“Chi sono, io?”
Studentessa: Valeria Meazza N. Matricola: 3731675 Cell.: 3425321356
Elaborato scritto per il corso: Teoria della Letteratura (LM), cod. 66410
Introduzione
La scelta dei testi presi in esame nel presente lavoro è stata guidata da un interesse di ricerca specifico: il problematico processo di (ri)definizione del sé che ha luogo nel narrarsi. A vario titolo i protagonisti di questi racconti sono chiamati a narrarsi e, nel farlo, ad esprimere una parte o il tutto della propria identità; ciò a cui assistono i narratari (e conseguentemente i fruitori) è uno svelamento “poietico” nel senso greco del termine: nell'essere confidata o rivelata l'identità si (ri)crea.
2.1. Il diritto di essere (se stesso?): La patente di L. Pirandello
La novella La patente di L. Pirandello si apre con una lunga sequenza descrittiva
[Con quale...giudice istruttore]: si tratta di una descrizione dinamica intervallata da interventi digressivi di carattere espositivo. Il più importante di essi serve ad introdurre una caratteristica fondamentale di D’Andrea, in forte contrasto con il suo ruolo istituzionale ma che, coniugata ad una profonda umanità, sarà decisiva per l'incontro con Chiarchiaro: un persistente senso di dubbio. : in essa un narratore extra-eterodiegetico che narrerà in ulteriore presenta la figura del giudice D'Andrea, istruttore del processo per diffamazione intentato dallo iettatore notorio Rosario Chiarchiaro nonché narratario del racconto di sé che quest'ultimo condurrà. Anzitutto, il narratore presentando questo personaggio sembra premurarsi fin dalla caratterizzazione fisica di far capire che ci si trova di fronte ad un “diverso”: un uomo magro ed ingobbito, debole di vista, i cui capelli crespi denunciano una storia genetica quantomeno complessa. Alla figura fa da contrappunto una straordinaria fibra morale
È interessante notare come il nome di battesimo del giudice non compaia mai, nemmeno quando si accenna al “prodotto umano” certamente insolito che egli è: quasi che il ruolo istituzionale fosse, ben più che il nome proprio, la cifra autentica della sua identità. Un’identità peraltro combattuta, dal momento che le continue incertezze scaturite dalle meditazioni notturne mal si accordano con la saldezza incrollabile che la Legge nel suo esercizio solitamente presuppone.: D'Andrea è un uomo animato da un profondo senso del dovere e della giustizia ma al tempo stesso mai libero da dubbi sul proprio operato. Anzi, ancor di più: nelle lunghe notti insonni il giudice pare tormentarsi sul senso stesso dell’esistenza. Riguardo questo aspetto, tuttavia, si resta nel campo delle ipotesi. Infatti, nonostante in R1 tanto la prospettiva quanto la focalizzazione siano fisse su questo personaggio, la seconda si mantiene ad un livello superficiale: è possibile conoscere alcuni pensieri ed emozioni del giudice ma i dubbi ed i ragionamenti sono preclusi. Ogni volta che essi stanno per essere rivelati il narratore interviene fermando l’immagine sul giudice nell’atto di osservare le stelle o di guardare di traverso il penoso incartamento del processo e, spegnendo i riflettori con un procedimento quasi teatrale, esprime delle considerazioni che potrebbero essere, ma non si può sapere se davvero siano, i suoi pensieri. Sembra possibile leggere in questa scelta quasi un'avvertenza implicita fornita dall'istanza narrativa
Non sembra possibile qui parlare di parallissi. Infatti, sebbene la focalizzazione sia interna fissa sul personaggio del giudice in questo livello diegetico, la tendenza a mantenersi alla superficie dei suoi pensieri permane in tutta la novella: non si verifica alcun inopinato restringimento del flusso informazionale.: come se si volesse avvertire il lettore che, nonostante l'ampio spazio dedicatogli, non è il giudice l’unico protagonista della novella.
Al complementare dialogico del giudice D'Andrea, nonchè figura tragica della vicenda, si approda attraversando una seconda sequenza evenemenziale in pseudo-singolativo con frequenza 7s/1r
[Eppure...una magnifica festa].. Ad essa è affidata la narrazione di una settimana davvero travagliata per il giudice, a causa di un processo tanto ingiusto quanto insolito il cui fascicolo è rimasto bloccato sulla sua scrivania in attesa di stabilire il da farsi. All'interno di questa sequenza è possibile isolare tre microsequenze di fatti intervallate da due interventi di mediazione del narratore che, nella forma del discorso indiretto libero, fanno affiorare nel primo caso i probabili pensieri del giudice, nel secondo la vox populi in merito alla querela: attraverso quest'alternanza vengono precisandosi la natura del caso e le ragioni che lo rendono tanto insolito e delicato. La distanza si mantiene bassa
Le microsequenze riguardanti la routine del giudice, infatti, sono ricche di dettagli, a velocità bassa e con limitata presenza del narratore; i racconti di parole, invece, pur presentando una mediazione narratoriale, lasciano trasparire notevolmente la voce di D’Andrea e dei colleghi: addirittura si riporta in discorso diretto l’esclamazione esasperata con cui, al nome di Chiarchiaro, qualcuno ha tentato talvolta di ridurre il giudice al silenzio. nell'intera sequenza e questo ingenera nel lettore un duplice effetto: anzitutto, è avvinto dalla curiosità di conoscere con maggior precisione il caso che indispone il giudice; in secondo luogo, la profusione di dettagli in merito al contegno del serio D’Andrea che, assopitosi alla scrivania per un eccesso di concentrazione, si risveglia e riserva un verso di esasperazione all’incartamento e la minuziosa rassegna degli scongiuri messi in atto dai colleghi al nome del querelante (che qui compare per la prima volta) portano con sè una comicità davvero godibile.
