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Il controllo della stampa a Venezia

In questo breve elaborato ho cercato di approfondire il controllo della stampa a Venezia, servendomi degli studi condotti dallo storico Mario Infelise, docente presso Ca’ Foscari, che ha sottolineato e descritto la Venezia del Cinquecento e del Seicento, a partire dalla sua politica dell’informazione. Ho ritenuto opportuno descrivere il clima culturale in cui si inscrive questo dibattito intellettuale e politico: la presenza di una Venezia aurea, in ascesa e caratterizzata da una produzione tipografica importante, cosmopolita e aperta al mondo, contro la deriva di una Venezia oscura, in declino e che subisce la crisi dovuta all’Indice clementino e, in seguito, gli esiti della peste. Nel campo del libro, Venezia, che già vanta una tradizione di tecniche sperimentali, come le stampe in caratteri greci del Manuzio e in caratteri arabi del Corano, e la presenza di imprese editoriali significative fino al Seicento, durante il Cinquecento si è fatta riconoscere per il suo spirito innovatore in quanto, prima del Concilio di Trento, ha ideato un meccanismo di controllo dell’informazione e della stampa tipografica. L’espressione padroni dei libri, coniata dal professor Infelise nel suo testo I padroni dei libri. Il controllo sulla stampa nella prima età moderna, per la città di Venezia assume varie sfumature, che rinviano inizialmente al mondo dell’imprenditoria e della stampa, ma che si diramano fino a raggiungere il complesso e fondamentale apparato della comunicazione. Produrre il libro, regolamentarlo e proteggerlo, non risponde soltanto ad un’esigenza di mercato, ma è l’espressione manifesta di una consapevolezza nuova: la stampa può influenzare non soltanto il generico lettore, ma addirittura tutta la popolazione, in quanto dispone di un’ampia cassa di risonanza.

Charlotte Gandi mat. 865859. Tesina di Narrazione di viaggio e turismo sp. Il controllo della stampa a Venezia. Padroni dei libri e dell’informazione. 1 Indice Introduzione 3 I. Venezia e il controllo della stampa 4 1 La pratica della censura 10 2 La censura dei libri di Paolo Sarpi: un’intransigenza impraticabile 13 3 La crisi della stampa veneziana 15 II. Gli stampatori e i letterati a Venezia: il periodo aureo della stampa 19 1 Venezia cosmopolita e la prima stampa europea del Corano arabico 22 2 Le stamperie di Terraferma 24 Nota bibliografica 25 2 Introduzione In questo breve elaborato ho cercato di approfondire il controllo della stampa a Venezia, servendomi degli studi condotti dallo storico Mario Infelise, docente presso Ca’ Foscari, che ha sottolineato e descritto la Venezia del Cinquecento e del Seicento, a partire dalla sua politica dell’informazione. Ho ritenuto opportuno descrivere il clima culturale in cui si inscrive questo dibattito intellettuale e politico: la presenza di una Venezia aurea, in ascesa e caratterizzata da una produzione tipografica importante, cosmopolita e aperta al mondo, contro la deriva di una Venezia oscura, in declino e che subisce la crisi dovuta all’Indice clementino e, in seguito, gli esiti della peste. Nel campo del libro, Venezia, che già vanta una tradizione di tecniche sperimentali, come le stampe in caratteri greci del Manuzio e in caratteri arabi del Corano, e la presenza di imprese editoriali significative fino al Seicento, durante il Cinquecento si è fatta riconoscere per il suo spirito innovatore in quanto, prima del Concilio di Trento, ha ideato un meccanismo di controllo dell’informazione e della stampa tipografica. L’espressione padroni dei libri, coniata dal professor Infelise nel suo testo I padroni dei libri. Il controllo sulla stampa nella prima età moderna, per la città di Venezia assume varie sfumature, che rinviano inizialmente al mondo dell’imprenditoria e della stampa, ma che si diramano fino a raggiungere il complesso e fondamentale apparato della comunicazione. Produrre il libro, regolamentarlo e proteggerlo, non risponde soltanto ad un’esigenza di mercato, ma è l’espressione manifesta di una consapevolezza nuova: la stampa può influenzare non soltanto il generico lettore, ma addirittura tutta la popolazione, in quanto dispone di un’ampia cassa di risonanza. 3 I. Venezia e il controllo della stampa Lo Stato veneziano si è mostrato, sin dagli albori, molto attento al controllo dei libri, anticipando ogni altro Stato italiano. Questa preoccupazione, alimentata precedentemente alla Riforma protestante, probabilmente è stata influenzata dal nutrito interesse verso l’arte tipografica, che si è affermata a Venezia dalla seconda metà del XV secolo. A Venezia la tipografia è feconda ed ampia: in questa città, già prima dell’introduzione della stampa tipografica, abbiamo una produzione intensa di commercio del libro. Le prime tracce di stampa risalgono al Trecento, e possono essere identificate con la produzione delle immagini silografiche, raffiguranti Santa Caterina da Siena, e con i Salteri per fanciulli, brevi testi caratterizzati dall’alfabeto accompagnato da una breve preghiera. Inoltre, nel Quattrocento, la produzione è significativa grazie alle carte da gioco, che vengono diffuse e distribuite a livello locale. L'introduzione della stampa a Venezia ha come protagonista Giovanni da Spira che, nel 1469, ottiene il primo privilegio quinquennale per la stampa in esclusiva a Venezia. La Repubblica glielo concede a ragion veduta: il suo primo testo stampato a Venezia sono le Epistulae ad familiares di Cicerone, la cui tiratura è di circa trecento copie. Il privilegio librario, che consiste nella proibizione, rivolta ad altri stampatori, di stampare determinati testi, d’importarli altrove, oltre che nello Stato che ha concesso loro il privilegio o di venderli ad altri librai, in questo caso è quinquennale e consiste in un’esclusiva assoluta. Come si evince, Venezia è una citta molto interessata alle nuove attività economiche, favorite anche dalla presenza dei mercanti, riuniti presso il fondaco, e degli stampatori tedeschi; tra i primi è necessario annoverare Giovanni da Colonia, marito di Paola da Spira, che è considerato il primo grande imprenditore librario veneziano. Egli, oltre ad essere stato nominato scudiere del doge, non è soltanto un tipografo, ma anche un editore che si cura della veste editoriale dei testi che pubblica. Insieme a Nicholas Jenson, uno stampatore francese che gravita attorno al fondaco dei tedeschi, ideatore del carattere romano tondo, fonda, nel 1479, la Compagnia di Venezia. A questi importanti stampatori si affilierà Peter Ugelheimer, stampatore di Francoforte che sarà il degno erede di Giovanni da Colonia e Nicholas Jenson. Sulla scia del successo degli stampatori, mercanti ed editori tedeschi, Venezia ha un grande mercato; l’ambito testuale comprende testi latini, greci, seppur in minima parte, religiosi e in volgare. Importantissimo è il filone dei libri giuridici. 