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La riflessione sul mito nel Settecento

GLI STRUMENTI SERIE VERDE diretta da Bruno Brunetti e Mario Sechi 19 © 2007, Edizioni B.A. Graphis Prima edizione 2007 Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Bari, Dipartimento di Italianistica. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. LA RIFLESSIONE SUL MITO NEL SETTECENTO a cura di Anna Clara Bova Edizioni B.A. Graphis Proprietà letteraria riservata Graphiservice s.r.l., c.so Italia 19, 70123 Bari tel. 0809641700 / fax 0809641774 / C.P. 149 e-mail: [email protected] www.graphiservice.it Finito di stampare nel dicembre 2007 Global Print srl - via degli Abeti 17/1 20064 Gorgonzola (MI) per conto della Graphiservice s.r.l. ISBN 978-88-7581-084-9 Lo scandalo del mito di Anna Clara Bova 1. Nel tentativo di caratterizzare la presenza del mito nella cultura contemporanea, Vattimo risale alla crisi della metafisica evoluzionistica della storia e dell’ideale della razionalità scientifica, ma anche all’assenza di una filosofia della storia alternativa, in grado di sostanziare una precisa teoria del mito. La confusione e la contraddittorietà che contraddistinguono oggi la nozione di mito conseguirebbero all’oscillazione tra l’interpretazione di esso, come forma di sapere resa inattuale dal pensiero scientifico, e l’impossibilità, viceversa, questa volta a causa della crisi del modello scientifico, di collocare il sapere mitico nella dimensione della pura primitività. Arcaismo, relativismo culturale e irrazionalismo temperato sono i tre orientamenti, individuati con molta chiarezza da Vattimo, capaci di documentare, a suo avviso, le implicazioni odierne della nozione di mito e di definire le ragioni della sua attualità. Nell’arcaismo, che per l’autore coinvolge, insieme con i conati di una «nuova destra», l’antropologia strutturale e le forme di critica «utopica» della civiltà occidentale, «il sapere mitico, non compromesso con il razionalismo dell’occidente capitalistico, rimane V un punto di riferimento, se non altro negativo, per rifiutare la modernità e i suoi errori». Per esso, «il mito non è una fase primitiva e superata della nostra storia culturale, ma anzi è una forma di sapere più autentica», documentata sia dalle culture «altre», quelle dei popoli selvaggi studiati dagli antropologi, sia dai miti antichi, quelli greci, «rivisitati con metodo e mentalità antropologica da filologi e storici di formazione strutturalista»1. Nell’atteggiamento definito come relativismo culturale, e che in un certo senso si rifà alla «dialettica dell’illuminismo», il riferimento al mito (non sempre esplicitamente definito come tale) presuppone l’idea che «i principi e gli assiomi fondamentali che definiscono la razionalità, i criteri di verità, l’etica e in genere l’esperienza di una determinata ‘umanità storica’, di una ‘cultura’, non sono oggetto di sapere razionale, di dimostrazione, giacché da essi dipende ogni possibilità di dimostrare alcunché», cosicché rappresentano anch’essi una forma di sapere mitico, rientrano anch’essi nel sistema delle credenze. Anche la razionalità scientifica – sottolinea Vattimo – che ha costituito per tanti secoli un valore direttivo per la cultura europea è, in definitiva, un mito, una credenza condivisa sulla cui base si articola l’organizzazione di questa cultura; e così (come scrive ad esempio Odo Marquardt) è un mito, una credenza non dimostrata né dimostrabile, anche la stessa idea che la storia della ragione occidentale sia la storia dell’allontanamento dal mito, della Entmythologisierung2. Nella prospettiva del relativismo culturale lo studio dei miti di altre civiltà è quindi funzionale alla comprensione della essenza fondamentalmente mitica della nostra. Infine nell’irrazionalismo temperato o teoria della razionalità limitata, secondo la definizione dell’autore, la forma mitica, assunta nel significato proprio di forma narrativa, appare caratteristica di un sapere che non si oppone in generale al procedimento dimostrativo della scienza, ma si pone come più adeguato di esso ad alcuni ambiti dell’esperienza, come la psicoanalisi, la storiografia, la cultura di massa. La tesi di Vattimo, però, è che in generale il «ritorno del mito» non si configuri realmente come un’alternativa ai processi di razionalizzazione della modernità (come gli indirizzi analizVI zati lascerebbero intendere), ma piuttosto come un loro esito estremo; e infatti il culmine della razionalizzazione, vale a dire la demitizzazione portata alle sue estreme conseguenze, coincide, per lo studioso, con la demitizzazione della stessa demitizzazione. È questo, per Vattimo, il vero presupposto della odierna ripresa del mito e dei caratteri da essa assunti, nonché la condizione della post-modernità. Arrivare a chiarire che la demitizzazione, la liberazione definitiva della ragione dalle forme mitiche, è a sua volta un mito, e che la verità è essa stessa una credenza, e dunque arrivare a «demitizzare la demitizzazione», «non significa restaurare i diritti del mito», ma piuttosto ereditare una forma depotenziata, «indebolita», di verità, in nome della quale si rende appunto possibile la rilegittimazione del mito, l’accettazione della pluralità dei racconti: Dopo la demitizzazione radicale, l’esperienza della verità non può semplicemente più essere la stessa di prima: non c’è più evidenza apodittica, quella in cui i pensatori dell’epoca della metafisica cercavano un fundamentum absolutum et inconcussum. Il soggetto postmoderno, se guarda dentro di sé alla ricerca di una certezza prima, non trova la sicurezza del cogito cartesiano, ma le intermittenze del cuore proustiano, i racconti dei media, le mitologie evidenziate dalla psicanalisi. È questa esperienza, moderna o anzi post-moderna, ciò che il «ritorno» del mito nella nostra cultura e nel nostro linguaggio cerca di catturare; e non certo una rinascita del mito come sapere non inquinato dalla modernizzazione e dalla razionalizzazione. Solo in questo senso, il «ritorno del mito», se e nella misura in cui si dà, sembra indicare verso un superamento dell’opposizione tra razionalismo e irrazionalismo; un superamento che però riapre il problema di una rinnovata considerazione filosofica della storia3. L’orizzonte problematico, a cui questa impostazione accenna (il superamento dell’opposizione tra razionalismo e irrazionalismo, la nuova filosofia della storia), sembra indirettamente riferirsi e contribuire all’attuale ripresa della discussione sul romanticismo. Ma per quanto riguarda ciò che più immediatamente interessa questo lavoro, e cioè la nozione di mito che vi è adombrata, è evidente che essa, in quanto esclude l’idea stessa di un «sapere non inquinato [...] dalla razionalizzazione», VII rinvia a una sua accezione particolare, quella che potrebbe riferirsi alla reinterpretazione platonica della funzione mitica: la quale, infatti, scissa dai contenuti mitici tradizionali, si proponeva come compatibile col ragionamento filosofico, nella misura in cui, pur essendo essa altro da una dimostrazione razionalmente inconfutabile, si configurava come «mito verosimile». Ma anche su un versante opposto, non storicistico, in un autore come Kolakowski, che dibatte «la questione del posto che la mitopoiesi occupa» nella prospettiva di una filosofia della cultura, «date le caratteristiche strutturali della coscienza umana», è possibile rintracciare lo stesso riferimento alla «verosimiglianza» del mito platonico. Nell’intervento sulla Presenza del mito4, la cui pubblicazione risale ai primissimi anni Settanta e che si propone come alternativo «alle interpretazioni più note, quelle funzionali, della mitopoiesi umana» (come forma di coscienza religiosa strumentalmente connessa ad esigenze di legittimazione sociale), l’attività mitica viene riferita alle caratteristiche ontologiche della coscienza, e a «quel bisogno che genera le ricorrenti interpretazioni del mondo empirico come luogo d’esilio, o come un livello del ritorno all’essere incondizionato»5. Si tratta di un «bisogno rivolto a rispondere a domande ultime, cioè metafisiche, o, in altre parole, tali da non poter essere tradotte in questioni scientifiche»6: un bisogno che fa sì che la mitopoiesi risulti irriducibile all’universo pratico dominato dai procedimenti tecnici efficaci, e contraddittoria rispetto ad esso, derivando direttamente da una fonte di «energia» diversa e indipendente: Le questioni e le convinzioni metafisiche – osserva Kolakowski – sono tecnologicamente sterili, per cui non fanno parte dello sforzo analitico, né rappresentano una componente della scienza. In quanto organo della cultura, la metafisica è un’estensione del suo ramo mitico. Le sue questioni [...] tendono a manifestare la relatività del mondo dell’esperienza e cercano di rivelare quella realtà incondizionata grazie a cui la realtà condizionata acquista un senso. Le questioni e le convinzioni metafisiche rivelano un lato dell’essere dell’uomo che è diverso da quello esibito dalle questioni e dalle convinzioni scientifiche: il lato intenzionalmente rivolto alla realtà non empirica e incondizionata. La presenza di questa intenzione non costituisce una prova della presenza di ciò a cui essa si riferisce. TeVIII stimonia semplicemente il bisogno, vivo nella cultura, della presenza di ciò a cui si riferisce il bisogno. Ma questa presenza non può essere, in linea di principio, un oggetto di prova, poiché la competenza dimostrativa è una facoltà dell’intelletto analitico orientato tecnicamente, e non va oltre questo ambito di compiti. L’idea di dimostrazione è stata introdotta nella metafisica per la confusione tra due fonti di energia eterogenee, attive nel rapporto cosciente dell’uomo con il mondo: quella tecnica e quella mitica7. Il bisogno di «cogliere le realtà empiriche comprendendole, ossia [...] di vivere il mondo dell’esperienza in quanto dotato di senso», il bisogno di «credere alla persistenza dei valori umani», il bisogno di «vedere il mondo come qualcosa di continuo», di coglierne la «connessione globale»8, conferiscono quindi all’attitudine mitica una funzione che è ontologicamente altro dall’intenzionalità scientifica e dimostrativa della coscienza, giacché i miti sono «costruzioni che ci permettono di collegare teleologicamente fra loro le componenti condizionate e mutevoli dell’esperienza, riferendole a realtà incondizionate (come ‘essere’, ‘verità’, ‘valore’)»9. Ma proprio questo riferimento del relativo all’incondizionato, in vista del senso, rinvia al rapporto tra «immagine» e «modello» che Platone, del resto espressamente richiamato dallo stesso Kolakowski, poneva a fondamento della sua idea di «mito verosimile», di un mito capace cioè di illustrare ciò che non può essere oggetto di dimostrazioni inconfutabili, ma che pure è necessario a conferire leggibilità al mondo. Trattando infatti, nel Timeo, di «come ebbe o non ebbe origine» l’universo10, sulla base di una distinzione preliminare così formulata: Che cos’è ciò che è sempre ma non ha un’origine, e che cos’è ciò che diviene sempre ma non è mai? Platone, con un linguaggio ancora sostanzialmente metaforico, parla della differenza tra «ciò che si mantiene sempre identico a se stesso» e «si può afferrare con il pensiero razionale», costituisce cioè il «modello eterno», la realtà incondizionata a cui si rifà la creazione di quanto riesce bello, e ciò che invece, essendo soggetto al divenire e perciò alla nascita, all’oIX rigine, a una causa generatrice, «si deve valutare in base a un’opinione e a un’impressione irrazionale, perché nasce e muore ma non è mai veramente», e rappresenta perciò un «modello transitorio», a cui si riferisce ciò che bello non è. A partire da questa distinzione, Platone esclude che il mondo, che pure ha una causa, un’origine, essendo soggetto al divenire e al mutamento possa essere compreso – data la sua bellezza – in base alla sua materiale transitorietà e mutevolezza, in base alla sua origine materiale, possa quindi essere interpretabile prescindendo dal «modello» eterno di cui esso deve considerarsi «immagine», copia, prodotta da un artefice: Esso è nato: infatti è visibile, tangibile e ha un corpo; ma tutte le cose siffatte sono sensibili, e quelle sensibili, che si possono comprendere attraverso l’opinione e la sensazione, si sono ormai rivelate soggette alla nascita nel passato e nel presente. E noi affermiamo che ciò che è nato deve avere una causa per la sua nascita. Ma è difficile trovare il creatore e padre di questo universo, e, anche dopo averlo trovato, non è possibile indicarlo a tutti. Dunque bisogna di nuovo esaminare sul suo conto a quale modello l’artefice si sia ispirato per realizzarlo: se a quello che rimane sempre identico a se stesso o a quello generato. Ma se questo mondo è bello e il Demiurgo è buono, evidentemente egli ha guardato al modello eterno [...]. Ma è chiaro per chiunque che il Demiurgo ha guardato all’eterno: il mondo infatti è la più bella delle creature ed egli è il più nobile degli artefici. Perciò il mondo, creato così, è stato fatto secondo ciò che si può comprendere con intelletto e ragione ed è sempre identico a se stesso: tenendo conto di ciò, è assolutamente inevitabile che questo mondo sia l’immagine di un altro11. L’incomprensibilità del divenire del mondo a partire dalla sua stessa transitorietà e precarietà, l’irrazionalità di una spiegazione genealogica di ciò che «nasce e muore ma non è mai veramente», fonda, nel Timeo, l’affermazione della legittimità di un «mito verosimile», vale a dire di una interpretazione del mondo – secondo una «tesi probabile»12 e non secondo una dimostrazione incontrovertibile – come «immagine» del «modello eterno», cioè come riferito a una realtà incondizionata e puramente intellegibile, opera di un Demiurgo che, essendo «buono» e senza «nessuna invidia riguardo a nulla», «libero da X essa», «volle che tutto nascesse il più possibile somigliante a lui»13. Dunque, a proposito dell’immagine e del suo modello, bisogna giungere alla conclusione che anche le parole debbono essere veramente affini alle cose che esse interpretano. A ciò che è unico, stabile e chiaro alla mente sono affini i discorsi unici e immutabili: nei limiti in cui le parole possono essere inconfutabili e invincibili, occorre che sia così, e non deve mancare nessuna di queste condizioni. Gli altri discorsi, che debbono essere affini a ciò che è la copia di quell’esemplare e dunque solo la sua immagine, saranno verosimili in proporzione ai primi; ma ciò che è l’essenza rispetto al divenire, questo è la verità rispetto alla fede. Se dunque, Socrate, riguardo a molti argomenti sugli dèi e sull’origine dell’universo non saremo in grado di pronunciare discorsi assolutamente coerenti e perfetti, tu non stupirtene; anzi, se malgrado ciò ne offriremo di verosimili, occorre accontentarsi di quelli, ricordando che io che parlo e voi che siete i miei giudici abbiamo una natura umana, sicché conviene riguardo a questi argomenti profferire un mito verosimile senza indagare oltre14. Ciò che si vuole evidenziare, a questo punto, è il fatto che la concezione platonica del «mito verosimile», che presuppone la verità dell’Essere e la positività del divino, la mancanza di «invidia» negli dei, è formulata in esplicita alternativa e opposizione ai miti tradizionali dei poeti, e cioè a quei racconti delle origini, trasmessi da Omero, da Esiodo, dai tragici, evidentemente connessi proprio all’irrazionalità del non essere e alla negatività del divenire, e anzi prevede, come si dice espressamente nel Fedro, un atto di «purificazione» dalle loro menzogne: Per coloro che peccano in materia di mitologia esiste un’antica purificazione, che Omero non conobbe ma Stesicoro sì; quando infatti fu privato della vista per aver parlato male di Elena, non ne ignorò la causa come fece Omero, ma da uomo ispirato dalle Muse quale era la riconobbe e subito compose questi versi: Non è vero questo racconto: non salisti sulle navi dai bei banchi né giungesti alla rocca di Troia. E dopo che ebbe composto per intero la cosiddetta Palinodia, riacquistò immediatamente la vista15. XI Non a caso una palinodia analoga a quella di Stesicoro («non è vero quel discorso che sostiene che, anche se c’è chi ama, bisogna compiacere piuttosto chi non ama»16), in vista di un atto di purificazione, è quella che pronuncia nel Fedro lo stesso Socrate, passando dalla prima trattazione, avvertita come colpevole e menzognera, del tema della follia amorosa, alla seconda. Il primo discorso, infatti, indicato come esemplificativo di un procedimento retorico sofistico, inteso al puro gioco della persuasione nell’orizzonte precario e instabile delle opinioni (a prescindere cioè dalla conoscenza del vero essere delle cose), conduce alla convinzione che è meglio compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, perché quello a differenza di questo è padrone di sé; e fa ciò partendo da una argomentazione relativa alla irrazionalità della passione amorosa, che di questa rileva e lascia sussistere la materiale contraddittorietà e insensatezza: Dunque, ragazzo, bisogna riflettere su tutto ciò e sapere che l’amicizia di un amante non nasce insieme alla benevolenza, ma nasce per soddisfare l’appetito, come il desiderio di cibo. Come i lupi amano gli agnelli, così gli innamorati hanno caro l’amato17. Il secondo intervento socratico, invece, rinnegando l’empietà del primo e servendosi del procedimento dialettico quale vera arte del discorso – grazie alla quale la verosimiglianza, che è il fondamento della persuasione necessaria nell’orizzonte instabile delle opinioni, non è comunque scissa dalla verità e dalla conoscenza – distingue «due specie di mania, una che nasce da malattie umane, l’altra da un’alterazione dei comportamenti abituali prodotta dalla divinità»18. Grazie a questa distinzione, la follia amorosa può essere ricondotta alla sua natura divina, e pertanto buona («Se Eros è, come realmente è, un dio o un essere divino, non può essere nulla di cattivo»19), e può essere interpretata e celebrata, in una specie di «inno mitico»20 religiosamente rispettoso della natura divina di Eros, come quella potenza che, attraverso la bellezza, alimenta la parte alata dell’anima: I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali invece Pteros, perché costringe a mettere le ali21. XII È quindi proprio in virtù di questa passione irrazionale, di questo entusiasmo, che l’anima (la cui duplice natura è assimilata all’immagine della biga alata guidata dall’auriga) è sospinta verso la visione dell’essere, che si colloca in quella «regione sovraceleste», di cui esiste nell’anima la reminiscenza e a cui essa aspira, e che nessun poeta «cantò né canterà mai degnamente», perché «la realtà vera, che non ha colore né forma e non si può toccare»22, può essere oggetto solo di contemplazione intellettuale. Dunque per Platone la tensione metafisica ha un fondamento divino, una valenza ontologica, che si accampa oltre e contro l’irrazionalità e il non essere del divenire, la molteplicità e l’inconsistenza delle opinioni, illustrate dai falsi miti o inverosimili racconti dei poeti, che chiedono di essere emendati. Il fatto che, come mostrano la varietà e l’incostanza delle opinioni, il vero non sia di per sé evidente, e quindi immediatamente e universalmente credibile, e che viceversa la credibilità non corrisponda al vero ma al verosimile, e cioè a ciò che sembra vero, che somiglia ad esso ed è creduto tale, formando così l’universo dell’opinione, giustifica quella trattazione intrecciata del tema della retorica e del tema dell’amore, che costituisce l’oggetto del Fedro. E infatti, se la distinzione tra verità e credibilità spiega, nel dialogo platonico, la specificità della retorica come psicagogia (capacità di orientare le anime) e quindi come arte della persuasione, non per questo rende quella indipendente dalla verità, facendone, alla maniera dei sofisti, una tecnica funzionale al coinvolgimento della pura emozionalità, ispirata alla tradizione dei poeti e incurante della conoscenza, piuttosto che un metodo rivolto a conseguire la verità e a conferire ad essa verosimiglianza, a darle, cioè, la potenza della credenza: Dunque [...] chi non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, produrrà, a quanto sembra, un’arte di discorsi ridicola e che non è un’arte23. Di qui l’affermazione che la vera arte retorica, e cioè «l’arte dei discorsi contrapposti» che si realizzi come un’autentica «psicagogia», è inscindibile dalla dialettica, e cioè dal procediXIII mento logico, filosofico, di analisi e di sintesi, necessario sia alla conoscenza dell’oggetto di cui si tratta, senza la quale non c’è vera arte, sia alla conoscenza della natura dell’anima, al fine di adattare alle sue diverse disposizioni la forma del discorso («concisa, commovente, enfatica...»24), per dargli forza e renderlo convincente: Prima di tutto bisogna conoscere la verità su ciascuna delle questioni di cui si parla o si scrive; essere in grado di definire ogni cosa in se stessa e, dopo averla definita, saperla di nuovo dividere in base alle specie fino all’indivisibile; individuare allo stesso modo la natura dell’anima, trovando il genere di discorso adatto a ciascuna natura; comporre e organizzare il discorso di conseguenza, rivolgendo a un’anima complessa discorsi complessi e dai molteplici toni, a un’anima semplice discorsi semplici. A questo punto, e non prima, sarà possibile coltivare il genere retorico con la massima arte consentita dalla sua natura, sia per insegnare, sia per persuadere25. D’altra parte, nel Fedro, la distinzione della retorica in sofistica e dialettica corrisponde, come si è visto, alla diversa interpretazione della irrazionalità dell’eros, e in genere delle varie forme di «mania». In un caso, come accade nella tradizione omerica e in «coloro che peccano in materia di mitologia», il mancato riconoscimento della natura divina, e pertanto necessariamente buona, della mania erotica, porta a un discorso blasfemo, da cui occorre purificarsi. Nell’altro caso, invece, proprio l’esistenza di una simile mania e il riconoscimento della sua natura divina danno luogo alla costruzione di un «mito verosimile» sull’immortalità dell’anima e sulla reminiscenza dei «veri esseri», delle essenze eterne e puramente intellegibili delle cose come unica vera realtà: un mito organico, in altri termini, alla vera scienza che è l’oggetto della filosofia, «non quella soggetta al divenire e neppure quella che muta a seconda che si occupi dell’uno o dell’altro dei cosiddetti esseri, bensì quella che è la vera scienza del vero essere»26. In questo senso il procedimento dialettico della vera arte retorica, opposto agli accorgimenti e alle figure della retorica sofistica, «poetica», corrisponde al mito dell’anima alata e cioè alla credenza della natura metafisica della verità: XIV Bisogna infatti che l’uomo comprenda basandosi sulla cosiddetta «idea», cioè procedendo dalla molteplicità delle sensazioni all’unità ottenuta con il ragionamento. Questa operazione è una reminiscenza di ciò che la nostra anima vide una volta, quando era al seguito di un dio e, guardando dall’alto gli enti a cui sulla terra attribuiamo l’esistenza, si ergeva verso ciò che esiste veramente. Proprio per questo motivo, giustamente, mette le ali solo la mente del filosofo; infatti essa, per quanto può, è sempre concentrata con la memoria su quegli esseri dalla cui contemplazione un dio trae la propria divinità. L’uomo che impiega correttamente tali reminiscenze, sempre iniziato a perfette iniziazioni, è il solo che diventa veramente perfetto. Ma poiché si estrania dalle preoccupazioni umane e si accosta al divino, i più lo rimproverano di essere fuori di sé, non accorgendosi che invece è ispirato da un dio. Ecco il punto di arrivo di tutto il discorso sulla quarta mania (la mania per la quale qualcuno vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera, mette le ali e così alato arde del desiderio di levarsi in volo, ma non riuscendovi, guarda verso l’alto come un uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù e guadagnandosi in tal modo l’accusa di essere pazzo)27. Messi a confronto con la distinzione, o meglio opposizione, tra mito poetico e mito filosofico, menzogna metaforica e verosimiglianza metafisica, per così dire, formulata da Platone, gli studi di Vattimo e di Kolakowski, da noi richiamati all’inizio, mostrano quanto generica e intercambiabile appaia la nozione di mito, e non per la mancanza di una rinnovata filosofia della storia (come sostiene lo stesso Vattimo), ma per la marginalità a cui sembra relegata proprio quella «menzogna» del mito, le cui implicazioni sono invece al centro dell’interesse e anche dell’ostracismo platonico. In questo senso le interpretazioni del mito (prevalentemente greco) sviluppate a partire dal Settecento, di cui intendiamo occuparci, possono consentire di verificare i modi in cui quell’elemento è stato problematizzato, esorcizzato o integrato da parte della cultura moderna. D’altra parte rispetto alla trattazione platonica della tradizione mitica dei poeti, già quella aristotelica presenta caratteristiche diverse, visto che Aristotele, nella Metafisica (nonostante le «molte menzogne» attribuite ai «cantori»28), lungi dall’ipotizzare la necessità di una sua negazione, riconosceva ad essa una valenza filosofica, data la caratteristica di quei racconti XV tradizionali di provocare meraviglia, e data l’origine della filosofia stessa appunto dalla meraviglia: Gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare [...]. Chi è nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere nell’ignoranza (perciò chi ha propensione per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose) [...] gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza [...] e non per qualche bisogno pratico29. E però, sempre nella Metafisica, Aristotele identificava nella credenza nella divinità dei princìpi, delle cause prime, la vera e originaria sostanza dei miti, al di là delle forme immaginose, menzognere, mitiche appunto, in cui quelle credenze erano state rappresentate, e delle loro successive deformazioni: Da parte di antichi pensatori, vissuti in remotissime età, è stato tramandato ai posteri sotto forme mitiche che questi corpi celesti sono dei e che la divinità contiene in sé l’intera natura. E le altre cose sono state aggiunte in tempi posteriori sempre in forma mitica per suscitar persuasione nelle masse e per indurle al rispetto delle leggi e delle comuni utilità; e così si dice che gli dei hanno forma umana e che sono simili a certi altri animali, e a queste caratteristiche se ne sono andate aggiungendo altre che sono il seguito di quelle precedenti e sono simili ad esse. Ma se si assumesse, separandola da tutto il resto, soltanto la concezione originaria, ossia la credenza secondo cui le prime sostanze sono divinità, si potrebbe reputare che gli antichi parlarono in modo divino e che, mentre verosimilmente ogni arte ed ogni filosofia si è più volte perfezionata fino ai limiti del possibile e poi di nuovo è andata perduta, quelle loro opinioni, invece, sono state conservate fino ai nostri giorni come reliquie! Entro questi limiti soltanto ci riesce chiaramente comprensibile la mentalità dei nostri padri e dei pensatori più antichi30. Se dunque in Platone appare dominante l’individuazione della «menzogna» come sostanza dei miti dei poeti, tant’è che la costruzione del «mito verosimile», dell’ipotesi metafisica, implica l’abiura nei loro confronti, in Aristotele la menzogna appare come una formazione estrinseca rispetto a un sia pur embrionale nucleo di verità metafisica che i miti conterrebbeXVI ro. E ciò, evidentemente, proprio in ragione del fatto che, mentre per Platone i miti tradizionali raccontano la negatività del non essere, la precarietà di ciò che diviene, l’irrazionalità delle cause, l’invidia degli dei, per Aristotele, invece, essi conservano una primordiale rivelazione della natura divina, intellegibile, delle cause prime, e contengono quindi, nella loro falsità, una remota e riposta sapienza. Questa diversità di trattamento dell’inverosimiglianza del mito, pur nell’analogo riferimento di essa a una verità metafisica, prova la difficoltà di interpretazione del mito stesso, ma ne documenta anche la plasticità. In realtà è proprio la nozione di mito a risultare difficilmente definibile perché esso, nonostante la sua generale diffusione e nonostante la sua funzione in qualche modo necessaria, appare, tutto sommato, come un oggetto inafferrabile nei suoi contenuti e nelle ragioni e nei modi della sua organizzazione e del suo funzionamento, nel suo riferirsi, infine, a un irreale passato arcaico e immemorabile. Perciò usiamo la nozione di mito per indicare un oggetto assente: se qualche cosa è mitica, essa è tale perché è, di fatto, inesistente. D’altra parte, proprio per questa sua natura, il mito appare inscindibile da quell’attività di rielaborazione e di ridefinizione continua che chiamiamo mitologica, usando un termine in cui, secondo Detienne, si sovrappongono in realtà due diversi significati: quello che si riferisce alle pratiche narrative, alle storie e ai racconti mitici, esemplarmente rappresentato, in Grecia, dalle forme alte di Omero e di Esiodo, che hanno costituito per i Greci la base e il repertorio fondamentale delle loro narrazioni, e quello che si riferisce invece al sapere, al «discorso sui miti», che implica una distanza da essi e una problematizzazione del loro senso, e che si pone nei loro confronti come pratica interpretativa: La mitologia è dunque per noi, intuitivamente, un luogo semantico dove si incrociano due livelli di discorso, il secondo dei quali parla del primo e appartiene all’ambito dell’interpretazione. Questo, a riprova del fatto che «il mito è abitato o ‘posseduto’ da questo bisogno di parlare, da un desiderio di sapere, XVII da una volontà di cercare il senso di quel discorso che è il mito stesso»: bisogno, desiderio e volontà che pongono il problema dell’origine di «quest’attitudine introspettiva» e di «questo sapere che vuol parlare di miti e, a partire dal secolo scorso, vuol fondare una scienza dei miti ‘presi finalmente per se stessi’»31. Per Jesi, d’altra parte, il mito, ammesso per ipotesi che esista, è un qualcosa che l’uomo di oggi non può presupporre «come immediatamente dato dalla rappresentazione». «Immediatamente data dalla rappresentazione» è bensì la mitologia32. Ciò significa che la mitologia è già da sempre appropriazione ed evocazione consapevole della tradizione mitica, sapere del mito. A sua volta Vernant distingue tra raccolte erudite di miti «giustapposti e più o meno coordinati», avviate fin dall’antichità dai mitografi, e mitologia costituita da racconti integrati in opere letterarie come nel caso di Omero e di Esiodo. In particolare egli concepisce la Teogonia esiodea come un «insieme narrativo unificato che, per l’estensione del suo campo e la sua coerenza interna, rappresenta un sistema di pensiero originale». Secondo Vernant, ispirato dalle Muse, Esiodo dichiara di voler rivelare il «vero», celebrare «ciò che è stato, è e sarà», diversamente quindi da altri i cui racconti non sono che finzioni, menzogne [...]