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>>>> editoriale
L’attualità di una sconfitta
>>>> Gennaro Acquaviva
B
ettino Craxi le commemorazioni le ha sempre vissute
con disagio. Anzi, per essere sinceri, non gli piacevano
per niente. Anche se le riusciva a costruire come esercizio di
retorica politica rimanevano per lui un genere di discorso
pubblico difficile da maneggiare, probabilmente perché
comunque implicavano l’esistenza di un confine, quello tra la
vita e la morte, da cui preferiva ritrarsi.
E’ per questa ragione che la moltiplicazione delle “pillole”
commemorative e toponomastiche cui abbiamo assistito in
questi giorni, come fossero un preliminare ai fuochi d’artificio della ricorrenza decennale della sua morte, non mi pare
una modalità utile da seguire nel ricordarne la figura ed il ruolo nella storia d’ Italia. E per di più sulle pagine della rivista
che fu, anche per lui, strumento importante di elaborazione e
di lotta politica socialista.
Più utile, ma anche più serio, è tornare dunque ad interrogarsi sull’opera politica di Bettino Craxi quale essa realmente fu:
come uomo di partito e, senza contraddizione, servitore delle
istituzioni repubblicane. Questo proseguiamo a fare, partendo
dall’idea che ogni giudizio storico è sempre un giudizio sul
presente ed insieme una interrogazione indirizzata all’avvenire; e che cercare di comprendere cosa fu la politica mossa dall’uomo che dominò l’ultima fase della prima Repubblica
significa indagare prima di tutto dentro noi stessi, rispondere
alla domanda di cosa di vivo e di utilizzabile è rimasto di
quella esperienza, di cosa di durevole e quotidiono ad un tempo di essa si è tramandato nella vita dell’Italia, infine di che
cosa di quella vita ci sentiamo ancora capaci di trasmettere a
coloro che verranno dopo di noi.
Craxi fu socialista per tutta la vita, dalla nascita alla morte; e
dal momento in cui smise i calzoni corti fu un figlio del partito, nel senso più pieno e tradizionale che questa scelta di vita
aveva nella sua epoca, che era quella dominata dalla “Repubblica dei partiti”. Il socialismo del suo partito egli riuscì a
modificarlo nel profondo, trasformandolo in maniera irreversibile in un moderno riformismo liberale, con ciò consentendo che si potesse legare ad esso una classe dirigente innova-
tiva; il modello di sistema politico che egli ereditò dalla
Repubblica del 1948, quello fondato su di un “bipartitismo”
obbligatoriamente “imperfetto”, e che postulava un primato
del partito sullo Stato di surrettizia derivazione fascista, egli
non fu in grado di rimuoverlo: con la conseguenza di finire
con l’essere la prima e principale vittima dell’ inevitabile
crollo che seguì al blocco del sistema.
Minoritario e marginale da ogni punto di vista in quella
“Repubblica dei partiti”, Craxi tentò di spezzare i vincoli consociativi che ne derivavano appena potè muoversi, alla prima
occasione utile. Agli inizi degli anni ’80, utilizzando fino in
fondo quella che sarebbe stata, storicamente, l’ultima “chiamata alla fedeltà” di una guerra fredda ormai agli sgoccioli,
fu in grado di dare finalmente concretezza alla sua linea della governabilità: una bandiera che cavalcò spregiudicatamente, ma che era tanto necessaria al paese quanto impraticabile
per gli interessi del sistema partitocratico dominante. Essa lo
portò alle realizzazioni della sua splendida stagione di governo, durante la quale Craxi fu in grado di dimostrare concretamente che era possibile andare oltre la “Repubblica dei partiti” e che rimuovere il vincolo consociativo che, morto De
Gasperi, ne era derivato era concretamente fattibile, almeno
politicamente se non ancora istituzionalmente.
Se oggi proviamo a ricapitolare il risultato sistemico che egli
realizzò tra il 1983 e il 1987, possiamo farci un’idea concreta della straordinarietà di quella esperienza. Allora un leader
forte che aveva dimostrato di non essere condizionabile da
mandarinati e doroteismi di ogni colore riuscì a saldare il suo
buon governo con un’apertura ai ceti e agli interessi emergenti che era insieme credibile e funzionale al progresso collettivo; ne derivò un corto circuito diffuso, che iniziò ad interrompere antichi consociativismi, operando concretamente nel
ridisegnare e modificare la rete corporativa che aveva fruttificato su di essi.
È in questo quadro che va collocato anche l’aumento della
corruzione che si realizzò in quegli anni, giacchè esso muoveva da una ragione politica propria: un movimento in qualeditoriale / / / / mondoperaio 1/2010
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che maniera fisiologico, come era sempre avvenuto in fasi di
accentuata trasformazione, ed il cui rischio sistemico derivava propriamente dal suo essere garantito pur collocandosi
dentro un’ istituzione senza ricambio.
Constatata l’impraticabilità di nuovi equilibri politici e posto
violentemente di fronte all’arroganza tutta partitocratica della
chiamata alla “staffetta”, Craxi si trovò allora di fronte ad un
bivio decisivo per la sua esperienza politica, nata ed in qualche maniera determinata dalla sua capacità di collegarsi e
quasi di prefigurare la praticabilità della riforma del sistema.
La scelta era così schematizzabile: procedere alla modifica
per vie interne al sistema politico, cioè per via parlamentare,
con qualche speranza di graduarne il percorso utilizzando il
messaggio della “grande riforma” ma sostanzialmente
seguendo le convenienze e gli equilibri della DC; o andare ad
una chiamata al popolo, sposare quella via plebiscitaria che
già gli aveva consentito, nel 1984-1985, di rompere il cerchio
consociativo su un punto importante della costituzione materiale su cui si fondava la “Repubblica dei partiti”, e cioè la
rappresentanza assegnata in maniera pressoché esclusiva al
PCI nel mondo del lavoro.
La scelta che Craxi fece nel febbraio-marzo del 1987, e che
fu la ragione preliminare della sua sconfitta di cinque anni
dopo, è tuttora di grande attualità giacchè essa si ripropone
sostanzialmente, con il medesimo dilemma, di fronte agli
attori politici di oggi; naturalmente con le aggravanti che
sono sotto gli occhi di tutti determinate dal permanere di una
condizione di stallo che dura da almeno diciotto anni, e che è
sostanzialmente riconducibile agli interrogativi non risolti
dalla sconfitta di Craxi.
Nel momento certificato della sua sconfitta, nel luglio del
1992, il leader socialista fu in grado di esporre, dal suo scranno di deputato che lo aveva visto protagonista per ben sette
legislature, non solo la verità inconfutabile circa il finanziamento illegale dell’intero sistema politico, ma l’esatto percorso di quanto sarebbe accaduto ove non si fosse posto rimedio,
utilizzando naturalmente gli strumenti della politica, “alla
disgregazione e all’avventura” incombenti.
Quell’appello profetico è significativo non solo perché proveniva da uno spirito che era sempre stato libero e che tale
rimase fino alla morte, ma perché parlava il linguaggio della
politica, richiamando tutti alle responsabilità collettive di
fronte alle conseguenze sistemiche che camminavano dentro
la crisi. Oggi, di fronte a tutti noi, alle classi dirigenti come al
popolo italiano, lo scenario che possiamo contemplare non è
molto mutato da quella condizione di stallo politico che costimondoperaio 8/2009 / / / / editoriale
tuiva allora il punto centrale del dilemma craxiano. Come
allora, di fronte al bivio della riforma non voluta ma indispensabile, si aprono due percorsi, quello parlamentare e
quello plebiscitario; come allora, di fronte ad un Parlamento
oggi addirittura oligarchico, si ripropone l’avvertimento,
declamato da Cossiga, di un potere costituito incapace di
essere potere costituente; come allora, il “vuoto” di prospettiva politica sembra far perno sul “pieno” delle ragioni della
storia, rischiando di tornare a penalizzare gli interessi di una
nazione che vuole continuare ad essere tale, nel benessere e
nel progresso.
Ce n’è quanto basta per tornare ad utilizzare la incompiuta
lezione craxiana per il molto che può ancora dare a tutti: compagni di tante battaglie e oppositori leali.
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>>>> dossier / craxi
Mani sporche
e mani pulite
>>>> Mario Ricciardi
entre il Codice Penale vieta rigidamente di far
conoscere i risultati d’istruttoria, pare che in
questo caso essa fosse condotta davanti agli occhi di tutti,
ed ogni sera i giornali riferivano ciò che avveniva nel
Gabinetto del giudice istruttore, e gli somministravano
incitamenti e consigli, sempre dati nel senso a me ostile».
Chi scrive è un uomo politico di spicco – è stato diverse
volte Capo del Governo – che rievoca il proprio coinvolgimento in uno scandalo politico-finanziario che lo ha
costretto a dimettersi da Primo Ministro e poi a rifugiarsi
all’estero per sfuggire all’arresto che rischiava in quanto
indagato per ben quattordici capi d’accusa. Vi ricorda
qualcosa? La vicenda di cui parliamo si svolge a Roma
all’inizio degli anni novanta, ma non del Novecento. L’autore del brano che abbiamo appena letto è infatti Giovanni
Giolitti. A più di vent’anni dai fatti l’anziano uomo politico ricostruisce il proprio ruolo nello scandalo della Banca
Romana, difendendosi dall’accusa di essere stato al corrente delle irregolarità commesse dagli amministratori dell’istituto di credito, e di aver tentato di impedire l’arresto
di uno di loro, il governatore Bernardo Tanlongo, proponendolo per la nomina a senatore.
La Banca Romana era una delle sei banche locali che avevano conservato il ruolo di istituto di emissione anche
dopo l’unificazione politica del paese. Per via della loro
natura legale di enti di diritto privato, e del radicamento
territoriale, queste banche erano inevitabilmente sensibili
alle sollecitazioni esterne e agli equilibri di potere locali,
che spesso ne condizionavano l’operato. La Banca Romana, in particolare, aveva concesso con disinvoltura prestiti
ai costruttori che, dopo la presa di Porta Pia, si erano
impegnati nel colossale affare della trasformazione di
Roma in una metropoli che aspirava a competere con le
«M
Il dossier che pubblichiamo nel decennale della
morte di Bettino Craxi non vuole essere né
apologetico, né elusivo. Nessuno degli autori è
stato craxiano quando Craxi era vivo (con la sola
eccezione di Memmo Contestabile, che ci ha
regalato un prezioso cameo sulla gioventù degli
anni Cinquanta). E nessuno dei temi più
controversi nella vicenda del leader socialista è
stato trascurato. Quello del finanziamento illegale
della politica e delle conseguenze giudiziarie che
ne derivarono è affrontato da Mario Ricciardi
Giulio Sapelli, e Frank Cimini. Biagio de
Giovanni, Ernesto Galli della Loggia, Piero
Craveri e Piero Sansonetti tracciano un bilancio
critico del suo ruolo politico. Mentre del suo ruolo
innovativo nel campo del socialismo europeo si
occupano Luigi Compagna ed Edoardo Crisafulli.
Non abbiamo titolo per stabilire se questo modo di
ricordarlo sarebbe piaciuto a Bettino, anche se
siamo stati suoi compagni e da lui abbiamo
imparato a diffidare sempre degli “esageratori”,
come Garibaldi definiva sia gli estremisti della
denigrazione che quelli dell’apologia. Speriamo
però che serva a quanti, come noi, non hanno
rinnegato la sua eredità politica, ed anzi
individuano nel disorientamento in cui si trova
oggi la Repubblica anche la conseguenza del
vuoto che ha lasciato. Gennaro Acquaviva, nel suo
editoriale, riconosce la sconfitta che abbiamo
subito vent’anni fa, ma vent’anni dopo non vede
vincitori. Forse perchè finora del biennio che ha
segnato la cesura fra prima e seconda Repubblica
si sono occupati solo gli “esageratori”. E nessuno
ci ha ancora spiegato se vent’anni fa siamo stati
sconfitti per avere osato troppo o troppo poco.
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
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>>>> dossier / craxi
altre capitali europee. Inoltre, come banca della capitale,
l’istituto divenne ben presto il punto di riferimento della
politica nazionale, finanziando largamente diversi uomini
politici di spicco e perfino re Umberto.
Alla fine degli anni ottanta i conti della banca sono completamente fuori controllo. Ci sono deficienze di cassa ed
eccedenze di circolazione pari a sessanta milioni di lire. La
situazione disperata spinge i dirigenti a misure estreme.
Nelle sue memorie Giolitti ricorda che «sino allora le Banche d’emissione fabbricavano esse stesse i biglietti che
emettevano, senza alcun controllo da parte del Governo; e
la Banca Romana che faceva fabbricare i suoi biglietti in
Inghilterra ne poteva commissionare sin che voleva. Ed
infatti si venne poi a scoprire che, oltre alle eccedenze di
circolazione di sessanta milioni, essa ne aveva fatti venire
altri quaranta che costituivano una serie duplicata; e fu fortuna che alcuni impiegati superiori, saputo dell’arrivo di
questi biglietti, e spaventati delle responsabilità che potevano ricadere su di loro, protestarono presso i Direttori
della Banca, obbligandoli a bruciarli».
Lo scandalo della Banca Romana scoppia in un momento
di profonda crisi politica per il paese. La poesia risorgimentale cede il posto alla prosa di un’unificazione voluta
soprattutto da un’avanguardia di intellettuali e patrioti.
Tra questi c’era anche Francesco Crispi, l’ex garibaldino
che presiede il Consiglio dei Ministri nel 1889, quando
una commissione d’inchiesta – il cui rapporto viene tenuto segreto dal governo e viene rivelato solo tre anni dopo
dal deputato radicale Napoleone Colajanni che ne era
venuto in possesso – si accorge che ci sono pesanti irregolarità nella gestione dell’istituto di credito romano. Profondamente deluso dall’esperienza dei primi anni di regime parlamentare, segnati da una perdurante instabilità dei
governi, da gravi problemi di ordine pubblico e dai risultati inferiori alle aspettative di una politica estera avventurosa, Crispi avverte la tentazione di forzare la mano.
Chiede, e ottiene da re Umberto, il rinvio delle elezioni, e
introduce misure che aumentano i poteri dell’esecutivo e
riducono la libertà della stampa. Quando Giolitti si rifugia
in Germania per non essere arrestato l’Italia appare a
diversi osservatori sull’orlo del baratro. C’è perfino chi,
come il corrispondente del Times, sostiene che il paese
sarebbe pronto ad accettare una dittatura a vita di Crispi
pur di por fine al disordine, agli attentati – nel marzo del
1894 una bomba esplode davanti a Montecitorio – e alla
minaccia costituita dall’instabilità parlamentare e dai
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
movimenti rivoluzionari, anarchici e socialisti, che prendono piede soprattutto al Nord.
L’abito del gobbo
L’ipotesi del giornalista britannico non si avvera. Nel 1895 ci
saranno nuove elezioni, e il paese rimane nel solco della
democrazia parlamentare. Rientrato in patria, Giolitti si
lascia alle spalle le inchieste giudiziarie per diventare il più
importante leader politico italiano, fino al punto da dare il
proprio nome a un periodo della nostra storia. Eppure, a
distanza di tanti anni, e con una straordinaria carriera alle
spalle, egli sente ancora il bisogno di discolparsi quando
scrive le proprie memorie. Ricostruisce con puntiglio le
vicende dello scandalo, si lamenta del modo in cui hanno
operato i giudici, si difende. Pesa indubbiamente l’accusa di
essere stato, insieme a Crispi, tra i politici che avevano tratto vantaggio dai finanziamenti della Banca Romana. L’essere stato coinvolto da quella che il deputato radicale Felice
Cavallotti chiama «la questione morale» (un’espressione
destinata a ritornare nella politica italiana). L’essere indicato
come un leader eccessivamente disinvolto nei confronti della corruzione dilagante nel paese, al punto da venir apostrofato poi da Gaetano Salvemini come «il ministro della malavita».
Non c’è dubbio che Giolitti fosse un realista. Nello stesso
memoriale egli scrive: «Le leggi devono tener conto anche
dei difetti e delle manchevolezze di un paese [...]. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la
gobba anche all’abito». La sua è la filosofia politica di un
conservatore che comprende che le grandi trasformazioni
sociali e economiche in corso tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo sono inarrestabili, e cerca di fare il possibile per assecondarle in modo che non
minaccino la stabilità del paese. Come altri conservatori
europei egli tenta di erodere il consenso della sinistra radicale promuovendo riforme che pongono le basi per la via
italiana al Welfare State.
Ciò nonostante Giolitti non riesce a vincere la sfida più
importante, quella di consolidare la democrazia parlamentare nel nostro paese. Dal 1861 al 1900 in Italia si susseguono
trentacinque governi. La corruzione della politica alimenta la
sfiducia di vasti settori dell’opinione pubblica nei confronti
del Parlamento e la disaffezione verso la democrazia. La crisi di fine secolo e la prima guerra mondiale daranno il colpo
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di grazia all’esperimento liberale. Quando scrive le proprie
memorie Giolitti è ormai un uomo del passato. Nel 1922 il
futuro appartiene a un ex socialista che usa spregiudicatamente le sue indiscutibili abilità di comunicatore. Giolitti
muore il 17 luglio del 1928. Pochi mesi prima si era recato
in Parlamento per l’ultima volta, per prendere la parola contro la legge che cancellava – sono parole di Mussolini – «la
menzogna del suffragio universale democratico» istituendo
un collegio elettorale unico su base nazionale, chiamato ad
approvare o a respingere in blocco la lista dei componenti
della Camera redatta dal Gran Consiglio del Fascismo. L’ultimo tenue legame con la democrazia parlamentare che ha
retto il Regno d’Italia per più di sessanta anni è reciso da
questa legge.