4 Nel 1481 l’attività della Compagnia di Venezia termina, ma la città continua ad essere il polo più importante per il mondo del libro, in attesa della fondamentale operazione editoriale e tipografica avviata da Aldo Manuzio, insieme al Torresani e al sostegno di Marco Barbarigo, il figlio del doge. Aldo Manuzio è riconosciuto come il promotore della prima esperienza culturale totale del Rinascimento veneziano; grazie alla sua attività di stampatore e uomo di lettere, egli ha una sensibilità particolare, che lo porta, per stampare i suoi testi greci, a collaborare con l’incisore Francesco da Bologna, detto il Griffo, che disegna il primo carattere corsivo usato da Manuzio, protetto da privilegio il 23 marzo 1501. Aldo Manuzio pubblica centotrenta edizioni in trent’anni: una trentina di prime edizioni di filosofi e letterati greci e opere di grande successo come gli Asolani di Bembo e gli Adagia di Erasmo. Inoltre, due esperimenti nel campo della tecnica editoriale: il volume in ottavo, non da lui inventato, ma perfezionato, e il già citato carattere corsivo. Per dare un quadro generale della sua produzione, possiamo ricordare che, dopo un periodo di preparazione e di avviamento caratterizzato dalla ricerca, che si aggira tra il 1495 e il 1501, la sua produzione ha subito una battuta d’arresto, conseguentemente ripresa tra il 1507 e il 1509, seppur questa ondata di attività sia spenta dalla guerra di Venezia con la lega di Cambrai. Dal 1515, anno in cui Manuzio si spegne, il lavoro editoriale riprende per opera dei suoi figli. Questo panorama editoriale e culturale eterogeneo e ricco, qui brevemente accennato, porta Venezia a rendersi conto di dover effettuare un controllo sulla stampa, la cui libera circolazione può alimentare opinioni difformi e incidere sull’azione di governo. Girolamo Priuli, nel 1509, dopo la drammatica rotta di Agnadello, afferma nei suoi diari che Venezia riceva un danno enorme a causa dei “fogli stampati”, che contengono versi e scritture “in vergogna della Repubblica”.1 Nel 1517, due anni dopo la morte di Aldo, il patrizio Andrea Navagero, un colto umanista che aveva collaborato con Manuzio, viene incaricato di verificare la qualità dei testi e delle edizioni stampate a Venezia. Questo compito è molto importante e mostra una cura da parte di Venezia verso le edizioni licenziate dai propri torchi. Tuttavia, la predicazione di Lutero cambia la rilevanza dei problemi in gioco. Con l’avvento della Riforma, il controllo censorio s’inasprisce da parte della Chiesa di Roma, ma anche da parte del potere secolare che inizia a considerare la censura un elemento funzionale al rafforzamento dei propri poteri. Successivamente al Concilio di Trento, si decide di accentrare i poteri del Papa; per questo, agli editori dello Stato pontificio sono concessi dei privilegi. Nasce così un altro 1 M. INFELISE, I padroni dei libri. Il controllo sulla stampa nella prima età moderna, Bari-Roma, Editori Laterza, 2014, p. 26. 5 grande polo della stampa italiana, anche se non è semplice valutare con precisione le dimensioni di questo spostamento del primato editoriale verso Roma. Si ricordi la vicenda di Apollinare Calderini; questi, un canonico ravennate, pubblica i Discorsi sopra la ragion di stato del Botero (1597), un’opera che spicca per la sua prospettiva filo-spagnola e monarchica, che non risparmia critiche al sistema politico veneziano. In quanto repubblica, Venezia è all’epoca molto criticata, poiché considerata una forma di governo anti-storica nei confronti delle realtà signorili italiane, controllate in larga parte dagli spagnoli. L’autore viene subito condannato. Un illustre intellettuale come Giambattista Leoni commenta e critica questo scritto, sostenendo che gli autori debbano sempre avere una certa reverenza nei confronti delle autorità.2 Sembra quasi che la censura civile voglia celare le “correzioni” e i tagli alle varie opere, quasi spinta dalla volontà di mantenere il segreto, per non generare troppa curiosità sull’argomento. Dopo il 1517, la correzione dei testi umanistici diventa un problema di secondo ordine rispetto alla preoccupazione per controllare il diffondersi dell’eresia, ma permane in sordina. Nondimeno, è opportuno ricordare che nello stesso anno, precisamente il primo agosto, il Senato veneziano emani una legge che revochi tutti i privilegi concessi dal 1470, e disponga che tutti i privilegi, a partire da quell’anno, vengano deliberati esclusivamente dal Senato. Il controllo delle manifestazioni culturali ed editoriali viene attuato, oltre che grazie alle legislazioni create appositamente, grazie all’apporto delle accademie che svolgono funzioni di vigilanza: tutto ciò che può incidere nel campo dell’educazione dei giovani patrizi e della sfera politica in senso lato viene segnalato. Ricordiamo l’Accademia Veneziana della Fama, promossa da Federico Badoer, che dimostra ambizioni enciclopediche, la Veneziana Seconda e gli Incogniti, la cui attività è tesa a sostenere l’ideologica repubblicana. La politica culturale promossa da Venezia è sicuramente da inquadrare nel concetto di Stato moderno e, più specificatamente, nel processo di statualizzazione dell’istruzione che era stato avviato dalle università, in particolare dallo Studio dei Riformatori di Padova, istituito nel 1517, che assume il compito di portare a compimento una vera e propria politica culturale. Allora, dopo il 1520, in un unico palazzo pubblico contraddistinto dall’emblema del leone di San Marco, vengono raccolte tutte le scuole sotto il controllo del governo veneziano. Tuttavia, la gestione delle università e delle accademie si dimostra molto più semplice rispetto al controllo dell’educazione dei giovani. L’unico sistema educativo 2 Ivi, pp. 4-24. 6 che si rivela, in superficie, efficiente è quello proposto dall’ordine della Compagnia di Gesù, considerata capace di seguire lo sviluppo dei giovani dall’età infantile alla maturità. Nessun altro ordine religioso è considerato alla stregua di quello gesuita, che viene preso a modello anche dallo Stato, incapace di gestire al meglio la formazione della gioventù. La rivendicazione, da parte dei Gesuiti, di ergere le loro scuole ad università, porta la chiusura, nel 1591, della scuola di Padova, per evitare ulteriori dissidi con il Senato veneziano.3 L’erudita Paolo Sarpi, nel 1622, cerca di demolire il mito dell’istruzione gesuita, sostenendo che il primato attribuito all’ordine non abbia alcun fondamento. A suo parere la bontà di un’educazione si misura in virtù della capacità di formare “gioventù” “buona e utile per un governo”.4 Secondo Sarpi, per il governo veneziano, l’educazione gesuita rappresenta un importante rischio poiché comporta un’obbedienza nei confronti di Roma che può contaminare il rapporto diretto tra sudditi e principe. Considerate le perplessità di Sarpi, i Riformatori dello Studio di Padova maturano l’idea di un polo educativo più conforme allo Stato. Ingolfo Conti traccia la bozza di un’accademia che sostituisca il collegio gesuita, ma che non viene portata a compimento. Sebbene si dimostri prematura e inattuabile la rivendicazione educativa da parte dello Stato, ancora incapace di gestire un’organizzazione scolastica così articolata, la cura destinata, da parte dello Stato, alla “proibizione dei libri”, risulta disposta ed allestita in modo più sistematico ed efficace. Nel 1596, Papa Clemente VIII promulga il nuovo indice dei libri proibiti, reso esecutivo nel maggio dello stesso anno, ma la Repubblica di Venezia rifiuta di accettarlo, poiché ritiene debbano esserne modificate alcune norme. Soltanto a seguito di una lunga trattiva condotta con Roma, si giunge alla definizione dell’indice. Mentre il Papa continua a ribadire che l’indice sia fondamentale per estirpare i libri eretici, come era stato dimostrato dall’indice del 1564 di Paolo IV, le obiezioni veneziane sono rivolte alla tutela dei librai, che non vogliono dipendere da nessuno, se non dal loro Principe, e volte alla limitazione delle intromissioni ecclesiastiche in materia laica. Importante è l’apporto dell’Interdetto Leonardo Donà, che segue l’evolversi della questione. 3 4 S. PAVONE, I gesuiti dalle origini alla soppressione, Roma-Bari, Editori Laterza, 2013. M. INFELISE, I padroni dei libri. Il controllo sulla stampa nella prima età moderna, cit., p. 31. 