. Questa orgogliosa coscienza di apportare, con l’inaugurazione di una nuova specie di poesia, una parola di «verità» e di adempiere a una funzione profetica, la quale colloca il poeta, in quanto mediatore tra gli dei e gli uomini, in una posizione paragonabile a quella dei re, conferisce alla lunga sequela di racconti che compongono la Teogonia il valore di un autentico insegnamento teologico.33 Per queste caratteristiche la Teogonia è assunta da Vernant come esempio di «mitologia dotta», e cioè di una forma di narrazione che ha le caratteristiche di un sistema filosofico, «pur restando [...] interamente impegnata nel linguaggio e nel modo di pensare propri del mito». XVIII Parte integrante della complessità del problema del mito è quindi il rapporto esistente tra mito e poesia, tra mito e letteratura, e ciò non solo nel senso dell’eredità estetica del mito. Per un verso, infatti, la letteratura e l’arte hanno sempre attinto, nel corso della loro storia, alle immagini e ai racconti del mito, per cui appare legittima la questione posta da Blumenberg, che poggia a sua volta sull’idea della inscindibilità dell’essenza del mito (il «lavoro del mito») dal «lavoro sul mito»: Come si spiega questo fatto straordinario – osserva l’autore –, che negli albori della nostra documentabile storia letteraria compaiono quelle icone che dovevano essere capaci di questa inverosimile sopravvivenza fino al presente?34 Per altro verso, le finzioni, le immagini, le invenzioni di cui si compone il mito rinviano alla funzione «poetica» del linguaggio e al ruolo da assegnare ad essa, che è connesso evidentemente alla decifrazione della natura del mito stesso. Se il mito appare, allora, essenzialmente come narrazione genealogica, racconto che risale a un’origine non databile, al di là del tempo (teogonie, cosmogonie, fondazioni di città e di stirpi, di riti e di istituzioni: dal racconto dell’avvento violento del regno di Giove e dell’instaurazione delle divinità olimpiche, al racconto della edificazione delle mura di Tebe al suono della lira di Anfione, eroe civilizzatore, per fare degli esempi), configurandosi perciò essenzialmente come rappresentazione di storie divine ed eroiche, è evidente che in esso sembrano essersi originariamente intrecciate, formando una unità inscindibile, disposizioni estetiche, religiose e storiche. Inoltre, poiché la grande persistenza e la stabilità del mito testimoniano un processo di identificazione collettiva attraverso la memoria, trasmessa dal racconto, di un passato remotissimo, è evidente che esso è depositario di un sapere, di un lògos, la cui verità si identifica con l’autorità della memoria stessa e della tradizione, e cioè con l’autorità della stessa parola mitica o poetica, che le trasmette. In questo senso appare giusta la definizione di Valéry, secondo cui «Mito è il nome di tutto quel che esiste e sussiste avendo solo la parola per causa»35, che in qualche modo riXIX chiama la tesi vichiana secondo cui mythos, lògos e favella, o favola, all’inizio si identificavano. Si trattava infatti di tre modi analoghi di denominare il linguaggio, che solo successivamente si sono differenziati venendo a designare pratiche culturali e contenuti concettuali diversi, e cioè, rispettivamente, il racconto, il sapere o la verità razionalmente argomentati, e la lingua in sé. Un passaggio, questo, connesso a quella problematizzazione della nozione e del significato della verità, inaugurata nella Grecia antica ed elaborata soprattutto dalla filosofia platonica, per la quale il lògos, come sapere prodotto dalla razionalità dialettica e dimostrativa, ha acquistato progressivamente una posizione dominante rispetto al mythos, in quanto sapere della tradizione, verità legata al prestigio della memoria e della parola che la trasmette36. È al centro di questa trasformazione che si colloca, evidentemente, quella riduzione di Omero e dei tragici (in quanto mitologi e poeti appunto, come Platone li definisce) alla dimensione imitativa della poesia, che si trova nel X libro della Repubblica, a cui consegue la loro demistificazione come portatori di sapere e depositari di verità. La nozione di imitazione, che Platone adotta già nel III libro della Repubblica per designare la forma dialogica, il discorso diretto quale sostituto della narrazione semplice, che compare sia nella narrazione mista omerica (narrazione semplice più discorso diretto o imitazione, appunto), sia soprattutto nelle tragedie e nelle commedie (integralmente fondate sul discorso diretto), è assunta a dimostrare il carattere di contraffazione di una tale forma di dialogicità, giacché si tratta sempre di una forma di narrazione (e non di una effettiva, dialettica contrapposizione dei discorsi): in essa è il narratore che si cela dietro il discorso diretto, assumendo figure e ruoli diversi e ricoprendo una varietà di funzioni e di modi di essere, che è, tra l’altro, incompatibile con la divisione dei compiti che lo stato platonico prevede, e con la coerenza e univocità del modello etico ad esso necessario: Esso non si adatta alla nostra costituzione – è scritto nella Repubblica –, perché da noi non esiste uomo doppio né multiplo, dato che ciascuno fa una cosa sola. XX E inoltre: Se nel nostro stato giungesse un uomo capace per la sua sapienza di assumere ogni forma e di fare ogni imitazione, e volesse prodursi in pubblico con i suoi poemi, noi lo riveriremmo come un essere sacro [...]; ma gli diremmo che nel nostro stato non c’è e non è lecito che ci sia un simile uomo [...]. A noi invece, che abbiamo di mira l’utile, serve un poeta e mitologo più austero e meno piacevole, che ci imiti il linguaggio della persona dabbene e atteggi le sue parole a quei modelli che abbiamo posti per leggi37. Ma è nel X libro della Repubblica, dove Omero, concepito come modello originario del procedimento dialogico, «imitativo», dei tragici, e quindi in sostanza dei loro dissói lógoi (discorsi doppi, oscuri, equivoci, non rivolti alla univocità del vero, non effettivamente dialettici quindi, e perciò retorici, sofistici), è integralmente coinvolto nella condanna di questi ultimi, che la funzione negativa dell’imitazione si precisa in relazione al problema del sapere e della verità: Dopo di che [...] dobbiamo esaminare la tragedia e il suo caposcuola Omero, perché sentiamo dire da taluni che costoro conoscono tutte le arti e tutte le cose umane pertinenti alla virtù e al vizio, perfino le divine. Infatti dicono, il buon poeta, se deve comporre bene sugli argomenti che vuole trattare, è costretto a comporre avendone conoscenza; altrimenti non può comporre. Occorre dunque esaminare se questa gente, per aver incontrato questi imitatori si è fatta turlupinare e se, vedendone le opere, non si accorge che sono lontane di tre gradi dall’essere e facilmente eseguibili da chi ignori la verità (perché gli imitatori producono apparenze, non cose reali)38. La demistificazione della sapienza omerica e tragica si regge infatti sulla differenza che permette di distinguere, da un lato, la conoscenza vera (che mira all’unità e al vero essere delle cose e non ammette proposizioni contraddittorie) e le arti utili (che implicano una specializzazione), in cui consiste appunto il sapere effettivo, e, dall’altro, l’apparente onniscienza della poesia omerica, che deriva dal fatto che essa, come ogni arte imitativa, si limita a produrre copie dell’«immagine» piuttosto che risalire al «modello» (per riprendere la formulazione del TiXXI meo), a riprodurre sembianze e apparenze mutevoli, e che solo per questo sembra in grado di trattare ogni cosa e sembra possedere ogni verità. Ne deriva che in effetti quello di Omero e dei poeti, piuttosto che un sapere, è un’abilità che riguarda l’imitazione e la pratica della composizione: Ammettiamo dunque che, a cominciare da Omero, tutti i poeti sono imitatori di copie della virtù e delle altre cose di cui trattano e che non attingono la verità? ma, come or ora dicevamo, il pittore, pur senza intendersi di persona della fabbricazione delle scarpe, farà un calzolaio che sembrerà un vero calzolaio a chi non se ne intende e giudica invece in base ai colori e alle figure?[...] Così, credo, diremo che anche il poeta applica certi colori alle singole arti mediante i nomi e le frasi, senza intendersi d’altro che dell’imitazione. E così altre persone simili a lui, che giudicano in base alle parole, credono che, quando uno parla o della fabbricazione delle scarpe o del comando di truppe o di qualunque altro argomento rispettando il metro, il ritmo o l’armonia, parli molto bene. Tanto è grande il fascino che esercitano naturalmente questi mezzi espressivi39. Immanente al carattere imitativo della poesia è il fatto che essa asseconda la contraddittorietà e l’irrazionalità degli stati emotivi: in questo modo, favorendo il piacere di una effusione non impedita, la poesia risulta opposta alla verità del lògos filosofico, e incompatibile con la razionalità necessaria alla legge e allo stato. L’elemento che si reprime a forza nelle disgrazie familiari e che brama di piangere e di lagnarsi quanto vuole sino a saziarsi (perché è la natura che gli fa provare questi desideri) è precisamente quello che viene soddisfatto e compiaciuto dai poeti [...]. Simili effetti produce in noi l’imitazione poetica anche rispetto ai piaceri amorosi, alla collera e a tutti gli appetiti dolorosi e piacevoli dell’anima nostra, quelli che [...] accompagnano ogni nostra azione. Li fomenta e li nutre, mentre bisognerebbe disseccarli. Affida loro il governo delle nostre persone, mentre dovrebbero essi venire governati affinché potessimo diventare migliori e più felici anziché peggiori e più disgraziati [...]. Quando tu incontri gente che loda Omero e sostiene che questo poeta ha educato l’Ellade e che merita di essere preso e studiato per amministrare ed educare il mondo umano, e che secondo le regole di questo poeta si organizza e si vive tutta la propria XXII vita, questa gente si deve sì baciarla e abbracciarla come quanto mai eccellente, e riconoscere che Omero è il massimo poeta e il primo tra gli autori tragici; ma si deve anche sapere che della poesia bisogna ammettere nello stato solamente la parte costituita da inni agli dei ed elogi agli onesti40. In altri termini la mitologia poetica riflette nel suo procedimento narrativo, genealogico, non dialettico, nella negatività dei suoi dei ingannevoli e invidiosi, l’apparenza instabile del mondo, il suo non essere, dando luogo a quel nesso patire-conoscere, che è invece l’oggetto della negazione platonica. Senonché, proprio a proposito della mitologia greca, in un passo dello Zibaldone, che in un certo senso rovescia il punto di vista platonico, nella misura in cui conferisce alle metafore mitiche la capacità di indurre una superiore consapevolezza delle insolubili antinomie del mondo, Leopardi scrive: Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi e forti di noi, nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione delle necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, né ammansiti, né meno anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore41. L’assimilazione, esposta nella Repubblica platonica, della mitologia omerica e tragica alla poesia, della poesia all’imitazione, e perciò in definitiva della narrazione mitologica all’imitazione dell’«immagine», corre quindi parallelamente all’opposto processo di configurazione della verità come lògos, così riassunto da J.J. Wunenburger: Il passaggio dal mito al lògos può essere letto come l’abbandono della genealogia a vantaggio della genesi, intesa come struttura sostanzialmente investigabile ed esplorabile42. La difficoltà dell’interpretazione della natura e del significato del mito, e cioè della qualità costitutiva e del funzionamenXXIII to di una irrazionalità che appare tuttavia dotata di senso, non risiede quindi tanto nel suo configurarsi come un oggetto sostanzialmente assente, quanto piuttosto nel suo essere uno «scandalo» per la nostra mentalità, educata alla verità del lògos, già a partire dal fatto, rilevato anche da Weinrich, che nel mito il ragionare, lo spiegare, è sostituito appunto dal «parlare narrativamente» (che è come dire, in termini platonici, imitativamente). Il termine mito – sostiene Weinrich – riflette lo stupore provato da chi, come noi, ha l’abitudine di ragionare su soggetti di una certa importanza e che, nel mito, viene messo a confronto con uomini di altri tempi e altri luoghi che usano parlare narrativamente degli stessi temi. Soggetti di grande importanza vengono considerati soprattutto i fenomeni che superano la dimensione quotidiana, per cui accettarli o spiegarli richiede uno sforzo straordinario. Nel nostro tempo e nel nostro mondo questa fatica è delegata alla scienza. In altri tempi e in altre culture il mito serve a questi fini. Il mito viene dunque definito tanto dal suo contenuto (soggetti di importanza eccezionale, la grande dimensione) quanto dalla sua forma (lo stile narrativo) mentre quello che abbiamo chiamato lo scandalo provocato dal mito è una creazione dell’età moderna che ha esonerato gradatamente lo stile narrativo dal compito di trattare soggetti di importanza eccezionale43. E tuttavia è importante sottolineare, accanto al carattere narrativo(-imitativo), e come elemento non disgiunto da esso, la particolare configurazione che assume nel mito il divino. La valorizzazione platonica del lògos e la corrispondente negazione della sapienza omerica presuppongono infatti innanzitutto la affermazione, che troviamo nel secondo libro della Repubblica, della necessità di espungere dall’ordine della verità le rappresentazioni del divino, trasmesse dalla tradizione mitologica, per cui il divino stesso appare implicato nel male, nella violenza, nell’inganno. Giacché lo scandalo del mito è consistito tradizionalmente, già per il mondo antico, oltre che nell’inverosimiglianza e nell’illogicità delle sue narrazioni, proprio nella scabrosità, in senso stretto, dei suoi contenuti, e delle azioni e passioni riferite alla divinità. Come scrive Lifšic, «nei miti di tutti i popoli le rappresentazioni più elevate sono inscindibili dalle più volgari, oscene e XXIV grottesche»44, e il sublime si mescola al ridicolo, il terrore al grottesco. Per questo, secondo l’autore, proprio questo tratto «demoniaco» ed enigmatico deve essere assunto come specifico del mito, portatore di un suo peculiare contenuto di verità. Appunto la scabrosità, di cui è manifestazione essenziale l’invidia degli dei (e cioè il fatto che gli dei stessi risultano essere coinvolti nel male degli uomini), sta a fondamento, nella Repubblica platonica, della condanna dei racconti tramandati da Omero, da Esiodo, dai tragici, anche se interpretati come allegorie, a meno di non farne oggetto di culti misterici, a causa della incompatibilità di quella immagine del divino, reso capace del male e responsabile di esso, coll’idea razionale della divinità e dei suoi attributi, e cioè con l’idea della sua essenziale perfezione, funzionale al benessere dello stato e alla corretta educazione dei suoi «guardiani». Per questo, una volta assodata la necessità di espungere Omero dal centro della paideia greca, nella Repubblica platonica, ferma restando l’opportunità di creare miti, per la loro funzione altamente plasmatrice delle menti in formazione, ai poeti, quali esperti della composizione, è prescritto di attenersi ai modelli indicati dai «fondatori di uno stato», mentre «non sono tenuti a inventare essi stessi delle favole»45, perché, come si è visto, le favole dei poeti riproducono le apparenze, restituiscono pericolosamente la potenza e la contraddittorietà delle forme illusorie del mondo. E non si deve poi far sentire ai giovani, come dice Eschilo, che ‘una colpa fa sorgere il dio nei mortali, quando voglia d’una casa la piena rovina’. E se uno rappresenta le sciagure di Niobe, cui appunto si riferiscono questi giambi, oppure quelle dei Pelopidi o le troiane o altre consimili, allora si deve impedirgli di dirle opere divine oppure, se lo sono, trovarne una giustificazione pressappoco come quella che stiamo cercando adesso noi; e dire che giusta e buona fu l’azione della divinità e che la punizione giovò loro. Non si deve lasciar dire al poeta che chi paga la pena è infelice e che di ciò è autrice la divinità. Se invece dicono che i cattivi sono infelici perché si meritarono un castigo e che questo pagare la pena non era che un beneficio divino, dobbiamo lasciare che lo dicano. Ci si deve però opporre in ogni modo all’affermazione che la divinità, che è buona, cagioni dei mali a qualcuno [...]. Questa potrà essere dunque una delle leggi e dei modelli in XXV materia divina cui dovranno attenersi narratori e compositori: la divinità non è causa di tutto, ma solo dei beni46. A questo contesto di rifunzionalizzazione dei racconti appartengono evidentemente anche i «miti verosimili» della cui invenzione Platone stesso si serve nel contesto delle problematiche filosofiche dei suoi dialoghi, dal Simposio al Fedro dal Menone al Timeo, laddove i temi trattati, per la loro natura, non possono essere oggetto di dimostrazioni inconfutabili. Con Aristotele il mito è definitivamente assunto all’interno di una disciplina specifica che ha come oggetto «la poetica in sé» e «le sue forme», anche se si esercita poi, di fatto, per la parte pervenutaci, soprattutto sull’arte della composizione tragica, di cui appunto il mito, la narrazione, costituisce la componente fondamentale. E infatti, stabilito che l’imitazione, e non ad esempio la versificazione con cui generalmente viene identificato il «comporre», è ciò che contraddistingue la poesia in tutte le sue forme, argomento principale della Poetica risulta essere la trattazione del modo in cui «debbano comporsi i racconti perché la poesia riesca ben fatta»47, cioè perché la poesia consegua il suo fine imitativo. Esiste dunque anche nella Poetica aristotelica una equazione tra mimesis e mythos, che si specifica proprio a proposito della tragedia, e che è però di tutt’altra natura rispetto all’identificazione platonica della mitologia e della poesia omerica e tragica con l’imitazione dell’«immagine». La tragedia infatti consiste, per Aristotele, nella «imitazione non di uomini ma di azioni e di modo di vita; [...] pertanto i fatti, cioè il racconto, sono il fine della tragedia [...]». Dunque «imitazione dell’azione è il racconto», e il racconto si identifica con la «composizione dei fatti»48 che costituiscono l’azione, vale a dire con la costruzione dell’intreccio. Ricoeur ha dedicato un ampio studio alla poetica aristotelica, al fine di decifrare le implicazioni della equazione di mimesis e mythos elaborata in quell’opera e di ricavarne delle conclusioni generali per quanto riguarda il significato dell’imitazione e la funzione del racconto, nella convinzione che l’«operazione di configurazione costitutiva della costruzione dell’intrigo» fondi «la letterarietà dell’opera letteraria»49. Lo studio di Ricoeur, che si scontra con le tendenze formalistiche difenXXVI dendo «il primato dell’attività che produce intrighi rispetto a qualsiasi tipo di strutture statiche, di paradigmi acronici, di invarianti atemporali»50, integra coerentemente la Poetica aristotelica all’interno della propria prospettiva ermeneutica, delineata appunto in alternativa esplicita agli orientamenti semiotici della narratologia. Scrive infatti Ricoeur: Ma la mia tesi è che il senso stesso dell’operazione di configurazione costitutiva della costruzione dell’intrigo, risulta appunto dalla sua posizione intermedia tra le due operazioni che chiamo mimesis I e mimesis III e che rappresentano ciò che sta a monte e a valle rispetto a mimesis II (leggi: costruzione dell’intrigo). Contrariamente quindi a quanto l’indagine semiotica prevede, per Ricoeur, una scienza del testo non può nascere solo astraendo mimesis II e prendendo in considerazione solo le leggi interne dell’opera letteraria, senza occuparsi di ciò che è a monte e a valle del testo. È, per contro, compito dell’ermeneutica ricostruire l’insieme delle operazioni grazie alle quali un’opera si eleva sul fondo opaco del vivere, dell’agire e del soffrire per esser data dall’autore ad un lettore che la riceve e in tal modo muta il suo agire. In prospettiva semiotica, l’unico concetto operativo è quello di testo letterario. Per contro, una ermeneutica è preoccupata di ricostruire l’intero arco delle operazioni grazie alle quali l’esperienza pratica si dà delle opere, degli autori, dei lettori. Essa non si limita a collocare mimesis II tra mimesis I e mimesis III. Vuole caratterizzare mimesis II grazie alla sua funzione di mediazione. La posta in gioco è quindi il processo concreto mediante il quale la configurazione testuale opera mediazione tra la prefigurazione del campo pratico e la sua rifigurazione attraverso la ricezione dell’opera51. Ricoeur chiarisce che la particolare intellegibilità che il racconto rende possibile presuppone «il dispositivo concettuale che distingue strutturalmente l’ambito dell’azione da quello del movimento fisico», giacché l’azione, a differenza di quest’ultimo, include un insieme di fatti, e cioè di fini, motivi, agenti, circostanze, interazioni, esiti, ecc. Rispetto a questa costellazione, il racconto, vale a dire la connessione dei fatti di cui si XXVII compone l’azione (e in cui, secondo la Poetica aristotelica, consiste appunto il mythos come imitazione dell’azione), introduce, al di là dell’ordine paradigmatico, che si riferisce al sistema di nessi sincronicamente analizzabile, formato da mezzi, circostanze, fini, agenti, interazioni (che individuano appunto la semantica dell’azione e che sono oggetto della semiotica del testo), un ordine sintagmatico, diacronico, una consequenzialità, nella cui penetrazione consiste la vera comprensione del racconto. L’intelligenza narrativa – sostiene Ricoeur – non si limita a presupporre una familiarità con il dispositivo concettuale costitutivo della semantica dell’azione. Esso esige una familiarità con le regole di composizione che reggono l’ordine diacronico della storia. L’intrigo [...], cioè la connessione dei fatti (e quindi la concatenazione delle frasi d’azione) entro l’azione totale costitutiva della storia raccontata, è l’equivalente letterario dell’ordine sintagmatico che il racconto introduce nel campo pratico. Questo perché, passando dall’ordine paradigmatico dell’azione all’ordine sintagmatico del racconto, i termini della semantica dell’azione acquistano integrazione e attualità. Attualità: termini che avevano solo un significato virtuale [...] ricevono un significato effettivo grazie alla connessione sequenziale che l’intrigo conferisce agli agenti, al loro agire e al loro patire. Integrazione: termini così eterogenei come quelli di agenti, motivi, circostanze, vengono resi compatibili e funzionano congiuntamente entro totalità temporali effettive. È in questo senso che la duplice relazione tra regole di costruzione dell’intrigo e termini d’azione costituiscono ad un tempo una relazione di presupposizione e una relazione di trasformazione52. Ciò che la lettura ricoeuriana della Poetica mette puntualmente in evidenza è la distanza del concetto aristotelico di imitazione rispetto a quello platonico, segnato dall’accezione limitativa rappresentata dall’idea della riproduzione delle apparenze. L’imitazione assume invece, in sé e per sé, in Aristotele, una caratterizzazione positiva, in quanto vi appare come indicativa di una tendenza all’apprendimento, specifica dell’uomo, XXVIII per cui l’oggetto imitato è comunque trasferito su un piano di conoscenza, che è esso come tale a provocare piacere. Il piacere della narrazione omerica e tragica, bandito da Platone perché prodotto da un’imitazione che finisce per assecondare gli stati emozionali e la loro illusorietà, è quindi sottoposto da Aristotele a un processo di estetizzazione, che rovescia i termini della questione. E infatti il piacere viene ora riferito appunto all’atto dell’imitazione come tale, perché esso, in sé, si configura come una forma di conoscenza. È quanto Aristotele afferma espressamente in un passo notissimo della Poetica, che è comunque opportuno riferire: Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni. Ne è segno quel che avviene nei fatti: le immagini particolarmente esatte di quello che in sé ci dà fastidio vedere, come per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri, ci procurano piacere allo sguardo. Il motivo di ciò è che l’imparare è molto piacevole non solo ai filosofi ma anche ugualmente a tutti gli altri, soltanto che questi ne partecipano per breve tempo. Perciò vedendo le immagini si prova piacere, perché accade che guardando si impari e si consideri che cosa sia ogni cosa, come per esempio che questo è quello53. Il fatto che la Poetica sia dedicata alle modalità di costruzione dell’intreccio, alla forma che il mythos deve assumere, perché l’imitazione dell’azione propria della tragedia sia conseguita, mostra appunto il carattere tutt’altro che riproduttivo che la nozione di imitazione e l’equazione di mimesis e mythos rivestono in Aristotele. E infatti, come sostiene Ricoeur, l’imitazione ha qui piuttosto il valore dinamico di trasposizione dell’azione su un piano rappresentativo, e cioè su quel piano di intelligenza proprio del racconto, per cui la specifica connessione dei fatti di cui si compone l’imitazione tragica restituisce ad essi, alla loro discordanza e difformità, una coerenza e una necessità il cui esito sta nel conseguimento della finalità estetica della catarsi, nello specifico piacere che quella produce. In queXXIX sta prospettiva il recupero, in quanto materia della composizione tragica, degli avvenimenti tremendi di alcune stirpi illustri tramandati dai miti e fatti oggetto di credenza (nella misura in cui quest’ultima coincide piuttosto con l’impossibile verosimile che col vero inverosimile), e gli accorgimenti relativi alla loro trattazione (il tema dell’errore come principio qualificante della colpa tragica, i meccanismi del rovesciamento dalla felicità all’infelicità e del riconoscimento, il criterio dell’unità: in una parola, il complesso dei procedimenti che Aristotele elabora come modello di costruzione tragica del mythos) sono convogliati verso quella decantazione emozionale prodotta dagli stati di pietà e di terrore, che proprio quei procedimenti innescano, e in cui consiste il piacere estetico della catarsi. È la composizione dell’intrigo – sostiene Ricoeur – che epura le emozioni, portando gli accadimenti che producono pietà e terrore nella forma della rappresentazione, mentre sono delle emozioni epurate quelle che regolano il discernimento del tragico54, e che contrassegnano evidentemente la particolare natura conoscitiva dell’imitazione, la forma di intellegibilità da essa introdotta. Per questo, mentre lo scandalo della mitologia è direttamente l’oggetto dell’interdizione platonica, nella Poetica aristotelica la trattazione di quello scandalo avviene secondo i moduli prescrittivi del genere letterario, calibrato sul conseguimento di un effetto estetico. In tal modo la Poetica mostra, nel conseguimento del piacere della catarsi ottenuto attraverso le passioni razionalizzatrici della pietà e del terrore, un procedimento che affida al genere un effetto di purificazione e liberazione, che è a sua volta una forma di «forte umanizzazione, di [...] vera e propria domesticazione del mito»55, e che costituirà una costante delle successive interpretazioni del tragico. Se ciò che provoca pietà e terrore si lascia ricomprendere nel tragico – dice Ricoeur –, vuol dire che queste emozioni hanno [...] una loro razionalità la quale funziona da criterio per la qualità tragica di ogni mutamento di fortuna. Due capitoli (XIII e XIV) sono dedicati a questo effetto di filtro che pietà e terrore esercitano nei confronti della struttura stessa dell’intrigo. In effetti, nella misura in cui queste XXX emozioni sono incompatibili con il ripugnante e il mostruoso, così come con il disumano [...] giocano il ruolo principale nella tipologia degli intrighi56. 2. Nella voce Mitologia dell’Encyclopédie, curata da Louis de Jancourt, è esplicitamente affermata la necessità di assegnare ormai la mitologia, quale «storia favolosa degli dei, dei semidei e degli eroi dell’antichità», e quindi quale sistema comprensivo dei diversi aspetti (credenze, misteri, culti, ecc.) della religione pagana e dei diversi «simboli sotto i quali l’idolatria si è perpetuata tra gli uomini durante un così gran numero di secoli», al territorio delle belle arti e dell’estetica, essendo essa niente più che un grande repertorio dell’immaginazione dei Greci e del piacere da essa prodotto: La mitologia, considerata in questa maniera, costituisce la più grande branca degli studi delle Belle lettere. Non si possono intendere perfettamente le opere dei greci e dei romani, che la remota antichità ci ha trasmesso, senza una profonda conoscenza dei misteri e dei costumi religiosi del paganesimo [...]. Il suo studio è indispensabile ai Pittori, agli Scultori, soprattutto ai poeti e generalmente a tutti quelli il cui obiettivo è d’abbellire la natura e di piacere all’immaginazione. È la mitologia che costituisce il fondo delle loro produzioni e da essa essi traggono i loro principali ornamenti [...]. La favola è il patrimonio delle Arti; è una sorgente inesauribile di idee ingegnose, di immagini ridenti, di soggetti interessanti, di allegorie, di emblemi, il cui uso più o meno felice dipende dal gusto e dal genio. Tutto agisce, tutto respira in questo mondo incantato dove gli enti intellettuali hanno corpi, dove gli enti materiali sono animati, dove le campagne, le foreste, i fiumi, gli elementi hanno le loro divinità particolari; personaggi chimerici, lo so, ma il ruolo che essi giocano negli scritti degli antichi poeti e le frequenti allusioni dei poeti moderni, li hanno dotati di realtà. I nostri occhi hanno familiarizzato con tutto questo al punto che noi fatichiamo a guardarli come esseri immaginari57. E infatti la caoticità e la stranezza del corpo mitologico, nel quale erano stati elaborati in forma immaginosa elementi fisici, metafisici, storici, faceva sì che, a parte i miti che «conservavano qualche traccia delle prime tradizioni» e che, essendo i soli storici, potevano essere utilizzati ai fini di una conoscenza delXXXI le origini dei popoli e come «introduzione alla storia dell’antichità», esso costituisse solo un insieme confuso a cui i poeti potevano attingere immagini e allegorie, ma che per il resto testimoniava unicamente, insieme con la duttilità e permeabilità del politeismo, la natura effimera dello spirito greco: In esso si scopre la tempra del genio nazionale dei Greci. Essi ebbero l’arte di immaginare, il talento di dipingere e la fortuna di sentire, ma a causa di uno sregolato amor di sé e del meraviglioso, essi abusarono di questo felice dono della natura; vani, leggeri, portati alla voluttà e credulità, essi adottarono a spese della ragione e dell’etica, tutto ciò che poteva autorizzare la licenza, blandire l’orgoglio e dar carriera alle speculazioni metafisiche58. L’idea di una essenziale disposizione estetica dello spirito greco si combina così con la convinzione della impossibilità, o inutilità, del tentativo di spiegare effettivamente il significato dei miti e di risalire alla loro origine, ordinando la mitologia in una forma di sapere sistematico: La Mitologia non è dunque affatto un tutto composto di parti corrispondenti: è un corpo informe, irregolare ma piacevole nei particolari; è il confuso miscuglio delle chimere dell’immaginazione, dei sogni, della Filosofia e dei frantumi della storia antica. Impossibile l’analisi. O almeno non si perverrà mai ad una scomposizione tanto intellettualistica da essere in condizione di separare l’origine di ogni finzione, e meno ancora l’origine dei particolari di cui ogni finzione è l’assemblaggio. La Teogonia di Esiodo e di Omero è la base sulla quale hanno lavorato tutti i teologi del paganesimo, cioè i preti, i poeti e i filosofi. Ma a forza di sovraccaricare questo fondo e di deformarlo mentre lo si abbelliva, essi lo hanno reso irriconoscibile. E in mancanza di monumenti, noi non possiamo determinare con precisione ciò che la favola deve a tale o tal altro poeta in particolare, ciò che appartiene a tale o tal altro popolo, a tale o tal altra epoca59. Una tale considerazione del mito come assurdo logico, morale e teologico costituisce appunto la caratteristica dominante dell’indirizzo razionalistico degli studi nel Settecento. Alla voce Giove del Dizionario storico-critico (1695-97) di Bayle si legge: XXXII Giove, il più grande di tutti gli dei del paganesimo, era figlio di Saturno e di Cibele. Non ci sono crimini di cui non si sia macchiato, perché oltre a detronizzare il padre, che incatenò nel più profondo dell’inferno, commise incesto con le sorelle, con le figlie e le zie, e tentò anche di violare la madre [...]