Ulderico Pomarici
Responsabilità verso le generazioni future
“Se l‟ordinamento di una società è cattivo (come il nostro lo è), e
un piccolo numero di persone ha il potere sopra la maggioranza e
l‟opprime, ogni vittoria sulla Natura servirà inevitabilmente
soltanto a rafforzare quel potere e quell‟oppressione . Questo è ciò
che attualmente sta accadendo” (L. Tolstoj)
”Solo l‟esistenza di una sfera pubblica e la susseguente
trasformazione del mondo in una comunità di cose che raduna gli
uomini e li pone in relazione gli uni con gli altri si fonda
interamente sulla permanenza . Se il mondo deve contenere uno
spazio pubblico, non può essere costruito per una generazione e
pianificato per una sola vita; deve trascendere l‟arco della vita
degli uomini mortali . Senza questa trascendenza in una potenziale
immortalità terrestre, nessuna politica, nessun mondo comune,
nessuna sfera pubblica è possibile”(H. Arendt)
Un arco di questioni
La costruzione occidentale dell‟idea moderna di responsabilità individuale si è fondata per secoli su un
modello culturale uniforme, che metteva in valore l‟uni-formità . Nel corso dell‟ultimo secolo non solo è
venuta meno la condivisione a priori di un fondamento morale unitario, ma un irriducibile pluralismo
dei valori diventa punto di partenza obbligato e assieme sfida per ogni riflessione etica avvertita che
voglia misurarsi con il nostro tempo . Tuttavia, se all‟unidimensionalità subentra il conflitto e dunque va
riformulato il paradigma dell‟etica, una responsabilità nei confronti delle generazioni future ci offre un
terreno comune di problemi – nel senso di una responsabilità collettiva che supera i confini tracciati da
politiche e diritti istituzionali – che, se non poggia più su un‟uniformità a priori, la ritrova su un altro
piano, nelle esperienze condivise, negli effetti perversi dello sviluppo che noi abbiamo voluto e che già
oggi iniziano ad essere ben visibili .
Qual è del resto il senso profondo dello sviluppo che negli ultimi decenni ha registrato la bioetica se
non quello di testimoniare, proprio nell‟irriducibilità dei conflitti fra valori, la ricerca di un destino
comune ? Se non è più un‟istanza metafisica che assicura la condivisione dietro i soggetti (quando
l‟ordine naturale e lo scambio uomo-natura erano vissuti come immutabili) oggi è il modo stesso della
conoscenza tecnologica che – come per una eterogesi dei fini – pone la condivisione nella prassi,
indicandocela in modo performativo nell‟incessante progresso delle scienze della vita e fa nascere una
domanda etica all‟interno delle loro procedure di realizzazione . E‟ da questo stesso fare che si pone, si
deve porre, una domanda sulla giustizia di questo nuovo ordine che si sta formando e sul suo valore .
Noi infatti non siamo più (se mai lo siamo stati) spettatori, esterni alle trasformazioni naturali ; con gli
sviluppi della genetica siamo del tutto dentro uno scambio del quale ignoriamo gli effetti a lungo
termine degli esperimenti sulla natura dell‟uomo . Anche la natura, con le scienze della vita, sembra
dunque diventare soggetto filosofico-morale abbattendo tutte le vecchie certezze e le vecchie distinzioni
fra natura e cultura e costituendo per questo stesso motivo un nuovo inizio : la possibilità di trasformare
le basi costitutive della vita non esprime forse la ricerca di una nuova identità ontologica della persona,
di una nuova immortalità ? Nello stesso senso sembra andare la ricerca informatica : l‟idea di essere
entrati in una fase post-human, il cyborg , l‟idea non più tanto futuribile di una digitalizzazione della mente
umana . A un discorso che voglia mettere a tema da un punto di vista filosofico ed etico la
responsabilità verso esseri futuri va premesso che questa intanto può essere in generale pensabile in
quanto si prepari un lungo e profondo lavoro culturale volto a mutare la percezione stessa che gli
individui hanno delle relazioni intragenerazionali : si tratta di processi sociali lunghi e difficili a livello
politico e giuridico sovrananzionale senza i quali tuttavia una nuova responsabilità non potrà mai
realizzarsi . E‟ da questo punto di vista che la decostruzione del mito dell‟identità personale come
entità indivisibile appare presupposto indispensabile per poter pensare da un punto vista eticofilosofico la responsabilità verso le generazioni future . Quest‟ultima pone un primo problema sia da un
punto di vista giuridico che etico : se la giustizia si identifica con il vantaggio reciproco e i portatori del
diritto non esistono ancora, com‟è possibile fondare questa responsabilità1 ? Tuttavia sul piano giuridico
questa responsabilità è stata riaffermata anche in tempi diversi da importanti carte costituzionali : basti
pensare, per fare solo alcuni esempi, alla prima costituzione americana, quella dello Stato della Virginia
del 1776, alla Declaration des droits de l’homme del 1789 all‟art. 16, e per venire ai giorni nostri, alle
costituzioni dei nuovi Länder tedeschi, Thüringen e Meklenburg ; nonché, ancora di recente, alla
Dichiarazione della Conferenza generale dell‟UNESCO del 1997 sulle responsabilità delle generazioni
presenti verso le generazioni future 2 .
L‟elemento problematico di cui si è detto si unisce a un primo dato di fatto : la possibilità che le nostre
generazioni attuali hanno di influire nel bene e nel male sulle generazioni anche di un futuro remoto
sembrano essere infinitamente maggiori rispetto alle possibilità di ogni altra generazione del passato : le
politiche socio-economiche, della scienza e della tecnologia incideranno non solo su quanti, ma anche
su quali individui esisteranno in futuro e, soprattutto, su quali condizioni di vita essi avranno a
disposizione . L‟utilizzo di risorse non rinnovabili su cui è fondato in massima parte l‟attuale modello di
sviluppo (fonti energetiche, fossili, nucleari, risorse ambientali con i conseguenti problemi legati alla
perdita di biodiversità ecc.) moltiplica i suoi effetti operando in modo convergente a un aumento
esponenziale della popolazione insieme a un suo tendenziale impoverimento .
Tre semplici dati tratti dal rapporto ONU 2001 sullo stato della popolazione possono indurre elementi di
riflessione sull‟urgenza di porre in questione e apprestarsi a mutare in modo significativo gli stili di vita
dei paesi occidentali : nell‟ultimo secolo la popolazione mondiale è passata da 1.6 mld. a 6.1 mld.;
mentre nel 2050, aumentando circa del 50%, arriverà a circa 9.3 mld.; metà della popolazione mondiale
vive attualmente con 2 dollari al giorno o meno ; un bambino dei paesi sviluppati nel corso della sua
vita consumerà e inquinerà in misura analoga a 30/50 bambini dei paesi in via di sviluppo3 .
1
Per tutta la riflessione sul tema va ritenuto indispensabile, anche nella brevità con la quale tratta e domina problemi di etica
pratica di grande complessità, l‟importante compendio di G. PONTARA, Etica e generazioni future, Bari, Laterza, 1995 .
2 Nel Preambolo della costituzione del Land Thüringen si legge ad es. :”... in dem Willen, Freiheit und Würde des einzelnen zu achten,
das Gemeinschaftsleben in sozialer Gerechtigkeit zu ordnen, zu bewahren und zu schützen, der Verantwortung für zukünftinge Generationen
gerecht zu werden....“; all‟art. 12 c.1 della costituzione del Meklenburg-Vorpommern si legge invece :”Land Gemeinden und Kreise
sowie die anderen Träger der öffentlichen Verwaltung schützen und pflegen im Rahmen seiner Zuständigkeiten die natürlichen Grundlagen
jetzigen und künftingen Lebens“ . All‟art. 6 della Dichiarazione UNESCO citata si legge invece :“Il genoma umano, nel rispetto
della dignità della persona umana e dei diritti dell‟uomo, deve essere protetto e la biodiversità deve essere salvaguardata . Il
progresso scientifico e tecnico non dovrebbe né nuocere né compromettere in nessun modo la preservazione della specie
umana” .
3 Di recente un ricercatore statunitense, Mathis Wackernagel, direttore del Sustainabity Program of Redefining Progress di San
Francisco, ha elaborato in collaborazione con la rete Lilliput il concetto di „impronta ecologica‟, utile a misurare la superficie
necessaria per produrre,utilizzare e smaltire un bene misurando inoltre la quantità di natura che usiamo, espressa in ettari
pro-capite all‟anno, e consentendo di analizzare il nostro impatto sull‟ecosistema . La media delle impronte ecologiche
mondiali è di 2,3 ettari pro-capite, mentre la disponibilità di biocapacità è 1,8 . Esiste dunque un deficit ecologico pro-capite
di 0,4 . Il che significa (per dare un‟idea) che ci vorrebbero 15 mesi per rigenerare le risorse naturali che consumiamo in un
anno . In Europa (per non parlare degli USA dove ovviamente è ancora più alta) si registra un‟impronta ecologica di 6,28
ettari pro-capite, mentre l‟Africa risulta essere il continente con l‟impronta più piccola, 1,33 . Il nostro sviluppo, in questo
gioco a somma zero, toglie spazio agli altri . Ecco perché – date le percentuali con cui è distribuita la popolazione e il
Di fronte a questo orizzonte è la scala infinitesimale di ogni singola azione che è chiamata in causa,
perché un modello di sviluppo è fatto di miliardi di comportamenti singoli che si sommano e
contribuiscono a dare forma a un certo ambiente, così che, a fronte dell‟effetto impercettibile di singoli
atti, la somma vertiginosa che ne risulta riproducendosi quotidianamente dovunque – come accade con
l‟effetto serra o nel privilegiare il traffico commerciale su gomma anziché su rotaia, per l‟erosione del
suolo e delle falde acquifere o per l‟esaurimento delle risorse non rinnovabili e per l‟inquinamento
atmosferico – raggiunge una massa critica che comporta danni, indeterminabili attualmente, per noi e per
gli altri con i quali conviviamo nel presente e nel futuro . Così accade con il cosiddetto effetto free rider,
quell‟individuo che, „appoggiandosi‟ passivamente alla collaborazione altrui ma negando la propria,
privatizza il beneficio che gli viene dal comportamento collettivo sottraendosi al pagamento del proprio
contributo . Tutte queste situazioni sono conosciute nella filosofia pratica come „dilemma del
prigioniero‟ : date due alternative sul consumo di risorse energetiche, una di materiale costoso ma poco
inquinante, e l‟altra di un materiale molto inquinante ma anche molto più economico e due soggetti che
interagiscono nella scelta, se ciascuno pensa solo a massimizzare il proprio vantaggio individuale si
orienterà ad adottare quel principio che gli dà il beneficio massimo quale che sia l’azione scelta dall’altro .