7 Papa Clemente VIII si dimostra sdegnato dall’atteggiamento assunto dallo Stato veneziano, che insiste nel “contradir al papa et per favorir quattro tristi librari”,5 che non vogliono sottostare ad un giuramento ecclesiastico. La reazione più forte si ha quando, all’insaputa di Donà, vi è una riunione fra i “capi del clero” che comunicano ai confessori di interrogare i fedeli in merito al possesso di libri considerati eretici. Per Donà e lo Stato veneziano, un simile gesto rappresenta un vero e proprio affronto alla Repubblica; nella sua concezione dello Stato il principe è “il tutto”, il capo a cui bisogna obbedire e la cui autorità è riconosciuta, mentre il resto rappresenta solamente un “accessorio”.6 La questione è vivace: secondo il papa, Venezia vuole soltanto proteggere gli interessi dei propri librai che, subito dopo la promulgazione dell’indice, si sono lamentati del drastico calo di produzione: i torchi attivi, da 125, passano a 40.7 Per evitare di danneggiare ulteriormente il commercio librario, ben consapevole del tentativo del Papa di promuovere la produzione tipografica romana a scapito di quella veneziana, Venezia decide di concentrarsi sulle questioni giurisdizionali, e di distinguere con chiarezza ciò che è di pertinenza ecclesiastica dalle competenze esclusive del principe. Viene stipulato un concordato tra Venezia e il Papa. Negli anni che seguono, la Repubblica interviene ulteriormente sulla proibizione dei libri: il 20 febbraio 1603 approva misure che contengano l’abbandono di Venezia da parte dei librai e degli stampatori per tutelare l’assetto economico della città. La legge del 1603, ulteriormente arricchita il 21 maggio, elabora una legislazione più precisa in materia di privilegi librari. In particolare, le procedure in merito alle autorizzazioni di stampa, che dal 1562 prevedevano la lettura di ogni opera da tre revisori – il lettor pubblico, un segretario ducale e l’inquisitore del Sant’Uffizio – vengono snellite: il lettor pubblico è eliminato, mentre il segretario e l’inquisitore sono incaricati di accordare “la fede” al libro vagliato. Il suddetto riordino in merito alla disciplina della stampa si basa su criteri che rimangono in vigore fino al Settecento, e si consolida negli anni senza alterazioni nelle procedure. Nel 1606, lo scontro tra Venezia e Roma si inasprisce: dopo l’arresto di due preti cattolici accusati di reati comuni da parte del Consiglio dei Dieci, Papa Paolo V coglie l’evento come pretesto per punire Venezia e scaglia un interdetto sulla Repubblica (revocato l’anno successivo): la scomunica dell’intero Stato veneziano costituisce una delle più profonde fratture nella storia d’Italia, un paese sostanzialmente dall’unitaria 5 Ivi, p. 36. Ivi, p. 38 7 Ivi, p. 39. 6 8 fede cattolica. Questa scomunica colpisce, oltre alle autorità politiche, tutti i cittadini: non è più possibile tenere delle cerimonie religiose o amministrare i sacramenti. Poiché lo scontro tra Roma e Venezia porta molte conseguenze sul piano della comunicazione, Venezia cerca di esibire una singolare moderazione. La grande tensione di quegli anni fra Roma e Venezia non si risolve in un allentamento della censura; lo stesso Sarpi, per evitare il vaglio dell’Inquisizione, consiglia all’amico Jacques Gillot di spedire i libri per farli giungere a Venezia non dai librai parigini che si appoggiano a Trento e Francoforte ove il controllo è alto, ma per Torino dove la vigilanza è minore. Per contrastare le ispezioni degli inquisitori a Venezia, il Consiglio dei Dieci affida ai Riformatori di trovare una persona suddita e laica che abbia l’incarico di controllare tutti i libri portati in città: l’incarico viene prima affidato a Gianbattista Leoni e in seguito a Giovanni Sozomeno, letterato umanista legato all’Accademia Veneziana Seconda, che deve occuparsi delle questioni di stampa. Egli redige un indice dei libri proibiti laico, che è recapitato a tutti i librai: il primo libro proibito citato nell’indice è il De rege et regis institutione di Juan de Mariana, accusato di favorire il tirannicidio.8 Il progressivo allargamento dell’impegno della Repubblica nel controllo della circolazione dei libri nello Stato è coerente con le intenzioni avviate dal concordato del 1596: Venezia vuole erodere la capacità di intervento delle autorità ecclesiastiche. È significativo un consulto di Paolo Sarpi risalente alla fine del 1608 che tratta la questione circa l’opportunità di porre sui frontespizi dei libri la formula “col permesso dei superiori” che attesta l’avvenuta autorizzazione di stampa. Questa formula compare verso la fine del Cinquecento, ma viene apposta sistematicamente ai frontespizi dal 1603. Dunque, come considera con lungimiranza Sarpi, la stampa merita un particolare riguardo dallo Stato, in quanto può divulgare qualsiasi dottrina, sia positiva, sia negativa, ma allo stesso tempo è una risorsa economica e culturale importante. Apporre la formula in questione significa dichiarare degni di stampa anche dei testi che si oppongono alla religione e ai principi, ma d’altro canto, la mancanza di questa menzione, danneggerebbe la produzione tipografica. Sarpi suggerisce di sostituire la menzione dell’approvazione con il permesso di stampa poiché è diverso permettere “li cattivi costumi”, che approvarli.9 Il suo progetto è scrivere la Potestà de’ principi, un trattato di duecentosei capitoli sulla potestà del principe, in cui però l’influsso della stampa e della sua importanza non è trascurabile. In esso, Sarpi si esprime sull’Inquisizione e denuncia il suo uso di falsificare gli scrittori antichi e moderni, che la porta ad ergersi come la padrona della stampa; per contrastare questa tendenza, egli propone di levar le stampe dalla mano dell’Inquisizione per darle al Principe. 8 9 Ivi, p. 48. Ivi, p. 50. 9 La questione non è marginale dal momento che la comunicazione è uno dei possibili strumenti di potere: essere padroni dei libri significa avere la capacità di controllare i sudditi. Nel 1613, nel lungo consulto sopra l’Officio dell’Inquisizione, Sarpi dedica molte pagine al controllo della stampa e afferma che il potere secolare debba contrastare il proposito degli ecclesiasti di “farsi padroni de libri”. La soluzione prospettata da Sarpi è volta al contenimento dell’autorità ecclesiastica: la Chiesa ha il diritto di proibire i libri per ragioni di eresia, tuttavia la sua capacità di intervento deve limitarsi a quel preciso limite. Il Senato veneziano dispone che la parte dedicata alla stampa del consulto di Sarpi sia custodita nella cancelleria secreta, ma le attenzioni dello Stato non sono sufficienti a non diffondere un testo così significativo, che nel 1638 viene stampato a Ginevra. Gli anni 1615-1616 sono gli ultimi in cui si insiste nel proposito di imporre un forte controllo di Stato alla stampa e, nonostante nel 1615 venga eliminata la menzione di revisione di stampa da parte dell’Inquisitore, la paura di un inasprimento del conflitto con Roma porta Venezia a ritornare sulle sue decisioni. 1. La pratica della censura Il proposito teorico di consolidare il potere dello Stato attraverso il controllo dell’informazione non è condotto completamente a termine. I libri veneziani, dopo il vaglio dell’Inquisizione, se non ottengono il nullaosta, vengono immediatamente bloccati, senza dunque passare tra le mani del segretario del Consiglio dei Dieci e, fino al 1603, del pubblico lettore. Prendendo in considerazione il Censimento nazionale delle edizioni italiane del XVI secolo, vediamo che, dopo un iniziale primo decennio durante il quale sono pubblicati circa trecento titoli all’anno, durante gli anni Ottanta si raggiunge il picco di quattrocento unità annue. Tra il 1541 e il 1550 quasi il 62% dei titoli italiani riporta la data topica di Venezia, che a fine secolo viene quasi dimezzata, scendendo al 32,67%.10 Il funzionamento ordinario della censura è caratterizzato da alcune problematicità: nonostante il sistema sia stabilito in modo chiaro, spesso le opere minori, quelle più popolari e le ristampe, non sono sottoposte alla trafila sopradescritta. Dunque, questo porta a limitare la crisi editoriale di inizio Seicento. Nel 1599 il cardinale Agostino Valier avvia una ricognizione sul patrimonio librario presente nelle biblioteche dei conventi italiani, seguendo la linea proposta dall’indice 10 Ivi, p. 60. 