogli impiastrati insieme come cartoni, ed incollati sopra regoli di legno da tutte due le bande, talché nel mezzo resta voto, e li dipingono da tutte le parti indiferentemente. Li fanno ancora di drappo di seta cruda, come velo, tanti ricchi, e belli di lavoro, che spesso vagliono cento, e dugento scudi l’uno; ma gli ordinari, che sono assai belli per servizio, e ornamento comune delle loro case vagliono cinque, e inino a dieci scudi l’uno. Costumano di coprire il pavimento di tutte le loro stanze con certi sacconi di paglia grossi due dita, e lunghi braccia quattro, e larghi due, coperti di stuoje fatte d’un’erba del color della paglia molto ine come quella, di che si 70. Byōbu, 屏風 30 fanno fra noi i cappelli; la quale nasce nell’acqua, com’i giunchi; e giunchi per verità si possono chiamare, ed essi li chiamano y.o71. Di queste stuoje, o sacconi ne usano ancora ne’ letti, dove dormono, e servono di materasse, mettendone molti uno sopra l’altro, tanto che facciano l’altezza di un braccio chi più, e chi meno, senz’altre lenzuola, e per piumaccio, o guanciale tengono sotto il capo un pezzo di legno, o altra cosa non meno soda. Tali sacconi, che loro chiamano Fatami72, quando sono de’ più ini arrivano a valere 100 e 150 scudi l’uno; ma degli ordinari se ne trovano ad ogni prezzo. Sopra di essi seggono bassi, com’i Turchi, e vi vanno sempre scalzi con borzacchini, o calzettoni di cuojo di caprio, che calzano, com’un guanto aperti fra le due dita più grosse de’ piedi, i quali usano portare tanto gli uomini che le donne inino a mezza gamba. Quand’entrano per le case lasciano sempre le scarpe alla porta se sono forestieri, e di Padroni le lasciano agli usci delle loro Sale, e camere, e negli anditi; le quali son fatte d’un suolo di ilo di paglia attorcigliato insieme, ovvero di cuojo, con un legacciolo appiccato a gli estremi delle due bande del suolo, che viene sopra al piede, e ancora v’è un altro ilo, che si congiunge col predetto appiccato alla punta del suolo un poco indentro, nel quale v’entra l’apertura de’ detti due diti grossi del piede, e volendo lasciarle, basta alzare un poco il calcagno, e scuotere il piede, che subito escono. E’ necessario, che sieno così perché oltre che non camminano mai per casa con esse, usano ancora cavarsele per le strade, quando s’incontrano in qualche personaggio forestiero, a cui vogliano, o debbano fare onore; come accadde a me, che standomene un giorno a sedere sopra un ponte della Città per mio diporto, passando un Contadino, quando mi fu vicino cominciò a battere i piedi, tanto che gli uscirono le scarpe, le quali prese con una mano, e col corpo alquanto chino passò, dicendo: Gominari73, cioè perdonatemi, ancor che fra di loro comunemente non si salutino in questo modo, ma solo inchinandosi un poco col corpo, e col capo, e mettendosi le palme delle mani sopra le loro cosce scambievolmente. Quando stanno a sedere, non usano rizzarsi, ma solo inchinano il capo, ed il medesimo fanno quando sono visitati nelle loro case; e in questi modi in vece di cavarsi il cappello, che non usano portare, s’onorano l’un l’altro alla loro usanza, che in tutto è diferentissima dalla nostra. E ancora non sono meno stravaganti, e varj ne’ loro co- 71. I-gusa, 藺草, lett. erba I 72. Tatami, 畳 73. Gomen nasai, 御免なさい 31 stumi, de’ quali ne aveva fatta una nota, e contrappostili in tutto, e per tutto a’ nostri, siccome essi sono contrapposti a noi nel sito della loro terra; ma tutto andò male, come l’altre mie cose. Ma per dirne alcuni, che ora mi sovvengono che maggiore stravaganza si può egli trovare, che il modo di governare i loro ammalati, i quali cibano con pesce fresco, e salato con Telline, e altre Conchiglie di Mare, e con diverse frutte acerbe, agre, e crude. Né mai cavan sangue, e così vengono a fare in tutto e per tutto al contrario di quello, che facciamo noi. Gli Uomini di questo Paese in generale sono molto ingegnosi, audaci, dissimulatori, iracondi, e carneici in tal maniera, che pendono in bestialità; poiché