Tutti decidono come se fossero soli mentre è chiaro che, da questo punto di vista, per fondare una
responsabilità verso esseri futuri è necessaria la finzione simmetricamente opposta a questa . Entrambi i
soggetti scelgono di usare il materiale più inquinante ma conseguono così un esito subottimale : a
ciascuno, calcolato individualmente, „conviene‟ di più inquinare, ma dalla somma di questi
comportamenti individuali risulta un esito peggiore per tutti, per noi che viviamo ora e per coloro che
vivranno in futuro4 . Se proiettiamo questo discorso sulle generazioni future emerge un dato singolare .
Noi che viviamo in questa parte occidentale del mondo siamo, in un certo senso, doppiamente free rider
: in senso sincronico, verso i paesi del Terzo Mondo (basti pensare, per fare un solo esempio, allo
smaltimento dei rifiuti tossici) e in senso diacronico verso le generazioni future, rispetto alle quali
usufruiamo del beneficio aggiuntivo di non dover condividere – nelle dimensioni catastrofiche che
potrebbe assumere con il passare del tempo – alcuno degli inconvenienti che il nostro sviluppo sta
generando . Di qui nasce la domanda etica : è ancora giusta questa politica se a pagarne le conseguenze
sono o paesi che non partecipano al nostro modello di sviluppo o generazioni di un futuro anche
remoto che non hanno possibilità alcuna di partecipare alle scelte che noi facciamo, ma devono solo
limitarsi a pagarne le conseguenze ? Senza la spinta di una responsabilità verso gli effetti futuri della nostra
azione di oggi, senza l‟obbligo di prefigurare, nelle scelte e nei comportamenti attuali, l‟ambiente che la
nostra azione avrà creato, ponendoci dunque – come nel futuro anteriore, costruendo una finzione che
renda attuali le conseguenze di ciò che si fa e dunque molto più presente la nostra responsabilità – oltre le
nostre azioni e le nostre intenzioni non potremo neppure affrontare le sfide imposte dai processi
globali attuali . Non è del resto proprio in questo esser-oltre le nostre proprie azioni che va individuata la
radice dell‟etica, in questa esposizione essenziale che risarcisca in anticipo quell‟iniquità naturale del tempo
che colloca gli individui nella catena delle generazioni 5 ? Al sapere della scienza e delle tecnologie si
accompagna infatti – come risvolto inevitabile e a un livello inimmaginabilmente superiore rispetto al
passato, per il tipo di tecnologie che vengono elaborate (basti pensare alla mappatura del genoma
umano e alle conseguenti possibilità che si dischiudono per l‟ingegneria genetica) – il non- sapere degli
effetti futuri . Questa imprevedibilità che nasce da un‟incontrollabile accelerazione del tempo6 è, in
quanto tale, una variabile indipendente con la quale è impossibile non fare i conti .
rapporto al consumo – va mutato il modello dui sviluppo che produce questi risultati viziati profondamente
dall‟ineguaglianza .
4 G. PONTARA, op. cit., pp. 156-157 .
5 “Il gioco delle generazioni non si può saltare; esso è inscritto dentro vincoli naturali che non possono essere ribaltati”
scrive E. RESTA nel suo bel libro Le stelle e le masserizie . Paradigmi dell’osservatore, Bari, Laterza, 1997, p. 25 . Curiosamente, la
lingua tedesca – diversamente dalla nostra – conserva nel termine Ungleichzeitigkeit il senso paradossale di questa temporalità
che, proprio nel succedersi di un tempo all‟altro, produce un‟ ineguaglianza ambigua . Essa lo è infatti, proprio nel caso della
giustizia intergenerazionale, da un punto di vista cronologico, ma anche da un punto di vista morale .
6 “La velocità della tecnica risponde soltanto al tempo della sua performatività : il suo codice è quello del poter fare tutto
quello che si può fare (….) Il suo tempo è veloce e scatenato perché non deve soffermarsi a rispondere di niente e a nessun
altro che a se stessa” E. RESTA, op.cit., p. 22 .
Homo oeconomicus
Il criterio dominante che informa le politiche economiche attuali è quello utilitaristico-teleologico
dell‟efficienza, ovvero : “il più alto livello possibile di soddisfazione” nella società sommando quella di
tutti gli individui che le appartengono . La razionalità dell‟utilitarismo sta nell‟adottare per la società nel
suo complesso il principio che sarebbe razionale per un unico individuo estendendolo a tutti . Ma – è
stato detto ad esempio da Rawls7 – le aspettative di coloro che sono in una situazione migliore sono
giuste se, e solo se, funzionano come parte di uno schema che migliora le aspettative dei membri meno
avvantaggiati della società . Ovvero : il principio di efficienza va corretto con il principio di differenza .
Se questo non accade è per profonde ragioni culturali che anticipano e danno senso alle ragioni
economiche : il modello dominante si fonda su un‟idea di individuo che ha radici lontane e mi pare che
una responsabilità verso le generazioni future se vuole affermarsi non possa fare a meno di metterle in
questione . Quello che questa responsabilità deve saper mettere in questione è innanzitutto la
convinzione che massimizzare l‟interesse individuale come principio razionale dello sviluppo sia
l‟imperativo categorico, l‟unica scelta oggi possibile8 . Forse nessuno meglio di Hannah Arendt ha
indagato l‟origine del modello individualistico contemporaneo9 : tre eventi nell‟età moderna hanno
segnato la perdita essenziale dello spazio pubblico e l‟invenzione dell‟individuo „privato‟ come è ancor
oggi visibile : la circumnavigazione del globo, l‟invenzione del telescopio e la Riforma protestante
operando in modo convergente hanno portato i soggetti fuori dallo spazio pubblico, condiviso da
sempre, isolandoli, e la terra è diventata un „oggetto‟ fisico che poteva essere conosciuto come un
alcunchè di esterno che poteva virtualmente (come sarebbe accaduto secoli dopo) anche essere
abbandonato : lo spazio dell‟immortalità, fino a quel punto affidato al succedersi delle generazioni nella
sfera pubblica, si interiorizzava, si individualizzava perdendosi fra la ricerca di un dominio assoluto sulla
natura e il controllo interiore di sé . L‟immagine di questa „invenzione‟ moderna è quella dell‟animale
razionale, l‟io cartesiano sostanziale che sta e resta, identico a se stesso, al di là di ogni esperienza e di
ogni relazione10 . Questa impenetrabilità/ indivisibilità dell‟individuo, così come si è affermato sulla
scena politica e sociale moderna e contemporanea, rende arduo pensare una responsabilità per altri .
Oggi infatti la domanda non è più solo di che cosa, ma soprattutto di chi sono responsabile . Quale era la
funzione essenziale dello spazio pubblico ? Di assicurare un orizzonte condiviso : non è un caso che nel
corso del tempo entrambi siano venuti a mancare come elementi essenziali dell‟agire sociale . In assenza
di questo orizzonte che rendeva linguaggio comune la continuità fra le generazioni perché il passato
costituiva appunto un‟ancora sufficiente e indiscussa, come fondare oggi la responsabilità verso le
generazioni future ?
7
J. RAWLS, A theory of justice, trad. Una teoria della giustizia, 1982, Feltrinelli 1999 7 , p. 36 ss. : è il cosiddetto principio del
maximin (maximum minimorum) . Alle obiezioni fatte da più parti a questo princìpio – gli si contesta infatti che, per non
svantaggiare nessuno, si costringerebbe tutti ad avere di meno – si può ribattere che un‟autentica politica dell‟eguaglianza non
può fermarsi a trattare solo le situazioni eguali in modo eguale, ma deve altresì prevedere anche di trattare situazioni diverse
in modo diverso . Dunque presupporre l‟ineguaglianza, ciò che invece un liberalismo come, ad es., quello di Gauthier – il
quale parte dal presupposto che qualsivoglia distribuzione delle doti naturali fra i singoli nella posizione di partenza sia
moralmente equa – evita di pensare . Cfr. del resto la notazione di Parfit ( op.cit., p. 622) su questo punto :”il principio di
differenza (…) si applica solo all‟ineguaglianza che sia, insieme, deliberatamente creata e inevitabile” .
8 E. ERIKSON, in Insight and Responsabilty . Lectures on the Ethical Implications of Psychoanalytic Insight trad. ID., Introspezione e
responsabilità, Armando, 1964, p. 135, scrive :”La nostra civiltà non possiede un concetto integrale di vita, come le civiltà
orientali (…) Poiché la nostra immagine del mondo è una specie di strada a senso unico verso un incessante progresso
interrotto solo da catastrofi grandi e piccole, anche la nostra vita dev‟essere una strada a senso unico verso il successo, e un
oblìo improvviso” .
9 H. ARENDT, The human condition 1958, trad. Vita activa, Bompiani 1994, p. 183 ss.
10 Cfr. per questo aspetto, essenziale anche rispetto al prosieguo del nostro discorso, D. PARFIT, Reasons and Persons, 1984,
trad. Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano, 1989 . Se questo lavoro ha un pregio, fra i tanti altri, è certo di presentarsi come
un‟opera „aperta‟ che, a partire da un principio forte come quello dell‟impersonale, non fornisce – involontariamente ? –
soluzioni definitive ma cerca, per tentativi ed errori, il punto di vista ogni volta migliore .
