Incontro interuniversitario di italianistica: cultura italiana, cultura europea, cultura mediterranea
Dipartimento di Filologie e Letterature moderne dell’Università degli Studi di Cagliari 11-12 novembre 2009. Aula
B.R. Motzo
M. VIRDIS,
Benvenuto Lobina: fra verso e prosa.
Benvenuto Lobina: fra verso e prosa.
Incontro interuniversitario di italianistica: cultura italiana, cultura europea, cultura mediterranea
Cagliari, 11-12 novembre 2009
Nella storia letteraria della modernità sarda, nel suo
rinnovarsi, nel suo sperimentare, un posto di tutto rilievo spetta
certamente a Benvenuto Lobina. Se la sua produzione poetico lirica
si inserisce nel solco di una tradizione, anche recente, della poesia
in lingua sarda, ma con l’aggiunta, tanto spesso, di una originalità
metrica e tematica che è andata via via rafinandosi e
sperimentandosi, la sua produzione narrativa segna quasi un
incipit nella storia della letteratura sarda/in Sardo; perché se il
romanzo Po cantu Biddanoa non può dirsi la prima scrittura di
prosa narrativa in limba, certamente è la prima di grande respiro e
di sicura qualità d’arte.
Vissuto fra il 1914 e il 1993, nativo di Villanovatulo nel
Sarcidano, Benvenuto Lobina fa le sue prime prove poetiche in
dall’adolescenza e nella prima giovinezza aderisce al movimento
futurista. Milite nell’Africa italiana, perde, già da prima della
guerra di Spagna, la sua fede nel fascismo, che come tanti giovani
di allora lo aveva illuso. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono i più
fecondi per la sua produzione in versi; e diverse sue poesie
appaiono su La Nuova Sardegna, a Sassari infatti Benvenuto ha
stabilito da anni la sua residenza. Nel 1974 pubblicherà, per la
Jaca Book, la sua raccolta di poesie dal titolo Terra, disiperada
terra, riedita poi dalle Edizioni della Torre nel 1992, col titolo Is
cazonis, cui ai componimenti della prima edizione, ne vengono
aggiunti altri due: No m’arrechedi’ ni pane e Canzoni nuraxi. Nel
1984 termina il romanzo Po cantu Biddanoa che vince il premio
“Casteddu de Sa fae” di Posada, il romanzo viene pubblicato nel
1987, con versione italiana a fronte, dalla sassarese 2D Editrice
Mediterranea, e ripubblicato poi, nel 2004, a Nuoro, dalla Ilisso
Edizioni. Nel 2000, per l’editrice Poliedro di Nuoro, appaiono tre
suoi racconti: il primo, Iacu e su lioni, già edito, gli altri due, inediti
e postumi, sono In d’una dì ’e soli e Bonas tardas, Magestà’;
quest’ultimo – ci informa Anna Serra Lobina nella nota biobibliograica premessa all’edizione del 2004 del romanzo lobiniano
– doveva costituire il primo capitolo del secondo romanzo di
Benvenuto, mai portato a termine; tale capitolo fu poi adattato
dall’Autore in forma di racconto autonomo.
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Benvenuto Lobina: fra verso e prosa.
Il nucleo poetico attorno a cui si concretizza la scrittura
poetica di Benvenuto Lobina è quello della distanza-vicinanza col
proprio paese d’origine, Villanovatulo, microcosmo e sua patria
afettiva. Piccolo mondo da cui poi si diparte una visione più larga
che va ad abbracciare l’intera Sardegna in una considerazione
tanto emotiva, quanto morale, e, almeno latamente, politica. Poesia
della nostalgia e del rimpianto di un mondo che egli ha perso prima
di tutto col diventare adulto: e dunque poesia dalla tinta
esistenziale innanzitutto, della delusione della vita, quasi dai toni
intimisti, fra leopardiani e pascoliani, se non fosse però che tutto
ciò si innerva su considerazioni politiche e sociali che ne
accrescono il respiro, distendendosi su un tessuto metrico
particolarmente innovativo, se non altro in una Sardegna che da
qualche decennio va tentando – e tanto spesso con successo – il suo
rinnovamento poetico letterario per mettersi al passo coi tempi
nuovi, con risultati assai spesso di originalità. E in questa
originalità conquistata ben si inserisce il Lobina che cuce versi
liberi e perino ‘prosastici’, ma sapientemente modulati su ritmi
anche tradizionali che si intromettono nel disteso colloquiare
interiore che riiuta cadenze troppo manifestamente ritmate.