10 clementino. Diversamente da tutta la penisola, da cui provengono inventari che attestano la stato delle collezioni librarie, le liste veneziane continuano a contenere tradizioni antitetiche allo spirito delle congregazioni romane.11 La licenza di stampa, formulata dallo Studio di Padova e registrata nei registri del Notatorio dei Capi del Consiglio dei Dieci, inizia ad essere accordata con maggiore prudenza: non mancano le proposte di revisione e modifica delle opere esaminate. Durante i mesi dell’Interdetto, è istituito un consiglio di sette teologi, di cui fa parte anche Paolo Sarpi, che ha il compito di revisionare i libelli sulla vertenza con la Sede Apostolica. Tuttavia, solo il 35% degli scritti favorevoli alla politica veneziana ottiene regolare permesso, a differenza del 90% di libri che sostengono le posizioni romane. Buona parte degli scritti a favore di Venezia, per di più, vengono pubblicati da autori anonimi. È bene ricordare che quando la Congregazione dell’Indice proibisce la pubblicazione di un libro, la Repubblica, come stabilito dal concordato, non accetta sistematicamente la proibizione. Occorre che il nunzio esponga al Collegio le motivazioni del relativo decreto, in seguito vagliato da un consultore preposto a fornire un giudizio tecnico. Tra i libri proibiti durante la prima metà del Seicento, oltre al De revolutionibus orbium coelestium di Copernico e la Lettera del carmelitano Paolo Antonio Foscarini su Copernico, compare anche la proposta di bandire la Istoria del concilio tridentino di Sarpi, pubblicata a Londra sotto il falso nome di Pietro Soave Polano. Il testo, che è senza nome dell’autore e non si sa dove sia stato stampato realmente, è valutato sotto volere del doge dai consultori. Come fa notare Sarpi al monsignore Francesco Castrino, senza la “fede” rilasciata dall’Inquisitore è pressoché impossibile poter pubblicare un qualsiasi libro, e chi richiede l’autorizzazione già sa, in linea di massima, cosa può essere concesso o proibito dalla Congregazione dell’Indice. Una proibizione ufficiale scoraggia anche il più audace stampatore: il libro proibito, anche se stampato, non è acquistato e venduto, inoltre chi lo possiede è indotto a consegnarlo all’inquisitore. Appaiono interessanti le vicende che portano alla ristampa dei Moral Essays di Francis Bacon, che erano usciti nel 1597 a Londra. A Venezia, Fulgenzio Micanzio, collaboratore di Sarpi, segue l’evoluzione del pensiero del filosofo inglese, e si incarica di tradurli, seppur con scarsi risultati. Poiché non è possibile stampare a Venezia i Saggi, la prima traduzione in italiano è stampata in Inghilterra nel 1618, per poi essere ristampata a Firenze da Andrea Cioli. L’edizione è alterata, soprattutto nella parte riguardante l’ateismo. 11 Ivi, p. 65. 11 Nel frattempo, Micanzio persegue il suo intento di produrne un’edizione veneziana di Bacone e, il 16 aprile 1619, riesce ad ottenere una licenza dai Riformatori dello studio di Padova, presentando come modello l’edizione del Cioli. Seppure Micanzio riesca ad inserire il nome dell’autore, non riesce a correggere le modifiche che precedentemente hanno alterato il significato del saggio sull’ateismo e sullo “scandal of priest”. Tale esempio testimonia come sia difficile promuovere edizioni che non siano alterate e modificate in modo invasivo a causa della censura. D’altro canto, oltre alle vie ufficiali ed ufficiose, sono elaborati alcuni espedienti che permettano la circolazione di testi che non possono ottenere il consenso da parte dei Revisori ecclesiastici: uno stratagemma in uso è quello di apporre sul frontespizio dell’edizione un falso luogo di stampa. Tuttavia, questa tecnica, secondo il censimento del 1600, è usata sporadicamente: su 20.000 edizioni soltanto 95 hanno un luogo di stampa falsificato. Lo stato veneziano, in molte circostanze, preferisce lasciare dubbi e ambiguità piuttosto che assumersi la diretta responsabilità sull’opera, che magari autorizza tacitamente, ma senza una pubblica registrazione. Tale ambiguità è necessaria per non entrare sistematicamente e apertamente in conflitto con Roma, basti pensare che molte falsificazioni sono realizzate con la complicità dello Stato. Gli anni di maggiore scontro con Roma, oltre ai mesi dell’Interdetto, sono rappresentati dal periodo compreso tra il 1640 e il 1644, in coincidenza con la guerra condotta dalla lega tra Parma Toscana e Venezia contro Urbano VIII per il ducato di Castro. Nel suddetto periodo sono consueti i permessi accordati tacitamente dai Riformatori dello Studio di Padova, coperti con falsi luoghi d’edizione. Lo Stato veneziano si trova a coprire delle clamorose operazioni clandestine: è emblematico il caso del libraio Roberto Meietti che, dal 1580 al 1640, è al centro di quasi tutti i traffici clandestini tra Venezia e il resto d’Europa. Egli, coltivando rapporti con la Germania, riesce a far stampare molte opere proibite in Italia: dopo essersi iscritto, all’età di quindici anni, all’Università dei librai e stampatori veneziani, inizia ad effettuare viaggi oltre le alpi, in particolar modo verso Francoforte, dove vi è una delle fiere librarie più importanti del continente. Nel coltivare rapporti con la Germania riesce a far stampare alcuni titoli di François Rabelais, Michel de Montaigne e Pico della Mirandola. La sua attività, nascosta sotto lo pseudonimo di Nicolò Padovano, nei mesi dell’Interdetto, lo porta a ricevere diverse commissioni da parte di Venezia e, di conseguenza, a subire maggiori attenzioni da Roma. Nel 1606, nei mesi dell’Interdetto, Meietti subisce la scomunica e tutta la sua produzione è messa all’indice, ciò nonostante, nel 1615, dopo aver fatto sottomissione al Papa, ottiene la revoca dei provvedimenti su di lui e riprende le sue attività editoriali. 12 2 La censura dei libri di Paolo Sarpi: un’intransigenza impraticabile L’intransigenza di Donà e Sarpi in merito alla questione della stampa si riverbera nelle azioni della vita quotidiana degli inquisitori e degli uffici preposti alla censura della Repubblica. Negli anni Venti l’intento di porre il controllo sulla stampa naufraga silenziosamente, seppur continuino a persistere scontri endemici, soprattutto in riferimento a prese di posizione politiche. L’intento di sradicare il ricordo di Sarpi appare subito chiaro nei giorni immediatamente seguenti alla sua morte avvenuta il 15 gennaio 1623. Subito dopo il funerale si inizia a parlare di “un tumulo e di una iscrizione”, a questa notizia interviene il nunzio Zacchia che fa ben intendere che questa proposta sia contraria al volere del Sant’Uffizio. Il Senato ignora questo primo avvertimento e delibera l’erezione di un monumento a Sarpi. Nel mese di ottobre, quando il busto e l’iscrizione sono ormai quasi pronte, il Nunzio Aguccia, succeduto a Zacchia, torna sulla questione sostenendo che sua Santità non tolleri in alcun modo questa opera e che non sia opportuno guastare l’inizio del nuovo pontificato rischiando così di compromettere i rapporti con la Repubblica. È noto che la statua non è stata portata a termine.12 L’incapacità di tutelare la memoria di Sarpi ci rivela la situazione politica difficile in seno al patriziato veneziano. Le contraddizioni di questi anni ben son rappresentate dall’Istoria veneta di Andrea Morosini pubblicata nel 1623 dallo stampatore Pinelli. Morosini ha tracciato in modo approfondito le vicende politiche veneziane dal 1521 al 1615, comprendendo tutte le scottanti vicende sull’Interdetto. Tuttavia, la moderazione per cui Morosini è noto non è sufficiente a garantire la pubblicazione del suo scritto: l’opposizione ecclesiastica gli nega la “fede” inquisitoriale, mentre il Senato veneziano, il 26 maggio 1623, gli concede una deroga di pubblicazione, proprio in virtù della sua opera, che può essere ascritta al genere della storiografia pubblica. La Congregazione dell’Indice, considerando il gesto del Senato veneziano alla pari di un affronto, il 12 dicembre dello stesso anno, proibisce l’opera, apponendole la clausola “donec corrigatur”. Tale proibizione, con l’aggiunta della clausola, costituisce una pubblica offesa, in quanto, oltre a disconoscere la deroga di approvazione emessa del Senato, rimprovera la trattazione di un evento storico come interdetto, e non si riferisce ad un libro contrario alla religione. Venezia denuncia l’intenzione, da parte della Chiesa, di voler falsificare la storia nascondendo la verità e diffondendo scritti ad hoc a sfavore di Venezia. 