Sconfitto in politica. Moralmente condannato da chi gli attribuiva una concezione “elastica” dell’etica pubblica. Disprezzato da nazionalisti, futuristi e fascisti – che lo associano alla “Italietta” che essi vogliono sopprimere – Giolitti si spegne nella sua casa di Cavour. Da qualche tempo
rifiutava di incontrare i visitatori che si recavano in quella
remota località chiedendogli di riceverli. Nella sua biografia dello statista piemontese Aldo A. Mola scrive: «Rupestre qual era, non amava essere colto nell’umana debolezza, che poneva ancora più a nudo la semplicità della sua
camera, inconcepibile per chi non lo conoscesse a fondo.
Perciò, per esempio, sottrattosi al colloquio che, giunto
sino a quel lembo del vecchio Piemonte, gli sollecitava
Benedetto Croce, si poneva a letto vestito di tutto punto
qual era ma col lenzuolo fino al mento» e dava disposizioni perché fosse consentito al filosofo «di affacciarsi sì da
constatare che stava proprio dormendo».
Eppure Croce aveva appena dato alle stampe la sua Storia
d’Italia dal 1871 al 1915 che della “Italietta” e degli uomini
che l’avevano governata era una difesa appassionata. Per
Croce il liberalismo era «connaturato» alla mente di Giolitti.
Non si poteva dire la stessa cosa degli uomini della generazione seguente. Croce non perde occasione per difendere la
figura dello statista piemontese. Nel 1931, nella Storia d’Europa nel secolo decimo nono, lo indica – con Cavour – come
esempio di una classe politica sagace e prudente, animata da
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
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grande «amor della patria e dello stato» e dotata de «l’ardimento d’imprendere o di accettare le innovazioni che si chiedevano per l’avanzamento del popolo». Scrivendo in pieno
regime fascista, Croce richiama i suoi lettori al «dovere di
gratitudine» nei confronti di questi leader, anche per «espiazione» – e qui il riferimento è soprattutto a Giolitti – «degli
ingiusti giudizi, che le disfrenate passioni di parte fecero
dare sovente di quegli uomini, delle contumelie e delle
calunnie onde furono assaliti, della superficialità con la quale, per alcuni mali non sempre evitati o evitabili e pei cosiddetti ‘scandali’ che ne seguivano, si gettava una sorta di diffidenza e scredito sopra intere classi politiche, le quali adempivano nobilmente il proprio dovere».
Sporcarsi le mani
Parole forti. Un giudizio condizionato dal momento storico,
potrebbe dire qualcuno. Tuttavia quello di Giolitti non è
affatto l’unico caso di un uomo politico discusso e discutibile – si pensi a Nixon, o a Jaruzelski, per menzionare due
esempi recenti – cui i posteri hanno restituito in parte l’onore riconoscendo che le sue manchevolezze non furono quelle del comune malfattore, ma piuttosto quelle di chi risponde della stabilità o della sicurezza di un paese in un momento molto difficile. In situazioni del genere – che si presentano spesso in politica – chi ha una responsabilità pubblica
deve fare i conti con una realtà che non ha determinato.
Accettando anche il rischio di “sporcarsi le mani”.
Si può fare politica conservando l’innocenza? Michael Walzer si pone questa domanda in un saggio sull’azione politica e il problema delle “mani sporche”. Riprendendo una tradizione di pensiero che risale almeno a Machiavelli, il filosofo americano sostiene che non è possibile adempiere alle
proprie obbligazioni come politico e rimanere innocenti.
Chi è chiamato a prendere decisioni a nome di qualcun altro
può trovarsi in circostanze in cui la protezione della sicurezza o del benessere delle persone di cui si occupa comporta la necessità di compiere un’azione moralmente criticabile o addirittura ripugnante. Per Walzer quello delle
“mani sporche” è un dilemma cui va incontro l’azione politica perché in questo tipo di attività può accadere – e di fatto accade con una certa frequenza – che ciò che è indispensabile fare per realizzare un obiettivo che è nell’interesse
della collettività è incompatibile con un principio morale.
Ciò non vuol dire, come hanno sostenuto certi interpreti di
Machiavelli, che la politica sia indifferente alle consideramondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
zioni morali. L’azione politica pone al cospetto di un dilemma proprio perché essere responsabile per la sicurezza o il
benessere di una persona comporta avere un’obbligazione
nei suoi confronti. La scelta tragica cui va incontro il politico non è dunque tra agire in modo morale o non farlo, ma
tra attenersi a principi morali che normalmente sarebbero
considerati cogenti per chiunque o adempiere all’obbligazione che ha assunto nei confronti delle persone di cui
risponde. Non fare ciò che è indispensabile per difenderne
gli interessi sarebbe sbagliato – e quindi criticabile – anche
se farlo lo espone al rischio di agire in modo immorale.
Rispetto ai tempi di Machiavelli il dilemma delle “mani
sporche” ha assunto in società come la nostra una dimensione ulteriore, che rende la posizione morale del politico ancora più complessa. In un regime democratico, nel quale la
rappresentanza politica si esprime attraverso le elezioni, chi
agisce nell’interesse comune non risponde del suo operato
solo a Dio o alla sua coscienza. Deve risponderne anche a
chi lo ha votato dandogli fiducia. Questa nuova dimensione
della responsabilità politica, di cui i signori italiani cui si
rivolgeva Machiavelli non si preoccupavano, mette il politico in una posizione più difficile perché egli deve fare i conti con il fatto che l’elettorato potrebbe non condividere le
sue valutazioni riguardo a ciò che è necessario per l’interesse della collettività. In democrazia il politico non può dare
per scontato che i suoi peccati – le immoralità che ha giudicato necessarie – vengano scusati. Un’illustrazione eloquente di questa situazione si trova proprio nelle memorie di
Giolitti. Tra le accuse che gli erano state rivolte per il suo
ruolo nella vicenda della Banca Romana c’era anche quella
di aver ricevuto un prestito di sessantamila lire dall’istituto
di credito. La sua difesa merita di essere riportata per intero: «Quando nell’agosto del 1892 erano state tenute a Genova le feste pel centenario della scoperta dell’America, che
avevano dato occasione ad un miglioramento delle relazioni
fra l’Italia e la Francia, io credetti opportuno di fare una
azione nella stampa estera, perché questo benefico mutamento fosse ben messo in rilievo. Siccome i fondi messi a
disposizione del governo per le spese segrete non possono
spendersi che a un dodicesimo per mese, e la somma che si
trovava in cassa non era sufficiente, io chiamai il Comm.
Cantoni, Direttore generale del Tesoro, e gli dissi che mi
occorreva una anticipazione di sessanta mila lire, che sarebbe stata rimborsata entro sei mesi. Siccome il Tesoro non fa
anticipazioni, così la somma doveva essere presa in prestito
presso una banca, ed il Cantoni si rivolse alla Banca Roma-
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stessa tranquillità di Giolitti riguardo alla capacità dei propri concittadini di comprendere le ragioni della sua scelta e
di scusarne l’immoralità secondo gli standard normalmente
accettati. Siamo diventati migliori? Oppure siamo solo
diventati più ipocriti?
Le mani pulite
na». Nel 1922 Giolitti spiega ai suoi lettori che la somma in
questione fu poi regolarmente restituita alla banca nel tempo stabilito e conclude commentando che «se la Banca
Romana non avesse fatto che negozi come quello, vivrebbe
ancora, ed in floride condizioni».
Appare evidente che Giolitti è assolutamente certo che i suoi
lettori comprenderanno e approveranno la sua condotta perché essa era necessaria per l’interesse nazionale. Si badi
bene, quella che abbiamo letto non è semplicemente l’ammissione, da parte di un uomo di governo, di aver eluso una
regola di spesa. Dietro l’eufemismo impiegato per descrivere il fine dell’operazione – «fare una azione nella stampa
estera, perché questo benefico mutamento fosse ben messo
in rilievo» – c’è probabilmente la corruzione di qualche
giornalista francese. Oggi nessun politico italiano – forse
nessun politico di un paese occidentale – potrebbe avere la
L’espressione impiegata da Walzer per descrivere il
dilemma con cui si confronta l’azione politica evoca
immediatamente quella scelta dai pubblici ministeri milanesi per designare l’indagine sulla corruzione che, all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha travolto
buona parte delle forze politiche del nostro paese provocando la crisi della prima Repubblica. Da allora il nome
di quell’inchiesta giudiziaria – “mani pulite” – è diventata una formula di uso comune che viene impiegata per
alludere a una concezione della politica che vede nel
rispetto della legalità il principio supremo dell’etica pubblica. Si tratta di un modo di pensare che rimuove il
dilemma di cui parla Walzer, negando che un’azione contraria alla legge possa mai essere scusabile. Secondo i
sostenitori di questo modo di concepire la moralità della
politica, essa non trova spazio per immoralità necessarie
e quindi scusabili. Solo ciò che è legale è anche moralmente ammissibile.
A distanza di quasi venti anni dall’inizio di quelle inchieste i tempi sono maturi per un bilancio, sia pure provvisorio, di quella stagione della vita pubblica italiana e per
una valutazione critica del modo di concepire la politica
ispirato dalla tesi delle “mani pulite”. Cominciamo dalle
inchieste. Credo che nessuno possa negare che l’Italia
all’inizio degli anni novanta fosse un paese in cui la corruzione nella vita pubblica – e in particolare nella politica – aveva raggiunto un livello intollerabile. Da questo
punto di vista le inchieste ebbero un ruolo potenzialmente salutare, perché resero visibile, anche a chi non voleva
vedere, l’entità di un fenomeno che è incompatibile con il
corretto funzionamento della democrazia e con l’efficienza dell’economia. Rimane da chiedersi se, e in che misura, la situazione sia cambiata rispetto ai primi anni
novanta. Siamo un paese meno corrotto? La nostra democrazia funziona in modo migliore? La nostra economia è
più efficiente? Anche se questi sono giudizi che è difficile formulare sul piano puramente quantitativo, non c’è
dubbio che i dati che abbiamo a disposizione sono incommondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
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patibili con risposte positive alle domande che abbiamo
posto. Le statistiche internazionali ci collocano in una
delle posizioni peggiori tra i paesi europei per il livello di
corruzione, e non mi pare che si possa dire che lo stato di
salute della nostra democrazia o della nostra economia
sia particolarmente florido. La scomparsa dei partiti che
avevano svolto un ruolo centrale nella politica italiana
dal dopoguerra ha lasciato un vuoto che è stato colmato
da alleanze volatili che non riescono a produrre maggioranze parlamentari stabili. L’ingresso in politica di Silvio
Berlusconi ha profondamente mutato lo stile e la sostanza della vita pubblica italiana, allontanandola molto dal
modello di una democrazia parlamentare liberale.
In tali condizioni non è fuori luogo chiedersi se c’era
qualcosa di sbagliato nell’idea largamente diffusa all’inizio degli anni novanta – e che ancora oggi trova largo
consenso in certi settori dell’opinione pubblica – che le
inchieste giudiziarie fossero la via più adatta per il rinnovamento del paese. Questo dubbio era già stato formulato, quando le inchieste di “mani pulite” erano ancora in
pieno svolgimento, da un intellettuale che certamente non
era mai stato tenero con le tendenze degenerative della
vita politica italiana, e in particolare con quelle che alimentavano la corruzione. Nel 1993 Norberto Bobbio scriveva: «La Repubblica non solo è finita, ma è finita male.
Non poteva finire peggio. Uomini politici sino a ieri eminenti, che a ogni loro apparizione erano circondati da un
codazzo di giornalisti, avidi di afferrare brandelli delle
loro dichiarazioni, stanno uscendo di scena senza che
nessuno se ne accorga. Lasciano dietro di sé un cumulo
di problemi non risolti, a cominciare dalla riforma costituzionale ed elettorale, per la quale si battono da anni
senza venirne a capo». Gli stessi “problemi non risolti”
di cui parlava Bobbio sono ancora oggi sul tavolo. La
prognosi del filosofo torinese sulle potenzialità del rinnovamento civile che – secondo alcuni – sarebbe stato
innescato dalle inchieste giudiziarie era piuttosto pessimista: «Sono […] convinto che l’italiano non sia molto
migliorato nella pratica delle virtù civiche, senza le quali nessuna democrazia riesce a essere vitale. Confesso
che mi costa un certo sforzo credere che la nuova
Repubblica, che sta per nascere, se pure ancora tra mille difficoltà e saltando ancora chissà quanti ostacoli, sia
migliore della prima. Ma i vecchi, si sa, hanno la vista
corta, ed è buon consiglio non prenderli troppo sul
serio». In effetti, pochi presero sul serio queste riflesmondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
sioni di Bobbio nel 1993. Ancor meno ebbero il coraggio di farlo in pubblico. Tuttavia, a distanza di anni,
esse colpiscono per la loro lucidità.
La rivoluzione giudiziaria
Vale la pena di sottolineare che le osservazioni di Bobbio
non sono un’obiezione alle inchieste. Nel nostro diritto –
allora come oggi – vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, di cui si può certamente criticare la ragionevolezza o l’opportunità, senza per questo affermare che i
pubblici ministeri dovevano astenersi dall’aprire fascicoli
tutte le volte che si imbattevano in una notizia di reato. Nemmeno si può dire che le inchieste fossero tutte destituite di
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fondamento, anche se mi pare che in alcuni casi ci sarebbe da
riflettere seriamente sul modo in cui sono state portate avanti, e anche da chiedersi se non ci siano stati eccessi o parzialità. Credo che l’ammonimento di Bobbio fosse rivolto
soprattutto a chi ha interpretato i processi in chiave politica
vedendoli come il momento culminante di una rivoluzione.
Tutti ricordano che l’espressione è stata usata nelle settimane in cui i partiti della prima Repubblica si dissolvevano sotto la pressione delle inchieste e della piazza. Sia tra i sostenitori sia tra gli avversari della tesi delle “mani pulite” affiora più volte nei primi anni novanta l’analogia con la Rivoluzione francese.
Lo stesso Bobbio sembra avere in mente qualcosa del genere quando, in un altro articolo pubblicato sempre nel 1993,
descrive la diffusione delle inchieste giudiziarie con toni
che richiamano alla memoria il Terrore: «Una buona parte
del paese è ormai sotto processo. La sfera degli imputati si
allarga. Ciò fa nascere il sospetto che sia molto più vasta di
quello che abbiamo finora immaginato. Non si salva più
nessuno: primi sono caduti nella rete gli uomini dei partiti,
alcuni tra i massimi rappresentanti del potere politico, poi
alcuni uomini potenti nella sfera dell’economia e della
finanza. Ora tocca ad alcuni altri detentori del potere militare. Non parliamo dei Servizi segreti, sospettati da tempo,
anche se raramente colti in fallo, e ancora più raramente
condannati. E che dire di alcuni giudici, cioè di coloro che
dovrebbero giudicare gli altri? Un tempo si diceva: sciagurato quel paese in cui i custodi devono essere a loro volta
custoditi. E che dire allora del paese in cui vi sono dei giudici che devono essere giudicati? E chi li giudica se non altri
giudici? E che significa questo se non un processo al processo in una sequenza senza fine?».
Se le inchieste di “mani pulite” sono davvero il culmine di
una rivoluzione, si è trattato di quella che Vincenzo Cuoco
avrebbe chiamato una rivoluzione passiva. Come i giacobini
napoletani del 1799 i sostenitori della rivoluzione che pone
fine alla prima Repubblica invocano il Terrore giudiziario
perché «non sapendo render gli uomini migliori, si tolgono
dall’imbarazzo che danno i cattivi, distruggendo indistintamente cattivi e buoni». Come nel Terrore giacobino le conseguenze per la vita delle persone sono drammatiche. Bobbio
scrive: «E’ avvenuto, sta avvenendo con moto accelerato che
sembra inarrestabile, che chi è accusato diventa a sua volta
accusatore. Tanto più eccellente l’accusato tanto più eccellenti le persone cui far subire la stessa sua sorte. Il numero
degli imputati cresce a macchia d’olio. Ne arresti uno, e que-
sti ne fa arrestare non so quanti altri. Sembra ormai che l’unico modo per salvarsi sia quello di condurre altri alla stessa
perdizione. Nelle società primitive uno si difende offendendo. Si scopre una catena di complicità che non si sa dov’è
cominciata e non si sa se e dove finirà. Ma poi è destinata a
finire? Se durerà ancora a lungo non siamo forse destinati,
giudicati, giudicandi, innocenti, a fare la stessa fine?». Oggi
sappiamo come è finita: dopo il Terrore c’è Napoleone.
Nelle scorse settimane Letizia Moratti ha manifestato il proposito di dedicare una strada o una piazza di Milano alla
memoria di Bettino Craxi. La decisione del sindaco del capoluogo lombardo è stata salutata non solo come il riconoscimento doveroso, da parte della sua città natale, per una delle
figure più significative della politica italiana del dopoguerra,
ma anche – in particolare da familiari e ex compagni di partito – come una sorta di risarcimento morale per quello che
essi considerano un trattamento ingiusto che egli avrebbe
subito ai tempi delle inchieste sulla corruzione dei primi anni
novanta. Per costoro Craxi non era un latitante che cercava
di sfuggire al processo, ma un “esule”, cioè una persona che
si è sottratta legittimamente a una persecuzione politica. La
scelta del termine non è casuale perché allude – come lo stesso Craxi ha fatto più volte – a un’analogia tra la sua situazione e quella di altri fuoriusciti di cui la storia ha riconosciuto, se non l’innocenza sul piano giudiziario, la giustificazione su quello politico.