***
Vorrei partire dalla coda, in questo intervento odierno, da
quelle due poesie inserite nella seconda edizione del suo
canzoniere, delle sue Canzonis, l’edizione Della Torre del 1992
appunto: si tratta, come già detto, di No m’arrechèdi’ nì pani, nì
femina, nì canzoni e Canzoni nuraxi. Sono composizioni queste che
segnano l’acquisita maturità poetica di Benvenuto, ed anache un
mutamento nel suo stile compositivo che se da un lato si distacca
da una maniera più cantabile o comunque più piana e scorrevole,
per diventare scabro e vicino a una prosa ritmata, dall’altro
proprio questa acquisizione può segnare un ritorno alle origini
della poetica del nostro Autore, alla sua esperienza di
sperimentalismo poetico.
Se già nelle composizioni precedenti, Lobina aveva
abbandonato sia la rima che il verso regolare, qui ci troviamo
davanti a qualcosa che sta fra un verso assolutamente libero e una
prosa densa di echi metrici e di richiami fonici interni.
Non solo, ma questo partire e seguitare a ritroso come sto
facendo restituisce lume e senso alle composizioni precedenti e ne
illumina il valore innovativo, che potrebbe invece andar perso,
senza queste ultime prove, e andar incontro a un giudizio
sommario di poesia topica, solita e già sentita, incentrata, come
potrebbe sembrare, su una parola troppo facile, su l’ovvietà del
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canto memoriale, su una adesione sociale che sa di lamento noto,
ma che comunque signiica una acquisita e cosciente dimensione
sociale e civile che in quegli anni, anche in Sardegna, tocca le
corde di molta poetica. Considerato però alla luce di queste nostre
due ultime canzoni, tutto il canzoniere lobiniano assume la igura
di una parabola (auto)biograica poetica.
La Canzoni nuraxi pone il problema, e allo stesso tempo l’
ansia, della ricerca di una parola, una parola piena, poetico
profetica, che sembra mancata alla società e alla cultura dei Sardi,
che pur non difetta d’Idea. Una parola che sappia dire del sapere
pragmatico, di cui questa cultura e civiltà è pur dotata, che sappia
cantare il sapere della mano, delle cose concrete che sono in lì
parse indegne d’una parola elevata da tramandare al futuro. Un
sapere che invece non deve andare disperso, per esser detto non
solo alle future generazioni, ma al mondo. È una poesia aspra e
scabra, ricca di metafore e di materia sottaciuta che genera lacune
semantiche che il lettore è chiamato colmare, pescando
nell’intertesto tanto del canzoniere, quanto dell’enciclopedia ideale
e poetica compartita. Sembrerebbe quasi una sconfessione della
poetica in qui seguita dall’Autore, se non fosse che il nodo ideale e
il groppo sentimentale rimane il medesimo invariato. Egli aveva già
infatti cantato il concreto, la minutezza del mondo paesano, i suoi
travagli, e, a un tempo, la sua universalità a partire dalla specula
del proprio io poetico. Una universalità che ora si fa veramente tale
dopo che Lobina ha superato la fase intimista e di ricerca del sé.
E dunque. Dunque in principio era l’idea, innantis fu s’idea,
dice il poeta; e tutta la composizione ruota intorno a questo blank:
al dover comprendere quale sia questa idea, di quale idea si tratti.