12 Ivi, p. 87. 13 La situazione si complica quando, nel 1625, l’inquisitore di Brescia, da poco trasferitosi a Venezia, ordina di bruciare una moltitudine di libri, tra cui opere relative all’Interdetto, e licenziate, all’epoca, in modo legittimo. Tra questi libri proibiti si trovano le Considerazioni sopra le censure della Santità di papa Paolo V di Sarpi.13 La damnatio memoriae verso Sarpi è chiara: tra il 1625 e il 1626 vengono licenziate almeno otto edizioni dell’Historia particolare delle cose passate tra ’l sommo Pontefice Paolo V e la Serenissima Repubblica di Venetia gl’anni 1605, 1606, 1607 in italiano, francese, inglese e latino, ma nessuna di queste edizioni è stampata a Venezia. Nel 1628, con la limitazione del potere del Consiglio dei Dieci in materia di stampa, risulta chiaro il definitivo naufragio dei piani sarpiani di inizio secolo. Inoltre, il nome di Sarpi, a metà Seicento, almeno per quanto concerne l’Italia, è sostanzialmente rimosso da tutti gli scritti pubblicati, mentre i suoi testi risultano quasi assenti dalle biblioteche, comprese quelle veneziane. Tutti gli scritti di Sarpi, tranne il saggio Sopra l’Officio dell’Inquisizione, sono proibiti e immessi nell’Indice; quest’ultimo non viene ascritto in quanto la sua proibizione, essendo un’opera pubblicata nel 1638, avrebbe soltanto attirato l’attenzione pubblica su un libro ormai dimenticato. Tuttavia, il tentativo di “dimenticare Sarpi” non va a buon fine: il testo ha una grande fortuna, tanto è che, nel 1660, l’inquisitore di Padova lamenta l’ingombrante presenza del saggio in questione e ne chiede la proibizione. Roma, nonostante tenti di ignorare le ripetute insistenze degli inquisitori, nel 1670, è costretta a ritornare sulle sue decisioni: la pubblicazione di un testo anonimo e privo di qualsiasi dichiarazione tipografica intitolato La Risposta all’Historia della sacra inquisizione, e attribuito in seguito al cardinale Albizzi, costringe le congregazioni romane, divenute nel frattempo sempre più consapevoli della fortuna di Sarpi all’estero, a dover mutare atteggiamento. Alla pubblicazione, tra il 1656 e il 1657, commissionata dal cardinale allo Sforza Pallavicini, di due volumi sulla Istoria del concilio di Trento in chiave palesemente antisarpiana, appare evidente all’opinione pubblica che Sarpi non possa essere espunto dai libri, né tantomeno dalla memoria collettiva, sia per la sua importante attività come collaboratore della Repubblica veneta, sia per la sua opera di scrittore. Occorre rilevare che l’attività pubblica di Sarpi sia sempre stata al servizio della Repubblica: egli è uno degli autori italiani più pubblicati e tradotti fuori d’Italia, eppure, tra il 1619 e il 1720, le edizioni sarpiane stampate a Venezia non sono più di tre. Ciò testimonia come la Repubblica veneta, dopo gli anni dell’Interdetto, non abbia voluto assumersi direttamente la responsabilità di autorizzare le opere di Sarpi, che sono state riscoperte alla fine del Seicento, in particolare nei torchi di Ginevra. 13 Ivi, p. 94. 14 3. La crisi della stampa veneziana L’intento maturato nell’ultimo decennio del XVI secolo di rafforzare le strutture di controllo dello Stato, si inabissa silenziosamente trent’anni dopo. Le esigenze di politica internazionale inducono Venezia ad abbandonare gli scontri frontali con la Sede Apostolica e, a causa della convivenza, mai priva di dissidi sotterranei, si affermano più facilmente le posizioni della Chiesa. D’altra parte si sviluppa la corrente del Libertinismo, costruita come risposta all’imposizione della religione e al serrato controllo delle congregazioni romane. Nelle vicende del Libertinismo europeo, Venezia, fra il 1630 e il 1650, svolge un ruolo importante grazie all’Accademia degli Incogniti, il cui ruolo editoriale non deve passare in secondo ordine, soprattutto in rapporto alle istituzioni e alle pratiche censorie. Questa stagione è decisiva per l’equilibrio italiano, in quanto Venezia mette fine al suo sogno di diventare un centro di potere alternativo a Roma. La sua scommessa, dimostratasi troppo azzardata, ovvero di riuscire a porsi sulla via dell’assolutismo senza essere una monarchia assoluta, ma una Repubblica aristocratica, risulta persa. La crisi della stampa veneziana, in coincidenza con la peste del 1630, diventa manifesta negli anni Trenta seppur, già a partire dal 1620, la presenza italiana e veneziana alle fiere tedesche, tra cui quella già citata di Francoforte, la più importante d’Europa, si stesse già progressivamente riducendo. Se negli anni Venti del Seicento, i titoli nuovi proposti da Venezia sono ancora duecentocinquanta all’anno, comprese oscillazioni in positivo e negativo, dopo la peste i titoli nuovi sono quaranta. La crisi editoriale proviene da lontano, ma è sicuramente motivata, oltre che dalla censura, dalla graduale perdita della capacità d’innovazione da parte degli editori veneziani, che preferiscono dedicarsi ad un genere editoriale sicuro dal punto di vista economico, quello dei libri liturgici. Editori come i Giunti, per esempio, costruiscono un vero e proprio impero dedicandosi ai libri Rossi e Neri, ma ciò nonostante sono piegati dalla crisi seicentesca. La scoppio della peste, che si diffonde in un contesto già piegato dalla crisi, determina danni ingenti all’intero sistema produttivo dell’arte tipografica. A causa dell’elevata mortalità, si pensi che la popolazione veneziana è ridotta del 30%, le attività di stampa sono sospese, per riprendere l’anno dopo, ma ad un ritmo molto più cadenzato. Dall’introduzione della stampa, a Venezia, non si è mai presentata una 15 situazione simile: nel 1632 i torchi in attività sono solo cinque, anche se, nel ’43, essi superano la trentina, dimostrando una lenta ripresa.14 Le fortune della stampa e del commercio di libri clandestini e proibiti sono conseguenza di questa nuova situazione, in cui si inserisce l’Accademia degli Incogniti. Tra il 1631 e il 1641 il tipografo veneziano Giacomo Sarzina è il responsabile della stamperia ufficiale dell’accademia e il tipografo più attivo di Venezia, molto legato con Loredan, membro del patriziato e uomo del Senato, che pare sia il detentore della responsabilità editoriale di questi anni. L’attività svolta dagli Incogniti e dal Loredan, sempre in bilico fra legalità e illegalità, caratterizza quei decenni di crisi.15 Per quanto riguarda il controllo della stampa da parte dello Stato, le norme, pur in un contesto mutato, rimangono quelle basate sull’attività dei Riformatori dello Studio di Padova del 1603, anche se vengono osservate in modo meno rigido, senza tuttavia riprendere l’intenzione del progetto di Donà e Sarpi. Dalla parte dello Stato, ormai, la revisione dei libri dipende dagli uomini vicini all’Accademia degli Incogniti, mentre mantiene un ruolo centrale, nella veste di consultore, Fulgenzio Micanzio, che contrasta, moderatamente, le mutilazioni sui testi volute dalla Chiesa