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Il teatro nel cinema di Benigni

Versione italiana del testo della conferenza in inglese di Enrico Bernard "Benigni between cinema and theatre" con le foto inedite del "Cioni Mario di Gaspare fu Giulia" di Giuseppe Bertolucci interpretato da Benigni nella prima metà degli anni '70 all'Alberichino un teatrino off off delle cosiddette "cantine romane".

IL TEATRO NEL CINEMA DI ROBERTO BENIGNI di Enrico Bernard Nei primi Anni ’70, sulla scia della contestazione del Sessantotto e alle soglie del Grande Riflusso — cioè il rifiuto dell’impegno politico e la riscoperta del "privato", - una sboccatissima marionetta teatrale si aggirava per i vicoli della Roma papalina di Borgo, tra Castel Sant’Angelo e San Pietro. Riccioluto, mani nelle tasche, con la maledizione sempre pronta e l’esplosione di surreale comicità in perenne agguato sulle labbra, questo bizzarro personaggio, capace di far cadere santi e madonne dai piedistalli con una frustata di lingua, aveva pure, nell’ordine, cognome e nome, proprio come nei verbali della polizia dell’epoca: Cioni Mario. Pinocchio ante literam, Cioni Mario (per la precisione, Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, come recita il titolo completo della pièce), era di casa in una delle tante cantine-salette adibite a teatro della Roma sospesa tra terrorismo (si era all’inizio dei cosiddetti Anni di Piombo) e successo elettorale (’73) del Partito Comunista. Evento, quest’ultimo, che permise alla Sperimentazione, che aveva fino ad allora agito in una ventina di "spazi" del teatro d’avanguardia contro la cultura ufficiale, di ottenere finanziamenti da parte dello Stato. In questo contesto nacque il monologo Cioni Mario che Giuseppe Bertolucci, il poeta padre di Bernardo, scrisse riproducendo la schizofrenia, la simpatia e l’irrefrenabile verbalità di un giovane debuttante comico appena giunto a Roma dalla Toscana, Roberto Benigni. Ecco una cronaca del tempo: "E’ nato un altro teatro a Roma, è in via Alberico II°, prima il locale era un garage, adesso è diventato un luogo doppiamente usabile: al piano terreno c’è una sala grande… sotto, nella buca che al tempo del garage serviva per lavorare alla parte inferiore delle automobili, è scavato un altro spazio: è in questo antro rossastro che abbiamo assistito a due monologhi di eccezionale interesse" (M. Boggio, da l’Avanti! del 30 dicembre 1975, p. 6). Il debutto teatrale a Roma del giovane Benigni coincise dunque con l’inaugurazione di un nuovo spazio. E mai debutto fu più felice, dato che l’Alberichino — contraddistinto e caratterizzato dal successo del nuovo comico Benigni — divenne per molti anni trampolino di lancio di talentuosi performer. Quella del dicembre 1975 può essere, del resto, a tutti gli effetti considerata la sera "magica" del debutto teatrale di colui che diventerà il personaggio centrale del mondo dello spettacolo italiano. E’ pur vero che si hanno notizie della precedente attività in teatro di Roberto Benigni, cioè prima della sua comparsa sulla scena romana sotto le spoglie di Cioni Mario di Gaspare fu Giulia: "Roberto Benigni, - scriveva un quotidiano — è un giovane attore di Prato che da qualche anno lavora nelle cantine-teatro di Roma". Tuttavia si intuisce dalle parole di un un altro critico, Franco Cordelli, che le esperienze teatrali di Benigni precedenti al 1975 non avevano ancora lasciato trapelare tutta la potenza espressiva del giovane attore: "Roberto Benigni è un attore che avevamo visto all’opera in altri spettacoli, ma del quale non avevamo saputo capire finora tutta la moderna capacità di irridere il reale, anche quello umanisticamente e politicamente più ricattatorio" (Franco Cordelli, da Paese Sera del 27 dicembre 1975, p. 16). Non è peraltro da escludersi che lo stesso Benigni ritenesse quel rodaggio esclusivamente preparatorio alla sua imminente affermazione artistica. E’ quanto