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L'attualità di una sconfitta

2010, Dossier Craxi

B ettino Craxi le commemorazioni le ha sempre vissute con disagio. Anzi, per essere sinceri, non gli piacevano per niente. Anche se le riusciva a costruire come esercizio di retorica politica rimanevano per lui un genere di discorso pubblico difficile da maneggiare, probabilmente perché comunque implicavano l'esistenza di un confine, quello tra la vita e la morte, da cui preferiva ritrarsi. E' per questa ragione che la moltiplicazione delle "pillole" commemorative e toponomastiche cui abbiamo assistito in questi giorni, come fossero un preliminare ai fuochi d'artifi-cio della ricorrenza decennale della sua morte, non mi pare una modalità utile da seguire nel ricordarne la figura ed il ruo-lo nella storia d' Italia. E per di più sulle pagine della rivista che fu, anche per lui, strumento importante di elaborazione e di lotta politica socialista. Più utile, ma anche più serio, è tornare dunque ad interrogar-si sull'opera politica di Bettino Craxi quale essa realmente fu: come uomo di partito e, senza contraddizione, servitore delle istituzioni repubblicane. Questo proseguiamo a fare, partendo dall'idea che ogni giudizio storico è sempre un giudizio sul presente ed insieme una interrogazione indirizzata all'avveni-re; e che cercare di comprendere cosa fu la politica mossa dal-l'uomo che dominò l'ultima fase della prima Repubblica significa indagare prima di tutto dentro noi stessi, rispondere alla domanda di cosa di vivo e di utilizzabile è rimasto di quella esperienza, di cosa di durevole e quotidiono ad un tempo di essa si è tramandato nella vita dell'Italia, infine di che cosa di quella vita ci sentiamo ancora capaci di trasmettere a coloro che verranno dopo di noi. Craxi fu socialista per tutta la vita, dalla nascita alla morte; e dal momento in cui smise i calzoni corti fu un figlio del par-tito, nel senso più pieno e tradizionale che questa scelta di vita aveva nella sua epoca, che era quella dominata dalla "Repub-blica dei partiti". Il socialismo del suo partito egli riuscì a modificarlo nel profondo, trasformandolo in maniera irrever-sibile in un moderno riformismo liberale, con ciò consenten-do che si potesse legare ad esso una classe dirigente innova-tiva; il modello di sistema politico che egli ereditò dalla Repubblica del 1948, quello fondato su di un "bipartitismo" obbligatoriamente "imperfetto", e che postulava un primato del partito sullo Stato di surrettizia derivazione fascista, egli non fu in grado di rimuoverlo: con la conseguenza di finire con l'essere la prima e principale vittima dell' inevitabile crollo che seguì al blocco del sistema. Minoritario e marginale da ogni punto di vista in quella "Repubblica dei partiti", Craxi tentò di spezzare i vincoli con-sociativi che ne derivavano appena potè muoversi, alla prima occasione utile. Agli inizi degli anni '80, utilizzando fino in fondo quella che sarebbe stata, storicamente, l'ultima "chia-mata alla fedeltà" di una guerra fredda ormai agli sgoccioli, fu in grado di dare finalmente concretezza alla sua linea del-la governabilità: una bandiera che cavalcò spregiudicatamen-te, ma che era tanto necessaria al paese quanto impraticabile per gli interessi del sistema partitocratico dominante. Essa lo portò alle realizzazioni della sua splendida stagione di gover-no, durante la quale Craxi fu in grado di dimostrare concreta-mente che era possibile andare oltre la "Repubblica dei parti-ti" e che rimuovere il vincolo consociativo che, morto De Gasperi, ne era derivato era concretamente fattibile, almeno politicamente se non ancora istituzionalmente. Se oggi proviamo a ricapitolare il risultato sistemico che egli realizzò tra il 1983 e il 1987, possiamo farci un'idea concre-ta della straordinarietà di quella esperienza. Allora un leader forte che aveva dimostrato di non essere condizionabile da mandarinati e doroteismi di ogni colore riuscì a saldare il suo buon governo con un'apertura ai ceti e agli interessi emer-genti che era insieme credibile e funzionale al progresso col-lettivo; ne derivò un corto circuito diffuso, che iniziò ad inter-rompere antichi consociativismi, operando concretamente nel ridisegnare e modificare la rete corporativa che aveva fruttifi-cato su di essi. È in questo quadro che va collocato anche l'aumento della corruzione che si realizzò in quegli anni, giacchè esso muo-veva da una ragione politica propria: un movimento in qual

//3// >>>> editoriale L’attualità di una sconfitta >>>> Gennaro Acquaviva B ettino Craxi le commemorazioni le ha sempre vissute con disagio. Anzi, per essere sinceri, non gli piacevano per niente. Anche se le riusciva a costruire come esercizio di retorica politica rimanevano per lui un genere di discorso pubblico difficile da maneggiare, probabilmente perché comunque implicavano l’esistenza di un confine, quello tra la vita e la morte, da cui preferiva ritrarsi. E’ per questa ragione che la moltiplicazione delle “pillole” commemorative e toponomastiche cui abbiamo assistito in questi giorni, come fossero un preliminare ai fuochi d’artificio della ricorrenza decennale della sua morte, non mi pare una modalità utile da seguire nel ricordarne la figura ed il ruolo nella storia d’ Italia. E per di più sulle pagine della rivista che fu, anche per lui, strumento importante di elaborazione e di lotta politica socialista. Più utile, ma anche più serio, è tornare dunque ad interrogarsi sull’opera politica di Bettino Craxi quale essa realmente fu: come uomo di partito e, senza contraddizione, servitore delle istituzioni repubblicane. Questo proseguiamo a fare, partendo dall’idea che ogni giudizio storico è sempre un giudizio sul presente ed insieme una interrogazione indirizzata all’avvenire; e che cercare di comprendere cosa fu la politica mossa dall’uomo che dominò l’ultima fase della prima Repubblica significa indagare prima di tutto dentro noi stessi, rispondere alla domanda di cosa di vivo e di utilizzabile è rimasto di quella esperienza, di cosa di durevole e quotidiono ad un tempo di essa si è tramandato nella vita dell’Italia, infine di che cosa di quella vita ci sentiamo ancora capaci di trasmettere a coloro che verranno dopo di noi. Craxi fu socialista per tutta la vita, dalla nascita alla morte; e dal momento in cui smise i calzoni corti fu un figlio del partito, nel senso più pieno e tradizionale che questa scelta di vita aveva nella sua epoca, che era quella dominata dalla “Repubblica dei partiti”. Il socialismo del suo partito egli riuscì a modificarlo nel profondo, trasformandolo in maniera irreversibile in un moderno riformismo liberale, con ciò consentendo che si potesse legare ad esso una classe dirigente innova- tiva; il modello di sistema politico che egli ereditò dalla Repubblica del 1948, quello fondato su di un “bipartitismo” obbligatoriamente “imperfetto”, e che postulava un primato del partito sullo Stato di surrettizia derivazione fascista, egli non fu in grado di rimuoverlo: con la conseguenza di finire con l’essere la prima e principale vittima dell’ inevitabile crollo che seguì al blocco del sistema. Minoritario e marginale da ogni punto di vista in quella “Repubblica dei partiti”, Craxi tentò di spezzare i vincoli consociativi che ne derivavano appena potè muoversi, alla prima occasione utile. Agli inizi degli anni ’80, utilizzando fino in fondo quella che sarebbe stata, storicamente, l’ultima “chiamata alla fedeltà” di una guerra fredda ormai agli sgoccioli, fu in grado di dare finalmente concretezza alla sua linea della governabilità: una bandiera che cavalcò spregiudicatamente, ma che era tanto necessaria al paese quanto impraticabile per gli interessi del sistema partitocratico dominante. Essa lo portò alle realizzazioni della sua splendida stagione di governo, durante la quale Craxi fu in grado di dimostrare concretamente che era possibile andare oltre la “Repubblica dei partiti” e che rimuovere il vincolo consociativo che, morto De Gasperi, ne era derivato era concretamente fattibile, almeno politicamente se non ancora istituzionalmente. Se oggi proviamo a ricapitolare il risultato sistemico che egli realizzò tra il 1983 e il 1987, possiamo farci un’idea concreta della straordinarietà di quella esperienza. Allora un leader forte che aveva dimostrato di non essere condizionabile da mandarinati e doroteismi di ogni colore riuscì a saldare il suo buon governo con un’apertura ai ceti e agli interessi emergenti che era insieme credibile e funzionale al progresso collettivo; ne derivò un corto circuito diffuso, che iniziò ad interrompere antichi consociativismi, operando concretamente nel ridisegnare e modificare la rete corporativa che aveva fruttificato su di essi. È in questo quadro che va collocato anche l’aumento della corruzione che si realizzò in quegli anni, giacchè esso muoveva da una ragione politica propria: un movimento in qualeditoriale / / / / mondoperaio 1/2010 //4// che maniera fisiologico, come era sempre avvenuto in fasi di accentuata trasformazione, ed il cui rischio sistemico derivava propriamente dal suo essere garantito pur collocandosi dentro un’ istituzione senza ricambio. Constatata l’impraticabilità di nuovi equilibri politici e posto violentemente di fronte all’arroganza tutta partitocratica della chiamata alla “staffetta”, Craxi si trovò allora di fronte ad un bivio decisivo per la sua esperienza politica, nata ed in qualche maniera determinata dalla sua capacità di collegarsi e quasi di prefigurare la praticabilità della riforma del sistema. La scelta era così schematizzabile: procedere alla modifica per vie interne al sistema politico, cioè per via parlamentare, con qualche speranza di graduarne il percorso utilizzando il messaggio della “grande riforma” ma sostanzialmente seguendo le convenienze e gli equilibri della DC; o andare ad una chiamata al popolo, sposare quella via plebiscitaria che già gli aveva consentito, nel 1984-1985, di rompere il cerchio consociativo su un punto importante della costituzione materiale su cui si fondava la “Repubblica dei partiti”, e cioè la rappresentanza assegnata in maniera pressoché esclusiva al PCI nel mondo del lavoro. La scelta che Craxi fece nel febbraio-marzo del 1987, e che fu la ragione preliminare della sua sconfitta di cinque anni dopo, è tuttora di grande attualità giacchè essa si ripropone sostanzialmente, con il medesimo dilemma, di fronte agli attori politici di oggi; naturalmente con le aggravanti che sono sotto gli occhi di tutti determinate dal permanere di una condizione di stallo che dura da almeno diciotto anni, e che è sostanzialmente riconducibile agli interrogativi non risolti dalla sconfitta di Craxi. Nel momento certificato della sua sconfitta, nel luglio del 1992, il leader socialista fu in grado di esporre, dal suo scranno di deputato che lo aveva visto protagonista per ben sette legislature, non solo la verità inconfutabile circa il finanziamento illegale dell’intero sistema politico, ma l’esatto percorso di quanto sarebbe accaduto ove non si fosse posto rimedio, utilizzando naturalmente gli strumenti della politica, “alla disgregazione e all’avventura” incombenti. Quell’appello profetico è significativo non solo perché proveniva da uno spirito che era sempre stato libero e che tale rimase fino alla morte, ma perché parlava il linguaggio della politica, richiamando tutti alle responsabilità collettive di fronte alle conseguenze sistemiche che camminavano dentro la crisi. Oggi, di fronte a tutti noi, alle classi dirigenti come al popolo italiano, lo scenario che possiamo contemplare non è molto mutato da quella condizione di stallo politico che costimondoperaio 8/2009 / / / / editoriale tuiva allora il punto centrale del dilemma craxiano. Come allora, di fronte al bivio della riforma non voluta ma indispensabile, si aprono due percorsi, quello parlamentare e quello plebiscitario; come allora, di fronte ad un Parlamento oggi addirittura oligarchico, si ripropone l’avvertimento, declamato da Cossiga, di un potere costituito incapace di essere potere costituente; come allora, il “vuoto” di prospettiva politica sembra far perno sul “pieno” delle ragioni della storia, rischiando di tornare a penalizzare gli interessi di una nazione che vuole continuare ad essere tale, nel benessere e nel progresso. Ce n’è quanto basta per tornare ad utilizzare la incompiuta lezione craxiana per il molto che può ancora dare a tutti: compagni di tante battaglie e oppositori leali. //5// >>>> dossier / craxi Mani sporche e mani pulite >>>> Mario Ricciardi entre il Codice Penale vieta rigidamente di far conoscere i risultati d’istruttoria, pare che in questo caso essa fosse condotta davanti agli occhi di tutti, ed ogni sera i giornali riferivano ciò che avveniva nel Gabinetto del giudice istruttore, e gli somministravano incitamenti e consigli, sempre dati nel senso a me ostile». Chi scrive è un uomo politico di spicco – è stato diverse volte Capo del Governo – che rievoca il proprio coinvolgimento in uno scandalo politico-finanziario che lo ha costretto a dimettersi da Primo Ministro e poi a rifugiarsi all’estero per sfuggire all’arresto che rischiava in quanto indagato per ben quattordici capi d’accusa. Vi ricorda qualcosa? La vicenda di cui parliamo si svolge a Roma all’inizio degli anni novanta, ma non del Novecento. L’autore del brano che abbiamo appena letto è infatti Giovanni Giolitti. A più di vent’anni dai fatti l’anziano uomo politico ricostruisce il proprio ruolo nello scandalo della Banca Romana, difendendosi dall’accusa di essere stato al corrente delle irregolarità commesse dagli amministratori dell’istituto di credito, e di aver tentato di impedire l’arresto di uno di loro, il governatore Bernardo Tanlongo, proponendolo per la nomina a senatore. La Banca Romana era una delle sei banche locali che avevano conservato il ruolo di istituto di emissione anche dopo l’unificazione politica del paese. Per via della loro natura legale di enti di diritto privato, e del radicamento territoriale, queste banche erano inevitabilmente sensibili alle sollecitazioni esterne e agli equilibri di potere locali, che spesso ne condizionavano l’operato. La Banca Romana, in particolare, aveva concesso con disinvoltura prestiti ai costruttori che, dopo la presa di Porta Pia, si erano impegnati nel colossale affare della trasformazione di Roma in una metropoli che aspirava a competere con le «M Il dossier che pubblichiamo nel decennale della morte di Bettino Craxi non vuole essere né apologetico, né elusivo. Nessuno degli autori è stato craxiano quando Craxi era vivo (con la sola eccezione di Memmo Contestabile, che ci ha regalato un prezioso cameo sulla gioventù degli anni Cinquanta). E nessuno dei temi più controversi nella vicenda del leader socialista è stato trascurato. Quello del finanziamento illegale della politica e delle conseguenze giudiziarie che ne derivarono è affrontato da Mario Ricciardi Giulio Sapelli, e Frank Cimini. Biagio de Giovanni, Ernesto Galli della Loggia, Piero Craveri e Piero Sansonetti tracciano un bilancio critico del suo ruolo politico. Mentre del suo ruolo innovativo nel campo del socialismo europeo si occupano Luigi Compagna ed Edoardo Crisafulli. Non abbiamo titolo per stabilire se questo modo di ricordarlo sarebbe piaciuto a Bettino, anche se siamo stati suoi compagni e da lui abbiamo imparato a diffidare sempre degli “esageratori”, come Garibaldi definiva sia gli estremisti della denigrazione che quelli dell’apologia. Speriamo però che serva a quanti, come noi, non hanno rinnegato la sua eredità politica, ed anzi individuano nel disorientamento in cui si trova oggi la Repubblica anche la conseguenza del vuoto che ha lasciato. Gennaro Acquaviva, nel suo editoriale, riconosce la sconfitta che abbiamo subito vent’anni fa, ma vent’anni dopo non vede vincitori. Forse perchè finora del biennio che ha segnato la cesura fra prima e seconda Repubblica si sono occupati solo gli “esageratori”. E nessuno ci ha ancora spiegato se vent’anni fa siamo stati sconfitti per avere osato troppo o troppo poco. mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi //6// >>>> dossier / craxi altre capitali europee. Inoltre, come banca della capitale, l’istituto divenne ben presto il punto di riferimento della politica nazionale, finanziando largamente diversi uomini politici di spicco e perfino re Umberto. Alla fine degli anni ottanta i conti della banca sono completamente fuori controllo. Ci sono deficienze di cassa ed eccedenze di circolazione pari a sessanta milioni di lire. La situazione disperata spinge i dirigenti a misure estreme. Nelle sue memorie Giolitti ricorda che «sino allora le Banche d’emissione fabbricavano esse stesse i biglietti che emettevano, senza alcun controllo da parte del Governo; e la Banca Romana che faceva fabbricare i suoi biglietti in Inghilterra ne poteva commissionare sin che voleva. Ed infatti si venne poi a scoprire che, oltre alle eccedenze di circolazione di sessanta milioni, essa ne aveva fatti venire altri quaranta che costituivano una serie duplicata; e fu fortuna che alcuni impiegati superiori, saputo dell’arrivo di questi biglietti, e spaventati delle responsabilità che potevano ricadere su di loro, protestarono presso i Direttori della Banca, obbligandoli a bruciarli». Lo scandalo della Banca Romana scoppia in un momento di profonda crisi politica per il paese. La poesia risorgimentale cede il posto alla prosa di un’unificazione voluta soprattutto da un’avanguardia di intellettuali e patrioti. Tra questi c’era anche Francesco Crispi, l’ex garibaldino che presiede il Consiglio dei Ministri nel 1889, quando una commissione d’inchiesta – il cui rapporto viene tenuto segreto dal governo e viene rivelato solo tre anni dopo dal deputato radicale Napoleone Colajanni che ne era venuto in possesso – si accorge che ci sono pesanti irregolarità nella gestione dell’istituto di credito romano. Profondamente deluso dall’esperienza dei primi anni di regime parlamentare, segnati da una perdurante instabilità dei governi, da gravi problemi di ordine pubblico e dai risultati inferiori alle aspettative di una politica estera avventurosa, Crispi avverte la tentazione di forzare la mano. Chiede, e ottiene da re Umberto, il rinvio delle elezioni, e introduce misure che aumentano i poteri dell’esecutivo e riducono la libertà della stampa. Quando Giolitti si rifugia in Germania per non essere arrestato l’Italia appare a diversi osservatori sull’orlo del baratro. C’è perfino chi, come il corrispondente del Times, sostiene che il paese sarebbe pronto ad accettare una dittatura a vita di Crispi pur di por fine al disordine, agli attentati – nel marzo del 1894 una bomba esplode davanti a Montecitorio – e alla minaccia costituita dall’instabilità parlamentare e dai mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi movimenti rivoluzionari, anarchici e socialisti, che prendono piede soprattutto al Nord. L’abito del gobbo L’ipotesi del giornalista britannico non si avvera. Nel 1895 ci saranno nuove elezioni, e il paese rimane nel solco della democrazia parlamentare. Rientrato in patria, Giolitti si lascia alle spalle le inchieste giudiziarie per diventare il più importante leader politico italiano, fino al punto da dare il proprio nome a un periodo della nostra storia. Eppure, a distanza di tanti anni, e con una straordinaria carriera alle spalle, egli sente ancora il bisogno di discolparsi quando scrive le proprie memorie. Ricostruisce con puntiglio le vicende dello scandalo, si lamenta del modo in cui hanno operato i giudici, si difende. Pesa indubbiamente l’accusa di essere stato, insieme a Crispi, tra i politici che avevano tratto vantaggio dai finanziamenti della Banca Romana. L’essere stato coinvolto da quella che il deputato radicale Felice Cavallotti chiama «la questione morale» (un’espressione destinata a ritornare nella politica italiana). L’essere indicato come un leader eccessivamente disinvolto nei confronti della corruzione dilagante nel paese, al punto da venir apostrofato poi da Gaetano Salvemini come «il ministro della malavita». Non c’è dubbio che Giolitti fosse un realista. Nello stesso memoriale egli scrive: «Le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese [...]. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito». La sua è la filosofia politica di un conservatore che comprende che le grandi trasformazioni sociali e economiche in corso tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo sono inarrestabili, e cerca di fare il possibile per assecondarle in modo che non minaccino la stabilità del paese. Come altri conservatori europei egli tenta di erodere il consenso della sinistra radicale promuovendo riforme che pongono le basi per la via italiana al Welfare State. Ciò nonostante Giolitti non riesce a vincere la sfida più importante, quella di consolidare la democrazia parlamentare nel nostro paese. Dal 1861 al 1900 in Italia si susseguono trentacinque governi. La corruzione della politica alimenta la sfiducia di vasti settori dell’opinione pubblica nei confronti del Parlamento e la disaffezione verso la democrazia. La crisi di fine secolo e la prima guerra mondiale daranno il colpo //7// di grazia all’esperimento liberale. Quando scrive le proprie memorie Giolitti è ormai un uomo del passato. Nel 1922 il futuro appartiene a un ex socialista che usa spregiudicatamente le sue indiscutibili abilità di comunicatore. Giolitti muore il 17 luglio del 1928. Pochi mesi prima si era recato in Parlamento per l’ultima volta, per prendere la parola contro la legge che cancellava – sono parole di Mussolini – «la menzogna del suffragio universale democratico» istituendo un collegio elettorale unico su base nazionale, chiamato ad approvare o a respingere in blocco la lista dei componenti della Camera redatta dal Gran Consiglio del Fascismo. L’ultimo tenue legame con la democrazia parlamentare che ha retto il Regno d’Italia per più di sessanta anni è reciso da questa legge. Sconfitto in politica. Moralmente condannato da chi gli attribuiva una concezione “elastica” dell’etica pubblica. Disprezzato da nazionalisti, futuristi e fascisti – che lo associano alla “Italietta” che essi vogliono sopprimere – Giolitti si spegne nella sua casa di Cavour. Da qualche tempo rifiutava di incontrare i visitatori che si recavano in quella remota località chiedendogli di riceverli. Nella sua biografia dello statista piemontese Aldo A. Mola scrive: «Rupestre qual era, non amava essere colto nell’umana debolezza, che poneva ancora più a nudo la semplicità della sua camera, inconcepibile per chi non lo conoscesse a fondo. Perciò, per esempio, sottrattosi al colloquio che, giunto sino a quel lembo del vecchio Piemonte, gli sollecitava Benedetto Croce, si poneva a letto vestito di tutto punto qual era ma col lenzuolo fino al mento» e dava disposizioni perché fosse consentito al filosofo «di affacciarsi sì da constatare che stava proprio dormendo». Eppure Croce aveva appena dato alle stampe la sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915 che della “Italietta” e degli uomini che l’avevano governata era una difesa appassionata. Per Croce il liberalismo era «connaturato» alla mente di Giolitti. Non si poteva dire la stessa cosa degli uomini della generazione seguente. Croce non perde occasione per difendere la figura dello statista piemontese. Nel 1931, nella Storia d’Europa nel secolo decimo nono, lo indica – con Cavour – come esempio di una classe politica sagace e prudente, animata da mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi //8// grande «amor della patria e dello stato» e dotata de «l’ardimento d’imprendere o di accettare le innovazioni che si chiedevano per l’avanzamento del popolo». Scrivendo in pieno regime fascista, Croce richiama i suoi lettori al «dovere di gratitudine» nei confronti di questi leader, anche per «espiazione» – e qui il riferimento è soprattutto a Giolitti – «degli ingiusti giudizi, che le disfrenate passioni di parte fecero dare sovente di quegli uomini, delle contumelie e delle calunnie onde furono assaliti, della superficialità con la quale, per alcuni mali non sempre evitati o evitabili e pei cosiddetti ‘scandali’ che ne seguivano, si gettava una sorta di diffidenza e scredito sopra intere classi politiche, le quali adempivano nobilmente il proprio dovere». Sporcarsi le mani Parole forti. Un giudizio condizionato dal momento storico, potrebbe dire qualcuno. Tuttavia quello di Giolitti non è affatto l’unico caso di un uomo politico discusso e discutibile – si pensi a Nixon, o a Jaruzelski, per menzionare due esempi recenti – cui i posteri hanno restituito in parte l’onore riconoscendo che le sue manchevolezze non furono quelle del comune malfattore, ma piuttosto quelle di chi risponde della stabilità o della sicurezza di un paese in un momento molto difficile. In situazioni del genere – che si presentano spesso in politica – chi ha una responsabilità pubblica deve fare i conti con una realtà che non ha determinato. Accettando anche il rischio di “sporcarsi le mani”. Si può fare politica conservando l’innocenza? Michael Walzer si pone questa domanda in un saggio sull’azione politica e il problema delle “mani sporche”. Riprendendo una tradizione di pensiero che risale almeno a Machiavelli, il filosofo americano sostiene che non è possibile adempiere alle proprie obbligazioni come politico e rimanere innocenti. Chi è chiamato a prendere decisioni a nome di qualcun altro può trovarsi in circostanze in cui la protezione della sicurezza o del benessere delle persone di cui si occupa comporta la necessità di compiere un’azione moralmente criticabile o addirittura ripugnante. Per Walzer quello delle “mani sporche” è un dilemma cui va incontro l’azione politica perché in questo tipo di attività può accadere – e di fatto accade con una certa frequenza – che ciò che è indispensabile fare per realizzare un obiettivo che è nell’interesse della collettività è incompatibile con un principio morale. Ciò non vuol dire, come hanno sostenuto certi interpreti di Machiavelli, che la politica sia indifferente alle consideramondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi zioni morali. L’azione politica pone al cospetto di un dilemma proprio perché essere responsabile per la sicurezza o il benessere di una persona comporta avere un’obbligazione nei suoi confronti. La scelta tragica cui va incontro il politico non è dunque tra agire in modo morale o non farlo, ma tra attenersi a principi morali che normalmente sarebbero considerati cogenti per chiunque o adempiere all’obbligazione che ha assunto nei confronti delle persone di cui risponde. Non fare ciò che è indispensabile per difenderne gli interessi sarebbe sbagliato – e quindi criticabile – anche se farlo lo espone al rischio di agire in modo immorale. Rispetto ai tempi di Machiavelli il dilemma delle “mani sporche” ha assunto in società come la nostra una dimensione ulteriore, che rende la posizione morale del politico ancora più complessa. In un regime democratico, nel quale la rappresentanza politica si esprime attraverso le elezioni, chi agisce nell’interesse comune non risponde del suo operato solo a Dio o alla sua coscienza. Deve risponderne anche a chi lo ha votato dandogli fiducia. Questa nuova dimensione della responsabilità politica, di cui i signori italiani cui si rivolgeva Machiavelli non si preoccupavano, mette il politico in una posizione più difficile perché egli deve fare i conti con il fatto che l’elettorato potrebbe non condividere le sue valutazioni riguardo a ciò che è necessario per l’interesse della collettività. In democrazia il politico non può dare per scontato che i suoi peccati – le immoralità che ha giudicato necessarie – vengano scusati. Un’illustrazione eloquente di questa situazione si trova proprio nelle memorie di Giolitti. Tra le accuse che gli erano state rivolte per il suo ruolo nella vicenda della Banca Romana c’era anche quella di aver ricevuto un prestito di sessantamila lire dall’istituto di credito. La sua difesa merita di essere riportata per intero: «Quando nell’agosto del 1892 erano state tenute a Genova le feste pel centenario della scoperta dell’America, che avevano dato occasione ad un miglioramento delle relazioni fra l’Italia e la Francia, io credetti opportuno di fare una azione nella stampa estera, perché questo benefico mutamento fosse ben messo in rilievo. Siccome i fondi messi a disposizione del governo per le spese segrete non possono spendersi che a un dodicesimo per mese, e la somma che si trovava in cassa non era sufficiente, io chiamai il Comm. Cantoni, Direttore generale del Tesoro, e gli dissi che mi occorreva una anticipazione di sessanta mila lire, che sarebbe stata rimborsata entro sei mesi. Siccome il Tesoro non fa anticipazioni, così la somma doveva essere presa in prestito presso una banca, ed il Cantoni si rivolse alla Banca Roma- //9// stessa tranquillità di Giolitti riguardo alla capacità dei propri concittadini di comprendere le ragioni della sua scelta e di scusarne l’immoralità secondo gli standard normalmente accettati. Siamo diventati migliori? Oppure siamo solo diventati più ipocriti? Le mani pulite na». Nel 1922 Giolitti spiega ai suoi lettori che la somma in questione fu poi regolarmente restituita alla banca nel tempo stabilito e conclude commentando che «se la Banca Romana non avesse fatto che negozi come quello, vivrebbe ancora, ed in floride condizioni». Appare evidente che Giolitti è assolutamente certo che i suoi lettori comprenderanno e approveranno la sua condotta perché essa era necessaria per l’interesse nazionale. Si badi bene, quella che abbiamo letto non è semplicemente l’ammissione, da parte di un uomo di governo, di aver eluso una regola di spesa. Dietro l’eufemismo impiegato per descrivere il fine dell’operazione – «fare una azione nella stampa estera, perché questo benefico mutamento fosse ben messo in rilievo» – c’è probabilmente la corruzione di qualche giornalista francese. Oggi nessun politico italiano – forse nessun politico di un paese occidentale – potrebbe avere la L’espressione impiegata da Walzer per descrivere il dilemma con cui si confronta l’azione politica evoca immediatamente quella scelta dai pubblici ministeri milanesi per designare l’indagine sulla corruzione che, all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha travolto buona parte delle forze politiche del nostro paese provocando la crisi della prima Repubblica. Da allora il nome di quell’inchiesta giudiziaria – “mani pulite” – è diventata una formula di uso comune che viene impiegata per alludere a una concezione della politica che vede nel rispetto della legalità il principio supremo dell’etica pubblica. Si tratta di un modo di pensare che rimuove il dilemma di cui parla Walzer, negando che un’azione contraria alla legge possa mai essere scusabile. Secondo i sostenitori di questo modo di concepire la moralità della politica, essa non trova spazio per immoralità necessarie e quindi scusabili. Solo ciò che è legale è anche moralmente ammissibile. A distanza di quasi venti anni dall’inizio di quelle inchieste i tempi sono maturi per un bilancio, sia pure provvisorio, di quella stagione della vita pubblica italiana e per una valutazione critica del modo di concepire la politica ispirato dalla tesi delle “mani pulite”. Cominciamo dalle inchieste. Credo che nessuno possa negare che l’Italia all’inizio degli anni novanta fosse un paese in cui la corruzione nella vita pubblica – e in particolare nella politica – aveva raggiunto un livello intollerabile. Da questo punto di vista le inchieste ebbero un ruolo potenzialmente salutare, perché resero visibile, anche a chi non voleva vedere, l’entità di un fenomeno che è incompatibile con il corretto funzionamento della democrazia e con l’efficienza dell’economia. Rimane da chiedersi se, e in che misura, la situazione sia cambiata rispetto ai primi anni novanta. Siamo un paese meno corrotto? La nostra democrazia funziona in modo migliore? La nostra economia è più efficiente? Anche se questi sono giudizi che è difficile formulare sul piano puramente quantitativo, non c’è dubbio che i dati che abbiamo a disposizione sono incommondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 10 / / patibili con risposte positive alle domande che abbiamo posto. Le statistiche internazionali ci collocano in una delle posizioni peggiori tra i paesi europei per il livello di corruzione, e non mi pare che si possa dire che lo stato di salute della nostra democrazia o della nostra economia sia particolarmente florido. La scomparsa dei partiti che avevano svolto un ruolo centrale nella politica italiana dal dopoguerra ha lasciato un vuoto che è stato colmato da alleanze volatili che non riescono a produrre maggioranze parlamentari stabili. L’ingresso in politica di Silvio Berlusconi ha profondamente mutato lo stile e la sostanza della vita pubblica italiana, allontanandola molto dal modello di una democrazia parlamentare liberale. In tali condizioni non è fuori luogo chiedersi se c’era qualcosa di sbagliato nell’idea largamente diffusa all’inizio degli anni novanta – e che ancora oggi trova largo consenso in certi settori dell’opinione pubblica – che le inchieste giudiziarie fossero la via più adatta per il rinnovamento del paese. Questo dubbio era già stato formulato, quando le inchieste di “mani pulite” erano ancora in pieno svolgimento, da un intellettuale che certamente non era mai stato tenero con le tendenze degenerative della vita politica italiana, e in particolare con quelle che alimentavano la corruzione. Nel 1993 Norberto Bobbio scriveva: «La Repubblica non solo è finita, ma è finita male. Non poteva finire peggio. Uomini politici sino a ieri eminenti, che a ogni loro apparizione erano circondati da un codazzo di giornalisti, avidi di afferrare brandelli delle loro dichiarazioni, stanno uscendo di scena senza che nessuno se ne accorga. Lasciano dietro di sé un cumulo di problemi non risolti, a cominciare dalla riforma costituzionale ed elettorale, per la quale si battono da anni senza venirne a capo». Gli stessi “problemi non risolti” di cui parlava Bobbio sono ancora oggi sul tavolo. La prognosi del filosofo torinese sulle potenzialità del rinnovamento civile che – secondo alcuni – sarebbe stato innescato dalle inchieste giudiziarie era piuttosto pessimista: «Sono […] convinto che l’italiano non sia molto migliorato nella pratica delle virtù civiche, senza le quali nessuna democrazia riesce a essere vitale. Confesso che mi costa un certo sforzo credere che la nuova Repubblica, che sta per nascere, se pure ancora tra mille difficoltà e saltando ancora chissà quanti ostacoli, sia migliore della prima. Ma i vecchi, si sa, hanno la vista corta, ed è buon consiglio non prenderli troppo sul serio». In effetti, pochi presero sul serio queste riflesmondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi sioni di Bobbio nel 1993. Ancor meno ebbero il coraggio di farlo in pubblico. Tuttavia, a distanza di anni, esse colpiscono per la loro lucidità. La rivoluzione giudiziaria Vale la pena di sottolineare che le osservazioni di Bobbio non sono un’obiezione alle inchieste. Nel nostro diritto – allora come oggi – vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, di cui si può certamente criticare la ragionevolezza o l’opportunità, senza per questo affermare che i pubblici ministeri dovevano astenersi dall’aprire fascicoli tutte le volte che si imbattevano in una notizia di reato. Nemmeno si può dire che le inchieste fossero tutte destituite di / / 11 / / fondamento, anche se mi pare che in alcuni casi ci sarebbe da riflettere seriamente sul modo in cui sono state portate avanti, e anche da chiedersi se non ci siano stati eccessi o parzialità. Credo che l’ammonimento di Bobbio fosse rivolto soprattutto a chi ha interpretato i processi in chiave politica vedendoli come il momento culminante di una rivoluzione. Tutti ricordano che l’espressione è stata usata nelle settimane in cui i partiti della prima Repubblica si dissolvevano sotto la pressione delle inchieste e della piazza. Sia tra i sostenitori sia tra gli avversari della tesi delle “mani pulite” affiora più volte nei primi anni novanta l’analogia con la Rivoluzione