. Le doppiezze e gli spergiuri, e in generale tutte le azioni punibili dalle leggi, gli erano assai familiari. Si è arrivati perfino a dire che egli divorò una delle sue mogli. Non si può dunque vedere niente di più mostruoso del paganesimo, che considerava un tale dio come il sovrano padrone di tutte le cose; e che faceva corrispondere a questa idea il culto che gli rendeva. E Bacone, per citare un altro esempio, scrive: Che razza di finzione è mai questa. Giove prese in moglie Metide, e appena la sentì gravida se la mangiò, divenuto così gravido egli stesso, partorì dal capo Pallade armata? Credo che a nessun mortale accadrà di sognare un sogno così mostruoso e tanto lontano dalle vie del pensiero60. Ma questo orientamento implica l’idea che nel mito sia rintracciabile un significato che tuttavia si colloca al di fuori delle assurdità e delle incongruenze dei racconti, assegnate perciò al territorio estetico dell’immaginazione, dell’invenzione metaforica, della creazione sensibile, dal momento che esse appaiono o come frutto degli errori e degli inganni necessari della mente primitiva, o come una consapevole e sapiente costruzione poetica. Perciò sia che si tratti della interpretazione naturalistica o di quella evemeristica, che vedono nel mito la narrazione immaginosa di un evento fisico o storico, sottoposta alle ulteriori deformazioni della tradizione, sia che si tratti della interpretazione allegorica che rinvia a una sapienza volutamente nascosta dietro l’inverosimiglianza dei racconti, in ogni caso, il senso del mito, la sua ragion d’essere, giace nell’altro da sé, in ciò che è altro dalla paradossalità e illogicità proprie della forma mitica. Questa, pertanto, identificata con la rappresentazione sensibile, ovvero con le risorse della facoltà poetica, diventa oggetto di una interpretazione contrastante, che ne fa l’erroneo fondamento dell’idolatria o, viceversa, un mezzo per comunicare, occultandola, la verità. XXXIII A conclusione della voce Giove, già citata, Bayle osservava: È bene sottolineare che i racconti ridicoli che i poeti avevano sciorinato su questo dio servirono di fondamento alla religione pagana, e che ci furono persone serie che cercarono di spiegarli, o con allegorie, o con dogmi di fisica; ma questo fu un lavoro altrettanto ridicolo di quello dei poeti, e che sfociava molto spesso in gravi empietà61. Ma la convinzione dell’esistenza di un errore di fondo della mentalità primitiva, responsabile della paradossalità del mito, e consistente, secondo Bayle, nel fatto che essa non concepiva né l’idea della creazione né l’idea delle sostanze distinte dalla materia, rende il rifiuto delle letture allegoriche o naturalistiche del mito, e cioè il rifiuto del tentativo di fornirne un’interpretazione razionale, non molto dissimile dall’analogo rifiuto delle interpretazioni razionalistiche delle incredibili figure dei racconti tradizionali, espresso da Platone per bocca di Socrate all’inizio del Fedro: un rifiuto motivato in nome di un sapere diverso e più utile, quello rivolto alla conoscenza di sé, vale a dire alla esposizione della sostanza divina dell’anima, a cui, come abbiamo visto, sarà piegato, nello stesso dialogo, il discorso mitico, così come all’idea di creazione era stato piegato nel Timeo: Ma io, o Fedro, anche se per certi rispetti ritengo piacevoli tali interpretazioni, le reputo adatte a un uomo troppo ingegnoso, laborioso e niente affatto fortunato, se non altro perché sarà costretto, dopo ciò, a normalizzare la forma degli Ippogrifi e poi anche quella della Chimera e lo sommergerà una analoga folla di Gorgoni e Pegasi e una massa di altri esseri assurdi, strani e mostruosi. Se poi qualcuno, non credendo a questi esseri, li ricondurrà tutti al verosimile servendosi di una sapienza rustica, costui avrà bisogno di molto tempo. Io, invece, non ho affatto tempo per questo genere di indagini e il motivo [...] è questo: non sono ancora in grado di conoscere me stesso come prescrive l’iscrizione delfica. Mi sembra perciò ridicolo, finché ignoro ancora ciò, prendere in considerazione problemi che mi sono estranei. Perciò, messe da parte queste questioni, mi attengo a ciò che si tramanda intorno a esse e [...] esamino non queste, ma me stesso, per scoprire se per caso io sia una fiera più complicata e più fumosa di Tifone, o se io sia un animale più mansueto e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e senza il fumo di Tifone62. XXXIV In altri termini il rifiuto della razionalizzazione del mito coincide, in questo caso, con l’affermazione della verità del discorso metafisico del tutto alternativo ad esso. Un rapporto di continuità tra l’idolatria del politeismo, frutto della venerazione tributata a prodotti dell’immaginazione manipolata da poeti e sacerdoti, e la teologia monoteistica emerge, invece, dalla spiegazione naturalistica, materialisticamente orientata, di d’Holbach. Per lui la mitologia non è originariamente che un effetto dell’attività di trasfigurazione antropomorfica e di divinizzazione dei fenomeni della natura, ed è precisamente la progressiva scissione tra l’effettivo contenuto naturalistico del mito e le immagini e i simboli da esso generati, fatti di per sé oggetto di culto, a determinare l’idolatria. Del complesso sistema di istituzioni (poetiche, religiose) che all’idolatria si connette appare così responsabile l’attività immaginativa, suscettibile di un uso sociale strumentale, in quanto principio di una stravolgente trasformazione dei fenomeni naturali in simboli culturali manipolabili dal potere, soggetti all’impostura e responsabili di una innaturale barbarie: Tutto prova dunque che la natura e le sue diverse parti sono state dappertutto le prime divinità degli uomini. Fisici le osservarono bene o male e ne colsero alcune delle proprietà e maniere di agire; poeti le dipinsero all’immaginazione e prestarono loro corpo e pensiero; preti adornarono queste divinità di mille attributi meravigliosi e terribili; il popolo le adorò, si prosternò dinnanzi a questi esseri così poco suscettibili d’amore o di odio, di bontà o di malvagità e, come vedremo in seguito, divenne cattivo e perverso per piacere a tali potenze che gli si rappresentarono sempre con tratti odiosi63 . Per altro verso il successivo processo di spiritualizzazione, vale a dire lo sviluppo della teologia e della metafisica, che concepiscono il divino come opposto alla natura e capace di regolarla dall’esterno, è inteso da d’Holbach non in opposizione, ma come conseguenza della dimensione mitica e politeistica, e della separazione degli oggetti del culto idolatrico, degli dei creati dall’immaginazione, dal loro fondamento naturalistico. In quanto forza della natura, alienata dalla natura stessa e traXXXV sformata in un oscuro essere e principio, a sua volta inevitabilmente dotato di caratteri antropomorfici, l’oggetto della metafisica e della teologia conferma, per d’Holbach, il suo carattere immaginario e ingannevole, la sua derivazione dalla disposizione mitica di trasformazione poetica della natura: A forza di ragionare e di meditare su questa natura così abbellita o piuttosto sfigurata, gli speculatori che seguirono non riconobbero più la fonte da cui i predecessori avevano attinto gli dei e gli ornamenti fantastici di cui li avevano rivestiti. Fisici e poeti, trasformati dal tempo libero e da vane ricerche in metafisici e teologi, credettero di aver fatto un’importante scoperta distinguendo sottilmente la natura da se stessa, dalla sua energia, dalla sua facoltà di agire. Fecero a poco a poco di questa energia un essere incomprensibile, che personificarono, chiamarono il motore della natura, indicarono col nome di Dio e di cui non poterono mai formarsi idee certe. Quest’essere astratto e metafisico, o piuttosto questa parola, fu l’oggetto delle loro contemplazioni perpetue [...]. A forza di fantasticare e di sottilizzare, la natura scomparve: fu spogliata dei suoi diritti, fu considerata una massa priva di forza e di energia [...] non poté più essere concepita operante senza il concorso del motore che le si era associato [...]. L’uomo [...] si rappresenta del meraviglioso in tutto ciò che non concepisce [...] e, per difetto di esperienza, finisce per consultare unicamente la sua immaginazione che lo pasce di chimere64. In questo senso la concezione allegorica, rivolta fin dall’antichità e poi nel corso dei secoli a conferire un senso al mito assegnandogli la funzione di tramite di un sapere riposto e oscuro, di difficile divulgazione, si discosta dall’idea della gratuità, della irragionevolezza e della falsità delle figure del mito, proprie dell’interpretazione naturalistica, dal momento che esse, piuttosto che frutto degli errori e delle chimere dell’immaginazione e della leggerezza dello spirito greco, appaiono invece come depositarie di una verità religiosa o di una saggezza nascoste che si esprimono indirettamente attraverso esse. «Il mito» – come scrive Vernant – «si trova così purificato delle assurdità, delle inverosimiglianze o delle immoralità che recavano scandalo alla ragione; ma ciò accade al prezzo della rinuncia a ciò che il mito è in se stesso», per cui esso finisce per rappresentare «o una maniera di dire diversamente, sotto forXXXVI ma figurata o simbolica, la stessa verità che il lògos esprime in modo diretto, o una maniera di dire [...] ciò che, per sua natura, si situa fuori della sfera della verità, sfugge di conseguenza al sapere e non appartiene al discorso articolato secondo l’ordine della dimostrazione»65, come accade nella elaborazione platonica del «mito verosimile». Il riconoscimento esplicito dello stravolgimento che, nonostante l’apparente uniformità, l’utilizzazione allegorica del mito comporta rispetto alla sua originaria natura, nella misura in cui il racconto diventa funzionale a un sapere che è altro dalla lettera del mito stesso, e cioè da ciò che la stessa materialità delle sue immagini significa, lo troviamo in un passo dello Zibaldone leopardiano, del 1826: Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime e le ultime mitologie. Gl’inventori delle prime mitologie (individui o popoli) non cercavano l’oscuro per tutto, eziandio nel chiaro; anzi cercavano il chiaro nell’oscuro; volevano spiegare e non mistificare, e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che non cadono sotto i nostri sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di quelle cose che l’uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora. Gl’inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi secoli della nostra era, decisamente cercavano l’oscuro nel chiaro, volevano spiegare le cose sensibili e intellegibili colle non intellegibili e non sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della natura, le ultime sono state trovate per farci credere mistero e superiore alla intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove, altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create. Le une gaie, le altre tetre ecc.66. Per quanto l’impostazione antispiritualistica richiami l’analoga posizione di d’Holbach, è evidente che per Leopardi non solo esiste una discontinuità tra mitologie primitive e mitologie di carattere metafisico e allegorico, ma le mitologie primitive più che essere inganni dell’immaginazione rappresentano un XXXVII sapere primitivo che si identifica proprio con il procedimento e le modalità sensibili della rappresentazione. Per tornare, invece, alle caratteristiche settecentesche della interpretazione allegorica dei miti, la subordinazione delle insensatezze e delle menzogne alle verità di ordine razionale in essi contenute, comporta anche l’accentuazione del carattere consapevole delle invenzioni fantastiche, poetiche, del mito. Per Gravina «è la poesia una maga, ma salutare, ed un delirio che sgombra le pazzie»67, in maniera che essa appare come un mezzo funzionale allo sviluppo della razionalità e della coscienza: Con quest’arte Anfione e Orfeo risvegliarono nelle rozze genti i lumi ascosi della ragione, e facendo preda delle fantasie coll’immagini poetiche l’invilupparono nel finto, per aguzzare la mente loro verso il vero che per entro il finto traspariva: sicché le genti delirando guarivano dalle pazzie. Quindi è che, per imprimere nella volgar conoscenza l’angosce dell’animo agitato dalle proprie passioni e morso dal dente della coscienza del mal operato, eccitarono l’immagini delle Furie vestite d’orrore e di spavento: acciò che fossero respinte fuori delle menti volgari, colle figure della face e dei serpi, quelle passioni che son fugate dalla filosofia a forza di vive ragioni, che sono gli strumenti onde son rette e governate le menti pure [...]. Tai sentimenti per mezzo di queste immagini i poeti insinuarono nei petti rozzi, rappresentando col medesimo artificio la natura degli altrui vizi [...] e convertendo in figura sensibile le contemplazioni dei filosofi sulla natura de’ nostri affetti68. Questa elaborazione delle passioni che sottende una sapienza filosofica implica che il politeismo stesso presupponga in realtà un sapere esoterico e teologico: infatti, per Gravina, poeti-teologi sono i veri artefici del mito, sebbene le invenzioni poetiche e la molteplicità di dei, attraverso cui l’unità del divino è rappresentato e volgarizzato, finiscano per diventare esse stesse oggetto di culto idolatrico da parte del popolo: E perché l’antica sapienza cavava da una stessa miniera tanto quel ch’è seme delle sensazioni, quanto quel che, percotendo in varie maniere i nostri organi, genera diversità d’oggetti e di sembianze, e tutte le cose create da’ gentili teologi si riputavano affezioni e modi di XXXVIII Dio, perciò fu propagata una larga schiera di numi, sotto l’immagini de’ quali furono anche espresse le cagioni e i moti intrinseci della natura. Perloché gli antichi poeti con un medesimo colore esprimevano sentimenti teologici, fisici e morali: colle quali scienze, comprese in un sol corpo vestito di maniere popolari, allargavano il campo ad alti e profondi misteri. Quindi avvenne che Dio rimase dalla volgare opinione velato dei nostri affetti e travestito all’uso mortale. Quindi anche avvenne che l’unità dell’essere suo fu favolosamente diramata nelle persone di più falsi numi, che a parer loro esprimevano vari attributi divini sotto l’ombra di passioni e sembianze mortali, che erano i canali per mezzo dei quali, a loro credere, Dio comunicava con le menti umane e si svelava a misura del lume che in esse rilucea, onde ai saggi compariva uno ed infinito, al volgo sembrava molteplice e circoscritto69. La critica dell’idolatria segue qui un percorso del tutto diverso da quello seguito da d’Holbach per il quale la teologia stessa è, come abbiamo visto, una forma d’idolatria, connessa all’ignoranza e agli inganni dell’immaginazione. E infatti per Gravina solo una mancata penetrazione della vera essenza spirituale e sapienziale del mito può condurre a travisarne il senso e ad accettare in sé e per sé le creazioni erronee del politeismo, laddove queste sono invece il rivestimento sensibile, la traduzione metaforica di verità e principi relativi all’essere delle cose, e consistono nel rendere animato l’inanimato e sensibile ciò che è spirituale, secondo modi e procedimenti consapevoli propri dell’invenzione poetica: Il fondo della favola non consta di falso ma di vero, né sorge dal capriccio ma da invenzione regolata dalle scienze e corrispondente coll’immagini sue alle cagioni fisiche e morali. Perloché la favola è l’esser delle cose trasformato in geni umani, ed è la verità travestita in sembianza popolare: perché il poeta dà corpo ai concetti e, con animar l’insensato ed avvolger di corpo lo spirito, converte in immagini visibili le contemplazioni eccitate dalla filosofia, sicché egli è trasformatore e producitore, dal qual mestiero ottenne il suo nome70. E proprio la metafora, come figura, invenzione poetica, grazie alla quale il falso, il fantastico dell’immaginazione include la verità dell’intelletto, è oggetto dell’attenzione di Muratori: XXXIX Adunque, avvegnaché le immagini fantastiche non sieno vere a dirittura secondo l’intelletto, pure indirettamente servono ad esprimere e rappresentar lo stesso vero intellettuale71. La necessità di saldare fantasia e intelletto, verità di ragione e immagine, che abbiamo visto caratterizzare l’interpretazione allegorica del mito, spinge Muratori a distinguere tre tipi di immagine: quella che è immediatamente vera sia per la fantasia che per l’intelletto, «come chi vivamente e con parole proprie descrive l’arco celeste, la battaglia di due guerrieri, uno spiritoso cavallo [...]»; quella che appare verosimile sia alla fantasia sia all’intelletto, «come l’immaginar la scena funesta della rovina di Troia, l’arrivo d’Oreste in Tauri, la morte di Niso e d’Eurialo [...]»72; infine quella che è immediatamente vera o verisimile per la fantasia, e solo indirettamente per l’intelletto. Sebbene tutti questi tipi di immagine siano prodotti dalla fantasia, solo alle ultime, dice Muratori, viene dato il nome di fantastiche, perché in esse si manifestano maggiormente «il lavorio e la forza della fantasia»73. Il procedimento metaforico è il procedimento fantastico per eccellenza, dunque, perché in esso ciò che immediatamente, dal punto di vista razionale, appare insensato, come l’attribuire vita alle cose inanimate (i fiori che pregano, le acque che parlano, secondo gli esempi petrarcheschi citati dallo stesso Muratori), è invece vero per la fantasia. Ma la «forza» del procedimento fantastico, proprio della metafora, sta precisamente nel fatto che esso, unendo elementi intellettualmente incompatibili tra loro, fa scaturire da questa combinazione apparentemente insensata un’immagine dotata di un senso ulteriore, irriducibile ai singoli elementi che la compongono: Unisce due diverse immagini semplici e naturali, e dà loro una figura o un essere differente da quanto le rappresenta il senso74. Proprio l’incongruenza logica, che tuttavia è capace di generare un significato altro, rende per Muratori, la metafora, lo strumento privilegiato del procedimento allegorico, nel quale il piacere puramente sensibile delle immagini e delle rappresentazioni è in realtà latore di una verità intellettuale o spiriXL tuale di altra natura, che è a sua volta il vero oggetto del piacere estetico in quanto piacere razionale: Tutte le metafore, le iperboli, le parabole, gli apologhi e altri simili concetti della fantasia, sono un vestito e un ammanto sensibile di qualche verità o istorica o morale, o naturale o astratta, o veramente avvenuta o possibile ad avvenire. All’intelletto appare falsissimo questo ammanto a prima vista; ma penetrando egli nella sua significazione, appresso ne raccoglie una qualche verità a lui cara; non essendo altro in effetto queste immagini che un vero travestito [...]. Dal che può conoscersi che il falso non è, come oggetto o fine, adoperato dai poeti, ma bensì come strumento utilissimo [...] per far concepire [...] all’intelletto quel vero o verisimile che è proprio di lui e che solo può piacere all’appetito ragionevole75. Non è un caso, allora, ma è invece diretta conseguenza della necessità di rendere compatibile, e anzi subordinata, la materialità delle immagini ad un vero filosofico, metafisico, che Muratori, per spiegare la genesi dell’invenzione metaforica e la natura della «forza» della fantasia, si rifaccia, citando lo Ione, all’idea platonica della poesia come «mania», non riducibile a una mera arte della composizione, e cioè interpreti la poesia stessa come insensatezza, follia, dotata tuttavia del potere di significare e comunicare verità di ordine contemplativo, direttamente ispirata dal dio: Per furore poetico, o sia entusiasmo ed estro, intesero gli antichi una certa gagliarda ispirazione, con cui le Muse, ovvero Apollo, occupano l’animo del poeta e fannogli dire e cantare maravigliose cose, traendolo come fuori da lui stesso e ispirandogli un linguaggio non usato dal volgo. Perciò un tal furore si chiamava astrazione, alienazione, o ratto della mente; quasiché più non parlasse il poeta, ma i numi per lui76. La correzione sensistica apportata da Muratori al concetto platonico di «mania» riguarda la sua genesi sembrandogli, essa, non di origine divina, ma piuttosto derivata da uno stato materiale di eccitazione fisica o morale su cui si innesta il processo fantastico, ed inoltre suscettibile di essere prodotta per via di tecnica, di arte: XLI Io ben concedo che non possa divenirsi gran poeta senza un tal furore, ma all’incontro nego nascere tal furore da cagion soprannaturale; anzi tengo esser egli naturalissima cosa, e potersi in qualche guisa conseguir con arte77. Quanto si è detto fin qui sulla interpretazione settecentesca del mito illustra solo l’orientamento razionalistico inteso a denunciarne e a criticarne l’erroneità, o comunque a verificarne e commisurarne il senso rispetto alla verità razionalmente intesa. In realtà il quadro appare più mosso quando si osservi, attraverso le posizioni di Fontenelle, Herder e Vico, che il discorso sul mito si configura anche, in un certo senso, nel Settecento, come ricerca ontologica dello stesso principio della natura umana, che per i tre autori si configura in modi diversi che rinviano a tre diverse disposizioni originarie dell’umanità: conoscitiva per Fontenelle, religiosa per Herder, poetica per Vico. Già Fontenelle, in De l’origine des fables (1724), che di fatto delineava i contorni della problematica razionalistica del mito, aveva messo in evidenza il carattere paradossale dei miti greci, e lo stupore che necessariamente doveva suscitare in ciascuno la presa di coscienza dell’«ammasso di chimere, sogni, assurdità» di cui si componeva il sistema di credenze e l’antica storia di questo popolo – visto che per i Greci non esistevano «altre storie antiche che le favole» –, quando ci si fosse sottratti alla consuetudine con i miti acquisita nell’infanzia. Di qui l’invito a rischiarare questa materia, e a studiare «lo spirito umano in una delle sue più strane produzioni»78. Ciò significava reperire la genesi delle favole nelle caratteristiche stesse della natura umana – che diventava perciò il vero centro del problema – escludendo l’interpretazione allegorica dei miti, che ipotizzava l’esistenza di un antico sapere mascherato dietro le immagini, in nome di un culto della classicità, tendente a occultare la barbarie e l’irrazionalità originarie dei Greci, non diverse da quelle degli altri popoli primitivi, antichi o moderni, le cui storie, fatta eccezione per il popolo eletto, cominciavano tutte con narrazioni contrassegnate appunto dall’assurdità e dall’inverosimiglianza: XLII Non cerchiamo, nelle favole, altro che gli errori dello spirito umano. Ne diventa meno capace, dal momento che conosce fino a che punto ne è capace. Non è scienza essersi riempiti la testa di tutte le stravaganze dei Fenici e dei Greci, lo è invece sapere che cosa ha condotto Fenici e Greci a queste stravaganze. Tutti gli uomini si somigliano talmente che non c’è popolo le cui sciocchezze non debbano farci tremare79. Al centro della sua trattazione Fontenelle poneva il nesso tra ignoranza primitiva, quale spiegazione dell’origine dei miti, interpretati appunto come errori naturali suscettibili di correzione col regredire dell’ignoranza, e la tendenza all’autoinganno, che portava invece a perpetuare la loro assurdità e le loro immagini su una base prevalentemente estetica, fondata sul piacere dell’immaginazione, oltre che sulla base dell’autorità dell’antico e della tendenza all’imitazione del già dato. I racconti mitici, per Fontenelle, dovevano la loro non intenzionale falsità e irrazionalità a vari fattori: all’ignoranza e all’inesperienza primitive, che inducevano a vedere ovunque prodigi; all’immaginazione spontaneamente suscitata dalla meraviglia, che portava ad arricchire ed esagerare la narrazione di quegli eventi prodigiosi per renderne al meglio l’impressione; nonché a un continuo processo di deformazione e di corruzione favorito dalla trasmissione orale dei racconti e bloccato solo dall’avvento della scrittura, oltre che al travisamento di storie di più antica origine, fenicia o egiziana, successivamente diffuse in Grecia. Ma i miti, pur essendo interamente falsi in sé, non solo non documentavano per Fontenelle una volontaria e primitiva tendenza all’inganno e all’invenzione dell’immaginazione, ma, esattamente al contrario, potevano essere considerati invece come una forma primitiva e rudimentale di filosofia. Essi erano cioè come il prodotto rozzo e grossolano di una naturale tendenza alla ricerca delle cause dei fenomeni, risolta, in quelle condizioni di ignoranza, seguendo un principio anch’esso naturale e universalmente valido, vale a dire spiegando l’ignoto con il noto, assimilando ciò che era sconosciuto a ciò che cadeva sotto gli occhi e che era più vicino all’esperienza. In base a questo funzionamento naturale dello spirito la reXLIII ligione greca, il pantheon delle sue divinità antropomorfe, mostrava di avere un’origine filosofica, in quanto rinviava appunto a quella rudimentale spiegazione dei fenomeni, motore primo del lavoro di assimilazione dell’ignoto al noto, in cui consisteva il vero principio dell’immaginazione: Da questa filosofia grossolana che regnò necessariamente nei primi secoli, son nati gli dei e le dee. È molto curioso vedere come l’immaginazione umana ha generato le false divinità. Gli uomini vedevano cose che essi non avrebbero saputo fare; scagliare i fulmini, eccitare i venti, agitare le onde del mare, tutto ciò era molto al di sopra delle loro possibilità. Essi immaginarono degli esseri più potenti di loro, e capaci di produrre quei grandi effetti. Era ben necessario che quegli esseri fossero fatti come degli uomini, quale altra figura avrebbero potuto avere? dal momento che sono di figura umana l’immaginazione attribuisce loro naturalmente tutto ciò che è umano; eccoli uomini sotto tutti i punti di vista, tranne che essi sono sempre un po’ più potenti degli uomini80. E dal fatto che le forme dell’immaginazione derivavano esse stesse, per quanto si è detto, dalle circostanze e dal tempo che le aveva generate, Fontenelle ricavava anche la prova del carattere arcaico e primitivo della religione greca e la spiegazione della molteplicità e dell’origine dei suoi dei «rissosi, crudeli, bizzarri, ingiusti, ignoranti»81. E infatti l’idea stessa di un essere superiore, in condizioni assolutamente primitive e naturali, non poteva derivare, secondo Fontenelle, che dalla visione di fenomeni non ordinari, e non poteva che essere associata alla forza del corpo: perciò furono immaginate molte divinità spesso in conflitto tra di loro la cui superiorità rispetto agli uomini si identificava con la potenza materiale. L’idea della saggezza e della giustizia come attributi del divino, così come il riconoscimento dell’ordine regolato dell’universo, non poterono dunque che essere successivi. Dato il carattere di filosofia grossolana che sta al fondo del politeismo, l’essenza della mitologia va individuata, secondo Fontenelle, proprio nell’intreccio tra narrazione dei fatti e questa rudimentale filosofia, nel senso che le immagini e le divinità del mito forniscono una spiegazione elementare, e quindi per quell’epoca verosimile, degli eventi, così come la narrazione di XLIV fatti immaginari rappresenta la spiegazione di fenomeni naturali. Il racconto di cui si compone il mito riveste cioè una duplice funzione: Non solo nei primi secoli si spiegò con una filosofia chimerica ciò che c’era di sorprendente nella storia dei fatti; ma ciò che apparteneva alla filosofia lo si spiegava con storie di fatti immaginati a piacere. Ciò significa che tutte le metamorfosi sono la fisica dei tempi primitivi. Le more sono rosse, perché sono tinte del sangue di un amante e di una amante; la pernice vola sempre terra terra, perché Dedalo, che fu trasformato in pernice, si ricordava della disgrazia di suo figlio che aveva volato troppo alto; e così di seguito82. Proprio questa qualità del racconto che mescola continuamente l’animato e l’inanimato, l’umano e il divino, spiega, per Fontenelle, il destino particolare del politeismo e della mitologia dei Greci. Laddove, infatti, presso la maggior parte dei popoli la mitologia si risolse in religione, la mitologia greca ebbe anche un esito specificamente estetico, perché corrispondeva alla tendenza più comune ed elementare dell’immaginazione. Di essa si appropriarono, infatti, pittura e poesia: Divinità di ogni specie sparse ovunque, che rendono tutto vivo e animato, che s’interessano a tutto, e, ciò che è più importante, divinità che agiscono spesso in maniera sorprendente, non possono non fare un effetto piacevole, sia nella poesia, sia nella pittura, dove si tratta di sedurre l’immaginazione presentandole oggetti che essa coglie facilmente e che, nello stesso tempo, la colpiscono83. L’uso estetico della mitologia greca, che la destina appunto al piacere attraverso l’arte, si spiega col fatto che l’adozione di essa nelle opere destinate all’immaginazione non fa che restituire all’immaginazione ciò che essa stessa ha prodotto. Per questo gli errori dello spirito umano, dissipati dalla religione e dalla razionalità, finiscono per sopravvivere attraverso l’arte. Tale sopravvivenza rivela, secondo Fontanelle, come, per quanto incomparabilmente più illuminati siano i moderni rispetto XLV agli antichi, lo spirito umano riprenda molto facilmente quella tendenza dell’immaginazione che in origine generò spontaneamente i miti. E se è vero il fatto che gli antichi adottarono i miti credendovi e i moderni invece li adottano solo per piacere, senza credervi, «niente mostra meglio – sostiene Fontenelle – che immaginazione e ragione non hanno rapporto tra di loro, e che le cose, rispetto alle quali la ragione è completamente disingannata, non perdono nulla del loro piacere per quanto riguarda l’immaginazione»84. Al centro della riflessione herderiana e vichiana sul mito si colloca un integrale rifiuto della concezione razionalistica del politeismo come mero errore, destinato in quanto tale alla pura e semplice negazione, salvo – come si è visto – il recupero estetico delle sue immagini in vista del piacere dell’immaginazione e della sua fungibilità ai fini della formazione razionale e spirituale. Per Herder le arbitrarietà e le fantasticherie dei miti che la tradizione trasmette hanno invece un carattere di necessità, che le rende irriducibili a una valutazione di ordine logico o morale o a una fruizione squisitamente estetica, a partire dal punto di vista della modernità meccanicamente sovrapposto ad esse. Perciò, polemizzando con lo spirito dell’Illuminismo, Herder scrive: O forse non vedi che ognuno dei tuoi cosiddetti errori è veicolo, unico possibile veicolo d’ogni bene? Stolto sei, se vuoi bollare questa ignoranza e meraviglia, questa fantasia e venerazione, quest’entusiasmo e infantile sensibilità con i più neri e diabolici termini del tuo secolo, e cioè inganno e stolidità, superstizione e schiavitù, stolto sei se vuoi andare immaginando un esercito d’infernali preti e di spettri tirannici [...] e [...] seguendo il più raffinato gusto del tempo tuo, vuoi elargire ad un fanciullo il tuo deismo filosofico, il tuo senso estetico della virtù e dell’onore, il tuo amore che abbraccia tutti i popoli, amore del resto pieno, tanto pieno di tollerante oppressione, sfruttamento e rischiaramento!85 In realtà nelle forme del mito è documentato l’originario conformarsi della sensibilità umana, dettato anche da quelle condizioni dell’organismo e dell’ambiente che concorrono alla formazione delle tradizioni nazionali. Il fatto che «la mitologia XLVI di ogni popolo sia una riproduzione del suo modo proprio di vedere la natura e attesti soprattutto se, a seconda del suo clima e del suo genio, ha trovato in essa più bene che male, e come abbia cercato di spiegare l’uno con l’altro»86, impedisce di considerare i miti come inganno perpetrato consapevolmente: Di solito si considerano gli stregoni, i maghi, gli sciamani come autori di queste favole che accecano il popolo e si crede di aver tutto spiegato, quando li si è chiamati ingannatori. In molti casi, certamente lo sono stati, ma non si dimentichi che essi stessi sono popolo, e quindi furono ingannati da saghe più antiche. Essi furono generati e educati nel complesso delle fantasie della loro stirpe87. Il mito non può dunque essere considerato, alla maniera di Fontenelle, come una specie di filosofia grossolana, di spiegazione rudimentale che, secondo un procedimento intellettivo elementare e un embrionale movimento riflessivo, opera associando l’ignoto al noto: Spesso i concetti e le opinioni nazionali più arbitrarie sono tali fantasticherie, tratti della fantasia derivanti dal legame saldissimo tra corpo e anima. Come si spiega tutto questo? Forse che ogni individuo di questi greggi umani si è trovato da sé la sua mitologia, destinata a rimanere di sua proprietà? Per nulla affatto. Non l’ha minimamente inventata, l’ha ereditata. Se l’avesse costruita con la sua riflessione, si potrebbe anche condurlo dal peggio al meglio con la sua riflessione, ma le cose non stanno così88. Il mito allora sembra avere piuttosto origine da un principio religioso, che agisce convocando l’invisibile come giustificazione di quanto, essendo inspiegabile, provoca angoscia. Nella religione, intesa come «culto della natura», si esprime, infatti, il terrore, che genera fantasticherie, di fronte a ogni fenomeno della natura avvertito appunto come «manifestazione di strapotere o causa di terrore»89, ed esorcizzato attraverso formule di scongiuro, che rappresentano a loro volta il primo nucleo dei procedimenti compositivi della poesia. In questo contesto è piuttosto l’oscurità e l’indeterminatezza dell’udito che la chiarezza della vista (soggetta ad una maggiore verificabilità speriXLVII mentale), ad essere la vera fonte della fantasia, al contrario di quanto invece lascia presupporre l’idea di immaginazione propria del razionalismo empiristico: Se tutti i nostri concetti fossero così chiari come quelli che derivano da un’esperienza visiva, se non avessimo altre immagini che quelle tratte dagli oggetti della vista e potessimo confrontarle con essi, allora la fonte dell’inganno e dell’errore sarebbe se non chiusa, per lo meno conoscibile. Ma in realtà la maggior parte delle fantasie dei popoli sono un prodotto dell’ascolto e del racconto [...]