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Bellerofonte o della sconfitta

Riflessioni sull'influenza di Friedrich Nietzsche nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese

A.A. 2016/2017 Letteratura italiana contemporanea D Bellerofonte o della sconfitta L'influenza del pensiero di Friedrich Nietzsche ne La Chimera di Cesare Pavese Francesco Pattacini N° Matricola: 806504 Corso di laurea magistrale in Culture Moderne Comparate Introduzione Sin dalla loro pubblicazione nel 1947 i Dialoghi con Leucò furono, in tutta la produzione pavesiana, il libro a cui il loro autore si sentiva più legato. Fu proprio su queste pagine che Pavese scrisse le ultime parole prima di darsi la morte nell'agosto del 1950. Un legame che pochi suoi contemporanei riuscirono a comprendere, e di cui lo stesso autore si lamentava con gli amici, scrisse infatti all'amica Bona Alterocca in una lettera del dicembre '47: «Leucò è un maledetto libro su cui nessuno osa pronunciarsi: tutti “stanno ancora leggendolo”»1. Il problema fu, da una parte, la sua struttura inusuale, che si distaccava parecchio dalla produzione dell'autore torinese, e dall'altra l'argomento trattato, quello del mito, ancora legato a un mondo accademico chiuso e ostile alle novità. Furono in pochi a comprendere l'importanza dei Dialoghi, come spesso accadde alle opere di Pavese, contribuendo a gettarlo in un clima di dolore e solitudine, fino alla drastica scelta definitiva. Paradossalmente, però, proprio in questa opera è possibile trovare gli ultimi residui di un pensiero mai banale che cerca, attraverso la mitologia greca, di indagare sull'uomo sopravvissuto al secondo conflitto mondiale, finendo per ricostruirne l'interiorità dove sembrava non potesse nascere più nulla. Il tentativo di questa ricerca sarà appunto di indagare all'interno dei Dialoghi, in particolare ne La Chimera, questo tentativo di ricostruzione che nasce dal sentimento della sconfitta dell'uomo nei confronti della vita e delle sue sfide. Fondamentale per comprenderlo sarà ricostruire il rapporto che Pavese instaurò con le opere del filosofo Friedrich Nietzsche (1844 - 1900) che, come vedremo, sarà fra le influenze maggiori all'interno dell'opera. Fedele allo stile che ha contraddistinto tutto il suo percorso intellettuale e letterario, Pavese, non si accontenta di presentare i temi cari ai pensatori che più l'hanno affascinato, ma li riconsidera in maniera originale e personale, facendoli aderire, così, al suo pensiero. Per questo motivo, lo studio dei classici del pensiero filosofico e della mitologia greca, fungono da strumenti di comprensione per i ventisette dialoghi e non viceversa. Pavese non ci introduce a uno studio parallelo del grande autore greco («Superfluo fare Omero» scrive nella breve prefazione a I due, dialogo fra Patroclo e Achille), né a un compendio delle tante filosofie che pure devono averlo interessato (fra cui Bergson, Vico e il già citato Nietzsche). La Chimera è, probabilmente, uno dei dialoghi più intensi ed enigmatici dell'intera opera. L'immagine di Bellerofonte, vecchio e solo, che è rimasto senza avversari se non quell'ultimo scontro con la vita da cui è impossibile scampare, riassumono bene il pensiero pavesiano dell'ultimo periodo. Ricercare le radici di questo male sarà allora fondamentale per aggiungere un po' di chiarezza ai Dialoghi con Leucò che, seppur riconosciuti fra le migliori produzioni del loro autore, ancora stentano a uscire allo scoperto. 1 I. Calvino (a cura di), Cesare Pavese: Lettere 1945-1950, Einaudi, Torino 1966, II, p. 203. 1 1. I Dialoghi con Leucò e il mito dell'uomo moderno. 