Per una mente sgombra dal pregiudizio, il paragone tra Craxi e Garibaldi, o i fratelli Rosselli, appare azzardato. Tuttavia non si può negare che Letizia Moratti ha posto un problema serio. Come dovremmo valutare la condotta di Craxi
negli ultimi anni della sua vita? In particolare, la sua scelta
di sottrarsi all’arresto, rifugiandosi all’estero, è stata soltanto l’estrema – disperata – mossa di un malfattore che cerca di
sfuggire al processo, oppure una difesa nei confronti di una
persecuzione? Dalle risposte a queste domande dipende il
giudizio su Craxi come uomo e come politico, e quindi la
valutazione dell’opportunità o meno di ricordarne la memoria attraverso un gesto di grande rilievo simbolico come
quello proposto dal sindaco di Milano.
Difendersi dai processi
Cominciamo con lo sgombrare il campo da un equivoco.
Non credo che si possa sostenere che c’è un dovere categorico di farsi processare. Le istituzioni giuridiche di qualsiasi
paese, anche quello più civile, non realizzano mai la perfemondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
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zione sul piano della giustizia. Inoltre ogni processo, anche
quello che prevede le più ampie garanzie per l’imputato, è
vulnerabile dall’errore. Giudici e testimoni in buona fede
possono sbagliarsi. Gli avvocati a volte non sono all’altezza
della situazione. Poste queste premesse, che mi paiono indubitabili, è difficile trovare un argomento conclusivo in favore della tesi che una persona abbia in ogni caso il dovere di
sottoporsi a un processo. Ancora meno mi pare che si possa
sostenere che c’è un dovere categorico di lasciarsi arrestare.
Non c’è bisogno di ricordare l’uso discutibile che si è fatto in
questo paese della carcerazione preventiva per riconoscere
che nessuno ha il dovere incondizionato di rinunciare alla
propria libertà.
Escludere che ci sia un dovere categorico di farsi processare
o di lasciarsi arrestare, tuttavia, non chiude la questione. Si
potrebbe sostenere, infatti, che la situazione in cui si è trovato Craxi rientri nell’ambito di applicazione di quello che
John Rawls chiama il “principio di fairness”. Tale principio
afferma che «quando un certo numero di persone si impegna
in un’impresa cooperativa reciprocamente vantaggiosa retta
da regole, restringendo la propria libertà nei modi che sono
necessari per produrre vantaggi per tutti, quelli che si sono
sottoposti a tali restrizioni hanno il diritto di esigere un’identica acquiescenza da parte di quelli che hanno tratto un
beneficio dal fatto che gli altri hanno rispettato le regole».
Per Rawls tale principio comporta che nessuno può trarre
vantaggio dalle fatiche collettive altrui senza fare la propria
equa parte (fair share). Le obbligazioni generate dal principio di fairness sono diverse dai doveri naturali perché non
sono incondizionate. Al contrario esse sono conseguenza di
un’azione volontaria – la partecipazione all’attività cooperativa – che costituisce uno dei presupposti di operatività del
principio nella sua teoria della giustizia.
Rawls sostiene che il contenuto di queste obbligazioni di
fairness «è definito da un’istituzione o da una pratica, le cui
regole specificano ciò che ciascuno è tenuto a fare». Inoltre
«le obbligazioni sono normalmente dovute a individui definiti, ovvero, a coloro con cui si coopera per il mantenimento dell’assetto in questione». Tra le azioni che possono
generare un’obbligazione di fairness Rawls menziona
«l’atto politico di candidarsi e (in caso di successo) di ottenere una carica pubblica in un regime costituzionale. Questo atto dà luogo all’obbligazione di adempiere ai doveri di
questa carica, e i doveri determinano il contenuto dell’obbligazione». Vale la pena di sottolineare che i doveri di cui
si parla non sono per Rawls doveri morali, ma semplicemondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
mente i «compiti e le responsabilità assegnati a certe posizioni istituzionali». Tuttavia il filosofo sostiene che è possibile che ci siano ragioni morali (cioè basate su un principio morale) per adempiere a tali doveri, e il principio di
fairness è certamente tra queste.
Craxi e Giolitti
Mi pare che si potrebbe sostenere che una persona che si
trova nella posizione in cui era Bettino Craxi al tempo delle inchieste di “mani pulite” rientri nell’ambito di applicazione del principio di fairness. Se, come mi pare ragionevole sostenere, chi ricopre una carica pubblica ha un’obbligazione di fairness nei confronti dei cittadini cui ha
chiesto la fiducia, e con i quali coopera per il funzionamento delle istituzioni democratiche, si dovrebbe concludere che la sua scelta di sottrarsi all’arresto fosse moralmente criticabile. Chiusa la questione? Non ancora. Infatti, nel presentare l’argomento di Rawls in difesa del principio di fairness ho omesso di menzionare un secondo
requisito necessario, oltre alla volontarietà dell’azione che
genera l’obbligazione perché esso sia operativo. Per Rawls
le istituzioni o le pratiche che determinano i doveri che
definiscono il contenuto dell’obbligazione di fairness
devono essere a loro volta giuste, o almeno non devono
superare i limiti dell’ingiustizia tollerabile. Ciò significa
che esse soddisfano i requisiti posti dai due principi di
giustizia della sua teoria. Non entro nei dettagli della formulazione di questi principi. Mi limito a osservare che le
istituzioni fondamentali della società italiana nel 1993
erano piuttosto lontane dall’ideale di una società giusta
come quella che ha in mente Rawls. Lo erano certamente
le principali istituzioni della democrazia rappresentativa
e anche quelle della giustizia penale. Le istituzioni della
democrazia parlamentare erano ingiuste perché il loro
funzionamento era distorto da un sistema di finanziamento poco trasparente che pagava i costi della politica con
fondi la cui provenienza era in molti casi ingiustificabile
davanti all’opinione pubblica. Le istituzioni della giustizia penale funzionavano in modo ingiusto perché operavano in un clima inquinato dalla pressione della piazza,
che chiedeva ai tribunali di essere lo strumento di un
cambio di regime politico e non – come dovrebbe essere in
una società giusta – il luogo in cui si accertano, al riparo
dai clamori e dalle pressioni psicologiche, le responsabilità di persone che sono accusate di aver violato la legge.
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Da questo punto di vista la situazione di Craxi non era
molto diversa da quella in cui si era trovato Giolitti un
secolo prima. Non voglio sostenere che fossero identiche
sul piano giudiziario, ma credo che la similitudine sia sufficiente per fare un confronto tra i comportamenti di questi due uomini politici. Giolitti si sottrae all’arresto perché
diffida dell’imparzialità dei giudici e perché è convinto
che il clima politico nel paese gli impedisca di difendersi
in maniera efficace. Le stesse preoccupazioni che aveva
Craxi, con qualche fondamento. C’è una differenza tuttavia. Giolitti poteva contare sul fatto che, in un clima politico rasserenato, l’opinione pubblica avrebbe compreso le
ragioni politiche di certi suoi comportamenti censurabili sul
piano morale, e questo gli avrebbe consentito di affrontare
i processi con animo sereno, come poi fece venendo assolto dalle accuse. A chi gli imputava comportamenti poco
limpidi egli era convinto di poter obiettare che essi erano
necessari per adempiere alla propria obbligazione nei confronti di chi lo aveva eletto, e non per il suo interesse privato. Se si era “sporcato le mani” lo aveva fatto per adempiere alla propria obbligazione di politico.
Credo si possa sostenere che lo stesso Craxi avesse in mente un’obiezione di questo tipo quando pose al Parlamento la
questione complessiva del sistema di finanziamento dei partiti invitando l’assemblea a prendersi le proprie responsabilità nei confronti del paese per quella che – non senza ragione – egli considerava una pratica largamente diffusa. Penso
che da quel discorso si dovrebbe ripartire per valutare il
comportamento del leader socialista. La reazione del Parlamento lo convinse probabilmente di non avere una via d’uscita politica. A distanza di dieci anni dalla sua morte la
questione che egli poneva non ha ancora avuto una risposta.
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
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>>>> dossier / craxi
La corruzione
nella Repubblica dei partiti
>>>> Giulio Sapelli
ipensare a Bettino Craxi sullo sfondo della costituzione materiale che resse il nostro paese dal 1947 al 1992,
dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del sistema
dei partiti post-fascisti, è un’impresa non semplice e che va
condotta con spregiudicata capacità di analisi. Non so se ne
sono ancora capace. Dal tempo in cui scrissi il mio libro
sulla teoretica e sulla pratica - che era il caso italico - della
corruzione (Cleptocrazia. Il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica, Feltrinelli, Milano, 1994),
libro tradotto all’estero ma mai ristampato in Italia, e che
mi diede più dispiaceri che allegrie -perché non fu capito,
perchè scontò i tempi non prodighi all’approfondimento,
ma alla ripresa della guerra civile e al massacro mediaticogiustizialista- ebbene, da quei tempi ritornare su quei temi
mi fa paura. Sarò in grado di farlo senza rancori e pregiudizi? Solo l’amicizia e la stima per Luigi Covatta, il quale
mi ha chiesto di scrivere questo pezzo, e l’aiuto intellettuale di un sodale del cuore e della mente come Lodovico
Festa, mi spingono a vincere la mia riluttanza iniziale. Questo dovevo dire in una confessione aperta e pubblica che mi
libera forse sia delle mie ipocrisie, sia dei miei timori d’inadeguatezza scientifica. E non ho riletto il mio vecchio
libro: ne sarei stato troppo influenzato e voglio, invece, agire con libera mente e libero cuore, dopo circa quindici anni
di terribile decadenza civile attorno a me e di intichisimento del mio spirito.
“La corruzione e Craxi”, mi si chiede. Iniziamo dalla corruzione e dalla Repubblica italiana: mi pare il passo adeguato per calzare i giusti stivali delle sette leghe, se mi
saranno donati. Dal 1947, quando si ricostituì la macchina
dei partiti di massa (e non di massa) dopo la lotta di Liberazione nazionale e il referendum per la Repubblica, il patto stipulato tra le grandi forze politiche ed economiche, pur
tra attriti e contrasti perennemente rinnovatisi, era assai
R
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
chiaro e limpido. I partiti dovevano contribuire in modo
essenziale a sostituire in parte quella mancata istituzionalizzazione che avrebbe dovuto fare dell’Italia una comunità di destino, come lo erano nazioni a più alto gradiente di
consenso istituzionale e a più alta separazione della società
politica dalla società civile.
Il fantasma della società civile
In Italia, del resto, a fronte di un mercato incerto e intermittente, di un associazionismo debole, di un familismo amorale
diffuso, persistente ed epidemiologicamente destinato a diffondersi su tutta la nazione e non più solo nel Mezzogiorno,
di un basso livello di legittimazione delle istituzioni nascenti,
la società civile in senso fergusoniano, ossia fondata sulla
proprietà e i suoi diritti, era tutto e insieme era nulla, perché
a essa mancava il ruolo incivilente della legge promanante dal
potere legislativo e dalle pubbliche leopardiane virtù (“gli italiani hanno solo usi, costumi e consuetudini”, si legge ne Lo
zibaldone).
Gli ordinamenti giuridici di fatto, su cui Capograssi e Pigliaru , dopo Santi Romano, scrissero pagine che occorrerebbe
ripubblicare per rinnovarci la mente, quegli ordinamenti, erano tutto; e la legge pressoché nulla come potere incivilente:
era solo compulsiva. Come oggi, del resto, ma in altra forma
e misura, come dirò. Lo Stato come comunità di destino e
ordinamento giuridico, lo ripeto, era ed è quasi nulla e i partiti, quindi, erano quasi tutto. E qui sta la differenza con l’oggi, in cui i partiti nazionali sono anch’essi scomparsi, e con
essi l’unica forma sociale preformante le volizioni non solo
elettorali su scala non locale e non diadico-verticale, ossia
clientelare. I “quasi partiti” di oggi sono una forma performante l’umana associazione tutta diversa da quella post-Liberazione. Li ho definiti “quasi gruppi neo caciquisti” di fedeli
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stretti attorno a un capo che raccoglie risorse e a essi le distribuisce nei plessi oligopolistici o monopolistici di mercati
molto imperfetti e a circolazione delle èlites ancora più
imperfetta, perché diadico- clientelare ed esclusiva con controllo territoriale-locale spartitorio più o meno sottoposto a
controllo cleptocratico.
Viene anche da qui l’enfasi odierna sul “territorio”, terreno di
caccia dei predatori in forme mutuate dalle mafie varie per
estrarne tutta la plusvalenza economico-finanziaria di finanziamento ai gruppi caciquisti e ai loro capi. La partecipazione politico-partitica si ridimensiona. Il bipolarismo consente,
tuttavia, un confronto tra correnti di opinione che assumono
man mano, per esempio, la forma dei giornali-partito o del
partito costitutivamente, originariamente, radicato nel territorio come lo è la Lega.
Gli ordinamenti giuridici di fatto
Oggi si afferma la ricerca di risorse per orientare l’elettorato e costruire, insieme, personali fortune condivise da piccoli gruppi. La partecipazione politica rimane ed acquista un
potere situazionale di fatto ben più grande di quanto non
fosse in passato soprattutto quando a votare pubblicamente
sono potenti capi di organizzazioni economiche. Di qui la
pubblica, manifesta promessa di ausilio economico ai capi
votati. Val la pena accennare sin da adesso alla trasformazione che vi fu, per ragioni logiche e non cronologiche.
Torniamo agli anni fondativi che si protraggono, tracimando, sino agl’inizi del decennio novanta del Novecento: i partiti nazionali erano, quindi, l’unico veicolo di contatto tra il
popolo, le classi dominanti e l’organizzazione statuale, pur
fragilissima e delegittimata. Cosa promanava dal fatto che
gli ordinamenti giuridici di fatto prevalevano su quelli di
natura romano- germanica emanati come editti non preformanti da uno Stato onnipresente, ma lontano e debole d’autorevolezza? Ne scaturiva il plesso di problemi per il consolidamento democratico determinato dal fatto che i partiti
erano polarizzati tra i reticolati invisibili ma efficacissimi
della guerra fredda e dovevano trarre, quindi, il loro sostentamento non solo dalla militanza e dalla società civile, che
esistevano ed erano fonte sicura ma non sufficiente di
sostentamento, ma anche e soprattutto dalle potenze della
guerra fredda medesima: dagli USA la Democrazia Cristiana e i suoi satelliti; dall’URSS il PCI e i suoi satelliti quando li avesse avuti. Il patto era: ciò che non proviene da quelle fonti (extranazionali, sì, ma assai rassicuranti, se continuarono per decenni a versare dalle loro cornucopie i denari per organizzare la democrazia attraverso i partiti, come
diceva Togliatti riprendendo un concetto di Ostrogorski che
aveva letto in Francia) poteva essere ricercato su scala
nazionale nell’invisibilità omertosa: tutti sapevano che il
rifornimento di risorse era fondato da un lato su una sorta di
affiliazione ideologica, dall’altro su una logica di scambio:
le don et le contre don, ossia la reciprocità di denaro in cammondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
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>>>> dossier / craxi
bio di appoggio in parlamento e su scala locale con leggi e
leggine e decreti e delibere utili a questo o quel gruppo
d’interessi, sino a manipolare gare e trattative tra monopoli pubblici e attori economici privati. Il che faceva fuoriuscire tali rifornimenti, indubitabilmente, dalla legalità. Ma,
come la vendetta barbaricina era vietata ma praticata impunemente, anche quell’illegalità era non nominata ma praticata nell’omertosa omologazione tipica degli ordinamenti
giuridici di fatto.
I collateralismi
Il rifornimento ulteriore di risorse, quando, finita la guerra fredda e con essa il rifornimento sovietico, anche gli
USA non foraggiarono più le classi politiche nazionali,
diverrà tanto importante sino a divenire l’unico e quindi
pervasivo in forma totalitaria, era assicurato dai relativi
collateralismi degli interessi: il mondo cooperativo per il
PCI, la Chiesa nelle variegatissime sue articolazioni (la
questione italiana, se è, è questione cattolica, sempre, e
oggi lo si dimentica per ogni dove) per la DC. La Chiesa
cattolica, in verità, sostenne i democristiani sempre e solo,
in definitiva, in funzione anticomunista, secondo il verbo
montiniano che si oppose vittoriosamente a quello tardiniano. I democristiani, infatti, furono un interlocutore
ingrato e non prodigo di doni nei confronti di Santa
Romana Chiesa, assai più di quanto una lettura disattenta
potrebbe far pensare.
Vi era, poi, per la DC, il mondo delle imprese. Esso era
spartito con rilevanti sorgenti di rifornimento dissetante
anche verso i liberali e i repubblicani e i socialdemocratici
e poi, dopo il rifiuto da parte di Nenni del premio Stalin,
anche verso i socialisti. Ma la cornucopia delle imprese si
rivolgeva, anche con infiniti mal di collo e di capo, più verso la DC che verso ogni altro partito. Solo l’intelligenza
togliattiana (il discorso di Reggio Emilia del 1947 su classe operaia e classi medie) aveva aperto qualche spiraglio di
rifornimenti economici da parte delle piccole e medie
imprese. Il fatto, però, che la gran parte di questi denari
provenisse dalle imprese a partecipazione statale non sfugge oggi più a nessuno: gli studi sono abbondanti e incontrovertibili; e i risultati di ciò furono sotto gli occhi di tutti
allorché da questa forma di finanziamento occulto ma visibile ai partiti (e alla DC, al PSI e satelliti in primo luogo)
via via che si allargò l’arena del governo si passò a una sorta di controllo ferreo delle imprese pubbliche che, salvo
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l’eccezione dell’ENI, le allontanò sempre più dal loro ruolo economico.
Lo Stato spartitorio
Questa forma di finanziamento si accompagnava alla spartizione delle nomine (lo “Stato spartitorio” di amatiana memoria): finì così per decomporsi lo Stato amministrativo, già tanto fragile. Sorse, nuovo Behemot minaccioso e insaziabile, lo
Stato dei partiti e delle correnti dei medesimi, con conseguenze quali la crisi fiscale dello Stato e la crisi di legittimazione della tecnocrazia mista che di quelle imprese era a capo.