Diversi studiosi di filosofia pratica sostengono che è difficile trovare argomenti per giustificare
eticamente la difesa di specie in via di estinzione . Ci si domanda, ad esempio, se gli ecosistemi abbiano
un valore intrinseco11 . Le specie sono classificazioni puramente formali, ci si chiede, oppure qualcosa al
di là degli individui che le compongono e vanno protette in quanto tali dalla minaccia di scomparire ?
Ma, al di là dell‟argomento „empirico‟ di una minaccia alla biodiversità che l‟estinzione continua di
specie animali e vegetali comporta, non basterebbe pensare al fatto che è in sé male distruggere qualcosa
che non si è contribuito a creare ? Da un punto di vista etico, non sono responsabile, naturalisticamente,
solo di ciò cui dò vita, forse sono ancor più responsabile di ciò che mi è affidato in tutela senza che io
lo possieda come mio, di cui resto invece solo affidatario, fiduciario12 . La superiorità dell‟uomo
sull‟ambiente naturale e sulle generazioni che verranno fra diversi secoli – accompagnata spesso nella
politica della scienza dall‟idea che ciò che è possibile fare sia proprio per questo anche legittimo farlo – non
comporta invece una massima responsabilità dell‟azione ? Questa domanda verte anche sulla specie
umana : può considerarsi doveroso in quanto tale che la specie umana si perpetui nel tempo ? O ciò è
eticamente indifferente13 ? Se si risponde con Pontara : “dipende se le generazioni future condurranno
una vita degna di essere vissuta”14, ciò equivale a ritenersi depositari del senso di questa espressione .
Poiché, tuttavia, non possiamo certo sapere come vorranno vivere i nostri discendenti fra 300 o 500
anni, quali costituzioni vorranno adottare per sé, l‟unico modo razionale per affrontare il problema non
sarebbe quello di far sì che, attraverso le nostre scelte sociali ed economiche, si apprestino le condizioni,
nella misura delle nostre possibilità concrete attuali, perché si creino quelle condizioni che rendano
prevedibile/predittibile quella vita „degna‟, che le diano forma concreta sia pure in figuris ? Solo se si
utilizza una finzione essenziale – come se le generazioni future esistessero già oggi, potendo dunque
calcolare ciò che io oggi posso fare per loro15 – sono in grado di dire, e solo anche fino a un certo
punto, con una certa autorità, cosa possa essere “un‟esistenza degna di essere vissuta” : contribuendo
concretamente a realizzarla nelle decisioni strategiche . Altrimenti, chi si assume la responsabilità di
stabilire cosa vuol dire “vita degna d‟essere vissuta” ? Gli ultimi che ne hanno dato una definizione
normativa, i nazionalsocialisti, hanno sùbito stabilito anche quale fosse la vita indegna di essere vissuta,
sopprimendo o utilizzando per esperimenti portatori di handicap, malati di mente ecc. Non sembra
dunque implicito dedurre, come fa Pontara16, la tesi di una negazione della responsabilità per l‟esistenza
della specie umana dalla dignità o meno della vita futura : posso sapere infatti cosa gli altri decideranno di
essere ? Interessante su questo punto sembra la posizione di Herbert Hart, il quale pone, accanto al
linguaggio prescrittivo del giuspositivismo kelseniano o descrittivo del realismo giuridico, un terzo genus
di affermazioni nel diritto, definito come linguaggio ascrittivo : in particolare quelle affermazioni “la cui
G. PONTARA, op. cit., p. 26 ss. A. TARANTINO, Diritti dell’umanità e giustizia intergenerazionale, “Rivista internazionale di
filosofia del diritto”, 1, 2002, p. 88 ss. per dimostrare “l‟identità soggettiva dell‟umanità” percorre, in un approccio che a
prima vista appare non privo di problemi, le due vie della genetica e della rivendicazione dei diritti . Entrambe queste strade
infatti, se devono restare fruttuose all‟interno di una riflessione filosofico-giuridica, necessitano di una presa di posizione
etico-politica forte .
12 Non si potrebbe determinare un obbligo per le generazioni presenti, da un punto di vista giuridico, stabilendo un‟analogia
fra responsabilità verso le generazioni future e obblighi dell‟usufruttuario ? Nel nostro codice civile agli artt. 978 ss. viene
regolamentato l‟usufrutto e il suo deterioramento . Ad es. l‟art. 981 1° c. stabilisce che :“l‟usufruttuario ha diritto di godere
della cosa, ma deve rispettarne la destinazione economica”; l‟art. 995 inoltre stabilisce che :”se l‟usufrutto comprende cose
consumabili l‟usufruttuario ha il diritto di servirsene e ha l‟obbligo di pagarne il valore al termine dell‟usufrutto secondo la
stima convenuta . Mancando la stima, è in facoltà dell‟usufruttuario di pagare le cose secondo il valore che hanno al tempo
in cui finisce l‟usufrutto o di restituirne altre in eguale qualità e quantità” ; l‟art. successivo, infine, stabilisce che :”se
l‟usufrutto comprende cose che, senza consumarsi in un tratto, si deteriorano a poco a poco, l‟usufruttuario ha diritto di
servirsene secondo l‟uso al quale sono destinate, e alla fine dell‟usufrutto è soltanto tenuto a restituirle nello stato in cui si
trovano” . L‟art. 3 della Dichiarazione UNESCO sopra citata afferma :”le generazioni presenti dovrebbero sforzarsi per
assicurare il mantenimento e la perpetuazione dell‟umanità nel rispetto della dignità della persona umana . Di conseguenza
nessun pregiudizio potrà essere recato in nessun modo alla natura e alla forma della vita umana” .
13 R.I.SIKORA, problemi morali rigurdanti la vita delle generazioni future, “Rivista di filosofia”, 75,1983, p.213 ss.
14 G. PONTARA, op. cit., p. 31 .
15 Cfr. ad es. , per un possibile utilizzo del concetto in chiave di giustizia intergenerazionale : S. PUGLIATTI, Finzione, in
Enciclopedia del diritto, XVII, Giuffrè, Milano, 1968, p. 673 definisce la finzione giuridica come un “espediente pratico per
eludere o estendere l‟applicazione di regole giuridiche ad ipotesi escluse o non previste” corsivo non testuale .
16 Ivi, p. 32 .
11
verità dipende dal fatto che gli esseri umani e il mondo in cui essi vivono conservino le caratteristiche
salienti che hanno ora” 17 . Vi sarebbe dunque una sfera del permesso, un contenuto di diritto naturale
minimo nelle azioni, cui ad ogni persona in quanto dotata di facoltà di scelta dev‟essere garantito
accesso . L‟ascrizione di un potere, dunque, che prescinde da- o viene prima di- ogni rapporto dirittoobbligo, e direi lo fonda come il suo senso più proprio . Tuttavia, questa condivisione anche solo di un
diritto naturale minimo presuppone uniformità culturale, una condivisione con cui finiscono per
scontrarsi anche tutte le etiche del discorso e contrattuali che mettono in valore la procedura come un
universo condiviso sufficiente. La difficoltà resta, invece, quella di pensare differenza e conflitto .
Una „famiglia‟ di dottrine dell‟etica pratica – nota con il nome di teoria dei diritti – presuppone che si
diano diritti fondamentali per le generazioni future in quanto diritti non-istituzionali, diritti naturali18 .
Tuttavia l‟obbligo giuridico non viene fatto valere al presente . Ma se le generazioni future avranno
diritti solo quando verranno a esistenza, allora e non ora, noi che esistiamo oggi non contraiamo alcun
obbligo corrispettivo di questi diritti . Ma quali diritti potranno mai rivendicare quelle generazioni di
fronte a trasformazioni irreversibili dell‟ambiente naturale e dell‟uomo nel momento in cui coloro che
dovrebbero essere obbligati non esistono più ? I diritti fondamentali mi sembra vengano incontro – per
la loro stessa natura – ai bisogni che le generazioni future maturano in una dimensione diacronica .
Qual è infatti la funzione specifica cui sono preposti ? Quella di proteggere beni indisponibili, ritenuti
così essenziali da venire sottratti per principio a ogni calcolo di convenienza e a ogni limitazione spaziotemporale . Nei prossimi decenni dovrebbero giocare un ruolo fondamentale in quest‟ambito il diritto
internazionale e relazioni internazionali in grado di esprimere forme attualmente ancora inedite della
responsabilità : se i bisogni che i diritti delle generazioni future prefigurano attengono alle istanze
fondamentali della vita è possibile che si istituiscano organismi sovranazionali in grado di
rappresentarle? Ci si chiede infatti : “Chi è il terzo delle generazioni ? ” 19 . Poiché i diritti fondamentali,
per loro natura, esistono anche nella non-presenza attuale dei singoli soggetti che li deterranno . Non
hanno un tempo definito, ma valgono per l‟oggi come per il futuro . Essi andrebbero allora riconosciuti
indipendentemente dalla pretesa, altrimenti i soggetti più deboli (bambini, portatori di handicap, malati,
anziani e tutti coloro che per il loro status esistenziale non sono in grado di avanzare pretese) non
potrebbero mai essere tutelati . Si potrebbe assimilare per analogia un diritto delle generazioni future a
questi diritti o a quelli di altri esseri non nati come gli embrioni ? Si potrebbe qui ricordare la
prerogativa giuridica di una distanza temporale fra attribuzione di un diritto e il potere di farlo valere .
Se tutto questo è vero, il diritto di cui parlano queste teorie non è un autentico diritto fondamentale .
Alcune condizioni basilari dell‟esistenza, come l‟ambiente e il genoma umano, sono sempre presenti,
sottratte a una valutazione temporale, ed è per questo che se le nostre scelte tecnologiche attuali
incidono su queste condizioni le modificano anche rispetto a un lontano futuro condizionando le
generazioni che verranno in modo forse molto più grave che non chi ci è contemporaneo . Dunque,
individui esistenti ora possono violare in modo anche giuridicamente perseguibile e moralmente
condannabile i diritti di quegli individui che solo attualmente non sono esistenti, ma preesistono, in un
certo senso, nei condizionamenti, anche disastrosi, che le nostre scelte stanno già oggi creando20 . E‟
sempre parte di un‟idea edonistica della morale e del diritto assumere che la pretesa possa essere
riconosciuta come tale solo a chi avanza pretese, ovvero a chi è presente fisicamente : il non esistente non
può avanzare pretese, dunque ; e certo, dal punto di vista strettamente giuridico, necessariamente
limitato, oggi è per lo più così .