. Dove c’è movimento nella natura, dove qualcosa sembra vivere e cambia senza che l’occhio percepisca le leggi del mutamento, l’orecchio sente voci e parole che spiegano l’enigma di ciò che vede mediante cose non viste: l’immaginazione viene soddisfatta a suo modo, cioè mediante immagini. In genere l’orecchio è il senso più pavido e timoroso di tutti, e sente in modo vivo, ma oscuro; non può trattenere le sensazioni, non può confrontarle fino a quando abbiano raggiunto la chiarezza, perché i suoi oggetti passano in una successione assordante. Essendo destinato a destare gli altri sensi, è raro che senza il loro aiuto e specialmente senza l’aiuto dell’occhio, possa informarli fino a dare loro notizie sufficientemente chiare90. La considerazione della complessità dell’attività della fantasia, concepita come «connessa con l’intera struttura del corpo, specialmente con il cervello e con i nervi» e considerata «come fondamento di tutte le facoltà psichiche più alte» e come «nodo del rapporto tra spirito e corpo»91, e l’avvertenza del suo legame con il terrore, più legato alle percezioni uditive che a quelle visive, quale fondamento del culto religioso della natura, impediscono dunque a Herder di condividere l’interpretazione della poeticità del mito (e cioè della formazione delle immagini), come effetto del procedimento associativo della mente, secondo l’indirizzo empiristico, e lo orientano piuttosto verso l’idea di un principio di produzione interna, organica, dell’immaginazione. Scrive infatti Herder: In generale, presso tutti i popoli ricchi di fantasia, i sogni hanno una forza straordinaria; probabilmente, anzi, i sogni sono stati le prime Muse, i genitori della vera e propria finzione poetica. Essi portaXLVIII no agli uomini figure e cose che nessun occhio aveva mai visto e il desiderio delle quali si trovava però nell’anima umana92. In questo senso le immagini del mito, lungi dal descrivere la realtà esterna, rappresentano piuttosto fenomeni dell’interiorità e corrispondono perciò, in realtà, a un linguaggio simbolico. Di questo linguaggio erano interpreti e depositari «i sacerdoti che al principio erano i sapienti della nazione»93: Ne consegue dunque che la tradizione religiosa non ha potuto servirsi di alcun altro mezzo che di quello di cui si sono serviti la ragione e il linguaggio stesso, cioè di simboli. Se il pensiero deve diventare parola, se vuole essere trasmesso, deve configurarsi come un segno visibile [...]: e come poteva l’invisibile esser reso visibile o una storia vissuta esser conservata per i posteri, se non con parole e con segni? Perciò anche nei popoli più rozzi il linguaggio della religione è sempre il linguaggio più antico, più oscuro, spesso inintellegibile agli stessi iniziati94. Se per un verso allora l’idolatria e la superstizione, lungi dall’essere un inganno intenzionale, intervengono solo quando, come avviene ad ogni linguaggio o sistema di segni arbitrari, va perduto il senso del simbolo, cosicché il segno arbitrario, di cui il simbolo consta, diventa di per sé oggetto di una sacralità che è in realtà impostura, per altro verso solo nel simbolismo religioso si trovano il fondamento specifico della natura umana e l’origine della civiltà, in quanto esso rinvia a quella coscienza dell’invisibile che è l’unica in grado di spiegare la specificità della mente umana, irriducibile a quel procedimento associativo che essa condivide con gli animali e in cui la risolvono invece le filosofie empiristiche: Che cosa infatti ha innalzato l’uomo al di sopra degli animali? [...] Si dice: la ragione e il linguaggio. Ma come l’uomo non ha potuto giungere alla ragione senza linguaggio, così non ha potuto giungere a entrambi, se non osservando l’unità nella molteplicità, e quindi rappresentandosi l’invisibile nel visibile, collegando la causa all’effetto. Una specie di sentimento religioso delle forze invisibili operanti in tutto il caos degli esseri che lo circondava, dovette dunque precedere e fondare quella prima formazione e connessione di idee razionali e XLIX astratte. Questo è il sentimento dei selvaggi di fronte alle forze della natura, anche quando non hanno nessun concetto esplicito di Dio [...]. Per quanto riguarda tutti i concetti intellettuali di cose soltanto visibili, l’uomo opera in modo simile all’animale, mentre per innalzarlo al primo grado della ragione superiore ci voleva la rappresentazione di un invisibile nel visibile, di una forza nell’azione. Questa rappresentazione è anche l’unico elemento della ragione trascendentale che possiedono le nazioni rozze [...]. Lo stesso vale per la sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Quale che sia il modo in cui l’uomo è arrivato a questo concetto, esso, come credenza popolare universale, è l’unico che distingue l’uomo dall’animale nella morte95. La specificità della posizione di Vico nel contesto settecentesco sta a sua volta nella funzione che egli assegna alla dimensione poetica, immaginativa, propria del mito, concepita in sé e per sé come sapere. Mentre negli altri autori esaminati la forma immaginaria del mito appare comunque come il prodotto succedaneo di un movente della natura umana che è altro rispetto ad essa (sia che si tratti di curiosità o di una ricerca di cause elementare, esercitata nello stato di ignoranza, sia che si tratti di una oscura coscienza religiosa dell’invisibile e dell’unità del tutto), in Vico la poeticità risulta essere essa stessa il principio costitutivo, originario, della mente umana. Né errore, né simbolo religioso, né allegoria, la poeticità del mito è per Vico la condizione della conoscibilità del funzionamento della mente umana, sottratta ai procedimenti razionali della filosofia e osservata nel momento stesso del suo costituirsi, e cioè nel momento del superamento, da parte dell’umanità, della sua condizione di ferinità. Una tale conoscenza implica insomma la capacità di cogliere alla radice, e nei modi in cui originariamente si è dato, il costituirsi del pensiero: [...] e dovendo noi incominciar a ragionarne da quelli che incominciaron a umanamente pensare; [...] per rinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilità, incontrammo l’aspre difficoltà che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e «dovemmo» discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affatto niegato d’immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d’intendere96. L Risalire alla formazione di quelli che Vico definisce i «caratteri poetici», divini ed eroici, del mito, significa allora, anche, per lui, elaborare una diversa «metafisica della mente umana». Tale elaborazione, infatti, attraverso l’applicazione della filosofia alla filologia, e cioè alla «dottrina di tutte le cose che dipendono dall’umano arbitrio»97 come le lingue e i costumi, per ricondurne l’oscurità e la confusa eterogeneità ad un ordine sistematico, si esercita nella ricostruzione della costituzione storica delle idee a partire dalla nascita stessa del pensiero e dalle forme poetiche da esso primordialmente assunte. In tali forme infatti sono iscritti l’evoluzione dell’umanità dallo stato di ferinità dei bestioni primitivi, muti e solitari, e il processo di «addomesticamento» e di civilizzazione, espressi appunto nel linguaggio mitico degli dei e degli eroi, ovvero nelle favole fisiche e storiche, che oltre a inaugurare, in quanto espressioni di una «metafisica poetica», l’idea del divino, e per essa il processo di imbrigliamento della ferinità, documentano nella «logica poetica», e cioè nelle «categorie poetiche» o «generi poetici» o «universali fantastici», corrispondenti a quella metafisica – da Giove a Ercole, da Prometeo a Cadmo – gli atti, le istituzioni, i ritrovati, le invenzioni, dettati dalle «umane necessità», a cui è legato appunto il processo di umanizzazione e di civilizzazione. Se dunque i «generi poetici», in cui eventi e fenomeni sono antropomorfizzati, ne manifestano la essenziale significatività in ordine alle primordiali e naturali necessità umane, la «metafisica poetica», che quell’antropomorfismo attesta, e la «logica poetica», ad essa correlata, rivelano il funzionamento originario e naturale del pensiero: Per andar a truovare tali nature di cose umane procede questa Scienza con una severa analisi de’ pensieri umani d’intorno all’umane necessità o utilità della vita socievole, che sono i due fonti perenni del diritto naturale delle genti [...]. Onde, per quest’altro principale suo aspetto, questa Scienza è una storia dell’umane idee, sulla quale sembra dover procedere la metafisica della mente umana; la qual regina delle scienze, per la degnità che «le scienze debbono incominciare da che n’incominciò la materia», cominciò d’allora ch’i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non già da quando i filosofi cominciarono a riflettere sopra l’umane idee98. LI Grazie a questa prospettiva – afferma Vico – non solo «si dimostra le favole essere state vere e severe istorie de’ costumi delle antichissime genti di Grecia», e i poemi omerici «due grandi tesori di discoverte del diritto naturale delle genti greche ancora barbare»99, ma «da quelli che se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari, nonché diversi, i principi della poesia»100. Questa infatti, lungi dall’avere una funzione puramente accessoria o esornativa, affonda le sue origini, mostrando la propria necessità, nel linguaggio muto, fatto di gesti e segni corporei, che precedette il linguaggio articolato e vocale. Tale linguaggio muto, fatto di segni, era il corrispettivo del modo di essere primordiale della mente, proprio dell’epoca in cui cominciarono «gli uomini a umanamente pensare», cioè dell’epoca di formazione di una «metafisica poetica». Per essa cose e fenomeni fisici sono «sostanze animate», che comunicano per cenni e segni, che vanno interpretati, «divinati». Nel descrivere la genesi dell’immagine di Giove, quale primo dei «caratteri poetici» in cui è iscritta la formazione naturale, poetica, dell’idea del divino, Vico spiega che, timoroso di fronte alle manifestazioni sorprendenti e spaventose della natura, l’uomo primitivo, ancora muto e dotato soltanto del linguaggio della gestualità, di un sistema di segni propri della corporeità, trasferendo se stesso nella natura e attribuendo ad essa le sue stesse caratteristiche, concepì tuoni e fulmini come i segnali di un grande corpo animato, il cielo, il quale comunicava appunto attraverso quei fenomeni. Le manifestazioni della natura apparvero così come la lingua di Giove, che gli uomini atterriti dovevano decifrare per interpretarne la volontà, inaugurando così, insieme con la pratica della divinazione, il primo pensiero della divinità: Quivi i primi uomini, che parlavano per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove (onde poi da «nuo» «cennare» fu detta «numen» la divina volontà [...]), che Giove comandasse co’ cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la natura fusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero universalmente le genti essere la divinazione, la qual da’ greci ne fu detta «teologia», che vuol dire «scienza del parlar degli dei». Così venne LII a Giove il temuto regno del fulmine, per lo qual egli è ‘l re degli uomini e degli dei101. In questo senso la «logica poetica», ovvero il lògos nel suo senso originario di favola (favella) o mythos (essendo i tre termini, all’inizio, sinonimi), che quelle «sostanze animate» significa per il tramite delle immagini o dei «caratteri» poetici o divini, costituisce una lingua vera, diversa da quella che nomina l’essenza oggettiva delle cose: Or – perché quella ch’è metafisica in quanto contempla le cose per tutti i generi dell’essere, la stessa è logica in quanto considera le cose per tutti i generi di significarle – siccome la poesia è stata sopra da noi considerata per una metafisica poetica, per la quale i poeti teologi immaginarono i corpi essere per lo più divine sostanze, così la stessa poesia or si considera come logica poetica, per la qual le significa. «Logica» vien detta dalla voce lógoß, che prima e propiamente significò «favola», che si trasportò in italiano «favella» – e la favola da’ greci si disse anco mûqoß, onde vien a’ latini «mutus» – la quale ne’ tempi mutoli nacque mentale, che in un luogo d’oro dice Strabone essere stata innanzi della vocale o sia dell’articolata: onde lógoß significa e «idea» e «parola» [...]. Onde tal prima lingua ne’ primi tempi mutoli delle nazioni [...] dovette cominciare con cenni o atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee: per lo che lógoß o «verbum» significò anche «fatto» agli ebrei, ed a’ greci significò anche «cosa» [...]. E pur mûqoß ci giunse diffinita «vera narratio», o sia «parlar vero», che fu il «parlar naturale» che Platone prima e dappoi Giamblico dissero essersi parlato una volta nel mondo [...]: [...] cotal primo parlare, che fu de’ poeti teologi, non fu un parlare secondo la natura di esse cose (quale dovett’esser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Dio concedette la divina onomathesia ovvero imposizione de’ nomi alle cose secondo la natura di ciascheduna), ma fu un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine102. La «logica poetica», il mito, e cioè il linguaggio della «metafisica poetica», per la quale i corpi sono «per lo più divine sostanze», e che si esprime per caratteri o universali fantastici, costituisce pertanto un vero sapere. Essa è cioè la «scienza de’ poeti teologi», che rappresenta «la prima sapienza del mondo per gli gentili»103 e anche il primo principio di autorità. Infatti nei primi popoli, poeti per necessità di natura, perché immerLIII si nell’ignoranza e nella corporeità, sapienza, sacerdozio e autorità coincidono: È volgar tradizione ancora ch’i primi re furono sappienti, onde Platone con vano voto desiderava questi antichissimi tempi ne’ quali o i filosofi regnavano o filosofavano i re. Tutte queste degnità dimostrano che nelle persone de’ primi padri andarono uniti sapienza, sacerdozio e regno, e ‘l regno e ‘l sacerdozio erano dipendenze della sapienza, non già riposta di filosofi, ma volgare di legislatori. E perciò, dappoi, in tutte le nazioni i sacerdoti andarono coronati104. Ciò significa che per Vico non è, come per Herder, un principio interiore o una coscienza religiosa dell’invisibile, a produrre immagini e simboli, ma è viceversa la poesia, il procedimento poetico, elementare, della mente umana – che opera animando l’inanimato e rendendo significanti gli oggetti insensati della natura – a produrre l’idea del divino e a fondare l’autorità della religione; né le forme del mito nascondono un sapere esoterico, perché costituiscono invece un sapere volgare, metaforico, poetico appunto, che, grazie alla creazione dei «caratteri divini», avvia il processo di addomesticamento e promuove l’uscita dallo stato di ferinità primordiale. E ‘n cotal guisa i poeti fondarono le religioni a’ gentili scrive Vico, e aggiunge: Per la qual discoverta de’ principi della poesia si è dileguata l’oppenione della sapienza innarrivabile degli antichi [...] la quale fu sapienza volgare di legislatori che fondarono il gener umano non già sapienza riposta di sommi e rari filosofi. Onde [...] si truoveranno tanto importuni tutti i sensi mistici d’altissima filosofia dati dai dotti alle greche favole ed a’ geroglifici egizi, quanto naturali usciranno i sensi storici che quelle e questi naturalmente dovevano contenere105. Dunque Vico considera proprio i «caratteri poetici» della mitologia, e cioè il «parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine», come depositari di un sapere, e tale sapienza coincide per lui con la formazione dell’iLIV dea dell’autorità e della legge. Infatti il procedimento poetico in cui si esprime il pensiero primordiale (privo di qualsiasi forma di astrazione e di riflessione), creando, in virtù della sua metaforicità, l’immagine degli dei, genera contemporaneamente l’idea di un potere, di una norma, che ha una funzione di imbrigliamento della ferinità. In questo senso non i filosofi educarono inizialmente l’umanità, ma i poeti furono i primi legislatori. Non a caso Vico afferma che i «poeti teologi [...] ci si narrano aver fondato le nazioni civili con le favole degli dei»106. Il mito non è infatti, come si è visto, che il linguaggio proprio della forma poetica del pensiero primitivo, che procede per «generi» o «caratteri» divini ed eroici. E l’identificazione della forma più antica del linguaggio con l’immagine, con la figura, col «carattere», appunto, si collega alla convinzione della erroneità della tesi che sostiene la precedenza della nascita delle lingue rispetto a quella della scrittura, e quindi si collega anche all’idea della riferibilità della comunicazione originaria piuttosto ai segni, alle immagini della scrittura geroglifica, non alfabetica, che al sistema articolato dei suoni del linguaggio verbale, il quale invece ha per Vico una natura convenzionale e riflessiva, non immediatamente naturale: Però qui si danno gli schiariti principi come delle lingue così delle lettere, d’intorno alle quali ha finora la filologia disperato, e se ne darà un saggio delle stravaganti e mostruose oppenioni che se ne sono finor avute. L’infelice cagione di tale effetto si osserverà ch’i filologi han creduto nelle nazioni esser nate prima le lingue, dappoi le lettere; quando [...] nacquero esse gemelle e camminarono del pari [...]. Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truova essere stato ch’i primi popoli della gentilità, per una dimostrata necessità di natura, furon poeti, i quali parlarono per caratteri poetici [...]. Tali caratteri si truovano essere stati certi generi fantastici (ovvero immagini, per lo più di sostanze animate o di dei o d’eroi, formate dalla loro fantasia), ai quali riducevano tutte le spezie o tutti i particolari a ciascun genere appartenenti107. In sostanza il linguaggio primitivo non fu un linguaggio astratto, capace di nominare logicamente l’essenza oggettiva delle cose, come sarebbe stato un linguaggio frutto della rivelazione divina, ma fu «un parlare fantastico per sostanze aniLV mate», corrispondente alla natura poetica della mente primitiva dominata dall’ignoranza e subordinata alla fisicità. In realtà la specificità della posizione di Vico sta nel suo sovrapporre un principio che contiene implicazioni diverse e più complesse al principio razionalistico (che pure compare nel secondo assioma della Scienza nuova, e che spiega la genesi delle immagini mitiche con l’ignoranza delle cause dei fenomeni, compensata riferendo l’ignoto al noto). Questo principio, enunciato nel primo assioma della Scienza nuova, e ulteriormente articolato nell’assioma XXXII, costituisce, per Vico, la vera spiegazione della poeticità del pensiero primitivo. Esso spiega sia la «metafisica poetica», di cui si compone la mitologia (che consiste appunto nel concepire «sostanze animate», ovvero nel vedere come animati e dotati di senso corpi inanimati, facendo così dell’«impossibile credibile» l’elemento proprio della poesia), sia la «logica poetica» che a quella metafisica corrisponde, essendone il linguaggio, e che si esprime per immagini, per figure o per «caratteri» fantastici, divini ed eroici. L’assioma XXXII recita infatti: Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi danno alle cose la loro propria natura, come il volgo, per esemplo, dice la calamita esser innamorata del ferro. Questa degnità è una particella della prima: che la mente umana, per la sua indiffinita natura, ove si rovesci nell’ignoranza, essa fa sé regola dell’universo d’intorno a tutto quello che ignora108. L’attività originaria del pensiero, che Vico definisce «metafisica poetica», conduce, in base a questo principio, l’umanità primitiva a concepire i fenomeni trasferendo ad essi le proprie caratteristiche e a fare «sé regola dell’universo». È questa attitudine che crea la metafora, che porta cioè a rendere animato l’inanimato e a dotare di senso l’insensato. Ma se l’umanità interpreta i fenomeni attraverso se stessa, tale attività non rappresenta più soltanto una forma erronea di intelligenza, destinata ad essere superata e risolta nello sviluppo della conoscenza, come si afferma allorché si interpretano le figure inverosimili del mito alla luce del principio logico elementare dell’accostamenLVI to del noto all’ignoto. Ciò che infatti il «far sé regola dell’universo» sottende non è una curiosità rivolta alla spiegazione del fenomeno, alla ricerca oggettiva delle sue cause, ma piuttosto una curiosità che si rivolge al significato di esso. Non ciò che esso è interessa, ma ciò che esso vuol dire, ciò che esso comunica, e tale significato, il senso del comunicare, non è che l’attribuzione all’oggetto di un’attesa che appartiene al soggetto. La curiosità, proprietà connaturale dell’uomo, figliuola dell’ignoranza, che partorisce la scienza – scrive Vico –, all’aprire che fa della nostra mente la meraviglia, porta questo costume: ch’ove osserva straordinario effetto in natura, come cometa, parelio o stella di mezzodì, subito domanda che tal cosa voglia dire o significare109. L’attribuzione ai fenomeni dei caratteri umani, il renderli animati e l’interloquire con essi, implica in altri termini che essi non hanno per la mente poetica, naturale, un’evidenza in sé, nella loro identità oggettiva, ma in quanto portatori di un valore che è l’umanità stessa a immettere, metamorfosandosi in essi. Di qui la differenza irriducibile, che Vico individua, tra l’essenza esplicativa della «metafisica ragionata» e quella creativa della «metafisica fantasticata»: Lo che tutto va di seguito – sostiene Vico – a quella Degnità: che l’uomo ignorante si fa regola dell’universo, siccome negli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché come la metafisica ragionata insegna che «homo intelligendo fit omnia», così questa metafisica fantasticata dimostra «homo non intelligendo fit omnia»; e forse con più verità detto questo che quello, perché l’uomo con l’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non intendere egli di sé fa esse cose e, col transformandovisi, lo diventa110. La ricostruzione, che la mitologia consente, del funzionamento poetico del pensiero e della natura specifica della «metafisica poetica» permette dunque a Vico, per un verso, di rifiutare l’interpretazione del politeismo e dell’idolatria come frutto dell’impostura, e come manipolazione strumentale del timore e dell’immaginazione degli uomini, e per l’altro di affermare che le figure, le immagini, di cui si serve la «logica poetica», hanno in realtà un’origine naturale, e non artificiale o puLVII ramente estetica, e che proprio la logica della significazione che li sostanzia, impedisce che essi valgano come allegorie associabili, per via analogica, ad un contenuto filosofico, razionale, essendo questo incompatibile con i «caratteri poetici», nati appunto perché i primi uomini non erano «capaci di formar i generi intellegibili delle cose»111. Di questa logica poetica – scrive Vico – sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora, ch’allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a corpi l’esser di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e passione, e sì ne fecero favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad esser una picciola favoletta112. L’assunto antiplatonico, che porta Vico a rivendicare la sapienza poetica della mitologia e la sua qualità di «vera narratio», si sostanzia dunque, a sua volta, di una filosofia della storia che induce a interpretare il mito in funzione del divenire dialettico della civiltà. Di qui l’idea di un’origine provvidenziale – dettata dalla natura poetica della mente primitiva – della religione, quale effettiva fondatrice della società, contro l’idea di un primato della filosofia. E quindi – afferma espressamente Vico – incomincia a confutarsi Polibio di quel falso suo detto: che, se fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Ché, se non fussero al mondo repubbliche, le quali non posson esser nate senza religioni, non sarebbero al mondo filosofi113. In questa prospettiva anche i mali dell’idolatria rientrano in un movimento dialettico provvidenziale: Le quali cose, come danno il diritto senso a quel motto: Primos in orbe deos fecit terror – che le false religioni non nacquero da impostura d’altrui, ma da propria credulità; – così l’infelice voto e sagrifizio che fece Agamennone della pia figliuola Ifigenia, a cui empiamente Lucrezio acclama: Tantum religio potuit suadere malum, rivolgono in consiglio della provvedenza. Ché tanto vi voleva per adLVIII domesticare i figliuoli de’ polifemi e ridurgli all’umanità degli Aristidi e de’ Socrati, de’ Leli e degli Scipioni affricani114. Mentre l’idea dell’oscurità, assurdità, oscenità dei miti, nati in realtà come «narrazioni vere e severe»115, è fatta risalire da Vico alle deformazioni e corruzioni della successiva tradizione interpretativa: Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor appartengono, naturalmente interpretano secondo le loro nature e quindi uscite passioni e costumi. Questa Degnità è un gran canone della nostra mitologia, per lo quale le favole, trovate da’ primi uomini selvaggi e crudi tutte severe, convenevolmente alla fondazione delle nazioni che venivano dalla feroce libertà bestiale, poi, col lungo volger degli anni e cangiar de’ costumi, furono impropriate, alterate, oscurate ne’ tempi dissoluti e corrotti anco innanzi Omero. Perché agli uomini greci importava la religione, temendo di non avere gli dei così contrari a’ loro voti come contrari eran a’ loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dei, e diedero sconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole116. Note 1 G. Vattimo, Il mito e il destino della secolarizzazione, in «Rivista di estetica», 1985, nn. 19-20, pp. 70-71. 2 Ivi, pp. 71-72. 3 Ivi, p. 77. 4 L. Kolakowski, Presenza del mito, il Mulino, Bologna 1992. La citazione appena riportata si trova a p. 23. 5 Ivi, pp. 25-26. 6 Ivi, p. 30. 7 Ivi, pp. 29-30. 8 Ivi, pp. 30-32. 9 Ivi, p. 23. 10 Platone, Timeo, a cura di G. Lozza, Mondadori, Milano 1994, 27 e. Le successive citazioni sono ricavate da questa stessa edizione. 11 Timeo 28 a b c, 29 a b. 12 Timeo 30 b. 13 Timeo 29 e. 14 Timeo 29 b c d. 15 Platone, Fedro, a cura di M. Tondelli, Mondadori, Milano 1998, 243. Le successive citazioni sono ricavate da questa stessa edizione. 16 Fedro 244 a. LIX Fedro 241 d. Fedro 265 a. 19 Fedro 242 e. 20 Fedro 265 c. 21 Fedro 252 b. 22 Fedro 247 d. 23 Fedro 262 c. 24 Fedro 272 a. 25 Fedro 277 b c. 26 Fedro 247 e. 27 Fedro 249 c d. 28 Aristotele, Metafisica, in Opere, vol. VI, Laterza, Roma-Bari 1999, 983 a. 29 Metafisica 982 b. 30 Metafisica 1074 b. 31 M. Detienne, L’invenzione della mitologia, Boringhieri, Torino 1983, p. 12. 32 F. Iesi, Mito, Mondadori, Milano 1980, p. 13. 33 J.P. Vernant, voce Mito, in Enciclopedia italiana del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1975. 34 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, il Mulino, Bologna 1991, p. 191. 35 P. Valéry, All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 52. 36 A questo tema è specificamente dedicato il volume di M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Roma-Bari 1983. 37 Platone, La Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1995, III, 397 e, 398 a b. Le successive citazioni sono ricavate da questa stessa edizione. 38 La Repubblica X, 598 e, 599 a. 39 La Repubblica X, 601 a b. 40 La Repubblica X, 606 a d e. 41 G. Leopardi, Zibaldone, in Tutte le opere, vol. II, Sansoni, Milano 1983, p. 504 del manoscritto leopardiano. 42 J.J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999, p. 326. 43 H. Weinrich, Metafora e menzogna, il Mulino, Bologna 1976, pp. 205206. 44 M. Lifšic, Mito e poesia, Einaudi, Torino 1978, pp. 36-37. 45 La Repubblica II, 379 a. 46 La Repubblica II, 380 a b c. 47 Aristotele, Poetica, a cura di D. Lanza, BUR, Milano 1987, 47 a, 9-19. Le successive citazioni sono ricavate da questa stessa edizione. 48 Poetica 50 a, 19-20, 22, 4, 5. 49 P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. I, Jaca Book, Milano 1986, p. 92. 50 Ivi, p. 60. 51 Ivi, pp. 92-93. 52 Ivi, p. 97. 53 Poetica 48 b, 3-18. 54 Ricoeur, Tempo e racconto cit., p. 79. 55 D. Lanza, Come leggere oggi la “Poetica”?, introduzione a Aristotele, Poetica cit., p. 72. Ma sulla lettura estetica del tragico inaugurata da Aristotele, cfr. S. Givone, Prefazione a P. Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino 1996. 17 18 LX Ivi, p. 78. L. de Jancourt, voce Mytologie, in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des artes et des métiers, tomo X, Faulche & Compagnie, Neufchastel 1765. 58 Ibid. 59 Ibid. 60 F. Bacone, Della sapienza degli antichi, in Uomo e natura. Scritti filosofici, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 135. 61 P. Bayle, voce Giove, in Dizionario storico-critico (1695-97), Laterza, Roma-Bari 1976, p. 529. Traduzione nostra. 62 Fedro 229 d e, 230 a. 63 P.-H. d’Holbach, Sistema della natura, a cura di A. Negri, Utet, Torino 1978, p. 393. 64 Ivi, pp. 393-394. 65 Vernant, voce Mito, in Enciclopedia cit. 66 Leopardi, Zibaldone, in Tutte le opere cit., pp. 4238-4239 del manoscritto leopardiano. 67 G.V. Gravina, Della ragion poetica, in Id., Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 208. 68 Ivi, p. 209. 69 Ivi, p. 210. 70 Ivi, p. 213. 71 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, Marzorati, Milano 1971, Libro I, cap. XVI, p. 208. 72 Ivi, Libro I, cap. XIV, p. 169. 73 Ibid. 74 Ivi, Libro I, cap. XV, p. 199. 75 Ivi, Libro I, cap. XVI, pp. 208-209. 76 Ivi, Libro I, cap. XVII, p. 216. 77 Ivi, Libro I, cap. XVII, p. 217. 78 B. Le Bovier de Fontenelle, De l’origine des fables, in Oeuvres completes, Tome II, G.B. Depping, Genève 1968, p. 388. Traduzione nostra qui e oltre. 79 Ivi, p. 398. 80 Ivi, p. 390. 81 Ivi, p. 391. 82 Ivi, p. 393. 83 Ivi, p. 396. 84 Ivi, p. 397. 85 J.G. Herder, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, Einaudi, Torino 1951, p. 10. 86 J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), Laterza, Roma-Bari 1992, p. 136. 87 Ibid. 88 Ivi, p. 133. 89 Ivi, p. 135 90 Ivi, pp. 133-134. 91 Ivi, p. 137. 92 Ivi, pp. 137-138. 93 Ivi, p. 186. 56 57 LXI Ibid. Ivi, p. 138. 96 G. Vico, Scienza nuova, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990, Libro I, sez. IV, pp. 546-547. 97 Ivi, Spiegazione della dipintura..., p. 419. 98 Ivi, Libro I, sez. IV, p. 551 99 Ivi, Spiegazione della dipintura..., p. 419 e p. 420. 100 Ivi, p. 418. 101 Ivi, Libro II, sez. I, cap. I, p. 573. 102 Ivi, Libro II, sez. II, cap. I, p. 585. 103 Ivi, Spiegazione della dipintura..., p. 419. 104 Ivi, Libro I, sez. II, degnità LXXV, p. 522. 105 Ivi, Libro II, sez. I, cap. I, pp. 575-576. 106 Ivi, Spiegazione della dipintura..., p. 420. 107 Ivi, p. 440. Ma si veda anche Libro II, sez. II, cap. IV, pp. 600-601: «Ma la difficoltà della guisa fu fatta da tutti i dotti per ciò: ch’essi stimarono cose separate l’origini delle lettere dall’origini delle lingue, le quali erano per natura congionte; e ‘l dovevano pur avvertire dalle voci “grammatica” e “caratteri”. Dalla prima, ché “grammatica” si definisce “arte di parlare” e grammata sono le lettere, talché sarebbe a diffinirsi “arte di scrivere”, qual Aristotile la diffinì e qual infatti ella dapprima nacque, come qui si dimostrerà che tutte le nazioni prima parlarono scrivendo, come quelle che furon dapprima mutole. Dipoi “caratteri” voglion dire “idee”, “forme”, “modelli”, e certamente furono innanzi que’ de’ poeti che quelli de’ suoni articolati [...]. Oltracciò, se tali lettere fussero forme di suoni articolati e non segni a placito, dovrebbero appo tutte le nazioni esser uniformi, com’essi suoni articolati son uniformi appo tutte. Per tal guisa disperata a sapersi non si è saputo il pensare delle prime nazioni per caratteri poetici né il parlare per favole né lo scrivere per geroglifici: che dovevan esser i princìpi, che di lor natura han da esser certissimi, così della filosofia per l’umane idee, come della filologia per l’umane voci». 108 Ivi, Libro I, sez. II, degnità XXXII, p. 508. 109 Ivi, degnità XXXIX, p. 509. 110 Ivi, Libro II, sez. II, cap. II, p. 589. 111 Ivi, Libro I, sez. II, degnità XLIX, p. 514. 112 Ivi, Libro II, sez. II, cap. II, pp. 587-588. 113 Ivi, Libro I, Sez. II, degnità XXXI, p. 508. 114 Ivi, degnità XL, p. 510. 115 Ivi, Libro III, cap. V, degnità IV, p. 825. 116 Ivi, Libro I, sez. II, degnità LIV, pp. 515-516. 94 95 La riflessione sul mito nel Settecento Ha collaborato alla scelta antologica Anna Luisa Saladino. «Lo Spettatore», 29 settembre 1711 di Joseph Addison* ºIdmen yeúdea pollà légein e¬túmoisin o™moîa, ºIdmen d’, e®ut’ e¬qélwmen, a¬lhqéa muqäsasqai. Le favole furono i primi pezzi di scrittura d’ingegno a fare la loro apparizione nel mondo, e sono state molto apprezzate non solo nelle età della più grande semplicità, ma anche nelle epoche più colte dell’umanità. La favola degli alberi di Jothram è la più antica che esista, e tanto bella quanto nessun’altra che sia stata scritta da allora. Oltre quella già citata, anche La favola dell’uomo povero e del suo agnello di Natham è più antica di qualunque altra esistente, ed ebbe un effetto così utile da portare insegnamento all’orecchio di un re senza offenderlo e da indurre l’uomo, secondo la volontà di dio, ad un giusto senso della sua colpa e del suo dovere. Nelle epoche più remote della Grecia noi troviamo Esopo e, se prendiamo in esame proprio * J. Addison, «The Spectator», n. 183, 29 settembre 1711, in The Spectator by G. Gregory Smith, 1907, vol. II, pp. 55-59. La traduzione è a cura di A.L. Saladino. 