suggerito da Renzo Tian: "Roberto Benigni, originario della campagna di Prato, da poco sbarcato a Roma dove ha recitato con un gruppo sperimentale. Ma recitare in un gruppo voleva dire per lui poco, così si è buttato per la prima volta a far spettacolo da solo (o piuttosto a non farlo) con questo monologo intitolato Cioni Mario" (Renzo Tian, da il Messaggero del 20 gennaio 1976, p. 9). Alla luce di queste testimonianze possiamo dunque considerare quello dell’Alberichino col Cioni Mario di Gaspare fu Giulia (dicembre 1975) come il vero debutto teatrale di Benigni L’importanza del contesto storico di questo evento ci è suggerito dallo stesso Giuseppe Bertolucci — coautore e coregista dell’evento - che, nella prefazione al testo Cioni Mario (edito da Editori & Associati, Collana Il Politecnico Nr. 3, Roma 1994) scrive: "Il Cioni Mario nasce a metà degli Anni Settanta, in piena tempesta ideologica, dai racconti orali di un giovane proletario toscano, che raccolgo e verbalizzo sotto forma di monologo, offrendo a quel ragazzo (Roberto Benigni) una specie di specchio dove riconoscersi e scoprire il come e il quanto del suo immenso talento comico". Nel confermare la genesi del testo, scritto probabilmente a quattro mani, - una sorta di canovaccio su cui il comico si getta in una modulazione di effetti variabili e di invenzioni a getto continuo, - Giuseppe Bertolucci ricorda il clima di "tempesta ideologica" in cui appunto fermentò il Cioni Mario. Quale fosse questa "tempesta" è presto detto: richiamavo pocanzi alla memoria storica il fenomeno del terrorismo delle Brigate Rosse che pose gli intellettuali , come molti "compagni di strada", in un amletico dilemma: pro o contro il terrorismo? L’odio per lo Stato "borghese", e tante altre eredità del ’68, potevano cioè giustificare la violenza politica? L’omicidio? Leonardo Sciascia, con la sua nota presa di posizione ("Né con lo stato né con le Brigate Rosse"), sancì il disagio dell’uomo di sinistra che non si riconosceva certamente nei metodi violenti, ma non si sentiva poi tanto estraneo alle "motivazioni di fondo" della lotta armata. Di qui la "tempesta ideologica", cui accenna Giuseppe Bertolucci, resa tra l’altro ancor più cocente dall’improvvisa escalation elettorale del Partito Comunista che — paradossalmente - divenne il garante di quello Stato "borghese" tanto odiato. Che fare? Con chi schierarsi? O non schierarsi? Erano questi i dilemmi in cui si dibattevano i vari Cioni Mario del tempo che avevano col leader Comunista, Enrico Berlinguer, uno strano rapproto di odio-amore. Non a caso il monologo di Bertolucci-Benigni attacca così: "… Berlinguere… o Berlinguèrre… Berlinguèrre… Berlinguere (va avanti così un minuto)… vai, anche la domenica… Babbooo. O cosa ci farà tutto questo tempo al cesso…". E’ un inizio illuminante: si noti infatti il passaggio brusco dal politico al privato. E’ infatti nella "tempesta ideologica" che il "privato" diventa rifugio e riparo dalle onde e dai colpi di vento del "sociale" ormai divenuto per l’individuo ingovernabile e incomprensibile. Il Cioni Mario rappresenta dunque la "svolta" introspettiva, l’interiorizzazione e banalizzazione dei grandi temi della politica che avevano suggestionato e affascinato la precedente generazione, quella del Sessantotto. All’amore libero, nel Cioni Mario, si sostituisce infatti la "sega" (masturbazione); alla contestazione dei rapporti familiari, la battaglia per l’occupazione del "cesso" utilizzato o per l’autoerotismo o per "cacare". Ma attenzione: l’elemento "politico" espulso dalla porta rientra, nel testo recitato da Benigni, dalla finestra per rimettersi inaspettatamente in gioco dopo un astuto e fuorviante panegirico del sesso "fai da te" attraverso riminiscenze della storia paterna in guerra. "…Staline! Gni dissi, lo sai che voi russi vu siete boni, boni…. Ma dacci da mangiare in Russia!