francese. Lo stesso Bobbio sembra avere in mente qualcosa del genere quando, in un altro articolo pubblicato sempre nel 1993, descrive la diffusione delle inchieste giudiziarie con toni che richiamano alla memoria il Terrore: «Una buona parte del paese è ormai sotto processo. La sfera degli imputati si allarga. Ciò fa nascere il sospetto che sia molto più vasta di quello che abbiamo finora immaginato. Non si salva più nessuno: primi sono caduti nella rete gli uomini dei partiti, alcuni tra i massimi rappresentanti del potere politico, poi alcuni uomini potenti nella sfera dell’economia e della finanza. Ora tocca ad alcuni altri detentori del potere militare. Non parliamo dei Servizi segreti, sospettati da tempo, anche se raramente colti in fallo, e ancora più raramente condannati. E che dire di alcuni giudici, cioè di coloro che dovrebbero giudicare gli altri? Un tempo si diceva: sciagurato quel paese in cui i custodi devono essere a loro volta custoditi. E che dire allora del paese in cui vi sono dei giudici che devono essere giudicati? E chi li giudica se non altri giudici? E che significa questo se non un processo al processo in una sequenza senza fine?». Se le inchieste di “mani pulite” sono davvero il culmine di una rivoluzione, si è trattato di quella che Vincenzo Cuoco avrebbe chiamato una rivoluzione passiva. Come i giacobini napoletani del 1799 i sostenitori della rivoluzione che pone fine alla prima Repubblica invocano il Terrore giudiziario perché «non sapendo render gli uomini migliori, si tolgono dall’imbarazzo che danno i cattivi, distruggendo indistintamente cattivi e buoni». Come nel Terrore giacobino le conseguenze per la vita delle persone sono drammatiche. Bobbio scrive: «E’ avvenuto, sta avvenendo con moto accelerato che sembra inarrestabile, che chi è accusato diventa a sua volta accusatore. Tanto più eccellente l’accusato tanto più eccellenti le persone cui far subire la stessa sua sorte. Il numero degli imputati cresce a macchia d’olio. Ne arresti uno, e que- sti ne fa arrestare non so quanti altri. Sembra ormai che l’unico modo per salvarsi sia quello di condurre altri alla stessa perdizione. Nelle società primitive uno si difende offendendo. Si scopre una catena di complicità che non si sa dov’è cominciata e non si sa se e dove finirà. Ma poi è destinata a finire? Se durerà ancora a lungo non siamo forse destinati, giudicati, giudicandi, innocenti, a fare la stessa fine?». Oggi sappiamo come è finita: dopo il Terrore c’è Napoleone. Nelle scorse settimane Letizia Moratti ha manifestato il proposito di dedicare una strada o una piazza di Milano alla memoria di Bettino Craxi. La decisione del sindaco del capoluogo lombardo è stata salutata non solo come il riconoscimento doveroso, da parte della sua città natale, per una delle figure più significative della politica italiana del dopoguerra, ma anche – in particolare da familiari e ex compagni di partito – come una sorta di risarcimento morale per quello che essi considerano un trattamento ingiusto che egli avrebbe subito ai tempi delle inchieste sulla corruzione dei primi anni novanta. Per costoro Craxi non era un latitante che cercava di sfuggire al processo, ma un “esule”, cioè una persona che si è sottratta legittimamente a una persecuzione politica. La scelta del termine non è casuale perché allude – come lo stesso Craxi ha fatto più volte – a un’analogia tra la sua situazione e quella di altri fuoriusciti di cui la storia ha riconosciuto, se non l’innocenza sul piano giudiziario, la giustificazione su quello politico. Per una mente sgombra dal pregiudizio, il paragone tra Craxi e Garibaldi, o i fratelli Rosselli, appare azzardato. Tuttavia non si può negare che Letizia Moratti ha posto un problema serio. Come dovremmo valutare la condotta di Craxi negli ultimi anni della sua vita? In particolare, la sua scelta di sottrarsi all’arresto, rifugiandosi all’estero, è stata soltanto l’estrema – disperata – mossa di un malfattore che cerca di sfuggire al processo, oppure una difesa nei confronti di una persecuzione? Dalle risposte a queste domande dipende il giudizio su Craxi come uomo e come politico, e quindi la valutazione dell’opportunità o meno di ricordarne la memoria attraverso un gesto di grande rilievo simbolico come quello proposto dal sindaco di Milano. Difendersi dai processi Cominciamo con lo sgombrare il campo da un equivoco. Non credo che si possa sostenere che c’è un dovere categorico di farsi processare. Le istituzioni giuridiche di qualsiasi paese, anche quello più civile, non realizzano mai la perfemondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 12 / / zione sul piano della giustizia. Inoltre ogni processo, anche quello che prevede le più ampie garanzie per l’imputato, è vulnerabile dall’errore. Giudici e testimoni in buona fede possono sbagliarsi. Gli avvocati a volte non sono all’altezza della situazione. Poste queste premesse, che mi paiono indubitabili, è difficile trovare un argomento conclusivo in favore della tesi che una persona abbia in ogni caso il dovere di sottoporsi a un processo. Ancora meno mi pare che si possa sostenere che c’è un dovere categorico di lasciarsi arrestare. Non c’è bisogno di ricordare l’uso discutibile che si è fatto in questo paese della carcerazione preventiva per riconoscere che nessuno ha il dovere incondizionato di rinunciare alla propria libertà. Escludere che ci sia un dovere categorico di farsi processare o di lasciarsi arrestare, tuttavia, non chiude la questione. Si potrebbe sostenere, infatti, che la situazione in cui si è trovato Craxi rientri nell’ambito di applicazione di quello che John Rawls chiama il “principio di fairness”. Tale principio afferma che «quando un certo numero di persone si impegna in un’impresa cooperativa reciprocamente vantaggiosa retta da regole, restringendo la propria libertà nei modi che sono necessari per produrre vantaggi per tutti, quelli che si sono sottoposti a tali restrizioni hanno il diritto di esigere un’identica acquiescenza da parte di quelli che hanno tratto un beneficio dal fatto che gli altri hanno rispettato le regole». Per Rawls tale principio comporta che nessuno può trarre vantaggio dalle fatiche collettive altrui senza fare la propria equa parte (fair share). Le obbligazioni generate dal principio di fairness sono diverse dai doveri naturali perché non sono incondizionate. Al contrario esse sono conseguenza di un’azione volontaria – la partecipazione all’attività cooperativa – che costituisce uno dei presupposti di operatività del principio nella sua teoria della giustizia. Rawls sostiene che il contenuto di queste obbligazioni di fairness «è definito da un’istituzione o da una pratica, le cui regole specificano ciò che ciascuno è tenuto a fare». Inoltre «le obbligazioni sono normalmente dovute a individui definiti, ovvero, a coloro con cui si coopera per il mantenimento dell’assetto in questione». Tra le azioni che possono generare un’obbligazione di fairness Rawls menziona «l’atto politico di candidarsi e (in caso di successo) di ottenere una carica pubblica in un regime costituzionale. Questo atto dà luogo all’obbligazione di adempiere ai doveri di questa carica, e i doveri determinano il contenuto dell’obbligazione». Vale la pena di sottolineare che i doveri di cui si parla non sono per Rawls doveri morali, ma semplicemondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi mente i «compiti e le responsabilità assegnati a certe posizioni istituzionali». Tuttavia il filosofo sostiene che è possibile che ci siano ragioni morali (cioè basate su un principio morale) per adempiere a tali doveri, e il principio di fairness è certamente tra queste. Craxi e Giolitti Mi pare che si potrebbe sostenere che una persona che si trova nella posizione in cui era Bettino Craxi al tempo delle inchieste di “mani pulite” rientri nell’ambito di applicazione del principio di fairness. Se, come mi pare ragionevole sostenere, chi ricopre una carica pubblica ha un’obbligazione di fairness nei confronti dei cittadini cui ha chiesto la fiducia, e con i quali coopera per il funzionamento delle istituzioni democratiche, si dovrebbe concludere che la sua scelta di sottrarsi all’arresto fosse moralmente criticabile. Chiusa la questione? Non ancora. Infatti, nel presentare l’argomento di Rawls in difesa del principio di fairness ho omesso di menzionare un secondo requisito necessario, oltre alla volontarietà dell’azione che genera l’obbligazione perché esso sia operativo. Per Rawls le istituzioni o le pratiche che determinano i doveri che definiscono il contenuto dell’obbligazione di fairness devono essere a loro volta giuste, o almeno non devono superare i limiti dell’ingiustizia tollerabile. Ciò significa che esse soddisfano i requisiti posti dai due principi di giustizia della sua teoria. Non entro nei dettagli della formulazione di questi principi. Mi limito a osservare che le istituzioni fondamentali della società italiana nel 1993 erano piuttosto lontane dall’ideale di una società giusta come quella che ha in mente Rawls. Lo erano certamente le principali istituzioni della democrazia rappresentativa e anche quelle della giustizia penale. Le istituzioni della democrazia parlamentare erano ingiuste perché il loro funzionamento era distorto da un sistema di finanziamento poco trasparente che pagava i costi della politica con fondi la cui provenienza era in molti casi ingiustificabile davanti all’opinione pubblica. Le istituzioni della giustizia penale funzionavano in modo ingiusto perché operavano in un clima inquinato dalla pressione della piazza, che chiedeva ai tribunali di essere lo strumento di un cambio di regime politico e non – come dovrebbe essere in una società giusta – il luogo in cui si accertano, al riparo dai clamori e dalle pressioni psicologiche, le responsabilità di persone che sono accusate di aver violato la legge. / / 13 / / Da questo punto di vista la situazione di Craxi non era molto diversa da quella in cui si era trovato Giolitti un secolo prima. Non voglio sostenere che fossero identiche sul piano giudiziario, ma credo che la similitudine sia sufficiente per fare un confronto tra i comportamenti di questi due uomini politici. Giolitti si sottrae all’arresto perché diffida dell’imparzialità dei giudici e perché è convinto che il clima politico nel paese gli impedisca di difendersi in maniera efficace. Le stesse preoccupazioni che aveva Craxi, con qualche fondamento. C’è una differenza tuttavia. Giolitti poteva contare sul fatto che, in un clima politico rasserenato, l’opinione pubblica avrebbe compreso le ragioni politiche di certi suoi comportamenti censurabili sul piano morale, e questo gli avrebbe consentito di affrontare i processi con animo sereno, come poi fece venendo assolto dalle accuse. A chi gli imputava comportamenti poco limpidi egli era convinto di poter obiettare che essi erano necessari per adempiere alla propria obbligazione nei confronti di chi lo aveva eletto, e non per il suo interesse privato. Se si era “sporcato le mani” lo aveva fatto per adempiere alla propria obbligazione di politico. Credo si possa sostenere che lo stesso Craxi avesse in mente un’obiezione di questo tipo quando pose al Parlamento la questione complessiva del sistema di finanziamento dei partiti invitando l’assemblea a prendersi le proprie responsabilità nei confronti del paese per quella che – non senza ragione – egli considerava una pratica largamente diffusa. Penso che da quel discorso si dovrebbe ripartire per valutare il comportamento del leader socialista. La reazione del Parlamento lo convinse probabilmente di non avere una via d’uscita politica. A distanza di dieci anni dalla sua morte la questione che egli poneva non ha ancora avuto una risposta. mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 14 / / >>>> dossier / craxi La corruzione nella Repubblica dei partiti >>>> Giulio Sapelli ipensare a Bettino Craxi sullo sfondo della costituzione materiale che resse il nostro paese dal 1947 al 1992, dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del sistema dei partiti post-fascisti, è un’impresa non semplice e che va condotta con spregiudicata capacità di analisi. Non so se ne sono ancora capace. Dal tempo in cui scrissi il mio libro sulla teoretica e sulla pratica - che era il caso italico - della corruzione (Cleptocrazia. Il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica, Feltrinelli, Milano, 1994), libro tradotto all’estero ma mai ristampato in Italia, e che mi diede più dispiaceri che allegrie -perché non fu capito, perchè scontò i tempi non prodighi all’approfondimento, ma alla ripresa della guerra civile e al massacro mediaticogiustizialista- ebbene, da quei tempi ritornare su quei temi mi fa paura. Sarò in grado di farlo senza rancori e pregiudizi? Solo l’amicizia e la stima per Luigi Covatta, il quale mi ha chiesto di scrivere questo pezzo, e l’aiuto intellettuale di un sodale del cuore e della mente come Lodovico Festa, mi spingono a vincere la mia riluttanza iniziale. Questo dovevo dire in una confessione aperta e pubblica che mi libera forse sia delle mie ipocrisie, sia dei miei timori d’inadeguatezza scientifica. E non ho riletto il mio vecchio libro: ne sarei stato troppo influenzato e voglio, invece, agire con libera mente e libero cuore, dopo circa quindici anni di terribile decadenza civile attorno a me e di intichisimento del mio spirito. “La corruzione e Craxi”, mi si chiede. Iniziamo dalla corruzione e dalla Repubblica italiana: mi pare il passo adeguato per calzare i giusti stivali delle sette leghe, se mi saranno donati. Dal 1947, quando si ricostituì la macchina dei partiti di massa (e non di massa) dopo la lotta di Liberazione nazionale e il referendum per la Repubblica, il patto stipulato tra le grandi forze politiche ed economiche, pur tra attriti e contrasti perennemente rinnovatisi, era assai R mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi chiaro e limpido. I partiti dovevano contribuire in modo essenziale a sostituire in parte quella mancata istituzionalizzazione che avrebbe dovuto fare dell’Italia una comunità di destino, come lo erano nazioni a più alto gradiente di consenso istituzionale e a più alta separazione della società politica dalla società civile. Il fantasma della società civile In Italia, del resto, a fronte di un mercato incerto e intermittente, di un associazionismo debole, di un familismo amorale diffuso, persistente ed epidemiologicamente destinato a diffondersi su tutta la nazione e non più solo nel Mezzogiorno, di un basso livello di legittimazione delle istituzioni nascenti, la società civile in senso fergusoniano, ossia fondata sulla proprietà e i suoi diritti, era tutto e insieme era nulla, perché a essa mancava il ruolo incivilente della legge promanante dal potere legislativo e dalle pubbliche leopardiane virtù (“gli italiani hanno solo usi, costumi e consuetudini”, si legge ne Lo zibaldone). Gli ordinamenti giuridici di fatto, su cui Capograssi e Pigliaru , dopo Santi Romano, scrissero pagine che occorrerebbe ripubblicare per rinnovarci la mente, quegli ordinamenti, erano tutto; e la legge pressoché nulla come potere incivilente: era solo compulsiva. Come oggi, del resto, ma in altra forma e misura, come dirò. Lo Stato come comunità di destino e ordinamento giuridico, lo ripeto, era ed è quasi nulla e i partiti, quindi, erano quasi tutto. E qui sta la differenza con l’oggi, in cui i partiti nazionali sono anch’essi scomparsi, e con essi l’unica forma sociale preformante le volizioni non solo elettorali su scala non locale e non diadico-verticale, ossia clientelare. I “quasi partiti” di oggi sono una forma performante l’umana associazione tutta diversa da quella post-Liberazione. Li ho definiti “quasi gruppi neo caciquisti” di fedeli / / 15 / / stretti attorno a un capo che raccoglie risorse e a essi le distribuisce nei plessi oligopolistici o monopolistici di mercati molto imperfetti e a circolazione delle èlites ancora più imperfetta, perché diadico- clientelare ed esclusiva con controllo territoriale-locale spartitorio più o meno sottoposto a controllo cleptocratico. Viene anche da qui l’enfasi odierna sul “territorio”, terreno di caccia dei predatori in forme mutuate dalle mafie varie per estrarne tutta la plusvalenza economico-finanziaria di finanziamento ai gruppi caciquisti e ai loro capi. La partecipazione politico-partitica si ridimensiona. Il bipolarismo consente, tuttavia, un confronto tra correnti di opinione che assumono man mano, per esempio, la forma dei giornali-partito o del partito costitutivamente, originariamente, radicato nel territorio come lo è la Lega. Gli ordinamenti giuridici di fatto Oggi si afferma la ricerca di risorse per orientare l’elettorato e costruire, insieme, personali fortune condivise da piccoli gruppi. La partecipazione politica rimane ed acquista un potere situazionale di fatto ben più grande di quanto non fosse in passato soprattutto quando a votare pubblicamente sono potenti capi di organizzazioni economiche. Di qui la pubblica, manifesta promessa di ausilio economico ai capi votati. Val la pena accennare sin da adesso alla trasformazione che vi fu, per ragioni logiche e non cronologiche. Torniamo agli anni fondativi che si protraggono, tracimando, sino agl’inizi del decennio novanta del Novecento: i partiti nazionali erano, quindi, l’unico veicolo di contatto tra il popolo, le classi dominanti e l’organizzazione statuale, pur fragilissima e delegittimata. Cosa promanava dal fatto che gli ordinamenti giuridici di fatto prevalevano su quelli di natura romano- germanica emanati come editti non preformanti da uno Stato onnipresente, ma lontano e debole d’autorevolezza? Ne scaturiva il plesso di problemi per il consolidamento democratico determinato dal fatto che i partiti erano polarizzati tra i reticolati invisibili ma efficacissimi della guerra fredda e dovevano trarre, quindi, il loro sostentamento non solo dalla militanza e dalla società civile, che esistevano ed erano fonte sicura ma non sufficiente di sostentamento, ma anche e soprattutto dalle potenze della guerra fredda medesima: dagli USA la Democrazia