31 ottobre 1946 Nei dialoghetti gli uomini vorrebbero le qualità divine; gli dei le umane. Non conta la molteplicità degli dei – è un colloquio tra il divino e l’ umano. C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino, 1971, p. 310. Con la Liberazione Pavese può tornare finalmente a Torino, dove viene a conoscenza della scomparsa di alcuni suoi cari amici, morti durante la sua assenza. Colpito dai rimorsi inizierà ad isolarsi e la sua produzione si farà sempre più tetra, come testimoniato ne La luna e i falò e, soprattutto, nella raccolta poetica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sono questi anni drammatici ma anche pieni di febbrile attività letteraria e sociale. Proprio al 1945 risalgono i primi appunti riferiti ai Dialoghi con Leucò e a Il compagno, a testimonianza dell'impegno preso con il Partito Comunista Italiano, a cui Pavese si era legato nello stesso anno. Comincia, così, la scrittura di questi ventisette brevissimi racconti che si ispirano a personaggi e scene ai margini della mitologia classica. Non vengono rappresentate, infatti, scene omeriche di grandiosità né di azione, nemmeno quando a essere descritti sono i grandi eroi ellenici (Achille, Bellerofonte e tanti altri), quanto piuttosto le parti più umane e interiori, anche a cospetto delle divinità, che possono fungere da punto di raccordo per la costituzione di una moderna mitologia, in grado di riempire il vuoto lasciato negli esseri umani dalle atrocità della seconda guerra mondiale. Il mito si costituisce così come «(...) un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null'altro potrebbe rendere»2. Un vivaio di simboli, quindi, in cui ritrovare le radici costitutive dell'uomo moderno. L'uso del mito permette a Pavese di indagare, tramite passaggi densi e ricchi di complessità, l'essere dell'uomo alle radici della sua storia sfruttando, principalmente, i momenti di maggiore tensione. Scrive l'amico Calvino nell'opuscolo di presentazione del catalogo Einaudi per le librerie: «In questi Dialoghi Pavese fa a ritroso il cammino della storia e ricerca, alle origini degli antichi miti greci, gli oscuri motivi umani che in essi si sono espressi»3. È possibile ricostruire, utilizzando le prefazioni inserite all'inizio dei racconti, una sorta di indice tematico, in cui l'uomo è colto nelle sue problematicità più importanti: la sconfitta e la solitudine (La Chimera, La nube); la sfera erotico-sessuale (Gli Argonauti, L'inconsolabile, Schiuma d'onda, La belva); l'infanzia (I due, La madre); lo scontro dell'uomo con il destino, nel tentativo di autoaffermazione (In famiglia, La rupe, Le Muse). La scelta di questi argomenti non può che essere legata al rapporto che instaurano con l'uomo, che risulta così l'unico protagonista dei Dialoghi 2 PAVESE 1947, p. 33. 3 I. Calvino, Bollettino di Informazioni Culturali, Einaudi, Torino, 1947, 10, pp. 2-3. 2 anche quando, ad esempio, non è presente ma solo fonte del male (La vigna, Schiuma d'onda). Tutti, come già visto, in direzione di un risveglio e una ricerca essenziale all'uomo per comprendersi: ORFEO. Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso. BACCA. Vale la pena di trovarsi in questo modo? C'è una strada più semplice di ignoranza e di gioia. (…) ORFEO. Non parlare di giorno, di risveglio. Pochi uomini sanno (…). PAVESE 1947, p.110. All'interno de Il mestiere di vivere, il diario intimo pubblicato due anni dopo la morte, Pavese ritorna più volte su questa necessità di riscoprire l'uomo che, appunto, è rintracciabile nel colloquio fra il divino e l'umano. Fondamentale è comprendere l'accezione che il termine divino assume in questa circostanza. Limitarlo all'uso che ne facciamo comunemente, riconducendolo quindi alla sola sfera religioso-sovrannaturale, significherebbe ignorare il campo di azione su cui Pavese vuole concentrarsi, cioè la ricostruzione dei simboli e del modo di intendere l'uomo. Il divino dei Dialoghi con Leucò è da intendersi come una sfera in continuo divenire, dove mortale ed eterno si confondono e si mescolano insieme senza diventare dottrina né dogma, agendo contemporaneamente dentro e fuori lo spazio della comprensione umana ma mai in maniera indipendente. La forma dialogica, dopotutto, presuppone un'interazione fra le parti dialoganti, e che a domanda corrisponda una risposta verbale, ben lontana, quindi, dal discorso spirituale tipico del cattolicesimo. Siamo arrivati, così, a una considerazione importante e che salda il legame fra Pavese e Nietszche. Se per il filosofo tedesco l'Übermensch poteva nascere solo dalla negazione di tutte le ipocrisie che relegavano l'uomo a uno stato di minorità (fra cui l'oppressione religiosa) consentendogli, così, di raggiunge un nuovo stadio della coscienza, similmente lo scrittore torinese rintraccia nelle radici di una società primordiale la linea interpretativa dell'uomo a lui contemporaneo. Due linee di pensiero che si avvicinano ma che sono destinate a pervenire a due conclusioni diametralmente opposte. 