… Guarda Mario… Staline me ne ricordo come fosse ora… guarda… lo vedo qui, mi mise una mano sulla spalla e mi disse: Vedi Cioni… chiedici quello che tu vuoi in Russia… ma non ci chiedere da mangiare, perché ‘un ci s’ha! Guarda ‘un mangio neanch’io, mi disse, piuttosto Cioni… canta — E infatti Mario io cantai… Staline… (torna se stesso)…" E’ proprio a questa didascalia conclusiva del brano "torna se stesso" che si deve prestare attenzione per comprendere l’acrobazia linguistica e comica, ma anche intellettuale del Cioni Mario in bilico tra l’autoironico soliloquio col proprio pene ("gommone" nel testo) ed una presa di coscienza (di classe) ormai sempre più latente ed in preda ad incubi storici, comel’incubo di un incontro omosessuale col leader del partito dei neofascisti Giorgio Almùirante.: "… (tutto rivolto al cazzo) ma che eri te ne’ sogno? Tu me lo devi dire… a te te lo posso raccontare… e ero in una strada sento un freddo… mi giro e ti vedo proprio bene… ero tutto gnudo!!… arrivo vicino a una piazza gommone e sento una musica suonare che mi piaceva poco… e m’avvicino e sento uno faceva: Italiani! Italiani!… ho detto… o cosa ci fo io co’ Almirante? Dio, un’acqua! Pioveva gommone e t’ho messo fra le gambe per nun farti bagnare… sono andati tutti via e siamo rimasti soli… s’era io, te e Almirante… gommone, a un certo punto Almirante è sceso e mi fa "Italiano, famm’un pompino!" gno detto io.. fascistaccio, italianaccio… finocchiaccio…" Se dunque, da un lato Cioni Mario si porta dietro odi, rancori, sogni e utopie del Sessantotto, dall’altra parte egli deve fare i conti con una nuova realtà storica che non dà più sicurezze "ideologiche": comincia altresì a capire che le ideologie tradiscono per lasciarti alla fine nudo in un cesso con "in mano" la sola possibilità della "masturbazione" mentale e fisica. Il derelitto Cioni Mario è in realtà un povero relitto umano abbandonato alla "tempesta ideologica" del suo tempo che cerca scampo sulla zattera dell’onanismo e di quell’edonismo che, per altro, diventerà all’inizio degli Anni Ottanta la matrice culturale della successiva generazione la cui ribellione assumerà aspetti e slogans edonistici. Parallelamente al contesto storico in cui si agita la strana e scapigliata figura di Roberto Benigni-Cioni Mario, assume rilievo il particolare momento culturale, e specificatamente teatrale, che permette al giovane comico il debutto in un nuovo, benché minuscolo, ma non insignificante, spazio teatrale. Va anzitutto considerato che oggi, con ogni probabilità, un fenomeno analogo a quello di Benigni-Cioni Mario non sarebbe possibile. Il successo passa sempre più per lo schermo televisivo e sono assai più frequenti i passaggi dalla televisione al teatro che non viceversa (tranne qualche sporadico caso, penso ad esempio a Vincenzo Salemme che deve tanto ai suoi successi teatrali). L’atmosfera storico-culturale che si respirava a Roma nei primi Anni Settanta non era infatti caratterizzata esclusivamente dai cosiddetti Anni di Piombo, cioè il culmine del fenomeno terroristico, ma era anche resa frizzante dalle spinte innovative e icastiche che sollecitavano l'avanguardia teatrale alla ricerca di nuovi spazi espressivi liberi ed autonomi dall’ufficiliatà (ed appiattimento) culturale. Tra la seconda metà degli Anni Sessanta e la prima metà degli Anni Settanta vengono inaugurate nel cuore del centro storico romano decine di cantine-teatro che danno modo ad una schiera di nuovi soggetti teatrali emergenti di "farsi le ossa", ossia di sperimentare e sperimentarsi. Il debutto di Roberto Benigni, che - come accennato - già aveva alle spalle qualche esperienza in gruppi teatrali, non solo giunge al culmine del fenomeno, ma in un certo senso stravolge e risulta spiazzante per la stessa sperimentazione decretandone in un certo senso il superamento artistico. Mario Prosperi, teatrante, autore e testimone critico di quelle esperienze, nella sua lucida introduzione alla pubblicazione