3 l’inizio dell’impero di Roma, vediamo una rivolta del popolo placata da una Favola della pancia e degli arti, che nei fatti era molto adatta ad ottenere l’attenzione di una folla furibonda, in un momento in cui forse avrebbe fatto a pezzi qualsiasi uomo le avesse predicato la stessa dottrina in modo aperto e diretto. Per quanto le favole siano nate proprio nell’infanzia della cultura, esse non fiorirono mai in maggior numero di quando la cultura era alla sua massima altezza. Per giustificare questa affermazione, io richiamerò alla mente del mio lettore Orazio, il massimo ingegno e critico dell’età di Augusto, e Boileau, il poeta più corretto tra i moderni, per non menzionare La Fontaine che con questo genere di scritti è giunto ad essere più alla moda di qualunque altro autore della nostra epoca. Le favole che io qui ho citato sono completamente costruite su animali e vegetali, con alcuni personaggi della nostra specie misti in mezzo a loro, quando la morale lo richiedeva. Ma oltre a questo tipo di favola ce n’è un altro i cui attori sono passioni, virtù, vizi ed altri personaggi immaginari di simile natura. Alcuni critici antichi sostengono che l’Iliade e l’Odissea di Omero sono favole di questo genere e che i numerosi nomi di dei ed eroi sono nient’altro che emozioni della mente rese in una forma visibile e in un personaggio. Così ci dicono che Achille, nella grande Iliade, rappresenta la rabbia o la parte irascibile della natura umana e che nell’episodio in cui Achille sta per lanciare in un’affollata assemblea una daga contro il suo comandante, Pallade, che in quella occasione lo controlla e lo consiglia, è solo un altro nome della ragione: alla sua prima apparizione lo tocca sulla testa, quella parte dell’uomo che si ritiene sia la sede della ragione. E così per il resto del poema. Per quanto concerne l’Odissea io penso che sia chiaro che Orazio la ritenesse una di quelle favole allegoriche, dato che di numerose sue parti ci fornisce una morale. I maggiori talenti italiani si sono dedicati alla scrittura di quest’ultimo genere di favole; anche la Faire Queen di Spencer è una serie continua di esse dall’inizio alla fine di quel lavoro ammirevole. Se noi esaminiamo i migliori autori di prosa dell’antichità, come Cicerone, Platone, Senofonte e molti altri, troveremo che questo era anche il loro genere di favola preferito. Inoltre riguardo a ciò osserverò che la prima favola di questo tipo che fece un’importante figu4 ra nel mondo fu quella di Ercole che incontra il piacere e la virtù, favola che fu inventata da Prodico che visse prima di Socrate e nei primi albori della filosofia. Egli era solito viaggiare attraverso la Grecia in virtù di questa favola che gli procurò una benevola accoglienza in tutte le piazze delle città, dove egli mai mancò di raccontarla non appena avesse raccolto un pubblico intorno a lui. Dopo questa breve prefazione che io ho composto su tali materiali come la mia memoria al presente mi suggerisce, io prima di presentarmi al mio lettore con una favola di questo tipo e che io propongo come entertainment di questo foglio, devo spiegarne la ragione in poche parole. Nel resoconto che Platone ci fornisce della conversazione e del comportamento di Socrate quella mattina in cui doveva morire, egli racconta la circostanza seguente. Quando le sue catene furono slegate (come di solito si faceva il giorno in cui la persona condannata doveva essere giustiziata), Socrate seduto tra i suoi discepoli, con le gambe accavallate, in un atteggiamento noncurante, iniziò a farsi rosso nei punti dove era stato scorticato dal ferro; e o doveva mostrare l’indifferenza con cui egli accettava il pensiero della sua morte che si avvicinava, o doveva, secondo il suo solito, cogliere l’occasione per filosofeggiare su qualche argomento utile, allora egli osservò il piacere della sensazione che ora nasceva proprio in quelle parti della sua gamba che appena poco prima gli aveva fatto tanto male per la catena. Su questo egli rifletté, sulla natura del piacere e del dolore in generale e su come costantemente l’uno segua l’altro. A ciò egli aggiunse che, se un uomo dotato di spiccato genio per la favola dovesse rappresentare la natura del piacere e del dolore in quel genere di scrittura, probabilmente li unirebbe insieme in maniera tale che sarebbe impossibile per l’uno esistere senza l’altro. È possibile che, se Platone a quel tempo avesse ritenuto giusto descrivere Socrate che si lanciava in un discorso che non era in tema con l’argomento del giorno, avrebbe ampliato questo accenno e ne avrebbe tirato fuori qualche bella allegoria o favola. Ma poiché non lo ha fatto, tenterò di scrivere io nello spirito di quell’autore divino. 5 C’erano due famiglie che dall’inizio del mondo erano così opposte l’una all’altra come la luce all’oscurità. Una di esse viveva in paradiso, l’altra nell’inferno. Discendente più giovane della prima famiglia era il Piacere, figlio della Felicità, che a sua volta era figlia della Virtù, che era progenie degli dei. Questi, come ho detto prima, avevano la loro dimora in paradiso. Il più giovane della famiglia opposta era il Dolore, che era figlio dell’Infelicità, che era figlio del Vizio, che era progenie delle Furie. La dimora di questa razza di esseri era l’inferno. La posizione media della natura tra questi due estremi opposti era rappresentata dalla terra, che era abitata da creature di una razza intermedia né tanto virtuose come l’una né così viziose come l’altra, ma che condividevano le qualità buone e cattive di queste due famiglie opposte. Giove, considerando che questa specie, comunemente chiamata uomo, era troppo virtuosa per essere infelice e troppo viziosa per essere felice e, considerando che egli poteva fare una distinzione tra il bene e il male, ordinò ai due più giovani delle suddette famiglie, cioè il Piacere, che era figlio della Felicità, ed il Dolore, che era figlio dell’Infelicità, di incontrarsi in questa parte della natura che si trovava a mezza strada tra loro, e, avendo promesso di darla ad entrambi, fece in modo che essi potessero accordarsi sulla sua divisione, in modo da spartirsi il genere umano. Il Piacere e il Dolore non vollero incontrarsi nella loro nuova sede, ma immediatamente furono d’accordo su questo punto, ossia che il Piacere avrebbe preso possesso della parte virtuosa ed il Dolore della parte viziosa di quella specie che era stata loro consegnata. Ma esaminando a quale di esse ogni individuo incontrato appartenesse, essi trovarono che ciascuno aveva qualcosa di retto; perciò, contrariamente a ciò che avevano visto nei loro vecchi luoghi di residenza, non c’era nessuna persona così viziosa da non avere del bene in sé, né alcuna tanto virtuosa da non avere in sé il male. La verità è che essi scoprirono, in seguito alla ricerca, che nell’uomo più vizioso il piacere può aver diritto alla centesima parte e che nell’uomo più virtuoso il dolore può entrarci per almeno due terzi. Ciò che essi notarono avrebbe dato luogo a dispute interminabili tra loro, se non fossero giunti a qualche patto. A tal fine fu proposto e concluso tra loro un matrimonio. Per questo noi troviamo che il piacere e il dolore sono così costante6 mente legati e che o fanno sempre le loro visite insieme oppure non sono mai troppo distanti. Se il dolore arriva in un cuore, esso è velocemente seguito dal piacere; e se il piacere entra, si può essere certi che il dolore non è troppo lontano. Ma nonostante questo matrimonio fosse molto conveniente per le due parti, sembrava non rispondere a quelle che erano state le intenzioni di Giove nel mandarle tra il genere umano. Perciò per rimediare a questo inconveniente, si stipulò tra loro per contratto confermato col consenso di ogni famiglia che, sebbene loro sulla terra possedessero le specie in modo indifferenziato, alla morte di ogni singola persona, se si fosse trovata in lei una certa proporzione di male, essa sarebbe stata inviata nelle regioni infernali con un passaporto di dolore, e lì avrebbe dimorato con l’Infelicità, il Vizio e le Furie. O, al contrario, se ci fosse stata in essa una certa proporzione di bene, essa sarebbe stata inviata in paradiso con un passaporto di piacere, e lì avrebbe dimorato con la Felicità, la Virtù e gli Dei. L’origine delle favole di Bernard Le Bovier de Fontenelle* Siamo così assuefatti fin dall’infanzia alle favole dei Greci, che quando siamo in grado di ragionare, non le percepiamo stupefacenti, come sono in realtà. Ma non appena si squarcia il velo dell’abitudine, non si può che rimanere sgomenti vedendo che tutta l’antica storia di un popolo non è che un ammasso di chimere, sogni e assurdità. È possibile che tutto questo ci sia stato dato per vero? Per quale ragione avrebbero consegnato tali falsità? Quale sarà stato questo amore degli uomini per delle falsità palesi e ridicole, e perché non ha resistito nel tempo? Perché le favole dei Greci non erano come i nostri romanzi, che ci vengono dati per ciò che sono, e non per raccontare delle storie; ma gli antichi non avevano altre storie che le favole. Rischiariamo, se è possibile, questa materia; studiamo lo spirito umano in una delle sue più strane produzioni: è proprio là, spesso, che c’è il meglio da conoscere. * B. Le Bovier de Fontenelle, De l’origine des fables (1724), in Oeuvres completes, Tome II, G.B. Depping, Genève 1968. La traduzione è a cura di A.C. Bova. 8 Nei primi secoli del mondo, e presso i popoli che non avevano mai sentito parlare delle tradizioni della famiglia di Set, o che non le avevano conservate, l’ignoranza e la barbarie resistevano ad un livello tale che noi quasi non possiamo più figurarcelo. Immaginiamo i Cafri, i Lapponi e gli Irochesi, e badiamo bene che questi popoli, che pure sono antichi, hanno dovuto giungere ad un grado di conoscenza e di civiltà che i primi uomini non avevano. Nella misura in cui si è più ignoranti, e si ha meno esperienza, si vedono cose che appaiono prodigiose. I primi uomini videro dunque molti prodigi; e siccome i padri naturalmente raccontano ai loro bambini quello che hanno visto e quel che hanno fatto, non vi furono che portenti nelle narrazioni di quei tempi. Quando noi raccontiamo qualche cosa di sorprendente, la nostra immaginazione si eccita, ed è portata ad ingrandirla e ad aggiungere ciò che manca per renderla assolutamente meravigliosa, come se le dispiacesse di lasciare imperfetta una bella cosa. Inoltre, siamo lusingati dei moti di sorpresa e di ammirazione che provochiamo negli ascoltatori, e godiamo nell’aumentarli ancora, poiché ciò alimenta la nostra vanità. Queste due ragioni messe insieme fan sì che un uomo che non ha affatto l’intenzione di mentire, mentre comincia un racconto un po’ fuori dal comune, nonostante questo potrà, se ci fa caso, sorprendersi lui stesso e raccontar cose non vere; da questo deriva che si ha bisogno di una specie di sforzo e di un’attenzione particolare per dire solo l’esatta verità. Detto ciò, che accadrà a coloro che per natura amano inventare e suscitare ammirazione nel prossimo? I racconti che i primi uomini fecero ai loro bambini erano dunque spesso falsi di per sé, poiché erano fatti per persone propense a vedere cose che non esistevano; per di più, essendo esagerati, o in buona fede, secondo quanto abbiamo appena spiegato, o in malafede, eccoli – è chiaro – già belli e viziati alla fonte. Ma sicuramente sarà ancor peggio quando passeranno di bocca in bocca; ciascuno toglierà qualche piccolo tratto di vero, e ce ne metterà qualcuno falso, e specialmente del falso meraviglioso, che è il più piacevole; così può darsi che dopo un secolo o due, non solo non resterà niente del poco di vero 9 che vi era all’inizio, ma nemmeno ci resterà granché del primitivo falso. Si crederà quel che sto per dire? C’è stata della filosofia anche nei secoli rozzi, ed essa ha molto contribuito alla nascita delle favole. Gli uomini, che hanno un po’ più di genio degli altri, sono naturalmente portati a ricercare le cause di ciò che vedono. Da dove può venire questo fiume che scorre incessantemente? si è certo chiesto un contemplativo di quei secoli. Strana specie di filosofo, che forse in questo secolo sarebbe stato un Cartesio. Dopo una lunga meditazione, egli, molto felicemente, ha ritenuto che c’era qualcuno che aveva cura di versare sempre quest’acqua da una brocca. Ma chi riforniva costantemente quest’acqua? Il contemplativo non arrivava così lontano. Bisogna badare bene che queste idee, che possono considerarsi i sistemi filosofici di quei tempi, erano sempre mutuate dalle cose più note. Si era visto spesso versare dell’acqua da una brocca; si poteva dunque benissimo immaginare che un dio versasse l’acqua di un fiume, e, per la stessa facilità con cui lo si immaginava, si era del tutto portati a crederlo. Così, per dare spiegazione ai tuoni e ai fulmini, ci si figurava volentieri un dio in forma umana mentre lanciava sugli uomini delle frecce di fuoco; un’idea evidentemente presa da oggetti molto familiari. Questa filosofia dei primi secoli poggiava su un principio così naturale, che ancora oggi la nostra filosofia non ne ha altri; vale a dire che noi spieghiamo i misteri della natura mediante ciò che abbiamo davanti agli occhi, e che trasferiamo alla fisica i concetti che ricaviamo dall’esperienza. Abbiamo scoperto grazie alla pratica, non già per divinazione, le possibilità dei pesi, delle molle, delle leve; noi non facciamo agire la natura che attraverso delle leve, dei pesi e delle molle. Quei poveri selvaggi, che per primi hanno abitato il mondo, o non conoscevano affatto queste cose, oppure non vi avevano prestato alcuna attenzione. Essi spiegavano dunque i fenomeni naturali attraverso le cose più grossolane ed evidenti che conoscevano. Che cosa abbiamo fatto a nostra volta? Ci siamo costantemente rappresentati l’ignoto sotto le spoglie del noto; ma per fortuna ci sono tutte le ragioni del mondo per credere che ciò che non co10 nosciamo non assomigli affatto a quel che al momento conosciamo. Da questa filosofia grossolana che regnò necessariamente nei primi secoli, son nati gli dei e le dee. È molto curioso vedere come l’immaginazione umana ha generato le false divinità. Gli uomini vedevano cose che essi non avrebbero saputo fare; scagliare i fulmini, eccitare i venti, agitare le onde del mare, tutto ciò era molto al di sopra delle loro possibilità. Essi immaginarono degli esseri più potenti di loro, e capaci di produrre quei grandi effetti. Era ben necessario che quegli esseri fossero fatti come degli uomini, quale altra figura avrebbero potuto avere? dal momento che sono di figura umana l’immaginazione attribuisce loro naturalmente tutto ciò che è umano; eccoli uomini sotto tutti i punti di vista, tranne che essi sono sempre un po’ più potenti degli uomini. Da ciò deriva una caratteristica su cui forse non si è ancora riflettuto; cioè che in tutte le divinità immaginate dai pagani, essi hanno reso dominante l’idea del potere, mentre non hanno quasi considerato né la saggezza, né la giustizia, né tutti gli altri attributi propri della natura divina. Niente prova meglio che queste divinità sono molto antiche, né dimostra meglio la via che l’immaginazione ha seguito nel crearle. I primi uomini non conoscevano qualità migliore della forza del corpo; la saggezza e la giustizia non avevano nemmeno nome nelle lingue antiche, così come non ne hanno ancor oggi presso i popoli incivili d’America; d’altra parte la prima idea che gli uomini si formarono di un qualche essere superiore, essi la formarono su fenomeni straordinari, e non già sull’ordine regolato dell’universo che non erano in grado di riconoscere né di ammirare. Così immaginarono gli dei in un tempo in cui non potevano che attribuire loro se non il potere, e li immaginarono in circostanze che recavano chiari i segni del potere, e non della saggezza. Non è dunque sorprendente che essi abbiano immaginato molti dei, rissosi, crudeli, bizzarri, ingiusti, ignoranti; tutto ciò non è affatto contrario all’idea di forza e di potere che è la sola che essi si potessero rappresentare. Bisognava ben che questi dei risentissero sia del tempo in cui erano stati creati sia delle occasioni che li avevano generati. E comunque quale miserabile specie di potere si dava loro? Marte, il dio della guerra, è feri11 to da un mortale in un combattimento: questo toglie molto alla sua dignità; ma ritirandosi egli lancia un urlo tale che solo da diecimila uomini avrebbe potuto essere uguagliato: è grazie a questo urlo che Marte trionfa su Diomede; ed ecco quanto basta, secondo il sapiente Omero, per salvare l’onore del dio. Per il modo in cui è fatta, l’immaginazione si contenta di poco, e riconoscerà sempre come divinità chi avrà un po’ più di potere di un uomo. Cicerone ha detto da qualche parte che sarebbe stato meglio che Omero avesse trasferito le qualità degli dei agli uomini, invece di attribuire – come ha fatto – le qualità degli uomini agli dei. Cicerone chiedeva troppo: ciò che egli chiamava, nel suo tempo, le qualità degli dei, era del tutto sconosciuto al tempo di Omero. I pagani hanno costantemente modellato le loro divinità su se stessi, così a loro volta anche gli dei sono diventati migliori. I primi uomini sono estremamente brutali e al di sopra di tutto pongono la forza; gli dei saranno brutali quasi allo stesso modo e soltanto un po’ più potenti: ecco gli dei dell’età di Omero. Gli uomini cominciano a possedere i concetti di saggezza e di giustizia; gli dei diventano saggi e giusti, e lo sono sempre di più, nella misura in cui queste idee si perfezionano tra gli uomini: ecco gli dei dell’età di Cicerone, ed essi valevano molto di più di quelli del tempo di Omero, perché filosofi molto migliori vi erano intervenuti. Fin qui dunque i primi uomini hanno dato vita alle favole, senza averne, per così dire, colpa. Si è ignoranti e si vedono, di conseguenza, molti prodigi: si esagerano spontaneamente, raccontandole, le cose sorprendenti e queste si caricano ancora di altre falsità passando più volte di bocca in bocca; si fissano delle specie di sistemi filosofici molto rozzi e assurdi, ma non è possibile stabilirne altri. Vedremo ora che su queste basi gli uomini hanno in qualche modo goduto dei propri sbagli. Quel che noi chiamiamo filosofia dei primi secoli era in tutto adatta a mescolarsi con la storia dei fatti. Un giovinetto è caduto in un fiume e non si riesce a ritrovarne il corpo. Cos’è diventato? La filosofia del tempo insegna che ci sono nel fiume delle fanciulle a governarlo; queste giovani hanno rapito il ragazzo, ciò è del tutto naturale, non c’è bisogno di prove per crederci. Un uomo di cui non si conoscono i natali ha qualche talento straordina12 rio; ci sono stati dei, molto simili agli uomini; non si indaga oltre su chi sono i suoi genitori: egli è figlio di qualche divinità. Considerando con attenzione gran parte delle favole, si troverà che esse non sono altro che un intreccio di fatti con la filosofia del tempo, che dava la spiegazione più comoda al meraviglioso contenuto negli eventi e che si collegava ai fatti in maniera del tutto naturale. Non c’erano dei e dee che ci assomigliavano perfettamente, e che risultavano molto ben assortiti sulla scena con gli uomini. Poiché le storie di fatti veri mescolate con queste fantasiose immaginazioni ebbero un gran successo, si cominciò a costruirne anche senza occasioni particolari, o quanto meno non si raccontarono più eventi che fossero almeno un poco ragguardevoli, senza rivestirli di quegli ornamenti di cui era stato riconosciuto il gradimento presso il pubblico. Questi abbellimenti erano fantasie, e forse talvolta li si diede per tali; tuttavia le storie non venivano considerate fantastiche. Questo si capirà meglio attraverso una comparazione tra la nostra storia moderna e quella antica. Nelle epoche in cui si è avuto il massimo dell’ingegno, come nel secolo di Augusto e in quello presente, si è amato ragionare sulle azioni degli uomini, penetrarne i motivi e conoscerne i caratteri. Gli storici di questi secoli si sono adeguati a questo gusto: essi si sono ben guardati dal raccontare i fatti nudi e crudi, ma li hanno corredati di motivazioni, e vi hanno inserito i ritratti dei loro personaggi. Ma crediamo che questi ritratti e queste motivazioni siano rigorosamente veri? Attribuiamo ad essi la stessa veridicità dei nudi fatti? No, sappiamo molto bene che gli storici li hanno indovinati come han potuto, e che è quasi impossibile che vi siano sempre riusciti. Tuttavia non troviamo affatto sbagliato che gli storici abbiano cercato questo arricchimento che non esula dalla verosimiglianza ed è proprio a causa di questa verosimiglianza che nonostante questa presenza di falsità che sappiamo poter essere nelle nostre storie, non le guardiamo come se fossero delle favole. Allo stesso modo, dopo che per le vie che abbiamo detto i popoli antichi ebbero preso gusto a quelle storie dove comparivano dei e dee e in generale l’elemento meraviglioso, non si raccontarono più storie che non fossero adornate. Si sapeva 13 che queste potevano non essere vere; ma in quei tempi erano verosimili, e questo era sufficiente a conservare a quelle favole la qualità di storie. Ancora oggi gli Arabi riempiono le loro storie di prodigi e di miracoli, il più delle volte ridicoli e grotteschi. Senza dubbio questi sono considerati da loro soltanto degli abbellimenti da cui non si fa caso d’essere ingannati, poiché tra di loro è una sorta di convenzione quella di scrivere così. Ma quando queste storie passano ad altri popoli che hanno il gusto della veridicità dei racconti, o sono credute alla lettera, o quanto meno ci si persuade che esse siano state credute da chi le ha rese pubbliche, e da chi le ha accettate senza contraddizione. Certamente il malinteso è considerevole. Quando dicevo che il falso contenuto in queste storie era riconosciuto come tale, intendevo riferirmi alle persone un po’ istruite; poiché il popolo è destinato ad essere ingannato da tutto. Non solo nei primi secoli si spiegò con una filosofia chimerica ciò che c’era di sorprendente nella storia dei fatti; ma ciò che apparteneva alla filosofia lo si spiegava con storie di fatti immaginati a piacere. Si vedevano a Settentrione due costellazioni, chiamate le due Orse, che comparivano sempre e non tramontavano come le altre; non si immaginava certo che ciò accadeva perché esse si trovavano in direzione di un polo elevato rispetto allo sguardo degli spettatori. Non si sapeva tanto; si immaginò invece che di queste due Orse una era stata un tempo un’amante e l’altra un figlio di Giove e che poi erano state tramutate in costellazioni e la gelosa Giunone aveva pregato Oceano di non tollerare che esse discendessero presso di lui come le altre stelle, e vi si andassero a riposare. Tutte le metamorfosi sono la fisica dei tempi primitivi. Le more sono rosse, perché sono tinte del sangue di un amante e di una amante; la pernice vola sempre terra terra, perché Dedalo che fu trasformato in pernice, si ricordava della disgrazia di suo figlio che aveva volato troppo alto; e così di seguito. Non ho mai scordato che quando ero bambino mi dicevano che il sambuco aveva un tempo dei frutti buoni come quelli della vite; ma che, poiché il traditore Giuda si era impiccato a quest’albero, i suoi frutti erano diventati sgradevoli come sono ora. Questa favola non può essersi sviluppata che dopo il cristianesimo; ed essa è 14 proprio della stessa specie delle metamorfosi raccolte da Ovidio, il che dimostra che gli uomini sono sempre inclini a questi tipi di storie. Esse danno la doppia soddisfazione di stupire con qualche elemento meraviglioso e di soddisfare la curiosità con la ragione apparente che esse forniscono di qualche fenomeno naturale e molto noto. Oltre tutti questi elementi peculiari per la nascita delle favole, ce ne sono stati altri due più generali che le hanno molto favorite. Il primo è quello di inventare cose simili a quelle acquisite, o di spingerle più avanti inseguendo le loro consequenzialità. Qualche avvenimento straordinario avrà fatto credere che un dio era stato innamorato di una donna; così tutte le storie saranno piene di dei innamorati. Credete quello, perché non dovreste credere questo? Se gli dei hanno dei figli, li amano, dispiegano tutta la loro potenza per loro quando è necessario, ed ecco una fonte inesauribile di prodigi che non si potrà trattare come assurdi. Il secondo principio che consolida i nostri errori è il rispetto cieco dell’antichità. I nostri padri l’hanno creduto: pretenderemo noi di essere più saggi di loro? Queste dure regole unite insieme fanno meraviglie. L’una, sul più piccolo pretesto che la debolezza della natura umana abbia fornito, estende una sciocchezza all’infinito, l’altra, non appena la sciocchezza ha preso piede, la conserva per sempre. L’una, poiché siamo già in errore, ci induce a permanervi sempre di più; e l’altra ci impedisce di trarcene fuori, proprio perché ci siamo stati un po’ di tempo. Ecco, secondo tutte le apparenze, quello che ha spinto le favole all’alto grado di assurdità a cui sono giunte, e quel che ve le ha mantenute: poiché ciò che la natura vi ha messo direttamente non era né così ridicolo, né in così grande quantità; e gli uomini non sono affatto così folli da aver potuto partorire, tutto ad un tratto, tali fantasticherie, crederci e metterci così tanto tempo a disingannarsene, a meno che non vi si fossero intrecciati i due principii che abbiamo appena considerato. Esaminiamo gli errori di questi secoli, troveremo che gli eventi stessi li hanno generati, estesi e conservati. È vero che noi non siamo arrivati alle enormi assurdità delle antiche favole dei Greci; ma è perché noi non siamo partiti da un punto al15 trettanto assurdo. Anche noi come loro sappiamo molto bene estendere e conservare i nostri errori, ma per fortuna essi non sono così grandi, perché noi siamo illuminati dalla luce della vera religione, e, a mio parere, da qualche barlume dell’autentica filosofia. Di solito si attribuisce l’origine delle favole alla vivace immaginazione degli Orientali; quanto a me, l’attribuisco all’ignoranza dei primi uomini. Mettete un popolo giovane sotto il polo: le sue prime storie saranno favole; e in effetti le antiche storie del Nord non ne sono tutte piene? Non vi sono che giganti e maghi. Io non dico che un sole vivo e ardente non possa dare agli ingegni un ulteriore stimolo, tale da perfezionare la predisposizione che essi hanno a pascersi di favole, ma tutti gli uomini hanno per questo dei talenti indipendenti dal sole. Così, in tutto ciò che ho appena detto, io ho ipotizzato negli uomini solo ciò che è ad essi comune, e che deve produrre il proprio effetto sia nelle zone fredde, sia in quelle torride. Io sottolinerei, semmai, una stupefacente conformità tra le favole degli Americani e quelle dei Greci. Gli Americani spedivano le anime di quelli che avevano vissuto male in certi laghi paludosi e infelici; così come i Greci li inviavano sulle rive dei fiumi Stige e Acheronte. Gli Americani credevano che la pioggia venisse da una fanciulla che stava fra le nuvole a giocare con il suo fratellino, il quale le rompeva la brocca piena d’acqua: questo non assomiglia molto a quelle ninfe delle sorgenti, che versano l’acqua delle loro urne? Secondo le tradizioni del Perù, l’incas Manco Guyna Capac, figlio del sole, trovò il mezzo, grazie alla sua eloquenza, di trarre dal fondo delle foreste gli abitanti del paese, che vi vivevano come bestie, e li fece vivere secondo leggi ragionevoli. Orfeo fece altrettanto per i Greci, e anche lui era figlio del sole: il che mostra che i Greci furono un tempo dei selvaggi, proprio come gli Americani, e che furono tratti dalla barbarie con gli stessi sistemi; e che le fantasie di questi due popoli così distanti si sono uniformate nel credere figli del sole coloro che avevano delle capacità straordinarie. Poiché i Greci con tutto il loro ingegno, quando erano ancora un popolo giovane, non pensavano più ragionevolmente dei barbari d’America, che erano secondo tutte le apparenze un popolo abbastanza nuovo quando furono scoperti dagli 16 Spagnoli, c’è motivo di credere che anche gli Americani sarebbero giunti alla fine a ragionare come i Greci, se si fosse lasciata loro la possibilità. Si trova anche presso gli antichi Cinesi il metodo che avevano gli antichi Greci di inventare delle storie per dare spiegazione ai fenomeni naturali. Da dove viene il flusso e il riflusso del mare? È chiaro che non penseranno all’influenza della luna sul moto terrestre. Una principessa ebbe cento figli, e cinquanta abitarono sulle rive del mare, mentre gli altri cinquanta sulle montagne. Da quelli si originarono due grandi popoli, spesso in guerra tra loro. Quando quelli che abitavano le coste hanno la meglio su quelli delle montagne e li spingono in avanti, si ha il flusso; quando ne sono respinti e fuggono dalle montagne verso le coste si ha il riflusso. Questo modo di ragionare assomiglia abbastanza a quello delle Metamorfosi di Ovidio; così dunque è vero che la stessa ignoranza ha prodotto pressappoco gli stessi effetti presso tutti i popoli. È per questa ragione che non c’è un solo popolo la cui storia non cominci con delle favole, ad eccezione del popolo eletto, presso il quale un’attenzione particolare della Provvidenza ha conservato la verità. Con quale stupefacente lentezza gli uomini arrivano ad elaborazioni razionali, sia pure elementari! Conservare la memoria dei fatti così come essi sono accaduti, non è una grande scoperta; tuttavia passeranno molti secoli prima che gli uomini fossero in grado di farlo, e fino a quel momento i fatti di cui si conserverà il ricordo non saranno che visioni e sogni. Si avrebbe grande torto, dopo tutto ciò che abbiamo detto, ad essere sorpresi che la filosofia ed il modo di ragionare siano stati, per un gran numero di secoli, molto rozzi e imperfetti, e che ancora oggi i progressi siano così lenti. Presso la maggior parte dei popoli, le favole si volsero in religione; ma inoltre, presso i Greci, esse diventarono, per così dire, piacere. Siccome esse non alimentano che idee conformi al gioco d’immaginazione più comune tra gli uomini, la poesia e la pittura vi si adattarono perfettamente, e si sa quale passione avevano i Greci per queste belle arti. Divinità di ogni specie sparse ovunque, che rendono tutto vivo e animato, che s’interessano a tutto, e, ciò che è più importante, divinità che agiscono spesso in maniera sorprendente non possono non fare un 17 effetto piacevole, sia nella poesia, sia nella pittura, dove si tratta di sedurre l’immaginazione presentandole oggetti che essa coglie facilmente e che, nello stesso tempo, la colpiscono. E la fantasia non avrebbe goduto delle favole, visto che proprio da essa queste sono nate? Quando la fantasia o la pittura le hanno messe in opera per presentarne lo spettacolo alla nostra immaginazione, esse non hanno fatto che restituirle le sue creature. Gli errori, una volta stabiliti tra gli uomini, sono soliti mettere radici molto profonde, e appigliarsi a tutto quanto li possa sostenere. La religione e il buon senso ci hanno disingannati sulle favole dei Greci, ma queste si mantengono ancora fra di noi con la mediazione della poesia e della pittura, alle quali sembra che esse abbiano trovato il segreto di rendersi necessarie. Benché noi siamo incomparabilmente più istruiti di coloro il cui spirito grezzo inventò in buona fede le favole, riprendiamo molto agevolmente lo stesso modo di intendere gli eventi che rese loro le favole così piacevoli; quelli se ne nutrivano, perché ci credevano, mentre noi ce ne nutriamo con altrettanto godimento senza credervi; niente mostra meglio che immaginazione e ragione non hanno rapporto tra di loro, e che le cose rispetto alle quali la ragione è completamente disingannata non perdono nulla del loro piacere per quanto riguarda l’immaginazione. Fino a questo momento abbiamo considerato nella nostra storia sull’origine delle favole solo ciò che deriva dall’essenza della natura umana, e in effetti è questo l’elemento qualificante; ma a questo si sono aggiunte motivazioni estranee, cui non dobbiamo rifiutare un ruolo. Per esempio, essendo i Fenici e gli Egizi popoli più antichi dei Greci, le loro favole passarono ai Greci, e s’ingigantirono in questo passaggio, e persino i loro racconti più veri si trasformarono in favole. La lingua fenicia, e forse anche l’egizia, era piena di parole equivoche; d’altra parte i Greci non capivano né l’una né l’altra, ed ecco una fonte straordinaria di errori. Due Egiziani, il cui nome significa “colomba”, sono venuti ad abitare nella foresta di Dodona per predire in quel luogo la buona ventura; i Greci capiscono che si tratta di due vere colombe, appollaiate sugli alberi a fare profezie; ben presto sono gli alberi stessi a vaticinare. Un certo ti18 mone di naviglio ha un nome fenicio che significa anche “parlante”. I Greci, nel racconto della nave Argo, inventano che c’era un timone che parlava. Gli eruditi di questi ultimi tempi hanno trovato mille altri esempi, da cui si evince chiaramente che l’origine di numerose favole consiste in ciò che si chiama volgarmente “qui pro quo”, e che i Greci erano molto soggetti a incorrervi nel fenicio e nell’egizio. Secondo me i Greci, che avevano tanta intelligenza e tanta curiosità, mancavano invece dell’una o dell’altra, nel non provvedere ad imparare perfettamente quelle lingue, o nel trascurarle. Non sapevano forse che quasi tutte le loro città erano in origine delle colonie egizie o fenicie, e che la maggior parte dei loro antichi miti provenivano da quei paesi? Le origini della loro lingua e le tradizioni del loro paese non dipendevano forse da quelle due lingue? Ma erano lingue barbare, dure e per nulla melodiose. Strane finezze! L’invenzione della scrittura servì a diffondere le favole, e ad arricchire un popolo di tutte le sciocchezze di un altro; ma si ebbe anche come vantaggio il fatto che l’incertezza della tradizione orale fu in parte eliminata, che l’insieme delle favole non continuò a crescere più tanto, rimanendo più o meno al punto in cui l’invenzione della scrittura lo aveva trovato. L’ignoranza diminuì poco a poco, e di conseguenza si videro meno prodigi, si costruirono meno sistemi filosofici falsi, le storie furono meno fantastiche; poiché tutto ciò è concatenato. Fino a quel momento si era conservato il ricordo degli accadimenti del passato solo per pura curiosità; ma poi ci si accorse che poteva essere utile ricordarli sia per conservare la memoria degli eventi che onoravano le nazioni, sia per decidere controversie che potevano nascere tra i popoli, sia per fornire degli esempi di virtù; e io credo che questo fine sia stato l’ultimo cui si è pensato, benché sia quello su cui si fa il maggior chiasso. Tutto ciò richiedeva che la storia fosse vera; intendo vera, in opposizione alle storie antiche, che erano infarcite di assurdità. Si cominciò dunque in qualche nazione a scrivere la storia in modo più ragionato, generalmente verosimile. Allora non compaiono più nuove favole, ci si accontenta unicamente di conservare quelle antiche. Ma che cosa non possono gli spiriti follemente innamorati dell’antichità? Ci si immagina che queste favole celino i segreti della fisica e della mora19 le. Possibile che gli antichi abbiano prodotto assurdità tali senza sottintendervi qualche metafora? Il nome degli antichi incute sempre rispetto; ma certamente coloro che hanno inventato le favole non erano persone in grado di sapere di morale o di fisica, né di trovare l’artificio di mascherarle tramite le immagini. Non cerchiamo, nelle favole, altro che gli errori dello spirito umano. Ne diventa meno capace, dal momento che conosce fino a che punto ne è capace. Non è scienza essersi riempiti la testa di tutte le stravaganze dei Fenici e dei Greci, lo è invece sapere che cosa ha condotto Fenici e Greci a queste stravaganze. Tutti gli uomini si somigliano talmente che non c’è popolo le cui sciocchezze non debbano farci tremare. Favole di Voltaire* Le favole più antiche non sono forse chiaramente allegoriche? La prima che conosciamo, almeno secondo la nostra maniera di computare il tempo, non è quella che viene riferita nel nono capitolo del libro dei Giudici? Bisognava scegliere un re fra gli alberi: l’olivo non volle abbandonare la cura del suo olio, né il fico quella dei suoi fichi, né la vigna quella del suo vino, né gli altri alberi quella dei loro frutti; il cardo, che non era buono a niente, si fece re, perché aveva delle spine e poteva fare del male1. L’antica favola di Venere, quale è riferita in Esiodo, non è forse un’allegoria dell’intera natura?2 Le parti della generazione caddero dall’etere sulla riva del mare: Venere nacque da questa spuma preziosa, il suo primo nome è quello di amante della generazione. C’è forse immagine più evidente? Venere è la dea della bellezza; la bellezza ces* Voltaire, voce Favole (1764, con aggiunta parziale del 1765), in Dizionario filosofico, edizione condotta sul testo critico, a cura di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 1977. 