1.2 L'influenza di Friedrich Nietzsche nell'opera di Pavese. Il legame tra Nietzsche e Pavese è stato più volte affrontato dalla critica contemporanea, soprattutto in riferimento alle opere più connotate da un certo tipo di crepuscolarismo. Non si è mai trattato di un rapporto limpido ed evidente, quanto di una relazione silenziosa da rintracciare nei passaggi più intensi della sua produzione. Nei Dialoghi con Leucò, principalmente in alcuni passaggi, questa influenza si manifesta chiaramente. L'uso della mitologia e del mondo greco, più volte assunto da Nietzsche come termine di paragone e radice della situazione a lui contemporanea, è soltanto uno 3 degli aspetti più immediati e superficiali del filo che avvicina i due autori. Leggendo alcuni passaggi dei Dialoghi il tratto nietzschiano si manifesta improvvisamente, per poi venire di nuovo nascosto nel procedere della asserzioni, preservando ostinatamente la matrice dell'originalità pavesiana. Per questo i riferimenti non si limitano soltanto a un'opera in particolare ma, all'occorrenza, spaziano in tutta la produzione del filosofo tedesco. Possiamo rintracciare così il tema centrale de La nascita della tragedia, il serrato contrasto fra spirito apollineo e dionisiaco, ne I ciechi di Pavese, dove lo scontro è rappresentato da dèi e mondo: TIRESIA: Il mondo è più vecchio di loro [gli dèi, NdR]. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l'unico dio – quando il tempo non era ancora nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose – adesso attraverso gli dèi tutto è fatto, parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi. Ivi, p. 49. Un tema, quello del contrasto fra il mondo degli artefatti e quello della natura, che ricorre più volte all'interno dei Dialoghi, come nel caso del confronto fra Prometeo ed Eracle ne La rupe. In questo caso il confronto si configura su un nuovo piano. Non avremo più soltanto l'iniziale conflitto fra apollineo e dionisiaco, ma il superamento dello stesso, approdando al nichilismo tipico di Così parlò Zarathustra. Dice infatti colui che consegnò il fuoco all'umanità: «Tutto non si può dire. Ma ricòrdati sempre che i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t'incutono. Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno» 4. Lo Zarathustra ricorre più volte in quest'opera di Pavese, in tutte le sue diverse accezioni. Si può scorgere infatti un eco della nascita dell'Übermensch ne Le cavalle, quando Chirone chiarisce a Ermete la sua origine e il suo destino: «Bimbetto, era meglio se restavi nel fuoco. Tu non hai nulla di tua madre se non la triste forma umana. Tu sei figliolo di una luce abbacinante ma crudele, e dovrai vivere in un mondo di ombra esangue e angosciosa. (…) La stessa luce che ti ha fatto frugherà il mondo, implacabile, e dappertutto ti mostrerà la tristezza, la piaga, la viltà delle cose. Su di te veglieranno i serpenti» 5. Un dialogo molto simile a quello che Zarathustra affronterà insieme al giovane incontrato nell'episodio Dell'albero sul monte: «Perché ti spaventi per questo? Accade con l'uomo come per l'albero. Più egli vuole levarsi su verso l'alto e verso la luce, e con sempre maggior forza le sue radici cercano di penetrare nella terra, già nel profondo, nelle tenebre, nel male» 6. Il concetto dell'eterno ritorno, che Nietzsche stesso fa risalire alla grecità, è fra i temi fondamentali, al pari della solitudine e del tentativo dell'uomo di innalzarsi che costituirà il nucleo centrale de La Chimera. Pavese concentra nei suoi brevissimi racconti una molteplicità di riferimenti e significati, mescolando insieme elementi di libri diversi (in cui Così parlò Zarathistra e La nascita della 4 Ivi, p. 104. 