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NATALIA GINZBURG: IL PRIVILEGIO DELLE PAROLE

2016, Il Sole 24 Ore

n. 119 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 1 MAGGIO 2016 35 Com’è difficile parlare di sé La Domenica del 9 giugno 1999 Andrea Casalegno scriveva: «È difficile - perché doloroso - parlare di sé con sincerità. Ma se c'è stata una persona capace di riuscirci, questa è Natalia Ginzburg, che ha fatto dell’autenticità il cardine del suo uso sorvegliatissimo della parola» www.archiviodomenica.ilsole24ore.com Personaggi natalia ginzburg (1916-1991) / 1 natalia ginzburg (1916 - 1991) / 2 Il privilegio delle parole L’altruismo del narrare Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Natalia Ginzburg, nata il 14 luglio 1916. Il testo di cui proponiamo un ampio stralcio è inedito: si tratta di un manoscritto di undici fogli, redatto con tutta probabilità non prima del 1952, privo di titolo ma compiuto, conservato nell’archivio degli eredi della scrittrice, che ringraziamo per averci autorizzati a pubblicarlo. Offerto in esclusiva ai lettori del Domenicale con una presentazione del nostro collaboratore Domenico Scarpa, questo saggio, da noi intitolato «Il privilegio delle parole», si aggiunge ai quaranta scritti raccolti nel volume «Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988», curato da Scarpa per l’editore Einaudi («ET Biblioteca», pagg. x-370, € 18), che sarà in libreria il 3 maggio. Questo mese di maggio sarà fitto di iniziative legate al centenario della Ginzburg: a partire da oggi il portale di letteratura griseldaonline.it pubblicherà una serie di studi critici sui diversi aspetti della sua opera, mentre mercoledì 4, alle 21, presso l’auditorium del Grattacielo Intesa Sanpaolo (Torino, corso Inghilterra 3: ingresso libero su prenotazione), avrà luogo la prima delle tre letture del ciclo, curato da Giulia Cogoli, Natalia Ginzburg (19162016), storia di una voce: Toni Servillo leggerà testi da «Le piccole virtù». Martedì 10, nello stesso luogo alla stessa ora, Anna Bonaiuto leggerà pagine da «Lessico famigliare», mentre mercoledì 18 Lella Costa interpreterà il monologo «La parrucca» e scene da «Ti ho sposato per allegria»; Scarpa introdurrà le tre serate. Per finire, domenica 15 maggio, al Salone del Libro e con presentazione di Chiara Valerio (Sala 500, ore 18.30), Margherita Buy e Nanni Moretti leggeranno, rispettivamente, dal «Lessico» e da «Caro Michele» CONTRASTO di Domenico Scarpa A in penombra | Natalia Ginzburg nel 1978, sullo sfondo Cesare Garboli Cent’anni fa nasceva l’autrice di «Lessico famigliare» di cui pubblichiamo un testo inedito che ben illustra la cifra del suo scrivere di Natalia Ginzburg N on è giusto voler ignorare la condizione della nostra epoca, né fingere d’esserne liberi. Nella nostra epoca non solo le classi sociali, ma gli esseri umani vivono isolati, estranei l’uno all’altro, soli ciascuno con la loro propria piccolissima condizione di realtà conoscibile: tutt’intorno il buio. Quando ci mettiamo a scrivere un libro, sentiamo dapprima fatica e tristezza perché dobbiamo rompere tutto un cerchio di silenzio, cercare intorno a noi qualcuno che ci possa ascoltare: immaginarci sulla terra qualcuno che sia come i nostri pochissimi amici, che possa come loro essere raggiunto dalle nostre pochissime parole. Poi a poco a poco, via via che scriviamo, siamo travolti dalla furia di scrivere e siamo così felici di scrivere che quasi scriviamo davvero solo per noi stessi: ma i nostri libri non riflettono, o poco, la nostra felicità. Nei nostri libri riversiamo non quello che ci fa felici, ma quello che ci rende tristi: riversiamo il nostro senso di colpa, il nostro senso di panico, la nostra quotidiana mortificazione di possedere così poca realtà, così pochi amici, così poche parole: e ogni parola non cade in pace sulla nostra pagina, ma