Una distinzione essenziale 21 sull‟argomento delle generazioni future si dà fra coloro che sostengono
che è sempre moralmente buono aggiungere persone felici al mondo attuale (trascurando gli effetti indiretti
di questa moltiplicazione) mentre è moralmente cattivo aggiungere persone infelici (il che, va detto
notando questa contradictio in adjecto, si realizza proprio computando gli effetti indiretti della
17
H. HART, The concept of law, trad. Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1991, p. 232 .
G. PONTARA, op. cit., p. 95 ; F. FAGIANI, Etica e teorie dei diritti, in Teorie etiche contemporanee, a cura di C.A. Viano, Bollati
Boringhieri, Torino, 1990, p. 87 ss.
19 E. RESTA, op.cit., p. 50 .
20 Ivi, pp. 97-98 .
21 R.I.SIKORA, op.cit., p.214 .
18
sovrappopolazione !) e coloro che sostengono che mentre è moralmente cattivo aggiungere persone
infelici non è moralmente buono aggiungere persone felici . La prima è definita come tesi di simmetria, la
seconda come tesi di asimmetria . Dalla teoria dei diritti emerge che, se non vi è un dovere morale di
procreare esseri che potrebbero essere felici, risulta moralmente neutro procreare esseri la cui vita sarà
breve e segnata dalle sofferenze . In entrambi i casi si tratta di individui solo potenzialmente esistenti
(questa posizione è condivisa da due forme di utilitarismo, quello della media e quello del totale) . Che
diritto avrebbero individui solo possibili di non essere messi al mondo se la loro vita sarà certamente
segnata da terribili sofferenze ? Si darebbe così una simmetria morale fra l‟azione omissiva, di non
mettere al mondo un essere che potrà essere felice e un‟azione commissiva, di mettere al mondo un
essere certamente infelice. Ma questa si rivela a un‟attenta lettura un‟asimmetria : se infatti non
mettendo al mondo un essere felice non si vìola il diritto di alcuno, mettendone al mondo uno
certamente infelice si vìola un obbligo verso una persona che verrà all‟esistenza e i cui diritti in un
determinato momento del tempo non saranno rispettati . Ritorna allora la domanda : possono essere attribuiti
o violati diritti di individui non esistenti ?
Alla base di questi ragionamenti c‟è il postulato utilitaristico che la felicità individuale è il bene supremo
da massimizzare e porre in valore in ogni politica economica . Così si assume però il tempo presente
come unità di misura di valore assoluto . Ma, anche da un punto di vista utilitaristico, il valore della
felicità non dipende dal tempo ! E‟ stato proprio un grande filosofo utilitarista, Henry Sidgwick,
riprendendo Bentham, a esporre già nel 1874 il princìpio dell‟irrilevanza del fattore temporale: la sola
priorità/posteriorità nel tempo non può costituire un fondamento „ragionevole‟ per avere maggior
riguardo verso chi esiste in un momento piuttosto che in un altro . Ovvero, come dice anche Parfit, “è
irrazionale preoccuparsi di meno del nostro futuro più lontano solo perché è più lontano nel tempo” 22.
Ma questa forma di razionalità sembra conseguire a un‟idea di identità che non è più semplicemente
numerica come quella che appare centrale nell‟utilitarismo : sottrarre un‟azione al suo tempo, spogliarla
della sua naturalità e giudicarla nella sua essenza è un‟opzione etica forte . Così forte, nella stessa logica
utilitaristica, che si devono assumere gli interessi della posterità alla stessa stregua di quelli dei propri
contemporanei : il valore del benessere di esseri futuri non può essere „scontato‟ in funzione della
distanza temporale, così che quanto più quegli esseri si allontanano nel tempo tanto meno ci si
dovrebbe preoccupare delle conseguenze delle proprie azioni . Tuttavia, questa conclusione sembra
porre in crisi il criterio economico-individualistico proprio dell‟utilitarismo, in base al quale è la somma
algebrica delle individue felicità (un computo numerico dunque, che sia riferito al totale o alla media non
cambia nulla da questo punto di vista) ciò che conta nell‟esito finale . Qui emerge un dato a tutta prima
sorprendente : la concezione utilitaristica inclina all‟impersonale, ma in un senso molto diverso da
quello che verrà sostenuto dal riduzionismo e per esso, come si vedrà, da Parfit . Impersonale, infatti,
l‟utilitarismo sembra essere nel senso che a contare non sono più le persone nelle loro esperienze, nei loro
bisogni reali, ma solo l‟individuo „preso‟ statisticamente nel suo essere l‟unità di una totalità omogenea,
dunque il numero che rappresenta le quantità di felicità da massimizzare e sofferenza da minimizzare . La
“simpatia” fra gli individui teorizzata dal pensiero utilitarista sembra vicina al pensiero riduzionista (il
quale rinuncia a quel profondo fatto ulteriore come fondamento di individualità determinate
nell‟assoluta distinzione reciproca) mentre in realtà lo nega, perché serve solo a risarcire in idea
quest‟irriducibile primato statistico dell‟individuale . Infatti l‟utilitarismo – segnatamente Sidgwick – non
riesce a uscire dalla compresenza essenziale di “due intuizioni razionali egualmente evidenti e pur tuttavia
incompatibili, la prima delle quali prescrive la massimizzazione del bene del singolo agente e la seconda
quella del bene universale . E‟ certamente possibile passare, senza contraddizione, dalla prima alla
seconda, ma è ugualmente possibile, senza contraddizione, rifiutarsi di effettuare un tale passaggio
insistendo sulla irriducibilità della propria identità : l‟egoista etico può con coerenza sostenere la propria
posizione e non può essere confutato razionalmente” 23 . Il discrimine decisivo fra le due intuizioni sta
in un problema, quello della distribuzione delle risorse, dunque dell‟uguaglianza, come un valore in sé
da porre a presupposto di ogni etica pratica . E il valore-distribuzione, essenziale per fondare una
22
D. PARFIT, op. cit., p. 399 . O come dice altrove (ivi, p. 610) :se una previsione sugli effetti concernenti il futuro più lontano
è corretta, “possiamo riconoscerle un minor peso per il fatto che riguarda il futuro più lontano ? ” .
23 F. FAGIANI, L’utilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, Busento, 1990, p. 43 .
responsabilità verso le generazioni future, sembra estraneo alla dottrina utilitaristica 24 in quanto
presuppone una non-omogeneità dei soggetti che partecipano alla comunità politica, dunque un conflitto
sulle diverse possibilità della distribuzione . Fin quando assumo l‟idea di giustizia come necessario
vantaggio reciproco, non ci sarà nessuna possibile continuità che conduca dalla dimensione della ricerca
individuale del bene a quella universale . Poichè la felicità è un dato prettamente individuale 25 com‟è
pensabile, in modo apodittico, di estenderla a un livello intergenerazionale ? Solo, forse, adottando un
punto di vista che abbandoni il criterio utilitaristico posso pensare di fondare una giustizia che non si
riduca al vantaggio reciproco rassegnandosi a proiettare sempre e solo la logica individuale su tutti i
piani . Perché, infatti, se non per una sorta di „familismo amorale‟ di natura prettamente individualistica,
chi ci è prossimo dovrebbe essere avvantaggiato (un‟evenienza „banale‟, è bene ammetterlo, che
nasconde profondi motivi antropologici e interessi difficilmente scalfibili sul piano delle scelte concrete)
per il solo fatto che mi è più vicino, che ha con me un rapporto più stringente, rispetto a chi ci è più
lontano nel tempo e nello spazio ? Seguendo Sidgwick, anche se ragiono dunque dal punto di vista
utilitarista, assumo l‟idea della felicità come un valore universale, ma allora devo considerare gli interessi
di tutti nelle conseguenze delle mie azioni con un criterio rovesciato, in un certo senso, rispetto a quello
individualistico : quanto meno ho cognizione degli effetti futuri – perché la ricaduta delle mie scelte si
allunga sempre più potentemente, ma anche sempre più imprevedibilmente, nel tempo –, tanto più devo
utilizzare un principio di cautela verso gli altri nel calcolare le conseguenze sulle persone che vivranno
dopo di me nel mondo che gli vorrò aver lasciato in eredità . Se i disastri ambientali già oggi mietono
vittime e stravolgono le vite delle persone per decine di anni (basti pensare ai disastri di Chernobil e
Bophal) che differenza potrebbe mai farsi, quale gradualità potrebbe mai instaurarsi da un punto di
vista etico, fra le vittime che una catastrofe ambientale suscitasse già oggi, e le vittime che verrebbero
causate dalla stessa catastrofe, per il protrarsi dei suoi effetti nel tempo, a distanza di centinaia di anni ?
Si potrebbe forse dire che le prime vittime, essendo nostre contemporanee, sono più importanti per
noi? Che ne portiamo una maggiore responsabilità ?
L‟esemplificazione dell‟immagine moderna di individuo che costituisce la ratio profonda del modello
economico dominante ci viene fornita in modo cristallino da quello che è stato definito il
„contrattualismo effettivo‟ di David Gauthier26 . Quest‟idea di morale esprime delle regole di condotta
che limitano il perseguimento dell‟interesse individuale assicurando un grado di collaborazione
vantaggiosa fra soggetti apparentemente uguali (il reddito è distribuito in base alle doti naturali degli
individui) . Ciascuno è un „massimizzatore vincolato‟ dal rapporto con la controparte . Se non esiste
reciprocità – come è appunto il caso delle generazioni future o dove si possiede un potere contrattuale
superiore come nel caso di esseri più deboli, bambini, anziani, portatori di handicap, malati, ma al
limite, seguendo questa logica fino in fondo, anche di tutti coloro che vengono ritenuti inferiori – il
massimizzatore non è vincolato da alcun principio morale perché non rischia alcun danno . Mi sembra
che questo atteggiamento operi in modo controfattuale rispetto ai suoi stessi princìpi, rinsaldando gli
squilibri invece di eliminarli . Facciamo l‟esempio del rapporto fra paesi del mondo sviluppato e paesi
in via di sviluppo : fra i primi si salda un accordo per scaricare i costi dell‟inquinamento sui secondi, più
deboli e privi di potere contrattuale .Qual è il ragionamento che fonda la morale di Gauthier, e che
dovrebbe valere – scegliendo il piano diacronico invece che quello sincronico – anche per una
responsabilità verso le generazioni future ? E‟ vero che il Terzo mondo peggiora la propria posizione
24 D. PARFIT, op.cit., p. 427 . Su questo tema si crea uno „strano‟ connubio fra concezione riduzionistica e utilitarismo :
entrambi contrastano le concezioni distributive e questo perchè anche l‟utilitarismo, come si è detto, difende per un certo verso
– del tutto diverso, però, nei suoi presupposti culturali dal riduzionismo – un‟idea impersonale, cfr . D. PARFIT, op.cit., p.
