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Guerra alla cina e all'Iran

Agli inizi degli anni ’90 il Pentagono elabora un concetto di guerra asimmetrica denominato AirSea Battle, con il fine di mantenere il dominio statunitense sulle principali arterie del commercio internazionale, sottraendole ai potenziali concorrenti. IL DIBATTITO ALL’INTERNO DELL’ESTABLISHMENT AMERICANO È SEMPRE PIÙ SERRATO. IL PESO DEI “TEORICI DEL ROLLBACK” E LE AVVISAGLIE DI GUERRA CONTRO IRAN E CINA.

Internazionale SETTEMBRE - OTTOBRE 2011 Agli inizi degli anni ’90 il Pentagono elabora un concetto di guerra asimmetrica denominato AirSea Battle, con il fine di mantenere il dominio statunitense sulle principali arterie del commercio internazionale, sottraendole ai potenziali concorrenti. Guerra alla Cina e all’Iran? di Francesco Maringiò IL DIBATTITO ALL’INTERNO DELL’ESTABLISHMENT AMERICANO È SEMPRE PIÙ SERRATO. IL PESO DEI “TEORICI DEL ROLLBACK” E LE AVVISAGLIE DI GUERRA CONTRO IRAN E CINA . R idurre la presenza in Iraq ed Afghanistan, mantenere quella nel Golfo Persico/Arabico e ricalibrare la proiezione strategica in Asia. In estrema sintesi è questa la strategia militare portata avanti dagli Stati Uniti negli ultimi anni, elaborata nel biennio conclusivo della presidenza Bush e proseguita (senza il lessico da retorica imperiale, ma senza alcuna differenza strategica) da Obama. E questo per far fronte all’ascesa impetuosa dei due principali competitor: Iran e, soprattutto, Cina. AIRSEA BATTLE Fin qui, verrebbe da dire, nulla di nuovo. Se non fosse che il serrato dibattito all’interno dell’establishment statunitense (ed in particolar modo tra Pentagono e Casa Bianca) arriva a partorire un dettagliato piano di guerra nei confronti della Cina. È un articolo sulla rivista Inside the Pentagon, vicina alle alte sfere militari, a raccontarci che una squadra speciale di ufficiali della Marina, 1 soprannominata China Integration Team, «lavora duro per applicare l’AirSea Battle» ad un potenziale conflitto con Pechino. Ma facciamo un passo indietro. Agli inizi degli anni ’90 il Pentagono elabora un concetto di guerra asimmetrica, basato sull’impiego di particolari mezzi ed adeguate procedure, denominato AirSea Battle, con il fine di mantenere il dominio statunitense sulle principali arterie (di mare, di terra e di cielo) del commercio internazionale, sottraendole ai principali o potenziali concorrenti, così come pianificato nel Planning Guidance, il documento strategico elaborato dal Pentagono nel 1992. Oggi questo concetto militare viene codificato in funzione di un potenziale conflitto con quei paesi che possono, dal punto di vista economico, militare e geopolitico, mettere in crisi questa egemonia, ossia l’Iran (per l’influenza esercitata in Medio Oriente ed Asia Centrale) e la Cina (per la sua, oramai globale, capacità egemonica). Che la discussione tra fazioni trasversali all’interno della classe dirigente statunitense corresse da tempo sottotraccia era evidente ai più, ma è stata la recente e sempre più determinata proiezione di Pechino nei mari a sud delle sue coste (notoriamente ricche di risorse minerarie ed energetiche e preminenti vie marittime contese in tutto il Sudest asiatico) ad aver inquietato gli strateghi militari statunitensi ed aver dato fiato a quanti si fanno portatori di una linea aggressiva nei confronti della Repubblica Popolare e di Teheran. ASIA 2025 Nell’estate del 2001 uno studio del Pentagono denominato Asia 2025 identifica la Cina come un «persistente competitor degli Usa» e, dopo solo tre anni, viene reso pubblico un documento del governo degli Stati Uniti incentrato su un progetto di realizzazione di una nuova catena di basi militari in Asia Cen- Internazionale SETTEMBRE - OTTOBRE 2011 trale e Medio Oriente, in grado di cingere i confini della Repubblica Popolare, creando intorno un “cordone sanitario”. Dopo altri quattro anni (siamo nel 2008) Washington e Nuova Delhi stringono un patto di cooperazione nucleare con l’evidente intento di creare un contrappeso alla Cina nella regione. È un importate colpo, messo a segno dalla diplomazia statunitense, dopo i deludenti risultati delle campagne militari in Mesopotamia ed Asia Centrale. È in questo contesto che nasce l’idea di aumentare la presenza navale nelle acque del Pacifico contigue alle coste asiatiche, sviluppare la cooperazione militare con i paesi partner dell’area e trasformare l’isola di Guam in un vero e proprio hub militare statunitense nel Pacifico. Il Dipartimento della Difesa Usa ha inoltre suddiviso il mondo in sei comandi regionali (Nord, Sud, Europa, Africa, Centro, Pacifico) con i rispettivi centri di direzione guidati da un generale che sovraordina la politica Usa nella data regione a stretto contatto con il Presidente. Il comando