Ma presto si pendolò sull’abisso per la crisi fiscale e l’aumento della spesa pubblica, nonchè per la corruzione e l’antimeritocrazia dilagante che iniziava a smontare - nella mancanza di decenza - macchine economiche ch’erano delicatissime e in taluni casi sublimi per i risultati che raggiungevano
con persone dalla qualità straordinaria, come mai più sì è
potuto intravedere nella grande impresa in Italia e non solo. Il
tutto, ossia il declino mortificante e tremendo e doloroso,
durerà per circa due decenni. Poi venne la spartizione privatizzante senza liberalizzazioni che fondò il dominio prodiano,
che inizia dalla sua candidatura al Consiglio Comunale di
Reggio Emilia nel 1964 e che è durato circa quarant’anni: è il
più lungo e solido sistema di potere e di favori e di minacce
di uso della forza weberianamente intesa mai costruitosi nella storia italica, con macchine circolari, territoriali per lo più,
du don et du contre-don. Si creò una pervasività assoluta
ampliando la rete del finanziamento alla politica, con forti
interessenze personalistiche e caciquistiche (si arrivò sino alla
conquista del governo e del controllo degli elettori su scala
nazionale), ma nel contempo polverizzandolo e territorializzandolo: da Bologna alle Alpi e alle Madonie, in un’infinita
serie di micro, e macro, finanziamenti circolari, con una
miriade di capi locali caciquistico-politici che si scambiavano
favori con imprese piccole e piccolissime: di qui il disordine
peristaltico attuale, con immenso spreco di risorse pubbliche
ancora più occulte di quanto non fosse in passato, per l’oscurità territoriale raso terra che è assai più fitta di quella che vi
era sulle cuspidi delle grandi imprese pubbliche.
D’altro canto veniva così creandosi un mondo quasi perfetto
per quanto concerneva la macchina dei finanziamenti occulti e invisibili ai partiti. I donatori e i collettori delle risorse
governate da ordinamenti giuridici di fatto a tutti erano noti
ma innominabili. Naturalmente, l’ho già enunciato, tale
finanziamento non era regolato dalla legge: era anch’esso un
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ordinamento giuridico di fatto che si dispiegava contro il
diritto degli ordinamenti giuridici romano-germanici, perché
ledeva i principi del merito, dell’eguaglianza costituzionale
nei concorsi, caricava sulle spalle dei tassati spese improprie
che scaturivano dai sovra-costi tangentizi in mille modi
estratti dalla finanza pubblica per ripagare favori, attivare
oligopoli, accessi illeciti alle macchine dei mercati, imperfetti ma efficaci nel far scaturire plusvalenze e spesso
immense e rapide fortune. Oltre ai danni morali a macchia
d’olio pervasivi che in tutto il complesso antropologico
nazionale s’incistarono.
Il frattale della corruzione
Il meccanismo oligopolistico da cui scaturiva il processo corruttorio era un frattale variabile che riproduceva l’occlusione
dei mercati grazie all’occlusione della politica. Ma a metterlo
in moto (è sempre stata la mia tesi contro corrente) erano più
le coorti imprenditive che quelle partitiche. L’imprenditore
italiano innova prodotti e processi ma non government, anzi,
collude e fa cartello volontieri nei monopoli temporanei o
perenni. Se la politica lo aiuta, il gioco è fatto e tutto si tiene:
è un meccanismo unico che va dal controllo spartitorio dei
mercati al controllo altrettanto spartitorio della politica attraverso i finanziamenti occulti perseguiti tecnicamente con
un’infinità di pratiche vastissime quanto a innovazione e
creatività pressochè continua. Esse richiedono preparazione,
competenza, sinergie e logiche del silenzio in catene personali spesso lunghissime. Di qui la complicazione di mantenere
la segretezza, soprattutto quando i flussi finanziari dal territorio dovevano, con il manuale Cencelli delle elezioni e delle
percentuali che ne derivavano, riversarsi anche sui centri
nazionali dei partiti. Quando le risorse provenivano dal centro (le partecipazioni statali, le grandi imprese) tutto era -ed èmolto più semplice e “segregabile”. Il peso per coloro che
pagano le tasse era ed è fortissimo e il freno alla liberalizzazione dei mercati in un “non mercato” regolato dai collettori
dei partiti nazionali era ed è fortissimo ed efficacissimo, ma
molto meno dispersivo di risorse e ricco di entropia di una lotta di accaparramento senza regole quale fu ed è quella che
seguì allo sperimentato sistema. I costi lievitavano senza
sosta, unitamente alla decadenza della classe politica e all’assenza di prospettive morali con cui si affrontavano gli anni
novanta del nostro Novecento.
Dopo la fine del compromesso storico ci fu la non nascita dell’alternativa di sinistra, la foresta pietrificata del centrismo
irrorato dai voti socialisti e dalle predominanti personalità di
De Mita e di Craxi che per un gioco all’esclusione reciproca
riuscivano a convergere verso nessun obiettivo reale di
modernizzazione politica, secondo il solito vizio italico:
importante non è vincere, ma impedire a un altro di vincere.
E poi si aggiunsero i fattori internazionali: il crollo del capitalismo monopolisitco di Stato a natura dittatoriale che dalla
Russia era dilagato nel mondo (della Cina allora non ci si
curava, ahimè). Si liberarono le forze del capitalismo anglosassone in un processo che ho più volte descritto. Ciò che del
vecchio personale politico europeo poteva essere eliminato
manu non elettorale doveva essere eliminato con ogni mezzo,
confidando sui poteri occulti dello Stato nelle sue relazioni
internazionali: ieri come oggi la sovranità limitata dell’Italia
rispetto agli USA è palese ed è l’elemento più caratterizzante
della nostra storia, dalla seconda guerra mondiale sino ai giorni nostri (Berlusconi e la lotta contro di lui docet).
L’uso della magistratura
In primis si usò come usbergo la magistratura, che agisce più
come potere corporato che come ordinamento responsabile,
con il suo immenso potere discrezionale che avrebbe fatto
inorridire un Montesquieu in viaggio per l’Italia. Si susseguirono gli attacchi a Kohl, a Mitterrand, a Forlani, a De Mita, a
tutti i capi dei partiti che impersonificavano l’era della guerra fredda, ossia della guerra di posizione in Europa e in Italia
in particolare. Ora doveva iniziare una guerra di movimento
che apriva i mercati, favoriva le privatizzazioni (senza liberalizzazione dei mercati, favorendo la vendita à la Eltsin ai privati dei tesori dello Stato in disfacimento). L’anomalia italiana risiede nel fatto che ciò si compie mentre lo Stato, appunto, è in disfacimento, commissariato dal potere giudiziario e
dalla mitologia tecnocratica di impreparati ma potenti banchieri centrali con i loro fedeli servitori in attesa di prebende
anche dal mercato finanziario internazionale, mentre la classe politica sprofondava nella corruzione, nel malcostume, nel
ludibrio a cui l’esponevano i mass media berlusconiani che
candidavano l’imprenditore milanese dello spettacolo e dell’edilizia a capo della nuova solidarietà di classe tra piccola
borghesia e piccola impresa, tra professioni liberali e imprenditorialità diffusa, e mentre Prodi veniva individuato dai vecchi capi dei partiti costituzionali, ex PCI ed ex sinistra democristiana di base, a essere il prescelto per convincere gli elettori con altrettanto acute operazioni mediatiche.
La borghesia si spaccava, la sinistra si liquefaceva, le classi
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>>>> dossier / craxi
lavoratrici affrontavano decenni di solitudine, sorgevano
nuovi attori politici, territoriali appunto (Lega docet). Moro
l’aveva previsto dalla sua prigionia, in un’impressionante
capacità analitica. Iniziava una resa dei conti spietata su più
fronti. Andreatta aveva, peraltro, sollevato il marcio dello
IOR che andava ben al di là delle mura vaticane per divenire un ritratto italico a tutto tondo.
È in questo contesto che si colloca la vicenda craxiana.
Essa non si può comprendere scientificamente al di fuori di
questo contesto. In questo contesto, del resto, se vogliamo
inanellare testimonianze di rara perspicacia storica, come
fu nel suo dramma altissimo quella di Moro dal carcere delle BR, e nel coraggio di cattolico integro quella di Andreatta sullo IOR, occorre inserire il discorso di Craxi alla
Camera, quando descrisse il meccanismo spartitorio dei
finanziamenti, occulti ma da tutti visibili, ai partiti, a tutti i
partiti, in una chiamata di correo di tutta la classe politica,
nessuno escluso, rifiutando in tal modo di essere trattato
come il capro espiatorio e dando per di più una rara testimonianza di coraggio.
La rivincita delle oligarchie
Egli era tra quei leader internazionali prima ricordati che
subirono l’offensiva giudiziaria e politica delle forze dell’espansione del capitalismo anglosassone e della sua potenza
diplomatico-militare: il caso Sigonella, i rapporti con l’OLP,
una concezione nazionalistica del ruolo dei servizi segreti, lo
avevano già condannato, del resto, a essere una delle vittime
sacrificali. Rispetto ad altri compagni di viaggio o di destino
lo indeboliva, fondamentalmente, il suo comportamento
innovatore nel campo del finanziamento ai partiti. Egli prima
di altri, infatti, iniziò dal controllo pervasivo del territorio, a
cui lo candidava una coorte di amministratori fedelissimi e
un’alleanza con la borghesia innovativa delle professioni e
quindi del futuro volto dell’Italia post- industriale. Stretto tra
la macchina organizzativa comunista e l’arcipelago collateralistico di natura democristiana, la sua volontà espansiva
non poteva avere limiti: l’alternativa sarebbe stata la dissoluzione, come accadeva al socialismo demartiniano e lombardiano, già dissolventesi e non in grado di attrezzarsi alle nuove necessità del rifornimento delle risorse.
Così facendo Craxi anticipava i tempi: oltre alle risorse dalle
partecipazioni statali iniziava già prima degli altri con metodi innovativi la raccolta di risorse su scala territoriale, formando una schiera di collettori di finanziamenti e di pressiomondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
ni ancora oggi attivissimi e solerti, di cui si servono pressoché tutti gli attuali gruppi o “quasi gruppi” caciquisti non
nazionali, promuovendone alcuni a ruoli di spicco che essi
stessi non si sarebbero un tempo mai sognati di ricoprire,
consapevoli delle loro scarse capacità politiche, che pure i
caciqui debbono rendere manifeste almeno nella formazione
delle liste elettorali e nella scelta degli elettori.
Ma ora i nani sono giganti, gli alberi di alto fusto sono stati
abbattuti e i cespugli paiono foreste.
Al tempo in cui si realizzò la mutazione qui raccontata e si
colpì Bettino Craxi come vittima sacrificale e capro espiatorio, successe l’imprevedibile: la generazione dei giovani turchi che aveva appena spossessato i vecchi capi politici resistenziali del PCI si accodò lestamente a questa logica di
smantellamento del vecchio Stato dei partiti. La sinistra
democristiana la seguì. Del resto essi erano il frutto del ’68: il
più spettacolare processo di de-elitizzazione delle società
moderne mai intentato da parte della piccola borghesia italiana dopo il fascismo. I giovani dirigenti comunisti, in procinto di mutare nome della casa di appartenenza, si accodarono
a quel processo e insieme ne furono gli artefici. Rosbespierrismo, ignoranza, sete di potere, mancanza di rigore etico? Tutto si confuse e si mescolò in una logica impazzita che ebbe i
devastanti effetti del rovesciamento dell’equilibrio dei poteri
e che sbalzò quello giudiziario da servo della politica a suo
padrone. Era finita un’epoca. Un’altra non è iniziata.
Naturalmente occorrerebbe ritornare a riflettere, non solo in
chiave antropologica, ma anche profondamente storica, sulla vicenda italiana. Riprendere l’idea, prima di Vincenzo
Cuoco e poi di Antonio Gramsci, della rivoluzione passiva
come tratto distintivo della storia nazionale sarebbe assai
opportuno. Ci consentirebbe di sottolineare l’attacco multiforme che nel periodo del decollo industriale e dell’allargamento del suffragio elettorale fu sferrato contro Giovanni
Giolitti, il quale fu il primo a tentare di far accedere alla
statualità decisionale forze che la borghesia liberale (e
anche la Chiesa) aveva paura di evocare e che si preferiva
emarginare. In parte la vicenda di Moro, e anche quella di
Craxi, nel secondo dopoguerra novecentesco hanno questo
segno: chi ha cercato, nella storia d’Italia, di costruire, con i
mezzi che la stessa storia gli consegnava, uno Stato e un’economia (pur moderatamente) contendibili, viene spazzato
via dalle chiusure oligarchiche che la società italiana, nella
sua ferrea collocazione internazionale che è performante sin
dall’origine della nazione, dal Risorgimento a oggi, continuamente riproduce.
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>>>> dossier / craxi
Il quarto potere e il terzo
>>>>
Frank Cimini
l circuito mediatico-giudiziario di “Mani pulite” ebbe una
particolarità, perchè andava al di là della storica e consolidata dipendenza dei cronisti dagli uffici inquirenti, che c’era
prima della falsa rivoluzione e c’è ancora adesso. Nel 1992 e
soprattutto nel 1993 accadde che gli editori dei grandi quotidiani italiani, in qualità di imprenditori dalle molteplici attività, erano sotto schiaffo da parte del pool dei magistrati del
quarto piano. E, in parole povere, per farla franca utilizzarono i media di loro proprietà per appoggiare l’inchiesta.
Fu un lavoro scientifico, simboleggiato dal giro di telefonate
serali tra i direttori di Corriere della Sera, Repubblica, Stampa e Unità per concordare cosa mettere in pagina e cosa no.
Molti altri quotidiani seguivano a ruota, come si suol dire.
Non si può non ricordare, nel fronte favorevole all’indagine,
la presenza di Vittorio Feltri, allora direttore de L’Indipendente, il quale riuscì a titolare in prima pagina I socialisti non
vanno più in Somalia perchè li non c’è più niente da rubare.
Recentemente Feltri in una intervista ha spiegato: “Andai a
trovare Bettino ad Hammamet e ci chiarimmo, io gli spiegai
che scrivevo quelle cose perchè mi facevano vendere copie”.
Parole che sono uno spaccato dell’Italia di allora e se permettete dell’Italia di oggi. Gli editori: Cesare Romiti, Carlo De
Benedetti, il Pci-Pds e altri. Tutti miracolati dall’inchiesta
“due pesi e due misure”. Sia Romiti sia De Benedetti, ad un
certo punto, consegnarono in procura un elenco delle mazzette versate dai loro gruppi che si rivelò molto lacunoso; ma
non pagarono dazio, come invece era accaduto ad altri personaggi arrestati per inquinamento delle prove anche più volte.
L’informazione in Italia scrisse una delle sue pagine più nere
con il silenzio su quella riunione nell’ufficio del procuratore
capo Borrelli dove si decise non solo di non arrestare Romiti
ma di non indagare più sulla Fiat. Per aver scritto la verità su
quell’incontro (Il Mattino, 28 aprile 1993) sono tuttora inseguito dai magistrati del pool con una richiesta risarcitoria.
Mediobanca, che si era letteralmente pappata la Montedison,
poco mancò che non ricevesse dalla mitica squadra di Pm
addirittura una medaglia.
I
Fiat e Mediobanca, poteri forti dell’economia e della finanza,
non potevano essere toccati per una sorta di ragion di Stato
che da sempre non è estranea all’amministrazione della giustizia in Italia. Ricordo che nell’aula del processo Cusani
l’avvocato difensore Giuliano Spazzali, uno dei pochi ad aver
cercato di contrastare la verità ufficiale, rivolgendosi all’Eroe, al secolo Antonio Di Pietro, disse: “Se il Pubblico ministero decidesse di andare a fare un giro in via Filodrammatici
lo accompagnerei volentieri...”.
Naturalmente l’Eroe in quel periodo aveva altro da fare per
continuare la sua attività di depistaggio istituzionale. In quegli anni infatti il ruolo della procura fu quello di inquinare le
prove. Per due volte i Pm chiesero di archiviare le indagini sul
cassiere del Pds Marcello Stefanini, per due volte il Gip Italo
Ghitti, che pure aveva firmato decine e decine di arresti chiesti dal pool, ordinò accertamenti in 12 punti. Tranne una ridicola rogatoria a Berlino, la procura non fece assolutamente
nulla. E non c’entrano le toghe rosse. I signori del quarto piano avevano bisogno di una sponda politica per andare avanti.
Nel caso in cui avessero indagato anche sui vertici nazionali
del Pci-Pds, la risposta del Parlamento sarebbe arrivata in
pochi giorni: un’amnistia che avrebbe fatto tornare la magistratura all’attività ordinaria senza più la velleità di “rivoltare
l’Italia come un calzino”.
Berlusconi, Fini e Di Pietro
L’inchiesta “Mani pulite” fu forte soprattutto mediaticamente. Va ricordato che ad appoggiare in modo determinato la
violazione dello Stato di diritto e delle garanzie della difesa,
nonchè l’utilizzo del carcere per ottenere la confessione di
quello che era stato commesso e anche di quello che invece
non era stato commesso, furono le televisioni del gruppo
Mediaset. Ancora oggi sia Fini sia Berlusconi, che per il resto
non vanno più d’accordo su niente, quando parlano di quegli
avvenimenti ancorano le critiche a partire dal 1994. Fu l’anno del famoso avviso al fondatore della Fininvest (21 novemmondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
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>>>> dossier / craxi
bre, Napoli, convegno dell’Onu sulla criminalità internazionale). E prima? Non era accaduto nulla? No, secondo il premier e il presidente della Camera dei deputati di oggi. Insomma, “Mani pulite” sarebbe andata in aceto nel 1994. Nel 1994
a novembre, però. Perchè in primavera Berlusconi dopo aver
vinto le elezioni offrì all’Eroe il ministero dell’Interno. Prima
l’azione della magistratura sarebbe stata salutare.