cade come un singhiozzo convulso e glorioso; siamo stupefatti e superbi di ogni parola che scriviamo. I nostri libri sono tristi e pieni di nebbia. Sono tristi anche quando noi come persone private, come individui, siamo un po’ felici: ma la nostra felicità ci sembra una cosa così occasionale, così casuale, e d’altronde così assediata da ogni parte e contesa, che non si può raccontarla. Si può raccontare solo quello che circola libero nell’aria respirata da tutti. Questa effettiva condizione di solitudine contrasta con l’agglomeramento in cui viviamo: viviamo addossati gli uni agli altri, senza spazio per muoverci e per respirare, come in un immenso dormitorio notturno: l’insonnia, il delirio di uno solo tiene svegli mille altri: la malattia di uno si contagia rapidamente fra tutti. E tuttavia ciascuno è solo nel suo piccolo spazio di realtà, solo e inquieto, pauroso di perderla, di vedersela cadere nel buio. La nostra è veramente una mostruosa collettività umana: e in questa mostruosa collettività gli operai sono quelli che più portano il peso della sorte comune: quelli che vivono nei più stretti agglomeramenti, che mancano di ogni mezzo per liberarsi sia pure un poco del peso fisico dell’intera collettività. Inoltre l’incubo delle fabbriche, i fiotti di fumo nero, gli scheletri di ferro, loro ci vivono dentro, e devono averne fatto una realtà in qualche modo amata, umana. Hanno dovuto farsi una realtà di quest’incubo, eppure certamente resta un incubo per loro: e parole non ne hanno per raccontare. Noi non operai siamo i padroni delle parole. Noi non operai abbiamo tutti gli strumenti per godere dei beni che vengono creati dagli operai e disseminati sulla terra: denaro, abiti, automobili, treni per guardare i paesi, treni per andare lontano dalle città dove le fabbriche fiottano fumo, dove le case sono come foreste di pietra: treni e denaro per andare nei luoghi ancora deserti e verdi, dove l’aria è pura e libera, dove si può dimenti- care per un poco il ronzio delle macchine, i grigi fiumi di barriera e la poca erba dove giocano i figli degli operai. Treni per andare nei luoghi dove si può dimenticare che esistono gli operai. Oppure non abbiamo nemmeno questo, né denaro, né abiti, né automobili, e la poca erba su cui sediamo è la stessa erba gialla dove giocano i bambini degli operai, la casa dove abitiamo guarda sui grigi fiumi di barriera; il nostro balcone è uno dei mille balconi di ferro nel fitto della città. Ma lo stesso ci sentiamo in colpa di fronte agli operai. Perché abbiamo le parole, il privilegio delle parole. Ne abbiamo ancora pochissime, ma pure ne abbiamo. Abbiamo dietro a noi la lunga tradizione delle parole, secoli di parole nate nell’ozio, nel libero fantasticare; poche ne abbiamo, perché innumerevoli ne abbiamo perdute per strada, non sono più vere oggi, non hanno più senso: ma ne abbiamo tuttavia ancora per raccontare la nostra condizione, i nostri mestieri, i nostri strumenti: e gli operai non ne hanno per raccontare i loro strumenti, il loro mestiere. Noi possiamo immaginare facilmente che venga diviso in modo giusto fra ogni membro di questa collettività umana il denaro che ora è disseminato così stranamente sulla terra; ma come fare perché anche le parole non siano più un privilegio, un bene di pochi, una memoria custodita da pochi, perché diventino ricchezza comune? Eppure solo così, solo creando una ricchezza comune di parole, la nostra mostruosa collettività umana potrebbe diventare un felice universo. Un fatto simile, un fatto che investe così tutta l’intera attuale collettività umana, non è certo un piccolo problema che si possa risolvere e neppure pensare in sede politica o culturale: è un fatto umano e non certo un problema che tocchi i soli scrittori. A noi tocca di scrivere i nostri libri meglio che possiamo; più sinceramente che possiamo, con più onestà e verità che