Idea di origine sconosciuta, che non si sa donde provenga, si sa
che ha passato il mare, attraverso un viaggio incerto, arrischiato e
abbacinato, e, come ali di vento che si coagulano, si è posata qui,
nel qui del poeta, nel qui del suo e del nostro ‘noi’. Idea però dal
viaggio non felice, contrastato da divinità avverse, e non
accompagnato da parole profetiche, né da consigli o da aiuti
materiali. Idea grande e di grandezza, ma disarmata della parola. E
dunque non ha potuto né saputo porre radici, non ha potuto
spaccare la terra per poter avvicinare luoghi e uomini: idea che
non s’è fatta civiltà, né territorialità, né bandiera che aggreghi le
genti attorno a sé: è rimasta un’idea dispersa, virtuale, non
attualizzata: idea che non s’è fatta verbo. Non ha consegnato in
parola alcun messaggio al lavoro che pure, essa idea, era capace di
fare e di concepire, perché troppo invischiata nella manualità
pragmatica.
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E allora invano, ora i discendenti di coloro che quella idea
hanno incarnato, elaborato, lavorato ma non detto, cercano invano
un passato di gloria: assenti parole di grandezza e di conquista: gli
antenati si sono vergognati di lasciar parlare la materialità del loro
lavoro, e il loro lavoro non ha fruttiicato, non ha lasciato traccia, sì
che il poeta non ha di che cantare. E la sua canzone abortisce.
Perciò il poeta va cercando fratelli, i propri fratelli che gli dicano di
sé della loro condizione, del proprio essere, del sapere delle loro
mani ancora mute.
Se questa canzoni di Benvenuto Lobina non fosse intitolata
Canzoni nuraxi, se fosse senza titolo, o con un titolo che non desse
rimandi alla Sardegna, non verremmo a capo forse della
consapevolezza di un passato di cui ci sono le tracce possenti, ma
non la storia: ma poiché d’essa la posterità ha bisogno, essa deve
essere ricostruita, starei per dire per via antropologica, attraverso
l’interrogazione degli eredi, sia pur meno grandiosi, di quella
civiltà, afinché il poeta odierno possa dar loro un senso, una voce,
una parola, afinché le ardite architetture di pietra del passato
diventino architetture, costruzioni di parola. È dunque il titolo che
risolve il blank di cui si diceva, ma allo stesso modo questo
contenuto è detto attraverso un blank virtuale, attraverso una
isotopia sottesa ma non esplicitata, nei cui confronti il titolo funge
sì da catalizzatore, ma non esime tuttavia il lettore dal lavoro e dal
dovere di aggregare e di coagulare i frammenti del discorso
poetico.
Questo componimento se da un lato è un rimpianto per un
passato deverbalizzato o averbale, dall’altro è la soddisfazione per
un’attività poetica da fondare, per una sardità poetica da trovare,
nel senso pieno del termine; per dar voce poetica alla lingua del
concreto, in una compiuta poiesis da ricercare. Una poetica che
non ha alle spalle la tradizione, ma necessita della ricerca: la
ricerca di una lingua, poetica appunto, e sarda, che trovi, data tale
mancanza di una tradizione, le radici nella stessa materialità in cui
essa si è incarnata. E così il componimento torna circolarmente su
se stesso, infatti esso era cominciato con la non frase, con una
ellissi che è questa:
Cun
custus
fueddus
imenguaus,
indollorius,
disprezziaus,
fueddus imprestaus, fueddu’ burdus, arestaus,
fueddus angariaus.
Cun custus fueddus trobius.
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La poesia di una non retorica, o di una retorica nuova,
antropologica ribadirei, che dà valore anche a parole svilite,
disprezzate, spurie, imprestate, impedite. Vera avanguardia
matura, si potrebbe dire.
Più personale e soggettiva è l’altra delle due canzonis di
Benvenuto, No m’arrechedi nì pani, nì femina, nì canzoni. Una
poesia di viaggio e di abbandono, come s’è già detto; parrebbe
un’altra poesia sul tema dell’emigrazione, tema ricorrente in
Lobina. E forse pure lo è. Ma c’è un sovrappiù di unheimlich, forse
un eccesso di spaesamento, perché il componimento possa essere
proiettato sullo schermo di una tematica esclusivamente sociale.