Cristiana e i suoi satelliti; dall’URSS il PCI e i suoi satelliti quando li avesse avuti. Il patto era: ciò che non proviene da quelle fonti (extranazionali, sì, ma assai rassicuranti, se continuarono per decenni a versare dalle loro cornucopie i denari per organizzare la democrazia attraverso i partiti, come diceva Togliatti riprendendo un concetto di Ostrogorski che aveva letto in Francia) poteva essere ricercato su scala nazionale nell’invisibilità omertosa: tutti sapevano che il rifornimento di risorse era fondato da un lato su una sorta di affiliazione ideologica, dall’altro su una logica di scambio: le don et le contre don, ossia la reciprocità di denaro in cammondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 16 / / >>>> dossier / craxi bio di appoggio in parlamento e su scala locale con leggi e leggine e decreti e delibere utili a questo o quel gruppo d’interessi, sino a manipolare gare e trattative tra monopoli pubblici e attori economici privati. Il che faceva fuoriuscire tali rifornimenti, indubitabilmente, dalla legalità. Ma, come la vendetta barbaricina era vietata ma praticata impunemente, anche quell’illegalità era non nominata ma praticata nell’omertosa omologazione tipica degli ordinamenti giuridici di fatto. I collateralismi Il rifornimento ulteriore di risorse, quando, finita la guerra fredda e con essa il rifornimento sovietico, anche gli USA non foraggiarono più le classi politiche nazionali, diverrà tanto importante sino a divenire l’unico e quindi pervasivo in forma totalitaria, era assicurato dai relativi collateralismi degli interessi: il mondo cooperativo per il PCI, la Chiesa nelle variegatissime sue articolazioni (la questione italiana, se è, è questione cattolica, sempre, e oggi lo si dimentica per ogni dove) per la DC. La Chiesa cattolica, in verità, sostenne i democristiani sempre e solo, in definitiva, in funzione anticomunista, secondo il verbo montiniano che si oppose vittoriosamente a quello tardiniano. I democristiani, infatti, furono un interlocutore ingrato e non prodigo di doni nei confronti di Santa Romana Chiesa, assai più di quanto una lettura disattenta potrebbe far pensare. Vi era, poi, per la DC, il mondo delle imprese. Esso era spartito con rilevanti sorgenti di rifornimento dissetante anche verso i liberali e i repubblicani e i socialdemocratici e poi, dopo il rifiuto da parte di Nenni del premio Stalin, anche verso i socialisti. Ma la cornucopia delle imprese si rivolgeva, anche con infiniti mal di collo e di capo, più verso la DC che verso ogni altro partito. Solo l’intelligenza togliattiana (il discorso di Reggio Emilia del 1947 su classe operaia e classi medie) aveva aperto qualche spiraglio di rifornimenti economici da parte delle piccole e medie imprese. Il fatto, però, che la gran parte di questi denari provenisse dalle imprese a partecipazione statale non sfugge oggi più a nessuno: gli studi sono abbondanti e incontrovertibili; e i risultati di ciò furono sotto gli occhi di tutti allorché da questa forma di finanziamento occulto ma visibile ai partiti (e alla DC, al PSI e satelliti in primo luogo) via via che si allargò l’arena del governo si passò a una sorta di controllo ferreo delle imprese pubbliche che, salvo mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi l’eccezione dell’ENI, le allontanò sempre più dal loro ruolo economico. Lo Stato spartitorio Questa forma di finanziamento si accompagnava alla spartizione delle nomine (lo “Stato spartitorio” di amatiana memoria): finì così per decomporsi lo Stato amministrativo, già tanto fragile. Sorse, nuovo Behemot minaccioso e insaziabile, lo Stato dei partiti e delle correnti dei medesimi, con conseguenze quali la crisi fiscale dello Stato e la crisi di legittimazione della tecnocrazia mista che di quelle imprese era a capo. Ma presto si pendolò sull’abisso per la crisi fiscale e l’aumento della spesa pubblica, nonchè per la corruzione e l’antimeritocrazia dilagante che iniziava a smontare - nella mancanza di decenza - macchine economiche ch’erano delicatissime e in taluni casi sublimi per i risultati che raggiungevano con persone dalla qualità straordinaria, come mai più sì è potuto intravedere nella grande impresa in Italia e non solo. Il tutto, ossia il declino mortificante e tremendo e doloroso, durerà per circa due decenni. Poi venne la spartizione privatizzante senza liberalizzazioni che fondò il dominio prodiano, che inizia dalla sua candidatura al Consiglio Comunale di Reggio Emilia nel 1964 e che è durato circa quarant’anni: è il più lungo e solido sistema di potere e di favori e di minacce di uso della forza weberianamente intesa mai costruitosi nella storia italica, con macchine circolari, territoriali per lo più, du don et du contre-don. Si creò una pervasività assoluta ampliando la rete del finanziamento alla politica, con forti interessenze personalistiche e caciquistiche (si arrivò sino alla conquista del governo e del controllo degli elettori su scala nazionale), ma nel contempo polverizzandolo e territorializzandolo: da Bologna alle Alpi e alle Madonie, in un’infinita serie di micro, e macro, finanziamenti circolari, con una miriade di capi locali caciquistico-politici che si scambiavano favori con imprese piccole e piccolissime: di qui il disordine peristaltico attuale, con immenso spreco di risorse pubbliche ancora più occulte di quanto non fosse in passato, per l’oscurità territoriale raso terra che è assai più fitta di quella che vi era sulle cuspidi delle grandi imprese pubbliche. D’altro canto veniva così creandosi un mondo quasi perfetto per quanto concerneva la macchina dei finanziamenti occulti e invisibili ai partiti. I donatori e i collettori delle risorse governate da ordinamenti giuridici di fatto a tutti erano noti ma innominabili. Naturalmente, l’ho già enunciato, tale finanziamento non era regolato dalla legge: era anch’esso un / / 17 / / ordinamento giuridico di fatto che si dispiegava contro il diritto degli ordinamenti giuridici romano-germanici, perché ledeva i principi del merito, dell’eguaglianza costituzionale nei concorsi, caricava sulle spalle dei tassati spese improprie che scaturivano dai sovra-costi tangentizi in mille modi estratti dalla finanza pubblica per ripagare favori, attivare oligopoli, accessi illeciti alle macchine dei mercati, imperfetti ma efficaci nel far scaturire plusvalenze e spesso immense e rapide fortune. Oltre ai danni morali a macchia d’olio pervasivi che in tutto il complesso antropologico nazionale s’incistarono. Il frattale della corruzione Il meccanismo oligopolistico da cui scaturiva il processo corruttorio era un frattale variabile che riproduceva l’occlusione dei mercati grazie all’occlusione della politica. Ma a metterlo in moto (è sempre stata la mia tesi contro corrente) erano più le coorti imprenditive che quelle partitiche. L’imprenditore italiano innova prodotti e processi ma non government, anzi, collude e fa cartello volontieri nei monopoli temporanei o perenni. Se la politica lo aiuta, il gioco è fatto e tutto si tiene: è un meccanismo unico che va dal controllo spartitorio dei mercati al controllo altrettanto spartitorio della politica attraverso i finanziamenti occulti perseguiti tecnicamente con un’infinità di pratiche vastissime quanto a innovazione e creatività pressochè continua. Esse richiedono preparazione, competenza, sinergie e logiche del silenzio in catene personali spesso lunghissime. Di qui la complicazione di mantenere la segretezza, soprattutto quando i flussi finanziari dal territorio dovevano, con il manuale Cencelli delle elezioni e delle percentuali che ne derivavano, riversarsi anche sui centri nazionali dei partiti. Quando le risorse provenivano dal centro (le partecipazioni statali, le grandi imprese) tutto era -ed èmolto più semplice e “segregabile”. Il peso per coloro che pagano le tasse era ed è fortissimo e il freno alla liberalizzazione dei mercati in un “non mercato” regolato dai collettori dei partiti nazionali era ed è fortissimo ed efficacissimo, ma molto meno dispersivo di risorse e ricco di entropia di una lotta di accaparramento senza regole quale fu ed è quella che seguì allo sperimentato sistema. I costi lievitavano senza sosta, unitamente alla decadenza della classe politica e all’assenza di prospettive morali con cui si affrontavano gli anni novanta del nostro Novecento. Dopo la fine del compromesso storico ci fu la non nascita dell’alternativa di sinistra, la foresta pietrificata del centrismo irrorato dai voti socialisti e dalle predominanti personalità di De Mita e di Craxi che per un gioco all’esclusione reciproca riuscivano a convergere verso nessun obiettivo reale di modernizzazione politica, secondo il solito vizio italico: importante non è vincere, ma impedire a un altro di vincere. E poi si aggiunsero i fattori internazionali: il crollo del capitalismo monopolisitco di Stato a natura dittatoriale che dalla Russia era dilagato nel mondo (della Cina allora non ci si curava, ahimè). Si liberarono le forze del capitalismo anglosassone in un processo che ho più volte descritto. Ciò che del vecchio personale politico europeo poteva essere eliminato manu non elettorale doveva essere eliminato con ogni mezzo, confidando sui poteri occulti dello Stato nelle sue relazioni internazionali: ieri come oggi la sovranità limitata dell’Italia rispetto agli USA è palese ed è l’elemento più caratterizzante della nostra storia, dalla seconda guerra mondiale sino ai giorni nostri (Berlusconi e la lotta contro di lui docet). L’uso della magistratura In primis si usò come usbergo la magistratura, che agisce più come potere corporato che come ordinamento responsabile, con il suo immenso potere discrezionale che avrebbe fatto inorridire un Montesquieu in viaggio per l’Italia. Si susseguirono gli attacchi a Kohl, a Mitterrand, a Forlani, a De Mita, a tutti i capi dei partiti che impersonificavano l’era della guerra fredda, ossia della guerra di posizione in Europa e in Italia in particolare. Ora doveva iniziare una guerra di movimento che apriva i mercati, favoriva le privatizzazioni (senza liberalizzazione dei mercati, favorendo la vendita à la Eltsin ai privati dei tesori dello Stato in disfacimento). L’anomalia italiana risiede nel fatto che ciò si compie mentre lo Stato, appunto, è in disfacimento, commissariato dal potere giudiziario e dalla mitologia tecnocratica di impreparati ma potenti banchieri centrali con i loro fedeli servitori in attesa di prebende anche dal mercato finanziario internazionale, mentre la classe politica sprofondava nella corruzione, nel malcostume, nel ludibrio a cui l’esponevano i mass media berlusconiani che candidavano l’imprenditore milanese dello spettacolo e dell’edilizia a capo della nuova solidarietà di classe tra piccola borghesia e piccola impresa, tra professioni liberali e imprenditorialità diffusa, e mentre Prodi veniva individuato dai vecchi capi dei partiti costituzionali, ex PCI ed ex sinistra democristiana di base, a essere il prescelto per convincere gli elettori con altrettanto acute operazioni mediatiche. La borghesia si spaccava, la sinistra si liquefaceva, le classi mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 18 / / >>>> dossier / craxi lavoratrici affrontavano decenni di solitudine, sorgevano nuovi attori politici, territoriali appunto (Lega docet). Moro l’aveva previsto dalla sua prigionia, in un’impressionante capacità analitica. Iniziava una resa dei conti spietata su più fronti. Andreatta aveva, peraltro, sollevato il marcio dello IOR che andava ben al di là delle mura vaticane per divenire un ritratto italico a tutto tondo. È in questo contesto che si colloca la vicenda craxiana. Essa non si può comprendere scientificamente al di fuori di questo contesto. In questo contesto, del resto, se vogliamo inanellare testimonianze di rara perspicacia storica, come fu nel suo dramma altissimo quella di Moro dal carcere delle BR, e nel coraggio di cattolico integro quella di Andreatta sullo IOR, occorre inserire il discorso di Craxi alla Camera, quando descrisse il meccanismo spartitorio dei finanziamenti, occulti ma da tutti visibili, ai partiti, a tutti i partiti, in una chiamata di correo di tutta la classe politica, nessuno escluso, rifiutando in tal modo di essere trattato come il capro espiatorio e dando per di più una rara testimonianza di coraggio. La rivincita delle oligarchie Egli era tra quei leader internazionali prima ricordati che subirono l’offensiva giudiziaria e politica delle forze dell’espansione del capitalismo anglosassone e della sua potenza diplomatico-militare: il caso Sigonella, i rapporti con l’OLP, una concezione nazionalistica del ruolo dei servizi segreti, lo avevano già condannato, del resto, a essere una delle vittime sacrificali. Rispetto ad altri compagni di viaggio o di destino lo indeboliva, fondamentalmente, il suo comportamento innovatore nel campo del finanziamento ai partiti. Egli prima di altri, infatti, iniziò dal controllo pervasivo del territorio, a cui lo candidava una coorte di amministratori fedelissimi e un’alleanza con la borghesia innovativa delle professioni e quindi del futuro volto dell’Italia post- industriale. Stretto tra la macchina organizzativa comunista e l’arcipelago collateralistico di natura democristiana, la sua volontà espansiva non poteva avere limiti: l’alternativa sarebbe stata la dissoluzione, come accadeva al socialismo demartiniano e lombardiano, già dissolventesi e non in grado di attrezzarsi alle nuove necessità del rifornimento delle risorse. Così facendo Craxi anticipava i tempi: oltre alle risorse dalle partecipazioni statali iniziava già prima degli altri con metodi innovativi la raccolta di risorse su scala territoriale, formando una schiera di collettori di finanziamenti e di pressiomondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi ni ancora oggi attivissimi e solerti, di cui si servono pressoché tutti gli attuali gruppi o “quasi gruppi” caciquisti non nazionali, promuovendone alcuni a ruoli di spicco che essi stessi non si sarebbero un tempo mai sognati di ricoprire, consapevoli delle loro scarse capacità politiche, che pure i caciqui debbono rendere manifeste almeno nella formazione delle liste elettorali e nella scelta degli elettori. Ma ora i nani sono giganti, gli alberi di alto fusto sono stati abbattuti e i cespugli paiono foreste. Al tempo in cui si realizzò la mutazione qui raccontata e si colpì Bettino Craxi come vittima sacrificale e capro espiatorio, successe l’imprevedibile: la generazione dei giovani turchi che aveva appena spossessato i vecchi capi politici resistenziali del PCI si accodò lestamente a questa logica di smantellamento del vecchio Stato dei partiti. La sinistra democristiana la seguì. Del resto essi erano il frutto del ’68: il più spettacolare processo di de-elitizzazione delle società moderne mai intentato da parte della piccola borghesia italiana dopo il fascismo. I giovani dirigenti comunisti, in procinto di mutare nome della casa di appartenenza, si accodarono a quel processo e insieme ne furono gli artefici. Rosbespierrismo, ignoranza, sete di potere, mancanza di rigore etico? Tutto si confuse e si mescolò in una logica impazzita che ebbe i devastanti effetti del rovesciamento dell’equilibrio dei poteri e che sbalzò quello giudiziario da servo della politica a suo padrone. Era finita un’epoca. Un’altra non è iniziata. Naturalmente occorrerebbe ritornare a riflettere, non solo in chiave antropologica, ma anche profondamente storica, sulla vicenda italiana. Riprendere l’idea, prima di Vincenzo Cuoco e poi di Antonio Gramsci, della rivoluzione passiva come tratto distintivo della storia nazionale sarebbe assai opportuno. Ci consentirebbe di sottolineare l’attacco multiforme che nel periodo del decollo industriale e dell’allargamento del suffragio elettorale fu sferrato contro Giovanni Giolitti, il quale fu il primo a tentare di far accedere alla statualità decisionale forze che la borghesia liberale (e anche la Chiesa) aveva paura di evocare e che si preferiva emarginare. In parte la vicenda di Moro, e anche quella di Craxi, nel secondo dopoguerra novecentesco hanno questo segno: chi ha cercato, nella storia d’Italia, di costruire, con i mezzi che la stessa storia gli consegnava, uno Stato e un’economia (pur moderatamente) contendibili, viene spazzato via dalle chiusure oligarchiche che la società italiana, nella sua ferrea collocazione internazionale che è performante sin dall’origine della nazione, dal Risorgimento a oggi, continuamente riproduce. / / 19 / / >>>> dossier / craxi Il quarto potere e il terzo >>>> Frank Cimini l circuito mediatico-giudiziario di “Mani pulite” ebbe una particolarità, perchè andava al di là della storica e consolidata dipendenza dei cronisti dagli uffici inquirenti, che c’era prima della falsa rivoluzione e c’è ancora adesso. Nel 1992 e soprattutto nel 1993 accadde che gli editori dei grandi quotidiani italiani, in qualità di imprenditori dalle molteplici attività, erano sotto schiaffo da parte del pool dei magistrati del quarto piano. E, in parole povere, per farla franca utilizzarono i media di loro proprietà per appoggiare l’inchiesta. Fu un lavoro scientifico, simboleggiato dal giro di telefonate serali tra i direttori di Corriere della Sera, Repubblica, Stampa e Unità per concordare cosa mettere in pagina e cosa no. Molti altri quotidiani seguivano a ruota, come si suol dire. Non si può non ricordare, nel fronte favorevole all’indagine, la presenza di Vittorio Feltri, allora direttore de L’Indipendente, il quale riuscì a titolare in prima pagina I socialisti non vanno più in Somalia perchè li non c’è più niente da rubare. Recentemente Feltri in una intervista ha spiegato: “Andai a trovare Bettino ad Hammamet e ci chiarimmo, io gli spiegai che scrivevo quelle cose perchè mi facevano vendere copie”. Parole che sono uno spaccato dell’Italia di allora e se permettete dell’Italia di oggi. Gli editori: Cesare Romiti, Carlo De Benedetti, il Pci-Pds e altri. Tutti miracolati dall’inchiesta “due pesi e due misure”. Sia Romiti sia De Benedetti, ad un certo punto, consegnarono in procura un elenco delle mazzette versate dai loro gruppi che si rivelò molto lacunoso; ma non pagarono dazio, come invece era accaduto ad altri personaggi arrestati per inquinamento delle prove anche più volte. L’informazione in Italia scrisse una delle sue pagine più nere con il silenzio su quella riunione nell’ufficio del procuratore capo Borrelli dove si decise non solo di non arrestare Romiti ma di non indagare più sulla Fiat. Per aver scritto la verità su quell’incontro (Il Mattino, 28 aprile 1993) sono tuttora inseguito dai magistrati del pool con una richiesta risarcitoria. Mediobanca, che si era letteralmente pappata la Montedison, poco mancò che non ricevesse dalla mitica squadra di Pm addirittura una medaglia. I Fiat e Mediobanca, poteri forti dell’economia e della finanza, non potevano essere toccati per una sorta di ragion di Stato che da sempre non è estranea all’amministrazione della giustizia in Italia. Ricordo che nell’aula del processo Cusani l’avvocato difensore Giuliano Spazzali, uno dei pochi ad aver cercato di contrastare la verità ufficiale, rivolgendosi all’Eroe, al secolo Antonio Di Pietro, disse: “Se il Pubblico ministero decidesse di andare a fare un giro in via Filodrammatici lo accompagnerei volentieri...”