e tenta di tenere entro i limiti gli interventi degli inquisitori. Con la crisi del Seicento, il tribunale del Sant’Uffizio, principale organo responsabile del controllo della lettura, continua a operare in virtù dell’autorità conferitagli dalla Repubblica, grazie agli inquisitori, al Patriarca e al Nunzio, ma la sua attività è diversa rispetto a quella del secolo passato: il suo potere è limitato, in quanto può operare soltanto in presenza di un patrizio veneto, inoltre, venuto meno il pericolo dell’eresia, la tensione si allenta e l’attività degli inquisitori tende a ridursi ad operazioni di routine. La componente ecclesiastica, di fronte ad un atteggiamento dello Stato indolente, non riesce a svolgere un’attività di censura e controllo efficace. Nei casi in cui si procede al processo di un veneziano, magari incolpato di possedere dei libri proibiti, la penitenza può essere quella di recitare i sette salmi penitenziali, ma difficilmente le punizioni sono crudeli e cruente. I patrizi, per la loro posizione, di solito non sono coinvolti nei processi, per evitare scontri diretti tra Roma e Venezia. Cento anni di guerra al libro eretico hanno ormai affinato l’esperienza degli ecclesiastici che riconoscono che il modo migliore per contrastare la stampa dei libri proibiti sia la prevenzione, che passa attraverso una vigilanza sui libri da stampare. A parte alcuni casi isolati, è bene ricordare che, perlomeno dai dati ricavati dall’Archivio di Stato di Venezia, a Venezia, l’incidenza dei processi per libri proibiti passi dal 5% 14 15 Ivi, pp. 137-140. Ivi, p. 141. 16 degli anni 1586-1630 al 3% del periodo 1631-1720.16 Dei quarantacinque processi conservati, il 50% riguarda la Clavicula Salomonis, un prontuario per pratiche negromantiche. Come si evince, la componente ecclesiastica, nonostante sia presente, assume un ruolo pro forma, che si concentra prevalentemente verso la condanna di pochi soggetti, perlopiù possessori di libri legati alle tematiche della magia, del libertinismo e poco altro. Durante gli anni Quaranta, si ha un intensificarsi della produzione di libri legati alla guerra per il ducato di Castro, feudo farnesiano occupato dalle truppe pontificie dal 1641. Nonostante questo conflitto sia marginale rispetto alla Guerra dei Trent’anni, dà vita ad una vasta produzione di libelli con attacchi verso papa Urbano VIII e la sua politica, che porta l’Inquisizione ad un aumento della sua attività. Tuttavia, la progressiva perdita di posizione da parte dell’Inquisizione, che è impegnata attivamente, ma che di fatto a Venezia ha un potere limitato, e di alcuni soggetti giuridici, tra cui il nunzio apostolico, porta a conseguenze importanti: quando il nunzio Vitelli, stanco del proliferare di libri “frizzanti”,17legge il Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino, libro apertamente ostile verso il papa e pubblicato nel 1641 con una falsa indicazione di edizione (anziché Venezia, nel frontespizio si legge Norimberga), non avendo alcuna soddisfazione dagli organi della Repubblica, decide di rapportarsi direttamente con il Cardinale Barberini, finendo col trasformare la condanna dello scrittore in una sorta di regolamento di conti personale. Lo stampatore è accoltellato, mentre il Pallavicino, tempo dopo, viene incarcerato, nonostante Micanzio, sotto richiesta del Senato veneziano, dia il suo consulto e ritenga il libro estraneo alla giurisdizione della Congregazione dell’Indice. A seguito della liberazione del Pallavicino, nel 1642, l’ira del nunzio Vitelli è implacabile: si arriva all’esecuzione di Ferrante che, anziché segnare la fine di un momento di ribellione, provoca il proliferare di ulteriori libelli incandescenti. Quando il nunzio lascia Venezia, la crisi con Roma si aggrava: nel marzo del 1644 le truppe pontificie sono sconfitte a Pontelagoscuro e il Papa si trova costretto ad accettare le condizioni di pace, dovendo restituire Castro al Duca di Parma. Il clima politico presto cambia radicalmente: l’attacco dei turchi a Candia, nell’estate del 1645, e le conseguenti richieste veneziane di soccorso, modificano ancora una volta la politica della Repubblica con la Sede Apostolica. Gli attacchi antiromani proseguono, ma i rapporti tra il nuovo nunzio Angelo Cesi e le principali istituzioni della Repubblica tendono a ricomporsi. L’obiettivo è di controllare la “facilità di pubblicar li 16 17 Ivi, p. 166. Ivi, p. 146. 17 libri”,18restituendo progressivamente al Tribunale dell’Inquisizione il suo ruolo, riportando sotto la sua competenza la repressione della circolazione dei libri proibiti. In particolare, il processo del 1648 a Francesco Valvasone permette di svelare le complicità tra tipografi e librai, avviando una serie di processi, come quello al tipografo Matteo Leni e al libraio Giacomo Batti, che rivela l’intero sistema di complicità che ha caratterizzato la produzione editoriale degli anni precedenti, mossa attorno a Loredan e agli Incogniti. Emergono così le connivenze con il sistema di censura di Stato che aveva concesso tacitamente il permesso di stampare, con falso luogo di edizione, ai veneziani. La distruzione della Città di Castro, nel 1649, per mano di Papa Innocenzo X e l’aggravarsi della guerra di Candia, determina una radicale trasformazione della situazione: il nuovo clima politico, indotto dalla necessità di riuscire a contare sugli aiuti della Sede Apostolica, fa ancora una volta riconsiderare i rapporti con Roma. L’atto più appariscente è la riammissione dei Gesuiti nello Stato veneto nel 1657. Nel 1656 i Riformatori dello studio di Padova riconoscono all’inquisitore del Sant’Uffizio la facoltà di rilasciare licenze, si ricordi che prima il parere ecclesiastico era detto “fede” ed era preliminare assieme al parere del revisore laico, mentre ora diveniva una vera e propria “licenza”. Nel 1688 i Riformatori dello Studio di Padova si lamentano dell’uso dell’imprimatur lamentando l’inosservanza delle norme del 1596, poiché l’imprimatur ha in sé un “senso di comando”. Nel 1695, mutati i rapporti di forza, il Senato pone fine alla controversia, decretando che solo lo Stato possa concedere licenze nello Stato di Venezia. 18 Ivi, p. 188. 18 II. Gli stampatori e i letterati a Venezia: il periodo aureo della stampa Come fa notare Francesco Sansovino in Venetia città nobilissima e singolare, la stampa veneziana ha dato ornamento all’arte tipografica grazie a Manuzio, Giunti, Valgrisio e Giolito. Il Cinquecento è il secolo aureo della stampa veneziana, che dà vita ad una vera e propria print culture. Grazie all’attività di Manuzio vi è una nuova economia di mercato, che differisce da quella medioevale: se prima il mercato era prestabilito e sicuro, nel Cinquecento esso diventa più vasto, grazie alla guida dei tipografi e degli editori, che guidano i clienti ad apprezzare e fruire il libro. L’editoria veneziana si rinnova dal punto di vista culturale poiché, oltre ai libri liturgici, ben prima della pubblicazione delle Prose della Volgar lingua operata da Pietro Bembo, a Venezia, presso il Tacuino, dimostra un’apertura verso le pubblicazioni in volgare. Seppur, inizialmente, i libri in volgare imitino gli enchiridi aldini, con lo stampatore Francesco Marcolini, dalla semplice imitazione, solitamente di qualità inferiore, la produzione degli scritti volgari diviene più elegante e caratterizzata da caratteri corsivi belli e tondi.19 Fondamentale è l’apporto di Gabriele Giolito che, dal 1541, trasforma la sua bottega in una vera e propria impresa editoriale. Egli è il figlio primogenito di Giovanni Giolito di Trino, proveniente dal Monferrato, una città che si trovava al centro della via commerciale Lione-Venezia. Dopo aver creato una piccola bottega, Giovanni Giolito si era specializzato nella pubblicazione di testi giuridici. Alla sua