Emigrazione dell’io quindi piuttosto. Un io che tende a
universalizzarsi nel destino della comunità? Oppure un’io che vede
il proprio destino di distacco, il proprio tutto interiore
sradicamento dal mondo nelle forme dei molti che si sono sradicati,
costretti, dalla propria terra? Mi parrebbe proprio quest’ultimo il
caso: è commente chi sia partendu a callincuni logu tristu, dice
infatti il testo al v. 2; e ancora: T’essi pótziu salludai cun d’unu
muccadoreddu / comenti fai’ donniunu candu pàrtidi amarolla (vv.
7-8). Un distacco, un’emigrazione forzata, un esilio esistenziale
quindi. Ed ecco lo spaesamento che assume i contorni e i colori
della rêverie, se non di un incubo, quanto meno un’angoscia
onirica: “da qualche parte il capostazione mi starà aspettando
passeggiando accanto al treno” e parenteticamente viene aggiunto
“(Sa notti scoriosa, su scacciacqua nieddu,/sa luxi ’e su lantioni, sa
strossa, s’arrellogiu)”, un paesaggio interiore, fatto di immagini,
dicevo, straniate e che subito si interiorizza in una cascata di
metafore. E non solo quindi distierro e abbandono, ma anche
spossessamento: deprivato e derubato è l’io dei iori e del
sostentamento alimentare basico, del pane e del formaggio. Non
solo ma quest’io è stato scutu spollittu de circufróngias ingius
(‘sbalzato da arcobaleni inti’): dove, qui pure, si sta fra l’intimismo
individuale e l’impegno sociale; fra la disillusione di un’esistenza
più che matura, prossima alla separazione dal mondo, e la caduta
delle speranze di rinascita economica e sociale dell’Isola, resa
impossibile da una politica incapace e tutt’altro che lungimirante.
Segue e continua il paesaggio alienato, ma su temi di tipo sociale o
collettivo: sa terra appettigada de cuaddus furisteris /allattàda
arrexini’ de forestas devastadas (‘la terra calpestata da cavalli
stranieri/allattava radici di foreste devastate’).
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Ambivalente è poi il tu cui è rivolto il componimento: si tratta
di una persona, una persona amata, un amico, o è la terra che si
abbandona e che non può essere condotta in compagnia di sé?
Sembrerebbe quest’ultima l’ipotesi più probabile, visto l’accenno
marcato alla devastazione di una terra calpestata da piede
straniero, che ha sbalzato l’io dai inti arcobaleni. Ma non resta
esclusa neppure la prima in una straordinaria fusione e
intersezione sinfonica di questa doppia tastiera lobiniana. Tutto è
mutato nel segno del disordine: Ammacchiaus ‘s trenus, su ’eranu,
s’obrescidroxu, / de logu tristu a logu tristu comenti ti pozu portai?
(‘Impazziti i treni, la primavera, l’alba/da luogo triste a luogo triste
come ti potrò portare?’). L’unica chance è l’indiferenza
sentimentale, o meglio la resistenza al sentimento, l’indurimento
del cuore, l’oblio:
Coro miu, coru miu, pesa murallas a cellu
Chi no passi nì pena, nì ternura, nì pensamentu;
poni scruzoni’ nieddus a guardia de sa tancadura
chi nisciunu scarìngidi is portas a sa memoria
(vv. 22-26)
(‘Cuore mio, cuore mio, innalza muraglie ino al cielo/che non penetri né pena,
né tenerezza, né preoccupazione/poni nere serpi a guardia della serratura/che
nessuno socchiuda le porte alla memoria’).
Ed anche l’idea e la speranza di poter essere il primo che a
mani nude e disarmate va a cercare le stelle e il primo mattino del
mondo, si scontra contro il cielo basso sopra cammini che si
perdono nella notte. E tutto si spegne: la lampada d’altare, l’ultima
stella, i sogni miei e i tuoi. Resta – e testualmente vi si ritorna con
reiterazione– sa strossa e su scoriu che allùppanta su lantioni,
sofocano la luce del lampione della stazioncina mentre il fazzoletto
del saluto pende da un ramo secco: anche l’addio è negato.