Nessun giornale all’epoca lo scrisse, sempre perchè dominava il pensiero unico, ma l’anno terribile di “Mani pulite” fu il
1993. Le mancate indagini su Fiat, gruppo De Benedetti, PciPds, Mediobanca. Senza dimenticare il troncone di inchiesta
relativo ai fondi neri dell’Eni, la cui conduzione fu in sostanza affidata al banchiere Pier Francesco Pacini Battaglia,
“entrato e uscito come una meteora dalle sue indagini, dottor
Di Pietro”, ricordò in aula l’avvocato Spazzali. Pacini Battaglia, “anche depositando carte false”, come sostenne poi la
procura di Brescia, inquinò le prove in modo formidabile, ma
agli occhi della procura di Milano l’uomo “appena un gradino sotto Dio” rappresentava l’Eni buono, quello che “collaborava”. Come Franco Bernabè, sentito da testimone al processo Cusani. “E allora l’abbiamo finita con la pratica delle
società off-shore?” chiedeva il Pm più famoso del globo terracqueo. E Bernabè mormorava: “La stiamo finendo”. L’allora amministratore delegato del cane a sei zampe, in pratica,
confessava un reato ancora in essere. Ma l’Eroe in toga nulla
obiettò e soprattutto nulla fece. E il giorno successivo nessun
grande principe del giornalismo scrisse nulla.
Tra il 1992 e il 1993, nella “Mani pulite” che piaceva a tutti
o quasi, e che portava in corso di Porta Vittoria le bandiere di
un arco che andava dal Msi al Leoncavallo, bisognava parlare a verbale per non stare in galera. E occorreva anche l’avvocato giusto per cavarsela. Chi per esempio era assistito da
Michele Saponara non aveva speranze. Il socialista Loris
Zaffra per rivedere la luce dovette cambiare difensore. Un
manager dell’Eni, arrestato e portato di fronte all’Eroe, esordì: “Guardi, non è vero quello che è scritto qui nell’ordine di
custodia”. Il Pm per antonomasia: “Lasci perdere quello che
c’è scritto lì, lei mi deve dire cosa sa”. “Ma io sto qui per
quanto c’è scritto sulla carta” controreplicava il malcapitato.
Nulla da fare. Era la giustizia degli anni del grande terrore,
su cui una vera riflessione non è stata ancora avviata.
Gli imprenditori la fecero franca anche perchè avevano i
media per esaltare la falsa rivoluzione: pagarono i politici di
quasi tutti i partiti tranne uno. Nelle file di quell’uno il Pm
simbolo dell’inchiesta beneficiò di un seggio da senatore
mentre era a caccia di un’immunità parlamentare perchè sotmondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
to inchiesta a Brescia, dove per la prima volta nella sua storia l’Anm emise un comunicato di solidarietà schierandosi
con l’indagato ex magistrato e non con i Pm che facevano le
indagini. La prima volta ovviamente fu anche l’ultima.
Bettino Craxi, di cui si è tornato molto a parlare in questi
giorni per l’eventualità che gli sia dedicata una via o un
giardino a Milano, descritto come il responsabile di tutti i
mali e un grande criminale, fu un colpevole di finanziamento illecito ai partiti tra i tanti. Fu uno sul quale, a differenza
di altri, si indagò a fondo. Non sono mai stato craxiano, vengo dal comunismo libertario, il praticantato giornalistico
l’avevo fatto al Manifesto. Bettino l’ho combattutto politicamente negli anni della mia giovinezza al pari degli altri
leader della cosiddetta prima Repubblica, anche se forse lo
avversai meno di Berlinguer perchè considero il compromesso storico la vera sciagura del dopoguerra italiano e uno
dei motivi per cui i comunisti ortodossi delle Br arrivarono
a essere il secondo partito in molte fabbriche del nord.
Però i guai della politica si risanano con la politica. Il diritto non è uno strumento di trasformazione della società. L’errore terribile della classe dirigente della prima Repubblica
fu proprio quello di delegare interamente alla magistratura
la risoluzione del problema della lotta armata interna prima
e della mafia poi. Le toghe acquisirono così troppo potere e
nel momento in cui la politica si indebolì la magistratura le
saltò al collo, con la scusa della lotta alla corruzione, che
c’era anche prima e che Pm e giudici avevano fatto finta di
non vedere. Siamo passati negli ultimi trent’anni e più da
una emergenza all’altra e l’emergenza è diventata prassi
normale di governo. Al punto che in questa seconda Repubblica si governa sulla base della cronaca quotidiana. E fino a
che non ci sarà progettualità, la magistratura, insieme a economia e finanza, avrà sempre spazio per pesare molto di più
rispetto al normale.
/ / 21 / /
>>>> dossier / craxi
Una parte essenziale
della nostra storia
>>>> Biagio de Giovanni
n questo anniversario –nonostante l’asse Borrelli-Di Pietro, dio
ne scampi, ricostituitosi sulla toponomastica di Milano- si è riaperto il dibattito su Craxi, favorito forse da una congiuntura politica destinata a mettere in evidenza i molti elementi anticipatori che
erano nella sua visione politica, che fu “sua” e che di certo fallì
anche per sue responsabilità, e che andò anche in parte, allora, contro “il principio di realtà”, intrisa come fu fin dall’inizio di giacobinismo. Certo, bisognerebbe ripercorrere con calma date e situazioni, periodizzazioni stringenti e motivate. Insomma, sarebbe necessario, credo, un vero e proprio studio non solo su di lui, ma su quel
“nuovo” Psi –il Psi di Martelli, e di tanti altri- che nel 1976 sembrò
aprire una nuova stagione politica dell’Italia e poi finì nel nulla,
dopo quindici anni circa di più o meno convulse vicende.
Bisognerebbe far questo in un momento in cui si dibatte sul se la
seconda Repubblica sia ancora viva o piuttosto moribonda (e su
questo ho già espresso la mia opinione: propendo per il “viva”),
giacchè personalmente non ho dubbi che l’asse strategico intorno al
quale nacque il craxismo fu proprio la messa in discussione di un
tratto decisivo della storia repubblicana, della sua “ideologia”, dei
suoi tabù, delle sue idiosincrasie, del suo senso comune, e insomma di quello che si può chiamare il suo sistema egemonico, che
comprendeva troppe cose contro le quali si rischiava di cozzare e
contro le quali ci si andò effettivamente a urtare. La strategia di Craxi nacque anzitutto per affossare il compromesso storico, che di
quella storia intendeva essere “conclusione”: è lì che va ricercato il
punto d’origine. Craxi è insomma l’antiMoro e l’antiBerlinguer, e
va ancor di più apprezzato il suo comportamento in occasione della tragedia che colpì il grande dirigente della Dc.
Le date, come si usa dire, sono decisive. E che il Midas arrivi nel
1976, qualche anno solo dopo l’opa del compromesso storico, la
dice lunga sulla sua origine. Senza i celebri articoli di Enrico Berlinguer su Rinascita che annunciavano la svolta, o meglio che
dichiaravano esplicitamente di volere ciò che già in parte era nelle
cose, Craxi non avrebbe avuto la forza di emergere come la vera
I
novità italiana. Questo costituisce, secondo me, un punto di partenza fermo, intorno al quale avviare ragionamenti che possono avere
esiti e traiettorie diverse. E questo spiega perché l’attacco fu anche
alla cultura del Pci, e mi riferisco naturalmente all’azione del Mondoperaio di Federico Coen, senza il cui lavoro molte cose sarebbero rimaste implicite, pura politica, e con lui divennero invece
embrione di nuova cultura politica.
Si trattava di smuovere un monolite dalla sua tana. Di mettere in
discussione, a sinistra, certezze che non erano mai state messe in
discussione e che nessuno chiedeva che lo fossero.
L’appuntamento del compromesso storico fu proposto dal Pci
come elemento di una continuità che veniva da lontano, i cui
embrioni erano addirittura nella costituzione originaria del Pci -al di
là di affermazioni del tipo “fine della spinta propulsiva dell’Urss”
che apparvero più importanti di quanto non fossero in realtà, trattandosi di cosa come tale già acquisita- e ne rivendicavano un continuismo politico-culturale che serviva a confermare la costituzione
storico-materiale del paese e un vecchio, ambiguo, ma anche complesso, ragionamento sulla questione cattolica. Il compromesso storico voleva insomma sanzionare che il consociativismo di fatto, più
o meno strisciante, diventasse governo comune del paese, e dovesse trovare quindi motivazioni più solide e di lungo periodo. Non era
tanto preparatorio di una alternanza di governo, come pure venne
da qualcuno interpretato, ma come consolidamento definitivo di
equilibri di una storia allora quasi quarantennale.
Craxi nacque in opposizione a questo disegno, e per far ciò dovette reinterpretare l’autonomismo socialista in una chiave inedita.
Dovette battere il conservatorismo di Francesco De Martino senza
potersi semplicemente riagganciare a motivazioni da primo centrosinistra. Si trovò in una situazione scoperta e assai difficile, anche
perchè il compromesso storico veniva mostrato come esito necessario della storia della prima Repubblica, ed aveva in sé una sua
immanente forza e quasi necessità, stante gli equilibri politici italiani e stante la pericolosa china inaugurata da Piazza Fontana, 1969,
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
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>>>> dossier / craxi
e poi esplosa in forme variopinte negli anni settanta. Incrinare la
sua logica interna era lavoro difficilissimo, con sicure venature
“giacobine”. Bisognava disegnarne il potenziale carattere di “regime” per risvegliare qualche pezzo di coscienze liberal-socialiste e
post-azioniste, e su questa base lavorare a un nuovo Psi e a una nuova sinistra. Il Psi era l’unico cuneo che si poteva inserire in quel
disegno per buttarlo giù. E questo implicava l’apertura di un doppio fronte, verso il Pci facendo intravvedere una alternativa di sinistra, e verso la Dc riproponendo in forma nuova la capacità di
governo del Psi. Anche questo, un equilibrio difficile e non privo
certo di ambiguità.
Per chi ama le fasi aurorali del movimenti (anche di idee) è quello
indicato l’aspetto del craxismo che più affascina, anche perché è
quello veramente anticipatore di una crisi di sistema che si verificò
molto dopo, in tutt’altra forma e coinvolgendo lo stesso Psi. Craxi
aveva capito in anticipo alcune cose: che il consolidamento dell’asse Dc-Pci costituiva un destino di conservazione per l’Italia, e che
questo consolidamento coincideva con un rafforzamento sine die
della storia della prima Repubblica, ovvero di un sistema egemonico in via di esaurimento; che era venuto il momento di una riforma
della Costituzione (la “grande riforma”) per mettere in discussione
i tratti conservativi di un sistema idealmente e politicamente assembleare; che si dovevano mettere in discussione i blocchi sindacalizzati; che le matrici culturali del Psi andavano profondamente rivisitate liberandosi dallo straordinario impoverimento che esse stavano
attraversando a favore del suo compagno maggiore; che queste
matrici da riconquistare riportavano verso altri pensieri, e anche
verso tradizioni che soprattutto la critica del Pci aveva violentemente rimosso, a cominciare da quella liberalsocialista; che, insomma, quel nano politico che era allora il Psi, ancora abbacinato da
una vecchia interpretazione dell’unità d’azione, doveva riconquistare la capacità di pensare. Si può aggiungere, e non sempre è stato detto, data anche la profonda diversità delle situazioni, che più di
ogni altro Craxi ha anticipato il socialismo immaginato da Tony
Blair, il che costituisce osservazione di non poco interesse storicopolitico per una precisa ragione: Blair aveva alle spalle la rivoluzione degli anni ottanta, e potè fondarsi almeno in parte su di essa
e sul lavoro “sporco” fatto dalla Thatcher. Craxi no, ed egli dovette leggere fra le righe della storia del mondo per vedere in anticipo
ciò che solo gli anni successivi squaderneranno davanti a tutti.
Ma non mi posso infilare in un discorso troppo complesso e dalle
troppe facce, e voglio piuttosto interrogarmi assai brevemente sulle ragioni del fallimento del disegno che ho cercato di rappresentare, e sulle ragioni del disastro finale. C’è stato probabilmente uno
squilibrio iniziale fra questo complesso di idee e i rapporti di forza
effettivi in campo, quello che chiamavo strisciante giacobinismo. In
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
politica, quando questo squilibrio è eccessivo, tende a prevalere
l’effettività dei rapporti di forza, dentro i quali la strategia innovativa si continua a scorgere solo per vie indirette e in qualche caso
emblematiche: la scala mobile, ad esempio, possibile anche perché
la Cisl di Carniti fu d’accordo. Che la stagione “ideale” craxiana
tenda ad esaurirsi nei primi anni ottanta, è segno di questo. L’idea
generale rimane, ma per ora viene accantonata, e accantonare una
grande idea significa in varia misura rinunciarvi.
Puro velleitarismo, allora, quello del primo Craxi? Non credo; se
così fosse, dovrei rimangiarmi tutto ciò che ho detto, e peraltro non
ogni strategia che fallisce è semplicemente velleitaria. Le idee erano
molto forti e coglievano aspetti profondi della situazione italiana,
esprimevano una diagnosi che allora nessuno faceva, ma che poi si
sarebbe dimostrata, in tutt’altra situazione, fondata e anticipatrice.
Furono peraltro quelle idee l’asse intorno a cui si formò il nuovo
gruppo dirigente del Psi che senza di esse non sarebbe esistito.
Il primo vero ostacolo si chiamò Enrico Berlinguer, il politico che
riuscì a mettere insieme compromesso storico e diversità comunista, due realtà reciprocamente escludentisi, e rinunciò a entrare in
quella terza realtà aperta da Craxi, alla quale il Pci avrebbe potuto
dare un contributo decisivo per una alternativa. Era possibile immaginare un diverso atteggiamento del Pci? Tutto in politica può avvenire, anche se per le ragioni indicate all’inizio non era certo cosa
facile. Quel partito in realtà si era infilato in un vicolo cieco distruttivo, e prender sul serio Craxi (e non dico affatto accoglierlo “in
toto”) avrebbe potuto costituire qualcosa che avrebbe potuto cambiare la storia della sinistra italiana e dunque di tutto il sistema politico. Così non fu, e venne meno una dialettica decisiva. Craxi anzi
diventò il principale nemico da battere a sinistra, come il nemico
mortale da distruggere. E Craxi rispose a sua volta per le rime, con
altri eccessi, senza accorgersi, forse, che senza quella sponda il suo
progetto era destinato a fallire, o comunque a mutare completamente natura.
Craxi entrò così in un sistema di cui alla fine rimase vittima,
anche perché, una volta entratovi, contribuì a ridefinirlo a immagine di quelli che gli sembrarono interessi di potere del suo partito. Quando l’asse ideale e strategico viene meno, tutto diviene
possibile, soprattutto per chi su quell’asse strategico, contrariamente a ciò che normalmente si pensa, ha giocato parte essenziale della sua identità. Ma qui incomincerebbe un altro discorso sulle modalità di fine del sistema italiano nei primi anni novanta, un
capitolo che rinuncio evidentemente ad aprire. Non senza però un
piccolo appello al fatto che, di là dal merito delle scelte politiche,
Craxi va oggi pensato come parte essenziale della storia italiana,
con la buona pace di chi ha costruito le sue fortune sulla sua
distruzione umana e politica.
/ / 23 / /
>>>> dossier / craxi
Il paradosso dell’innovatore
>>>> Ernesto Galli della Loggia
lla fine, mi sembra, si potrebbe arrivare a questa conclusione: Craxi, l’uomo del nuovo per antonomasia, il
propugnatore del cambiamento, rimase vittima proprio delle novità e dei cambiamenti che non aveva saputo vedere o
interpretare. Su questa clamorosa, paradossale, sfasatura si
consumò la sua repentina sconfitta politica ed è da qui che
continua a venire alla sua catastrofe personale un sapore
amaro di beffa.
Il fatto si è che mentre nella sostanza il nuovo a cui il segretario socialista ebbe sempre mente e per cui (ma fino ad un
certo punto, come dirò) cercò di battersi s’iscriveva interamente nell’ambito del sistema politico propriamente detto
(inteso cioè come insieme di regole e come rapporti di forza tra i suoi attori), viceversa le novità che alla fine lo travolsero, e che egli non vide o sottovalutò, si produssero
precipuamente nell’ambito del cosiddetto “sociale”: in particolare nell’ambito dell’opinione pubblica, dei giudizi diffusi, dei modi accreditati di sentire e di ragionare. Accadde
allora, infatti (parlo della seconda metà degli anni Ottanta),
qualcosa che non era mai accaduta prima nella storia della
democrazia italiana: vale a dire che per un concorso straordinario di circostanze cominciò a formarsi nel paese un’opinione pubblica sufficientemente vasta e dagli orientamenti radicaleggianti la quale, da un certo punto in avanti,
si sottrasse alla diretta influenza dei partiti cominciando ad
agire sulla scena politica sostanzialmente in proprio. Introdurrò più avanti le necessarie cautele analitiche in questa
affermazione che, così come l’ho espressa, rischia di apparire davvero troppo ingenua. Ma ciò che qui m’interessa
sottolineare è come sia stata precisamente la presenza di
questo protagonista inedito, di questo tipo nuovo di opinione pubblica - politica, politicissima, ma non più connotata
in senso partitico - l’elemento decisivo che determinò non
solo e non tanto il minuto andamento delle inchieste giudiziarie, quanto soprattutto ne provocò l’ innesco finendo poi
per costituire il carattere politicamente non dominabile dell’intero fenomeno di “Mani pulite”. Fenomeno che infatti,
A
anche se molti cercarono più meno astutamente di usarlo e
di condizionarlo, ebbe alla fine un esito da nessuno di
costoro previsto o voluto.