del Cioni Mario, ammette: "L’apparizione del Cioni Mario nella saletta dell’Alberichino fu l’equivalente di uno sock liberatorio". Le due tendenze allora dominanti erano infatti anzitutto quella del "regista santone" che mirava a prevalere sull’attore e sull’autore; mentre la seconda tendenza era propriamente quella dell’avanguardia che considerava lo spettacolo alla stregua di un intenzionale azzeramento del linguaggio, attribuendo all’attorepersonaggio una funzione secondaria e subordinata al formalismo (o estetica) della messa in scena. "Quando apparve all’Alberichino il Cioni Mario — prosegue Mario Prosperi — furono d’un tratto esorcizzate le esagerazioni retoriche e le pastoie maniacali di entrambe le tendenze. Un giovane barbaro che sarebbe divenuto in seguito il Benigni del cinema e della televisione… senza alcun apprestamento scenico (il sipario un fazzoletto che gli copre la faccia e che egli inghiotte poco a poco con le labbra e poi sputa senza aiuto di mani che restano per tutto il tempo della rappresentazione ficcate nelle tasche, le luci ridotte ad un’unica lampadina appesa ad un filo sopra la testa), con una parola mobilissima e uno sguardo radiante, beato d’impertinenza e d’autoironia, coinvolgeva il pubblico nel suo personalissimo itinerario di memorie, sogni, racconti, invettive, umile come una zolla di terra e ardito come un arcangelo, capace di tenere un passo formidabile per circa un’ora senza alcuna gesticolazione di mani e di piedi, senza trucco e senza costume, efficacissimo testimone del suo ceto e del suo tempo e oggetto politico estremamente eloquente pur nella assoluta soggettività dell’espressione". Il Benigni di Cioni Mario (o il Cioni Mario di Benigni, tanto il monologo è autobiografico) risulta dunque dirompente non soltanto per la sua comicità e ironicissima messa in mostra del proprio edipico autoerotismo, quanto piuttosto per una trasgressività ideologica, culturale e teatrale che manda a dormire l’ideologia, i drammi che ne derivano, nonché il teatro a lui contemporaneo. Se infatti le tendenze del teatro d’epoca erano quelle, appunto, del "regista santone" di cui parla Prosperi, nonché della subordinazione dell’attore-personaggio alla messa in scena e alla negatività nei confronti del testo e del linguaggio verbale, ebbene il Cioni Mario di Benigni-Bertolucci cambia le carte in tavola. E’ infatti venuto il momento dell’autore e attore che, senza una tradizionale regia, recita un testo sì improvvisato e improvvisabile, ma scritto non come canovaccio, bensì come testo-monologo capace di farsi nel tempo letteratura teatrale. "Di fronte al Cioni Mario —conclude Mario Prosperi- si era davanti, come per miracolo, ad un redivivo della specie estinta: hic est actor; ed era apparentemente così semplice… Bastava lasciarsi andare al proprio istinto, sfruttare i propri doni naturali di comunicativa…". "Verso la fine degli Anni ’70 — scrive Pietro Favari in Autori e drammaturgie, prima enciclopedia del teatro italiano contemporaneo, a cura di Enrico Bernard, - in Italia l’attore si è ribellato al predominio del regista e si è nuovamente proposto come protagonista della scena: è il caso (tra gli altri citati, ndr.) di Cioni Mario di BenigniBertolucci… Predominava il ‘vissuto’, il personale che, come ben si sapeva, era anche politico; insomma la voglia o la necessità di raccontare in pubblico i fatti propri". Si possono facilmente immaginare le reazioni entusiastiche del pubblico considerando il successo crescente ed inarrestabile di Benigni fino al superlativo — almeno per quel che si è visto finora — "Pinocchio" (personaggio che sarà sempre in bilico tra i due "bene-fattori" della scena italiana, appunto Carmelo Bene e Roberto Benigni - alias le due marionette tragicomiche simbolicamente unite anche nella radice del nome). E’ piuttosto interessante attingere alle reazioni della critica; critica che subito comprese di trovarsi