per il Pacifico, Uspacom, è posto all’isola di Honolulu, mentre quello per il Centro (Asia centrale), Uscentcom, a Tampa, in Florida. A completare il quadro è utile ricordare che, nonostante la terribile crisi economica che ha colpito l’economia americana, la spesa militare Usa stimata per il 2010 è di 712,8 miliardi di dollari: quasi quanto quella del resto del pianeta e più di sei volte superiore a quella della Cina. TEHERAN È a partire da questo quadro che va letto l’atteggiamento delle autorità di Teheran in merito al programma nucleare per scopi civili. I forti toni spesso usati da Ahmadi-Nejad, come si capisce guardando la sequenza di questi eventi, hanno lo scopo di tenere alto il livello di attenzione internazionale sul rischio concreto di un attacco militare al suo paese, con il fine di sovvertirne l’ordinamento politico interno (cosa, questa, vietata dal Diritto Internazionale) e far arretrare il livello tecnologico, civile e militare iraniano per mezzo di un bombardamento ai poli tecnologici e di ricerca della Repubblica Islamica. PECHINO Decisamente interessanti i segnali lanciati, in questo contesto, dalla Cina. Il primo è la formulazione di una politica estera non aggressiva ma basata sul principio della cooperazione. Prova ne è, solo per fare alcuni esempi, lo spirito che anima l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (imperniata sull’asse Mosca-Pechino) o la stessa presenza cinese in Africa che, anziché portare avanti politiche predatorie e neocoloniali (come fatto per secoli dai principali paesi imperialisti), ha sviluppato una fitta rete di rapporti con nazioni che vendono a Pechino risorse ed energia in cambio di infrastrutture, ammodernamento del paese e sviluppo tecnologico: basi indispensabili per lo sviluppo di una politica autonoma ed indipendente. A tutto questo è importante aggiungere anche la formulazione della teoria della «crescita pacifica», sistematizzata in un saggio del 2005 pubblicato su Foreign Affairs a firma di Zheng Bijiang e sviluppata dall’attuale Presidente Hu Jintao con la teorizzazione sullo «sviluppo ar monioso». Il che dimostra come il gruppo dirigente del Pcc, nel perseguire il progresso della propria nazione, abbia a cuore il conseguimento della pace nel pianeta. Contemporaneamente però, poiché la pace non può essere raggiunta o mantenuta solo con le buone intenzioni, la Cina ha fatto capire a Washington che non è disposta a subire alcun tipo di angheria e che la sproporzione tecnologica in campo tra i due paesi, anche dal punto di vista militare, tende a ridursi sempre più. Così nel 2001 viene abbattuto sui cieli cinesi un aereo spia Usa in volo sui cieli di Pechino senza autorizzazione per rubare segreti militari e tecnologi (immaginiamo cosa sarebbe successo se un aereo spia russo o cinese avesse sorvolato i cieli americani…), il 15 ottobre del 2003 la capsula spaziale “Lunga Marcia” manda in orbita il primo astronauta cinese e nel 2007 l’esercito della Repubblica Popolare abbatte un proprio satellite meteorologico con un missile balistico: segnale, questo, di accresciuta capacità tecnologica e militare che certo non è sfuggita a Washington e, soprattutto, agli strateghi del Pentagono. La Cina sa bene che la pace non si difende solo con le buone intenzioni. Per questo ha fatto capire a Washington che non è disposta a subire alcun tipo di angherie e che la sproporzione tecnologica in campo, anche dal punto di vista militare, si riduce sempre di più. CONTAINMENT O ROLL BACK? Oggi negli Usa si sta acuendo una discussione che ricorda la dialettica che ci fu all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. All’epoca il principale competitor degli Stati Uniti era l’Unione Sovietica e l’establishment americano si divideva tra i fautori della politica del “containment”, elaborata da Truman nel ’47, e quella aggressiva del “rollback” che puntava al rovesciamento dei sovietici anche a costo di impiegare l’arma atomica. Il tema fu posto in discussione più volte e, in particolar modo, fu oggetto di un seminario strategico segreto (il Solarium Exercise) nell’estate del 1953 per volontà del Presidente Eisenhower. Fu proprio in questa occasione che si scelse la via del 2 Internazionale “containment” (sponsorizzata da George Kennan e fatta propria dal Presidente) che puntava a contrastare l’influenza sovietica attraverso un accorto equilibrio tra hard power (che comunque escludeva il confronto diretto o, peggio ancora, l’avvio di un nuovo conflitto mondiale) e soft power. Scelta, questa, portata avanti negli anni sia da presidenti democratici che repubblicani. Mutatis mutandis, la discussione che divide oggi l’establishment della prima potenza militare del pianeta ha come oggetto l’atteggiamento da tenere nei confronti del gigante cinese, la cui capacità