565. Ma cfr. anche Rawls (op. cit., p. 38) : “: se la distribuzione dei beni è considerata anch‟essa un bene di ordine forse
superiore, e la teoria ci spinge a ottenere il maggior bene possibile (compreso il bene della distribuzione tra altri), non
abbiamo più una teoria teleologica in senso classico . Come si può capire intuitivamente, il problema della distribuzione cade
direttamente sotto il concetto di giusto, e la teoria viene così a perdere una definizione indipendente del bene” .
25 Che lo sia, lo ha detto in modo che mi sembra definitivo, nonostante tutti i successivi „realismi‟ , Immanuel Kant : se
manca un princìpio universale nel fondare l‟azione quale morale è possibile ? E la felicità, la più individuale, e dunque la
meno morale, la meno responsabile delle misure – non si può infatti anche essere felici di uccidere ? – come potrebbe mai
essere universalizzata ?
26 G.PONTARA, op. cit., p. 61 ss. descrive con questa espressione, contrapponendolo al contrattualismo ideale di Rawls, il
lavoro di D. GAUTHIER, Moral by Agreement, Clarendon Press, 1986 .
rispetto a quella nella quale i paesi sviluppati si fossero astenuti da una politica di incremento delle
disuguaglianze, ma questi paesi mantengono tuttavia una coerenza morale perché non sono in rapporto,
dato l‟enorme differenziale di potenza che contraddistingue le due economie, con quelli in via di
sviluppo, e dove questo differenziale sussiste non c‟è rapporto, non c‟è quindi danno diretto e di
conseguenza viene anche meno ogni responsabilità morale . Dove non c‟è rischio, non c‟è guadagno né
perdita, e dunque secondo Gauthier non può scattare la relazione e di conseguenza il vincolo morale .
In realtà si sa molto bene che, ad es., azzerare i costi dello smaltimento dei rifiuti tossici, nucleari ecc.
attraverso canali clandestini che portano verso i paesi del Terzo Mondo costituisce un guadagno netto .
L‟atteggiamento morale – in base alla relazione fra le persone – nasce secondo Gauthier solo lì dove
c‟è una minaccia, un rischio da calcolare e la possibilità di evitarlo .Poiché tutte le forme di
contrattualismo edonistico sono sincroniche, tra una politica energetica rispettosa dell‟ambiente ma
molto costosa oggi e una politica energetica tesa al risparmio ma fortemente inquinante in un lontano
futuro l‟attore di questa teoria sceglierà sempre la seconda . L‟osservanza del vincolo morale, se deve
essere razionale (come questa teoria pretende che sia in base a un proprio concetto di razionalità), si dà solo
nell‟ambito di benefici attesi . Una concezione identitaria com‟è quella che anima il principio della
massimizzazione non può assumere responsabilità per ciò che non è presente e dunque disinteressato,
senza scambio . Sembra invece che un impegno verso terzi – dunque una posizione morale universale
– sia possibile solo se esiste un principio che obblighi i singoli indipendentemente dalla pretesa,
vincolandoli innanzitutto rispetto a se stessi perché si possano poi obbligare verso gli altri .
Qui sembrano contrapporsi due idee di morale e di giustizia : è l‟interesse individuale che nasce da
un‟idea di giustizia inscrivendovisi e subordinandovisi o è la giustizia che nasce dall‟interesse individuale
quale sua propria matrice ? Questo è l‟antico dilemma di Trasimaco esposto da Platone nella sua
Repubblica . La differenza non sembra risiedere nel fatto che in un caso (quello di Hume, di Gauthier e
Nozick) la morale nasce dalla relazione – dunque mero artificio, conventum – mentre nell‟altro
rivestirebbe una „pura‟ questione di coerenza individuale riferita a un a priori naturale . Anche nel caso in
cui dico : sono morale e giustizia a fondare l‟inter-esse, il primum resta sempre la relazione, ciò che fonda
è il contratto : solo ciò che è condiviso può esser anche utile . La differenza sta, piuttosto, in una
differente concezione della persona : se a fondare è il contratto, io devo porre tutti, indistintamente, come
uguali, prescindendo dallo spazio dal tempo e da ogni altra condizione discriminatoria (e allora possono
darsi diritti fondamentali !!) ; se a fondare, invece, è l‟interesse individuale si vede innanzitutto l‟altro
come una potenziale minaccia da „medicare‟, dunque l‟istituzione nasce costruendo la morale
sull‟interesse . Ma allora non possono darsi diritti fondamentali, perché nella mia azione di oggi non
sarò disposto a riconoscere e garantire a qualsivoglia individuo, indipendentemente dalla sua forza e
dunque anche – al limite – indipendentemente dalla sua esistenza, diritti che in questo senso sarebbe
giusto definire fondamentali . Si daranno invece solo diritti soggettivi e interessi reciprocamente
protetti, dunque un‟idea di giustizia che non oltrepassa la convenienza dei singoli, con un continuo,
potenziale ritorno allo stato di „belligeranza‟, perché la dimensione della terzietà è sempre messa in
questione dalla supremazia del privato 27. In questa prospettiva non si riesce mai ad abbandonare la
dimensione della dualità intesa come confronto con un potenziale nemico : manca quel riconoscimento
che può avvenire solo in una dimensione di terzietà . Nel caso di Gauthier la morale nasce da una
clausola condivisa solo perché c‟è un interesse reciproco a perseguire il proprium . Da questo punto di
vista non ci si è allontanati dalla logica hobbesiana : non si desidera qualcosa perchè è un bene nè la si
avversa perché è un male ; bene e male restano solo come nomi del desiderio e dell‟avversione
individuali28.
27 Forse dovrebbe rileggersi con altri occhi la polemica kelseniana, condotta fin daigli esordi della sua filosofia del diritto,
contro il primato del diritto soggettivo (quanto Hegel c‟è, in quella polemica, nonostante il suo neokantismo ?) .
28 Forse è degna di riflessione la motivazione (citata in D. PARFIT, op.cit., p. 633-634) con cui lo stesso Sidgwick, uno degli
alfieri dell‟utilitarismo, respinge la teoria del successo – quella che fa appello solo ai desideri riguardanti la propria vita – : per
una persona, infatti, “è bene ciò che essa desidererebbe se i suoi desideri fossero in armonia con la ragione” ; se il desiderio è
irrazionale non è bene . E‟ quasi inutile sottolineare l‟implicito ritorno a Kant di questa motivazione di Sidgwick . E Parfit, in
polemica con gli utilitaristi, postilla su questa conclusione di Sidgwick :”raramente quelli che lo citano se ne accorgono” (ivi) .
L’eterno ritorno dell’identità personale
Un pensiero per argomentare da un punto di vista etico la responsabilità verso le generazioni future
sembra proporsi nella profonda riflessione critica del filosofo americano Derek Parfit sull‟identità
personale che corona i puzzling cases di cui il suo testo è intessuto 29. Egli cerca di decostruire questo
concetto : essa – a suo giudizio – non va intesa né attraverso la permanenza, né attraverso la
determinatezza : ma, se questo è vero, se non crediamo di essere entità che esistono separatamente,
possiamo credere che ciò che conta è ancora l‟identità personale ? Non potrebbe più dirsi che siano
questi due attributi – permanenza e determinatezza – a fare della persona un „ente morale‟, a costituirne
l’importanza, ma dovremmo andare alla ricerca di un altro concetto . In dialogo con il riduzionismo,
Parfit giunge a formulare un‟idea di persona che, non fondandosi sull‟io atomistico di Cartesio, la
disloca in una dimensione che oltrepassa i confini della dimensione puramente individualistica30 . Quel
che un riduzionista nega non è, infatti, dice Parfit, che la persona determinata esista o che essa non
abbia una vita profonda : egli nega, invece, che il soggetto delle esperienze sia un‟entità che esista
separatamente, distinta da un cervello/corpo e da tutta la serie di eventi fisici/mentali che la
arricchiscono nel corso della propria vita . Le persone, quindi, consistono negli eventi e nelle esperienze
condivise, in ciò che li connette agli altri (dunque anche agli esseri futuri), non invece in un‟ identità che
li separi da tutti gli altri nell‟esclusione reciproca . Il che non vuol dire che la persona scompaia
nell‟azione( “ noi non siamo serie di eventi : non siamo pensieri e azioni, ma pensanti e agenti” 31), solo
che non può essere presa in considerazione come separata, altro da questa : come se essa potesse
esistere indipendentemente dal corpo/mente, al di là di tutto ciò che fa e pensa . Invece, l‟io su cui si fonda
l‟individualismo moderno è il caso più evidente di entità esistente separatamente, una concezione
dell‟uomo che giudica “razionale chiedere che ogni persona dia a se stessa e alla propria vita una priorità
assoluta” 32 . Parfit giunge, al termine di un percorso alternativo ai modelli fin qui esposti, e che ha
portato nel Novecento ad aprire l‟idea di persona al contesto sociale (basti pensare ai contributi della
fenomenologia, con Husserl e Scheler, o del personalismo di Mounier e Berdjaev), a decentrarla da una
dimensione puramente astratta (homo oeconomicus) giungendo a descrivere le nostre esperienze senza
dover ricorrere al soggetto di esperienze . Il concetto-chiave intorno a cui dovrebbe ruotare la riflessione
per incrementare una responsabilità volta al futuro sembra essere l‟impersonale 33 .