Fino a questo punto della novella l’identità di Chiarchiaro è solo un nome cui si accompagnano in modo ambivalente le apposizioni “un disgraziato” e “un jettatore”. Proprio da tale ambivalenza, però, nonchè dalla percezione dell’ottusa e tracotante ferocia di uno degli avvocati della difesa, figuri da bestiario medievale, udito dal giudice mentre va parlando del processo come di un’occasione di festa per il paese, ha origine un principio di slittamento dal comico all’umoristico
Ovvero, nei termini che L. Pirandello usa nel saggio L’umorismo (1908), da “un primo avvertimento del contrario” al “sentimento del contrario”. : attraverso gli occhi di D’Andrea il lettore ha modo di prendere gradualmente coscienza che, anche se il caso è pittoresco, la situazione è quella di un uomo che sta subendo ingiustizia ed è impotente al riguardo. Tale passaggio arriva a compimento nel corso della terza ed ultima sequenza
[Orbene... -La patente- .] Il passaggio alla terza sequenza è segnalato dalla congiunzione conclusiva e soprattutto dal cambio di frequenza da iterativo a singolativo., della quale Rosario Chiarchiaro, tanto con il proprio aspetto lugubre e la mimica solenne quanto con lo straziante racconto della propria vicenda, è protagonista. L'ingresso in scena del personaggio, meraviglioso, è caratterizzato da una parallissi
Lo stesso procedimento narrativo è ravvisabile anche nella narrazione cinematografica della novella contenuta nel film Questa è la vita (1954). All’interno di questa, che ha prospettiva aprospettica e non presenta focalizzazione, non viene narrato l'aspetto con cui Chiarchiaro si presenta nell’ufficio del giudice (pur venendo suggerito dalla vestizione cui assistono le figlie e la moglie a casa) se non dopo aver mostrato le reazioni dell’usciere, che si tiene in disparte rasente al muro, del giudice e soprattutto del collega Pappalardo, che, gettato uno sguardo di raccapriccio a Chiarchiaro, sibila ad un imbarazzato giudice istruttore: - E non ci credi, ancora?!? -. L'effetto di comicità che scaturisce all’apparire del querelante (interpretato da un impareggiabile Totò), vestito a lutto, con occhiali neri e bastone il cui pomo rappresenta una civetta, è irresistibile. e sembra obbedire alla stessa duplice finalità ascritta al dosaggio della distanza
Si rileva che anche in quest'ultima sequenza la distanza in R1 oscilla quasi interamente tra bassa e nulla: gran parte di essa, infatti, è occupata dal confronto in discorso diretto tra Chiarchiaro e D'Andrea ove l'intervento del narratore si limita quasi esclusivamente a didascalie che descrivono il contegno dei personaggi – ricompare solo quasi sul finale, per narrare lo stato mentale del giudice ed il suo abbraccio all’interlocutore, senza tuttavia intromettersi con giudizi di sorta; fa davvero eccezione solo la microsequenza iniziale, in cui il tempo intercorso tra la decisione del giudice e la comparizione del querelante in seguito a convocazione subisce una ellissi e ad esso si sostituisce una considerazione generale del narratore, che emerge chiaramente con la propria voce per l'ultima volta, sulla difficoltà di rendere un beneficio. nella sequenza precedente: incuriosire il lettore ed ingenerare effetti di sorprendente comicità. Infatti, la reazione di collera scandalizzata da parte del giudice D’Andrea, tanto strana dato l’abituale contegno, immediatamente scatena la curiosità verso ciò che possa averla provocata: essa viene presto soddisfatta da una dettagliata descrizione dell' incredibile livrea di Chiarchiaro, conciato come uno iettatore fatto e finito. Con un movimento ben più netto di quello rilevato nella sequenza precedente, il registro passa dalla comicità all’umorismo nel momento in cui emerge come il pover’uomo, spogliato del proprio lavoro e della dignità, abbia fatto violenza a sè stesso adottando quella che gli è parsa l’unica misura per sopravvivere.
A ciò, tuttavia, non si assiste nel livello diegetico R1 bensì in quello metadiegetico R2 che si apre nel confronto tra Chiarchiaro e il giudice. Ad occupare questo livello sono l'accenno alla sceneggiatura scorretta che si è fatto il giudice, convinto che Chiarchiaro sia desideroso di vincere il processo ed intenzionato ad evitargli un danno poichè questo è impossibile, e, molto più diffusamente, la veemente correzione che ne fa Chiarchiaro, il quale spiega di non avere altra scelta per sostentare la propria famiglia ed avere una parziale vendetta che diventare un altro: diventare cioè quello che la calunnia afferma e ritorcerla contro chi ci crede. In particolare, risulta interessante notare come quello di Chiarchiaro sia a tutti gli effetti un racconto identitario: esso è la narrazione di un'identità che si trasforma per effetto di una pressione violenta da parte del contesto, di una serie di reiterate violenze sociali. All'interno di esso, un primo carattere saliente sembra il dosaggio della categoria del tempo. Riguardo la velocità, anzitutto, narrando sè stesso
Divenendo, quindi, narratore intra-autodiegetico. Chiarchiaro sceglie una velocità sommario ed esprime in poche battute scarne gli avvenimenti di più di un anno; quando la narrazione raggiunge i punti più dolenti, però, pur restando tendenzialmente alta la velocità aumentano i dettagli non del tutto funzionali, ad esempio sulla condizione familiare propria (“con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili di cui nessuno vorrà più sapere”) e del figlio lontano (“ha famiglia anche lui, quattro bambini”) o sui preparativi per mettere a punto la propria figura di iettatore. Questo aspetto, insieme al fatto che egli si appelli direttamente al giudice frenando a stento il proprio sdegno e commenti vivamente gli eventi, sottolineandoli anche con una forte gestualità, porterebbe a ritenere che in R2 la distanza sia medio-alta
Mentre in R1, come già rilevato, trattandosi di un racconto di parole citazionale la distanza è nulla in questa sequenza.: ciò, peraltro, sembrerebbe ben rispondere alla caratterizzazione psicologica dell'orgoglioso ed umiliato Chiarchiaro, che non mira alla compassione del giudice D'Andrea bensì ad ottenere giustizia e forse anche vendetta. Tuttavia, in parte per la natura della narrazione, che è narrazione di una tragica ingiustizia, in parte per la fortissima presenza
Si contano oltre una quarantina di forme di prima persona singolare tra pronomi personali ed aggettivi possessivi nella narrazione di Chiarchiaro. del soggetto quale vittima e testimone diretto, sembra che il valore della distanza scenda sensibilmente.