5 Ivi, p. 55. 6 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Longanesi, Milano, 1972, Vol. I, p. 77. 4 tragedia sono soltanto i più ricorrenti) che contribuiscono a creare quel vivaio di simboli che si era preposto sin dalle prime pagine. L'interpretazione personale dei diversi dialoghi è, per questo, l'unico modo in cui la mitologia moderna può formarsi e sedimentare il progetto di ricostruzione dell'uomo. 2. La Chimera, origini del mito di Bellerofonte. Era il mostro d'origine divina lïon la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco. E nondimeno col favor degli Dei l'eroe la spense. Pugnò poscia co' Sòlimi, e fu questa, per lo stesso suo dir, la più feroce di sue pugne. Domò per terza impresa le Amazzoni virili. Omero, Iliade, VI, 222- 230. Come spesso accade per gli eroi della mitologia greca anche la storia, e la genealogia, di Ipponoo, il vero nome di Bellerofonte, presenta numerose discordanze fra le versioni. Secondo la variante omerica, generalmente accettata dai critici, sarebbe stato figlio di Glauco ed Eurimede di Corinto, la città fondata dall'antenato Sisifo. In altre versioni, fra cui le Fabulae di Igino e i frammenti di Euripide, viene presentato come discendente di Poseidone. Resosi protagonista dell'omicidio involontario del re Bellero (da cui il soprannome che sta letteralmente a indicare “uccisore di Bellero”) fu costretto a fuggire a Tirinto, presso Preto, sacerdote in grado di purificare le anime. La moglie di quest'ultimo, Stenebea, si invaghì del giovane e, non corrisposta, aizzò il marito contro di lui, chiedendogli di ucciderlo. Per via della Xenia, le leggi greche circa i doveri dell'ospitalità, Preto mandò Bellerofonte in Licia da Iobate, padre di Stenabea, il quale non sentendosi di compiere il gesto di estremo di cui era stato incaricato gli chiese di combattere contro la Chimera, un mostro con testa di leone, corpo di caprone e coda di serpenti in grado di sputare fuoco. Alla maggiore impresa corrispondono, nuovamente, diverse interpretazioni. Alcune prevedono la presenza di Pegaso, il cavallo alato che Bellerofonte con l'aiuto di Atena avrebbe rubato a Zeus, mentre in Omero non ce n'è traccia. Sconfitto il mostro, gettandogli del piombo nella bocca che fondendosi lo soffoca, Bellerofonte ritorna vittorioso in Licia ma ancora una volta viene incaricato di sconfiggere prima il popolo dei Solimi e, infine, le Amazzoni. Iobate, impressionato dalle vittorie e dal coraggio di Bellerofonte, gli confessa i piani di Preto e Stenabea, dandogli poi in moglie l'altra figlia e rendendolo erede al trono della Licia. Davanti alle disgrazie e alla povertà in cui finisce, fra cui la morte precoce del figlio Isandro, Bellerofonte giunge a dubitare degli dèi e in un ultimo slancio di coraggio tenta di scalare il monte Olimpo in cerca di risposte. Gli dèi lo puniscono disarcionandolo ma, tuttavia, l'eroe greco sopravvive alla caduta, rimanendo infermo, fino al sopraggiungere della 5 morte: Di un Bellerofonte triste e abbandonato parla approfonditamente Euripide nell'omonima tragedia perduta di cui ci sono rimasti soltanto novanta versi. Qui l'uccisore della Chimera, ormai in povertà, riflette sulle proprie sfortune, mettendo in discussione l'esistenza stessa degli dèi, rei di non fare nulla per aiutarlo e per porre fine alle ingiustizie, fino alla caduta e alla morte. Oltre al sesto libro dell'Iliade, a cui Pavese accenna nella breve introduzione a La Chimera («Della tristezza che consunse nei tardi anni l'uccisore della Chimera (…) ci parla nientemeno che Omero (...)»7), è molto probabile che persistano riferimenti ai frammenti euripidei, soprattutto per la connotazione tragica del personaggio. Ne La Chimera dei Dialoghi il figlio Ippòloco e il nipote Sarpedonte sono intenti a parlare delle sventure