senza aver timore alcuno della morte spesse volte a sangue freddo s’uccidono da loro medesimi tagliandosi il corpo in croce con una Scimitarra. Il che fanno ancora le Donne, le quali non sono punto meno crudeli co’ loro proprj igliuoli, i quali spesse volte ne’ loro ventri, o subito nati, per non aver quel fastidio, massime quando sono povere, d’allevarli, li ammazzano. Molti ancora per comandamento del Re, o de’ loro Signori s’uccidono, ed il simile fanno le donne, se il marito lo dice loro, le quali stanno tanto soggette, che ciascuno le può ammazzare a sua posta, senza che gli sia domandato il perché, e questa medesima autorità hanno i superiori co’ loro Vassalli, ed i Padroni co’ loro Servitori, e Schiavi. Il vestito più comune degli Uomini, e delle Donne è fatto quasi a un modo, e lo vanno mutando secondo l’età, ma tutti lunghi alla turchesca, però senza guarnizione, e senza bottoni, sovrapponendo una banda della vesta sopra l’altra, come una Zimarra, che si porti per casa, con maniche lunghe inino a mezzo braccio, e quella portano sopra la carne senza altra camicia, e legansela con un cordone di seta ripieno di bambagia alla cintura. Ma le Donne fanno questa legatura molto più bassa, e lente, e quanto più nobili sono, tanto più basso cingono il detto cordone, che gli casca sopra le cosce in foggia tanto sconcia, che appena possono camminare, e mentre vanno non potendo alzare i piedi li strascicano. S’involgono il corpo con un panno bianco dalla cintura in giù ino al ginocchio, e così coprono le loro vergogne subito che arrivano all’età di dodici, o quattordici anni, ed il simile fanno gli uomini con un qualche panno di bambagia. Vestono di drappi di seta, e d’oro di diversi colori dipinti, come si dipingono tra noi le sarge74* da letto, o simile altra sorta di panni, e quelle de’ poveri uomini sono comunemente di tela di bambagia, pure di colore azzurro, rosso, 74. Sargia, coperta 32 e nero; per bruno nella morte de’ loro parenti usano di vestire di bianco. Questi loro vestiti gl’imbastiscono con detta bambagia soda mescolata con una certa sorta di lanugine, che pare seta, ma più morbida, quale è molto approposito per tener caldo l’Inverno, che in questi Paesi non è meno pieno di piogge, di nevi, e di ghiacci, che sia infra di noi; siccome io per esperienza provai, quando stetti nella Città di Nagansachi, dove era grandissimo freddo, per esser terra sfasciata, e dominata da’ venti Settentrionali, che cagiona la terra ferma della Tartaria Orientale, dalle montagne della quale cariche di nevi escono que’ venti freddi. Le Donne sono di mediocre bellezza, di carnagione assai bianca, ma però tutte con gli occhi piccoli, che infra di loro sono stimati più belli dei grandi. Hanno i denti neri tinti con arte d’una certa vernice, com’inchiostro, i quali le fanno parere di bocche stravaganti, e piene d’oscurità; e così se li tingono gli Uomini nobili ancora, quando sono di quindici, o sedici anni, e le donne quando sono da marito, le quali si tingono di nero i capelli ancora, che esse stimano più belli de’ biondi. Gli uomini ancora usano custodirsi i capelli in vece della barba, che pochi hanno; e li portano alquanto lunghi con quelli delle tempie dal mezzo il capo in giù verso la collottola, e legati di dietro acconciamente, che pare uno spennacchino, spuntando loro le cime, ogni mattina se li pettinano, e rilegano con molto brio lisciandoli, e con oli odoriferi ungendoli perché lustrino; e se per mala sorta qualcuno toccasse loro quel ciufetto, che, dico, portano legato dietro alla collottola, sarebbe un’ingiuria fra di loro, come se tra di noi ci fosse toccata la barba per disprezzo. Il restante del capo ino alla fronte è tutto raso, e senza portare né cappello, né altro in testa, mentre son giovani, se ne vanno al Sole la State, e alla neve l’Inverno, portando in mano sempre una rosta, o ventaglio per farsi vento, e per ripararsi dal Sole, quando vanno fuori; e molti ancora usano portare l’ombrello, che li difende dalla pioggia, e