Poesia della disillusione, dell’addio e dell’abbandono; con
valenza di una metaisica che si pone al centro di una pendolarità
che oscilla fra onirico e metaforico; descrizione di un paesaggio
interiore, forse della avanzata età matura del poeta. E di una
maturata consapevolezza che porta l’io e l’Autore a identiicarsi,
attraverso la polisemia che abbiam detto, con la propria comunità,
con il proprio mondo. Il primo mattino del mondo è un qualcosa,
per il soggetto tanto individuale quanto collettivo, da conquistare à
jamais. Forse quel qualcosa espresso dalla poesia successiva, ma
che abbiamo analizzato precedentemente: quello di una ricerca per
la conquista della parola.
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Poesie di snodo queste ultime canzoni di Benvenuto Lobina, e
di snodo doppio: perché esse, da un lato, risigniicano l’attività
poetica precedente e da questa ne sono signiicate. Ma anche
perché, d’altro canto, esse si pongono come un ponte fra le
scritture poetiche e le scritture narrative del nostro Autore,
sempre felicemente in bilico, soprattutto nell’età matura, fra questi
due versanti della scrittura. Scrittura che manifesta una
versiicazione prossima alla prosa ritmica, ma con emistichi o versi
regolari sapientemente calcolati, dislocati e disposti che creano
l’impressione di una meditazione posata e rilessa; mentre la sua
prosa, in specie quella dei racconti, non solo si tinge di echi lirici,
ma di lirica si impasta. Narrazione che, impostata sulla cifra della
metafora, si pone sul limitare di una testualità allegorica, pur, e
sapientemente, senza varcare quel limite.
Le ultime canzoni ricapitolano insomma l’attività precedente,
quasi in una petizione giustiicativa o di licenza allo scrivere che
l’Autore chiede, a posteriori, a se stesso. Non solo, ma esse si
pongono a conclusione di un iter progressivo di acquisizione
poetica e formale da parte di Benvenuto e implicitamente lo
espongono e lo manifestano, limandone le asprezze o
riassorbendole entro una poetica (ri)trovata e resa esplicita.
Senza di esse capiremmo meno la complessa valenza della
prosa di Benvenuto Lobina, e in particolare dei suoi racconti,
anch’essi, nel complesso della triade da questi costituita, oscillanti
fra io e mondo, e visti dalla specola di un io innocente; questi
racconti recuperano una lirica memorialità dell’Autore trasigurata
nella favola. Un mondo anche qui al limite, sul bordo della fantasia
e dell’irrealismo; dell’esperienza liminare della dinamica
psicologica del puer aeternus che è in ognuno, raccontata fra
allegoria e metafora.
In Iacu e su lioni il processo di crescita e del diventare adulto
del protagonista è narrato da una voce che, in terza persona,
guarda al mondo e alle cose con gli stessi occhi ingenui e infantili
di Iacu, e ci riferisce come realtà oggettiva la visione di lui,
favolosa e fantasticante che abolisce il conine fra l’immaginato e il
concreto. Una visione incancellabile, quella per cui il leone dipinto
sul sofitto dalla perizia pittorica e illusionistica del parroco
Nicolao Ligas, padrino del bimbo, diventa agli occhi fantastici di
Iacu un leone vero che lo accompagna inseparabile e gli dà
coraggio e forza aiutandolo a crescere. Quando, adulto, Iacu
tornerà al paese, a Biddanoa, il leone non c’è più sul sofitto della
sua camera, il sofitto è stato imbiancato, e su di esso «fut
abarràda sceti una mància, un’umbra». Il processo di crescita è
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compiuto, Iacu è diventato adulto e i fantasmi immaginari si sono
dissolti. Ma restano due cose: quella macchia, quell’ombra sul
sofitto, anche qui fra metafora e realtà, residuo ultimo del leone
svanito che si fa simbolo del processo di crescita di cui
l’immaginario è elemento costitutivo e imprescindibile: reale,
durevole e indistruttibile ombra dell’/nell’anima: un ‘fanciullino’
interiore. Ed è rimasto il maestro pittore, l’arteice del leone, il
padrino di Iacu, sua ombra e suo alter ego: resta cioè don Nicolao,
pur paralizzato alle gambe in seguito a una caduta mentre
dipingeva sull’ennesimo sofitto l’ennesimo leone. E ora, seduto
sulla sua sedia d’infermo, don Nicolao se ne sta in solitudine
«castiendu sa bòvida, chini scidi eita ddu at a biri». Resta insomma
l’artista, perso nella sua illusione: egli aspetta che la visita del suo
innocente ammiratore da lui ‘illuso’, gli ridia consolazione e vita
interiore. Forse in quella visita Iacu ritroverà il suo leone. E il
racconto di Lobina si fa liricamente metapoetico; assolutamente
avvicinandosi a quella poetica di cui abbiamo appena parlato a
proposito di Is urtimas canzonis.