E‟ solo un caso che fin dall‟interno dell‟empirismo inglese – proprio con Hume – emerga l‟esistenza di
importanti premesse per un discorso differente sull‟identità personale ? “Quando mi addentro più
29
D. PARFIT, op.cit. Sul tema cfr. fra i tanti altri testi : D. SPARTI, Identità e coscienza, Bologna, Il Mulino, 2000 .
Parfit (op.cit., pp. 285-286) sottolinea come questo superamento avvenga nello stesso pensiero kantiano : se i fenomeni in
quanto esperienze possibili non esistono fuori di noi, ma solo nella forma della nostra sensibilità, essi esistono a priori
nell‟intelletto . Se questo è vero, afferma Kant nel terzo paralogismo della ragion pura dedicato proprio alla personalità,
“l‟identità della coscienza di me stesso in tempi diversi altro non è che la condizione formale dei miei pensieri e della loro
connessione, ma non prova per nulla l‟identità numerica del mio soggetto” . Si apre così la strada a un pensiero della
responsabilità verso esseri futuri : se le variazioni, ovvero le esperienze, che intervengono nel corso del tempo, impediscono
“il mantenimento dell‟identità del soggetto” è tuttavia “possibile continuare ad attribuirgli l‟identico nome di io, che, anche
in uno stato di trasformazione totale del soggetto, potrebbe pur sempre conservare il pensiero del soggetto precedente e trasmetterlo al
soggetto seguente” in modo tale che “l‟ultima sostanza risulterebbe allora cosciente di tutti gli stati delle sostanze mutatesi in
precedenza come fossero stati suoi propri, poiché essi, unitamente alla loro coscienza, sarebbero passati in essa; ma, ciò nonostante,
essa non sarebbe stata certamente la stessa persona in tutti questi stati” I. KANT, Kritik der reinen Vernunft (1787), Critica della ragion pura,
Torino, UTET, 1967, p. 669, corsivi non testuali .
31 D. PARFIT, op.cit., p. 435 .
32 Ivi, p. 563 .
33 Come abbiamo avuto modo di affermare in precedenza, è difficile districarsi in un orizzonte che non adotta i termini in
modo univoco, ma che, secondo i suoi diversi „dialetti‟, utilizza le idee di personale e impersonale spesso anche in modo
rovesciato. Che il personalismo sia per vocazione affine a una interpretazione dell‟impersonale, pur se non nel senso pieno
del relativismo riduzionista, lo mostra il suo nocciolo : “Pietro è Giovanna”, si afferma infatti, “è la formula della logica
personalista” : la quale non allude, evidentemente, a una fungibilità fra l‟una e l‟altra persona ma, piuttosto, all‟uguaglianza
nel valore che delle persone è – o dovrebbe essere – la prima radice (cfr. G. LIMONE, Tempo della persona e sapienza del possibile,
II, Napoli, Esi, 1990, p. 378, di cui vedi anche La scienza contemporanea al confronto con le generazioni future, in Bioetica e diritti
dell’uomo, a cura di Lorenzo Chieffi, Paravia,2000, pp 1 ss.) .
30
profondamente in ciò che chiamo me stesso, m‟imbatto sempre in una particolare percezione (…) Non
riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione, a cogliere altro che la percezione”34. Quante
persone – si chiede Hume – ci sono in una persona ? “La mente è una specie di teatro, dove le diverse
percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un‟infinita
varietà di atteggiamenti e di situazioni . Né c‟è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato
tempo né identità in tempi differenti(…) ci fingiamo una continuata esistenza delle nostre percezioni
sensibili per negarne l‟interruzione e ricorriamo alla nozione di un‟anima, di un io, di una sostanza, per
mascherare la variazione” 35 . E‟ senso comune e bisogno forte, quello di fissare un‟identità attraverso
memoria e immaginazione, dell‟abitudine a certezza e coerenza, di poterci pensare come esseri continui .
E‟ infatti da questo bisogno che nascono confusione dell‟identità con la relazione e immaginazione di
qualcosa di ignoto che riconnetta le parti oltre la relazione . Invece, secondo Parfit, non va creduto
proprio ciò che tutti siamo naturalmente portati a credere, ovvero che l‟identità personale sia
perfettamente determinata, che vi sia quindi, pensando a un individuo visto prospetticamente nel
tempo, alla domanda “è lo stesso ancora ? ” una risposta univoca : “Sì, lo è” oppure “No, non è più
identico” .
Il filosofo francese Paul Ricoeur dedica grande attenzione al pensiero di Parfit 36 e la sua idea di identità
narrativa, che sostituisce l‟ipse all‟idem della tradizione individualistica, si inscrive, sia pure in modo
critico, in quella revisione del pensiero moderno che costituisce il discorso dell‟impersonale nei suoi vari
„dialetti‟, da Hume a Kant, da Tocqueville a Nietzsche, da Simmel a Simone Weil, da Pirandello a
Camus . L‟identità personale, infatti, potrebbe essere declinata sia in termini di “medesimezza”, sia in
termini di “ipseità” : l‟una non è sostituibile all‟altra, come la quantità alla qualità . 37 Nell‟affrontare il
“carattere eminentemente problematico dell‟identità personale”38, Ricoeur si ritrova comunque di fronte
due ostacoli : il “chi” e il “corpo” : entrambi, pur in una concezione narrativa dell‟identità, sembrano
costituire ancora residui irriducibili 39 . Ma tale irriducibilità si fonda sulla contrapposizione mente/
corpo che sembra ascrivere al secondo i vissuti emotivi – quel che di ognuno resterebbe incondivisibile,
cifra dell‟identità – mentre al primo si riconoscerebbe l‟attitudine di “interiorità non vissuta” 40 . Si
realizza così una „strana‟ inversione, per cui il discorso di Ricoeur, centrandosi sul tema del corpovissuto 41, valorizza e pone al centro un elemento che è in certo senso ancor più impersonale, in quanto
condiviso con tutti gli altri esseri, senzienti e non : per Parfit, invece – che non mette in valore il corpo
e il cervello individuali come elementi di separazione reciproca, ma solo le esperienze condivise, gli
eventi che ci coinvolgono e ci accomunano – “a contare è ciò che fa di noi delle persone ” e, in questo senso
(per una sorta di paradosso, rispetto a quelle concezioni che mettono in valore il corpo come referente
determinato e intrascendibile dei singoli) “la concezione riduzionistica è più personale ” 42 . Quel che qui
è in gioco è l‟idea che si ha dell‟identità personale e che emerge in modo netto dalla già ricordata teoria
34
D. HUME, Opere filosofiche, vol. I, Trattato sulla natura umana, Laterza 1993, p. 264 .
Ivi, p. 266 .
36 P. RICOEUR, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993, p. 220 ss. . Egli definisce quella di Parfit “un‟opera di capitale
importanza”indispensabile da attraversare per il proprio punto di vista in quanto – escludendo quella differenza fra ipse e
idem che fonda l‟idea di identità narrativa formulata dal pensatore francese – ne costituisce “l‟avversario più temibile” . Il
rimprovero che muove Ricoeur alla tesi di Parfit è quello di combattere dunque un nemico che non esiste, un‟identità
perfettamente, ovvero medesimamente, determinata . Ci si potrebbe chiedere tuttavia se la sua “dialettica del personaggio” non
sia la ritrascrizione, in un altro „dialetto‟, delle tesi di Parfit . Cfr. anche P. RICOEUR, Autonomie et vulnérabilité, in Le Juste 2,
éditions Esprit, 2001, p. 85 ss.
37 P. RICOEUR, Sé come un altro, cit., p. 204 ss.
38 Ivi, p. 232 .
39 “Il corpo, a differenza del cervello – è questa la discriminante tra Parfit e Ricoeur individuabile nella matrice
fenomenologica di quest‟ultimo, assente invece nel primo – ha un vissuto che non può essere „spogliato‟ della sua singolarità.
Ma in tal caso non ricadiamo in quell‟ineffabile, come contrapposto al concettuale, che lo stesso Ricoeur critica in Bergson ?
Cosa vuol dire “crisi dell‟ipseità” (ivi, p. 228) se la dimensione narrativa dell‟identità lascia sempre il chi in primo piano ? E‟
davvero impossibile trasferire il giudizio di importanza dall‟identità personale all‟impersonalità ? Ancora una volta è questo
passaggio che, solo, mi sembra centrale per fondare una responsabilità verso le future generazioni .
40 Ivi, p. 223 .
41Ibidem . Ricoeur critica proprio l‟esclusione del corpo operata dal riduzionismo come criterio di singolarizzazione
:”l‟impersonalità dell‟evento sottolinea, prima di ogni altra cosa, la neutralizzazione del corpo” .
42 D. PARFIT, op.cit., p. 566 .
35
dei diritti . Un‟obiezione essenziale a questa teoria è quella che va sotto il nome di problema della nonidentità (o paradosso degli individui futuri) . L‟identità di una persona dipende infatti in modo univoco
dal momento in cui è stata concepita così che spostando anche di una minima frazione temporale il
momento del concepimento ne nascerebbe un‟altra al suo posto . L‟identità personale nel tempo, nelle
diverse storie possibili del mondo, si pone tutte le volte che c‟è un‟alternativa fra politiche ambientali,
energetiche e demografiche che comportano mutamenti radicali delle popolazioni nel corso del tempo .