di Bellerofonte che, ormai, sembra aver perso la ragione e si limita a ripercorrere tristemente il proprio eroico passato, simboleggiato dal mostro mitico che ha sconfitto. Come tutti gli uomini anche Bellerofonte sul finire della vita si sente solo e a nulla gli è valso vincere i nemici più pericolosi se, al pari dei più deboli e mediocri, è costretto a morire. Il sentimento della sconfitta, l'ingiuria agli dèi e l'ostinazione nel cercare nuovi avversari da combattere lo pongono come simbolo di un'umanità destinata a perdere e lo collegano direttamente al pensiero nietzschiano intorno all'uomo nuovo che deve nascere dalle proprie ceneri, con un'ultima e crepuscolare affermazione: IPPÒLOCO: E perché non si uccide lui che sa queste cose? SARPEDONTE: Nessuno si uccide. La morte è destino. Non si può che augurarsela, Ippòloco. PAVESE 1947, p. 46. 2.1 Bellerofonte o della sconfitta. La figura di Bellerofonte nella rappresentazione che ne dà Pavese, non si discosta molto da quella di Euripide. L'uccisore della Chimera e di tanti gloriosi nemici si ritrova a vagare solo e disperato per la città, senza più riconoscere i propri figli. Il ricordo delle propria gesta lo conduce a riflessioni drammatiche, che lo fanno sprofondare nella disperazione e nell'ingiuria agli dèi, colpevoli di non avergli tributato i meriti che gli spettavano. Il sopraggiungere della vecchiaia conduce Bellerofonte, un tempo forte e vincente, alla più estrema delle riflessioni: non serve a nulla riempirsi di onori e compiere grandi gesta se, poi, il destino di ogni uomo sarà sempre la morte. Non bisogna dimenticare, per dare ancora più valore a questa affermazione, di come il mondo greco si basasse fortemente sulle separazioni gerarchiche. Esistono divinità maggiori e minori e, all'interno della società, una netta divisione fra chi poteva essere considerato cittadino e chi, invece, ne era escluso (donne, schiavi, stranieri...). Il sentimento della sconfitta, per questi motivi, si configura nella più dolorosa delle dichiarazioni, non distante dal concetto di nichilismo passivo dello Zarathustra di 7 Ivi, p. 42. 6 Nietzsche, secondo cui convincere l'uomo che la vita abbia uno scopo è la peggiore delle calunnie. Bellerofonte scopre, a questo punto, come tutto ciò che l'aveva sempre guidato in realtà sia artefatto e, per questo, non può che accusare gli dèi che pure, nella giovinezza, aveva sempre servito con onore. Dice, a questo proposito, al nipote Sarpedonte: «'Ragazzo' mi dice, 'quest'è la beffa e il tradimento: prima [gli dèi, ndr] ti tolgono ogni forza e poi si sdegnano se sarai meno che uomo. Se vuoi vivere, smetti di vivere...'»8. L'unica Chimera, solo ora Bellerofonte lo comprende, è la vita stessa, l'unico nemico che è impossibile da sconfiggere e che, alla fine di tutto, l'avrà vinta. La sconfitta è quindi definitiva e, nonostante lo abbia compreso, la soluzione finale non è la stessa invocata da Zarathustra. Non c'è alcun avanzamento o approdo al nichilismo positivo né, tanto meno, spazio per la nascita di un uomo nuovo. Quello che rimane sono le ceneri di un mondo che non conosce più ed è finito per odiare, insieme alle divinità che lo hanno tradito, come accaduto per i suoi antenati Sisifo e Glauco. SARPEDONTE: Tuo padre accusa l'ingiustizia degli dèi che hanno voluto che uccidesse la Chimera. 'Da quel giorno' ripete, ' che mi sono arrossato nel sangue del mostro, non ho più avuto vita vera. Ho cercato nemici, domato le Amazzoni, fatto strage dei Solìmi, ho regnato sui Lici e piantato un giardino – ma cos'è tutto questo? Dov'è un'altra Chimera? Dov'è la forza delle braccia che l'uccisero? Anche Sisifo e Glauco mio padre furon giovani e giusti – poi entrambi invecchiando, gli dèi li tradirono, li lasciarono imbestiarsi e morire. Chi una volta affrontò la Chimera come può rassegnarsi a morire?' Ivi, p. 44. Bellerofonte non supera la stasi che Zarathustra ravvisa nell'uomo che ancora non ha accettato la morte della divinità e stenta a comprendere il valore dell'eterno ritorno. È in