21 sa di essere amabile se procede senza le grazie; la bellezza fa nascere l’amore; l’amore ha radici che trafiggono i cuori; porta una benda sugli occhi, che nasconde i difetti di chi si ama. La saggezza è concepita nel cervello del signore degli dèi sotto il nome di Minerva; l’anima dell’uomo è un fuoco divino che Minerva mostra a Prometeo, il quale si serve di questo fuoco divino per animare l’uomo. È impossibile non riconoscere in queste favole una pittura viva dell’intera natura. La maggior parte delle altre favole sono o la corruzione delle storie antiche, o il capriccio dell’immaginazione. Accade alle favole antiche come ai nostri racconti moderni: ce ne sono di morali, molto dilettevoli, e ce ne sono di insipidi. Le favole3 degli antichi popoli ingegnosi sono state rozzamente imitate dai popoli rozzi: testimoni quelle di Bacco, di Ercole, di Prometeo, di Pandora e tante altre; esse erano il trattenimento del mondo antico. I barbari, che ne udirono parlare confusamente, le fecero entrare nella loro selvaggia mitologia e poi osarono dire: «Le abbiamo inventate noi». Ahimè, poveri popoli ignorati e ignoranti, che non avete conosciuto nessuna arte, né utile né piacevole, fra cui non giunse mai nemmeno il nome di geometria, potete forse dire di avere inventato qualcosa? Voi non avete saputo né scoprire delle verità, né mentire abilmente. Note Libro dei Giudici, cap. IX, 8-15, in Antico Testamento. Esiodo, Teogonia, esametri 188-198. 3 Capoverso aggiunto nel 1765 (ed. Varberg). 1 2 Mitologia di Louis de Jancourt* MITOLOGIA. Storia favolosa degli dei, dei semidei e degli eroi dell’antichità come lo stesso nome designa. L’Enciclopedia considera ancora, sotto questo nome, tutto ciò che ha qualche rapporto con la religione pagana cioè: i diversi sistemi e dogmi della teologia, che si sono stabiliti successivamente nelle diverse età del paganesimo; i misteri e le cerimonie del culto di cui erano onorate certe pretese divinità; gli oracoli, le forze, gli augùri, gli auspìci, i presagi, i prodigi, le espiazioni, gli atti di devozione, le evocazioni e ogni genere di divinazione che è stato in uso; le pratiche e le funzioni dei sacerdoti, degli indovini, delle sibille, delle vestali; le feste e i giochi; i sacrifici e le vittime; i templi, gli altari, i tripodi e gli strumenti dei sacrifìci; i boschi sacri, le statue, e generalmente tutti i simboli sotto i quali l’idolatria si è perpetuata tra gli uomini durante un così gran numero di secoli. * L. de Jancourt, voce Mytologie, in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, tomo X, Faulche & Compagnie, Neufchastel 1765. La traduzione è a cura di A.L. Saladino. 23 La mitologia, considerata in questa maniera, costituisce la più grande branca degli studi delle Belle lettere. Non si possono intendere perfettamente le opere dei Greci e dei Romani, che la remota antichità ci ha trasmesso, senza una profonda conoscenza dei misteri e dei costumi religiosi del paganesimo. Gli uomini, quegli stessi che si mostrano meno curiosi e amanti delle Scienze, sono obbligati ad iniziarsi alla conoscenza della mitologia, perché essa è divenuta di uso così frequente nelle nostre conversazioni che chiunque ne ignori gli elementi deve temere di passare per uno che sia sprovvisto dei più ordinari lumi di un’educazione comune. Il suo studio è indispensabile ai pittori, agli scultori, soprattutto ai poeti e generalmente a tutti quelli il cui obiettivo è d’abbellire la natura e di piacere all’immaginazione. È la mitologia che costituisce il fondo delle loro produzioni, da cui essi traggono i loro principali ornamenti. Essa decora i nostri palazzi, le nostre gallerie, i nostri soffitti e i nostri giardini. La favola è il patrimonio delle Arti; è una sorgente inesauribile di idee ingegnose, di immagini ridenti, di soggetti interessanti, di allegorie, di emblemi, il cui uso più o meno felice dipende dal gusto e dal genio. Tutto agisce, tutto respira in questo mondo incantato dove gli enti intellettuali hanno corpi, dove gli enti materiali sono animati, dove le campagne, le foreste, i fiumi, gli elementi hanno le loro divinità particolari; personaggi chimerici, lo so, ma il ruolo, che essi giocano negli scritti degli antichi poeti, e le frequenti allusioni dei poeti moderni li hanno dotati di realtà. I nostri occhi hanno familiarizzato con tutto questo al punto che noi fatichiamo a guardarli come esseri immaginari. In generale si è affermata la convinzione che le storie favolose sono il quadro deformato degli eventi dell’antichità: si vuol trovare una successione, una concatenazione, una verosimiglianza che esse non hanno. La critica si accontenta di spogliare i fatti delle favole d’un meraviglioso sovente assurdo e di sacrificare i dettagli per conservarne il fondo. Ad essa basta aver ridotto le divinità al semplice rango di eroi, gli eroi al rango degli uomini, per credere di essere in diritto di difenderne l’esistenza; sebbene forse di tutte le divinità del paganesimo, solo Ercole, Castore, Polluce e qualche altro, sono stati verosimilmente degli uomini. Evemero, autore di questa ipotesi che minò i fon24 damenti della religione popolare, apprestandosi a spiegarla, ebbe nell’antichità stessa un gran numero di seguaci; e la folla dei moderni ne ha seguito le orme. Quasi tutti i nostri mitologi, poco d’accordo tra loro riguardo alle interpretazioni dei particolari, sono uniti nel condividere un principio che la maggior parte suppone incontestabile. È il punto comune da cui essi partono; e i loro sistemi, malgrado le differenze che li distinguono, sono tutti degli edifici costruiti sulla medesima base, con gli stessi materiali combinati differentemente. Dovunque è evemerismo, commentato in un modo più o meno plausibile. Bisogna considerare che questa riduzione del meraviglioso al naturale è una delle chiavi della mitologia greca, ma questa chiave non è la sola, né la più importante. I Greci, dice Strabone, usavano proporre, sotto l’apparenza delle favole, le idee che essi avevano non solamente sulla Fisica e sugli altri oggetti relativi alla Natura e alla Filosofia, ma anche sui fatti della loro storia antica. Questo passaggio indica una differenza essenziale tra le diverse opere di finzione che formano il corpo della favola. Ne risulta che alcune avevano rapporto con la Fisica generale; che altre esprimevano delle idee metafisiche attraverso delle immagini sensibili; che le più, infine, conservavano qualche traccia delle prime tradizioni. Le favole di questa terza classe erano le sole storiche, e queste sono le sole che sia permesso alla sana critica di collegare con i fatti conosciuti dei tempi antichi. Compito della critica è quello di ristabilire l’ordine; cercare, se è possibile, una connessione conforme a ciò che noi sappiamo di verosimile sull’origine e la mescolanza dei popoli, mettendo a nudo le circostanze esterne che di anno in anno l’hanno denaturata; considerarla, in una parola, come una introduzione alla storia dell’antichità. Le finzioni di questa terza classe hanno un carattere proprio che le distingue da quelle il cui fondo è mistagogico o filosofico. Queste ultime, assemblaggio confuso di meraviglioso e assurdità, devono essere relegate nel caos da dove lo spirito di sistema ha preteso vanamente di tirarle fuori. Di là esse possono fornire ai poeti delle immagini e delle allegorie, per il resto lo spettacolo che esse offrono alle nostre riflessioni, tutto strano com’è, ci istruisce attraverso la sua 25 stessa bizzarria. In esso è impresso il corso dello spirito umano; in esso si scopre la tempra del genio nazionale dei Greci. Essi ebbero l’arte di immaginare, il talento di dipingere e la fortuna di sentire, ma a causa di uno sregolato amor di sé e del meraviglioso, essi abusarono di questo felice dono della natura; vani, leggeri, portati alla voluttà e credulità, essi adottarono, a spese della ragione e dell’etica, tutto ciò che poteva autorizzare la licenza, blandire l’orgoglio e dar carriera alle speculazioni metafisiche. La natura del politeismo, tollerante per essenza, permetteva l’introduzione dei culti stranieri, e ben presto questi culti, naturalizzati in Grecia, s’incorporarono ai riti antichi. I dogmi e gli usi, confusi insieme, formano un tutto di cui le parti originariamente poco d’accordo tra loro, non giunsero a conciliarsi che a forza di spiegazioni e di cambiamenti fatti da una parte e dall’altra. Le combinazioni, ovunque arbitrarie e suscettibili di varietà all’infinito, si diversificarono e si moltiplicarono all’infinito secondo i luoghi, le circostanze e gli interessi. Le rivoluzioni verificatesi successivamente nelle diverse regioni della Grecia, la mescolanza dei suoi abitanti, la diversità della loro origine, i loro commerci con nazioni straniere, l’ignoranza del popolo, il fanatismo e la falsità dei sacerdoti, le sottigliezze dei metafisici, i capricci dei poeti, le sviste degli etimologisti, le esagerazioni così familiari agli entusiasti di ogni specie, la singolarità delle cerimonie, la segretezza dei misteri, l’illusione delle magie, tutto influì a gara sul fondo, sulla forma, su tutte le branche della mitologia. Era un terreno vago, ma immenso e fertile, aperto indifferentemente a tutto, del quale ciascuno si appropriava, dal quale ciascuno spiccava il volo senza subordinazione, senza accordo, senza lo scambio culturale che produce uniformità. Ogni paese, ogni territorio aveva i suoi dei, i suoi errori, le sue pratiche religiose, come le sue leggi e i suoi costumi. La stessa divinità, cambiando tempio, cambiava nome, attributi, funzioni. Essa perdeva in una città ciò che in un’altra aveva usurpato. Un così gran numero di opinioni, circolando di luogo in luogo, perpetuandosi di secolo in secolo, si scontrava, si mescolava, in seguito si separava per poi ricongiungersi più lontano; e queste credenze, ora alleate, ora in conflitto, si accomodavano reci26 procamente in mille e mille modi diversi, come la moltitudine degli atomi, sparsi nel vuoto, si distribuisce, secondo Epicuro, in corpi di ogni specie, composti, organizzati, distrutti dal caso. Questo quadro basta per mostrare che non si deve di gran lunga trattare la mitologia come la storia e che pretendere di trovarvi dappertutto dei fatti, e dei fatti legati insieme e rivestiti di circostanze verosimili, sarebbe sostituire un nuovo sistema storico a quello che ci hanno trasmesso, sulle prime età della Grecia, scrittori come Erodoto e Tucidide, testimoni ben più credibili quando trattano delle antichità della loro nazione, rispetto ai mitologi moderni, a loro confronto, compilatori senza critica e senza gusto, poeti il cui privilegio è di fingere senza aver l’intenzione di ingannare. La Mitologia non è dunque affatto un tutto composto di parti corrispondenti: è un corpo informe, irregolare ma piacevole nei particolari; è il confuso miscuglio delle chimere dell’immaginazione, dei sogni, della Filosofia e dei frantumi della storia antica. Impossibile l’analisi. O almeno non si perverrà mai ad una scomposizione tanto intellettualistica da essere in condizione di separare l’origine di ogni finzione, e meno ancora l’origine dei particolari di cui ogni finzione è l’assemblaggio. La Teogonia di Esiodo e di Omero è la base sulla quale hanno lavorato tutti i teologi del paganesimo, cioè i preti, i poeti e i filosofi. Ma a forza di sovraccaricare questo fondo e di deformarlo mentre lo si abbelliva, essi lo hanno reso irriconoscibile. E in mancanza di monumenti, noi non possiamo determinare con precisione ciò che la favola deve a tale o tal altro poeta in particolare, ciò che appartiene a tale o tal altro popolo, a tale o tal altra epoca. Ce n’è abbastanza per giudicare in quanti errori siano caduti i nostri migliori autori, volendo continuamente spiegare le favole e conciliarle con la storia antica dei diversi popoli del mondo. L’uno, intestardito dei suoi Fenici, li trova ovunque e cerca negli equivoci frequenti della loro lingua lo svelamento di tutte le favole; l’altro, innamorato dell’antichità degli Egizi, li guarda come i soli padri della teologia e della religione dei Greci, e crede di scoprire il significato delle loro favole nelle interpretazioni capricciose di qualche oscuro geroglifico; altri ancora, intravedendo nella Bibbia qualche vestigia dell’antico 27 eroismo, fanno risalire l’origine della favola all’abuso preteso che i poeti fecero dei libri di Mosè che essi non conoscevano affatto; e su minime somiglianze costruiscono paralleli forzati tra gli eroi della favola e quelli delle Sacre Scritture. Alcuni tra i nostri intellettuali riconoscono tutte le divinità del paganesimo tra i Siriani; altri tra i Celti; qualcuno quasi presso i Germani e i Suedi; ognuno si comporta come se le favole formassero presso i poeti un unico corpo coerente fatto dalla stessa persona, in uno stesso tempo, in un medesimo paese e sugli stessi principi. Sono circa vent’anni che ha fatto la sua comparsa un nuovo sistema mitologico, quello dell’Autore della Storia del Cielo. M. Pluche si è persuaso che la Scrittura simbolica presa sommariamente, nel senso che essa presentava a prima vista e non in quello che era destinata a significare allo spirito, è stata non solamente il primo fondo della pretesa esistenza di Iside, d’Osiride e del loro figlio Horus, ma anche di tutta la mitologia pagana. Si arrivò, dice Pluche, a prendere per degli esseri reali delle figure di uomini e di donne che erano state immaginate per dipingere dei bisogni. In una parola, secondo questa critica d’altra parte molto ingegnosa nelle sue interpretazioni, gli dei, i semidei come Ercole, Minosse, Rhadamante, Castore e Polluce, non sono affatto degli uomini, sono delle pure figure che servivano da ammaestramento simbolico. Ma questo sistema singolare non può realmente sostenersi, perché, lungi dall’essere autorizzato dall’antichità, esso anzi la contraddice senza tregua minando tutta la storia da cima a fondo. Ora, se c’è un fatto di cui gli stessi scettici farebbero fatica a dubitare nei loro momenti di ragionevolezza, è che alcuni dei o semidei del paganesimo sono stati uomini deificati dopo la loro morte; onore di cui essi erano debitori alle buone azioni da loro procurate ai loro concittadini o al genere umano in generale. Così i nostri scrittori si sono invischiati in mille errori differenti per volerci dare continue spiegazioni di tutta la mitologia. Ciascuno vi ha scoperto ciò che il suo genio particolare e il campo dei suoi studi l’hanno spinto a cercare. Che dico io! I fisici vi trovano sotto forma di allegorie i misteri della natura; il politico le ricercatezze della saggezza dei governanti; il filosofo la più bella morale; il chimico stesso i segreti della sua arte. In28 fine, ciascuno ha guardato la favola come un paese di conquista, dove ha creduto di aver diritto di fare delle irruzioni conformi al suo gusto e ai suoi interessi. Si è indicato, alla voce Favola, il compendio delle ricerche di M. l’abbé Banier sulle sue diverse fonti: è ugualmente piacevole e utile leggere le sue spiegazioni di tutta la Mitologia; su questa materia si troveranno dei brani più approfonditi scritti da M. Freret in Recueil de l’Académie des Belles Lettres. Da «Sistema della Natura» di Paul-Henry d’Holbac* Qualunque valore abbiano queste congetture, o che la razza umana sia sempre esistita sulla terra o che essa sia sulla terra una produzione recente e passeggera della natura, è facile risalire fino all’origine di parecchie nazioni esistenti. Le vediamo sempre nello stato selvaggio, cioè composte di famiglie disperse, le quali si avvicinano dietro l’ordine di taluni legislatori o missionari da cui ricevono i benefici, le leggi, le opinioni e gli dèi. Questi personaggi, di cui i popoli riconobbero la superiorità, fissarono le divinità nazionali, lasciando ad ogni individuo gli dèi che si era formato secondo le proprie idee o sostituendo loro dei nuovi, portati da regioni da cui essi stessi venivano. Per imprimere meglio le loro lezioni negli spiriti, questi uomini, diventati i dottori, le guide ed i maestri delle società nascenti, parlarono all’immaginazione dei loro ascoltatori. La poesia, con le sue immagini, le sue finzioni, la sua base quantitativa1, la sua armonia ed il suo ritmo, colpì lo spirito dei po* P.-H. d’Holbac, Sistema della Natura (1770), a cura di A. Negri, Utet, Torino 1978, tomo I, pp. 388-400. 30 poli ed impresse nella loro memoria le idee che si volle loro dare; dall’ascolto di essa, l’intera natura fu animata: questa fu personificata come tutte le sue parti; la terra, l’aria, le acque, il fuoco furono dotati dell’intelligenza, del pensiero, della vita; gli elementi furono divinizzati. Il cielo, questo immenso spazio che ci circonda, diventò il primo degli dèi; il tempo, suo figlio, che distrusse le proprie opere, fu una divinità inesorabile, che si temette e si riverì sotto il nome di Saturno; la materia eterea, questo fuoco invisibile che vivifica la natura, penetra e feconda tutti gli esseri, è il principio del movimento e del calore, fu chiamato Giove. Questi sposò Giunone, la dea dell’aria; le sue combinazioni con tutti gli esseri della natura furono espresse con le sue metamorfosi ed i suoi frequenti adulteri; lo si armò della folgore, con cui si volle indicare che produceva le meteore. Secondo le stesse finzioni, il sole, quest’astro benefico che influisce in maniera così notevole sulla terra, diventò un Osiris, un Belo, un Mitra, un Adone, un Apollo; la natura, rattristata dal suo allontanamento periodico, fu un’Iside, un’Astarte, una Venere, una Cibele. Da ultimo, tutte le parti della natura furono personificate: il mare fu sotto il dominio di Nettuno; il fuoco fu adorato dagli Egiziani sotto il nome di Serapide, sotto il nome di Ormus o di Oromazo dai Persiani, sotto il nome di Vesta o di Vulcano presso i Romani2. Tale è dunque la vera origine della mitologia. Figlia della fisica abbellita dalla poesia, fu destinata unicamente a rappresentare la natura e le sue parti. Man mano che ci si degna di consultare l’antichità, ci si accorgerà senza sforzo che i saggi famosi, i legislatori, i preti, i conquistatori che istruirono le nazioni nell’infanzia, adoravano essi stessi o facevano adorare al volgo la natura che agisce o il grande tutto, considerato secondo le sue diverse operazioni o qualitàa. È questo grande tutto che hanno divinizzato; sono queste parti che hanno personificato; è della necessità delle sue leggi che hanno fatto il Destino: l’allegoria ne mascherò il modo di agire e, da ultimo, furono le parti di questo grande tutto che l’idolatria rappresentò con simboli e figureb. Per completare la prova che qui si è addotta, e per far vedere che era il grande tutto, l’universo, la natura delle cose a co31 stituire il vero oggetto del culto dell’antichità pagana, diamo qui l’inizio dell’inno di Orfeo, rivolto al dio Pan. «O Pan! Ti invoco, o dio possente, natura universale! I cieli, i mari, la terra che tutto nutre ed il fuoco eterno; ed invero sono là le tue membra, o Pan onnipossente, ecc.». Niente è più idoneo, a confermare queste idee, della spiegazione ingegnosa che un autore moderno dà della favola di Pan come della figura con la quale lo si era rappresentato. «Pan» – dice – «secondo il significato del suo nome, è l’emblema con il quale gli antichi hanno designato l’insieme delle cose: egli rappresenta l’universo; e, nello spirito dei più saggi filosofi dell’antichità, passava per il primo e più antico degli dèi. I tratti con cui lo si raffigura, formano il ritratto della natura e dello stato selvaggio in cui si trovava all’inizio. La pelle picchiettata del leopardo di cui questo dio si copriva era l’immagine dei cieli colmi di stelle e di costellazioni. La sua persona era coperta di parti, delle quali talune convengono all’animale razionale, cioè all’uomo, altre all’animale sprovvisto di ragione, come il becco. È così, dice, che l’universo è composto di un’intelligenza che governa tutto e degli elementi fecondi e prolifici del fuoco, dell’acqua, della terra e dell’aria. Pan ama inseguire le ninfe, il che mostra il bisogno che la natura ha dell’umidità per tutte le sue produzioni e che questo dio, come la natura, è fortemente incline alla generazione. Secondo gli Egiziani e i più antichi dei saggi della Grecia, Pan non aveva né padre né madre; era nato da Demorgone nello stesso istante che le Parche, sue sorelle fatali5: bel modo di esprimere che l’universo era l’opera di un potere sconosciuto e che era stato formato secondo i rapporti invariabili e le leggi eterne della necessità! Ma il suo simbolo più significativo e più idoneo ad esprimere l’armonia dell’universo è il suo flauto, composto di sette canne disuguali ma idonee a produrre gli accordi più giusti e più perfetti. Le orbite descritte dai sette pianeti nel nostro sistema solare hanno diametri differenti e sono percorse in tempi diversi da corpi disuguali per la massa; tuttavia, è dall’ordine dei loro movimenti che risulta l’armonia che vediamo nelle sfere ecc.»c. Ecco dunque il grande tutto, l’insieme delle cose adorato e divinizzato dai saggi dell’antichità, mentre il volgo si fermava all’emblema, al simbolo col quale gli si mostrava la natura, le 32 sue parti e le sue funzioni personificate. Il suo spirito limitato non gli permise mai di risalire più in là; unicamente coloro che si giudicarono degni di essere iniziati ai misteri conobbero la realtà nascosta da questi emblemi. Ed invero i primi istitutori delle nazioni ed i loro successori nell’autorità parlarono solo attraverso favole, enigmi, allegorie, che si riservarono il diritto di spiegar loro. Questo tono misterioso era necessario sia per nascondere la propria ignoranza sia per conservar loro il potere su un volgo che ordinariamente non rispetta se non colui che non può comprendere. Le loro spiegazioni furono sempre dettate dall’interesse, dall’impostura o dall’immaginazione in delirio: non fecero, di secolo in secolo, che rendere meno intelligibili la natura e le sue parti che originariamente si era voluto rappresentare. Queste furono sostituite da una folla di personaggi immaginari, con i tratti dei quali si erano rappresentate: i popoli le adoravano senza penetrare il vero senso delle favole che se ne raccontavano. Questi personaggi ideali e le loro figure materiali, in cui si credette risiedesse una virtù divina e misteriosa, furono gli oggetti del loro culto, delle loro paure, delle loro speranze; le loro azioni stupende ed incredibili furono una fonte inesauribile di ammirazione e di fantasticherie, che si trasmisero di epoca in epoca e che, necessarie all’esistenza dei ministri degli dèi, non fecero che raddoppiare l’accecamento del volgo. Questo non indovinò affatto ciò che erano la natura, le sue parti, le sue operazioni, le passioni dell’uomo e le sue facoltà che si erano oppresse sotto un ammasso di allegoried; ebbe occhi solo per i personaggi emblematici che servivano loro di velo, attribuì loro i suoi beni ed i suoi mali, cadde in tutte le specie di follie e di furori per renderli propizi ai suoi voti: così, non conoscendo la realtà delle cose, il suo culto degenerò spesso nelle più crudeli stravaganze e nelle follie più ridicole. Tutto prova dunque che la natura e le sue diverse parti sono state dappertutto le prime divinità degli uomini. Fisici le osservarono bene o male e ne colsero alcune delle proprietà e maniere di agire; poeti le dipinsero all’immaginazione e prestarono loro corpo e pensiero: preti adornarono queste divinità di mille attributi meravigliosi e terribili; il popolo le adorò, si prosternò dinanzi a questi esseri così poco suscettibili d’amore o 33 di odio, di bontà o di malvagità e, come vedremo in seguito, divenne cattivo e perverso per piacere a tali potenze che gli si rappresentarono sempre con tratti odiosi. A forza di ragionare e di meditare su questa natura così abbellita o piuttosto sfigurata, gli speculatori che seguirono non riconobbero più la fonte da cui i predecessori avevano attinto gli dèi e gli ornamenti fantastici di cui li avevano rivestiti. Fisici e poeti, trasformati dal tempo libero e da vane ricerche in metafisici e teologi, credettero di aver fatto un’importante scoperta distinguendo sottilmente la natura da se stessa, dalla sua energia, dalla sua facoltà di agire. Fecero a poco a poco di questa energia un essere incomprensibile, che personificarono, chiamarono il motore della natura, indicarono col nome di Dio e di cui non poterono mai formarsi idee certe. Quest’essere astratto e metafisico, o piuttosto questa parola, fu l’oggetto delle loro contemplazioni perpetuee. Lo considerarono non solo un essere reale, ma anche il più importante degli esseri; e, a forza di fantasticare e di sottilizzare, la natura scomparve: fu spogliata dei suoi diritti, fu considerata una massa priva di forza e di energia, un ammasso ignobile di materia puramente passiva che, incapace di agire di per se stessa, non poté piu essere concepita operante senza il concorso del motore che le si era associato. Così, si preferì una forza sconosciuta a quella che si sarebbe stati in grado di conoscere se ci si fosse degnati di consultare l’esperienza; ma l’uomo cessa presto di rispettare ciò che intende e di stimare gli oggetti che gli sono familiari, si rappresenta del meraviglioso in tutto ciò che non concepisce: il suo spirito si affatica soprattutto per cogliere ciò che sembra sfuggire ai suoi sguardi e, per difetto di esperienza, finisce col consultare unicamente la sua immaginazione che lo pasce di chimere. Di conseguenza, gli speculatori che avevano sottilmente distinto la natura dalla sua forza si sono successivamente affaticati a rivestire questa forza di mille qualità incomprensibili. Siccome non videro affatto questo essere, il quale non è che un modo, ne fecero uno spirito, un’intelligenza, un essere incorporeo, cioè una sostanza totalmente differente da tutto ciò che conosciamo. Non si accorsero mai che tutte le loro invenzioni e le parole che avevano escogitato servivano unicamente a ma34 scherarne l’ignoranza reale, e che tutta la loro pretesa scienza si limitava a dire con mille circonlocuzioni che si trovavano nell’impossibilità di comprendere come la natura agisse. Ci inganniamo sempre perché non studiamo la natura, usciamo fuori strada tutte le volte che vogliamo uscire dalla natura; ma ben presto siamo costretti a rientrarvi o a sostituire parole che non intendiamo alle cose che conosceremmo molto meglio se volessimo vederle senza pregiudizio. Un teologo può in buona fede credersi più illuminato per aver sostituito le parole vaghe di spirito, di sostanza incorporea, di divinità alle parole intelligibili di materia, di natura, di mobilità, di necessità? Ad ogni modo, una volta escogitate queste parole oscure, fu necessario connettere loro delle idee e non le si poté attingere che negli esseri di questa natura disdegnata che sono sempre i soli che possiamo conoscere. Gli uomini le attinsero dunque in se stessi: la loro anima servì di modello all’anima universale, il loro spirito fu il modello dello spirito che regola la natura, le loro passioni ed i loro desideri furono il prototipo dei suoi, la loro intelligenza fu il modello della sua, ciò che di essi conveniva loro fu chiamato l’ordine della natura, quest’ordine preteso fu la misura della sua saggezza: da ultimo, le qualità che gli uomini chiamano perfezioni in se stessi furono i modelli in piccolo delle perfezioni divine. Così, nonostante tutti i loro sforzi, i teologi furono e saranno sempre antropomorfisti o non potranno impedirsi di fare dell’uomo il modello unico della loro divinitàf. Ed invero l’uomo nel suo dio non vide e non vedrà mai che un uomo. Ha un bel sottilizzare, ha un bell’intendere il suo potere e le sue perfezioni, ne farà sempre solo un uomo gigantesco, esagerato, che renderà chimerico a forza di accumulare su di lui qualità incompatibili: vedrà sempre in Dio solo un essere della specie umana di cui si sforzerà di ingrandire le proporzioni al punto da farne un essere totalmente inconcepibile. È in base a queste disposizioni che si attribuiscono l’intelligenza, la saggezza, la bontà, la giustizia, la scienza, la potenza alla divinità, perché l’uomo è lui stesso intelligente, perché ha l’idea della saggezza in taluni esseri della sua specie, perché ama trovare in essi disposizioni a lui stesso favorevoli, perché stima quelli che mostrano equità, perché ha lui stesso conoscenze che 35 vede in taluni individui più estese che in lui, da ultimo perché gode di certe facoltà che dipendono dalla sua organizzazione. Ben presto estende o esagera tutte queste qualità: la vista dei fenomeni della natura, che si sente incapace di produrre o di imitare, lo induce a mettere differenza tra il suo dio e lui, ma non sa dove fermarsi; avrebbe paura di ingannarsi se osasse fissare i limiti delle qualità che gli assegna; la parola infinito è il termine astratto e vago di cui si serve per caratterizzarle. Dice che la sua potenza è infinita: questo significa che non comprende dove il suo potere può arrestarsi alla vista dei grandi effetti di cui lo fa autore. Dice che la sua bontà, la sua saggezza, la sua clemenza sono infinite: il che significa che ignora fin dove queste perfezioni possono giungere in un essere la cui potenza sorpassa tanto la sua. Dice che questo dio è eterno, cioè infinito per la durata, perché non comprende che abbia potuto cominciare o possa mai cessare di esistere, cosa che stima un difetto negli esseri transitori che vede dissolversi e soggetti alla morte. Presume che la causa degli effetti di cui