possiamo: e i nostri libri oggi, rendiamoci conto che non li scriviamo per tutti. Non per gli operai, non per i contadini: per un pugno di nostri amici: è meglio saperlo. Così non ci si faccia rimprovero per la povertà del nostro universo, per la piccolissima porzione di realtà che riusciamo a possedere e a far conoscere agli altri: non ci si accusi di raccontare cose inutili, perché è meno inutile raccontare qualcosa che siamo felici di saper raccontare, che inaridirsi a cercare nel vuoto, nel buio; una certezza e una consapevolezza che non abbiamo. La poesia non cresce nella tristezza, ma nella felicità: ed è per questo che oggi la poesia è poca, perché la felicità è poca: e quel poco di felicità, la si trova vivendo e respirando sulla nostra piccola isola di realtà conosciuta: non dibattendoci nel vuoto, nel buio. Per quanto poca, quella felicità da cui nascono i nostri tristi libri è ancora quel che c’è di più positivo, meno inutile fra tutto quello che possiamo dare. È un ponticello di legno su cui qualcuno forse vorrà pure passare. Non sappiamo fare grandi ponti di ferro, ma solo questi ponticelli di legno: piccoli, vacillanti ponticelli di legno per i nostri amici. Ma chi sa, forse qualcuno per caso, qualcuno che non è un nostro amico, uno mai visto, ci vorrà pure passare. Noi scriviamo gettando questi piccoli ponticelli. E quando non scriviamo, quando camminiamo per le città, ci sentiamo colpevoli e mortificati, mortificati per il nostro mestiere, a disagio, ricchi di privilegi che non meritiamo, e ci sentiamo pesare addosso tutta la tristezza della sorte comune; sentiamo tutto il disagio del denaro che circola così stranamente, come un fiume malsicuro, sgorgato da fonti oscure e sordide, e appesta tutto quello che tocca; sentiamo vergogna e inquietudine passando accanto alle fabbriche, vergogna anche della pietà che sentiamo a pensare alla condizione degli operai. Non sapremmo esprimere che in termini futili questa pietà. Ma c’è una cosa che possiamo esprimere senza futilità, tutto quello che sappiamo di noi stessi: i pochi granelli di sabbia sulle palme delle nostre mani. Noi con onestà raccontiamo questi granelli di sabbia, così felici di raccontarli che questi granelli di sabbia ci sembra che si possano trasformare in un ricco suolo. E non è detto che dalle nostre piccolissime porzioni di verità non possa crescere un ricco suolo di verità sulla terra. © Eredi Natalia Ginzbur lisa ginzburg Sui confini dell’amore di Filippo La Porta P er amore di Lisa Ginzburg è una storia - tragica - di amore, ma è soprattutto la scoperta di una dimensione più nascosta, e oggi negletta, dell’amore. Attraverso una lingua emotiva e disarmata, incantata e viscerale, ci racconta la distanza sconfinata tra due persone che si amano perdutamente ma che dopo un primo, intenso incontro, non riescono più a ritrovarsi. Lei si innamora del brasiliano Ramos, coreografo e ballerino carismatico, della sua pelle nerissima e di seta, dei suoi capelli rasta e dei suoi occhi magnetici. E lui si innamora di lei, bianca, radiosamente bella, una documentarista italiana che vive a Parigi. Dopo il matrimonio cominciano a inseguirsi, febbrilmente, tra l’Europa e l’America latina, ma un diafram- ma invisibile li separa. Lei in Brasile è travolta dai colori, dalla lingua, dal paesaggio, da una umanità poverissima, chiassosa e invadente. E si smarrisce nei tristi tropici e nei rituali del candomblé, di cui lui è un sacerdote da tutti venerato. Gli Orixas di questa religione sincretistica di origine africana, divinità o spiriti legati alla vita quotidiana, sono affini agli dei del pantheon greco. Ed è come se la storia, che pure trascrive con precisione naturalistica date, luoghi ed eventi, fosse la rilettura di un mito antico. Il romanzo potrebbe evocare un film francese di ambientazione brasiliana, Orfeo negro(1959), esoticheggiaante