di fronte ad un fenomeno nuovo e dalla portata allora difficilmente immaginabile. Significativo è anche che nell’antologia critica di Cioni Mario sia presente una firma, quella di Renzo Tian, non abituale frequentatore di spazi alternativi: "Non succede spesso a teatro di provare la sorpresa di una scoperta, cioè di trovarsi di fronte a qualcosa di assolutamente non visto prima. Uno come Benigni era parecchio tempo che non ce lo trovavamo davanti. Vale la pena di sincerarsene scendendo la scaletta a chiocciola che porta al teatro di via Alberico II, numero 29" (Renzo Tian, Il Messaggero del 20 gennaio 1976). Sorpresa ed entusiasmo anche da parte di Franco Cordelli ("Cioni Mario è uno spettacolo osceno, violento, incontenibile" da Paese Sera del 29 dicembre 1975) e di Nico Garrone ("La capacità di evocazione fantastica di Benigni è nella voce: una voce da uomoorchestra, capace di cogliere decine di sfumature, in un continuo trasformismo che non è, però, soltanto illusionismo, acrobazia, ma segno di una autentica dissociazione, di una profonda, moderna instabilità e labilità dell’io" (da Repubblica dell’11 gennaio 1976). A documentare il Cioni Mario restano una ventina di sbiadite fotografie bianco/nero che però, con la loro grana polverosa da vecchio cimelio, nulla tolgono alla maschera facciale di Benigni, al suo marionettesco portamento con le mani in tasca e con il capo ora buttato da una parte ora dall’altro come se si fosse interrotto qualche filo. "Mani in tasca, fermo sotto una luce dall’alto, comincia in stretto toscano ad azzuffarsi con gli accenti di Berlinguer in un soliluquio dove per associazioni le più impensate entra a poco a poco tutta la vita di un giovane di paese, amaramente consapevole del tipo di società franta nella quale sta vivendo, e tuttavia con un acre senso di critica, di ironia e di rivolta, blasfemo e tenero, idiota e geniale, bizzarro e comune ad un tempo, un piccolo capolavoro di insolita e accattivante fattura" (Maricla Boggio da l’Avanti del 30 dicembre 1975). Dicevo all’inizio che il Teatro è una prosecuzione con altri mezzi del Cinema, in quanto entrambi - cinema e teatro — nascono dalla sintesi di immagine e parola in funzione della narrazione e quindi della comunicazione (filosofica, sociale, politica, ecc.). Il cinema di Roberto Benigni è estremamente fedele alla sua maschera teatrale che ha alle spalle l’antica esperienza della commedia dell’arte italiana e delle celebri maschere di Pulcinella, Arlecchino ecc. La fedeltà al teatro del cinema di Benigni non si limita solo alle interpretazioni varie del suo Personaggio Unico (Benigni è sempre se stesso), ma presuppone una scrittura drammaturgica, teatrale, dello scipt. Non a caso infatti i film di Benigni - scritti in collaborazione col drammaturgo Vincenzo Cerami — sono delle grandi rappresentazioni teatrali, cioè delle vere e proprie ""mese in scene". Il Teatro nel cinema di Benigni è evidente nei suoi film più famosi "La vita è bella" e "Pinocchio". Nel primo si ha a che fare con una commedia, una messa in scena per non far vivere ad un bambino ebreo gli orrori e i traumi dell’olocausto. "Pinocchio" è invece una vera e propria fiaba teatrale con tanto di scenografie e macchine teatrali che prendono il posto degli effetti hollywoodiani! Ritengo che il cinema rappresenti una forma di continuazione del teatro con altri e più ricchi mezzi. Benigni non fa altro che servirsi del cinema per diffondere il suo teatro basato su elementi come: comicità, surrealismo ed impegno politico sulle orme del grande cinema "teatrale" di De Sica-Zavattini e Fellini-Tullio Pinelli (Zavattini e Pinelli sono entrambi scrittori e autori anche teatrali). Benigni viene dunque ad occupare oggi nel cinema lo stesso ruolo che il Premio Nobel Dario Fo ha nel teatro, tenendo presente che il cinema di Benigni e il teatro di Dario Fo parlano la stessa lingua dell’arte comica e della drammaturgia.