è testimone è necessaria, immutabile, permanente e non soggetta a mutare come tutte le sue opere passeggere che sa soggette alla dissoluzione, alla distruzione, al mutamento di forma. Poiché questo preteso motore è sempre invisibile, operante in una maniera impenetrabile e nascosta, l’uomo crede che, simile al principio nascosto che anima il suo corpo, questo dio è il motore dell’universo: di conseguenza, ne fa l’anima, la vita, il principio del movimento della natura. Da ultimo, quando, a forza di sottilizzare, è giunto a credere che il principio che muove il suo corpo è uno spirito, una sostanza immateriale, fa il suo dio spirituale o immateriale; lo fa immenso, sebbene sprovvisto di estensione; lo fa immutabile, sebbene capace di muovere la natura e sebbene lo supponga l’autore di tutti i mutamenti che si hanno nella natura8. L’idea dell’unità di dio fu una conseguenza dell’opinione che questo dio era l’anima dell’universo: tuttavia, non può essere che il frutto tardivo delle meditazioni umaneg. La vista degli effetti opposti e spesso contraddittori che si verificavano nel mondo dovette persuadere che dovesse esservi un grande numero di potenze o di cause distinte ed indipendenti le une dalle altre. Gli uomini non poterono immaginare che gli effetti co36 sì diversi che vedevano derivassero da una sola e medesima causa; ammisero dunque più cause o più dèi operanti su princìpi differenti: gli uni furono considerati potenze amiche, gli altri potenze nemiche del genere umano. Tale è l’origine del dogma così antico e così universale che suppose nella natura due princìpi o due potenze opposte di interessi e perpetuamente in guerra, con cui si credette di spiegare il miscuglio costante di beni e di mali, di prosperità e di disgrazie, in una parola, le vicissitudini cui il genere umano è soggetto in questo mondo. Ecco la causa delle lotte che tutta l’antichità suppose tra gli dèi buoni e cattivi, tra Osiris e Tifone, Orosmane ed Arimane, Giove ed i Titani, Jehova e Satana9. Tuttavia, per il loro interesse, gli uomini hanno sempre promesso tutto il vantaggio di questa guerra alla divinità benefattrice: questa, secondo loro, doveva alla fine rimanere padrona del campo di battaglia; fu interesse degli uomini che le arridesse la vittoria. Anche quando gli uomini non riconobbero che un solo dio, supposero sempre che le differenti parti della natura fossero da lui affidate a potenze soggette ai suoi ordini supremi, sulle quali il sovrano degli dèi scaricava le cure dell’amministrazione del mondo. Questi dèi subalterni furono moltiplicati all’infinito: ogni uomo, ogni città, ogni contrada ebbero le loro divinità locali e tutelari; ogni evento, felice o infelice, ebbe una causa divina e fu la conseguenza di un decreto sovrano; ogni passione dipese da una divinità che l’immaginazione teologica disposta a vedere dèi dappertutto e a trascurare sempre la natura abbellì o sfigurò, la poesia esagerò ed animò nelle sue rappresentazioni, l’ignoranza avida accolse con prontezza e soggezione. Questa è l’origine del politeismo; questi sono i fondamenti ed i titoli della gerarchia che gli uomini stabilirono tra gli dèi, perché si sentirono sempre incapaci di elevarsi fino all’essere incomprensibile che avevano riconosciuto come il sovrano unico della natura, senza averne mai idee ben distinte. Questa è la vera genealogia degli dèi di ordine inferiore, che i popoli posero come medi proporzionali tra loro e la causa prima di tutte le altre cause. Presso i Greci ed i Romani vediamo, di conseguenza, gli dèi divisi in due classi: gli uni furono chiamati i grandi deih e formarono un ordine aristocratico che si distinse dai piccoli dèi o dalla folla delle divinità pagane. Tuttavia, i primi 37 come gli ultimi furono sottomessi al fato, cioè a quello che visibilmente e solo la natura che agisce con leggi necessarie, rigorose, immutabili: questo destino fu considerato come il dio degli stessi dèi. Si vede che non è altro che la necessità personificata e che c’era incoerenza nei pagani a stancare con i sacrifici e le preghiere divinità che credevano sottomesse, esse stesse, al destino inesorabile, di cui non era loro mai possibile infrangere i decreti. Ma gli uomini cessano sempre di ragionare quando si tratta delle loro nozioni teologiche. Ciò che si è detto mostra ancora l’origine comune di una folla di potenze medie, subordinate agli dèi, ma superiori agli uomini, delle quali si è riempito l’universoi. Esse furono venerate col nome di ninfe, di semidèi, di angeli, di demoni, di buoni e di cattivi geni, di spiriti, di eroi, di santi ecc. Questi esseri costituirono differenti classi di divinità intermedie, che diventarono gli oggetti delle speranze e delle paure, delle consolazioni e degli sgomenti dei mortali: questi li inventarono unicamente perché erano nell’impossibilità di concepire l’essere incomprensibile che governava il mondo come capo supremo e nella disperazione di poter trattare direttamente con lui. Nondimeno, a forza di meditare, taluni pensatori sono giunti a non ammettere nell’universo che una sola divinità la cui potenza e saggezza bastavano a governarlo. Questo dio fu considerato il monarca geloso della natura; ci si persuase che significherebbe offenderlo dare dei rivali e degli associati al sovrano cui soltanto erano dovuti gli omaggi della terra; si credette che non poteva essere il signore di un impero diviso; si suppose che un potere infinito ed una saggezza senza limiti non avevano bisogno né di divisione né di aiuto. Così, taluni pensatori più sottili degli altri non hanno ammesso che un solo dio e si sono vantati di aver fatto con ciò una scoperta importantissima. Tuttavia, fin dal primo passo, il loro spirito dovette essere gettato nei più grandi imbarazzi per le contrarietà di cui si dovette supporre autore questo dio; di conseguenza, si fu costretti ad ammettere in questo dio monarca qualità contraddittorie, incompatibili, disparate, che si escludevano reciprocamente, visto che lo si vedeva produrre ad ogni istante effetti molto opposti e smentire evidentemente le qualità che gli si erano assegnate. Supponendo un dio unico autore di tutte le cose, non ci 38 si può dispensare dall’attribuirgli una bontà, una saggezza, un potere senza limiti, secondo i suoi benefici, secondo l’ordine che si credette di veder regnare nel mondo, secondo gli effetti meravigliosi che vi operava; ma, da un altro lato, come impedirsi di attribuirgli malizia, imprudenza, capriccio, alla vista dei disordini frequenti e dei mali innumerevoli di cui il genere umano è così spesso la vittima e di cui questo mondo è il teatro? Come evitare di tacciarlo di imprudenza, vedendolo continuamente occupato a distruggere le proprie opere; come non supporre in lui impotenza vedendo l’inesecuzione perpetua dei progetti che si supponeva dio avesse? Si credette di sciogliere queste difficoltà creandogli dei nemici che, sebbene subordinati al dio supremo, non cessassero di turbarne l’impero e di frustrarne le vedute: se n’era fatto un re, gli si vollero dare degli avversari che, nonostante la loro impotenza, vollero disputargli la corona. Questa è l’origine della favola dei Titani o degli Angeli Ribelli10, che l’orgoglio fece cadere in un abisso di miserie e che furono mutati in demoni o geni malefici: questi non ebbero altra funzione se non quella di rendere inutili i progetti dell’Onnipotente, di sedurre e di sollevare contro di lui gli uomini suoi sudditik. Note a. I Greci chiamavano la natura una divinità che aveva mille nomi (Muriånumov). Tutte le divinità del paganesimo non erano altro che la natura considerata secondo le sue differenti funzioni e dai suoi differenti punti di vista. Gli emblemi di cui si ornavano tali divinità provano ulteriormente questa verità. Le maniere diverse di considerare la natura han fatto nascere il politeismo e l’idolatria. V. Benoit, Remarques critiques contre Toland, p. 2583. b. Per convincersi di questa verità non si ha che da leggere gli autori antichi. Credo, dice Varrone, che Dio è l’anima dell’universo, che i Greci hanno chiamato kóvmov, e che l’universo stesso è Dio. Cicerone dice: «Eos qui Dii appellantur rerum naturas esse» (= «Quelli che si chiamano Dèi sono natura»). V. De natura deorum, Libro III, cap. 24. Lo stesso Cicerone dice che, nei misteri di Samotracia, di Lemno e di Eleusi, era molto più la natura che gli dèi che si spiegava agli iniziati. «Rerum magis natura cognoscitur quam deorum» (= «Si conosce più la natura che gli dèi»). Aggiungete a queste testimonianze autorevoli il libro della Saggezza, cap. XIII, v. 10 e cap. XIV, vv. 15 e 22. Plinio dice con un tono molto dogmatico: Bisogna credere che il mondo, o ciò che è contenuto sotto la vasta estensione dei cieli, è la divinità stessa, eterna 39 immensa, senza inizio né fine. V. Plinio, Hist. Naturalis, Libro II, cap. I, inizio4. c. Questo passo è tratto da un libro inglese intitolato Letters concerning mythology6. Non si può troppo dubitare che i più saggi tra i pagani non abbiano adorato la natura, che la mitologia o la teologia pagana designavano con una infinità di nomi e di emblemi differenti. Apuleio, per platonico che fosse e nutrito delle nozioni mistiche e inintelligibili del suo maestro, chiama la natura «rerum natura parens, elementorum omnium Domina, saeculorum progenies initialis..., matrem siderum, parentem temporum, orbisque totius dominam» (= «creatrice delle cose, signora di tutti gli elementi, principio dei secoli, madre delle stelle, creatrice dei tempi, signora di tutto il mondo»). È questa natura che gli uni adoravano col nome di madre degli dèi, altri col nome di Venere, di Cerere, di Minerva ecc. Da ultimo, il politeismo dei pagani è perfettamente provato da queste parole notevoli di Massimo di Madaura che, parlando della natura, dice: «Ita fit ut, dum de eius quasi membra carptim, variis supplicationibus persequimur, totum colere profecto videamur» (= «Così avviene che, mentre con diverse forme di culto adoriamo le singole parti della natura prese ad una ad una, in realtà sembra che adoriamo il tutto»). d. Le passioni degli uomini e le loro facoltà furono divinizzate, perché gli uomini non potevano indovinarne le cause vere. Siccome le passioni forti sembra che trascinino l’uomo suo malgrado, si attribuirono a un dio o si divinizzarono: è così che l’amore divenne dio. L’eloquenza, la poesia, l’applicazione negli affari furono divinizzate col nome di Ermes, di Mercurio, di Apollo. I rimorsi furono chiamati Furie. Tra i cristiani, la ragione è ancora divinizzata col nome di Verbo eterno. e. La parola greca qeóv viene da tíqhmi, pono, facio o, piuttosto, da qeáomai, specto, contemplor. f. L’uomo, dice Montaigne, non può essere se non ciò che è né immaginare se non secondo la sua portata. Ha bell’a ingegnarsi, non conosce altra anima che la sua. Si diceva a un uomo molto celebre che dio aveva fatto l’uomo a sua immagine. L’uomo l’ha ben ripagato di ciò, replicò questo filosofo. Senofane diceva che, se il bue e l’elefante sapessero scolpire o dipingere, non mancherebbero di rappresentare la divinità secondo la propria immagine e che, ciò facendo, avrebbero altrettanta ragione che Policleto o Fidia avevano nel dargli la forma umana. Vediamo, dice La Mothe Le Vayer, che la teantropia serve di fondamento a tutto il cristianesimo7. g. L’idea dell’unità di dio, come si sa, costò la vita a Socrate. Gli Ateniesi trattarono come ateo un uomo che credeva ad un solo dio. Platone non osò rompere interamente con il politeismo: conservò Venere, creatrice, Pallade, divinità locale, un Giove onnipotente. I cristiani furono considerati atei dai pagani, perché non adoravano che un solo dio. h. I Greci chiamavano i grandi dèi qeoì kábeiroi, Cabiri, i Romani li chiamavano Dii majorum gentium o Dii consentes, perché tutte le nazioni si erano accordate a divinizzare le parti più sorprendenti e più attive della natura, come il sole, il fuoco, il mare, il tempo ecc., mentre gli altri dèi erano puramente locali, cioè non erano onorati che in particolari regioni o da particolari uomini. Si sa che a Roma ogni cittadino aveva dèi solo per lui, che adorava col nome di penati, di lari ecc. 40 i. Sono gli dèi che i Romani chiamavano dii medioximi: li consideravano come intercessori, mediatori delle potenze che bisognava onorare per ottenerne i favori e per allontanarne la collera o la malevolenza. k. La favola dei Titani o degli angeli ribelli è antichissima e diffusissima nel mondo: serve di fondamento alla teologia dei bramini dell’Indostan come a quelle dei preti europei. Secondo i bramini, tutti i corpi viventi sono animati da angeli caduti che, sotto queste forme, espiano la ribellione. Questa favola, come quella dei demoni, fa godere un ruolo molto ridicolo alla divinità: ed invero suppone che essa si crea avversari per esercitarsi, per tenersi in allenamento e per far risplendere il suo potere. Tuttavia, questo potere non risplende in alcun modo, poiché, secondo le nozioni teologiche, il Diavolo ha molto più seguaci della divinità. 1 Nel testo: nombres. 2 Un piccolo campione di mitologia comparata. 3 Elie Benoit (1640-1728), teologo francese. 4 Marco Terenzio Varrone Reatino (116-28 a.C.), poligrafo romano; Caio Plinio Secondo il Vecchio (23-79), grande naturalista romano, la cui Naturalis Historia è citata nel frontespizio della seconda parte del Système, nell’ed. londinese del 1774. 5 Pan, dio greco della vita agreste e delle montagne. Anche divinità cosmica (pán = tutto). 6 L’autore inglese citato è Thomas Blackwell (1701-1757), filologo inglese, le cui Letters fatte intervenire escono nel 1748; Lucio Apuleio di Madaura (nato intorno al 125), scrittore latino, celebre autore delle Metamorfosi o l’Asino d’oro; Massimo di Madaura, grammatico latino del IV secolo: nel testo di lui riportato si deve leggere «ita fit ut, dum» ecc. e non «ita fit ut, de» ecc. 7 Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), filosofo francese del Rinascimento, autore dei celebri Essays; Senofane (vissuto tra il 580 e il 480 a.C.), fondatore della Scuola eleatica, una delle più importanti del periodo della filosofia presocratica, critico dell’antropomorfismo; Fidia (450 circa a.C.), pittore ateniese; Policleto di Sicione (450 circa a.C.), scultore greco. 8 Prosegue, implacabile, il disoccultamento razionalistico della teologia. 9 Le diverse divinità e antidivinità egizie, persiane, greche, cristiane sono razionalisticamente accostate se non confuse. 10 Si noti, anche qui, l’accostamento tra i Titani greci e gli angeli ribelli cristiani. Da «Della perfetta poesia italiana» di Ludovico Antonio Muratori* Libro I, capitolo XI Ne’ principali Poemi adunque, cioè nell’Epopeia, e nella Tragedia, e Commedia il Maraviglioso Nobile è quello che, tratto dalla Natura propria delle cose, ha l’aria di Verisimile, e si conosce possibile ancor da i saggi. Questo è quello, che altamente dee stimarsi, e lodarsi; laddove quel de’ Romanzi è privo di nobiltà, e per lo più è sol bastante a farci ridere. La maniera, con cui i Greci si renderono padroni di Troia; la virtuosa gara di Leone, e Ruggiero; la morte di Clorinda, e altri simili fatti, senza macchine soprumane, sono maravigliosi, e hanno quel Nobile Verisimile, che da noi si desidera. Per lo contrario non sappiamo intendere, come gli antichi potessero commendar cotanto Omero, che nulla fa quasi operare a gli Eroi senza gli Dei in macchina. Che Verisimile è quello del 20 dell’Iliade, ove essendosi da Ettore avventata contra Achille un’asta, Minerva * L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, Marzorati, Milano 1971. 42 tosto accorrendo la soffia, e rivolge indietro, facendola cadere a piè del feritore? Il furore del Fiume Xanto, Vulcano che abbrucia il fiume, e cento altre somiglianti operazioni rapportate nell’Iliade, non dovrebbono ora lodarsi, perché non Verisimili alla Natura di quelle cose, considerata da gli uomini saggi. Contenevano queste per avventura il Verisimile popolaresco, e Romanzesco, cioè poteano comparir verisimili al rozzo-popolo; ma non doveva Omero voler cotanto adattarsi al genio credulo del volgo, ed empiere di tante macchine il suo Poema, perché ciò era un’offendere la dilicatezza della gente scienziata. Per altro non si ha da mettere interamente in ceppi la Fantasia Poetica. È lecito in qualche maniera a i Poeti il valersi ancor del Verisimile Popolare, non iscrivendo eglino ai soli dotti, ma eziandio agl’ignoranti; e in questi ultimi gran maraviglia, e sommo diletto partoriscono le operazioni visibili del Mondo superiore, che miracoli, e prodigi s’appellano. Senza che, bisogna talvolta soccorrere alla Materia, che per se stessa non è abbastanza mirabile, affinché essa non rimanga insipida, languida, e fredda. Ma necessaria sopra tutto è una gran parsimonia nell’uso di questo Verisimile. Anzi per maggior cautela converrà sempre osservare che le macchine soprumane operino con qualche verisimile necessità, come gli Spiriti d’Inferno nella Gerusalemme del Tasso, e non per solo capriccio, come i tanti Maghi, ed incantesimi introdotti dall’Ariosto, e da altri Romanzatori. Che nella Guerra sacra nel tempo del Buglione vi fossero de gl’incantatori dalla parte de’ Saracini, le Storie antiche ne danno testimonianza. Altresì può sembrarci Verisimile talvolta in Omero, che Marte, o Minerva porgano soccorso, o consiglio a qualche Eroe, e che l’assistano per viaggio, come fa Minerva sotto sembianza di Mentore nell’Ulissea; perché queste due false Deità significano il Valor militare, e la Prudenza di quel guerriero, dal buon’uso invisibile delle quali Virtù, renduto visibile dal Poeta, è quell’Eroe ben consigliato, e difeso dalla morte, o da altri pericoli. Sicché allora l’Intelletto apprende una Verità significata da quelle Immagini. Ma il soffiare indietro l’asta d’Ettore non ha verun fondamento verisimile appresso i dotti, nulla significa, e pende sol da una macchina, che si poteva, o dovea risparmiare in quel luogo. Siccome figurandosi per Minerva condottiera e assistrice, e aiutatrice di Te43 lemaco la Sapienza, non fu poi molto Verisimile, ch’essa il conducesse in traccia d’Ulisse per tutta la Grecia, fuorché nel luogo, ov’egli appunto si trovava. Nella stessa maniera molti movimenti de gli Dii sognati da’ Gentili poterono dirsi nobilmente Verisimili, perché sensibilmente s’esprimevano con essi quelle inspirazioni, quegli aiuti, e que’ gastighi, che invisibilmente sogliono venir dal Cielo a gli uomini, e che ancor dalla gente scienziata si potevano probabilmente stimare accaduti in quelle tali circostanze, azioni, e persone. Nulla per lo contrario di Verisimil nobile può trovarsi nelle ferita, che Marte nell’Iliade riceve da Diomede, e nel suo pianto fanciullesco alla presenza di Giove, che perciò il rampogna, e di poi fa chiamar Peone medico de gli Dei, acciocché lo guarisca. Altre simili macchine si scontrano per l’Iliade, nulla significanti, ed affatto inverisimili ai dotti, e forse anche al volgo antico, essendo ben necessaria una solenne sciocchezza per creder verisimili quelle Favole in persone, che pur nel medesimo tempo si teneano per divine. Da i partigiani d’Omero so, che si produrranno molte difese; ma lasciando io gli antichi Poeti, mi ristringo ai moderni, e dico: Doversi usar gran parsimonta del Verisimile popolare ne’ Poemi Epici; doversi per quanto si può cavare il Maraviglioso della Natura propria delle cose, che si trattano, e delle persone, che s’introducono, cagionando questo, quando però sia Verisimile, quel nobil diletto, che dal buon Gusto Poetico si richiede. Le cose puramente naturali, ma straordinarie, ma nuove, sono ancor più difficili da trovarsi, che non è il Maraviglioso de’ Romanzi, e perciò dan più gloria a i valenti Poeti. Queste, perché umane, son facilmente ricevute dalla nostra credenza; e sono accolte con ammirazione, perché rare, perché sollevate sopra l’uso ordinario delle umane operazioni. In due parole: il grande, e l’umano assaissimo ci piacciono; ma nell’umano si dovrebbe schifare il mediocre, e nel grande il troppo favoloso. Aggiungo pure che, nella Lirica godendosi maggior libertà dalla Fantasia Poetica, si può quivi con più liberalità spacciare il Verisimile popolaresco. Ma nella Commedia, e Tragedia di gran lunga più che nell’Eroico è ristretta la giurisdizione della Fantasia; onde a lei non sarà, se non rade volte, e con qualche verisimile necessità, permesso il raggirare, o scio44 gliere con macchine soprumane le azioni rappresentate in Teatro. [...] Libro I, capitolo XIV [...] Ora la Fantasia collegata coll’Intelletto (e perciò obbligata a cercar qualche Vero) può, e suol produrre Immagini, che o dirittamente son Vere a lei, e tali ancor dirittamente appaiono all’Intelletto. Come chi vivamente, e con parole proprie descrive l’Arco celeste, la battaglia di due guerrieri, uno spiritoso cavallo, il moto, che fa nell’acqua d’un laghetto un sassolino gittatovi dentro, e simili cose. Queste Immagini rappresentano una Verità rapportata dal senso alla Fantasia, e tale ancor conosciuta dall’Intelletto dirittamente sono sol Verisimili alla Fantasia, e all’Intelletto le Immagini, come l’immaginar la scena funesta della rovina di Troia, l’arrivo d’Oreste in Tauri, la morte di Niso, e d’Eurialo, la pazzia d’Orlando, e simili cose immaginate dalla Fantasia, le quali sì a lei, come all’Intelletto compariscono affatto possibili, e Verisimili. O le Immagini son dirittamente Vere, o Verisimili alla Fantasia, ma solo indirettamente appaiono tali all’Intelletto. Come allorché la Fantasia in vedendo per cagion di esempio un ruscello, che fa mille giri per qualche bella campagna, immagina, e parle Vere, o Verisimile, ch’egli sia innamorato di quel terreno fiorito, e non sappia, o voglia trovar via d’abbandonarlo; la qual’Immagine fa non a dirittura (perché il senso diritto è falso) ma indirettamente concepire all’Intelletto ciò, ch’è Vero, cioè l’amenità di quel suolo, e i giri deliziosi di quel ruscello. Ancorché poi tutte queste diverse Immagini riconoscano per lor madre la Fantasia, e noi siamo per chiamarle Fantastiche, affin di distinguerle dalle Intellettuali, ed Ingegnose; contuttociò daremo propriamente il nome di Fantastiche alle ultime, cioè a quelle, che dirittamente contengono il Vero, o il Verisimile richiesto dall’Intelletto, apparendo in queste più, che nelle altre, il lavorio, e la forza della Fantasia. Le prime, e seconde Immagini si formano dalla Fantasia col dipinger le cose, come elle sono, o possono essere, e apparir naturalmente ai sensi, a lei, e all’Intelletto; e perciò 45 sono in parte Intellettuali, e si convien loro il nome di Semplici, e Naturali. Ma le terze riconoscono più evidentemente il lor’ essere dalla Fantasia, la quale insieme unisce due, o più Immagini Vere, e Naturali, per formarne una nuova, che mai naturalmente non è stata, né può essere, e apparire all’Intelletto, e perciò Immagini Artifiziali Fantastiche debbono da noi appellarsi. Per esempio, il volare è qualità propria, e naturale sol di chi è animato, e ha l’ali. Ecco la Fantasia, che agita l’Immagini sue, ed accoppia quella del volare con quella della Fama, immaginando, che la Fama voli, parli, ed operi, come se fosse dotata d’Anima. Parimenti il salutare è proprio sol dell’uomo; nondimeno la Fantasia unisce queste Immagini con quella d’un uccello, e immagina, che gli Augelletti salutino col Canto loro l’Aurora nascente. Dal che si scorge, che si fatte Immagini propriamente son prodotte dalla Fantasia, la quale va immaginando cose maravigliose, e nuove, che son false a chi ne considera il senso diritto. Ma perciocché indirettamente, cioè col significato loro, queste fanno intendere un qualche Vero, o Verisimile all’Intelletto, per questa cagione a lui pure piacciono, ed egli ancora nella lor formazione s’accorda colla Fantasia, permettendole un sì bel delirio, e consegnandole talvolta Immagini Intellettuali, acciocché essa le vesta con que’ suoi vaghi, e mirabili, benché menzogneri colori. [...] Libro I, capitolo XV [...] Altre Immagini Fantastiche ci sono, le quali son dirittamente Vere, o Verisimili alla Fantasia per cagion dell’Affetto. E veramente di queste ha da esser molto dovizioso l’erario Poetico. Fia perciò non poco utile il ben ravvisare la lor natura, e bellezza. Si formano queste dalla Fantasia, allorché essa commossa da qualche Affetto unisce due diverse Immagini semplici, e naturali; e dà loro una figura, o un essere differente da quanto le rappresénta il senso. Ciò facendo, per l’ordinario va la Fantasia immaginando come animate le cose, che sono senz’anima. Veggiamo, come il Petrarca parli, descrivendo la sua Donna, che si diporta per la campagna. 46 L’erbetta verde, e i fior di color mille Sparsi sotto quell’elce antica, e negra, Pregan pur, che ‘I bel piè li prema, o tocchi. Certamente il sentimento dell’Occhio, o dell’Orecchio, non aveva potuto portar questa Immagine alla Fantasia, non udendosi, o vedendosi mai fiori, che alla guisa de gli uomini preghino altrui. Dunque la Fantasia agitata dall’affetto, movendo le Immagini semplici, congiunge quella de’ Fiori colle azioni solite a vedersi negli uomini, e con tale artifizio dà vita ad un’Immagine sì gentile, e nuova, qual’è questa. Assai somigliante, e non men leggiadra di questa è quell’altra nel Son. 12 par. 2 dove dice. L’acque parlan d’amore, e l’ora, e i rami, E gli augelletti, e i pesci, e i fiori, e l’erba, Tutti insieme pregando, ch’io sempr’ ami. Virgilio altresì nella prima Egloga disse, che i fonti, e gli alberi chiamavano Titiro, che s’era allontanato da i lor campi. ... Ipsae te, Tityre, pinus, Ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant. E nell’Egloga 10 dice, che gli alberi, e i sassi piansero in udire il pianto, e i lamenti di Gallo. Illum etiam lauri, illum etiam flevere myricae; Pinifer illum etiam sola sub rupe canentem Maenalus, et gelidi fleverunt antra Lycaei. Nel che volle imitar Teocrito. E l’imitò pure nell’Egloga quinta, ove finge, che i Leoni piangessero la morte di Dafni. Daphni, tuum Poenos etiam ingemuisse Leones Interitum, montesque feri, sylvaeque loquuntur. Ancor queste Immagini, quantunque dirittamente da noi considerate sieno False, pure non parvero già tali alla Fantasia di Virgilio, il quale anzi le immaginò, e concepì come Vere. E 47 la sperienza ne fa continuamente fede. In un’Amante la Fantasia è tutta piena di quelle Immagini, che le sono trasmesse dall’oggetto amato. Lo Affetto violento le fa per esempio concepire come rara, e invidiabil fortuna l’essere vicino alla cosa, che s’ama, e l’essere da lei toccato. Quindi ella veramente, e naturalmente immagina, che tutte le altre cose, che l’erba, che i Fiori bramino, e sospirino questa felicità; e in tal guisa immaginò il Petrarca ne’ soprammentovati versi. Ora non può mettersi in dubbio che questa Immagine alla Fantasia non sembri o Vera, o almen Verisimile. E perciò sufficiente ragione ha il Poeta d’abbracciarla, e di adoperarla nella Poesia, a cui spezialmente si richiede la pompa delle proposizioni maravigliose, e nuove, come appunto è il veder fare azioni proprie di cose animate da una cosa inanimata. È questo un’inganno della Fantasia innamorata; ma il Poeta rappresenta questo inganno ad altrui, come nacque nella sua Immaginazione, per far loro comprendere con vivezza la violenza dell’affetto interno. [...] Libro I, capitolo XVI Abbiamo assai manifestamente con questi esempi fatto gustar la bellezza delle Immagini fabbricate dalla Fantasia. Ma perché nelle ultime da noi rapportate non saprà taluno riconoscere alcuna Verità o per parte dell’Intelletto, o per parte della Fantasia; altri ancora non sapranno intendere, perché queste sì fatte Immagini evidentemente False debbano dilettar gli uomini, essendosi tante volte da noi detto che il Falso dispiace, e che il Bello Poetico è fondato su qualche Vero: convien’ ora sciogliere le difficultà, e mettere ben’ in chiaro questa materia. Dico adunque, esser certo, che le buone Immagini Artifiziali della Fantasia han sempre anch’esse da esser fondate su qualche Vero, o Verisimile. Ma il Vero, o Verisimile è di due spezie, come s’è già accennato. L’uno è Vero secondo l’Intelletto, e l’altro secondo la Fantasia. Il Vero dell’Intelletto è quello, che dall’Intelletto è giudicato, e conosciuto internamente essere, o poter’esser tale qual si pronunzia, come: Che ogni uomo è animal ragionevole; che le Virtù sono stimabili per l’interna loro pre48 ziosità; che la Morte rapisce tutti i viventi; che Cesare fu da’ congiurati ucciso; che la Primavera sogliono fiorir le campagne; che Troia fu presa da’ Greci; e simili cose. Falso secondo l’Intelletto è ciò che da lui si conosce non essere, o non poter’essere internamente, e realmente, qual si rappresenta, o pronunzia, come: che gli uomini volino a guisa d’uccelli; che i Fiori parlino; che Amore sia un fanciullo coll’ali, e la Fortuna una Donna; che ci sieno delle Ninfe Dee del Mare, de’ Fiumi, de’ Fonti ecc. Il Vero secondo la Fantasia è quello che si concepisce come Vero, o appar Vero, e Verisimile alla stessa Fantasia; ed appunto a questa Potenza può comparir Vero tutto ciò che ora dicevamo esser Falso secondo l’Intelletto. Ora tutte le Immagini han da contener qualche Vero secondo l’Intelletto, o sieno queste Intellettuali, o sieno Fantastiche, con questa sola differenza, che le prime han da esser Vere, o Verisimili di fatto, ed esprimer dirittamente il Vero secondo l’Intelletto; e le seconde, cioè le Fantastiche, possono non essere, o non son Vere secondo l’Intelletto, considerandone il senso diritto, ma però anch’esse han da esprimere, significare, e far’ intendere qualche Vero, o Verisimile secondo l’Intelletto. E talor queste l’esprimono sì vivamente, sì leggiadramente, sì nobilmente, che le stesse Immagini dell’Intelletto con tutta la lor Verità reale non possono dilettare con tanto sensibile vaghezza. Per far concepire ad altrui la soavità del Canto, e la melodia della Cetera d’Orfeo, o per dir meglio l’eloquenza, con cui egli a se tirò, e ammansò genti feroci, e barbare, ci rappresentarono gli antichi Poeti quel valoroso Citerista mulcentem tigres, et agentem carmine quercus. Di ciò è testimonio Orazio nella Poetica. Affin di farci ben immaginare la meravigliosa forza de’ due Scipioni, li nominarono duo fulmina belli. Scrissero che Giove Re di Candia, per condurre a’ suoi voleri Danae, si convertì in pioggia d’oro; volendo con ciò significare ch’egli a forza di danari corruppe l’onestà di quella Donna. Con gentilezza somma altresì l’ingegnoso Esopo immaginò tante azioni, e sì vari ragionamenti d’animali privi di ragione, col fine di farci sempre intendere una qualche bella Verità morale. Adunque, avvegnaché le Immagini Fantastiche non sieno Vere a dirittura secondo l’Intelletto, pure indirettamente servono ad esprimere, e rappresentar lo stesso Vero Intellettuale. 