ma fedele alla vitalità stregata di quel popolo. E anche nel film lui e lei si perdono nella folla, mentre incombe una figura spettrale, mortifera, che alla fine avrà il sopravvento. Ramos viene ucciso nel proprio letto, dopo una relazione omosessuale a pagamento (dilaniato dalle sue Erinni: una morte quasi “pasolinia- na”, anche se le analogie sono solo esteriori), mentre lei è a Parigi. Il funerale sarà insolitamente grigio e senza luce. Forse, proprio come nel mito di Orfeo e Euridice, il “peccato” della protagonista è di hybris, di segreta tracotanza: lei nel profondo non si fida di Ramos, e anzi vuole seguirlo, indagarlo, spiarlo, anche solo organizzando il suo calendario di impegni. Vuole catturare il mistero del suo carisma, la sua “axè”(energia vitale, cosmica), così contigua alla sua ombra. Ma il prendersi cura e la “dedizione eccessiva” somigliano a un’ansia di controllo. Il suo amore, benché immenso, non è abbastanza per poter accettare la propria impotenza e il proprio (umano) limite. Quando va in Brasile nella favela di lui, e vivono quasi separati, ha la sensazione frustrante di un universo intero che le sfugge. Così soltanto ora, dopo la morte di Ramos, capisce che quella alterità assoluta è inviolabile e che si può amare qualcuno an- che senza conoscerlo per intero o senza capirlo del tutto. Una verità che riecheggiano le antiche tradizioni sapienziali, l’I Ching cinese o la cultura ancestrale di cui Ramos era imbevuto. Mentre la modernità, che pure parla continuamente di “complessità”, ci promette altro - la illimitata modificabilità e flessibilità delle persone, la possibilità di comunicare con chiunque in qualsiasi situazione, appunto la illusione di controllo sulla realtà - e abolisce la nozione stessa di destino (di cui conserva una memoria il romanzo ottocentesco o una canzonetta di moda). In Orfeo negro, dopo l’epilogo tragico, un bambino riprende la chitarra del protagonista e cantando un samba fa di nuovo sorgere il sole. Così soltanto ora a lei, svuotata dal dolore ma capace per la prima volta di accogliere “per amore” la imperscrutabile diversità di lui, può accadere di ritrovare un legame con il ciclo sempre uguale - mitico, arcaico - dell’esistenza. © RIPRODUZIONE RISERVATA Lisa Ginzburg, Per amore, Marsilio, Venezia, pagg.210, € 16,50. Lisa Ginzburg presenterà il suo libro al Salone del libro di Torino il 13 maggio alle 15 al Caffé Letterario con Alfonso Berardinelli lcuni romanzi di Natalia Ginzburg hanno titoli che sarebbero ugualmente adatti a opere di saggistica, a cominciare dal più noto, Lessico famigliare. I lettori lo hanno capito, visto che l’espressione è entrata da tempo nella lingua italiana: «lessico famigliare», un tecnicismo affettuoso da pronunciare con fierezza e ironia. Anche Calvino riconosceva alle storie di Natalia una duplice dignità, inventiva e intellettuale; quando nel 1977 lesse il racconto lungo Famiglia, non ne considerò il titolo come una scipita variazione sul Lessico, apparso quattordici anni prima. Al contrario le scrisse in privato che proprio quel titolo gli pareva significativo, «nel senso che l’Enciclopedia Einaudi alla voce Famiglia potrebbe dare questo racconto come quadro della situazione oggi in uno strato significativo della civiltà occidentale». Organizzata per lunghe voci tematiche, l’Enciclopedia Einaudi fu forse l’impresa culturale più temeraria dell’Italia anni settanta. Associandovi (sia pure per paradosso) Famiglia, Calvino decifrava un saggio di antropologia nell’ordito di un racconto di finzione. Discorsi analoghi si potrebbero abbozzare per La città e la casa e Le voci della sera, così come per il libro d’esordio della Ginzburg La strada che va in città, titolo che proviene dall’Ecclesiaste e che fu trovato per lei dal suo primo marito Leone Ginzburg. Natalia Ginzburg, di cui cade quest’anno il centenario della nascita, debuttò