questo passaggio che lo scarto fra Nietzsche e Pavese si chiarifica definitivamente. Si trovano in questi passaggi i germi di quello che sarà l'ultimo, e il più decadente, periodo della produzione dello scrittore torinese. L'onnipresenza della morte, si ricordino i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi («(...) Questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso /o un vizio assurdo»9.), e il modo di accettarla sono, tanto per Pavese quanto per Bellerofonte, ciò che rendono l'uomo quello che è. A nulla valgono le illusioni del nichilismo attivo se davanti alla morte, poi, tutto svanisce. Bellerofonte non è l'Übermensch che sorge, i segni di debolezza e fragilità sono proprio i motivi che non gli permettono di rassegnarsi ma, anzi, lo spingono a tentare la scalata verso l'Olimpo per potersi, infine, accettare nella propria umanità imperfetta (se vuoi vivere, smetti di vivere). Nietzsche diventa così il punto di partenza per la riflessione attorno all'uomo nuovo ma che riconduce Pavese all'accettazione che una svolta positiva sia impossibile, e non ci sia nessuna necessità di rinascere. L'uomo pavesiano de La Chimera diventa, paradossalmente, quello della 8 Ivi, p. 46. 9 C. Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1961, p. 165. 7 sconfitta da cui è impossibile fuggire e, in questo scarto, l'unico contemplabile e utile a un progresso. Il mito della Chimera diventa così un monito ai tanti che vogliono compiere grandi azioni in nome della nascita di un uomo superiore, come a quelli che si rassegnano alla loro condizione mortale. Pavese non si limita soltanto a un'allegoria delle imprese eroiche ma arriva al nucleo della questione: il sentimento della sconfitta è soltanto la nostalgia di un passato che non può ritornare, a differenza delle affermazioni nietzschiane, e rimanere nella sua ombra impedisce all'uomo di progredire. Allo stesso modo degli altri personaggi dei Dialoghi, Bellerofonte diventa un simbolo all'interno del vivaio da cui prendere insegnamento. L'uomo uscito dalla seconda guerra mondiale, in cui attorno perdura la distruzione, deve ricostruirsi sotto ogni aspetto per potersi permettere di nuovo la vita e questo passaggio comprende, inevitabilmente, anche la morte e il ricordo di quello che è stato: IPPÒLOCO: Che importa? Non serve pensarci. Di quei destini non rimane nulla. SARPEDONTE: Rimane il torrente, la rupe, l'orrore. Rimangono i sogni. Bellerofonte non può fare un passo senza urtare un cadavere, un odio, una pozza di sangue, dei tempi che tutto accadeva e non erano sogni. Il suo braccio a quel tempo pesava nel mondo e uccideva. PAVESE 1947, pp. 45-46. La mitologia dell'uomo moderno è così configurata, libera dalle influenze del passato ma che lì ritorna, in costante confronto con le singole individualità. È questo l'insegnamento maggiore che Pavese trae dallo studio di Nietzsche, in cui nulla ritorna ma tutto deve essere ricordato. 8 Conclusioni Analizzando le parti più profonde de La Chimera, prese insieme a tutte le altre indicazioni dei Dialoghi, è possibile comprendere quanto, per Pavese, fosse determinante l'analisi della situazione interiore, personale e generale, dell'uomo in uscita dalla seconda guerra mondiale. Il modo inusuale in cui lo fa, questo uso del mito, è stato principalmente la causa della sottovalutazione dei Dialoghi. In quella parte del '900, soprattutto caratterizzata culturalmente da esistenzialismo e neo-realismo, le risposte dovevano essere chiare e immediate, pronte a coprire i sopravvissuti dalle atrocità che li avevano lasciate così vuoti. Pavese, invece, sceglie la strada più dura, mascherando sotto immagini relativamente distanti nel tempo e che necessitano più di una riflessione, i significati utili alla ricostruzione. Non è un caso che anche Albert Camus, ben prima dello scrittore torinese, ricorra proprio al mito di Sisifo (pubblicato nel 1942), per rappresentare la condizione dell'uomo, in cui la roccia ha la stessa valenza della Chimera di Bellerofonte. Una risalita impossibile