La narrazione di Chiarchiaro, come si è detto, è piuttosto sintetica: risulta quindi importante notare come l'unico elemento su cui il querelante insiste, oltre all'esigenza della patente, sia il licenziamento: esso è narrato per ben tre volte
- Signor giudice, mi hanno assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciare via dal banco dov'ero scritturale [...] mi hanno buttato in mezzo a una strada...-: il punto di rottura è narrato con frequenza 3r/1s.. L’ordine degli eventi può essere così schematizzato:
P F
I I I I I I I I I
C lavora Sviluppo della Licenziamento Difficoltà familiari Querela C dall’avvocato C dal giudice Una nuova professione per C
mala fama e aiuto del figlio della difesa
A C occorre la patente per potersi garantire un sostentamento ed una parziale vendetta
L’ordine del racconto, come risulta dallo schema, è reso piuttosto complesso da una serie di cambi di momento. Ad accomunare questi passaggi, veri e propri salti dell’immaginazione di Chiarchiaro tra l’identità passata e quella in corso di acquisizione, è la ripetuta istanza che sia riconosciuta e sanzionata quella potenza infausta, che è ormai tutto quello che gli resta per cercare di ricostruirsi una vita.
M Simultaneo M Ulteriore M Simultaneo M Anteriore M Simultaneo
t0 tt
I I I I I I I I I I I
C nemico del giudice (C dall’avvocato Esigenza Licenziamento* Difficoltà familiari Esigenza C nemico Una nuova Esigenza
della difesa) patente e aiuto del figlio patente del giudice professione patente
per C
flashback di C a riprova della sensatezza della propria condotta - R3: C(C) Manin Baracca: sviluppo della mala fama
Lavoro
* I I I I : C narra in un’analessi esterna contenuta in una sequenza in ulteriore del proprio lavoro prima della calunnia
Licenziamento Licenziamento
Se questo avverrà, però, non è dato sapere
Si tratta di un finale alquanto particolare, con una chiusura di sipario repentina: come se, terminato il discorso di Chiarchiaro, non vi fosse altro da narrare. Questa soluzione ingenera, a parere di chi scrive, un senso di incompiutezza che conferisce una marca di arbitrarietà alla clausola terminale.: la narrazione si chiude con la battuta di Chiarchiaro che ribadisce al giudice il proprio unico desiderio, leggibile in fondo come scaturito non soltanto da un’indigenza materiale, bensì anche dal bisogno di avere nuovamente potere sulla propria identità.
2.2. Sè come un altro: La forma della spada di J.L. Borges
Gli traversava il volto una cicatrice amara: un arco cinereo e quasi perfetto che lo sfregiava da una tempia fino all'altro zigomo. Il suo vero nome non importa...
Con queste parole Borges-narratore
Un narratore extra-omodiegetico che narra in ulteriore. introduce al lettore il personaggio dell’Inglese, la cui vera identità – si scoprirà solo alla fine – è quella del delatore Vincent Moon. Presentazione diabolica: anzitutto egli attribuisce alla cicatrice che lo caratterizza un aggettivo insolito, “amara”, che è da ascriversi in realtà alla storia che la riguarda; in secondo luogo, afferma che il nome di questo personaggio non importa mentre esso è tutto
Questa frase, ben lungi dall'essere risolvibile in una spudorata menzogna da parte del narratore – che peraltro nelle narrazioni finzionali può mentire solo in quanto personaggio –, non solo contribuisce al depistaggio ma solleva ulteriori dubbi sull’identità di Vincent Moon. Infatti, è possibile che si dica questo perché, come si afferma in seguito, tutti lo conoscevano come “l'Inglese della Colorada”; tuttavia, a fronte della forma della cicatrice oggetto del suo racconto, “una mezzaluna di sangue”, il cognome Moon non sembra poter essere una mera coincidenza: non è assurdo ipotizzare che il fuggiasco una volta giunto in Brasile possa aver cambiato nome e ne abbia scelto uno simile allo sfregio che gli era stato inferto a monito del proprio atto di codardia..
Nel corso della prima sequenza
[Gli traversava... corrispondenza]. di R1, che mescola evenemenziale e descrittivo, questa figura misteriosa viene componendosi sulla pagina come un puzzle di pezzi irregolari: a notizie comunemente note, come la cicatrice, il nome con cui tutti lo conoscono e la sua provenienza, si alternano voci più rade, di dubbia credibilità (alcuni assicuravano...) ed aneddoti che, partendo da dati di fatto, quale la difficoltà dei campi a lui assegnati, svaporano in fatti notori e non proprio lusinghieri che forse nessuno si prenderebbe la diretta responsabilità di testimoniare (significativa l’anafora Dicono che... Dicono anche che...). Il narratore emerge per dare di prima mano nella forma del ricordo una descrizione di alcuni suoi tratti fisici: gli occhi glaciali, l'energica magrezza
Da notare il ritorno del tratto distintivo della magrezza in R2: il fatto che sia una magrezza diversa, priva di tempra, sembra contribuire ad allontanare l’immagine dell’Inglese da quella di Moon., i baffi grigi. Al termine di questa sequenza, l'idea generale che il lettore può farsi del personaggio è quella di uno straniero solitario, dal carattere forte e tormentato da un qualche segreto.
La seconda sequenza
[L’ultima volta... fuori]. aggiunge un alone di imperscrutabilità all’Inglese. Infatti, per quel che concerne R1 soltanto Borges-personaggio è focalizzato e prospettivizzato: il lettore viene messo a parte della sensazione di risultare importuno nel dover pernottare presso la tenuta da cui scaturisce il tentativo di ingraziarsi l'ospite e del timore, essendosi lasciato sfuggire una domanda troppo personale, di essere messo alla porta; in tutto questo, solo un silenzio improvviso dopo aver detto di non essere inglese bensì irlandese ed un'alterazione sul suo volto alla domanda di Borges fanno presagire che qualcosa stia accadendo nella mente dell'ospite.