a diciassette anni di età firmando con il nome di nascita Natalia Levi I bambini, un racconto di cui Montale colse all’istante l’intelligenza narrativa. Più tardi le leggi razziali l’avrebbero costretta ad assumere lo pseudonimo Alessandra Tornimparte, mentre dopo la scomparsa di Leone, ucciso nel 1944 a Regina Coeli dalle torture naziste, scelse in via definitiva il nome Natalia Ginzburg. «Il mio mestiere è scrivere delle storie, cose inventate o cose che ricordo della mia vita ma comunque storie, cose dove non c’entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia. Questo è il mio mestiere, e io lo farò fino alla morte». La Ginzburg è scomparsa nell’autunno 1991. In un modo senza confronti, colto e primario, ha fatto il suo mestiere per quasi sessant’anni. Il volume Un’assenza, in uscita da Einaudi, documenta lo sviluppo di questa voce intelligente. Il sottotitolo è «Racconti brevi, memorie, cronache». Sono quaranta scritti, dispersi in massima parte tra giornali e riviste e quindi sconosciuti al pubblico, in alcuni casi del tutto inediti. Su quindici racconti solo quattro erano già stati raccolti in volume, mentre la sezione «Memorie e cronache» risulterà ancora più nuova: gli scritti di memoria formano un sistema di segmenti autobiografici che corrono in parallelo, o si intrecciano, con le vicende di Lessico famigliare, opera dove Natalia racconta, sì, in prima persona, ma tenendo l’io in disparte. La sorpresa maggiore la riserveranno però le cronache, in particolare quelle dalle fabbriche di Torino nel pieno della guerra fredda e di uno scontro sindacale. Racconti brevi, memorie, cronache: eppure, volendo offrire ai lettori del Domenicale un testo di Natalia Ginzburg che custodisse la cifra del suo scrivere, la scelta è caduta su un genere non rappresentato in Un’assenza: un saggio scritto intorno al 1952, una nuova riflessione sul proprio mestiere innescata da quelle stesse visite in fabbrica che poco tempo prima erano diventate articoli per «l’Unità», il giornale del Pci cui la Ginzburg era iscritta. È un testo che si direbbe tracciato a carboncino su grandi fogli bianchi da una mano nodosa. Nella parte iniziale, qui non riportata, Natalia risponde a chi rimprovera agli scrittori italiani «che i loro romanzi siano sempre come lettere di un privato a un privato, senza uno sguardo aperto e coraggioso sulla grande realtà che ci abita accanto», e che gli chiedono «perché non cerchino di conoscere la grande realtà della nostra collettività contemporanea: le officine, i cantieri, le miniere, l’universo laborioso degli operai». Il saggio sembrerebbe rientrare nella polemica sull’«impegno» che dominava la scena di quegli anni. Invece, la risposta della Ginzburg appare unica nel suo genere per coraggio estetico, politico e intellettuale: per come ignora l’esistenza stessa dei partiti e delle loro posizioni. Alcuni scrittori, dice la Ginzburg, ci sono andati nelle fabbriche, e qualcuno ha anche scritto romanzi di fabbrica. «Ma erano dei brutti romanzi, e non potevano essere letti da nessuno: né dagli operai, né da altri. Erano romanzi incommestibili». Inutile volerli identificare; essenziale è come il discorso prosegue: «In verità non ci siamo mai sentiti così lontani dalla realtà come in quelle nostre fugaci visite ad una fabbrica: mai ci siamo sentiti così futili e mortificati (…) perché non trovavamo in noi una sola parola che fosse pura e giusta». Qui Natalia Ginzburg è ingenerosa con le proprie cronache di fabbrica che sono concrete, agguerrite, asciutte. Ma questo suo saggio si può considerare come un centro, nascosto perché lasciato inedito, intorno al quale si articola l’intera sua opera; come un commutatore che ci mostra in quali modi la libertà dell’intelligente narratore d’invenzione che debuttò negli anni del fascismo abbia lasciato emergere sempre più cospicua, dal dopoguerra in