. Naturalmente l’Eroe in quel periodo aveva altro da fare per continuare la sua attività di depistaggio istituzionale. In quegli anni infatti il ruolo della procura fu quello di inquinare le prove. Per due volte i Pm chiesero di archiviare le indagini sul cassiere del Pds Marcello Stefanini, per due volte il Gip Italo Ghitti, che pure aveva firmato decine e decine di arresti chiesti dal pool, ordinò accertamenti in 12 punti. Tranne una ridicola rogatoria a Berlino, la procura non fece assolutamente nulla. E non c’entrano le toghe rosse. I signori del quarto piano avevano bisogno di una sponda politica per andare avanti. Nel caso in cui avessero indagato anche sui vertici nazionali del Pci-Pds, la risposta del Parlamento sarebbe arrivata in pochi giorni: un’amnistia che avrebbe fatto tornare la magistratura all’attività ordinaria senza più la velleità di “rivoltare l’Italia come un calzino”. Berlusconi, Fini e Di Pietro L’inchiesta “Mani pulite” fu forte soprattutto mediaticamente. Va ricordato che ad appoggiare in modo determinato la violazione dello Stato di diritto e delle garanzie della difesa, nonchè l’utilizzo del carcere per ottenere la confessione di quello che era stato commesso e anche di quello che invece non era stato commesso, furono le televisioni del gruppo Mediaset. Ancora oggi sia Fini sia Berlusconi, che per il resto non vanno più d’accordo su niente, quando parlano di quegli avvenimenti ancorano le critiche a partire dal 1994. Fu l’anno del famoso avviso al fondatore della Fininvest (21 novemmondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 20 / / >>>> dossier / craxi bre, Napoli, convegno dell’Onu sulla criminalità internazionale). E prima? Non era accaduto nulla? No, secondo il premier e il presidente della Camera dei deputati di oggi. Insomma, “Mani pulite” sarebbe andata in aceto nel 1994. Nel 1994 a novembre, però. Perchè in primavera Berlusconi dopo aver vinto le elezioni offrì all’Eroe il ministero dell’Interno. Prima l’azione della magistratura sarebbe stata salutare. Nessun giornale all’epoca lo scrisse, sempre perchè dominava il pensiero unico, ma l’anno terribile di “Mani pulite” fu il 1993. Le mancate indagini su Fiat, gruppo De Benedetti, PciPds, Mediobanca. Senza dimenticare il troncone di inchiesta relativo ai fondi neri dell’Eni, la cui conduzione fu in sostanza affidata al banchiere Pier Francesco Pacini Battaglia, “entrato e uscito come una meteora dalle sue indagini, dottor Di Pietro”, ricordò in aula l’avvocato Spazzali. Pacini Battaglia, “anche depositando carte false”, come sostenne poi la procura di Brescia, inquinò le prove in modo formidabile, ma agli occhi della procura di Milano l’uomo “appena un gradino sotto Dio” rappresentava l’Eni buono, quello che “collaborava”. Come Franco Bernabè, sentito da testimone al processo Cusani. “E allora l’abbiamo finita con la pratica delle società off-shore?” chiedeva il Pm più famoso del globo terracqueo. E Bernabè mormorava: “La stiamo finendo”. L’allora amministratore delegato del cane a sei zampe, in pratica, confessava un reato ancora in essere. Ma l’Eroe in toga nulla obiettò e soprattutto nulla fece. E il giorno successivo nessun grande principe del giornalismo scrisse nulla. Tra il 1992 e il 1993, nella “Mani pulite” che piaceva a tutti o quasi, e che portava in corso di Porta Vittoria le bandiere di un arco che andava dal Msi al Leoncavallo, bisognava parlare a verbale per non stare in galera. E occorreva anche l’avvocato giusto per cavarsela. Chi per esempio era assistito da Michele Saponara non aveva speranze. Il socialista Loris Zaffra per rivedere la luce dovette cambiare difensore. Un manager dell’Eni, arrestato e portato di fronte all’Eroe, esordì: “Guardi, non è vero quello che è scritto qui nell’ordine di custodia”. Il Pm per antonomasia: “Lasci perdere quello che c’è scritto lì, lei mi deve dire cosa sa”. “Ma io sto qui per quanto c’è scritto sulla carta” controreplicava il malcapitato. Nulla da fare. Era la giustizia degli anni del grande terrore, su cui una vera riflessione non è stata ancora avviata. Gli imprenditori la fecero franca anche perchè avevano i media per esaltare la falsa rivoluzione: pagarono i politici di quasi tutti i partiti tranne uno. Nelle file di quell’uno il Pm simbolo dell’inchiesta beneficiò di un seggio da senatore mentre era a caccia di un’immunità parlamentare perchè sotmondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi to inchiesta a Brescia, dove per la prima volta nella sua storia l’Anm emise un comunicato di solidarietà schierandosi con l’indagato ex magistrato e non con i Pm che facevano le indagini. La prima volta ovviamente fu anche l’ultima. Bettino Craxi, di cui si è tornato molto a parlare in questi giorni per l’eventualità che gli sia dedicata una via o un giardino a Milano, descritto come il responsabile di tutti i mali e un grande criminale, fu un colpevole di finanziamento illecito ai partiti tra i tanti. Fu uno sul quale, a differenza di altri, si indagò a fondo. Non sono mai stato craxiano, vengo dal comunismo libertario, il praticantato giornalistico l’avevo fatto al Manifesto. Bettino l’ho combattutto politicamente negli anni della mia giovinezza al pari degli altri leader della cosiddetta prima Repubblica, anche se forse lo avversai meno di Berlinguer perchè considero il compromesso storico la vera sciagura del dopoguerra italiano e uno dei motivi per cui i comunisti ortodossi delle Br arrivarono a essere il secondo partito in molte fabbriche del nord. Però i guai della politica si risanano con la politica. Il diritto non è uno strumento di trasformazione della società. L’errore terribile della classe dirigente della prima Repubblica fu proprio quello di delegare interamente alla magistratura la risoluzione del problema della lotta armata interna prima e della mafia poi. Le toghe acquisirono così troppo potere e nel momento in cui la politica si indebolì la magistratura le saltò al collo, con la scusa della lotta alla corruzione, che c’era anche prima e che Pm e giudici avevano fatto finta di non vedere. Siamo passati negli ultimi trent’anni e più da una emergenza all’altra e l’emergenza è diventata prassi normale di governo. Al punto che in questa seconda Repubblica si governa sulla base della cronaca quotidiana. E fino a che non ci sarà progettualità, la magistratura, insieme a economia e finanza, avrà sempre spazio per pesare molto di più rispetto al normale. / / 21 / / >>>> dossier / craxi Una parte essenziale della nostra storia >>>> Biagio de Giovanni n questo anniversario –nonostante l’asse Borrelli-Di Pietro, dio ne scampi, ricostituitosi sulla toponomastica di Milano- si è riaperto il dibattito su Craxi, favorito forse da una congiuntura politica destinata a mettere in evidenza i molti elementi anticipatori che erano nella sua visione politica, che fu “sua” e che di certo fallì anche per sue responsabilità, e che andò anche in parte, allora, contro “il principio di realtà”, intrisa come fu fin dall’inizio di giacobinismo. Certo, bisognerebbe ripercorrere con calma date e situazioni, periodizzazioni stringenti e motivate. Insomma, sarebbe necessario, credo, un vero e proprio studio non solo su di lui, ma su quel “nuovo” Psi –il Psi di Martelli, e di tanti altri- che nel 1976 sembrò aprire una nuova stagione politica dell’Italia e poi finì nel nulla, dopo quindici anni circa di più o meno convulse vicende. Bisognerebbe far questo in un momento in cui si dibatte sul se la seconda Repubblica sia ancora viva o piuttosto moribonda (e su questo ho già espresso la mia opinione: propendo per il “viva”), giacchè personalmente non ho dubbi che l’asse strategico intorno al quale nacque il craxismo fu proprio la messa in discussione di un tratto decisivo della storia repubblicana, della sua “ideologia”, dei suoi tabù, delle sue idiosincrasie, del suo senso comune, e insomma di quello che si può chiamare il suo sistema egemonico, che comprendeva troppe cose contro le quali si rischiava di cozzare e contro le quali ci si andò effettivamente a urtare. La strategia di Craxi nacque anzitutto per affossare il compromesso storico, che di quella storia intendeva essere “conclusione”: è lì che va ricercato il punto d’origine. Craxi è insomma l’antiMoro e l’antiBerlinguer, e va ancor di più apprezzato il suo comportamento in occasione della tragedia che colpì il grande dirigente della Dc. Le date, come si usa dire, sono decisive. E che il Midas arrivi nel 1976, qualche anno solo dopo l’opa del compromesso storico, la dice lunga sulla sua origine. Senza i celebri articoli di Enrico Berlinguer su Rinascita che annunciavano la svolta, o meglio che dichiaravano esplicitamente di volere ciò che già in parte era nelle cose, Craxi non avrebbe avuto la forza di emergere come la vera I novità italiana. Questo costituisce, secondo me, un punto di partenza fermo, intorno al quale avviare ragionamenti che possono avere esiti e traiettorie diverse. E questo spiega perché l’attacco fu anche alla cultura del Pci, e mi riferisco naturalmente all’azione del Mondoperaio di Federico Coen, senza il cui lavoro molte cose sarebbero rimaste implicite, pura politica, e con lui divennero invece embrione di nuova cultura politica. Si trattava di smuovere un monolite dalla sua tana. Di mettere in discussione, a sinistra, certezze che non erano mai state messe in discussione e che nessuno chiedeva che lo fossero. L’appuntamento del compromesso storico fu proposto dal Pci come elemento di una continuità che veniva da lontano, i cui embrioni erano addirittura nella costituzione originaria del Pci -al di là di affermazioni del tipo “fine della spinta propulsiva dell’Urss” che apparvero più importanti di quanto non fossero in realtà, trattandosi di cosa come tale già acquisita- e ne rivendicavano un continuismo politico-culturale che serviva a confermare la costituzione storico-materiale del paese e un vecchio, ambiguo, ma anche complesso, ragionamento sulla questione cattolica. Il compromesso storico voleva insomma sanzionare che il consociativismo di fatto, più o meno strisciante, diventasse governo comune del paese, e dovesse trovare quindi motivazioni più solide e di lungo periodo. Non era tanto preparatorio di una alternanza di governo, come pure venne da qualcuno interpretato, ma come consolidamento definitivo di equilibri di una storia allora quasi quarantennale. Craxi nacque in opposizione a questo disegno, e per far ciò dovette reinterpretare l’autonomismo socialista in una chiave inedita. Dovette battere il conservatorismo di Francesco De Martino senza potersi semplicemente riagganciare a motivazioni da primo centrosinistra. Si trovò in una situazione scoperta e assai difficile, anche perchè il compromesso storico veniva mostrato come esito necessario della storia della prima Repubblica, ed aveva in sé una sua immanente forza e quasi necessità, stante gli equilibri politici italiani e stante la pericolosa china inaugurata da Piazza Fontana, 1969, mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 22 / / >>>> dossier / craxi e poi esplosa in forme variopinte negli anni settanta. Incrinare la sua logica interna era lavoro difficilissimo, con sicure venature “giacobine”. Bisognava disegnarne il potenziale carattere di “regime” per risvegliare qualche pezzo di coscienze liberal-socialiste e post-azioniste, e su questa base lavorare a un nuovo Psi e a una nuova sinistra. Il Psi era l’unico cuneo che si poteva inserire in quel disegno per buttarlo giù. E questo implicava l’apertura di un doppio fronte, verso il Pci facendo intravvedere una alternativa di sinistra, e verso la Dc riproponendo in forma nuova la capacità di governo del Psi. Anche questo, un equilibrio difficile e non privo certo di ambiguità. Per chi ama le fasi aurorali del movimenti (anche di idee) è quello indicato l’aspetto del craxismo che più affascina, anche perché è quello veramente anticipatore di una crisi di sistema che si verificò molto dopo, in tutt’altra forma e coinvolgendo lo stesso Psi. Craxi aveva capito in anticipo alcune cose: che il consolidamento dell’asse Dc-Pci costituiva un destino di conservazione per l’Italia, e che questo consolidamento coincideva con un rafforzamento sine die della storia della prima Repubblica, ovvero di un sistema egemonico in via di esaurimento; che era venuto il momento di una riforma della Costituzione (la “grande riforma”) per mettere in discussione i tratti conservativi di un sistema idealmente e politicamente assembleare; che si dovevano mettere in discussione i blocchi sindacalizzati; che le matrici culturali del Psi andavano profondamente rivisitate liberandosi dallo straordinario impoverimento che esse stavano attraversando a favore del suo compagno maggiore; che queste matrici da riconquistare riportavano verso altri pensieri, e anche verso tradizioni che soprattutto la critica del Pci aveva violentemente rimosso, a cominciare da quella liberalsocialista; che, insomma, quel nano politico che era allora il Psi, ancora abbacinato da una vecchia interpretazione dell’unità d’azione, doveva riconquistare la capacità di pensare. Si può aggiungere, e non sempre è stato detto, data anche la profonda diversità delle situazioni, che più di ogni altro Craxi ha anticipato il socialismo immaginato da Tony Blair, il che costituisce osservazione di non poco interesse storicopolitico per una precisa ragione: Blair aveva alle spalle la rivoluzione degli anni ottanta, e potè fondarsi almeno in parte su di essa e sul lavoro “sporco” fatto dalla Thatcher. Craxi no, ed egli dovette leggere fra le righe della storia del mondo per vedere in anticipo ciò che solo gli anni successivi squaderneranno davanti a tutti. Ma non mi posso infilare in un discorso troppo complesso e dalle troppe facce, e voglio piuttosto interrogarmi assai brevemente sulle ragioni del fallimento del disegno che ho cercato di rappresentare, e sulle ragioni del disastro finale. C’è stato probabilmente uno squilibrio iniziale fra questo complesso di idee e i rapporti di forza effettivi in campo, quello che chiamavo strisciante giacobinismo. In mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi politica, quando questo squilibrio è eccessivo, tende a prevalere l’effettività dei rapporti di forza, dentro i quali la strategia innovativa si continua a scorgere solo per vie indirette e in qualche caso emblematiche: la scala mobile, ad esempio, possibile anche perché la Cisl di Carniti fu d’accordo. Che la stagione “ideale” craxiana tenda ad esaurirsi nei primi anni ottanta, è segno di questo. L’idea generale rimane, ma per ora viene accantonata, e accantonare una grande idea significa in varia misura rinunciarvi. Puro velleitarismo, allora, quello del primo Craxi? Non credo; se così fosse, dovrei rimangiarmi tutto ciò che ho detto, e peraltro non ogni strategia che fallisce è semplicemente velleitaria. Le idee erano molto forti e coglievano aspetti profondi della situazione italiana, esprimevano una diagnosi che allora nessuno faceva, ma che poi si sarebbe dimostrata, in tutt’altra situazione, fondata e anticipatrice. Furono peraltro quelle idee l’asse intorno a cui si formò il nuovo gruppo dirigente del Psi che senza di esse non sarebbe esistito. Il primo vero ostacolo si chiamò Enrico Berlinguer, il politico che riuscì a mettere insieme compromesso storico e diversità comunista, due realtà reciprocamente escludentisi, e rinunciò a entrare in quella terza realtà aperta da Craxi, alla quale il Pci avrebbe potuto dare un contributo decisivo per una alternativa. Era possibile immaginare un diverso atteggiamento del Pci? Tutto in politica può avvenire, anche se per le ragioni indicate all’inizio non era certo cosa facile. Quel partito in realtà si era infilato in un vicolo cieco distruttivo, e prender sul serio Craxi (e non dico affatto accoglierlo “in toto”) avrebbe potuto costituire qualcosa che avrebbe potuto cambiare la storia della sinistra italiana e dunque di tutto il sistema politico. Così non fu, e venne meno una dialettica decisiva. Craxi anzi diventò il principale nemico da battere a sinistra, come il nemico mortale da distruggere. E Craxi rispose a sua volta per le rime, con altri eccessi, senza accorgersi, forse, che senza quella sponda il suo progetto era destinato a fallire, o comunque a mutare completamente natura. Craxi entrò così in un sistema di cui alla fine rimase vittima, anche perché, una volta entratovi, contribuì a ridefinirlo a immagine di quelli che gli sembrarono interessi di potere del suo partito. Quando l’asse ideale e strategico viene meno, tutto diviene possibile, soprattutto per chi su quell’asse strategico, contrariamente a ciò che normalmente si pensa, ha giocato parte essenziale della sua identità. Ma qui incomincerebbe un altro discorso sulle modalità di fine del sistema italiano nei primi anni novanta, un capitolo che rinuncio evidentemente ad aprire. Non senza però un piccolo appello al fatto