dal Sole. Ma quando sono già vecchi portano certi berrettini in capo a foggia di sacchetti con due canti, quali poi imbottiscono con bambagia, mescolata con certi stracci, che sono fatti da alcuni bozzoli molto grandi, che nascono, o per dir meglio sono fatti da certa sorta di bachi simili a quelli, che fanno la seta, e trovansi per la campagna già sfarfallati; e questi bozzoli tengono molto caldo, per esser cosa morbida, e bambagiosa, ma di poco nervo; e uno di detti bozzoli serve a fare un berrettino tanto sono grandi. Questi popoli, ancorché sieno Gentili usano di prendere una sola donna, e tengono grandissimo conto dell’adulterio, il quale puniscono severamente con pena di morte d’ambedue, mettendoli sopra un carro, e menandoli legati 33 colle mani dietro a casa del marito, ed in sua presenza tagliando il membro virile all’uomo con tanta pelle del corpo, che faccia com’una cuia, la quale mettono in testa alla donna adultera, alla quale tagliano della sua parte vergognosa una striscia intorno alla sua natura, colla quale fanno una ghirlanda, che mettono sopra il capo dell’uomo adultero, e così conci, e adorni di que’ membri vanno per tutta la Città nudi, facendo miserabile, e vergognosa mostra de’ loro corpi a tutto il popolo; mentre uscendo loro il sangue da quelle parti ofese iniscono vituperosamente la vita. Non tengono già in tanta stima l’onore delle igliuole, e sorelle, anzi punto ne tengon conto; e spesso accade, che il proprio padre, madre, e fratelli le contrattano innanzi che sieno maritate [senza alcuna vergogna, che sia da nessuna delle parti] facilmente per pochi denari, astretti però da gran povertà, la quale per tutt’il paese è grandissima. E questa è la cagione, che si fa qualsiasi disonestà venerea, ed in tal modo, e per tanta diversa, ed inusitata maniera, che parrà impossibile il crederlo. Ma i Portughesi mi sono buon testimoni, spezialmente quelli, che vengono ogn’anno dalla Cina, cioè dall’Isola di Amacao con una lor nave di sete tessute, e da tessere, e Pepe, e Garofani, de’ quali si servono per le tinte, e con molt’altre diverse mercanzie, a vender quivi, per le quali ne ritraggono Argento, facendo il loro contratto nella Città, e Porto di Nagansachi, dove stanziano otto, o nove mesi, che consumano per dar ine a dette mercanzie. A questi Portughesi subito arrivati, e sbarcati in terra, vengono i mezzani di questa mercanzia di Donne a trovarli nelle case, dove alloggiano per detto tempo, e a domandar loro, se vogliono comprare qualche fanciulla vergine, o averla in altro modo, che più piaccia loro per quel tempo, che v’hanno a stare, o tenersela per qualche mese, o notte, o giorno, o ora; facendo prima il patto con quei sensali, o convenendo co’ loro parenti, dando loro il prezzo; e volendo, la menano alle loro case, acciocché prima la veggano, o si vero la vanno a vedere alla sua, e le più stanno fuori della Città in certi Casali, o Villaggi. Molti di questi Portughesi, che io ho chiamato in testimonio, s’accomodano a questa cuccagna, a loro piacere, e al meglio che possono per pochi danari; che bene spesso danno loro una bella fanciulletta di quattordici, o quindici anni per tre, o quattro scudi, e meno, o più, secondo il tempo che le vogliono tenere a loro requisizione, senza pensare ad altro, che a rimandarle a casa. Né per questo perdono l’occasione di maritarsi, anzi molte non si mariterebbero mai, se non acquistassero la Dote in questo modo, mettendo insieme trenta, o quaranta scudi, che spesse volte sono ad esse donati da que’ Portughesi, che se l’hanno tenute in casa sette, o otto mesi continui; e a molte è accaduto, che si sono maritate con esso loro. 34 Quando son donne che vanno a giornate, basta dar loro qualsiasi po’ di cosa, e non si lascerà mai di contrattarle per la diferenza della paga; che mai viene riiutata da’ parenti, o da que’ tali, che le tengono per questo efetto in casa loro per incetta, a’ quali si danno i danari, e sono queste schiave quasi tutte comprate a questo ine. Ve ne