Il passaggio alla terza sequenza
[Alla fine... – Ora mi disprezzi.-]. è marcato da un mutamento nel regime della distanza in R1 e dall’apertura di R2. Nella seconda sequenza la velocità tende a sommario, i dettagli non funzionali si limitano prevalentemente al tempo atmosferico e la conversazione tra l'Inglese e Borges è riportata in discorso indiretto; nella terza sequenza, invece, la conversazione passa al discorso diretto per un breve tratto e viene ripresa nel finale, mentre la massima parte è occupata da un efficace discorso indiretto libero. È partcolarmente importante notare che la storia dell’Inglese, che ne occupa la gran parte, non è in discorso diretto. "Ecco la storia che mi narrò, alternando l'Inglese con lo Spagnolo e anche con il Portoghese": introducendola con queste parole il narratore emerge con forza, quasi avvertendo il lettore di guardarsi da quanto segue: esso sembra la narrazione effettiva condotta dall'interlocutore, ma ne è una trasposizione su cui, anche solo a livello di traduzione, si è già operato – ciononostante, la scelta della prima persona ed una (pur simulata) spiccata presenza del narratore di secondo livello conferiscono una vividezza vicinissima al discorso diretto
Si stabilisce qui una sorta di tensione elastica che spinge il lettore al distacco dal mondo narrativo ed al tempo stesso ve lo attira dentro, in un effetto di dissonanza che, a parere di chi scrive, non fa che stimolare la curiosità preparando la sorpresa finale. Anzi, è possibile spingersi ad affermare che l’istanza narrativa operi qui come una sorta di illusionista, confondendo e distraendo lo sguardo mentre il trucco è messo in atto, per così dire, “sotto il palcoscenico”. . Un secondo elemento che sembra mettere in guardia è dato dal fatto che la storia è preceduta da ben due premesse: non solo il sopracitato intervento ma anche la promessa da parte dell’Inglese al narratario di non risparmiare alcunchè delle brutture che essa porta con sè
Questa promessa, formulata al futuro, è ripresa in forma di considerazione metadiegetica al passato, quando l’Inglese completa la propria confessione chiudendo il circolo..
La vicenda è quella di un vile ed è narrata due volte
La frequenza in R2 per l’intera vicenda è 2r/1s, con la velocità della seconda narrazione molto maggiore a quella della prima ed un’impennata della distanza.: la seconda narrazione, nella sintesi lapidaria di una battuta di dialogo, va a sciogliere il mistero che la prima aveva addensato. Confrontandole il lettore si rende conto di essersi fatto la sceneggiatura sbagliata e nel rileggere il racconto dell'Inglese avendo presente la sua vera identità e la sceneggiatura corretta vede aumentare esponenzialmente il piacere del testo. Ci si trova qui in presenza di un effetto sorpresa di II tipo: insieme al lettore anche Borges-personaggio si sorprende e, anzi, egli stesso stimola con una richiesta di chiarimento l’intervento pseudo-parallettico del narratore che permette di comprendere finalmente la vicenda.
Tale effetto sorpresa è ottenuto soprattutto
Cfr. nota 18. mediante la categoria del modo. È bene notare, anzitutto, che in R2, narrato in prima persona, la prospettiva è soggettiva: essendo in questo caso presente un soggetto che dice "io", la soluzione più intuitiva sarebbe quella di ritenere che gli occhi entro cui essa si colloca siano i suoi – pregiudizio linguistico-cognitivo che viene qui sfruttato per trarre in inganno. Un discorso analogo vale per la focalizzazione, interna fissa; ciò che meglio esprime il cortocircuito “egli=io e io=egli” su cui si regge il depistaggio è la frase: "Quell'uomo impaurito mi faceva vergogna, come se il vigliacco fossi stato io, e non Vincent Moon" - soltanto alla fine della narrazione il lettore può accorgersi, insieme al narratario, di essere stato messo a parte delle azioni e dei pensieri di un soggetto che non è il narratore e che, di fatto, quest’ultimo si è narrato nella parte dell'eroe ma in questo dramma ha interpretato il ruolo del vile. Nel VI studio dell'opera Sè come un altro
Ricoeur (1993). il filosofo francese P. Ricoeur prova ad interpretare l'attività del narrare come un laboratorio morale, sostenendo che nel narrare e nel narrarsi l'individuo non solo dia continuità al sè, ma si metta anche alla prova calandosi in situazioni che possano saggiarne la fibra etica e rafforzarla; l'operazione dell'Inglese mostra un percorso speculare: avendo fatto esperienza della moralità, se non in pratica almeno in teoria, egli non può più narrarsi qual è, ma quale sarebbe dovuto essere, e dà voce al proprio senso di colpa nei giudizi di una interiorità altra immaginata
Tanto quella del compagno cospiratore, il cui punto di vista è scelto per narrare la vicenda, quanto quella di Borges-personaggio. Riguardo quella di quest’ultimo, disprezzo si rivela un termine ricorsivo: si notino l'accenno ad un possibile disprezzo da parte del narratario prima che il mistero sia sciolto e l'aperto invito di Moon a disprezzarlo una volta che si è rivelato.. Va notato, però, che la focalizzazione presenta elementi che, sebbene non sufficientemente forti da smascherare l'inganno, ad una seconda lettura risultano fortemente sintomatici. "Aveva scorso con fervore e con vanità le pagine..." o "Per mostrare che gli era indifferente di essere un codardo fisico, esagerava la propria superbia mentale" sono asserzioni non più leggibili soltanto come impressioni o giudizi di valore che il narratore aveva elaborato riguardo Moon ma lasciano trapelare qualcosa di profondo sulla psicologia del personaggio, una psicologia che, data la focalizzazione, dovrebbe essere inaccessibile.
Da contrappunto alla strategia elaborata per quanto riguarda la dominante fa l'utilizzo della distanza. In R2 il narratore è fortemente presente, si inserisce con considerazioni personali ("non i più sfortunati") oppure alterando lo statuto epistemico delle dichiarazioni ("sospetto", "mi sembra di ricordare"): questo fa sì che la distanza non si azzeri ma si mantenga entro livelli di sicurezza nei punti più dolenti, come nel caso dell'inseguimento nella villa a seguito della scoperta della delazione (“Qui la mia storia si confonde e si perde. So che...”)