che, di là dal merito delle scelte politiche, Craxi va oggi pensato come parte essenziale della storia italiana, con la buona pace di chi ha costruito le sue fortune sulla sua distruzione umana e politica. / / 23 / / >>>> dossier / craxi Il paradosso dell’innovatore >>>> Ernesto Galli della Loggia lla fine, mi sembra, si potrebbe arrivare a questa conclusione: Craxi, l’uomo del nuovo per antonomasia, il propugnatore del cambiamento, rimase vittima proprio delle novità e dei cambiamenti che non aveva saputo vedere o interpretare. Su questa clamorosa, paradossale, sfasatura si consumò la sua repentina sconfitta politica ed è da qui che continua a venire alla sua catastrofe personale un sapore amaro di beffa. Il fatto si è che mentre nella sostanza il nuovo a cui il segretario socialista ebbe sempre mente e per cui (ma fino ad un certo punto, come dirò) cercò di battersi s’iscriveva interamente nell’ambito del sistema politico propriamente detto (inteso cioè come insieme di regole e come rapporti di forza tra i suoi attori), viceversa le novità che alla fine lo travolsero, e che egli non vide o sottovalutò, si produssero precipuamente nell’ambito del cosiddetto “sociale”: in particolare nell’ambito dell’opinione pubblica, dei giudizi diffusi, dei modi accreditati di sentire e di ragionare. Accadde allora, infatti (parlo della seconda metà degli anni Ottanta), qualcosa che non era mai accaduta prima nella storia della democrazia italiana: vale a dire che per un concorso straordinario di circostanze cominciò a formarsi nel paese un’opinione pubblica sufficientemente vasta e dagli orientamenti radicaleggianti la quale, da un certo punto in avanti, si sottrasse alla diretta influenza dei partiti cominciando ad agire sulla scena politica sostanzialmente in proprio. Introdurrò più avanti le necessarie cautele analitiche in questa affermazione che, così come l’ho espressa, rischia di apparire davvero troppo ingenua. Ma ciò che qui m’interessa sottolineare è come sia stata precisamente la presenza di questo protagonista inedito, di questo tipo nuovo di opinione pubblica - politica, politicissima, ma non più connotata in senso partitico - l’elemento decisivo che determinò non solo e non tanto il minuto andamento delle inchieste giudiziarie, quanto soprattutto ne provocò l’ innesco finendo poi per costituire il carattere politicamente non dominabile dell’intero fenomeno di “Mani pulite”. Fenomeno che infatti, A anche se molti cercarono più meno astutamente di usarlo e di condizionarlo, ebbe alla fine un esito da nessuno di costoro previsto o voluto. Craxi non ebbe alcun sentore di ciò che pure si andava preparando sotto i suoi occhi. Animale totus politicus cresciuto per intero nel mondo dei partiti della prima Repubblica, egli non dismise mai nei confronti della cosiddetta società civile un atteggiamento nella sostanza pedagogico e di direzione. Pur proclamandosi - e per molti versi essendo realmente - l’esponente politico più in sintonia con alcune esigenze e alcune nuove tendenze del mondo fuori del Palazzo, egli ostentò sempre verso questo mondo un senso di distaccata superiorità, legato probabilmente al concetto altissimo che aveva della politica e del proprio ruolo. Gli obiettivi della “governabilità” e della “modernizzazione” che perseguiva erano sì tali da essere condivisi da una gran parte della compagine sociale, e certamente essi rappresentavano assai di più che una pura istanza politicistica. Ma Craxi li perseguì costantemente mantenendo un atteggiamento del tipo “faccio tutto io, lasciatemi lavorare”: pensando cioè che quel che davvero contava, alla fine, erano solamente la politica ed i suoi attori a deciderlo; e che quindi, purchè fosse stato esattamente valutato e interpretato, il “sociale”, al pari della proverbiale intendenza, non avrebbe potuto fare altro che “seguire”. Con tale burbanzosa sicurezza Craxi trattò il suo partito, gli intellettuali ad esso più o meno vicini, e molto altro ancora. Ottenendo i successi che si sa, certo, ma altresì dovendo anche periodicamente constatare che tutto ciò che egli faceva otteneva poi risultati elettorali solo miserrimi. In realtà, insomma, a dispetto di tutti i suoi sforzi, non gli riuscì mai di farsi seguire dall’intendenza. Evidentemente c’era nella sua strategia qualcosa di sbagliato alla radice. Tanto più che anzi l’intendenza gli si mise ben presto contro. Nell’Italia della seconda metà degli anni ’80, infatti, via via che si allentano la morsa della guerra fredda e la camicia di forza ideologica fino allora infilata dai partiti sul mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 24 / / >>>> dossier / craxi corpo della società, cominciano ad apparire sempre più evidenti i numerosi aspetti patologici accumulatisi specialmente negli ultimi due decenni. Aspetti patologici che ora appaiono particolarmente insopportabili perché privi degli alibi che potevano essere invocati in precedenza: un debito pubblico in crescita libera a causa principalmente degli sprechi e delle disposizioni compiacenti in vigore nel campo della sanità e delle pensioni; un’evasione fiscale altissima e indomabile; una malavita organizzata sempre più padrona di intere regioni del paese; un’amministrazione dello Stato pachidermica e inefficiente; servizi pubblici scadenti, indegni di un paese civile; dappertutto un livello di corruzione strutturato, capillare, assillante e quasi sempre impunito; la giustizia che ogni tanto prova a colpire ma che deve battere regolarmente in ritirata di fronte all’uso spregiudicato dell’immunità parlamentare o ad altri inciampi, sicchè è rarissimo che si arrivi a una sentenza. Infine, come denominatore comune, un sistema politico bloccato, sì, ma attivissimo nell’esercitare il proprio dominio su qualunque parte della società (a cominciare dalla magistratura, come ho accennato) e nell’occupare qualunque spazio d’intermediazione con richieste continue di denaro: un sistema politico abituato a disporre a suo piacere di migliaia di cariche solitamente ben retribuite, a elargire favori dietro consenso, a far valere su tutto e in qualunque occasione la volontà del “partito”, cioè delle proprie immobili oligarchie. Così accade non a caso che sia proprio verso i partiti e il loro sistema, sentiti come usurpatori dei diritti dei cittadini, mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi che cominci a manifestarsi un sentimento di dissociazione, che prende la forma di una critica sempre più vasta e - ciò che più conta - trasversale. Per la prima volta il termine “partitocrazia”, fino allora proprio esclusivamente del lessico della destra, comincia nella seconda metà degli Ottanta a trovare largo impiego anche a sinistra. E’ un segnale di quanto sta accadendo. Ed è un segnale percepibile ben prima di “Mani pulite”, senza il quale è facile immaginare che questo fenomeno non ci sarebbe neppure stato o avrebbe avuto effetti assai meno sconvolgenti. Ben prima del ’92, ad esempio, anche la Chiesa italiana si fa pubblicamente paladina della “legalità” e della lotta contro la malavita dando chiari segni di voler ritirare la delega in bianco rilasciata a suo tempo alla Democrazia cristiana. Dal canto suo una parte significativa del mondo cattolico, parroci, gruppi di fedeli, riviste, perfino vescovi, cominciano a prendere le distanze dal loro antico partito, mentre in molte diocesi si aprono “scuole di politica” con l’esplicito proposito di formare una nuova classe dirigente. Sono molti e di varia natura, dunque, gli apporti che confluiscono nella formazione della nuova opinione pubblica di cui dicevo sopra. Ma tutti si riconoscono alla fine in un sentimento comune: l’anticraxismo. Attraverso quali meccanismi Craxi sia divenuto agli occhi di un buon numero di italiani il rappresentante delle più inquietanti pulsioni eversive e nello stesso tempo l’incarnazione assolutamente insopportabile del sistema esistente, il simbolo sia del pericolo del nuovo che dell’impresentabilità del vecchio, deve essere ancora spiegato in modo soddisfacente. Certo si è che egli non sembrò aver alcun sentore della potenzialità distruttiva che un tale movimento poteva avere, rimanendo convinto fino all’ultimo che si trattasse di qualcosa di sostanzialmente artificiale, di una sorta di manovra-complotto sollecitata e orchestrata dai suoi due nemici di sempre: il Partito comunista e il gruppo Repubblica-L’Espresso. Ora non intendo davvero sottovalutare l’incidenza dell’uno o dell’altro. Certamente il nucleo duro dell’ “anticraxismo” fu rappresentato da una opinione “comunista” venuta crescendo dal 1978 in avanti e giunta a pieno rigoglio con la predicazione berlingueriana sulla “questione morale”; così come è sicuramente vero che i giornali del gruppo Caracciolo non persero una sola occasione per sparare a zero sul segretario socialista. Ma nell’ultima fase della prima Repubblica il movimento antisocialista vide convergere un arco di forze ben più vasto e variegato - dai già ricordati ambienti cattolici a quelli di / / 25 / / cultura liberaldemocratica vicini tradizionalmente al Partito repubblicano, a settori importanti della Confindustria che ne fecero in breve un vero e proprio senso comune diffuso trasversalmente. La stampa vi giocò senz’altro una parte, ma è precisamente questo ciò che avviene di solito in tutti i movimenti di opinione pubblica, i quali trovano sempre voci e giornali che sappiano parlare a loro nome e che quindi in tal modo ne amplificano anche la portata. Le copertine dell’Espresso avrebbero potuto ben poco, insomma, se esse non fossero cadute su un terreno già pronto a riceverle. E se non ci fosse stato un tale terreno è assai probabile che molte altre cose sarebbero andate assai diversamente. Perché Craxi non si avvide di quanto stava accadendo o non ne capì la pericolosità? Una risposta va cercata nell’assorbente politicismo che lo caratterizzava, nella sua convinzione che alla fine decideva di tutto la politica e i suoi attori, cioè i partiti. Al massimo con il concorso (la complicità?) dei giornali e della tv. L’idea che invece in certe circostanze una cosa come l’opinione pubblica in quanto tale, pur con tutto quanto di vago è insito nel termine “opinione pubblica”, potesse avere un ruolo condizionante decisivo, non dovette mai passargli per la testa. Tanto meno che circostanze del genere stessero per prodursi in Italia. Ma c’è una ragione, io credo, assai più importante, e che riguarda l’intera strategia messa in piedi dal segretario socialista. In sostanza la mia opinione è questa: Craxi non capì quanto stava accadendo né minimamente ne immaginò gli sviluppi per un motivo soprattutto: perché fraintese radicalmente il significato della caduta del muro di Berlino, cioè dell’evento che ormai dominava l’intero scenario europeo se non mondiale, e dunque anche l’orizzonte italiano. Egli credette che quell’avvenimento costituisse sì una svolta, ma una svolta all’interno di una fase storica precedente, quella apertasi nel ’17 che aveva visto al centro lo scontro tra il comunismo da una parte e dall’altra tutto ciò che gli si contrapponeva, e dunque anche la socialdemocrazia. Pensò, di conseguenza, che grazie al novembre ’89 il partito socialista fosse finalmente in grado di cogliere la tanto attesa rivincita sugli antichi rivali, magari tornare ad essere egemone a sinistra, che insomma avesse davanti a sé un avvenire pieno di promesse. E’ vero: da quando il suo governo aveva avuto termine (1987) egli era stato spinto a stabilire rapporti sempre più stretti con la destra democristiana e ad annacquare ogni spinta riformatrice. Ma ora, grazie alle nuove prospettive che la caduto del Muro riapri- va a sinistra, la tendenza poteva essere invertita. Ora diventava possibile saldare vecchi conti e aprirne di nuovi. Le cose però non sarebbero andate così, dal momento che il punto di partenza non era quello che Craxi credeva. La caduta del Muro di Berlino, infatti, non rappresentava affatto una svolta all’interno di una fase storica destinata comunque a durare. All’opposto, esso segnava l’inizio di una fase nuova, interamente nuova. La fine della guerra civile europea, infatti, non solo cancellando il comunismo cancellava anche l’anticomunismo (o perlomeno lo obbligava a cercare nuove ragioni d’essere), ma in tempi non troppo lontani, come si sarebbe ben presto cominciato a vedere in molte società europee, era destinato a riproporre su basi rinnovate rispetto agli assetti ereditati dal ‘45 i problemi del consenso e della forma-partito: cioè alcuni dei problemi cruciali di ogni regime democratico. Tanto più ciò doveva accadere in Italia dove, come ho detto, già nella seconda metà degli anni Ottanta, l’insofferenza per il carattere immobile e oligarchico del quadro politico, la critica alla partitocrazia e alle sue pratiche, la protesta contro il cattivo funzionamento di tutte le amministrazioni pubbliche, lo scandalo per il dilagare delle grandi organizzazioni criminali, stavano crescendo fino a porre un problema di legittimazione sistemica. Di cui Craxi però non fece mostra di accorgersi affatto. Neppure sei mesi dopo gli avvenimenti di Berlino, nelle elezioni regionali del maggio ’90, la Lega raggiunge lo strepitoso risultato del 5 per cento a livello nazionale; nell’agosto di quello stesso anno inizia, con l’evidente favore dell’opinione pubblica, la raccolta delle firme per i referendum sulla legge elettorale; poco dopo il Partito repubblicano esce dal governo, mentre nel giugno ’91 passa a larga maggioranza popolare il referendum sulla preferenza unica: in due anni, nel frattempo la mafia ha ucciso il giudice Livatino e Libero Grassi, e il ministro dell’Interno Scotti ha denunciato in Parlamento la presenza di oltre 500 organizzazioni criminali in grado di controllare quasi interamente Campania, Calabria e Sicilia. Nessuno di questi segnali, che oggi a noi appaiono chiarissimi, fu tuttavia colto dal segretario del PSI. Craxi restò ad attendere fiducioso la disintegrazione elettorale del PCI ormai PDS, sperando di avere comunque in mano la carta decisiva dell’accordo con il Caf per la spartizione delle più alte cariche dello Stato. Non poteva sapere che la Procura della Repubblica di Milano, assai più di lui politicamente sagace, avrebbe capito meglio la situazione e lo avrebbe battuto sul tempo. mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 26 / / >>>> dossier / craxi Il leader che manca alla sinistra >>>> Piero Craveri l decennale della morte porta anche a sinistra, assieme alle solite contumelie, qualche equilibrato riconoscimento in più alla memoria di Bettino Craxi (penso, ad esempio, al meditato articolo di Mario Pirani su La Repubblica del 2 gennaio). Ma sostanzialmente da quella parte l’ostracismo non è affatto caduto. Proprio di quest’ultimo mi preme innanzi tutto dare una spiegazione che sintetizzerei così: la sconfitta politica di Craxi (perché c’è stata una sua sconfitta, propriamente politica, sulla quale ritornerò subito) è stata causa diretta e pregiudiziale del crollo della sinistra, quale si è verificato in questi anni. Il segno sta in quella fetta decisiva di consenso moderato che Craxi aveva raccolto attorno a sè, motivato, più che da una prospettiva riformista, da una possibilità di modernizzazione delle istituzioni e della società, e che la sinistra appunto ha perduto. In questo, e solo in questo, c’è una continuità tra Craxi e Berlusconi: è finito a destra quello che con Craxi stava, almeno potenzialmente, a sinistra. I La sinistra avrebbe dovuto ripartire da Craxi. Avrebbe avuto un vantaggio su di lui, che non c’era più la DC. Invece è ripartita da Occhetto, Di Pietro, Veltroni e quant’altri, all’ombra del lascito politico inesistente di Berlinguer. Occorreva una riflessione profonda che non c’è stata. Ciò pesa ed è sempre più evidente, per cui l’ostracismo rimane, perché è l’unico modo di esorcizzare le mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi responsabilità politiche che sono connesse a questa mancata riflessione. Come rimane l’ostracismo per Berlusconi, che ormai da unificante è diventato lacerante per la sinistra. Ma non c’è congiunzione politica tra Craxi e Berlusconi, come ho sentito con insistenza affermare dalla Annunziata in un’intervista televisiva a Stefania Craxi ancora qualche giorno fa. Del resto il primo rappresenta un esito mancato della prima Repubblica, il secondo un percorso promesso e solo molto parzialmente realizzato di transizione ad una seconda Repubblica. Tra i due c’è il crollo di un sistema politico, fatto di partiti in apnea ma anche in trasformazione, con una scienza dell’equilibrio politico da aggiornare ma esistente, con una cultura democratica malgrado tutto comune e una concezione ferma dell’unità nazionale. Cose tutte di cui Craxi era fermissimo cultore, ed ora scomparse. La sconfitta di Craxi Vorrei tornare sulla sconfitta di Craxi. Essa risale al 1987, con la fine dell’VIII legislatura. Craxi usciva da quattro anni di presidenza del Consiglio indubbiamente vincente. La congiuntura economica era della migliori; l’inflazione domata con la drastica riduzione della spirale salari/prezzi seguita alla vittoria referendaria sulla scala mobile; la stagione del terrorismo sepolta; lo stile virtuale della governabilità e la dimostrata non necessità del consociativismo chiedevano d’essere incorporati nelle istituzioni. Comunisti e democristiani, in palese difficoltà, si mostravano contrari a qualsiasi sostanziale novità. Il PCI tendeva a sottrarsi alla prospettiva cieca in cui nel 1980 l’aveva collocato Berlinguer, recalcitrante a qualsiasi ipotesi politica che non riproponesse le linee dell’ormai sepolto suo compromesso storico. E lo fece radicalizzando la sua posizione nell’arena politica, in primo luogo contro Craxi, senza uscire dall’equivoco creato da Berlinguer. La DC praticava due strade: quella che Andreotti aveva definito dei “due forni”, e quella messa in opera da De Mita con una trappola che aveva anche il suo risvolto istituzionale, come risposta alla “grande riforma” suggerita da Craxi. La trappola / / 27 / / consisteva essenzialmente nel vincolare l’alleanza con il PSI ad un patto di