sono ancora di quelle, che convengono co’ mezzani, e basta loro aver da mangiare, e da vestire; e l’uno, e l’altro val poco; ed il guadagno che con esse fanno resta tutto a quelli, che le tengono. In somma in questo genere di venerei piaceri, il paese è tanto abbondante, che niente più siccome è abbondante d’ogni altra sorta di vizj, quant’altro luogo del Mondo, e massime infra i Gentili, che li più nefandi di fanno alla scoperta, come gli animali, senz’aver riguardo d’esser veduti, e senza timor di Giustizia né umana, né Divina. Ma tempo è oramai di pro ine al parlare di simili cose, e passare a dire, come da questo Paese ad altri si fanno molti buoni negozzi con tutto, che vi sia carestia grandissima di Vascelli, che sieno atti a far viaggi lunghi; benché i Giapponesi li facciano in ogni modo, ma con molto risico, andando all’Isole Filippine, dove portano farine di Grano, e altre sorte di vettovaglie, e mercanzie diverse, con guadagno di sessanta o cento per cento in capo a sette, o otto mesi. Vanno ancora nel Regno di Coccincina con certe monete di Rame, che chiamano Casce, le quali portano inilze (essendo bucate nel mezzo) di centinaja, e migliaja, annoverate per più speditamente poterle contare ne’ loro pagamenti; e con esse comprano gran quantità di legno Aloè, che i Giapponesi chiamano Giacò75, i Portughesi Aqhilà, e se ne servono continuamente in far profumi, e altri medicamenti, come noi; ma molto più per abbruciare con esso i corpi morti degli uomini nobili, e ricchi. Questo legno Aloè, ancorché si trovi ne’ iumi del Regno di Coccincina, portato dalla corrente di quell’acque da luoghi, e Regni lontanissimi, nondimeno nessuno sa dar ragguaglio che sorta di albero sia, né dove cresca. Navigano ancora inino al Regno di Siam, ed in quello di Patane nella Costa di qua da Malacca, e ancora vanno a Cambogia nella medesima Costa, di dove recano certo legno, come quello che si chiama Verzino, e loro l’addimandano Suò76; e tra Portighesi vien detto Sapon, il quale serve per tingere rosso, ed è il medesimo di quello, che vien dall’Indie Occidentali detto Brasil, e da noi Verzino. Dal Paese di Ciamba ne portano il Calambà, legno tanto prezioso, e tanto stimato in tutte l’Indie da tutte le nazioni, 75. Konjaku, 蒟蒻, pianta asiatica bot. Amorphophallus Konjac 76. Suō, 蘇芳 35 sopra tutti gli odori, che s’abbrucino, chiamato da’ Giapponesi Sciratago77. E con tutto, che qui tra noi non sia conosciuto, nondimendo tra’ Portughesi è tenuto in gran conto, ed io ne ho una corona, che in Malacca, dove la comprai mi costò dieci scudi. Da’ luoghi di Patane, e Siam recano assai di quelle pelli di pesce, che noi chiamiamo di Sagrì, ed essi Same78, delle quali fanno guaine alle loro armi, e altre manifatture curiose, siccome facciamo noi. Ne cavano grandissimo numero di pelli di Caprio, chiamato da loro Sicionocava79, che è, come se dicessimo di Capriopelle, le quali acconciano curiosamente con dipingervi sopra certi lavori di varj disegni d’animali, e altre artiiciose, e fantastiche invenzioni di disegni, che fanno con fumo di paglia di Riso, che da il colore a tutta la pelle, eccetto che a quella parte, che vien coperta dalla forma de’ lavori, i quali restano impressi, e delineati nel bianco della pelle, che non è afummicata per difesa della forma de’ lavori. Con queste pelli se ne fanno vestiti alla loro usanza, e ancora selle da cavalli molto vaghe, e vistose; e gli Spagnuoli se ne servono per far colletti molto belli, e leggiadri. Navigano ancora per l’Isole dette di Ziù, e Quiù80, che sono le più nominate, e di maggior grido appresso di loro, vicine al Giappone 600 miglia, spesso portandovi della sopraddetta moneta di Rame, e dell’armi, delle quali questa nazione abbonda forse più, che altra, che sia al Mondo di tutte le sorte, tanto ofensive, che difensive, e infra di loro hanno le Scuole, ogni sorta da se, dove insegnano a maneggiarle. Le cambiano gli abitanti di dette isole a cuoja di Cervio; delle quali ve ne sono ininite, e ancora con mele