morte, Gabriele, trovandosi a Venezia, ha la possibilità di esercitare la sua inventiva nell’editoria e di accrescere l’attività familiare. Avendo compreso che la rapidità e il ritmo siano fondamentali nella stampa, dal ‘38 si dedica al volgare, pubblicando Cicerone. La sua creatività lo porta a sperimentare: è frequente da parte dello stampatore l’uso del ritratto d’autore contemporaneo, non comune nel Cinquecento, che pubblica nell’antologia di rime intitolata Rime diverse di molti eccellenti autori. È bene far notare che Giolito, a differenza del padre, sceglie di licenziare dai suoi torchi soltanto opere nuove e di proteggere tutte le sue edizioni tramite un privilegio di durata decennale. Nel 1542, dà alle stampe un’edizione illustrata dell'Orlando furioso: quest’opera, tra il 1540 e il 1560, avrà ben ventisette edizioni, tra cui una traduzione in spagnolo.20 Inoltre, egli decide di stampare una Bibbia in volgare, in seguito proibita dall’Indice del 1559 e una in toscano; quest’ultima non sarà mai ultimata. I suoi best seller, oltre all’Ariosto, sono 19 T. PESENTI, Stampatori e letterati nell’industria editoriale a Venezia e in Terraferma, in «Storia della cultura veneta», Il Seicento, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1983, p. 96. 20 A. NUOVO, C. COPPENS, I Giolito e la stampa: nell'Italia del XVI secolo, Genève, Droz, 2005, p. 222. 19 le Rime del Petrarca, caratterizzate da un’importante svolta iconografica, ovvero il ritratto di Petrarca insieme all’amata Laura, e il Decameron del Boccaccio. Tra il 1541 e il 1508 Giolito stampa 1109 edizioni: 527 titoli originali e 492 ristampe. Il predominio di Giolito dura fino a quando Vincenzo Valgrisi, uno dei più esperti collaboratori editoriali, inviso a Giolito, presenta una propria edizione, contenente due grandi innovazioni: l’illustrazione a inizio canto che occupi l’intera pagina (e non una vignetta) e la presenza nel testo delle carte geografiche con cui seguire gli spostamenti dei personaggi. L’importante attività editoriale veneziana porta, nel 1549, alla creazione dell’Università degli stampatori e librari; la nascita di quest’arte era sempre stata ostacolata dal Consiglio dei Dieci, tanto è che, nonostante la sua creazione, l’attività della corporazione è pressoché nulla. I primi Atti dell’Università iniziano soltanto nel 1571. La renitenza veneziana nei confronti della suddetta arte è motivata dalla particolare organizzazione dell’arte tipografica veneziana, che non è caratterizzata da una netta divisione tra mercanti imprenditori e artigiani dipendenti. I grandi imprenditori della stampa non investono in manodopera e mercanzia, ma direttamente nella gestione della manifattura, affidando l’esecuzione tipografica delle loro edizioni a stampatori con piccole e medie botteghe.21 Inoltre, per il reperimento dei capitali e gli eventuali rischi commerciali, gli imprenditori formano delle società che possono durare per un breve periodo, come avviene per i titoli giuridici della Giunti, o per un lasso di tempo più lungo, si pensi alla società tra Vincenzo Valgrisi e Baldassarre Costantini, che dura un venticinquennio. Se l’organizzazione dell’attività editoriale è complessa, ma autonoma e libera, più restrittivi sono i requisiti che deve avere l’oggetto finito, ovvero il libro licenziato dai torchi veneziani. Come avevamo già ricordato, dopo il 1517, vi è una maggiore attenzione rivolta dal Senato e dal Consiglio dei Dieci verso la stampa: il 1 primo agosto viene emanata una legge che dispone che tutti i privilegi concessi a partire da quell’anno siano di pertinenza esclusiva del Senato, che deve occuparsi della Terraferma e del mare. Inoltre, i privilegi devono essere concessi solum pro libris et operibus novis, numquam antea impressis, et non pro aliis.22 Poiché la legge del 1517 non sortisce gli effetti sperati, il 3 gennaio del 1534, lo Stato veneziano interviene nuovamente per cercare di regolamentare la disciplina giuridica dei privilegi librari, fissando, tra i vari articoli della disposizione di legge, l’obbligo di stampare le opere soggette a privilegio a 21 T. PESENTI, Stampatori e letterati nell’industria editoriale a Venezia e in Terraferma, in «Storia della cultura veneta», cit., p. 98. 22 H. BROWN, The venetian printing press: an historical study based upon documents for the most part hitherto unpublished, New York, G.P Putnam’s son, 1891, p. 74. 20 Venezia, e di farle valutare dai Provveditori di Comun, il cui compito è di fissare il prezzo di vendita del prodotto tenendo conto della sua qualità. Il 4 giugno 1537 il Senato ribadisce e precisa la situazione della produzione editoriale veneziana: afferma che la quasi totalità dei libri impressi è costituita da carte che scompissano, cioè non sanno trattenere l'inchiostro. Questa legge vieta di stampare con carta di pessima qualità, a pagina intera (per non ridurre i margini) e specifica che per opere nuove si intendono quelle mai pubblicate. Nel 1544, il nunzio Giovanni della Casa scrive all’amico romano Carlo Gualteruzzi: «Qui s’attende a stampar cose vulgari, versi e prose, più volentieri le cattive che le buone».23 La censura preventiva, che si configura inizialmente più come un controllo editoriale che di contenuto, negli anni Quaranta diventa repressiva. Il processo legislativo, avviato nel ‘17 per eliminare le cause del declino del commercio librario veneziano, sfocia nella legge del 7 febbraio 1545. L'affermarsi della convinzione che le stampe possano prosperare solo pubblicando opere di valore indiscusso, porta la Repubblica a voler incentivare la produzione letteraria. Il Consiglio dei Dieci, in questo modo, pone un freno al comportamento degli stampatori: il decreto vieta agli stampatori di pubblicare o vendere qualsiasi opera, senza prima aver presentato ai Riformati dello Studio di Padova la licenza dell'autore o dei suoi eredi più prossimi. Gli effetti che ha questa legge in qualche modo vanno a tutelare gli autori e gli aspetti patrimoniali ed economici, non certo quelli morali. Questo provvedimento, oltre a dare all'autore una sorta di controllo sulla propria opera, che può decidere a chi affidarla, è un tentativo di controllo dei testi nell'ambito delle tensioni che vedono il contrapporsi di cattolici e protestanti. L'obbligo di ottenere la licenza per poter pubblicare un'opera inibisce gli autori di testi eretici e sovversivi che intendano stampare in forma anonima, anticipando i divieti espressi a partire dal Concilio di Trento. Per la prima volta in assoluto, in questa legge, viene definita legalmente la nozione di autore come soggetto giuridico, proteggendo gli interessi dell'autore a discapito degli interessi degli stampatori. Durante gli anni Sessanta, le norme della censura preventiva vengono rielaborate, così come la legislazione in merito ai privilegi librari. Un libro, per poter essere stampato, anche se non proviene dei torchi veneziani, non soltanto deve ottenere l’imprimatur, ma deve essere sottoposto a norme analoghe a quelle veneziane, come i tre testamur e lo Studio dei Riformatori di Padova.24Emerge un accrescimento del potere dell’Inquisizione. Per quanto riguarda i privilegi, la legge del 21 maggio 1603 decreta 23 T. PESENTI, Stampatori e letterati nell’industria editoriale a Venezia e in Terraferma, in «Storia della cultura veneta», cit., p. 100. 24 Ivi, p. 101. 