legislatura, ancor più ad un vincolo reciproco e permanente di alleanza, così da assicurare il primato della DC nella coalizione di governo. L’idea di congelare la dialettica politica in siffatto modo rispondeva ad una concezione clanica della politica. Era anche l’idea che una classe politica si legittima a detentrice del potere assoluto attraverso patti giurati e regole “d’onore” tra le parti, propria di un’antropologia culturale diffusa in Campania ed in altre regioni italiane, che nulla ha a che fare con una concezione liberal-democratica della politica, e neppure col ruolo ricoperto dalla DC nel sistema politico almeno fino alla morte di Moro, ch’era stato quello di garantire non esclusivamente se stessa, se non attraverso l’equilibrio dell’intero sistema politico. La parabola di De Mita era incominciata con propositi diversi. Nel 1983 Beniamino Andreatta aveva operato una revisione profonda degli orientamenti economici della sinistra democristiana, sostenendo tra l’altro che “oggi non i vasti piani di investimento, ma la riduzione della spesa pubblica può permettere il rilancio dell’occupazione” e che “la spesa in eccesso preme sui tassi di interesse, alzandoli ed escludendo l’accumulazione di mezzi di investimento; preme sul cambio, obbliga ad un cambio elevato e quindi deindustrializza il paese”. Il peronismo reale Nel dibattito interno della DC questa riflessione non fece pressoché alcuna presa. Ma De Mita vi aveva prestato orecchio, producendosi in qualche accento di thatcherismo e di reganismo. Craxi l’aveva ripreso duramente. Il fatto è però che proprio Craxi aveva avviato il nuovo riformismo socialista su quella strada, che d’altra parte era quella seguita dai francesi e dagli spagnoli, e sarebbe stata poi la formula di successo con cui, negli anni ’90, Tony Blair avrebbe vinto le elezioni. Con matura riflessione, cosa di cui De Mita non era capace, Craxi coniugava liberismo e socialità: occorreva liberalizzare il sistema, mantenendo alcuni strumenti di controllo pubblico, e garantire i lineamenti fondamentali del welfare nel nuovo contesto internazionale che stava maturando. Su ciò il riformismo socialista spese più d’una riflessione compiuta. Certo la liberalizzazione in Italia doveva partire dal sistema politico e dalle istituzioni pubbliche che costituivano i vincoli pregiudiziali propri del neocorporativismo italiano. E democristiani e comunisti erano fermissimi nemici di qualsivoglia cambiamento. Craxi fu lo statista italiano che intuì le ragioni di fondo che rendevano necessario il cambiamento e prese a dare loro forma. La sua iniziale pars destruens del consociativismo, pilastro di quel sistema, fu efficace su tutti i fronti, tanto che il suo politique d’abord riusciva a dettare l’agenda di governo alla stessa DC. Generò un’autentica speranza in chi voleva il cambiamento e la modernizzazione, rendendo plausibile la possibilità di una riforma del sistema. Certo in termini culturali era una rivoluzione consapevole della sua radice liberale oltre che socialista. Dal punto di vista politico tuttavia generò presto una reazione ottusa, che ipocritamente rimaneva coperta, ma sostanzialmente era un’inclinazione del blocco d’ordine comunista e democristiano di natura intrinsecamente violenta, che poi si sarebbe mostrata palesemente, quando il sipario sarebbe caduto sull’intero sistema politico, con inaudita determinazione da parte dei postcomunisti e di altri soggetti, non a caso più contro Craxi che contro altri. Ma esauritasi la sua esperienza di capo del governo, di fronte al labirinto politico che gli era stato creato intorno e che portò alla paradossale fine di quella legislatura con un monocolore democristiano che riceveva alla Camera dei Deputati il voto dei socialisti e non quello della DC, cosa avrebbe dovuto fare Craxi? Accettare il patto che gli veniva offerto o rompere le righe? Craxi si preoccupò di sgombrare la strada da De Mita, e non gli fu difficile, ma finì poi per stringere un legame analogo con Andreotti e Forlani. Come avrebbe potuto altrimenti rompere le righe? Avrebbe dovuto prepararsi seriamente ad una deriva plebiscitaria sul tema delle riforme. I sondaggi mostravano un non trascurabile sostegno della pubblica opinione. Nel 1991 Cossiga dal Quirinale gli offrì anche una sponda per questa operazione. Un tema ricorrente anche oggi, specie a sinistra, è quello antiplebiscitario. Ma per le riforme istituzionali il referendum è previsto perfino dall’articolo 138 della nostra Costituzione e in altri mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 28 / / >>>> dossier / craxi paesi, dove è stato attuato, come in Francia, ha dato luogo a solide istituzioni. L’oggetto non sembra essere invero più il tema della riforma istituzionale, ma quello del premierato. Sembra un’implicita riabilitazione della forma partito, dinnanzi a uno scenario in cui i partiti, almeno nella forma con cui li abbiamo conosciuti, non ci sono più, e quelli nuovi hanno strutture incerte fondate su regole errabonde. E poi, di grazia, le primarie cosa sono se non una deriva che potremmo a giusto titolo definire plebiscitaria, se fossero regolate da norme e non da seggi vaganti senza liste di elettori? Tocco questo punto nella convinzione che queste polemiche che si trascinano nel tempo coprano un’altra questione sostanziale, quella della degenerazione populistica del neocorporativismo consociativo italiano. Se si riprendessero in mano gli studi di Gino Germani sul peronismo argentino si troverebbero analogie profonde Come questa deriva si sia andata consolidando, a partire dalla crisi del primo centro-sinistra, sarebbe storia da ripercorrere con attenzione. Nel PCI la matrice non è quella originaria togliattiana, ma piuttosto ingraiana, a cui Berlinguer più o meno consapevolmente diede seguito, e data dalla metà degli anni ’60, avendo per oppositore interno Giorgio Amendola. Per la DC si tratta di una vocazione intrinseca, non dichiarata ma praticata, implicita nel modello di partito che Fanfani mise a punto nella seconda metà degli anni ’50 e che prese forma poi con le modalità e gli effetti che sono noti. Con questa deriva si scontrò Craxi. Aveva chiaramente percepito le necessità di fondo della società italiana, per cui mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi bisognava troncarla alle radici. Non ebbe la forza di farlo. Dopo il 1987 rimase congelato nel vecchio bossolo del sistema politico italiano. Probabilmente pensava che con la nuova legislatura, in cui avrebbe dovuto tornare alla presidenza del Consiglio, poteva riprendere con l’energia e gli strumenti necessari un nuovo corso. Se questo fu il suo calcolo, si rivelò sbagliato. Il tempo non correva invano e la deriva peronista della politica italiana prendeva forma nella crescita sempre più accelerata del debito pubblico. Il paradosso fu che mentre non si poneva freno ad esso, si pensò nel contempo possibile entrare nella moneta unica europea. Ciò significava rinunciare alla flessibilità del cambio su cui da vent’anni poggiava l’equilibrio socio-economico e politico italiano. La prima fase del trattato iniziava col gennaio 1992. Avremmo dovuto prima fare le riforme necessarie e svalutare. Fummo costretti a questo passo nel settembre 1992, quando era troppo tardi per tutto. La parabola di Craxi segna un periodo della nostra storia. Per i problemi che ha messo in evidenza non può essere ignorata. Dell’uomo che ne fu il protagonista, Bettino Craxi appunto, non si puossono negare le qualità politiche e le doti di statista. Gli si deve riconoscere che seppe cogliere ed affrontare con coraggio la battaglia politica che aveva intravisto come necessaria. Poiché portò in essa una lucidità di intenti che poi in parte si è smarrita, non si può non tornare a lui con attenzione e professare una convinta nostalgia per il suo generoso slancio nell’affrontare i nodi ancor oggi irrisolti della nazione italiana. / / 29 / / >>>> dossier / craxi L'ultimo dei politici >>>> Piero Sansonetti redo che Craxi sia stato l’ultimo difensore dell’autonomia della politica. E’ il suo grande merito. Forse è anche la ragione vera della sua sconfitta e della sua rovina. Perché? Semplicemente perché in quei primi anni novanta, all’indomani della caduta del comunismo, il capitalismo occidentale stava sperimentando nuove strade, cioè si stava indirizzando verso l’idea che il potere economico – cancellato lo spettro della rivoluzione - non avesse più bisogno della mediazione sociale e potesse assumere direttamente il “comando” della società, detronizzando la politica e le sue “mollezze”. E’ dentro questo disegno, questo terremoto, che nasce l’inchiesta “mani pulite”: la magistratura si trova catapultata su una scena nella quale sta avvenendo un fortissimo rimescolamento dei poteri, e che lascia spazi a protagonisti nuovi, in grado di liberarsi da vecchie subordinazioni e di assumere compiti di primissimo piano. La magistratura decide di diventare il primo di questi protagonisti. E’ la sua grande occasione: la coglie. La prima impressione è che con l’inchiesta “mani pulite”, nel ’92-93, i giudici mettano sotto scacco sia la politica che l’economia. Forse anche loro credono che le cose stiano così. Però non è vero. L’inchiesta “mani pulite” viene utilizzata dall’economia per liberarsi dalla stretta della politica, dal suo dominio, e per ingrandire moltissimo la propria forza. Quando l’inchiesta si conclude, o comunque perde il clamore mediatico, la politica è distrutta, rasa al suolo; mentre l’economia non è neppure scalfita, e può iniziare la sua fase di gigantesca espansione ottenendo la subordinazione della politica, la sconfitta dei sindacati, la fine dei contrappesi, l’aumento dei profitti, il controllo sociale. La svolta liberista in Italia si concretizza con “mani pulite” e con la sconfitta dell’autonomia della politica. Come mai nessuno difese la politica? Eppure l’Italia del dopoguerra aveva avuto una classe politica fortissima, che aveva saputo dominare l’intellettualità, i giornali, la televisione e anche gran parte della macchina economica. Nessuno difese la politica perché dopo la morte di Aldo Moro e C di Enrico Berlinguer il ceto politico stava vivendo una crisi devastante. La Dc e il Pci non avevano gruppi dirigenti in grado di reggere all’urto delle novità della storia. L’unico partito ancora in campo era il Psi di Craxi, ma aveva due punti deboli, molto deboli: il primo era la sua modesta dimensione elettorale, largamente inferiore al 20 per cento. Il secondo era la sua collocazione “centrista”, innaturale rispetto agli assetti degli altri grandi partiti socialdemocratici europei. L’errore della sinistra comunista e postcomunista, in quella fase, fu di sottovalutare l’ampiezza del processo in corso, e soprattutto di non comprenderne l’indirizzo. Si pensò che in fondo si stesse svolgendo una normale operazione di pulizia, che faceva giustizia di decenni di corruzione e di prepotenze del potere politico. E che fosse naturale, fosse giusto che ciò avvenisse. Sfuggì a tutti il fatto che la questione morale in quel momento veniva utilizzata non per mettere un freno all’invadenza della politica, ma per delegittimarla e privarla della sua funzione. E che questo poteva essere solo un male. Poteva solo determinare uno sbilanciamento dei rapporti di forza a favore dei ceti e delle classi forti. Allora Tangentopoli è una invenzione, la corruzione non esisteva? Chiaro che non è così. La corruzione e il finanziamento illecito esistevano eccome, ed erano il punto debole del sistema dei partiti (insieme alla tendenza dei partiti ad abusare del proprio potere e ad invadere tutti i campi della vita pubblica: la lottizzazione). Non era forse questo sistema, non erano queste degenerazioni, ciò che aveva denunciato Enrico Berlinguer poco prima di morire? Non aveva torto Berlinguer: la questione morale esisteva, era grande, e i partiti di governo fecero malissimo a sottovalutarla. L’averla sottovalutata li portò alla sconfitta. Perché l’attacco alla politica e la sua demolizione da parte del “nuovo capitalismo” passarono proprio da lì, dalla questione morale, cioè dal “lato molle” del sistema dei partiti. Era quello il punto debole e lì sfondarono. L’ultimo discorso mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 30 / / >>>> dossier / craxi parlamentare di Bettino Craxi, quello della chiamata di “correo” verso tutto il mondo politico, ha una sua grandezza – certamente una grande lucidità di analisi – ma è anche la dichiarazione di sconfitta, di resa. L’ammissione che la politica non ce la faceva più, si tirava indietro. Quel discorso segna il momento esatto della fine dell’autonomia della politica. Craxi però non era un malfattore. L’idea di Craxi malfattore è stata fondamentale per l’operazione “azzeramento della politica”. Era assolutamente funzionale. Non era facile radere al suolo il castello formidabile che in mezzo secolo era stato costruito dall’alleanza tra politica, intellettualità e informazione. Occorreva toccare l’immaginario collettivo, coinvolgere l’opinione pubblica, serviva uno spostamento brusco dell’ “asse dello spirito pubblico”. La demonificazione di Craxi, il suo linciaggio, erano assolutamente necessari al “progetto”. Credo che in qualche modo siano ancora necessari. Sennò non si spiega la nuova ondata anticraxiana che si è mossa proprio in questi giorni, in occasione del decimo anniversario della morte. L’anticraxismo costituisce ancora il carburante per le spinte al populismo mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi che stanno dominando il nostro paese. E che attraversano – con ruolo egemonico – tutti gli schieramenti. Craxi non fu un manigoldo. E da questo punto di vista gli si deve un risarcimento morale. Chi scrive, all’epoca, era un militante del Pds e un dirigente dell’ Unità. Ero condirettore, cioè il numero 2, il vice di Walter Veltroni. Sebbene non sia mai stato un forcaiolo, e abbia provato orrore di fonte ai cappi sventolati dalla Lega a Montecitorio, non posso negare di avere partecipato in qualche forma, in quegli anni, alla campagna antisocialista. Mi pareva che fosse giusto. Che fosse un modo per contribuire a rendere più pulita la politica, e anche per aiutare la sinistra – cioè il Pds - a procedere nella svolta, ad avvicinarsi al governo e a preparare una nuova stagione di riforme. Oltretutto avevo una certa antipatia per Craxi, per la sua spavalderia, o arroganza, e per il suo anticomunismo irritante. Non mi ha entusiasmato il lancio di monetine e contumelie all’hotel Raphael, però – devo ammetterlo – non mi ha neppure indignato. Non ho avuto, in quei giorni, l’idea di trovarmi di fronte a fenomeni di massa assolutamente reazionari e da condannare pubblicamente, da combattere. / / 31 / / Ripensandoci oggi mi viene un po’ di vergogna. Chi stavano linciando? Un ladro o uno statista? Certamente la seconda risposta è più esatta della prima. I processi nei tribunali ci hanno detto che Craxi partecipò al finanziamento illecito dei partiti. I fatti ci hanno detto che Craxi non si arricchì, e quindi non trasse profitto personale dal finanziamento illecito. Voi pensate che finanziare, seppure illecitamente, il proprio partito – per renderlo più forte, per farlo crescere – sia un reato così infamante? Moralmente osceno? Io no. Non ci trovo niente di ignominioso, credo che potrei farlo anch’io, e quindi ritengo che verso Craxi – Craxi persona, non solo Craxi leader – fu commessa una grande ingiustizia. E mi pare giusto – seppure dieci anni dopo - chiederne scusa a Stefania, a Bobo, e alla signora Anna, che non conosco. Il peronismo reale C’è un’altra cosa, a questo proposito, che vorrei raccontare, e della quale non sono fiero. Il decreto Conso. Era il 1993 (ricostruisco a memoria ma non credo di sbagliare) e Giovanni Conso, grande giurista e in quel momento ministro della Giustizia del governo Amato, varò un decreto nel quale depenalizzava il reato di finanziamento illecito dei partiti. Era evidentemente un decreto giusto, che distingueva tra finanziamento dei partiti e corruzione, e restringeva il campo dell’inchiesta “mani pulite”, distinguendo tra irregolarità e furti. Il mondo politico in quel momento era debolissimo. Comandava – diciamo così – l’opinione pubblica, indirizzata e rappresentata dai giornali. Dai grandi giornali. Nella vita dei grandi giornali, in quegli anni, vigeva una regola non scritta: i responsabili del Corriere della Sera, della Stampa, di Repubblica e dell’ Unità si consultavano alle sette di sera e decidevano come fare la prima pagina. Se andate a controllare gli archivi vedrete che le prime pagine di quei quattro giornali erano quasi uguali tutti i giorni. Bene, quel giorno arrivò il decreto Conso. Noi all’Unità avevamo pronto l’editoriale di un dirigente del Pds che approvava il decreto. Alle sette di sera toccò a me fare il giro di telefonate con direttori e capiredattori. Decidemmo che il decreto andava affossato. Chiamai Veltroni – che non era a Roma – e lo informai. Mi diede il via libera a scrivere un editoriale contro. Il giorno dopo i quattro giornali avevano tutti l’editoriale contro. Il presidente della Repubblica Scalfaro non firmò il decreto. Conso lo ritirò. La storia – sì: la storia – cambiò strada. Morì la prima Repubblica. Quale strada prese la storia, una strada più di sinistra? Non saprei, so che dodici mesi mesi dopo Berlusconi vinse le elezioni e diventò premier. Bettino Craxi fu una vittima, un agnello sacrificale? Ve lo ho detto: sul piano morale non credo che abbiano senso le indignazioni e le condanne. Non hanno fondamento. Sul piano politico Craxi ebbe tre grandi responsabilità. La prima – la sua vera sconfitta – fu la mancata riforma istituzionale. Lui aveva intuito che era necessaria, e solo una grande riforma della Repubblica – che sbloccasse il sistema politico, gli desse efficienza, autorevolezza, strumenti di governo – poteva salvare la stessa Repubblica. Cioè poteva salvare quell’autonomia del politico della quale parlavamo all’inizio. Però Craxi non seppe condurre in porta la riforma. E senza la riforma l’autonomia del politico non poteva sopravvivere, e non poteva sopravvivere la