Craxi non ebbe alcun sentore di ciò che pure si andava preparando sotto i suoi occhi. Animale totus politicus cresciuto per intero nel mondo dei partiti della prima Repubblica,
egli non dismise mai nei confronti della cosiddetta società
civile un atteggiamento nella sostanza pedagogico e di direzione. Pur proclamandosi - e per molti versi essendo realmente - l’esponente politico più in sintonia con alcune esigenze e alcune nuove tendenze del mondo fuori del Palazzo, egli ostentò sempre verso questo mondo un senso di
distaccata superiorità, legato probabilmente al concetto
altissimo che aveva della politica e del proprio ruolo. Gli
obiettivi della “governabilità” e della “modernizzazione”
che perseguiva erano sì tali da essere condivisi da una gran
parte della compagine sociale, e certamente essi rappresentavano assai di più che una pura istanza politicistica. Ma
Craxi li perseguì costantemente mantenendo un atteggiamento del tipo “faccio tutto io, lasciatemi lavorare”: pensando cioè che quel che davvero contava, alla fine, erano
solamente la politica ed i suoi attori a deciderlo; e che quindi, purchè fosse stato esattamente valutato e interpretato, il
“sociale”, al pari della proverbiale intendenza, non avrebbe
potuto fare altro che “seguire”. Con tale burbanzosa sicurezza Craxi trattò il suo partito, gli intellettuali ad esso più
o meno vicini, e molto altro ancora. Ottenendo i successi
che si sa, certo, ma altresì dovendo anche periodicamente
constatare che tutto ciò che egli faceva otteneva poi risultati elettorali solo miserrimi. In realtà, insomma, a dispetto di
tutti i suoi sforzi, non gli riuscì mai di farsi seguire dall’intendenza. Evidentemente c’era nella sua strategia qualcosa di sbagliato alla radice.
Tanto più che anzi l’intendenza gli si mise ben presto contro. Nell’Italia della seconda metà degli anni ’80, infatti,
via via che si allentano la morsa della guerra fredda e la
camicia di forza ideologica fino allora infilata dai partiti sul
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>>>> dossier / craxi
corpo della società, cominciano ad apparire sempre più evidenti i numerosi aspetti patologici accumulatisi specialmente negli ultimi due decenni. Aspetti patologici che ora
appaiono particolarmente insopportabili perché privi degli
alibi che potevano essere invocati in precedenza: un debito
pubblico in crescita libera a causa principalmente degli
sprechi e delle disposizioni compiacenti in vigore nel campo della sanità e delle pensioni; un’evasione fiscale altissima e indomabile; una malavita organizzata sempre più
padrona di intere regioni del paese; un’amministrazione
dello Stato pachidermica e inefficiente; servizi pubblici
scadenti, indegni di un paese civile; dappertutto un livello
di corruzione strutturato, capillare, assillante e quasi sempre impunito; la giustizia che ogni tanto prova a colpire ma
che deve battere regolarmente in ritirata di fronte all’uso
spregiudicato dell’immunità parlamentare o ad altri
inciampi, sicchè è rarissimo che si arrivi a una sentenza.
Infine, come denominatore comune, un sistema politico
bloccato, sì, ma attivissimo nell’esercitare il proprio dominio su qualunque parte della società (a cominciare dalla
magistratura, come ho accennato) e nell’occupare qualunque spazio d’intermediazione con richieste continue di
denaro: un sistema politico abituato a disporre a suo piacere di migliaia di cariche solitamente ben retribuite, a
elargire favori dietro consenso, a far valere su tutto e in
qualunque occasione la volontà del “partito”, cioè delle
proprie immobili oligarchie.
Così accade non a caso che sia proprio verso i partiti e il
loro sistema, sentiti come usurpatori dei diritti dei cittadini,
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
che cominci a manifestarsi un sentimento di dissociazione,
che prende la forma di una critica sempre più vasta e - ciò
che più conta - trasversale. Per la prima volta il termine
“partitocrazia”, fino allora proprio esclusivamente del lessico della destra, comincia nella seconda metà degli Ottanta a trovare largo impiego anche a sinistra. E’ un segnale di
quanto sta accadendo. Ed è un segnale percepibile ben prima di “Mani pulite”, senza il quale è facile immaginare che
questo fenomeno non ci sarebbe neppure stato o avrebbe
avuto effetti assai meno sconvolgenti. Ben prima del ’92,
ad esempio, anche la Chiesa italiana si fa pubblicamente
paladina della “legalità” e della lotta contro la malavita
dando chiari segni di voler ritirare la delega in bianco rilasciata a suo tempo alla Democrazia cristiana. Dal canto
suo una parte significativa del mondo cattolico, parroci,
gruppi di fedeli, riviste, perfino vescovi, cominciano a
prendere le distanze dal loro antico partito, mentre in molte diocesi si aprono “scuole di politica” con l’esplicito proposito di formare una nuova classe dirigente. Sono molti e
di varia natura, dunque, gli apporti che confluiscono nella
formazione della nuova opinione pubblica di cui dicevo
sopra. Ma tutti si riconoscono alla fine in un sentimento
comune: l’anticraxismo.
Attraverso quali meccanismi Craxi sia divenuto agli occhi
di un buon numero di italiani il rappresentante delle più
inquietanti pulsioni eversive e nello stesso tempo l’incarnazione assolutamente insopportabile del sistema esistente, il
simbolo sia del pericolo del nuovo che dell’impresentabilità del vecchio, deve essere ancora spiegato in modo soddisfacente. Certo si è che egli non sembrò aver alcun sentore
della potenzialità distruttiva che un tale movimento poteva
avere, rimanendo convinto fino all’ultimo che si trattasse di
qualcosa di sostanzialmente artificiale, di una sorta di
manovra-complotto sollecitata e orchestrata dai suoi due
nemici di sempre: il Partito comunista e il gruppo Repubblica-L’Espresso. Ora non intendo davvero sottovalutare
l’incidenza dell’uno o dell’altro. Certamente il nucleo duro
dell’ “anticraxismo” fu rappresentato da una opinione
“comunista” venuta crescendo dal 1978 in avanti e giunta a
pieno rigoglio con la predicazione berlingueriana sulla
“questione morale”; così come è sicuramente vero che i
giornali del gruppo Caracciolo non persero una sola occasione per sparare a zero sul segretario socialista. Ma nell’ultima fase della prima Repubblica il movimento antisocialista vide convergere un arco di forze ben più vasto e
variegato - dai già ricordati ambienti cattolici a quelli di
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cultura liberaldemocratica vicini tradizionalmente al Partito repubblicano, a settori importanti della Confindustria che ne fecero in breve un vero e proprio senso comune diffuso trasversalmente. La stampa vi giocò senz’altro una
parte, ma è precisamente questo ciò che avviene di solito in
tutti i movimenti di opinione pubblica, i quali trovano sempre voci e giornali che sappiano parlare a loro nome e che
quindi in tal modo ne amplificano anche la portata. Le
copertine dell’Espresso avrebbero potuto ben poco, insomma, se esse non fossero cadute su un terreno già pronto a
riceverle. E se non ci fosse stato un tale terreno è assai probabile che molte altre cose sarebbero andate assai diversamente.
Perché Craxi non si avvide di quanto stava accadendo o non
ne capì la pericolosità? Una risposta va cercata nell’assorbente politicismo che lo caratterizzava, nella sua convinzione che alla fine decideva di tutto la politica e i suoi attori, cioè i partiti. Al massimo con il concorso (la complicità?) dei giornali e della tv. L’idea che invece in certe circostanze una cosa come l’opinione pubblica in quanto tale,
pur con tutto quanto di vago è insito nel termine “opinione
pubblica”, potesse avere un ruolo condizionante decisivo,
non dovette mai passargli per la testa. Tanto meno che circostanze del genere stessero per prodursi in Italia. Ma c’è
una ragione, io credo, assai più importante, e che riguarda
l’intera strategia messa in piedi dal segretario socialista. In
sostanza la mia opinione è questa: Craxi non capì quanto
stava accadendo né minimamente ne immaginò gli sviluppi
per un motivo soprattutto: perché fraintese radicalmente il
significato della caduta del muro di Berlino, cioè dell’evento che ormai dominava l’intero scenario europeo se non
mondiale, e dunque anche l’orizzonte italiano.
Egli credette che quell’avvenimento costituisse sì una svolta, ma una svolta all’interno di una fase storica precedente,
quella apertasi nel ’17 che aveva visto al centro lo scontro
tra il comunismo da una parte e dall’altra tutto ciò che gli
si contrapponeva, e dunque anche la socialdemocrazia.
Pensò, di conseguenza, che grazie al novembre ’89 il partito socialista fosse finalmente in grado di cogliere la tanto
attesa rivincita sugli antichi rivali, magari tornare ad essere
egemone a sinistra, che insomma avesse davanti a sé un
avvenire pieno di promesse. E’ vero: da quando il suo
governo aveva avuto termine (1987) egli era stato spinto a
stabilire rapporti sempre più stretti con la destra democristiana e ad annacquare ogni spinta riformatrice. Ma ora,
grazie alle nuove prospettive che la caduto del Muro riapri-
va a sinistra, la tendenza poteva essere invertita. Ora diventava possibile saldare vecchi conti e aprirne di nuovi.
Le cose però non sarebbero andate così, dal momento che
il punto di partenza non era quello che Craxi credeva. La
caduta del Muro di Berlino, infatti, non rappresentava affatto una svolta all’interno di una fase storica destinata
comunque a durare. All’opposto, esso segnava l’inizio di
una fase nuova, interamente nuova. La fine della guerra
civile europea, infatti, non solo cancellando il comunismo
cancellava anche l’anticomunismo (o perlomeno lo obbligava a cercare nuove ragioni d’essere), ma in tempi non
troppo lontani, come si sarebbe ben presto cominciato a
vedere in molte società europee, era destinato a riproporre
su basi rinnovate rispetto agli assetti ereditati dal ‘45 i problemi del consenso e della forma-partito: cioè alcuni dei
problemi cruciali di ogni regime democratico.
Tanto più ciò doveva accadere in Italia dove, come ho detto, già nella seconda metà degli anni Ottanta, l’insofferenza per il carattere immobile e oligarchico del quadro politico, la critica alla partitocrazia e alle sue pratiche, la protesta contro il cattivo funzionamento di tutte le amministrazioni pubbliche, lo scandalo per il dilagare delle grandi
organizzazioni criminali, stavano crescendo fino a porre un
problema di legittimazione sistemica. Di cui Craxi però non
fece mostra di accorgersi affatto.
Neppure sei mesi dopo gli avvenimenti di Berlino, nelle
elezioni regionali del maggio ’90, la Lega raggiunge lo
strepitoso risultato del 5 per cento a livello nazionale; nell’agosto di quello stesso anno inizia, con l’evidente favore
dell’opinione pubblica, la raccolta delle firme per i referendum sulla legge elettorale; poco dopo il Partito repubblicano esce dal governo, mentre nel giugno ’91 passa a larga
maggioranza popolare il referendum sulla preferenza unica:
in due anni, nel frattempo la mafia ha ucciso il giudice
Livatino e Libero Grassi, e il ministro dell’Interno Scotti ha
denunciato in Parlamento la presenza di oltre 500 organizzazioni criminali in grado di controllare quasi interamente
Campania, Calabria e Sicilia. Nessuno di questi segnali,
che oggi a noi appaiono chiarissimi, fu tuttavia colto dal
segretario del PSI. Craxi restò ad attendere fiducioso la disintegrazione elettorale del PCI ormai PDS, sperando di avere comunque in mano la carta decisiva dell’accordo con il
Caf per la spartizione delle più alte cariche dello Stato. Non
poteva sapere che la Procura della Repubblica di Milano,
assai più di lui politicamente sagace, avrebbe capito meglio
la situazione e lo avrebbe battuto sul tempo.
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>>>> dossier / craxi
Il leader che manca alla sinistra
>>>> Piero Craveri
l decennale della morte porta anche a sinistra, assieme alle
solite contumelie, qualche equilibrato riconoscimento in più
alla memoria di Bettino Craxi (penso, ad esempio, al meditato
articolo di Mario Pirani su La Repubblica del 2 gennaio). Ma
sostanzialmente da quella parte l’ostracismo non è affatto
caduto. Proprio di quest’ultimo mi preme innanzi tutto dare
una spiegazione che sintetizzerei così: la sconfitta politica di
Craxi (perché c’è stata una sua sconfitta, propriamente politica, sulla quale ritornerò subito) è stata causa diretta e pregiudiziale del crollo della sinistra, quale si è verificato in questi
anni. Il segno sta in quella fetta decisiva di consenso moderato che Craxi aveva raccolto attorno a sè, motivato, più che da
una prospettiva riformista, da una possibilità di modernizzazione delle istituzioni e della società, e che la sinistra appunto
ha perduto. In questo, e solo in questo, c’è una continuità tra
Craxi e Berlusconi: è finito a destra quello che con Craxi stava, almeno potenzialmente, a sinistra.
I
La sinistra avrebbe dovuto ripartire da Craxi. Avrebbe avuto un
vantaggio su di lui, che non c’era più la DC. Invece è ripartita da
Occhetto, Di Pietro, Veltroni e quant’altri, all’ombra del lascito
politico inesistente di Berlinguer. Occorreva una riflessione profonda che non c’è stata. Ciò pesa ed è sempre più evidente, per
cui l’ostracismo rimane, perché è l’unico modo di esorcizzare le
mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi
responsabilità politiche che sono connesse a questa mancata
riflessione. Come rimane l’ostracismo per Berlusconi, che ormai
da unificante è diventato lacerante per la sinistra.
Ma non c’è congiunzione politica tra Craxi e Berlusconi,
come ho sentito con insistenza affermare dalla Annunziata in
un’intervista televisiva a Stefania Craxi ancora qualche giorno
fa. Del resto il primo rappresenta un esito mancato della prima
Repubblica, il secondo un percorso promesso e solo molto
parzialmente realizzato di transizione ad una seconda Repubblica. Tra i due c’è il crollo di un sistema politico, fatto di partiti in apnea ma anche in trasformazione, con una scienza dell’equilibrio politico da aggiornare ma esistente, con una cultura democratica malgrado tutto comune e una concezione ferma dell’unità nazionale. Cose tutte di cui Craxi era fermissimo cultore, ed ora scomparse.
La sconfitta di Craxi
Vorrei tornare sulla sconfitta di Craxi. Essa risale al 1987, con la
fine dell’VIII legislatura. Craxi usciva da quattro anni di presidenza del Consiglio indubbiamente vincente. La congiuntura
economica era della migliori; l’inflazione domata con la drastica
riduzione della spirale salari/prezzi seguita alla vittoria referendaria sulla scala mobile; la stagione del terrorismo sepolta; lo stile virtuale della governabilità e la dimostrata non necessità del
consociativismo chiedevano d’essere incorporati nelle istituzioni. Comunisti e democristiani, in palese difficoltà, si mostravano contrari a qualsiasi sostanziale novità. Il PCI tendeva a sottrarsi alla prospettiva cieca in cui nel 1980 l’aveva collocato Berlinguer, recalcitrante a qualsiasi ipotesi politica che non riproponesse le linee dell’ormai sepolto suo compromesso storico. E lo
fece radicalizzando la sua posizione nell’arena politica, in primo
luogo contro Craxi, senza uscire dall’equivoco creato da Berlinguer. La DC praticava due strade: quella che Andreotti aveva
definito dei “due forni”, e quella messa in opera da De Mita con
una trappola che aveva anche il suo risvolto istituzionale, come
risposta alla “grande riforma” suggerita da Craxi. La trappola
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consisteva essenzialmente nel vincolare l’alleanza con il PSI ad
un patto di legislatura, ancor più ad un vincolo reciproco e permanente di alleanza, così da assicurare il primato della DC nella coalizione di governo.
L’idea di congelare la dialettica politica in siffatto modo rispondeva ad una concezione clanica della politica. Era anche l’idea
che una classe politica si legittima a detentrice del potere assoluto attraverso patti giurati e regole “d’onore” tra le parti, propria
di un’antropologia culturale diffusa in Campania ed in altre
regioni italiane, che nulla ha a che fare con una concezione liberal-democratica della politica, e neppure col ruolo ricoperto dalla DC nel sistema politico almeno fino alla morte di Moro, ch’era stato quello di garantire non esclusivamente se stessa, se non
attraverso l’equilibrio dell’intero sistema politico.
La parabola di De Mita era incominciata con propositi diversi.
Nel 1983 Beniamino Andreatta aveva operato una revisione
profonda degli orientamenti economici della sinistra democristiana, sostenendo tra l’altro che “oggi non i vasti piani di investimento, ma la riduzione della spesa pubblica può permettere
il rilancio dell’occupazione” e che “la spesa in eccesso preme
sui tassi di interesse, alzandoli ed escludendo l’accumulazione
di mezzi di investimento; preme sul cambio, obbliga ad un
cambio elevato e quindi deindustrializza il paese”.