21 che la concessione del privilegio librario sia conseguente al compimento di alcune formalità corporative, come la registrazione dell’ottenuta approvazione della censura presso la presidenza della corporazione dei librari e degli stampatori e l’obbligo di deposito di una copia del libro stampato presso la biblioteca di San Marco. Inoltre, viene sancito l’obbligo di usare caratteri tipografici eleganti e inchiostri di buona qualità. A causa di queste disposizioni, le ambizioni dell’Accademia della Fama, che si riproponeva di ricreare l’Accademia aldina, sfumano progressivamente: dei quattrocento titoli messi in programma, decine e decine sono cancellate dalla censura. Nel 1561, l’Accademia termina la sua esistenza. Questa chiusura è l’emblema della crisi dell’editoria veneziana, che dall’Indice tridentino, promulgato nel marzo del 1564, tenta di compensare la crisi pubblicando messali, breviari e libretti pii. 1 Venezia cosmopolita e la prima stampa europea del Corano arabico Si affaccia al panorama veneziano un’ulteriore problematica, quella della concorrenza estera: i tipografi Froben e Plantin diffondono in tutta Europa i testi della Riforma e del nuovo pensiero scientifico, mentre il mercato dei libri Rossi e neri viene ulteriormente ristretto, danneggiando il mercato, già provato, veneziano. Tuttavia, Venezia conserva, tra i suoi primati, la pubblicazione dei testi in caratteri greci, la stampa di libri in serbo, in croato, in armeno e del Corano arabico. I caratteri greci utilizzati dall’impresa aldina erano stati disegnati dal Griffo e protetti da Manuzio, durante la prima fase della sua produzione, tramite privilegio. Compresa la portata dell’opera del Griffo, che aveva richiesto una lunga elaborazione a causa della difficile riproduzione degli accenti greci, il 17 ottobre 1502, Manuzio decide di proteggere, con una specifica petizione, l'intera batteria dei caratteri dell’orafo, al quale è impedito di avvalersi delle proprie stesse invenzioni presso altri tipografi o editori dello Stato veneto. L’eredità di Manuzio, per quanto riguarda la classicità, è raccolta da otto tipografi greci trapiantati a Venezia. La città, nella seconda metà del Cinquecento, continua ad essere una meta non solo per chi manifesti la necessità di dedicarsi alla stampa di testi in greco ed in ebraico, ma diventa anche un polo importante per la stampa di testi in serbo, in croato e addirittura in arabo. Venezia, tra il 1530 e il 1538 ha prodotto la prima edizione europea in caratteri arabi del Corano, edizione inspiegabilmente perduta, e ritrovata il 2 luglio 1987 dalla professoressa Angela Nuovo, esperta di cinquecentine, che per il suo lavoro di tesi su Alessandro Paganino, si era recata alla biblioteca dei Frati minori presso San Michele in 22 Isola. L’edizione ritrovata, catalogata come Alcoranus arabicus sine notis, è in folio e consta di 232 carte, non presenta note tipografiche e le sue caratteristiche non danno indizi certi relativi al periodo di stampa. Abbiamo però una concessione di lettura emanata dal vicario del Sant’Uffizio a Cremona, che concede ai padri lateranensi di tenere questo libro, ovvero di non distruggerlo, e una nota di possesso di Teseo Ambrogio degli Albonesi. Quest’ultimo era uno studioso di lingue orientali e possedeva una biblioteca molto fornita. Teseo Ambrogio degli Albonesi, nel 1539, scrive un primo trattato relativo alle lingue orientali, ed in seguito pubblica un piccolo dossier di uno scambio epistolare avuto con l’umanista e linguista Guillaume Postel dove parla dell’edizione del Corano in questione. Inoltre, le testimonianze coeve già note affermano che esista una copia del Corano arabo, proprio a Venezia. Questa copia ha girato durante gli accorpamenti degli ordini religiosi: durante il Cinquecento si trova a Cremona, poi a Vittorio Veneto e infine a Venezia. Si tratta, secondo Armando Petrucci, di conservazione inconsapevole: un libro, con una certa pregevolezza esterna e in arabo, ha avuto la possibilità di essere conservato proprio perché chi lo aveva non sapeva di che cosa si trattasse.25 Quella del Corano arabico non è un’edizione rivolta al pubblico dei primi orientalisti, che erano soliti utilizzare, in virtù del metodo comparativo, esclusivamente delle edizioni poliglotte, ma un’edizione stampata per l’esportazione, in particolare rivolta al mercato arabo-turco. Tutta la tiratura è stata portata su questo mercato, lasciando a Venezia la copia procurata da Teseo Albonesi. Ulteriormente alla stampa del corano, importante testimonianza del rapporto tra Venezia e l’Islam, Venezia si specializza nei rapporti con l’estero, stampando anche il primo libro in armeno. L’attività tipografica per il mercato dell’ex Iugoslavia è molto intensa, anche grazie alla presenza di Dionisio della Vecchia, uno stampatore originario del Montenegro che si trova a Venezia in esilio, in quanto il Montenegro è stato occupato dall’impero ottomano. Egli stampa libri liturgici cristiani in slavonico e sposa la figlia dello stampatore Giovanni Bartolomeo Gabiano, accrescendo la rete commerciale dell’imprenditoria di questa famiglia. 25 A. NUOVO, La scoperta del Corano arabo, ventisei anni dopo: un riesame, in «Nuovi annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari», Firenze, Leo. S. Olschki Editore, 2013, pp. 9-24. 23 Oltre al commercio con l’estero e ad una sensibilità di ampio respiro, Venezia si dimostra interessata ad ogni innovazione: in aggiunta alla stampa del libro musicale, dal 1538, è protagonista della rivoluzione apportata dal musico francese Antonio Gardano, che sostituisce la stampa in tre sovraimpressioni con quella in un’unica fase messa a punto da Pierre Haultin.26 2 Le stamperie di Terraferma L’attività delle stamperie di Terraferma è oscurata da Venezia: a Padova e a Treviso i torchi si fermano a fine Quattrocento, mentre in tutte le altre città la guerra di Cambrai segna una pausa decennale. Tra le riprese più importanti abbiamo quelle delle città di Brescia e Padova; quest’ultima, grazie all’attività di tipografo e cartolaio di Giacomo Fabriano, riacquista il suo ruolo nell’editoria, seppur minimo rispetto a quello veneziano. Brescia, Padova, Verona e Vicenza, seppur siano sottomesse a Venezia, nel mercato librario, non sono sottoposte ad alcuni obblighi, come l’iscrizione all’arte e, di conseguenza, hanno più libertà nella produzione. Ciò nonostante, si dedicano tendenzialmente alle ristampe di libri veneziani protetti da privilegio, non riuscendo ad eguagliare la portata di Venezia. Altre città da menzionare sono Treviso e Udine: la prima è eclissata per tutto il Cinquecento, così come la seconda, che vede però una ripresa all’inizio del Seicento, grazie all’attività di Giovanni Battista Natolini.27 Nonostante vi siano alcuni episodi isolati e delle riprese favorite dalle famiglie di stampatori che vantano una lunga tradizione, come quella dei da Sabbio o del Pasquati, le attività librarie non possono competere con le imprese editoriali veneziane, che sino alla pubblicazione dell’Indice clementino del 1596 non hanno eguali. 26 T. PESENTI, Stampatori e letterati nell’industria editoriale a Venezia e in Terraferma, in «Storia della cultura veneta», cit., p. 106. 27 Ivi, p. 111. 24 Nota bibliografica HORATIO BROWN, The venetian printing press: an historical study based upon documents for the most part hitherto unpublished, New York, G.P Putnam’s son, 1891. TIZIANA PESENTI, Stampatori e letterati nell’industria editoriale a Venezia e in Terraferma, in «Storia della cultura veneta», Il Seicento, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1983, pp. 93-129. MARTIN LOWRY, Il mondo di Aldo Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma, Il Veltro, 1984. ANGELA NUOVO, CHRIS COPPENS, I Giolito e la stampa: nell'Italia del XVI secolo, Genève, Droz, 2005. ANGELA NUOVO, La scoperta del Corano arabo, ventisei anni dopo: un riesame, in «Nuovi annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari», Firenze, Leo. S. Olschki Editore, 2013, pp. 9-24. SABINA PAVONE, I gesuiti dalle origini alla soppressione, Roma-Bari, Editori Laterza, 2013. MARIO INFELISE, I padroni dei libri. Il controllo sulla stampa nella prima età moderna, Bari-Roma, Editori Laterza, 2014. 25