Repubblica e non poteva sopravvivere Craxi. Il pantano politico nel quale ci troviamo oggi dipende molto da quella mancata riforma. Il secondo errore che commise fu non capire che il sistema sovietico stava per crollare. E quindi che il suo anticomunismo, così forte – viscerale si diceva una volta – non aveva più senso. Era antico, non era proiettato nel futuro. L’anticomunismo non era un’urgenza della sinistra. Questo gli impedì di ragionare in modo freddo su come costruire una alleanza con il Pci – che stava cambiando pelle – e poi col Pds. Quell’alleanza gli avrebbe dato grande forza e forse avrebbe reso possibile la riforma. Craxi non può essere definito un grande leader della sinistra, proprio perché non capì che l’anticomunismo era roba vecchia. Craxi fu un grande leader socialista che schierò il suo partito in una posizione – per cosi dire – centrista. Era convinto che solo conquistando il centro dello schieramento, tra Dc e Pci, avrebbe potuto vincere ed esprimere egemonia. Sbagliava. Il terzo errore – so di essere tra le 15 persone rimaste a dirlo – fu il taglio della scala mobile, cioè dell’adeguamento automatico dei salari all’inflazione. Non credo affatto che Craxi fosse convinto di quella scelta. Il problema era semplice: il primo presidente del Consiglio socialista era arrivato a Palazzo Chigi proprio mentre in tutto l’occidente vinceva il reaganismo. Doveva stare dentro i confini, angusti, che gli imponeva il quadro internazionale. Craxi era stretto in questa contraddizione. Non seppe uscirne. Forse non aveva possibilità di uscirne. Però sta tutto qui il suo paradosso: non riuscì a fare le riforme e aprì la strada alla svolta liberista. Cioè alla svolta che poi – con “mani pulite” - si affermò e provocò la sua fine politica. mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 32 / / >>>> dossier / craxi Un liberale del socialismo >>>> Luigi Compagna emocratico del socialismo Bettino Craxi lo è sempre stato. Da giovane qualcuno a Milano lo aveva chiamato il “tedesco”, perché nel PSI di allora Craxi era fra quanti bazzicavano con interesse gli ambienti della SPD. Eppure da quando nel 1976 era diventato segretario del partito il suo più che socialismo democratico si sarebbe sforzato di essere e di apparire socialismo liberale. Non tanto per ragioni italiane. Turati gli era più caro di Rosselli, Nenni di Salvemini, Saragat di Calogero. Ma a Craxi quel che premeva era che il socialismo fosse sempre capace di contrapporre il liberalismo al totalitarismo. Di qui la sua scelta di campo in favore degli avversari del comunismo, senza cercare appeasement con Mosca, senza tradire né Helsinki ed il suo terzo cesto di human rights, né Venezia e la Biennale del dissenso, né quel che per la sua generazione avevano significato i cari armati a Budapest e a Praga, negli anni in cui le socialdemocrazie europee, in primis quella tedesca (con Brandt assai più che con Schmidt) gli parvero essersi assoggettate agli schematismi dell’Ostpolitik. Il suo predecessore De Martino aveva per lo più giustificato la sordina socialista al dissenso dell’Europa dell’Est con una specie di malinteso realismo, teso alla politica di coesistenza pacifica fra i due blocchi. Del resto, De Martino apparteneva a una generazione di socialisti europei (Mitterrand, Wilson, Brandt, Foot, Palme) che reputava immodificabile, in tempi e modi politici, la sistemazione di Yalta. La distensione prima di tutto e, quindi, massima disattenzione al dissenso. Ecco perché, lo avrebbe ricordato con amara ironia lo stesso Jiri Pelikan, al congresso del PSI di Genova nel 1972 non venne accolta la proposta di Federico Coen di farlo sedere al tavolo della presidenza. Il quale Pelikan, allora presidente dell’Unione Internazionale Studenti ed astro nascente del comunismo cecoslovacco, nei primi anni cinquanta con Carlo Ripa di Meana a Praga aveva messo Craxi in contatto con i comitati cecoslovacchi della fronda giovanile, i Majales. A Varsavia Craxi aveva poi conosciuto Jerzy Urban, brillante giornalista anticonformista, D mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi che gli aveva spiegato ruolo e finalità della prima rivista dissenziente (Pro Posta). Sempre a Varsavia Craxi aveva avuto occasione di incontrare anche Anna Bratkovska, segretaria della ZMP (Unione della gioventù polacca) rimossa poi dall’incarico dal maresciallo Konstantin Rokossovskij, voluto dall’URSS a capo dell’esercito di Varsavia. A fargli frequentare gli incontri infuocati del circolo Petöfi a Budapest, nell’estate del 1956, sarà Jonas Pataki, prudentissimo comunista ungherese, dissidente e insieme dissimulatore del Dissenso. Mente il grande storico ungherese François Fejto, bandiera di revisionismo ed a suo modo di socialismo liberale, del quale aveva letto alcuni saggi, Craxi andrà a conoscerlo a Parigi per dare inizio ad un’amicizia che durerà tutta la vita. Quelli dal 1954 al 1968 erano stati per Craxi anni di studio e di approfondimento. L’Impero intercontinentale sovietico gli sembrava destinato a venir eroso dall’eresia di un Dissenso, non facilmente definibile ma più che percepibile, nato all’interno dei partiti comunisti per sradicarne la continuità leninista. Suoi interlocutori principali Pelikan e la rivista Listy in Cecoslovacchia (e ovviamente in seguito Va’clav Havel e Charta ‘77); Adam Michnik e Jacek Kuron con il Kor, oltre a Lech Walesa con il movimento Solidarnosc, in Polonia; Andreij Sacharov ed il suo manifesto Progresso, coesistenza e libertà intellettuale del 1967 in URSS. Proprio le speranze riformatrici di Sacharov incentrate sulla modernizzazione e sulla ricerca parvero a Craxi irrimediabilmente ferite a morte la notte del 21-22 agosto del 1968, quando le truppe del Patto di Varsavia invasero Praga e deposero Dubcek. Ormai bisognava schierarsi con il Dissenso senza riserve e senza condizioni, orientarlo attivamente e promuovendo forme di vera e propria resistenza civile. Tale sarebbe stata nel ‘77, fra gli accordi di Helsinki e la verifica di Belgrado, la Biennale di Venezia: un’occasione della quale Sacharov volle “approfittare per attivare la massima attenzione sulla sorte di quei dissidenti che per le loro aspirazioni, benefiche e importanti per l’umanità, pagano il prezzo del / / 33 / / carcere”. Insomma, Sacharov aveva nella mente e nel cuore Solgenitsin a Venezia. Proprio su Solgenitsin Craxi non avrebbe avuto alcuna esitazione, il 13 febbraio 1974, giorno del suo arresto e della sua espulsione, a dichiarare all’Avanti!: “Continua una indegna persecuzione contro un grande scrittore di cui l’Unione Sovietica dovrebbe andare fiera. Tutto il comportamento delle autorità dell’URSS nell’affare Arcipelago Gulag, dagli interrogatori della segretaria, che ne provocarono il suicidio, alla campagna di denigrazione, all’arresto e all’espulsione odierna, suscita solo indignazione. E’in atto una sfida tra i rigurgiti neo-stalinisti di un sistema che non riesce a modificare i suoi caratteri e un uomo libero che con le armi della creazione artistica rivendica il diritto alla libertà di pensiero e di astrazione per sé e per gli altri. La nostra scelta è chiara”. Fra Helsinki ed Ostpolitik Radicata e diffusa era invece l’indifferenza dei partiti socialisti e socialdemocratici europei, con l’eccezione forse dei portoghesi di Soares e degli spagnoli di Gonzalez, nei confronti dei dissidenti. Dalla repressione in Ungheria nel 1956 e ancor più dopo l’invasione in Cecoslovacchia nel 1968, la SPD aveva mostrato in materia timidezze e reticenze (abbastanza analoghe all’ostilità successiva di Brandt e Lafontaine agli euromissili nel 1979). “La tendenza naturale - avrebbe spiegato Pelikan - dopo il 1968 dei partiti e della diplomazia occidentale portava verso l’accettazione del fatto compiuto e il ripristino delle normali relazioni con il blocco sovietico. Noi dissidenti apparivamo quasi un ostacolo alla distensione che tutti auspicavano”. Craxi conosceva benissimo il torpore dei “partiti fratelli”, mai o quasi mai disponibili a iniziative di politica internazionale con i rappresentanti dei regimi comunisti che prevedessero qualche clausola condizionale aggravata alla condotta interna in tema di human rights. Di qui il suo entusiastico appoggio alla Biennale di Carlo Ripa di Meana nel 1977. Di qui il suo disagio quando, qualche anno prima, la SPD di Brandt e Lafontaine arrivò addirittura a varare un documento politico comune con Husak, il “duro” che i carri armati del Patto di Varsavia avevano imposto al posto di Dubecek. Testimonianza critica di tanta incertezza dei socialisti e dei socialdemocratici europei occidentali avrebbe dato Barbara Spinelli (Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi, Milano, 2001). “Riemergevano le molte compromissioni cui la SPD aveva consentito al pari di altri partiti socialisti d’Eu- ropa, non tutti, perché il PSI di Bettino Craxi e Carlo Ripa di Meana aveva aiutato attivamente il Dissenso”. Craxi aveva infatti condiviso molti aspetti della critica alla socialdemocrazia europea di Lord Dahrendorf, che fin dal ‘68 ne aveva intuito una sorta di declino epocale. Certo, il collasso elettorale e politico del 27 settembre 2009 della SPD, la più antica delle socialdemocrazie europee, che nel 2013 celebrerà un secolo e mezzo di esistenza, avrebbe rattristato Craxi e non lo avrebbe affatto gioire (come nel 1989 avrebbe gioito della dissoluzione del comunismo). Ma probabilmente ne avrebbe avvertito la portata continentale. “Si direbbe - ha notato Enzo Bettiza su La Stampa del 14 dicembre 2009 - che nel ventesimo anniversario della fine del Muro, questo sia caduto una seconda volta addosso ai socialdemocratici, non tutti favorevoli alla riunificazione, sprofondandoli in uno stordimento quasi comatoso. Si direbbe, perfino, che il recente editto polacco contro la esibizione di bandiere con falce e martello abbia sferzato un colpo di grazia emblematico all’insieme della sinistra germanica. SPD allo sbando, Verdi in disarmo, Linke in crescita sull’onda della protesta ma erede degli stendardi rossi dell’Est”. La socialdemocrazia tedesca nel 1891 aveva stilato a Erfurt un fondamentale documento programmatico per i movimenti operai europei. Ne era seguita un’aggressione sistematica e faziosa. L’ex socialdemocratico Lenin, divenuto icona del bolscevismo, aveva parlato della socialdemocrazia tedesca come di un covo antisovietico manipolato dal “rinnegato” Kautsky; Stalin la bollò come “socialfascismo”, Hitler collaborò con Stalin nel decimarla, ritenendola “una banda di senzapatria orchestrata da perfidi intellettuali ebrei”. Ed è proprio per anti-totalitarismo che Craxi aveva scoperto il liberalismo. L’antisocialismo comunista non riuscì a cancellare il partito creato da Lassalle e guidato poi dal talento intellettuale e politico di Kautsky. A Bad Godesberg, al principio degli anni cinquanta, la SPD si congedò dal marxismo e visse una stagione felice. Fino a quando non fu divorata al proprio interno da ambiguità ed estremismi di maniera e di comodo. Basti pensare al fatto che ne sia potuto essere presidente un personaggio ben poco alla Kautsky, e meno ancora alla Bernstein, come Oskar Lafontaine, prima di diventare presidente di una Linke piena di dirigenti comunisti (provenienti taluni addirittura dalla Stasi). Le ambiguità di tanta parte dell’Occidente si sarebbero riproposte tutte quante nel 1977 contro la Biennale del dissenso. Helsinki non fu allora evocata dal governo italiano alla luce mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi / / 34 / / >>>> dossier / craxi di una maggior diffusione dei diritti umani. Ma al contrario Helsinki venne buona per diffidare di una manifestazione troppo esplicitamente antisovietica. E meno male che il ministro degli esteri Forlani, differenziandosi con eleganza dall’opinione del presidente del consiglio Andreotti, in Parlamento rilevò come l’esecutivo non disponesse e non dovesse disporre di strumenti “istituzionali” idonei a limitare l’indipendenza della Biennale. Invano Mosca fece di tutto per bloccare quello che rappresentò il primo vero atto di sostegno politico e culturale compiuto in Italia nei confronti di coloro che resistevano in URSS e nei paesi comunisti. Ci fu un braccio di ferro politico e diplomatico intensissimo, che vide Craxi impegnatissimo. Da un lato il Cremlino - come provato da documenti sovietici, americani e tedeschi - esercitò ogni forma di pressione e di ricatto sul governo di Roma, sulle forze politiche e sul PCI, che cambiò il suo atteggiamento iniziale: prima disse sì alla manifestazione, poi sotto l’incalzare di Mosca la osteggiò duramente. Dall’altro lato soprattutto Craxi e il suo partito, mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi Jiri Pelikan e Mondoperaio, Don Giussani e i giovani di Comunione e Liberazione, qualche liberale coraggioso come Nicola Matteucci. Alla fine si riuscirono a superare gli ostacoli eretti dal mondo culturale e dalle grandi imprese (automobilistiche, tessili, petrolifere, elettroniche) operanti nella sterminata URSS. Una brutta pagina quella scritta nel 1977 da molti italiani, con significative eccezioni. Ma per la prima volta il sostegno al dissenso non venne sacrificato sull’altare della coesistenza con l’Est. Il “terzo cesto” di Helsinki aveva tenuto, e alla grande. La Biennale del dissenso Fino al bel libro di Gabriella Marcucci Foa, apparso nel novembre del 2007, si trattava in Italia di “una storia mai raccontata”. L’ordine di Mosca: fermate la biennale del dissenso (Roma, Liberal, 2007) scritto a quattro mani da Gabriella Marcucci e Carlo Ripa di Meana, l’ha saputa ricostruire in / / 35 / / tutti i suoi momenti. Per testimoniare come anche in Italia una “resistenza civica” ci fu e soprattutto per merito, iniziativa, consapevolezza del socialismo liberale di Craxi. Liberale del socialismo, Craxi volle diradare le ombre che tanti democratici del socialismo avevano contribuito a collocare in Occidente. A tutela della distensione, forse, ma anche a scapito delle garanzie della libertà. Era un atteggiamento, quello di Craxi, che a suo modo anticipava e spiegava le sue ragioni in favore degli euromissili schmidtiani e reaganiani. Non a caso, forse, nel rievocare le vicende del dissenso, a Craxi veniva in mente come vero “eroe positivo” di quella stagione la figura di Sharansky. Anatolij Borisovic Sharansky impersonava sotto il profilo dei diritti umani, il percorso dalla CSCE all’OSCE, dalla Conferenza di Helsinki al venir meno del muro di Berlino. Politico, scrittore, matematico, Sharansky si era visto negare da Mosca nel 1973 il visto d’espatrio per Israele per ragioni di sicurezza nazionale. Lavorò poi come interprete per l’inglese di Sacharov e fu tra i fondatori prima e portavoce poi dell’ Helsinki Watch group di Mosca, un movimento in favore dei diritti umani costituito da ebrei e refusenik, noto anche come gruppo di Yuri Orlov. Nel marzo del 1977 fu arrestato e nel luglio del 1978 condannato a 13 anni di lavori forzati per tradimento e spionaggio a favore degli Stati Uniti. Dopo una detenzione di 16 mesi nella prigione di Lefortovo, fu trasferito nel gulag siberiano Perm 35 dove sarebbe rimasto 9 anni. Natan Sharansky nel 1983 stava, quindi, scontando una condanna a tredici anni di detenzione quando visse quel che egli stesso avrebbe chiamato un «momento meraviglioso». Fu il giorno in cui da un giornale che in qualche modo era riuscito a procurarsi nonostante fosse rinchiuso in una prigione sovietica — non ricordava se fosse la Pravda o l’Izvestia — apprese che Ronald Reagan aveva definito l’Unione Sovietica “l’Impero del male”. La stampa del Cremlino naturalmente non aveva pubblicato il resoconto del discorso del presidente americano, ma ne aveva propagandisticamente esaltato le reazioni negative. Sharansky, molto tempo dopo, raccontò l’episodio rivelandone il valore che ebbe per un dissidente: «Una lunga schiera di capi occidentali si era ritrovata allineata nella condanna del malvagio Reagan; e questo elenco veniva messo in prima pagina, proprio accanto alla storia di quest’uomo terribilmente pericoloso che voleva riportare il mondo ai giorni bui della guerra fredda». Per lui e i suoi compagni fu motivo di un’esplosione di giubilo. «Fu la giornata più luminosa, la più gloriosa: finalmente era stato detto pane al pane e vino al vino, e la orwelliana neolingua era definitivamente morta. Da quel momento in poi, il presidente Reagan aveva reso impossibile, a chiunque vivesse in Occidente poter continuare a tenere gli occhi chiusi, ignorare la reale natura dell’URSS. E’stata una delle più importanti dichiarazioni di difesa della libertà, e noi tutti lo capimmo all’istante». Poi, dopo il suo rilascio, avvenuto con uno scambio di prigionieri fra Washington e Mosca, Sharansky ebbe occasione di parlare direttamente al presidente americano, durante un incontro alla Casa Bianca. «La sua faccia si rischiarò e divenne raggiante. Saltò giù dalla sedia come uno schioppo e iniziò ad agitare le braccia in maniera selvaggia e a chiamare tutti affinché venissero ad ascoltare la storia di quest’uomo. Solo allora iniziai a rendermi conto realmente che il presidente Reagan doveva aver sofferto terribili offese per il suo grandioso discorso, non solo in Unione Sovietica, ma che egli era stato ferito anche in patria. Sembrava folle, come se il nostro attimo di gioia fosse la sua migliore rivincita: ne era valsa la pena, aver sopportato grandi offese per aver fatto quel discorso» Questo, raccontato da Sharansky è un piccolo grande episodio della storia letta, se non proprio sotto il “cielo stellato” dell’Atto di Helsinki, certamente dalla parte del dissenso. Dove per dissenso non s’intende un concetto astratto o una formula, ma si intendono uomini in carne e ossa, perseguitati per le loro idee e per i loro scritti, condannati sotto false accuse, rinchiusi in celle di isolamento o di punizione, messi a tacere, per aver osato sfidare non solo la morsa del totalitarismo, ma anche la debordante opacità del conformismo. Uomini in carne e ossa che il socialismo liberale di Craxi volle come propri “compagni di strada”. mondoperaio 1/2010 / / / / dossier / craxi