Senza le quali ancora non capiremmo l’ardire poetico,
estremo e meraviglioso, di In d’una dì ’e soli, la storia di un amore,
quello di Stévuni per la sua asinella Susanna rimasta orfana della
madre poco dopo la nascita. L’ ‘irrealismo’ di questo racconto è
dato dal fatto che l’Autore attribuisce, per il tramite della voce
narrante, sentimenti e atteggiamenti umani all’animale, all’asinella
Susanna. Il normale comportamento animale è risigniicato dalla
voce narrante tramite l’ottica del protagonista, che viene così
oggettivizzata rendendo reale il punto di vista soggettivo. Un
ardire che sottrae, con lirica sapienza, ogni sconveniente scoria
d’impurità alla ‘naturalità’ dell’amore; citerò soltanto poche righe,
quelle conclusive del racconto:
su disìgiu ’e Stévuni fu’ mannu che i su xelu: furriadì, Susanna, oh,
Susanna. Si fudi incrubau, si ddi fudi stendiau a assuba, su tebiori ’e
Susanna e i sa callentura sua, su disìgiu imoi fu’ che una soga chi ddus
trogà’ tot’a is dusu.
E fud’intrau in su xelu.
Ogni residuo impuro o maligno viene sottratto all’innocenza e
dall’innocenza infantile che si specchia nella naturalità animale,
altrettanto innocente metafora dell’amore disinteressato, e ciò per
il tramite del ‘punto di vista narrativo’: attraverso il quale parla il
’fanciullo’ e l’istanza che lo sorregge in esso incarnandosi.
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Oppure v’è ancora la folle credulità dello strampalato Arraieli
Palmas, che non si sa bene se sia un millantatore che vanta
un’incredibile e amicale conidenza nientedimeno che con Sua
Maestà d’Italia Umberto I e con le dame di corte alle quali
insegnava, pensate un po’, la lingua sarda:
Palmas fut su spàssiu de totu sa corti, ma non poita calincunu
s’indèssit fattu befas, ma poita… Palmas fut Palmas, un personaggio di
un altro mondo, comenti naràt Margherita, unu chi a corti parìat nàsciu
e pesau, e no ddu ìat dama o dignitario chi no s’èssit frimau a arrexonai
cun issu, si ddi capitâda a tretu, mancai Palmas èssit fueddau feti in
sardu. E chi no ddu comprendìat peus po issu. «Impara su sardu, chi mi
’ollis cumprendi» – narât Palmas. E parìat chi su sardu calincunu dd’èssit
imparau diaderu. Finzas e una dama, a quanto si dice in giro, aveva
preso qualche lezione in privato…
Un millantatore, appunto, o forse meglio un ingenuo uomo di
villaggio che non conosce le astuzie e le complicatezze della città e
del mondo, e soprattutto è inconsapevole delle distanze
interpersonali che lo reggono; inché dovrà scoprire tutto ciò nella
calcolata e cinica freddezza del potere, incurante della tragedia
che improvvisamente accade. In mezzo alla tragedia, Arrafieli
saluterà il re, col sua Bonas tardas Magestà!, ma con un risolino
amaro che segna la sua propria presa di coscienza: la
comprensione di uno iato semiotico, la plurivocità delle parole e
dei gesti, la complessità del signiicare.
L’uomo ruvido, ingenuo e paesano si fa disincantato poeta,
poeta di se stesso e doppio dell’Autore. Di un Autore in cui verso e
prosa non hanno un conine netto che li separi e inventano una
lingua.
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