d’api, delle quali abbondano que’ barbari; i quali tanto gli uomini, quanto le donne vanno tutti nudi, e sono di persona, e statura molto belli; ma poco, o niente civili in riguardo a’ loro vicini co’ quali hanno commercio, ed in particolare co’ Cinesi della Costa, e Provincia di Cinecà, dove nasce la Canfora, a’ quali son vicini a venticinque, o trenta miglia. La qual cosa mi ha fatto spesse volte maravigliare di vedere tanto quelli di quest’Isole Ziù, e Quiù, come molti altri Popoli convicini alla Cina mantenersi nella loro barbarie, ed inciviltà avendo pratica, e commercio, ed intendenti, come sono i Cinesi, e Giapponesi, che giornalmente trattano, vengono, e conversano insieme. Essendo cosa assai ordinaria, che in una medesima Terra, 77. Calambac, pianta particolarmente odorosa spontanea nel Sud-Est asiatico 78. Same, 鮫, pelle di squalo conciata 79. Shishi no kawa, 鹿の革, pelle di cervo conciata 80. L’arcipelago delle Ryūkyū 琉球, oppure antico nome dell’isola Taiwan 36 o Provincia spesso si vegga due sorte d’uomini diferenti in costumi, ed in fattezze; che l’una sarà civile, e trattabile; l’altra incivile, e barbara; quelli di preferenza ben formati, e belli; quest’altri deformi, e brutti. Ma che che si sia di questi Barbari, lasciamoli un poco, e ritorniamo a parlare de’ popoli del Giappone; de’ quali mi resta ancora a dire a V.A.S. del modo, col quale scrivono, per rappresentare il quale dico, che usano lettere, e proprj caratteri. Intendono ancora il libri Cinesi, ne’ quali sono scritte le loro Leggi, e l’altre Scienze, e anco la Teologia delle loro superstizioni in caratteri gerogliici comuni ad intendersi così a loro, com’a quegli ancora, che sono diferentissimi nel parlare, che questo non importa, nominando ciascuno nella sua lingua quelle cose, che sono signiicate con que’ gerogliici81. Ma per scrivere familiarmente, e comunemente le loro lettere, e afari hanno tre, e quattro sorte d’Alfabeti di quarantadue lettere l’uno; e quelle sono tutte sillabe, eccetto le vocali, e quando scrivono fanno il verso per lo lungo del foglio. Cominciando di sopra dalla mano dritta verso la manca, vengono in giù col verso ino alla ine di tutto il foglio, e poi ritornando di sopra, seguitano a scrivere quel che vogliono. Come per esempio dell’una, e dell’altra cosa metterò qui sotto per maggiore intelligenza uno delli loro Alfabeti, cioè la pronunzia delle sillabe d’esso, poiché li caratteri proprj si sono perdute coll’altre scrittura. Principio del verso. Chio. A. Ia. Io. Ci. I. Gio. Za. Ma. Mu. Ta. Ri. Lo. Chi. Che. U. Re. Nu. Fa. Iu. Fu. Y. Zo. Ru. Ni. Me. Co. No. Zu. O. Fo. Mi. E. Vo. Ne. Iea. Fe. Sec. Ze. Cu. Na. Ca. Fo. Le due ultime sillabe vogliono dire il ine; e di più hanno ancora li caratteri de’ numeri, le sillabe de’ quali da uno inino a dieci sono li seguenti. 1 Iu. 2 Ni. 3 Ta. 4 Sci. 5 Go. 6 Loca. 7 Sicci. 8 Facci. 9 Cu. 10 Giu.82 Ma quanto all’Alfabeto si legge nelle scuole de’ Fanciulli, quando imparano, in tuono di verso cantando, in questo modo pronunziato83. 81. Kanji, 漢字, lett. caratteri cinesi 82. Ichi, ni, san, shi, go, roku, shichi, hachi, ku, jū 83. I ro ha ni ho he to, chi ri nu ru wo,… poesia dell’Epoca Heian, usata come sistema alfabetico 37 Ilò, fa, ni, fo, fe, to. Primo verso Ciui, nu, ru, o, vaca. Secondo verso. Io. ta. re, zo. zu, ne, na. Terzo verso. Ra. ma. u. yno uo, cu. Quarto verso. Ia. ma. che. fu. Coete. Quinto verso. Ara chiù, me, mi, sci. Ultimo verso. E tutte queste soprascritte sillabe si compongono con diciassette delle nostre lettere, mancando loro la B, che in suo luogo si servono della V ed in vece della D della lettera T ed in luogo della P si possono servire della lettera F e in cambio del Q di quella del C, quale C supplisce a tutte due, e quella X vale quanto la I e così l’Alfabeto resta intero, e perfetto in tutto, col quale signiicano ciò che vogliono condividersi, e numerosi vocaboli, che essi dipingono con pennelli in scrittura della loro lingua, che comunemente parlano in diversi modi. Poiché