Lo scopo sembra essere quello di distrarre lo sguardo in modo che non frughi troppo addentro il mondo narrativo.. I due interventi più importanti, però, risultano entrambi spie del depistaggio in atto. Il primo porta in luce una tematica cara all'autore, quella del circolo che indefinitamente ritorna e conferisce indefinitezza a tutte le cose, compresa l'identità degli uomini
È possibile ravvisare un'affinità tra La forma della spada ed il racconto di apertura della raccolta L'Aleph, L'immortale, non soltanto nella figura del circolo e nel piegarsi dell'identità umana al suo movimento, bensì anche nell'immaginazione dello spazio. Infatti, come il compagno e Moon accedono alla villa da un sotterraneo, allo stesso modo il protagonista accede alla Città degli Immortali per un passaggio ctonio; in entrambi ricorrono architetture contorte e vertiginose, veri e propri labirinti in cui si smarrisce l’identità di chi li attraversa (cfr. anche La casa di Asterione in proposito).: l'affermazione "io sono gli altri, ogni uomo è tutti gli uomini, Shakespeare è in qualche modo il miserabile John Vincent Moon
Non sembra casuale che proprio un grande scrittore, ovvero un inventore di vicende di vite possibili, alternative, sia accostato a Vincent Moon." acquista l’ambivalente significato di una confessione e di una professione di fede. Il secondo, invece, presenta per la prima volta quel manichino che rimanda all'uomo fucilato all'alba di cui si narra al principio e che tornerà alla fine come immagine vista da Moon in fuga
La dominante è fissa sul cospiratore, che essendo prigioniero in teoria non dovrebbe sapere quel che accade a Moon: sembra un caso di pseudoparallessi.: esso sembra leggibile non soltanto come indizio ma altresì come termine medio che regge un'architettura simbolica estesa a tutto R2, come emerge dallo schema del racconto.
Prolessi esterna Flashback R3: JVM (Compagno)Autorità Analessi interna
t0 analessi int.: cospiratore esce prolessi int.:cattura tt
I I I I I I I I I I I I I I I I
La sorte arrivo JVM Sparatoria Villa del VM curato i 9 giorni dei Black and Tans JVM Vendetta JVM JVM vede
dei compagni gen. Berkeley e vile cospiratori* prendono tradisce fugge fucilare
JVM ferito la città ed è scoperto in Brasile un manichino
Il più valoroso fucilato all’alba la sera della
Inglese massacro in caserma un cadavere ad un angolo di strada fuga
cospiratore
il narratore in R2 lo associa al ricordo, più tenace, di un manichino che serviva ai soldati per esercitarsi al tiro
*indicazioni sulla personalità di Moon fornite in durativo e attraverso l’aneddoto dell’arma preferita
La storia che ho narrata sembra irreale perchè in essa si mescolano gli avvenimenti di due uomini distinti.
Questa frase, che avvia al termine di un altro racconto di J.L. Borges, L’Immortale, sembra scritta altrettanto bene per la vicenda qui narrata. La vertigine che essa stimola è data non solo dall’effetto sorpresa, ma anche dalla vaga sensazione che la mezzaluna d’acciaio strappata dalla parete in cerca di vendetta abbia avuto per un istante riflesso su entrambe le facce lo stesso uomo. Infatti, come ben sapevano gli Immortali:
in un tempo infinito ad ogni uomo accadono tutte le cose. Per le sue passate o future virtù ogni uomo è creditore d’ogni bontà, ma anche d’ogni tradimento, per le sue infamie del passato o del futuro.[...] io sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono.
Vertigine data insomma dal ritrovarsi a fissare negli occhi, nei termini di P. Ricoeur, l’“altro-che-io-sono”.
2.3. Due identità per una vita: Il primo racconto del cardinale
Il titolo, che ha funzione semantica e sintattica media, presenta una particolarità rispetto alla funzione pragmatica, il cui valore medio risulta innalzato dalla ambiguità del termine “primo”. Infatti, mentre a prima vista esso sembra riferirsi all’ordine del racconto in una sequenza (esiste all’interno della raccolta Ultimi racconti di Blixen un racconto dal titolo Il terzo racconto del Cardinale), addentrandosi nel testo si scopre che, come lo stesso Cardinale afferma, è la prima volta che al prelato viene richiesto di narrarsi e, di conseguenza, quel “del” può indicare non solo una specificazione, bensì anche l’argomento. di K. Blixen
«Chi siete, voi
Si rileva la scelta di marcare l’arbitrarietà delle clausole iniziale e terminale; in particolare, l’apertura con una domanda tanto intima da apparire quasi brutale lascia momentaneamente disorientato il lettore.?»
Il lungo e denso racconto di K. Blixen si apre con una domanda semplice e disarmante, che suscita lo stesso effetto attribuito da Sant'Agostino all’interrogativo sulla natura del Tempo: si possiede la risposta solo finché non si è interrogati. A questa domanda di una nobildonna cui è legato come padre spirituale da un’intima amicizia
A differenza di quanto avviene nelle due novelle precedentemente analizzate, in questo caso non sono due estranei a trovarsi di fronte bensì due persone che si conoscono profondamente e da lungo tempo; la situazione è comunque liminare: come accenna il Cardinale prima di iniziare il suo racconto e, in modo perfettamente speculare, la dama dopo che questo si è concluso, la circostanza è o potrebbe essere quella di un definitivo commiato., il Cardinale Salviati, dopo un’iniziale ritrosia, dichiara di voler rispondere con una storia. Sarebbe lecito aspettarsi che narrasse sè stesso come narratore intra-autodiegetico; invece, la storia che lo si vede narrare è molto più complessa: si tratta della vicenda di una famiglia, di un padre, di una madre, di due visioni del mondo opposte ed al tempo stesso inestricabilmente legate, di cui il Cardinale si presenta come narratore intraomodiegetico che narra sè stesso in terza persona. Nel racconto di Blixen, dunque, si assiste ad un cortocircuito inverso (anche se dichiarato) rispetto a quello del racconto di Borges: il sè è narrato come un “egli” e, per giunta, come comparsa nella più personale delle storie.
Perché narrarsi in questo modo, come una figura secondaria e quasi come un estraneo a sè stesso? Il sacerdote si dice di carattere riservato, modesto e poco incline a parlare di sè, ma sarà il dialogo che segue il suo racconto a fornire, insieme ad una visione particolare dell’identità personale, la vera spiegazione.