Il peronismo reale
Nel dibattito interno della DC questa riflessione non fece pressoché alcuna presa. Ma De Mita vi aveva prestato orecchio,
producendosi in qualche accento di thatcherismo e di reganismo. Craxi l’aveva ripreso duramente. Il fatto è però che proprio Craxi aveva avviato il nuovo riformismo socialista su
quella strada, che d’altra parte era quella seguita dai francesi e
dagli spagnoli, e sarebbe stata poi la formula di successo con
cui, negli anni ’90, Tony Blair avrebbe vinto le elezioni. Con
matura riflessione, cosa di cui De Mita non era capace, Craxi
coniugava liberismo e socialità: occorreva liberalizzare il sistema, mantenendo alcuni strumenti di controllo pubblico, e garantire i lineamenti fondamentali del welfare nel nuovo contesto internazionale che stava maturando. Su ciò il riformismo
socialista spese più d’una riflessione compiuta. Certo la liberalizzazione in Italia doveva partire dal sistema politico e dalle
istituzioni pubbliche che costituivano i vincoli pregiudiziali
propri del neocorporativismo italiano. E democristiani e comunisti erano fermissimi nemici di qualsivoglia cambiamento.
Craxi fu lo statista italiano che intuì le ragioni di fondo che rendevano necessario il cambiamento e prese a dare loro forma. La
sua iniziale pars destruens del consociativismo, pilastro di quel
sistema, fu efficace su tutti i fronti, tanto che il suo politique d’abord riusciva a dettare l’agenda di governo alla stessa DC. Generò un’autentica speranza in chi voleva il cambiamento e la
modernizzazione, rendendo plausibile la possibilità di una riforma del sistema. Certo in termini culturali era una rivoluzione
consapevole della sua radice liberale oltre che socialista. Dal
punto di vista politico tuttavia generò presto una reazione ottusa,
che ipocritamente rimaneva coperta, ma sostanzialmente era
un’inclinazione del blocco d’ordine comunista e democristiano
di natura intrinsecamente violenta, che poi si sarebbe mostrata
palesemente, quando il sipario sarebbe caduto sull’intero sistema
politico, con inaudita determinazione da parte dei postcomunisti
e di altri soggetti, non a caso più contro Craxi che contro altri.
Ma esauritasi la sua esperienza di capo del governo, di fronte al
labirinto politico che gli era stato creato intorno e che portò alla
paradossale fine di quella legislatura con un monocolore democristiano che riceveva alla Camera dei Deputati il voto dei socialisti e non quello della DC, cosa avrebbe dovuto fare Craxi?
Accettare il patto che gli veniva offerto o rompere le righe? Craxi si preoccupò di sgombrare la strada da De Mita, e non gli fu
difficile, ma finì poi per stringere un legame analogo con
Andreotti e Forlani. Come avrebbe potuto altrimenti rompere le
righe? Avrebbe dovuto prepararsi seriamente ad una deriva plebiscitaria sul tema delle riforme. I sondaggi mostravano un non
trascurabile sostegno della pubblica opinione. Nel 1991 Cossiga
dal Quirinale gli offrì anche una sponda per questa operazione.
Un tema ricorrente anche oggi, specie a sinistra, è quello antiplebiscitario. Ma per le riforme istituzionali il referendum è previsto perfino dall’articolo 138 della nostra Costituzione e in altri
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>>>> dossier / craxi
paesi, dove è stato attuato, come in Francia, ha dato luogo a
solide istituzioni. L’oggetto non sembra essere invero più il
tema della riforma istituzionale, ma quello del premierato.
Sembra un’implicita riabilitazione della forma partito, dinnanzi a uno scenario in cui i partiti, almeno nella forma con cui li
abbiamo conosciuti, non ci sono più, e quelli nuovi hanno
strutture incerte fondate su regole errabonde. E poi, di grazia,
le primarie cosa sono se non una deriva che potremmo a giusto titolo definire plebiscitaria, se fossero regolate da norme e
non da seggi vaganti senza liste di elettori?
Tocco questo punto nella convinzione che queste polemiche che
si trascinano nel tempo coprano un’altra questione sostanziale,
quella della degenerazione populistica del neocorporativismo
consociativo italiano. Se si riprendessero in mano gli studi di
Gino Germani sul peronismo argentino si troverebbero analogie profonde Come questa deriva si sia andata consolidando, a
partire dalla crisi del primo centro-sinistra, sarebbe storia da
ripercorrere con attenzione. Nel PCI la matrice non è quella
originaria togliattiana, ma piuttosto ingraiana, a cui Berlinguer
più o meno consapevolmente diede seguito, e data dalla metà
degli anni ’60, avendo per oppositore interno Giorgio Amendola. Per la DC si tratta di una vocazione intrinseca, non
dichiarata ma praticata, implicita nel modello di partito che
Fanfani mise a punto nella seconda metà degli anni ’50 e che
prese forma poi con le modalità e gli effetti che sono noti.
Con questa deriva si scontrò Craxi. Aveva chiaramente percepito le necessità di fondo della società italiana, per cui
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bisognava troncarla alle radici. Non ebbe la forza di farlo.
Dopo il 1987 rimase congelato nel vecchio bossolo del sistema politico italiano. Probabilmente pensava che con la nuova
legislatura, in cui avrebbe dovuto tornare alla presidenza del
Consiglio, poteva riprendere con l’energia e gli strumenti
necessari un nuovo corso. Se questo fu il suo calcolo, si rivelò sbagliato. Il tempo non correva invano e la deriva peronista della politica italiana prendeva forma nella crescita sempre più accelerata del debito pubblico. Il paradosso fu che
mentre non si poneva freno ad esso, si pensò nel contempo
possibile entrare nella moneta unica europea. Ciò significava
rinunciare alla flessibilità del cambio su cui da vent’anni poggiava l’equilibrio socio-economico e politico italiano. La prima fase del trattato iniziava col gennaio 1992. Avremmo
dovuto prima fare le riforme necessarie e svalutare. Fummo
costretti a questo passo nel settembre 1992, quando era troppo tardi per tutto.
La parabola di Craxi segna un periodo della nostra storia. Per
i problemi che ha messo in evidenza non può essere ignorata.
Dell’uomo che ne fu il protagonista, Bettino Craxi appunto,
non si puossono negare le qualità politiche e le doti di statista. Gli si deve riconoscere che seppe cogliere ed affrontare con
coraggio la battaglia politica che aveva intravisto come necessaria. Poiché portò in essa una lucidità di intenti che poi in parte si
è smarrita, non si può non tornare a lui con attenzione e professare una convinta nostalgia per il suo generoso slancio nell’affrontare i nodi ancor oggi irrisolti della nazione italiana.
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>>>> dossier / craxi
L'ultimo dei politici
>>>> Piero Sansonetti
redo che Craxi sia stato l’ultimo difensore dell’autonomia della politica. E’ il suo grande merito. Forse è
anche la ragione vera della sua sconfitta e della sua rovina.
Perché? Semplicemente perché in quei primi anni novanta,
all’indomani della caduta del comunismo, il capitalismo
occidentale stava sperimentando nuove strade, cioè si stava
indirizzando verso l’idea che il potere economico – cancellato lo spettro della rivoluzione - non avesse più bisogno
della mediazione sociale e potesse assumere direttamente il
“comando” della società, detronizzando la politica e le sue
“mollezze”. E’ dentro questo disegno, questo terremoto,
che nasce l’inchiesta “mani pulite”: la magistratura si trova
catapultata su una scena nella quale sta avvenendo un fortissimo rimescolamento dei poteri, e che lascia spazi a protagonisti nuovi, in grado di liberarsi da vecchie subordinazioni e di assumere compiti di primissimo piano. La magistratura decide di diventare il primo di questi protagonisti.
E’ la sua grande occasione: la coglie.
La prima impressione è che con l’inchiesta “mani pulite”,
nel ’92-93, i giudici mettano sotto scacco sia la politica che
l’economia. Forse anche loro credono che le cose stiano
così. Però non è vero. L’inchiesta “mani pulite” viene utilizzata dall’economia per liberarsi dalla stretta della politica, dal suo dominio, e per ingrandire moltissimo la propria
forza. Quando l’inchiesta si conclude, o comunque perde il
clamore mediatico, la politica è distrutta, rasa al suolo;
mentre l’economia non è neppure scalfita, e può iniziare la
sua fase di gigantesca espansione ottenendo la subordinazione della politica, la sconfitta dei sindacati, la fine dei
contrappesi, l’aumento dei profitti, il controllo sociale. La
svolta liberista in Italia si concretizza con “mani pulite” e
con la sconfitta dell’autonomia della politica.
Come mai nessuno difese la politica? Eppure l’Italia del
dopoguerra aveva avuto una classe politica fortissima, che
aveva saputo dominare l’intellettualità, i giornali, la televisione e anche gran parte della macchina economica. Nessuno difese la politica perché dopo la morte di Aldo Moro e
C
di Enrico Berlinguer il ceto politico stava vivendo una crisi devastante. La Dc e il Pci non avevano gruppi dirigenti
in grado di reggere all’urto delle novità della storia. L’unico partito ancora in campo era il Psi di Craxi, ma aveva due
punti deboli, molto deboli: il primo era la sua modesta
dimensione elettorale, largamente inferiore al 20 per cento.
Il secondo era la sua collocazione “centrista”, innaturale
rispetto agli assetti degli altri grandi partiti socialdemocratici europei.
L’errore della sinistra comunista e postcomunista, in quella fase, fu di sottovalutare l’ampiezza del processo in corso, e soprattutto di non comprenderne l’indirizzo. Si pensò
che in fondo si stesse svolgendo una normale operazione di
pulizia, che faceva giustizia di decenni di corruzione e di
prepotenze del potere politico. E che fosse naturale, fosse
giusto che ciò avvenisse. Sfuggì a tutti il fatto che la questione morale in quel momento veniva utilizzata non per
mettere un freno all’invadenza della politica, ma per delegittimarla e privarla della sua funzione. E che questo poteva essere solo un male. Poteva solo determinare uno sbilanciamento dei rapporti di forza a favore dei ceti e delle
classi forti.
Allora Tangentopoli è una invenzione, la corruzione non
esisteva? Chiaro che non è così. La corruzione e il finanziamento illecito esistevano eccome, ed erano il punto
debole del sistema dei partiti (insieme alla tendenza dei
partiti ad abusare del proprio potere e ad invadere tutti i
campi della vita pubblica: la lottizzazione). Non era forse
questo sistema, non erano queste degenerazioni, ciò che
aveva denunciato Enrico Berlinguer poco prima di morire?
Non aveva torto Berlinguer: la questione morale esisteva,
era grande, e i partiti di governo fecero malissimo a sottovalutarla. L’averla sottovalutata li portò alla sconfitta. Perché l’attacco alla politica e la sua demolizione da parte del
“nuovo capitalismo” passarono proprio da lì, dalla questione morale, cioè dal “lato molle” del sistema dei partiti. Era
quello il punto debole e lì sfondarono. L’ultimo discorso
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>>>> dossier / craxi
parlamentare di Bettino Craxi, quello della chiamata di
“correo” verso tutto il mondo politico, ha una sua grandezza – certamente una grande lucidità di analisi – ma è anche
la dichiarazione di sconfitta, di resa. L’ammissione che la
politica non ce la faceva più, si tirava indietro. Quel discorso segna il momento esatto della fine dell’autonomia
della politica.
Craxi però non era un malfattore. L’idea di Craxi malfattore è stata fondamentale per l’operazione “azzeramento della politica”. Era assolutamente funzionale. Non era facile
radere al suolo il castello formidabile che in mezzo secolo
era stato costruito dall’alleanza tra politica, intellettualità e
informazione. Occorreva toccare l’immaginario collettivo,
coinvolgere l’opinione pubblica, serviva uno spostamento
brusco dell’ “asse dello spirito pubblico”. La demonificazione di Craxi, il suo linciaggio, erano assolutamente
necessari al “progetto”. Credo che in qualche modo siano
ancora necessari. Sennò non si spiega la nuova ondata anticraxiana che si è mossa proprio in questi giorni, in occasione del decimo anniversario della morte. L’anticraxismo
costituisce ancora il carburante per le spinte al populismo
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che stanno dominando il nostro paese. E che attraversano –
con ruolo egemonico – tutti gli schieramenti.
Craxi non fu un manigoldo. E da questo punto di vista gli
si deve un risarcimento morale. Chi scrive, all’epoca, era
un militante del Pds e un dirigente dell’ Unità. Ero condirettore, cioè il numero 2, il vice di Walter Veltroni. Sebbene non sia mai stato un forcaiolo, e abbia provato orrore di
fonte ai cappi sventolati dalla Lega a Montecitorio, non
posso negare di avere partecipato in qualche forma, in quegli anni, alla campagna antisocialista. Mi pareva che fosse
giusto. Che fosse un modo per contribuire a rendere più
pulita la politica, e anche per aiutare la sinistra – cioè il Pds
- a procedere nella svolta, ad avvicinarsi al governo e a preparare una nuova stagione di riforme. Oltretutto avevo una
certa antipatia per Craxi, per la sua spavalderia, o arroganza, e per il suo anticomunismo irritante. Non mi ha entusiasmato il lancio di monetine e contumelie all’hotel
Raphael, però – devo ammetterlo – non mi ha neppure indignato. Non ho avuto, in quei giorni, l’idea di trovarmi di
fronte a fenomeni di massa assolutamente reazionari e da
condannare pubblicamente, da combattere.
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Ripensandoci oggi mi viene un po’ di vergogna. Chi stavano
linciando? Un ladro o uno statista? Certamente la seconda
risposta è più esatta della prima. I processi nei tribunali ci
hanno detto che Craxi partecipò al finanziamento illecito dei
partiti. I fatti ci hanno detto che Craxi non si arricchì, e quindi non trasse profitto personale dal finanziamento illecito. Voi
pensate che finanziare, seppure illecitamente, il proprio partito – per renderlo più forte, per farlo crescere – sia un reato
così infamante? Moralmente osceno? Io no. Non ci trovo
niente di ignominioso, credo che potrei farlo anch’io, e quindi ritengo che verso Craxi – Craxi persona, non solo Craxi
leader – fu commessa una grande ingiustizia. E mi pare giusto – seppure dieci anni dopo - chiederne scusa a Stefania, a
Bobo, e alla signora Anna, che non conosco.
Il peronismo reale
C’è un’altra cosa, a questo proposito, che vorrei raccontare, e della quale non sono fiero. Il decreto Conso. Era il
1993 (ricostruisco a memoria ma non credo di sbagliare) e
Giovanni Conso, grande giurista e in quel momento ministro della Giustizia del governo Amato, varò un decreto nel
quale depenalizzava il reato di finanziamento illecito dei
partiti. Era evidentemente un decreto giusto, che distingueva tra finanziamento dei partiti e corruzione, e restringeva
il campo dell’inchiesta “mani pulite”, distinguendo tra irregolarità e furti. Il mondo politico in quel momento era
debolissimo. Comandava – diciamo così – l’opinione pubblica, indirizzata e rappresentata dai giornali. Dai grandi
giornali. Nella vita dei grandi giornali, in quegli anni, vigeva una regola non scritta: i responsabili del Corriere della
Sera, della Stampa, di Repubblica e dell’ Unità si consultavano alle sette di sera e decidevano come fare la prima
pagina. Se andate a controllare gli archivi vedrete che le
prime pagine di quei quattro giornali erano quasi uguali tutti i giorni. Bene, quel giorno arrivò il decreto Conso. Noi
all’Unità avevamo pronto l’editoriale di un dirigente del
Pds che approvava il decreto. Alle sette di sera toccò a me
fare il giro di telefonate con direttori e capiredattori. Decidemmo che il decreto andava affossato. Chiamai Veltroni –
che non era a Roma – e lo informai. Mi diede il via libera a
scrivere un editoriale contro. Il giorno dopo i quattro giornali avevano tutti l’editoriale contro. Il presidente della
Repubblica Scalfaro non firmò il decreto. Conso lo ritirò.
La storia – sì: la storia – cambiò strada. Morì la prima
Repubblica. Quale strada prese la storia, una strada più di
sinistra? Non saprei, so che dodici mesi mesi dopo Berlusconi vinse le elezioni e diventò premier.
Bettino Craxi fu una vittima, un agnello sacrificale? Ve lo
ho detto: sul piano morale non credo che abbiano senso le
indignazioni e le condanne. Non hanno fondamento. Sul
piano politico Craxi ebbe tre grandi responsabilità. La prima – la sua vera sconfitta – fu la mancata riforma istituzionale. Lui aveva intuito che era necessaria, e solo una
grande riforma della Repubblica – che sbloccasse il sistema politico, gli desse efficienza, autorevolezza, strumenti
di governo – poteva salvare la stessa Repubblica. Cioè
poteva salvare quell’autonomia del politico della quale
parlavamo all’inizio. Però Craxi non seppe condurre in
porta la riforma. E senza la riforma l’autonomia del politico non poteva sopravvivere, e non poteva sopravvivere la
Repubblica e non poteva sopravvivere Craxi. Il pantano
politico nel quale ci troviamo oggi dipende molto da quella mancata riforma.
Il secondo errore che commise fu non capire che il sistema
sovietico stava per crollare. E quindi che il suo anticomunismo, così forte – viscerale si diceva una volta – non aveva più senso. Era antico, non era proiettato nel futuro. L’anticomunismo non era un’urgenza della sinistra. Questo gli
impedì di ragionare in modo freddo su come costruire una
alleanza con il Pci – che stava cambiando pelle – e poi col
Pds. Quell’alleanza gli avrebbe dato grande forza e forse
avrebbe reso possibile la riforma. Craxi non può essere
definito un grande leader della sinistra, proprio perché non
capì che l’anticomunismo era roba vecchia. Craxi fu un
grande leader socialista che schierò il suo partito in una
posizione – per cosi dire – centrista. Era convinto che solo
conquistando il centro dello schieramento, tra Dc e Pci,
avrebbe potuto vincere ed esprimere egemonia. Sbagliava.