per dire un medesimo concetto parlando a qualche personaggio, o a plebeo, o a Donne, ovvero per onorare, o dispregiare altrui usano diversi modi di dire, che pare in certa maniera che sieno più lingue, essendo nondimeno una sola. Con tutto ciò la più pulita, e civile è quella, che essi chiamano lingua del Meaco, cioè di come si parla in quella Città Capo della maggiore Isola del Giappone, dove risiede il Re colla sua Corte. Le lettere, o sillabe dicono di più, che signiicano ancora da per se stesse qualche cosa in proprio, come dire la lettera A84 in parlando vuol dir si, e il medesimo signiica quella dell’O85 e la lettera I vuol dire quella paglia86, che nasce nell’acqua, com’i Giunchi, colla quale si fanno i Fatami, che coprono i pavimenti delle loro case; e la sillaba Fa87, vuol dire denti, e Fe88 le mani, Me89 gli occhi, e Mi90 signiica io; che in questo concorrono co’ Lombardi, che usano il Mi, in luogo di io. Siccome ancora pare che Dono91 abbia simiglianza di Donno, che vuol dire Signore in lingua nostra Toscana preso dalla Latina, e come nella Giapponese con diferenza della pronunzia, che causa quell’N in meno; e così segue di tutte l’altre lettere, e sillabe del predetto Alfabeto. Quella dell’U92 signiica una certa sorta d’Uccello di Mare, grande com’un’Oca, e col collo a quel modo lungo, e di color nero, e il becco molto acuto; ha gli occhi grandi, ed i piedi corti. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. Hai, “si!” Ō, 応, ok Vedi nota 54 Ha, 歯 Te, 手 Me, 目 Mi, 己, se stessi Dono, 殿 U, 鵜, cormorano 38 Di quest’Uccelli se ne servono a pescare mandandoli sotto l’acqua legati con una cordicella sotto ambe l’ali, che riesce loro al collo, per la quale cordicella fanno passare un pezzo di canna, che scorre verso il collo per serrarlo, acciocché quando escono fuori dell’acqua col pesce in bocca, non se lo inghiottiscano. Mentre se ne servono in questo modo di pescare acquistano un altro nome, e chiamati Unotori93. Di questi Uccelli tengono per loro spasso que’ Signori più principali del Paese, chiamati Tori, vocabolo comune a tutti que’ Regoli senz’altro titolo di Duchi, né di Conti, né di Marchesi, né di Re, eccetto quello, che fa la sua stanza nella città di Meaco, che da i titoli a tutt’i Signori del Regno, come si è detto per usanza del Paese. Di quivi dopo esservi stato dal mese di Giugno inino a quello di Marzo dell’anno 1598 facemmo pensiero di partire, e andare verso la Cina; ma perché in quell’anno non venne la Nave consueta venire ogn’anno da Amacao a Nagansachi, siccome s’è detto, noi per non aver ad aspettare un altr’anno c’imbarcammo col nostro avere sopra un Vascello del Giappone, che doveva andare al Regno di Coccincina, il quale passando per l’Isola di Amacao ci messe in terra come racconterò a V.A.S. nel seguente Ragionamento. *** Costantino Brandozzi nasce ad Ascoli Piceno, ove risiede, nel 1958 ed a 15 anni inizia lo studio delle arti marziali giapponesi, in particolare il karate Wadō-ryū. Nel 1981 conosce lo scultore e maestro di Hōki-ryū iaidō Kazuhiko Kumai, residente a Milano, del quale diventa allievo e dal quale viene introdotto in Giappone allo studio delle scuole classiche marziali, le koryū. Nel frattempo approfondisce la conoscenza della lingua giapponese e la grammatica classica, iniziando a tradurre testi didattici della scuola di iai-kenjutsu Katayama-ryū, sotto la guida di Yuji Wada shihan. Ha soggiornato ben dodici volte in Giappone ed ha completato lo studio marziale apprendendo le scuole Fūden-ryū di lancia (con il 14° caposcuola Nakada Takeo) e Tenjin Myōshin-ryū di jūjutsu, nel quale ha conseguito il titolo di menkyo-kaiden conferitogli dal prof. Atsumi Nakashima. Ha creato la sala di allenamento Isononami Dōjō e l'associazione Isononami Kai per la pratica, studio e diffusione delle autentiche koryū giapponesi. Studioso di neuroscienze e psicologia applicata allo sport ed all'attività motoria in genere. Copyright 22 Settembre 2016 93. Unotori, 鵜の取, lett. cormorano che prende 39