Derek Parfit fa il seguente esempio43 : dobbiamo scegliere se dar fondo a un certo tipo di risorse non
rinnovabili o tutelarle : se optiamo per il loro esaurimento nei successivi tre secoli la qualità della vita
sarà di poco più elevata che se avessimo deciso di tutelarle : dovremo cercare infatti alternative alle
risorse esaurite . In seguito però, e per molti secoli, essa sarà molto più bassa di quel che sarebbe stato
se avessimo scelto di salvaguardarle . Chiediamoci degli effetti sulle persone future : non è vero che
quale che sia la nostra scelta esisteranno sempre le stesse persone particolari . L‟effetto delle due linee di
azione sulla vita quotidiana delle popolazioni comporta un mutamento inevitabile, nelle scelte dei tempi
matrimoniali e del concepimento dei figli, con effetto spill over, così che nel corso del tempo sempre più
persone dovranno la propria esistenza alla nostra scelta di una delle due linee di azione . Tre secoli
dopo l‟inizio della nuova politica energetica nella nostra comunità immaginaria non ci sarà nessuno che
sarebbe nato comunque, indipendentemente dalla nostra scelta . Quindi se utilizzo come unico metro di
misura gli individui singoli e i diritti soggettivi non è possibile tutelare le persone future né dal punto di
vista morale né da quello giuridico . Sappiamo invece che il risultato ottenuto con il sacrificio di queste
persone future è imputabile alla nostra responsabilità e non può esimerci il pensiero che proprio queste
persone con un‟altra linea di politica energetica non sarebbero esistite . Alla base di questa idea di
identità sta il fatto che la valutazione negativa opera solo in presenza di individui perfettamente
determinati : poiché – si dice – dopo tre secoli gli individui che nascerebbero scegliendo la linea di
politica energetica risparmiatrice non esisteranno – non saranno gli stessi – in quella che depaupera le
risorse (e viceversa), questa scelta non è negativa per nessuno, dunque può essere portato a compimento .
L‟ostacolo essenziale per pensare una responsabilità verso le generazioni future all‟interno dell‟idea
impersonale sta nel fatto che a tutta prima i due concetti sembrano collidere . Solo un‟identità
assolutamente (profondamente) definita sembrerebbe riuscire a produrre e a imporre un‟imputazione e
un obbligo . Ma quella identitaria è solo la forma necessariamente giuridica, non anche quella etica di
responsività . Quest‟ultima potrebbe fondarsi su un modello di condivisione – anche nel futuro –, e non
invece di esclusione, come, inevitabilmente, il diritto è costretto nei suoi limiti a fare .
Da questo tipo di sensibilità etica nasce il convincimento che l‟impoverimento delle risorse non
rinnovabili è un male assoluto, non un mero diritto soggettivo, ma un diritto fondamentale, in quanto
tale indipendente dai singoli individui determinati . Non a caso Parfit si pone le seguenti domande
retoriche : che questo abbassamento della qualità della vita non rappresenti un peggioramento della
situazione di alcuno fa una differenza morale ? Ovvero : se rappresentasse un peggioramento per delle
particolari persone l‟effetto sarebbe peggiore moralmente ? E allora, conclude Parfit, se a queste
domande la risposta dev‟essere negativa, questa evidenza ci fornisce ragioni morali per non scegliere
comunque il loro depauperamento44 . La convinzione che si fa strada, di una progressiva usura del
patrimonio naturale come in un gioco a somma zero, – abbiamo visto sopra che la formulazione
dell‟impronta ecologica parte proprio di qui – rende centrale, a partire da un princìpio di valore, il problema
di una sovrappopolazione futura e della qualità della vita, soprattutto nei paesi poveri che non hanno a
disposizione strumenti efficaci per usare in modo preveggente le proprie risorse .
E, da questo punto di vista, è importante la critica all‟utilitarismo avanzata da Parfit attraverso l‟ipotesi
della „conclusione ripugnante‟:“per ogni possibile popolazione di almeno 10 miliardi di persone deve
esistere un‟immaginaria popolazione, molto più numerosa, la cui esistenza, a parità di condizioni,
sarebbe migliore anche se i suoi membri vivono esistenze a malapena degne di essere vissute” 45 . Qual
è il senso di questo caso immaginario ? C‟è un‟evidenza „banale‟ di partenza : “ se aumenta il tasso di
43
Ivi, p. 460 ss.
Ivi, p. 463 . O, come dice Sikora :”Sarebbe la possibilità di una catastrofe futura sufficientemente importante da aver
maggior peso degli obblighi che il leader ha verso coloro che sono già vivi ? ” (op.cit., p. 243) .
45 Ivi, p. 484 ss.
44
incremento demografico, aumenterà il numero di persone che in futuro starà peggio”46. Prescindendo
dal problema della “vita degna di essere vissuta” cui si è fatto cenno sopra, qual è infatti l‟ipotesi – che
Parfit definisce “un mostro di utilità” – avanzata in questo esempio ? Che il governo mondiale si trovi
di fronte a due scelte di politica demografica : mantenere il tasso della popolazione mondiale costante a
un certo livello tramite politiche non costrittive di pianificazione familiare, o favorirne un aumento
ulteriore . Il secondo esito comporta un totale di felicità maggiore dell‟esito cui conduce la prima
alternativa . Tuttavia : la differenza di felicità a favore della seconda sta in un aumento inusitato non
della qualità della vita di una persona, ma del numero delle persone che sono venute al mondo :
l‟aumento della felicità non può che essere un dato puramente quantitativo, mentre andrebbe calcolata
anche la qualità della vita 47 . Giuliano Pontara, nel difendere l‟utilitarismo impersonale del totale,
confuta Parfit, in questo paradosso appena enunciato, affermando che la condizione umana propria
della seconda alternativa, quella del mondo sovrappopolato, non sarebbe affatto „ripugnante‟ : anzi,
prendendo in considerazione il mondo attuale, può dirsi che “fatte pochissime eccezioni, la vita di una
persona non può essere che di poco superiore a quello che la rende non degna di essere vissuta” 48 : ciò
che renderebbe „indegna‟ la condizione di questo nostro tempo sarebbe solo la diseguaglianza . Qui si
profila una questione teorica di non piccolo rilievo che investe il senso della filosofia pratica . Pontara
parte infatti da una distinzione fra utilitarismo come teoria etica e metodo di deliberazione49 . Nel primo
senso, l‟utilitarismo determina “le condizioni necessarie e sufficienti dell‟agire moralmente retto e
doveroso”, ovvero i criteri utili a determinare un‟azione come moralmente retta, ma nulla dice circa i
princìpi concreti da adottare nell‟agire quotidiano; nel secondo senso, invece, come metodo di
deliberazione o di morale positiva, si occupa proprio delle direttive da adottare nelle concrete situazioni
di scelta . Teoria e decisione concreta sono correlati fra loro nell‟utilitarismo in modo che “dal giudizio
per cui il principio utilitaristico è la teoria vera o valida o più plausibile, non segue che esso è un
principio valido di morale positiva ”50anzi vi sono buone ragioni di ordine utilitaristico perché “ di regola,
ossia nella grande maggioranza delle situazioni di scelta che si verificano nella vita quotidiana, la maggior parte dei
soggetti non deve applicare l‟utilitarismo dell‟atto inteso come metodo di deliberazione, in quanto si
produce (probabilmente) maggiore felicità nel mondo se, di regola, si delibera in base a qualche metodo
alternativo”51. Ci si potrebbe chiedere – non tanto da un punto di vista scientifico quanto deontologico
– se un‟etica pratica, che riflette dunque sulle azioni, possa scindere in modo programmatico la teoria dalla
prassi fino a postularne l‟incompatibilità, sottraendo così la teoria alla sua funzione prescrittiva
concreta. Una delle ragioni potrebbe risiedere nella natura dell‟oggetto-cardine dell‟utilitarismo, la
felicità . Quest‟ultima è, sì, un principio universale intuitivo, ma, se ne teorizzo il primato assoluto nei
termini dell‟utilitarismo – se prescrivo di produrre la maggiore eccedenza possibile del piacere sul dolore,
ovvero di massimizzare la felicità –, esso non appare più di intuitiva evidenza, presumo infatti l‟identità
di interesse generale e interesse particolare . Quel primato dà per acquisito qualcosa che acquisito non è,
ovvero che sia dia un accordo a priori, nella ricerca di questa massimizzazione, sui beni che ne sono
46
Ivi, p. 489 .
Ibidem . Cfr. anche R.I. SIKORA, op.cit., p. 242 : il quale sostiene che, anche scontando il fattore della non-identità, sebbene
dunque “le persone allora vive non sarebbero esistite se fossero state seguite politiche restrittive, tuttavia la maggior parte di
queste persone vive sarebbe tanto infelice da far diventare razionale il fatto che essi desiderino che i loro genitori avessero
seguito una politica restrittiva, così che essi non sarebbero mai nati” . Cosa implica quest‟osservazione ? Che vi è, forse, dal
punto di vista etico una “misura tanto intollerabile”, per dirla con la formula di Radbruch, di ingiustizia intergenerazionale,
tale da giustificare la scelta della politica restrittiva invece che quella del laissez-faire . Esiste una misura di iniquità tale da
giustificare che il contratto infra-generazionale si pieghi alle sorti future, alla giustizia intergenerazionale ? Come determinarla
concretamente, e realizzare gli istituti che la fissino in una procedura ? Ritorna qui il problema degli organismi sovranazionali
e un nuovo sviluppo del diritto internazionale .
48 G. PONTARA, Etica e generazioni future, op.cit., p. 141 . Questa affermazione sembra rientrare nella notazione di Sikora :”un
fautore delle politiche laissez-faire di popolazione potrebbe sostenere, secondo lo stile dell‟utilitarista ideale, che una vita può
avere molto più dolore che piacere ed ancora degna di essere vissuta” (op.cit., p. 244) . Questo è anche il motivo per il quale
Pontara rifiuta la critica all‟utilitarismo contenuta nella conclusione ripugnante di Parfit .
49 ID, Filosofia pratica, Milano, Il Saggiatore, 1988, p. 254 ss. Distinzione peraltro classica, interna alla dottrina dell‟utilitarismo
: a questo proposito Pontara richiama tra gli altri innanzitutto Sidgwick .