Inoltre, si tratta di rendere giustizia in modo imparziale a due nature assommate per capriccio della sorte in un unico uomo. Si può dire che la storia sia anzitutto quella di queste due nature, che radicano le proprie origini nelle figure opposte e complementari dei genitori del Cardinale, la Principessa Benedetta ed il Principe Pompilio. Se si volesse ascrivere questo racconto al genere del racconto "di formazione", la prima bildung che si incontrerebbe sarebbe proprio quella dei due genitori, la giovane sposa ancora digiuna delle esperienze del mondo e l'anziano nobiluomo che si sposa solo per perpetuare il casato – anzi, volendo spingersi un poco oltre nell'interpretazione, si potrebbe sostenere che la bildung del figlio sia opera di mediazione e sintesi, oltre che lavoro creativo, su di esse. L'evoluzione dei personaggi, il maturare delle idee e dei tratti che saranno terreno fertile in cui le due identità del Cardinale germoglieranno sono posti in luce attraverso un montaggio in parallelo alternato, in cui ad una microsequenza che inquadra le vicende ed i pensieri del Principe ne segue una concentrata sulla Principessa, per poi ripartire dal Principe e così via fino al termine del racconto
Si noti come il narratore scelga di partire e terminare con un segmento riguardante la Principessa, instaurando una sorta di circolarità lineare che la vede sposa fanciulla che dà alla luce il primo figlio [in alcune culture il primo parto è considerato per le donne una sorta di rito di passaggio, in cui la bambina muore e la donna ne prende il posto - cfr. Consigliere(2014)] e donna che, giunta al termine della vita,"come una bambina a tarda sera,fece uno sbadiglio e lasciò cadere le sue bambole". . È importante rilevare anche lo stile in cui le microsequenze sono condotte, poichè sono profondamente differenti le coloriture con le quali vengono tratteggiati i due personaggi. Al Principe, infatti, è riservata una garbata ma incredibilmente pervasiva ironia che più che dire allude gli eccessi di un carattere vanitoso e bigotto; sulla Principessa, invece, che da timido bocciolo arriva a fiorire in tutto il suo fulgore acquisendo un contegno così libero da essere quasi libertino, si posa uno sguardo di affettuosa indulgenza e ammirazione. Questa differenza non è immotivata: il narratore, unico superstite di due gemelli votati subito dopo il parto a destini differenti, ha finito per guardare ciascun genitore con gli occhi del figlio voluto dall'altro. È il Cardinale stesso, intervenendo nel racconto a precisare:
[...] il compito di esistere e di crescere non fu impresa facile per questo bambino, come non lo sarà mai per un bambino che, nei suoi rapporti col padre e con la madre, viene a trovarsi sulla linea del fuoco tra due fortezze in guerra. Ma fu particolarmente faticoso per il ragazzo di cui stiamo parlando, perché il padre e la madre guardavano il piccolo da versanti opposti, anzi vedevano in lui due opposte personalità. [...] Egli riuscì a mantenere il proprio controllo infantile adottando e perfezionando, nel modo innocente dei bambini, la doppiezza degli adulti. Guardava la bella e adorata figura della madre con gli occhi del sacerdote, il medico e il giardiniere dello Spirito, osservandola con tenerezza e indulgenza; a volte le faceva garbatamente qualche rimostranza e la condannava a lievi e gentili penitenze. Guardava il padre con gli occhi dell'artista,e seguiva quella austera figura con l'attenta approvazione con cui un conoscitore segue i movimenti di un attore o di un ballerino molto bravi. L'intuito di questo conoscitore-bambino vedeva nel suo papà il vivido, nerissimo tratto di pennello che coronava la mappa squisita e variegata del palazzo; e di questo il Principe, che non era mai stato una figura pittoresca per nessuno, aveva una vaga percezione.
Non stupisce in questo contesto il poco appariscente ma fondamentale ruolo di sostegno affidato al fratello maggiore, cieco da un occhio: l'unico, in effetti, a non costringere il ragazzo ad essere il doppio di sè stesso.
Particolarmente interessante nell'ottica del discorso che si sta conducendo risulta il dosaggio del tempo
Si rileva che, a fronte di un montaggio alternato, la narrazione prosegue sostanzialmente in cronologico; per quanto riguarda la frequenza essa tende al singolativo 1s/1r, che sfuma nell’iterativo 1s/2r nei momenti di maggior prossimità, anche fisica, tra i due consorti: si vedano, ad esempio, le microsequenze riguardanti la prima e soprattutto la seconda notte di nozze., soprattutto dal punto di vista della velocità. Per la gran parte del racconto la velocità tende a sommario; tuttavia, proprio a marcare l'evoluzione dei tratti distintivi del Principe, (una religiosità cupa e quasi ossessiva) e della Principessa
Per quanto concerne la Principessa, cfr. la microsequenza [E là ella udì cantare Marelli... che non fu mai l’amante di nessuna donna]; per quanto concerne il Principe, cfr. [Per il Principe Pompilio...con la sua faccia.]. (l’amore per il bello ed il godimento estetico) si registrano dei forti rallentamenti se non pause nel momento, specialmente nel caso della madre
Alla quale comunque spetta un maggiore rilievo per tutta la narrazione. , in cui il narratore interviene con una spiegazione più diffusa. Quasi a coronamento della seconda trasformazione comparsa nel racconto, lo sviluppo della religiosità del Principe, giunge una microsequenza
[Un giorno...uscì di furia dal salottino]., la cui velocità tende quasi a scena, narrante un turbolento colloquio riguardo il nome ed il destino del nascituro tra i genitori ancora ignari di aspettare due gemelli. Ancora una volta, l'impianto narrativo si basa sul doppio: in particolare, sulla asserzione che compare tanto nell'argomento del Principe quanto in quello della Principessa
Il colloquio è riportato in discorso indiretto libero. sulla correttezza del nome scelto, "perché un nome è una realtà, ed è grazie al proprio nome che un bambino conosce sè stesso" . Il nome, per decisione stessa dei genitori, è omen e sono due destini pesanti quelli che i nomi portano con sé. Per il futuro pilastro della Fede che il Principe vede nel suo erede è scelto il nome Atanasio, Padre della Chiesa e strenuo protettore dell'ortodossia; per il futuro artista e cultore del bello che secondo la Principessa sarà suo figlio è scelto il nome Dioniso, dio dell'ispirazione e dell'estasi. Impressionante risulta l’abilità di Blixen nel tenere in piedi l'impianto del doppio speculare in modo così sottile anche in questi due nomi: “Atanasio” viene dal Greco “a-thànatos”, ovvero "senza morte"; “Dioniso” si riferisce ad una divinità (dunque, ad un immortale) che è per giunta la meno mortale del pantheon, avendo nelle molte versioni della propria mitologia una doppia nascita e la resurrezione da morte – nella etimologia proposta da Apollonio Rodio in epoca ellenistica, che l’autrice poteva aver presente
K. Blixen, nata nobile, tra il 1903 ed il 1910 frequentò le Accademie di Belle Arti di Copenaghen, Parigi ed altre città d’Europa., Dioniso è “duo-genòs”, “colui che nasce duplice”.