avanti, la sua spregiudicatezza di saggista morale: dagli scritti raccolti in Le piccole virtù e Mai devi domandarmi fino alla sua attività come deputato in Parlamento e fino a un ultimatum quale il pamphlet Serena Cruz o la vera giustizia. Questo scritto ignora gli schieramenti politici; affronta invece la ricerca di un giusto rapporto con gli altri attraverso il linguaggio, combattendo quel «privilegio delle parole» che pure è intrinseco alla condizione dello scrittore. Secondo l’etimologia, «privilegio» significa profittare di una legge creata appositamente per noi. Il termine indica uno squilibrio che, in questo frangente, appare ingiusto a chi ne gode, spingendolo a darsi da fare per cancellarlo. È per questo che, accanto alle parole, la Ginzburg evoca il denaro, «disseminato così stranamente sulla terra». Gli economisti sanno che la distribuzione delle risorse è un problema complesso quanto la loro produzione; qui la microeconomia di un singolo scrittore dalle poche risorse guarda alla macroeconomia della vita associata, e va immaginando una sorta di socialismo umanistico dell’espressione: «solo così, solo creando una ricchezza comune di parole, la nostra mostruosa collettività umana potrebbe diventare un felice universo». Per i concetti, per l’impianto, per il tono, per il frasario, questo saggio è chiaramente inattuale. Ma sostituiamo pure a Nel brano edito per la prima volta qui a fianco il compito del romanziere: dare voce a chi non ha voce e illuminare zone inesplorate della realtà «operai» una qualsiasi categoria che nel mondo attuale non abbia diritto di cittadinanza per le proprie parole e sia priva di spazi e strumenti per raccontare sé stessa. Non si fatica a trovarne. Trasposto ciò che va trasposto, la forza di queste parole rimane intatta. La Ginzburg si serve di una lingua semplice e martellante per indicare un compito: dare voce a ciò che non ha voce, illuminare e fare esistere una zona inesplorata della realtà. Da sempre, è il compito di ogni scrittore che valga qualcosa. Ricordandola nel suo centenario bisognerà pure chiedersi che cosa sia e come funzioni in lei questo altruismo della parola. «E non è detto che dalle nostre piccolissime porzioni di verità non possa crescere un ricco suolo di verità sulla terra». Nella frase conclusiva del saggio di Natalia si ascolta qualcuno che parla a nome di un gruppo ma mettendosi in disparte, e si rivolge a un interlocutore indefinito che, senza poterci contare, spera vivamente ci sia. Ma qui l’orgoglio di esprimersi è troppo timido, la morale provvisoria troppo gracile. È forse per questo che un saggio così dirimente fu lasciato (a quanto si sa) inedito. Molti anni più tardi la Ginzburg avrebbe salutato con sbalordita gratitudine La Storia di Elsa Morante, un romanzo scritto «per gli altri». Anche quello della Morante è un romanzo che alberga un saggio. Eppure, la Ginzburg non si era limitata a delegare all’amica la realizzazione del programma che aveva formulato a suo tempo nel manoscritto sul privilegio delle parole. Fatta la spunta alle innumerevoli differenze, anche Lessico famigliare è scritto «per gli altri». Un io in disparte, quello di Natalia che narra in prima persona, ascolta frasi e le custodisce nel buio della memoria, per restituirle a distanza di anni, identiche eppure transustanziate. Quel romanzo che ha il titolo di un saggio di linguistica racconta la storia di una voce che si tiene in disparte e che, ascoltando in penombra, si fa adulta. Gran parte di ciò che vi accade è vita privata, ma pochi altri libri hanno saputo raccontare con uguale intensità, brio, ironia, trent’anni di storia italiana. Pochi altri libri hanno saputo raccontare «per gli altri», riflettendo fin dal titolo sul proprio raccontare. Pochi altri libri continuano a esercitare con altrettanto altruismo il privilegio delle parole. © RIPRODUZIONE RISERVATA