e dolorosa che conduce alla stessa identica conclusione: una nuova salita per l'autore francese, la presenza della morte per Pavese. C'è molto ancora da approfondire nei Dialoghi con Leucò e tanti significati che, probabilmente, non raggiungeremo mai, ma le prerogative da cui questa ricerca partivano si sono in parte confermate. L'approfondimento delle opere di Nietzsche, fra i simboli di quel passato che non si può dimenticare, permette di comprendere come Pavese sia stato in grado di assimilare l'ambiente culturale precedente per attualizzarlo davanti ai grandi errori della storia. Il pensiero nietzschiano ha mostrato le sue incapacità di rappresentazione (in cui la distorsione messa in atto dal nazismo è solo una delle tante) e non ha portato al progresso sperato. L'eterno ritorno si ritrova anche in questo, nel ritornare sempre a certe parti della filosofia che, specialmente dopo la seconda guerra mondiale, venivano oscurate da una certa critica di comodo. Pavese è sempre stato un autore sopra le righe, mai soddisfatto e, di certo, mai rassegnato alle circostanze. Il suo ritorno a Nietzsche serve, appunto, da contraltare per la costituzione dei nuovi significati di cui l'uomo sente il bisogno. Per non ripetere gli stessi errori o, forse, soltanto per dare il giusto tributo a un autore che, nel bene e nel male, ha lasciato un profondo solco nella nostra concezione del mondo. La Chimera di Bellerofonte è, possiamo dirlo alla luce di quanto detto, la stessa che Pavese si è ritrovato avanti per tutta la vita e che, alla fine, l'ha vinto in quella camera d'albergo, ed è la stessa con cui tutti, a secoli di distanza, dovranno fare i conti. Folgoranti saranno quindi le parole che Calvino, a proposito del suicidio, spenderà per l'amico e collega tristemente scomparso: «Troppo si parla d’un Pavese alla luce del suo gesto estremo e troppo poco alla luce della sua battaglia vinta giorno per giorno sulla propria spinta autodistruttiva»10. 10 I. Calvino, Pavese: Essere e fare (1960) in Saggi 1945 – 1985, Mondadori, Milano, 1995, p. 78. 9 Bibliografia FONTI PRIMARIE PAVESE 1947 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Oscar Mondadori, Milano, 1975. PAVESE 1952 C. Pavese, Il mestiere di vivere, Il saggiatore, Torino, 1971. NIETZSCHE 1883 F. W. Nietzsche, Così parlo Zarathustra, (trad. it. di L. Scalero), Longanesi, Milano, 1972. ALTRI TESTI CONSULTATI I. Calvino, Bollettino di Informazioni Culturali 10, Einaudi, Torino, 1947. I. Calvino (a cura di), Cesare Pavese: Lettere 1945-1950, Einaudi, Torino 1966. I. Calvino, Pavese: Essere e fare (1960) in Saggi 1945 – 1985, Mondadori, Milano, 1995. F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia, (trad. it. di S. Giammetta), Adelphi, Milano, 2013. Omero, Iliade, (trad. it. V. Monti), Societa tipografica dei classici italiani, Milano, 1825. C. Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1961. ARTICOLI E APPROFONDIMENTI E. Cavallini, Cesare Pavese e la ricerca di Omero perduto: dai Dialoghi con Leucò alla traduzione dell’Iliade, in Omero Mediatico. Aspetti della ricezione omerica nella civiltà contemporanea, a cura di E. Cavallini, Dupress, Bologna 2010, pp. 97-132. D. Vitagliano, Les Dialoghi con Leucò de Cesare Pavese, une mythologie fondée sur l’homme, Cahiers d’études romanes, 27, 2013, pp. 529-544. 10 Indice: Introduzione..................................................................................................p. 1 1. I Dialoghi con Leucò e il mito dell'uomo moderno..................................p. 2 1.2 L'influenza di Friedrich Nietzsche nell'opera di Pavese............p. 3 2. La Chimera, origini del mito di Bellerofonte...........................................p. 6 2.1 Bellerofonte o della sconfitta......................................................p. 7 Conclusioni..................................................................................................p. 9 Bibliografia.................................................................................................p. 10 11