E la raffinatezza del gioco simbolico risulta ancor più sorprendente se si tiene conto di quanto segue:
Inatteso parto gemellare: per ciascun bimbo un nome ed un destino
I I I I
6 settimane 6 settimane nell’unico bambino superstite si raccordano
prima del parto dopo il parto due destini : per azione dei genitori,
Dioniso diventa Atanasio e Atanasio Dioniso
colloquio dei genitori: incendio nella villa: uno dei due gemelli non sopravvive,
il destino del bambino è fissato a due nomi ma quale?
a Dioniso viene legato al collo un nastro di seta per distinguerlo dal gemello dopo l’incendio non se ne trova traccia
Di notevole interesse risulta, anzitutto, il perfetto parallelismo temporale che si instaura tra il colloquio che sanziona le due identià, sei settimane prima del parto, e l’evento luttuoso, sei settimane dopo il parto, che porta al loro raccordarsi in una. Vano, peraltro, ma abbastanza inevitabile il domandarsi quale dei due bambini si sia salvato: la prospettiva è ristretta, manca quell’unica telecamera nella stanza dei neonati che permetterebbe di sciogliere il mistero
Mistero infittito anche dalle confuse fantasticherie della prozia del Principe sul letto di morte due giorni dopo il rogo: la stessa anziana battagliera che durante il rogo gridava a gran voce il nome di Atanasio si dice ninfa nisea custode di un bambino, netto riferimento alla mitologia dionisiaca – ed ulteriore esempio del procedimento per “immagini allo specchio” che regge il racconto.. Ci si trova nella situazione, forse insolita o forse più universalmente umana di quanto si sia disposti ad ammettere, di un narratore in grado di dire non chi fosse ma solo chi sia diventato ed in che modo.
Come precedentemente accennato, al racconto del Cardinale segue una meravigliosa riflessione dialogica sul modo di essere e di narrare alla luce della quale può essere meglio compreso l’intero impianto narrativo della vicenda. Alla nobildonna, che si dice intimorita dalla distanza che l'essere protagonista di una storia tanto articolata sembra porre tra lei ed il suo maestro - e nel far questo si fa portavoce di una istanza che chiede al narrare di narrare meri individui, tangibili ed isolabili, con cui ci si possa identificare -, il Cardinale risponde difendendo l'interpretazione della storia personale come visione d’insieme, come intreccio di relazioni interpersonali
Blixen dà voce in questa forma ad una posizione peculiare della filosofia femminista, della quale essa è stata fonte d’ispirazione e pioniera: quella della identità come insieme di relazioni., con l'ambiente e anche con un margine di casualità che per un uomo di Dio non può mai essere del tutto tale. Solo questo modo di narrarsi, ovvero essenzialmente in relazione, può a parere del Cardinale rispondere all’angosciato grido del cuore con il quale convivono tutti gli uomini, quello che, come confessa egli stesso nella prima macrosequenza
[Chi... di un mare calmo]. , li porta a cercare conforto nella confessione: “Chi sono io?”.
3. Conclusione: delle vite narrabili
Io ho tre vite. La mia, quella che si inventano gli altri, quella che gli altri pensano che sia la mia vita.
F. Pessoa
La sentenza di Pessoa sembra alludere in modo sibillino qualcosa di profondamente vero in merito al sè ed alle molteplici narrazioni che possono esserne svolte: verità autobiografica, realtà biografica e testimonianze di terze parti non sempre e non necessariamente collimano, anzi, molto spesso non sono altro che margini i punti di contatto.
Il sè, al pari dell’essere aristotelico, può essere detto in molti modi: com’è risultato evidente dai racconti presi in esame, esso si può efficacemente narrare non solo in termini di “io”, bensì nella forma dell’“egli” allontanandolo ed inserendolo in un’ampia visione d’insieme come avviene ne Il primo racconto del Cardinale, o addirittura, come ne La forma della spada, sostituendolo con un altro sè diverso dal proprio. Nella narrazione del sè come forse in pochi altri casi risulta palese tutto l’arbitrio dell’istanza narrativa, a cominciare dalla lunghezza del segmento PF: una vita ha necessariamente principio con la nascita e termine con la morte ma, poichè si nasce e si vive sempre in un ben preciso contesto (familiare, relazionale, culturale, storico, economico...), la sua storia no. Questo aspetto risalta particolarmente nel racconto di Blixen, in cui il Cardinale per narrarsi narra in particolar modo le vicende dei propri genitori. In esso, inoltre, appare chiaro come l’essere eredi di una storia scritta da altri sul suo conto possa determinare le possibilità e le scelte dell’individuo: nella già citata sequenza del colloquio tra i due consorti si apre un ulteriore livello diegetico in cui essi si fanno narratori in anteriore del possibile destino del figlio
Inoltre, il “Mi hanno raccontato che...” che segue la sequenza narrante il rogo nella villa è rivelatore: narrando eventi che precedono la sua nascita o la sua capacità di ricordare, il Cardinale ripete una storia che gli è stata narrata e che egli ha accettato per vera – ovvero: NE{C[X(P1P2+C)C]D}LE.; ciò è vero, tuttavia, anche se in senso diverso, per la novella La patente, in cui il protagonista si trova a dover reagire ad un brusco cambiamento nella propria vita a causa di una storia sul suo conto intessuta da altri.
Inoltre, se è vero che la lunghezza ed i punti in cui questo segmento inizia e termina sono soggetti all’opzione dell’istanza narrativa, lo stesso vale per la quantità di eventi inseriti nella storia: questo fatto è di non secondaria importanza perchè una narrazione di sè può gravitare completamente intorno ad un evento interpretato come cruciale e su cui si ritorna ricorsivamente, ma può altresì avere il proprio centro, come insegna la psicoanalisi, in un evento vergognoso
È possibile, anche se forse un po’azzardato, ricostruire l’operazione narrativa dell’Inglese nel racconto di Borges anche come un tentativo (finzionale) di nascondere quello che per lui è il punto dolente e vergognoso della vicenda: la decisione di tradire. che viene sistematicamente espunto. Questo aspetto, almeno nei racconti qui analizzati, sembra stabilire una particolare alleanza con la categoria del tempo, soprattutto per quanto concerne le sottocategorie di velocità e frequenza: ciò su cui il narratore sorvola, così come ciò su cui insiste e si sofferma, permette di intuire l’interpretazione ed il peso che egli dà degli eventi in questione. Un esempio particolarmente chiaro viene da La patente, ove nel suo scarno resoconto Rosario Chiarchiaro ribadisce per ben tre volte il licenziamento subìto, apice delle ingiustizie nei suoi confronti ed origine della sua difficile situazione, ma non si sofferma molto sul resto delle sue angustie.