50 ID., Etica…, cit., p. 134 .
51 ID., Filosofia pratica, cit., p. 259 . Corsivo non testuale .
47
oggetto, verso un interesse generale52, e che questa sia una cosa in sé buona, ovvero (il che è lo stesso)
che essa sia la cosa più naturale . “Prendere in uguale considerazione il piacere e le sofferenze di
ciascuno valutandoli con lo stesso metro, esclusivamente in base alla loro intensità e durata” 53 è infatti
possibile solo presumendo un‟uniformità culturale di fondo nella quale tutti i bisogni si ordinano, ma
oggi ognuno vede che non è più così : dov‟è l‟universalità concreta della felicità ? Esiste al di là della
comunicazioni conflittuali un‟omogenea ricerca della massima felicità ? Mentre la teoria la dà per acquisita
da parte di tutti, nessuna oggettività sembra possibile passando alle deliberazioni particolari per
confermare quella ricerca da parte di ognuno, e dunque l‟occasionalismo diventa una scelta obbligata nel
valutare le decisioni concrete . Questo sembra anche il motivo per il quale l‟utilitarismo finisce spesso
per essere interpretato, all‟opposto del suo primo intendimento che è genuinamente altruistico, in una
declinazione individuale, egoistica . Se fosse vero che l‟unica considerazione rilevante per stabilire se
un‟azione è giusta o meno è data dalla totalità delle sue conseguenze in termini di beni e mali prodotti,
con la conseguente ricerca della massimizzazione, allora, se le due azioni alternative A e B più benefiche
producessero le medesime conseguenze in termini di beni e mali, dovrebbero avere anche la stessa
qualità morale e nessun altro fattore sarebbe rilevante nel giudizio . Invece non è così : se A comporta
violazione di una promessa mentre B consiste proprio nell‟adempimento della stessa promessa, non
diremmo che questo elemento differenzia le due azioni a vantaggio della seconda? Con l‟utilitarismo
non posso trarre questa conclusione in modo obbligatorio perché “ciò che è giusto” e “ciò che
massimizza l‟utilità” non sono equivalenti . L’utilitarismo deve restare una dottrina etica neutrale 54 . Esso
sembra infatti non riconoscere lo spessore di un‟autentica dualità di principio fra etica individuale ed
etica sociale, sembra confondere il privato con il pubblico e in tal senso può ascriversi a una logica
dell‟impersonale . Se il livello più alto possibile di soddisfazione è l‟unico fine da ottenere – se a
presupposto dell‟utilitarismo sta la convinzione che il fine ultimo, dunque la dignità della persona,
consiste nella massimizzazione del piacere e nella minimizzazione del dolore degli individui, il che,
diversamente da quel che sembra pensare Pontara nella sua confutazione della conclusione ripugnante,
non è il trait d’union con il riduzionismo – non c‟è alcuna ragione di principio per la quale i maggiori vantaggi
di alcuni non dovrebbero compensare le minor perdite di altri o perché la violazione della libertà di
pochi non potrebbe essere giustificata da un maggior bene condiviso da molti . All‟opposto, sembra
che vada ribadito come eticamente ben fondato il principio in base al quale nessuna felicità, di un
qualsivoglia numero, riesce a compensare né tantomeno a giustificare la sofferenza di una sola persona55
. Il “mostro di utilità” della conclusione ripugnante – fin quando si fa leva sull‟idea di massimizzare la
felicità, escludente per essenza, e sul primato numerico – sembra invece oggi, nelle dimensioni in cui si
prospetta “sotto gli occhi dell‟Occidente”, molto facilmente immaginabile, e in un futuro nemmeno
troppo lontano56 .
Servendosi di immagini tratte dalla letteratura fantascientifica, Parfit esemplifica un‟idea differente di
identità personale57 . Egli immagina uno scanner in grado di distruggere il cervello e il corpo di una
persona registrando al contempo tutti i suoi dati genetici e trasmettendoli via radio, attraverso un raggio
teletrasportatore alla velocità della luce, a un replicatore su un altro pianeta che ne creerà una copia
perfetta . Scompaio da un luogo e mi ritrovo in un altro . La piena identità psicofisica –
immediatamente recuperata – mi consente di riprendere a vivere dal momento dell‟esperimento . Di
questa fiction Parfit fornisce una variante : lo scanner non distrugge il mio corpo e il mio cervello, ma si
limita a replicarlo, anche se il risultato sarà la mia prossima morte e la sopravvivenza dell‟altro . Il punto
di forza di questi esempi sta nel fatto che, pur trattandosi di casi immaginari, essi restano tuttavia
logicamente possibili, ovvero pensabili . Qual è lo scopo dell‟esempio del teletrasporter ? Dimostrare,
contro i naturalisti, che la vita permane al di là di una perfetta identità fisica . Ma : sono sopravvissuto alla
C.A.VIANO, L’utilitarismo, in Teorie etiche contemporanee, cit., p. 55 .
G. PONTARA, Filosofia pratica, cit., p. 265 . Corsivo non testuale .
54 Per tutto l‟esempio cfr. F. ALLEGRI, W.D. Ross e l’etica contemporanea, in
www2.reggionet.it/filosofia/allegati/2001/allegri.pdf, p. 3 .
55 J. RAWLS, op.cit., p. 39 .
56 D. PARFIT, op.cit., p. 495 . Per Sikora ad esempio (op.cit., p. 230), che pure prova a confutare la tesi di Parfit, la conclusione
argomentativa a proprio favore non sembra affatto scontata, così da dare l‟impressione che la questione resti indecidibile .
57 Ivi, , p. 257 ss.
52
53
mia replica o sono morto ? Questa resta la domanda – angosciosa ! – che tutti naturalmente si fanno .
Numericamente infatti, io e la mia replica siamo diversi, ma qualitativamente siamo identici : alla fine le due
vite si confondono sovrapponendosi l‟una all‟altra; secondo questa modalità di affrontarla, l‟identità
personale è indecidibile e non ha dunque senso farsi una domanda che resta vuota . Questa, dice Parfit,
una volta che si fosse in grado di decostruire il mito dell‟identità personale, non sarebbe più una
domanda importante : non è più importante saperlo, perché al di là di me resta, nella mia „replica‟, tutto ciò
che di me è essenziale e che ci connette reciprocamente, pur nella discontinuità numerica, invece di
dividerci . Le esperienze, le emozioni, i bisogni, i desideri, finanche i diritti – che non sono miei più di
quanto non lo siano di qualsivoglia altro che è uguale a me e al quale posso trasmetterli – nella
condivisione di tutti i vissuti di esperienza trattengono ciò che di me è più importante : la volontà di
sopravvivere e i contenuti che la veicolano .
Un altro esempio significativo viene fatto con il caso dello “spettro combinato”58 . Parfit immagina lo
strumento comandato da uno scienziato per la mutazione fisica/psichica delle persone : ad un estremo
dello spettro c‟è un individuo qualsiasi e all‟altro estremo Greta Garbo : la relazione di
continuità/discontinuità fra il soggetto e l‟attrice è da 0 a 1 dove 0 è omogeneo al soggetto, 0,1 la sua
evoluzione naturale fino a 0,5 che rappresenta il punto di fusione; 1 è invece la piena discontinuità con
l‟io attuale del soggetto, è l‟altro . Man mano che il ricambio cellulare accelera con la mutazione si
alterano i ricordi e le sensazioni del soggetto, che si fanno via via più confuse indirizzandosi verso la
persona-Garbo . Ci chiede Parfit : in quali casi sopravviviamo a noi stessi dal punto di vista dell‟identità
personale ? Esiste un punto esatto dello spettro al di qua del quale sei ancora tu, mentre al di là non sei
più tu ? Anche in questo caso questo punto è indeterminabile : risulta impossibile stabilire la quantità di
connessione psicofisica necessaria per determinare l‟identità in modo univoco . Il rapporto fra i diversi
stati dell‟individuo è di connessione, non di continuità . Questa affermazione problematizza la percezione
dell‟identità personale che la cultura occidentale ha, fin dall‟epoca della filosofia greca, formulato con la
dottrina dell‟Uno e dei Molti come dualità irriducibile e complementare : il modello sul quale è fondata
sembra esser infatti quello dell‟esclusione . E‟ possibile un altro modo di percepire l‟unità così che non
si riveli escludente ? Se quella con la quale è pensata la singola persona non è un‟unità così profonda da
escludere l‟altro, essa non si rovescerà neppure in un modello inclusivo nel quale non si trovi la ratio di
una distinzione, di un confine che sempre permane : sarà meno profonda anche la non-identità59 .
Cos‟è che conta, allora, se a contare non è l‟identità personale ? Forse, invece che di identità personale
dovremmo parlare di sopravvivenza personale e proprio questa mi sembra una chiave possibile per arrivare
da un punto di vista filosofico a pensare una nostra responsabilità verso le generazioni future :
sopravvivere da uno stato all‟altro nella catena delle generazioni vorrebbe dire che almeno un certo
grado di connessione è rimasto nella discontinuità e, poichè la connessione non è una relazione
transitiva, il rapporto fra il me di oggi e il me di trenta anni fa, il rapporto infrasoggettivo in senso
diacronico (posso dire di essere oggi la stessa persona che ero trenta anni fa ? posso dire di essere
continuamente lo stesso di sempre nel progresso e nei „salti‟ del tempo? 60 ), può essere analogo al rapporto
intersoggettivo, in senso ugualmente diacronico, fra me e una qualunque altra persona con cui ho
un‟affinità . Se la causa della connessione non è più naturale61 , allora più individui – al limite anche una
moltitudine – potranno condividere lo stesso stato mentale : non è più infatti un‟unica causa determinata,
ma una causa efficiente qualsivoglia che può essere giusta per innescare la connessione .
58
Ivi, p. 301 ss.
Ivi, p. 432 .
60 Questo è il motivo per cui Parfit dice (ivi, op.cit., pp.415-416) :”Se un carcerato, in questo momento, ha una relazione di
connessione meno stretta con il se stesso del momento del delitto, merita una punizione minore . Se tale connessione è
molto tenue, può non meritarne nessuna” . Così come è il motivo, aggiunge Parfit, per cui “molti paesi hanno delle leggi che
prevedono la prescrizione, cioè che determinano i periodi di tempo trascorsi i quali il criminale puàò non essere punito per
un delitto passato” .
61 Come, a puro titolo di esempio, mostrano gli esperimenti per ridare aritificialmente la vista ai ciechi inserendo
microprocessori nel cervello .
59