Il terzo errore – so di essere tra le 15 persone rimaste a dirlo – fu il taglio della scala mobile, cioè dell’adeguamento
automatico dei salari all’inflazione. Non credo affatto che
Craxi fosse convinto di quella scelta. Il problema era semplice: il primo presidente del Consiglio socialista era arrivato a Palazzo Chigi proprio mentre in tutto l’occidente
vinceva il reaganismo. Doveva stare dentro i confini, angusti, che gli imponeva il quadro internazionale. Craxi era
stretto in questa contraddizione. Non seppe uscirne. Forse
non aveva possibilità di uscirne. Però sta tutto qui il suo
paradosso: non riuscì a fare le riforme e aprì la strada alla
svolta liberista. Cioè alla svolta che poi – con “mani pulite” - si affermò e provocò la sua fine politica.
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>>>> dossier / craxi
Un liberale del socialismo
>>>> Luigi Compagna
emocratico del socialismo Bettino Craxi lo è sempre stato. Da giovane qualcuno a Milano lo aveva chiamato il
“tedesco”, perché nel PSI di allora Craxi era fra quanti bazzicavano con interesse gli ambienti della SPD. Eppure da quando nel 1976 era diventato segretario del partito il suo più che
socialismo democratico si sarebbe sforzato di essere e di
apparire socialismo liberale.
Non tanto per ragioni italiane. Turati gli era più caro di Rosselli, Nenni di Salvemini, Saragat di Calogero. Ma a Craxi
quel che premeva era che il socialismo fosse sempre capace
di contrapporre il liberalismo al totalitarismo. Di qui la sua
scelta di campo in favore degli avversari del comunismo, senza cercare appeasement con Mosca, senza tradire né Helsinki
ed il suo terzo cesto di human rights, né Venezia e la Biennale del dissenso, né quel che per la sua generazione avevano
significato i cari armati a Budapest e a Praga, negli anni in cui
le socialdemocrazie europee, in primis quella tedesca (con
Brandt assai più che con Schmidt) gli parvero essersi assoggettate agli schematismi dell’Ostpolitik.
Il suo predecessore De Martino aveva per lo più giustificato
la sordina socialista al dissenso dell’Europa dell’Est con una
specie di malinteso realismo, teso alla politica di coesistenza
pacifica fra i due blocchi. Del resto, De Martino apparteneva
a una generazione di socialisti europei (Mitterrand, Wilson,
Brandt, Foot, Palme) che reputava immodificabile, in tempi e
modi politici, la sistemazione di Yalta. La distensione prima
di tutto e, quindi, massima disattenzione al dissenso. Ecco
perché, lo avrebbe ricordato con amara ironia lo stesso Jiri
Pelikan, al congresso del PSI di Genova nel 1972 non venne
accolta la proposta di Federico Coen di farlo sedere al tavolo
della presidenza.
Il quale Pelikan, allora presidente dell’Unione Internazionale
Studenti ed astro nascente del comunismo cecoslovacco, nei
primi anni cinquanta con Carlo Ripa di Meana a Praga aveva
messo Craxi in contatto con i comitati cecoslovacchi della
fronda giovanile, i Majales. A Varsavia Craxi aveva poi
conosciuto Jerzy Urban, brillante giornalista anticonformista,
D
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che gli aveva spiegato ruolo e finalità della prima rivista dissenziente (Pro Posta). Sempre a Varsavia Craxi aveva avuto
occasione di incontrare anche Anna Bratkovska, segretaria
della ZMP (Unione della gioventù polacca) rimossa poi dall’incarico dal maresciallo Konstantin Rokossovskij, voluto
dall’URSS a capo dell’esercito di Varsavia.
A fargli frequentare gli incontri infuocati del circolo Petöfi a
Budapest, nell’estate del 1956, sarà Jonas Pataki, prudentissimo comunista ungherese, dissidente e insieme dissimulatore
del Dissenso. Mente il grande storico ungherese François Fejto, bandiera di revisionismo ed a suo modo di socialismo liberale, del quale aveva letto alcuni saggi, Craxi andrà a conoscerlo a Parigi per dare inizio ad un’amicizia che durerà tutta
la vita.
Quelli dal 1954 al 1968 erano stati per Craxi anni di studio e
di approfondimento. L’Impero intercontinentale sovietico gli
sembrava destinato a venir eroso dall’eresia di un Dissenso,
non facilmente definibile ma più che percepibile, nato all’interno dei partiti comunisti per sradicarne la continuità leninista. Suoi interlocutori principali Pelikan e la rivista Listy in
Cecoslovacchia (e ovviamente in seguito Va’clav Havel e
Charta ‘77); Adam Michnik e Jacek Kuron con il Kor, oltre a
Lech Walesa con il movimento Solidarnosc, in Polonia;
Andreij Sacharov ed il suo manifesto Progresso, coesistenza
e libertà intellettuale del 1967 in URSS.
Proprio le speranze riformatrici di Sacharov incentrate sulla
modernizzazione e sulla ricerca parvero a Craxi irrimediabilmente ferite a morte la notte del 21-22 agosto del 1968, quando le truppe del Patto di Varsavia invasero Praga e deposero
Dubcek. Ormai bisognava schierarsi con il Dissenso senza
riserve e senza condizioni, orientarlo attivamente e promuovendo forme di vera e propria resistenza civile. Tale sarebbe
stata nel ‘77, fra gli accordi di Helsinki e la verifica di Belgrado, la Biennale di Venezia: un’occasione della quale
Sacharov volle “approfittare per attivare la massima attenzione sulla sorte di quei dissidenti che per le loro aspirazioni,
benefiche e importanti per l’umanità, pagano il prezzo del
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carcere”. Insomma, Sacharov aveva nella mente e nel cuore
Solgenitsin a Venezia.
Proprio su Solgenitsin Craxi non avrebbe avuto alcuna esitazione, il 13 febbraio 1974, giorno del suo arresto e della sua
espulsione, a dichiarare all’Avanti!: “Continua una indegna
persecuzione contro un grande scrittore di cui l’Unione
Sovietica dovrebbe andare fiera. Tutto il comportamento delle autorità dell’URSS nell’affare Arcipelago Gulag, dagli
interrogatori della segretaria, che ne provocarono il suicidio,
alla campagna di denigrazione, all’arresto e all’espulsione
odierna, suscita solo indignazione. E’in atto una sfida tra i
rigurgiti neo-stalinisti di un sistema che non riesce a modificare i suoi caratteri e un uomo libero che con le armi della
creazione artistica rivendica il diritto alla libertà di pensiero e
di astrazione per sé e per gli altri. La nostra scelta è chiara”.
Fra Helsinki ed Ostpolitik
Radicata e diffusa era invece l’indifferenza dei partiti socialisti e socialdemocratici europei, con l’eccezione forse dei portoghesi di Soares e degli spagnoli di Gonzalez, nei confronti
dei dissidenti. Dalla repressione in Ungheria nel 1956 e ancor
più dopo l’invasione in Cecoslovacchia nel 1968, la SPD aveva mostrato in materia timidezze e reticenze (abbastanza analoghe all’ostilità successiva di Brandt e Lafontaine agli euromissili nel 1979). “La tendenza naturale - avrebbe spiegato
Pelikan - dopo il 1968 dei partiti e della diplomazia occidentale portava verso l’accettazione del fatto compiuto e il ripristino delle normali relazioni con il blocco sovietico. Noi dissidenti apparivamo quasi un ostacolo alla distensione che tutti auspicavano”.
Craxi conosceva benissimo il torpore dei “partiti fratelli”, mai
o quasi mai disponibili a iniziative di politica internazionale
con i rappresentanti dei regimi comunisti che prevedessero
qualche clausola condizionale aggravata alla condotta interna
in tema di human rights. Di qui il suo entusiastico appoggio
alla Biennale di Carlo Ripa di Meana nel 1977. Di qui il suo
disagio quando, qualche anno prima, la SPD di Brandt e
Lafontaine arrivò addirittura a varare un documento politico
comune con Husak, il “duro” che i carri armati del Patto di
Varsavia avevano imposto al posto di Dubecek.
Testimonianza critica di tanta incertezza dei socialisti e dei
socialdemocratici europei occidentali avrebbe dato Barbara
Spinelli (Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi,
Milano, 2001). “Riemergevano le molte compromissioni cui
la SPD aveva consentito al pari di altri partiti socialisti d’Eu-
ropa, non tutti, perché il PSI di Bettino Craxi e Carlo Ripa di
Meana aveva aiutato attivamente il Dissenso”.
Craxi aveva infatti condiviso molti aspetti della critica alla
socialdemocrazia europea di Lord Dahrendorf, che fin dal ‘68
ne aveva intuito una sorta di declino epocale. Certo, il collasso elettorale e politico del 27 settembre 2009 della SPD, la
più antica delle socialdemocrazie europee, che nel 2013 celebrerà un secolo e mezzo di esistenza, avrebbe rattristato Craxi e non lo avrebbe affatto gioire (come nel 1989 avrebbe
gioito della dissoluzione del comunismo). Ma probabilmente
ne avrebbe avvertito la portata continentale.
“Si direbbe - ha notato Enzo Bettiza su La Stampa del 14
dicembre 2009 - che nel ventesimo anniversario della fine del
Muro, questo sia caduto una seconda volta addosso ai socialdemocratici, non tutti favorevoli alla riunificazione, sprofondandoli in uno stordimento quasi comatoso. Si direbbe, perfino, che il recente editto polacco contro la esibizione di bandiere con falce e martello abbia sferzato un colpo di grazia
emblematico all’insieme della sinistra germanica. SPD allo
sbando, Verdi in disarmo, Linke in crescita sull’onda della
protesta ma erede degli stendardi rossi dell’Est”.
La socialdemocrazia tedesca nel 1891 aveva stilato a Erfurt
un fondamentale documento programmatico per i movimenti operai europei. Ne era seguita un’aggressione sistematica e faziosa. L’ex socialdemocratico Lenin, divenuto
icona del bolscevismo, aveva parlato della socialdemocrazia tedesca come di un covo antisovietico manipolato dal
“rinnegato” Kautsky; Stalin la bollò come “socialfascismo”, Hitler collaborò con Stalin nel decimarla, ritenendola “una banda di senzapatria orchestrata da perfidi intellettuali ebrei”. Ed è proprio per anti-totalitarismo che Craxi
aveva scoperto il liberalismo.
L’antisocialismo comunista non riuscì a cancellare il partito
creato da Lassalle e guidato poi dal talento intellettuale e politico di Kautsky. A Bad Godesberg, al principio degli anni cinquanta, la SPD si congedò dal marxismo e visse una stagione
felice. Fino a quando non fu divorata al proprio interno da
ambiguità ed estremismi di maniera e di comodo. Basti pensare al fatto che ne sia potuto essere presidente un personaggio ben poco alla Kautsky, e meno ancora alla Bernstein,
come Oskar Lafontaine, prima di diventare presidente di una
Linke piena di dirigenti comunisti (provenienti taluni addirittura dalla Stasi).
Le ambiguità di tanta parte dell’Occidente si sarebbero riproposte tutte quante nel 1977 contro la Biennale del dissenso.
Helsinki non fu allora evocata dal governo italiano alla luce
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di una maggior diffusione dei diritti umani. Ma al contrario
Helsinki venne buona per diffidare di una manifestazione
troppo esplicitamente antisovietica. E meno male che il
ministro degli esteri Forlani, differenziandosi con eleganza
dall’opinione del presidente del consiglio Andreotti, in Parlamento rilevò come l’esecutivo non disponesse e non dovesse disporre di strumenti “istituzionali” idonei a limitare l’indipendenza della Biennale.
Invano Mosca fece di tutto per bloccare quello che rappresentò il primo vero atto di sostegno politico e culturale compiuto in Italia nei confronti di coloro che resistevano in URSS
e nei paesi comunisti. Ci fu un braccio di ferro politico e
diplomatico intensissimo, che vide Craxi impegnatissimo. Da
un lato il Cremlino - come provato da documenti sovietici,
americani e tedeschi - esercitò ogni forma di pressione e di
ricatto sul governo di Roma, sulle forze politiche e sul PCI,
che cambiò il suo atteggiamento iniziale: prima disse sì alla
manifestazione, poi sotto l’incalzare di Mosca la osteggiò
duramente. Dall’altro lato soprattutto Craxi e il suo partito,
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Jiri Pelikan e Mondoperaio, Don Giussani e i giovani di
Comunione e Liberazione, qualche liberale coraggioso come
Nicola Matteucci.
Alla fine si riuscirono a superare gli ostacoli eretti dal mondo culturale e dalle grandi imprese (automobilistiche, tessili,
petrolifere, elettroniche) operanti nella sterminata URSS.
Una brutta pagina quella scritta nel 1977 da molti italiani,
con significative eccezioni. Ma per la prima volta il sostegno
al dissenso non venne sacrificato sull’altare della coesistenza con l’Est. Il “terzo cesto” di Helsinki aveva tenuto, e alla
grande.
La Biennale del dissenso
Fino al bel libro di Gabriella Marcucci Foa, apparso nel
novembre del 2007, si trattava in Italia di “una storia mai raccontata”. L’ordine di Mosca: fermate la biennale del dissenso (Roma, Liberal, 2007) scritto a quattro mani da Gabriella
Marcucci e Carlo Ripa di Meana, l’ha saputa ricostruire in
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tutti i suoi momenti. Per testimoniare come anche in Italia una
“resistenza civica” ci fu e soprattutto per merito, iniziativa,
consapevolezza del socialismo liberale di Craxi.
Liberale del socialismo, Craxi volle diradare le ombre che
tanti democratici del socialismo avevano contribuito a collocare in Occidente. A tutela della distensione, forse, ma anche
a scapito delle garanzie della libertà. Era un atteggiamento,
quello di Craxi, che a suo modo anticipava e spiegava le sue
ragioni in favore degli euromissili schmidtiani e reaganiani.
Non a caso, forse, nel rievocare le vicende del dissenso, a
Craxi veniva in mente come vero “eroe positivo” di quella
stagione la figura di Sharansky.
Anatolij Borisovic Sharansky impersonava sotto il profilo dei
diritti umani, il percorso dalla CSCE all’OSCE, dalla Conferenza di Helsinki al venir meno del muro di Berlino. Politico,
scrittore, matematico, Sharansky si era visto negare da Mosca
nel 1973 il visto d’espatrio per Israele per ragioni di sicurezza nazionale. Lavorò poi come interprete per l’inglese di
Sacharov e fu tra i fondatori prima e portavoce poi dell’ Helsinki Watch group di Mosca, un movimento in favore dei
diritti umani costituito da ebrei e refusenik, noto anche come
gruppo di Yuri Orlov.
Nel marzo del 1977 fu arrestato e nel luglio del 1978 condannato a 13 anni di lavori forzati per tradimento e spionaggio a favore degli Stati Uniti. Dopo una detenzione di 16 mesi
nella prigione di Lefortovo, fu trasferito nel gulag siberiano
Perm 35 dove sarebbe rimasto 9 anni. Natan Sharansky nel
1983 stava, quindi, scontando una condanna a tredici anni di
detenzione quando visse quel che egli stesso avrebbe chiamato un «momento meraviglioso». Fu il giorno in cui da un giornale che in qualche modo era riuscito a procurarsi nonostante
fosse rinchiuso in una prigione sovietica — non ricordava se
fosse la Pravda o l’Izvestia — apprese che Ronald Reagan
aveva definito l’Unione Sovietica “l’Impero del male”. La
stampa del Cremlino naturalmente non aveva pubblicato il
resoconto del discorso del presidente americano, ma ne aveva propagandisticamente esaltato le reazioni negative.
Sharansky, molto tempo dopo, raccontò l’episodio rivelandone il valore che ebbe per un dissidente: «Una lunga schiera di
capi occidentali si era ritrovata allineata nella condanna del
malvagio Reagan; e questo elenco veniva messo in prima
pagina, proprio accanto alla storia di quest’uomo terribilmente pericoloso che voleva riportare il mondo ai giorni bui
della guerra fredda». Per lui e i suoi compagni fu motivo di
un’esplosione di giubilo. «Fu la giornata più luminosa, la più
gloriosa: finalmente era stato detto pane al pane e vino al
vino, e la orwelliana neolingua era definitivamente morta. Da
quel momento in poi, il presidente Reagan aveva reso impossibile, a chiunque vivesse in Occidente poter continuare a
tenere gli occhi chiusi, ignorare la reale natura dell’URSS.
E’stata una delle più importanti dichiarazioni di difesa della
libertà, e noi tutti lo capimmo all’istante».
Poi, dopo il suo rilascio, avvenuto con uno scambio di prigionieri fra Washington e Mosca, Sharansky ebbe occasione
di parlare direttamente al presidente americano, durante un
incontro alla Casa Bianca. «La sua faccia si rischiarò e
divenne raggiante. Saltò giù dalla sedia come uno schioppo
e iniziò ad agitare le braccia in maniera selvaggia e a chiamare tutti affinché venissero ad ascoltare la storia di
quest’uomo. Solo allora iniziai a rendermi conto realmente
che il presidente Reagan doveva aver sofferto terribili offese
per il suo grandioso discorso, non solo in Unione Sovietica,
ma che egli era stato ferito anche in patria. Sembrava folle,
come se il nostro attimo di gioia fosse la sua migliore rivincita: ne era valsa la pena, aver sopportato grandi offese per
aver fatto quel discorso»
Questo, raccontato da Sharansky è un piccolo grande episodio della storia letta, se non proprio sotto il “cielo stellato”
dell’Atto di Helsinki, certamente dalla parte del dissenso.
Dove per dissenso non s’intende un concetto astratto o una
formula, ma si intendono uomini in carne e ossa, perseguitati
per le loro idee e per i loro scritti, condannati sotto false
accuse, rinchiusi in celle di isolamento o di punizione, messi
a tacere, per aver osato sfidare non solo la morsa del totalitarismo, ma anche la debordante opacità del conformismo.
Uomini in carne e ossa che il socialismo liberale di Craxi
volle come propri “compagni di strada”.
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