di penetrazione ed influenza nell’economia e nel commercio internazionale è impressionante, il cui sviluppo economico è sbalorditivo e il cui potere politico è nelle mani del Partito Comunista. Il Blue Team, la frazione trasversale delle classi dirigenti statunitensi coerenti con i teorici del “rollback”, ritiene la Cina un nemico molto più insidioso e pericolo dell’Urss e spinge perché si intraprendano tutte le iniziative possibili affinché si sfrutti la momentanea superiorità militare per produrre una collisione in grado di far deragliare la locomotiva cinese, prima che sia troppo tardi. Di converso, gli appeasers del Red Team, in coerenza con la politica del SETTEMBRE - OTTOBRE 2011 “containment”, spingono perché con la Cina si riesca ad istituire un patto di convivenza e di gestione dell’egemonia globale, cercando sempre di mantenere una primazia statunitense. Il Presidente degli Stati Uniti, differentemente da come ci viene rappresentato dalla propaganda (soprattutto cinematografica), non è l’uomo dai “pieni poteri” ma colui chiamato invece a mediare tra le fazioni della borghesia del suo paese, in perenne conflitto tra di loro. Emblema di questa debolezza è proprio Obama, il cui carisma e la cui popolarità in campagna elettorale sono inversamente proporzionali alla capacità dimostrata nelle scelte di fondo. Su ogni capitolo essenziale (dall’Afghanistan alla Libia, dalla riforma sanitaria alle scelte economiche) ha sempre fatto affermazioni che poi, puntualmente, la prassi si è incaricata di smentire. Chiamato a ristabilire una politica del “containment” dopo la gestione Bush, che era espressione delle spinte dei neoconservatori (Wolfowitz, ma anche apparati mediatici come Fox News ed il Wall Street Journal) e dei neonazionalisti (Dick Cheney, Rumsfeld), Obama è espressione invece dell’ala realista (meno narrativa imperiale, più difesa della potenza americana, per intenderci), oggi in difficoltà per la crisi economica ed i contrasti con il Segretario di Stato Clinton (minori) ed i militari (maggiori). La vera partita che sta giocando Obama e che vale la sua rielezione è proprio nella capacità di trovare una sintesi tra il Blue ed il Red Team e costruire una strategia in grado di offrire una risposta credibile alla crisi (non solo economica) che sta inghiottendo il paese. Le stesse divisioni all’interno del Congresso tra Democratici e Repubblicani in merito alla politica domestica hanno il loro punto di disarticolazione sulla politica estera e sul rapporto da avere con Pechino: qui le appartenenze politiche si scompongono per dar corpo a gruppi di interesse e di pressione diversi. Del resto non è un tema di poco conto: non solo una politica più o meno aggressiva o guerreggiata permette di avere più o meno capacità di spesa per i bisogni interni, ma in ballo c’è il perdurare o meno del potere di signoraggio del dollaro (più volte messo in discussione da Zhou Xiaochuan, governatore della Banca Centrale Cinese). La qualcosa aprirebbe una nuova fase nello scenario internazionale, i cui confini e la cui portata è difficile anche solo immaginare. Dal documento politico del VI Congresso del Pdci “Possiamo trovare nella fase presente del capitalismo tutti i tratti dell’accezione leninista dell’imperialismo (concentrazione del capitale, oligarchia finanziaria, esportazione del capitale, ripartizione del mondo in gruppi monopolistici, spartizione del globo tra le potenze). Tale situazione genera i conflitti per mantenere (o guadagnare) le posizioni acquisite dalle potenze imperialiste. È ciò che avviene oggi: la guerra è sempre l’opzione preferita dagli Usa per tentare di uscire dalle crisi. La portata di questa crisi, però, segna l’ipotesi del declino degli Stati Uniti che, di fronte alle difficoltà che ne minacciano il primato mondiale, tentano come sempre di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti. Da qui nascono tutte le guerre e le aggressioni militari che hanno caratterizzato la politica mondiale dell'ultimo ventennio, e che hanno visto come responsabili gli Stati Uniti e, a geometria variabile, le principali potenze capitalistiche dell'Ue e Israele: Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libano, Palestina, Congo, Sudan, Libia. Interventi militari che nel loro insieme hanno provocato più di 6 milioni di morti civili, e che sono sempre stati giustificati con l’ipocrisia umanitaria della difesa dei diritti dell'uomo. Tutte queste guerre hanno avuto fondamentalmente due denominatori comuni: assicurare agli Stati Uniti e ai loro alleati il controllo su aree economiche e geopolitiche decisive per l'approvvigionamento e il trasporto delle principali fonti di energia, ma anche l’installazione di postazioni strategiche essenziali a contenere l'influenza internazionale di Russia e Cina”. 3