Si nota invece in questi racconti una certa preferenza per l’ordine cronologico, quasi che nel portare in luce il proprio sè non si volesse chiedere al narratario uno sforzo ulteriore rispetto ad un ascolto paziente: sebbene con licenza poetica, i racconti di sè che compaiono nei testi presi in esame sembrano sostanzialmente conformi al principio di cooperazione che secondo il filosofo inglese P. Grice regge gli scambi conversazionali
Nel testo capitale Logica e conversazione (1975), P. Grice sostiene un’interpretazione del linguaggio umano nel suo uso come azione cooperativa retta dal principio: “Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall'intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato”. Tale principio si specifica in quattro massime della conversazione: massima della qualità (dire cose che si ritengono vere), massima della quantità (dire quanto è necessario), massima del modo (essere chiari ed ordinati), massima della relazione (essere pertinenti). Tra i racconti qui analizzati, l’unico a mantenersi sul filo è quello dell’Inglese, che si appropria di un punto di vista differente dal proprio: come egli stesso ribadisce in chiusura, tuttavia, questa scelta è dettata dalla volontà di essere il più possibile informativo, bypassando una possibile reazione di chiusura dell’ascoltatore derivante dalla riprovazione morale..
Si tratta però effettivamente, come vorrebbe Grice, di un’attività razionale e cooperativa? In parte, sì. Infatti, perchè la narrazione di sè abbia luogo occorre anzitutto che vi sia un interlocutore
Questo è vero per le narrazioni veritiere quanto per quelle finzionali: narrare è sempre un mettere in comune, un narrare-a-qualcuno qualcosa. Ciò vale altresì quando la narrazione è affidata ad un diario: in questo caso il medesimo individuo può essere narratore e narratario in momenti diversi. e che questo sia disposto a prestare orecchio e fiducia alla storia narrata: non sembra casuale, infatti, che in due racconti (quello dello iettatore e quello del delatore) su tre compaia l’esplicita domanda del narratore se sia creduto. Inoltre, è necessario che narratore e narratario si trovino in una relazione ed in una situazione particolari, che i tre racconti esplicano piuttosto chiaramente. Per quanto concerne la situazione, essa è tendenzialmente una situazione di intimità, una conversazione a quattr’occhi: non è impensabile una narrazione per un vasto pubblico, come avviene nel romanzo Applausi a scena vuota di D. Grossman, ma anche dal palcoscenico gli occhi del sè-narrante sembrano cercare un interlocutore di riferimento
Nel caso del romanzo di Grossman, è bene tener presente che il comico Dova’le si narra alla platea, ma si sta rivolgendo all’amico d’infanzia che siede nel locale. . Per quanto concerne la relazione, invece, essa sembra doversi collocare all’estremo della almeno parziale estraneità o a quello opposto della profonda confidenza, ma sempre in un contesto di liminarità (che può essere quello di un commiato, come nel caso del racconto di Blixen, o il ritorno, almeno parziale, del precedente distacco nel rapporto tra due sconosciuti allorchè si chiuda l’intervallo circostanziale che li unisce, sia questo una notte di tempesta o un colloquio in ufficio): quasi che non si potesse restare troppo a lungo con l’identità dispiegata sotto lo sguardo altrui. A proteggerne la nudità, oltre alla categoria del tempo, interviene nella narrazione del sè anche quella del modo, soprattutto con la sottocategoria della distanza. Nel narrarsi tanto Rosario Chiarchiaro quanto il Cardinale Salviati e l’Inglese
Gli interventi dell’Inglese, anche se volti a favorire il depistaggio, sono in diverse occasioni profondamente rivelatori. Cfr., ad esempio: “Eravamo repubblicani, cattolici; eravamo – sospetto – romantici”. non cercano l’immedesimazione nel mondo narrativo ma intervengono, commentano, si spiegano: fanno cioè da mediatori in quella che è un’operazione di distanziamento critico affinchè il narratario possa non solo vedere in tutta la sua complessità il presente, ma scorgere distintamente il passato ed eventualmente intravvedere il futuro. Affinchè possa, cioè, approdare ad una conoscenza-riconoscimento del sè che ha di fronte come esito di una storia irripetibile cui, nell’atto stesso di narrarsi, si viene aggiungendo un ulteriore e forse decisivo segmento.
Bibliografia
Blixen, K. (1957)
Il primo racconto del Cardinale, in Ultimi racconti, Adelphi Edizioni, Milano, 1995
Borges, J.L. (1944)
La forma della spada, in Finzioni, tr.it.a cura di A. Melis, Adelphi Edizioni, Milano, 2003
Borges, J.L. (1949)
L’immortale, in L’Aleph, tr. it. a cura di F. Tentori Montalto, Feltrinelli Editore, Milano, 2010
Consigliere, S. (2014)
Antropo-logiche. Mondi e modi dell’umano, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (MI)
Grossman, D. (2014)
Applausi a scena vuota, tr. it. di A. Shomroni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
Penco, C. (2004)
Introduzione alla filosofia del linguaggio, Editore Laterza, Roma-Bari
Pessoa, F.A.N. (1982)
Il Libro dell’Inquietudine, tr. it. a cura di V. Tocco, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011
Pirandello, L. (1922)
La patente, in Novelle per un anno, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1956
Pirandello, L. (1908)
L’umorismo, Garzanti Libri, Milano, 2004
Ricoeur, P. (1990)
Sè come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano, 2011
Tornitore, T. (2013)
Della Narratologia, , Genova University Press, Genova
Altre fonti
La patente, in Questa è la vita (1954), per la regia di A. Fabrizi, G. Pàstina, M. Soldati e L. Zampa: https://youtu.be/JVxdgEfASnY
Elaborato scritto per il corso di Teoria della Letteratura (LM)
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