49 Tutte le Metafore, le Iperboli, le Parabole, gli Apologi, e simili altri concetti della Fantasia, sono un vestito, e un ammanto sensibile di qualche Verità o Istorica, o Morale, o Naturale, o Astratta, o veramente avvenuta, o possibile ad avvenire. All’Intelletto appare Falsissimo questo ammanto a prima vista; ma penetrando egli nella sua significazione, appresso ne raccoglie una qualche Verità a lui cara; non essendo altro in effetto queste Immagini, che un Vero travestito, e (per usar le parole di Dante) una Verità ascosa sotto bella menzogna. Dal che può conoscersi, che il Falso non è, come oggetto, o fine, adoperato da’ Poeti, ma bensì come strumento utilissimo, e mezzo efficacissimo per far concepire dilettevolmente, e gagliardamente all’Intelletto quel Vero, o Verisimile, che è proprio di lui, e che solo può piacere all’Appetito ragionevole. Con questo sì necessario occhiale contemplando noi le Immagini Fantastiche, e tante Metafore, Iperboli, Favole, ed invenzioni dirittamente False, che s’usavano tutto giorno da’ Poeti, ci asterremo dal calunniare, e dispreggiar l’Arte loro, come amatrice delle Falsità, e menzogne. Anzi tanto egli è vero, che queste Immagini della Fantasia in effetto non son bugie, né si debbono considerar per moneta falsa, che la stessa Sacra Scrittura, e il medesimo Salvator nostro, fonte della Verità, le usarono ben sovente. Tale era allora, e tale è ancora oggidì il costume de’ popoli d’Oriente, i quali per via di Similitudini, Parabole, Allegorie, e d’altre Immagini Fantastiche sogliono esprimere ben sovente i lor sensi. [...] Libro I, capitolo XVII Vedutosi da noi il pregio, e la natura delle Immagini prodotte dalla Fantasia, sarebbe cosa molto utile il dimostrare, in qual guisa si abbiano queste da far nascere, e come dobbiamo usar della Fantasia, quando uopo il richiede. Con tale scorta potrà ciascun Poeta per lo più promettersi di vivamente comporre alle occasioni, e aver copia di queste sì pregiate Immagini. Dico adunque, ch’egli è necessario, che, qualora noi prendiamo a trattare in versi qualche argomento, per quanto si può, la no50 stra Fantasia si risvegli, e si agiti da qualche Affetto. Cioè l’argomento ha da eccitare in noi o Amore, o Dolore, o Paura, o Odio, o Stupore, e simili passioni dell’animo. Queste senza fallo cominceranno ad agitare con Furore, Estro, ed Entusiasmo la Fantasia; ed ella in tal modo agitata prenderà la briglia in mano, e si metterà a riguardar la cosa proposta diversamente da quello, che si giudica dall’Intelletto, ch’ella sia. Quando l’oggetto è piccolo, vile, povero, a lei parrà grande, nobile, ricco; o per lo contrario più povero, più ridicolo, e vile, secondo la qualità della passione svegliata. Se è senza anima quell’oggetto, si crederà ella di vederlo animato, che oda, parli, intenda; e confonderà con questa mille altre Immagini differenti, siccome la sua agitazione le andrà suggerendo. Allora l’Intelletto (il quale avvegnaché in tal violenza d’affetto liberamente non signoreggi la Fantasia, pure non ha mai da abbandonarla, ma dee sempre assisterle) sceglierà quelle Immagini, ch’egli conoscerà più vive, più vaghe, o chiare, e più esprimenti l’affetto cagionato dentro di noi dalla cosa proposta. In tal guisa ci avverrà di creare nobilissime, vivissime, e pellegrine Immagini, delle quali vestiremo la proposta Materia. Ma può a questo insegnamento opporsi, che in mano nostra non è il muovere la Fantasia, come a noi piace; che il Furore Poetico per opinion di tutti è regalo conceduto a pochi, essendo esso dono della Natura, non acquisto dell’Arte, e che per questa ragione comunemente si afferma: nascere i Poeti, e farsi gli Oratori. Per isciogliere tal difficultà, e insieme per maggiormente sporre questo sì utile argomento, disaminiamone i fondamenti. Certo è, che per Furore Poetico, e sia Entusiasmo, ed Estro, intesero gli antichi una certa gagliarda inspirazione, con cui le Muse, ovvero Apollo, occupano l’animo del Poeta, e fannogli dire, e cantare maravigliose cose, traendolo come fuori di lui stesso, e inspirandogli un linguaggio non usato dal volgo. Perciò un tal Furore si chiamava astrazione, alienazione, o ratto della mente; quasiché più non parlasse il Poeta, ma i Numi per lui. Platone senza dubbio in parecchi luoghi, e spezialmente nell’Ione s’ingegna di provare, che questo Furore sia cosa divina, e non s’acquisti con Arte. Fra l’altre sue parole sono evidenti queste: Tutti i più insigni facitori di versi, non per arte, ma per divina inspirazione tratti fuori di senno, cantano tutti questi 51 nobili Poemi. Appresso dice egli: Il Poeta prima non può cantare, che non sia ripieno di Dio, e fuori di se, e rapito in estasi. E portò la stessa opinione Democrito, come ne fa testimonianza Cicerone nel lib. 2 dell’Orat. e nel lib. 1 dell’Indovinazione, ove dice: Illa concitatio declarat vim in animis esse divinam; negat enim sine furore Democritus quemquam Poetam magnum esse posse. Quod idem dicit Plato. Quindi è che i Poeti, non solo antichi, ma eziandio moderni, consapevoli di sì gran prerogativa, si spacciano come ripieni di Dio. Niuna impresa grande da loro si canta, a cui essi non chiamino in soccorso le Muse, o Apollo, o altra superior Potenza. Se ciò è vero, come avvisan costoro, egli ne vien per conseguenza, che non può con Arte acquistarsi il Furore, o Estro Poetico, ma fa di mestiere aspettarlo, dall’arbitrio delle Muse, o d’altra sognata Deità, e indarno si vogliono dar consigli per ottenerlo. Ma con pace de gli antichi, e de’ moderni Poeti, io ben concedo, che non possa divenirsi gran Poeta senza un tal Furore, ma all’incontro nego, nascere tal Furore da cagion soprannaturale; anzi tengo esser’egli naturalissima cosa, e potersi in qualche guisa conseguir con Arte. [...] e passo a scoprire, per quanto mi sia lecito, l’origine, e cagion vera del Furor Poetico, e a dimostrare, che l’uso d’esso cade in qualche maniera sotto i precetti dell’Arte. Dicemmo di sopra, che per crear le Immagini Poetiche, faceva di bisogno agitar prima la fantasia. Ora dico, altro non essere l’Estro, o Furor Poetico, se non questa gagliarda agitazione, da cui occupata la Fantasia immagina cose non volgari, strane, e maravigliose su qualunque oggetto le vien proposto, ove più, ove meno. Ora molte son le cagioni di questo movimento della Fantasia, siccome ancor molti, e diversissimi sono i suoi effetti. Per divina virtù si può agitar la nostra Fantasia, e quindi nascono le Estasi, le Visioni, i Sogni, e le rivelazioni soprannaturali. Ma io mi ristringo ora alle naturali cagioni; e queste sono o per parte del Corpo, o per parte dell’Anima. Per parte del Corpo si agita gagliardamente la Fantasia o dal soverchio cibo, e più dal soverchio vino, o dalle febbri, o dalle frenesie, o da altre malattie, e spezialmente dalla malinconia, che da’ Peripatetici è stimata la principal cagione del Furor Poetico. Allora o dormendo noi, o vegliando, proviamo un violento moto 52 nelle interne Immagini della Fantasia, come tutto giorno si vede ne gli ubbriachi, ed ipocondriaci, e ne’ febbricitanti, e ne’ frenetici. Per parte dell’Anima s’agita forte la Fantasia dalle violente passioni, come dolore, segno, amore, e simili. [...] Né già sono altra cosa le Figure Oratorie, e Poetiche delle quali tanto diffusamente si tratta da’ nostri Maestri, e che danno tanta grazia, e nobiltà alle Orazioni, e alle Poesie, se non il linguaggio naturale di questi affetti in noi risvegliati. Senza questa interna agitazione sarebbono inverisimili, e poco lodate le soppraddette Figure. La diversità poi de gli affetti agitanti la Fantasia farà ancora diverse, anzi talor contrari le Immagini d’una cosa medesima. Se da un’oggetto in noi si sveglia amore, parrà di gran lunga più bello, che non è, alla nostra Fantasia. Se per lo contrario ci moverà ad odio, a sdegno, a dispregio, ci comparirà più brutto, e spiacevole di quello che è in fatti. E ciò naturalmente avviene, poiché proprio dell’affetto è turbare, ed alterar l’Animo; e in questa alterazione la Fantasia o sola comanda in noi, o almeno non lascia tutto il suo imperio alla Ragione, e all’Intelletto per ben giudicare le cose. [...] Da «Della ragion poetica» di Gian Vincenzo Gravina* Della utilità della poesia Ma per ridurci al nostro principio, è la poesia una maga, ma salutare, ed un delirio che sgombra le pazzie. È ben noto quel che gli antichi favoleggiarono d’Anfione e d’Orfeo, dei quali si legge che l’uno col suon della lira trasse le pietre e l’altro le bestie; dalle quali favole si raccoglie che i sommi poeti con la dolcezza del canto poteron piegare il rozzo genio degli uomini e ridurli alla vita civile. Ma questi son rami e non radici, e fa d’uopo cavar più a fondo per rinvenirle ed aprire per entro le antiche favole un occulto sentiero onde si possa conoscere il frutto di tali incantesimi e ‘l fine al quale furono indirizzati. Nelle menti volgari, che sono quasi d’ogni parte involte tra le caligini della fantasia, è chiusa l’entrata agli eccitamenti del vero e delle cognizioni universali. Perché dunque possano ivi penetrare, convien disporle in sembianza proporzionata alle facoltà * G.V. Gravina, Della ragion poetica (1708), in Id., Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 208-218. 54 dell’immaginazione ed in figura atta a capire adeguatamente in quei vasi; onde bisogna vestirle d’abito materiale e convertirle in aspetto sensibile, disciogliendo l’assioma universale ne’ suoi individui in modo che in essi, come fonte per li suoi rivi, si diffonda e per entro di loro s’asconda, come nel corpo lo spirito. Quando le contemplazioni avranno assunto sembianza corporea, allora troveranno l’entrata nelle menti volgari, potendo incamminarsi per le vie segnate dalle cose sensibili; ed in tal modo le scienze pasceranno dei frutti loro anche i più rozzi cervelli. Con quest’arte Anfione ed Orfeo risvegliarono nelle rozze genti i lumi ascosi della ragione, e facendo preda delle fantasie coll’immagini poetiche l’invilupparono nel finto, per aguzzare la mente loro verso il vero che per entro il finto traspariva: sicché le genti, delirando, guarivano dalle pazzie. Quindi è che, per imprimere nella volgar conoscenza l’angosce dell’animo agitato dalle proprie passioni e morso dal dente della coscienza del mal operato, eccitarono l’immagini delle Furie vestite d’orrore e di spavento: acciò che fossero rispinte fuori delle menti volgari, colle figure della face e dei serpi, quelle passioni che son fugate dalla filosofia a forza di vive ragioni, che sono gli strumenti onde son rette e governate le menti pure. Perloché sotto l’immagine d’Aletto e di Tesifone e di Megera svelarono al volgo, per la strada degli occhi, la natura dell’inquietitudine, della vendetta e dell’odio ed invidia, ravvisata da’ filosofi sotto la scorta dell’intelletto. A forza del medesimo incanto palesarono al popolo l’indole dell’avarizia, colorita sulla persona di Tantalo sitibondo col mento sull’acque che da lui s’allontanavano quando inchinava la bocca, e con gli occhi e le mani intese e rivolte ad una pioggia di pere, fichi ed altri frutti che cadean sopra di lui ed eran dal vento portati via, tosto che egli avidamente stringeva il pugno: per mostrare che l’avaro non raccoglie mai delle sue ricchezze il frutto, il quale è il contento. Di qual cibo egli è sempre digiuno, poiché tal vizio, mentre accresce il desiderio con la preda, nutrisce di continuo il bisogno e riduce l’uomo in maggior povertà; perché la ricchezza non è composta dalla roba che s’accresce, ma dal desiderio che si scema. Tai sentimenti per mezzo di queste immagini i poeti insinuarono nei petti rozzi, rappresantando col medesimo artificio 55 la natura degli altrui vizi, come dell’ambizione, dell’amore, della superbia, per mezzo d’Isione, di Tizio, di Sisifo, e convertendo in figura sensibile le contemplazioni de’ filosofi sulla natura de’ nostri affetti. Con la medesima arte per mezzo della quale sgombrarono i vizi, eccitarono anche nei popoli l’idee della virtù, ed avvolsero la mente loro entro la luce dell’onesto; il quale, perché è inseparabile dalla cognizione di Dio, perciò trasfusero negli animi i sensi della loro religione per gli stessi condotti e per via delle favole, ovvero immagini esprimenti le contemplazioni dell’eterno in figura visibile e in disposizione corrispondente ai caratteri dell’animo umano ed al corso delle nostre azioni. Origine dell’idolatria E perché l’antica sapienza cavava da una stessa miniera tanto quel ch’è seme delle sensazioni, quanto quel che, percotendo in varie maniere i nostri organi, genera diversità d’oggetti e di sembianze, e tutte le cose create da’ gentili teologi si riputavano affezioni e modi di Dio, perciò fu propagata una larga schiera di numi, sotto l’immagini de’ quali furono anche espresse le cagioni e i moti intrinseci della natura. Perloché gli antichi poeti con un medesimo colore esprimevano sentimenti teologici, fisici e morali: colle quali scienze, comprese in un solo corpo vestito di maniere popolari, allargavano il campo ad alti e profondi misteri. Quindi avvenne che Dio rimase dalla volgare opinione velato dei nostri affetti e travestito all’uso mortale. Quindi anche avvenne che l’unità dell’esser suo fu favolosamente diramata nelle persone di più falsi numi, che a parer loro esprimevano vari attributi divini sotto l’ombra di passioni e sembianze mortali, che erano i canali per mezzo de’ quali, a loro credere, Dio comunicava con le menti umane e si svelava a misura del lume che in esse rilucea, onde ai saggi compariva uno ed infinito, al volgo sembrava moltiplice e circonscritto. Perloché i Padri antichi, volendo distrarre i Gentili dal culto superstizioso e falso, non solo adoperavano il vigor della luce evangelica, ma eccitavano ancora alcune autorità dei primi 56 architetti dell’idolatria, e sviluppando i nodi delle favole facevano apparire qualche principio della cristiana fede sulla medesima tela dei filosofi ed antichi poeti, i quali con la sola condotta della natura pervennero alla cognizione dell’esistenza, unità ed immensità divina; al qual lume, al parer di san Tommaso, ci possono servir di grado le potenze della mente e le facoltà della ragione, scorta e guidata da scientifica norma. Onde così Giustino martire, come Lattanzio ed altri antichi Padri, nel tempo che oppugnavano l’idolatria con acuta e sensata interpretazione, tiravano su questo medesimo punto le sentenze, tanto de’ primi poeti, quanto ancora de’ filosofi più gravi, come d’Anassagora, Talete e Pittagora, Zenone, Timeo, Platone ed altri, che l’unità della divina natura chiusero in varie cifre, per velarsi agli occhi del volgo, che immerso nei simboli confondea la vera sostanza con gli attributi: come anche in più luoghi Cicerone e Seneca avvertono, e si raccoglie dalla lettera scritta a sant’Agostino da Massimino Gentile, ove ei dice che essi esprimevano e adoravano le virtù di Dio sparse per l’universo, sotto vari vocaboli, per essere il di lui vero nome a loro ignoto. Queste immagini e favole create per forza della poetica invenzione, o che si rappresentassero colle parole o che si delineassero coi colori o che s’incidessero sui marmi o che s’esprimessero con gesti ed azioni mute, riconoscono sempre per madre e nutrice la poesia, che trasfonde lo spirito suo per vari strumenti, e cangiando strumenti non cangia natura, poiché tanto con le parole quanto coi marmi intagliati quanto coi colori quanto con gesti muti, si veste la sentenza d’abito sensibile, in modo che corrisponda all’occulte cagioni collo spirito interno ed all’apparenza corporea con le membra esteriori. Discese tal mestiero dagli antichi Egizi, primi autori delle favole, i quali rappresentavano gli attributi divini sotto sembianze d’uomini, di bruti ed anche di cose inanimate, sulle quali l’occhio de’ saggi ravvisava o scienza delle cose divine e naturali o morali insegnamenti; all’incontro il volgo bevea da quelle apparenze un sonnifero di crassa superstizione sotto la cui tutela viveano le leggi di quell’imperio. Non si contenne nell’Egitto tal istituto, ma ne trascorsero larghi rivi in Grecia, dalla quale furono altrove in ampia vena propagati. Imperocché 57 molti rampolli dell’Egitto furono traspiantati in Grecia per mezzo delle colonie, delle quali una si crede che fosse Atene, ove regnò Cecrope, uomo egizio, che, avendo innestati i costumi dell’Egitto a quei dei Greci, si disse esser di due nature, cioè di serpente e d’uomo. Questi introdusse in Grecia il culto di Minerva, dai Greci detta Atene, da cui la città, dov’egli regnò, trasse il suo nome. L’altra colonia fu Tebe, fondata da Cadmo, il quale era egizio, ma perché giunse con navi fenicie, per fenicio fu riputato, secondo il parere però di pochi autori. Da questo scambio dicon poi esser sorta la comune opinione che le lettere fossero a noi venute dalla Fenicia, quando che Erodoto ed altri scrittori stimavano essersi ricevute dall’Egitto, dove per opera di Mercurio furono inventate. Cadmo portò seco i misteri e culto di Bacco e, se ben mi sovviene, anche di Nettuno. Danao fu l’altro che in Grecia fondasse colonie. Questi fuggì dall’Egitto con le sue figlie, e si crede che fosse il primo che fabbricasse nave, per aver lo stromento della sua fuga. Le figlie di Danao, perché mostraron prima di tutti l’invenzione dei pozzi, ottennero in loro onore tempi ed altari. A questi riti pervenuti in Grecia dall’Egitto, succedettero le cognizioni e dottrine che furono dall’Egitto in Grecia traspiantate da molti Greci, che corsero alla fama de’ sacerdoti egizi, la di cui sapienza per varie bocche risonava. Giunse in Egitto Orfeo, giunse Museo ed Omero quivi giunse ancora: i quali tutti raccolsero la sapienza di quei sacerdoti, e la ravvolsero nel velame del quale la ritrovaron coperta, esponendola sotto immagini ed invenzioni favolose. Tutta la lor dottrina intorno all’anime, alla materia delle cose, all’unità dell’essere, fu favoleggiata nei poemi d’Orfeo, sotto la figura d’Iside, che esprimeva la natura, d’Osiri, che rappresentava la reciprocazione delle cose, di Giove, ch’era simbolo dell’esistenza, di Plutone, che era immagine della dissoluzione dei composti. E riferisce san Giustino martire che Orfeo introdusse presso a trecentosessanta numi. Lumi della medesima sapienza sono gli dei d’Esiodo e d’Omero, che proseguirono il lavoro d’Orfeo con le medesime fila, convenendo in una istessa dottrina, come coloro che aveano d’un medesimo fonte bevuto. Da ciò si vede quanto sia difforme il concetto comune dalla vera idea della favola. Chi ben ravvisa nel suo fondo la natura 58 di essa, ben conosce non potersi tessere da chi non ha lungo tempo bevuto il latte puro delle scienze naturali e divine, che sono di questo misterioso corpo l’occulto spirito: poiché dalle cose suddette si comprende che il fondo della favola non costa di falso ma di vero, né sorge dal capriccio ma da invenzione regolata dalle scienze e corrispondente coll’immagini sue alle cagioni fisiche e morali. Della natura della favola Perloché la favola è l’esser delle cose trasformato in geni umani, ed è la verità travestita in sembianza popolare: perché il poeta dà corpo ai concetti e, con animar l’insensato ed avvolger di corpo lo spirito, converte in immagini visibili le contemplazioni eccitate dalla filosofia, sicché egli è trasformatore e producitore, dal qual mestiero ottenne il suo nome; e perciò stimò Platone che il nome di musa sia stato tratto dal verbo maiøqai per cagione dell’invenzione che alle Muse s’ascrive; ed alcuni voglion dedurlo da meîsqai: donde discende mystae e misteria. Tale ci è anche da Pindaro rappresentata la poesia, quando dice che le Muse abbiano il seno profondo, accennando che son gravide di saper nascoso: kñla dè kaì Daumómwn qélgei frènav, a¬mfíte Latoída sofía baqukòpwn te Moisân. Con tal arte si nutria la religione di quei tempi, che, per esser tutta architettura de’ poeti, eccitava verso di loro fama di divinità; la quale stima dai poeti s’alimentava con la forza del verisimile, che acquistava fede a tutte le loro invenzioni, interrotte e tramezzate da eventi miracolosi, prodotti dal concorso di quei numi e dalla mescolanza loro colle cose umane. E perché l’invenzione fosse difesa da apparenza più verisimile, l’innestavano sull’istoria, ovver fama pubblica, e figuravano i successi sopra paesi e persone fisse nell’opinion comune. Ma perché la presenza loro non convincesse il poeta di falso, sfuggi59 vano sempre i tempi vicini, e correvano a secoli dei quali la memoria era languida e nuvolosa. Quindi s’osserva che tutte le favole posano l’estremo piede su qualche vero principio, e quindi si raccoglie perché debba il poeta correr sempre a persone e successo remoto. E perché i personaggi e luoghi favolosi altro non erano che caratteri coi quali s’esprimevano i saggi insegnamenti sotto l’immagine d’una finta operazione, perciò si veggono dagli antichi le favole alterate e variate ad uso del sentimento ed insegnamento, o morale o fisico o teologico, che sotto l’azione di quegli strumenti voleano in figura visibile rappresentare. La qual variazione era fatta sempre con riguardo di non portare immagini contrarie a quel che s’era più gagliardamente impresso negli animi, perché altrimenti avrebber disciolto l’incanto, secondo le considerazioni già da noi fatte. Su questo modello eran formate le poesie d’Orfeo e di Lino Tebano, primo inventore della melodia e dei ritmi; del quale Orfeo, Tamiri ed Ercole furon discepoli. Fu ad Orfeo congiunto d’età Timete, che compose un poema dei fatti di Bacco. La medesima arte e disciplina apprese Museo Eleusino, il quale d’Orfeo fu discepolo. Dafne, figlia di Tiresio, con maraviglioso artificio scrisse gli oracoli; ed Esiodo, correndo dietro l’istesse vestigia, tramandò ai posteri riposta in varie favole e sparsa di color poetico la sapienza, ch’a quei tempi per occulto sentiero s’insinuava. Della favola omerica Ma l’intero campo fu largamente occupato da Omero. E chi sotto la scorta di questi principi fisserà gli occhi nell’Iliade, scorgerà tutti i costumi degli uomini, tutte le leggi della natura, tutti gli ordigni del governo civile ed universalmente tutto l’essere delle cose comparire in maschera sotto la rappresentazione della guerra troiana, che fu la tela sulla quale ei volle imprimere sì maraviglioso ricamo. E chi dietro l’istessa scorta andrà vagando con la mente per entro l’Odissea e si porrà con Ulisse in viaggio, mentre urterà in Cariddi e Scilla, o trascorrerà per lungo errore nei Ciconi, nei Lotofagi e nei Ciclopi, mentre caderà nelle braccia di Calipso e di Circe, s’incontrerà 60 nella cognizione e scienza di tutti gli umani affetti, e raccoglierà dagli avvenimenti d’Ulisse, ovvero dalla sapienza in Ulisse trasformata, l’arte e la norma da ben reggere la vita. In questa maniera si videro le prime cagioni e i semi delle scienze ed il mondo vero, ritratto sul finto, e tutto il reale impresso sul favoloso, intorno al quale, come a fonte di profonda dottrina, s’aggiravano gli amatori della sapienza. Utilità della favola Or si può ciascuno accorgere della natura della favola e del frutto ch’indi si coglie. Ben si vede ch’ella, rassomigliando con finti colori le cose naturali e civili e tutto il mondo apparente, scuopre l’invisibile e l’occulto e per ignoto sentiero conduce alla scienza, perché, come s’è detto, col mezzo dell’immagini sensibili s’introducono negli animi popolari le leggi della natura e di Dio e s’eccitano i semi della religione e dell’onesto, onde quanto più l’invenzioni s’appressano agli usati eventi, più libera entrata nell’intelletto apriranno a quegl’insegnamenti che portano chiusi dentro il lor seno; e quella favola porta maggior conoscenza delle umane passioni, costumi ed eventi, che rappresenta fatti o pensieri tolti di mezzo la turba o di dentro i gabinetti, in modo che chi li ode ravvisi nelle parole la presenza di quelle cose ch’incontra con gli occhi o le voci che per le piazze con gli orecchi raccoglie. Qui mi dirà taluno che la notizia dei costumi ed affetti degli uomini, senz’attenderla dalla rassomiglianza, si potrebbe più facilmente ritrarre dal vero e dal reale. Ma se questi vorrà seguirmi coll’attenzione non gli parrà maraviglia, e conoscerà che s’apprende più dalle cose colorite sul finto, che dagli oggetti reali, e nel medesimo tempo scorgerà la cagione del sommo diletto ch’a larga copia scorre dalla rassomiglianza. I soli sensi non possono imprimerci la cognizione delle cose singolari, senza la riflessione della mente, onde è prodotto l’assenso ed è generata l’idea universale, ch’è poi seme della scienza. Or quanto le cose ci sono più presso e ci divengono famigliari, tanto meno corre sopra di esse la nostra avvertenza, per61 ché la mente è sempre rapita dall’oggetto più raro, nel quale ravvisa qualch’attributo singolare e distinto dagli altri oggetti; e perciò più attentamente s’osservano l’apparenze del cielo che i corpi terrestri, e noi abbiamo maggior cognizione dell’animo altrui che del proprio. Or dovendosi rintracciar la scienza dei costumi e delle passioni, non si può correre altrove che al fonte vero ed alle persone istesse, né si possono apprendere le cognizioni morali, se non dalle cose famigliari e consuete, sulle quali si raggira il corso dell’umana vita, al cui profitto ed utile tutte le riflessioni deono essere intese. Ma all’incontro le cose vere, famigliari e consuete, non possono per se medesime recare alla mente nostra l’intere lor proprietà, per cagione che gli oggetti veri si trascorrono perlopiù senz’alcuna avvertenza, poiché, comunicando essi con altre immagini, la fantasia nostra, percossa da una, si comparte in tutte l’altre, le quali sono annodate a guisa di catena; onde l’immaginazione resta da più oggetti occupata, sicché non può raccogliere tutte le forze in un punto e né meno può formare riflessione acuta, dalla quale possa nascer la scienza. Or tutte le cose, che volano attorno a’ nostri sensi, portano in fronte loro l’occasione del sapere, ma noi, se più ci son presso, meno ravvisiamo in loro i caratteri del vero, per la ragione medesima per la quale meno si discernono le lettere quando troppo s’appressano agli occhi; poiché siccome il senso della vista non si può generare quando i raggi non s’uniscono tutti in un punto, così quando la mente è distratta nella varietà dell’immagini, non può formar fisso discernimento, per non poter dirizzare ad una tutte le forze. All’incontro, quando l’oggetto è accompagnato dalla novità, ci muove a maraviglia e coll’istessa forza distacca la mente dall’altre immagini, traendola tutta ad una sola, perloché l’intelletto ravvisa nel corpo accompagnato da novità molte proprietà che prima trascurava, e poi riflette perché riceve l’oggetto con istima, la quale altro non è ch’una cessazione di quelle cagioni che divertono in vari oggetti la mente. Perché dunque le cose umane e le naturali, esposte ai sensi, sfuggono dalla nostra riflessione, perciò bisogna sparger sopra di loro il colore di novità, la quale ecciti maraviglia e riduca la nostra riflessione particolare sopra le cose popolari e sensibili. 62 Questo colore di novità s’imprime nelle cose dalla poesia, che rappresenta il naturale sul finto; colla quale alterazione e trasporto, quel che per natura è consueto e vile, per arte diventa nuovo ed inaspettato: né può non eccitare gran maraviglia veder le cose naturali prodotte con altri strumenti che con quelli della natura, e trasportate in quel suolo, ove non possono allignare; e sembra assai strano veder il mondo generato coi colori, coi ferri, con le parole e coi moti. Perciò la poesia, che con vari strumenti trasporta il naturale sul finto, avvalora le cose familiari e consuete ai sensi colla spezie di novità; la quale, movendo maraviglia, tramanda al cerebro maggior copia di spiriti, che, quasi stimoli, spronano la mente su quell’immagine, in modo che possa fare azione e riflessione più viva. Onde si ravvisano i costumi degli uomini più sui teatri che per le piazze. Oltreché, quando nelle cose finte si discerne il ritratto delle cose vere, s’eccita in noi la reminiscenza, e l’intelletto riscontra l’immagine chiusa nella parola con quella ch’è impressa nella fantasia e, comparando le due cose simili, esamina in un certo modo le lor proprietà, che con tal combinazione avverte e raccoglie. Questa reminiscenza e riflessione di proprietà non avvertita apre dentro di noi rivi d’interno diletto, simile a quello che scorre dalle scienze e dalla recognizione d’una verità in noi nascosta, che poi esponiamo a vista dell’intelletto, con ordinare e riscontrare insieme più verità; della qual natura sono le dimostrazioni geometriche, le quali, nel punto che s’occupano dalla nostra intelligenza, vibrano in noi un acuto diletto, eccitato dalla riconoscenza dell’esser nostro e delle potenze e doti nostre medesime. Oltr’a ciò l’istessa maraviglia e novità prodotta dalla rassomiglianza piove in noi non lieve parte dell’interno piacere. E perché l’immagini sono affezioni del nostro corpo e vestigia delle cose, quando per via della reminiscenza e per riscontro d’oggetti simili ravvisati nelle parole, s’eccitano in noi moti corrispondenti all’impressioni delle cose, e con le parole si svegliano le vestigia degli oggetti, allora si rinnuovano l’istesse passioni che furon già mosse dagli oggetti reali, perché così i moti della fantasia corrispondono ai moti veri, e perciò la poesia è possente a muoverci gli affetti col finto a paragone del vero. Ma la commozion degli affetti, anche dolorosi, è sempre mi63 sta col diletto, quando ci stimola lentamente e fa leggiera titillazione; onde a molti affetti, quantunque mesti, è perlopiù innestato il diletto, quando il moto agita insensibilmente le parti senza distrarle, e quando all’affetto non è congiunta l’opinion del danno, che distrae le parti ed accresce troppo i punti del dolore, né tanto è atto a titillare quanto a sciogliere. Perciò dalle tragedie e dalle mestizie rappresentate si trae diletto e godiamo d’affligerci, perché l’animo è da leggier titillamento stimolato senza che sia scosso e costernato dall’opinion del danno. Oltreché compiangendo il male altrui, sembriamo giusti ed onesti a noi stessi, e la riconoscenza della virtù in noi occupa e lega le nostre potenze con un piacere intellettuale che vince ogn’altro. Sicché la sola rassomiglianza è il più largo fonte del diletto e dell’utile. Da «Scienza nuova» di Giambattista Vico* VI. Lo stesso raggio si risparge da petto della metafisica nella statua d’Omero, primo autore della gentilità che ci sia pervenuto, perché, in forza della metafisica (la quale si è fatta da capo sopra una storia dell’idee umane, da che cominciaron tal’uomini a umanamente pensare), si è da noi finalmente disceso nelle menti balorde de’ primi fondatori delle nazioni gentili, tutti robustissimi sensi e vastissime fantasie; e – per questo istesso che non avevan altro che la sola facultà, e pur tutta stordita e stupida1, di poter usare l’umana mente e ragione – da quelli che se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari, nonché diversi, i princìpi della poesia dentro i finora, per quest’istesse cagioni, nascosti princìpi della sapienza poetica, o sia la scienza de’ poeti teologi, la quale senza contrasto fu la prima sapienza del mondo per gli gentili2. E la statua d’Omero sopra una rovinosa base vuol dire la discoverta del vero Omero (che nella Scienza nuova la prima volta stampata si era da noi senti* G. Vico, Scienza nuova (1744), in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990. 65 ta ma non intesa, e in questi libri, riflettuta, pienamente si è dimostrata)3; il quale, non saputosi finora, ci ha tenuto nascoste le cose vere del tempo favoloso delle nazioni, e molto più le già da tutti disperate a sapersi del tempo oscuro, e ’n conseguenza le prime vere origini delle cose del tempo storico: che sono gli tre tempi del mondo, che Marco Terenzio Varrone ci lasciò scritto (lo più dotto scrittore delle romane antichità) nella sua grand’opera intitolata Rerum divinarum et humanarum4, che si è perduta. Oltracciò, qui si accenna che ’n quest’opera, con una nuova arte critica5, che finor ha mancato, entrando nella ricerca del vero sopra gli autori6 delle nazioni medesime (nelle quali deono correre assai più di mille anni per potervi provvenir gli scrittori d’intorno ai quali la critica si è finor occupata), qui la filosofia si pone ad esaminare la filologia7 (o sia la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de’ costumi e de’ fatti così della pace come della guerra de’ popoli), la quale, per la di lei deplorata oscurezza delle cagioni e quasi infinita varietà degli effetti, ha ella avuto quasi un orrore di ragionarne; e la riduce in forma di scienza, col discovrirvi il disegno di una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni8: talché, per quest’altro principale suo aspetto, viene questa Scienza ad esser una filosofia dell’autorità9. Imperciocché, in forza d’altri princìpi qui scoverti di mitologia, che vanno di séguito agli altri princìpi qui ritruovati della poesia, si dimostra le favole essere state vere e severe istorie de’ costumi delle antichissime genti di Grecia, e, primieramente, che quelle degli dèi furon istorie de’ tempi che gli uomini della più rozza umanità gentilesca credettero tutte le cose necessarie o utili al gener umano essere deitadi; della qual poesia furon autori i primi popoli, che si truovano essere stati tutti di poeti teologi10, i quali, senza dubbio, ci si narrano aver fondato le nazioni gentili con le favole degli dèi. E quivi, co’ princìpi di questa nuov’arte critica, si va meditando a quali determinati tempi e particolari occasioni di umane necessità o utilità, avvertiti11 da’ primi uomini del gentilesimo, eglino, con ispaventose religioni, le quali essi stessi si finsero e si credettero12, fantasticarono prima tali e poi tali dèi; la qual teogonia naturale, o sia generazio66 ne degli dèi, fatta naturalmente nelle menti di tai primi uomini, ne dia una cronologia ragionata della storia poetica degli dèi13. Le favole eroiche furono storie vere degli eroi e de’ lor eroici costumi, i quali si ritruovano aver fiorito in tutte le nazioni nel tempo della loro barbarie; sicché i due poemi d’Omero si truovano essere due grandi tesori di discoverte del diritto naturale delle genti greche ancor barbare. XXXIII. Però qui si dànno gli schiariti princìpi come delle lingue così delle lettere, d’intorno alle quali ha finora la filologia disperato, e se ne darà un saggio delle stravaganti e mostruose oppenioni che se ne sono finor avute. L’infelice cagione di tal effetto si osserverà ch’i filologi han creduto nelle nazioni esser nate prima le lingue, dappoi le lettere; quando (com’abbiamo qui leggiermente accennato e pienamente si pruoverà in questi libri)14 nacquero esse gemelle e caminarono del pari15, in tutte e tre le loro spezie, le lettere con le lingue. E tai princìpi si rincontrano appuntino nelle cagioni della lingua latina, ritruovate nella Scienza nuova stampata la prima volta – ch’è l’altro luogo degli tre onde di quel libro non ci pentiamo; – per le quali ragionate cagioni si sono fatte tante discoverte dell’istoria, governo e diritto romano antico, come in questi libri potrai, o leggitore, a mille pruove osservare. Al qual esemplo, gli eruditi delle lingue orientali, greca e, tralle presenti, particolarmente della tedesca, ch’è lingua madre potranno fare discoverte d’antichità fuori d’ogni loro e nostra aspettazione. XXXIV. Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truova essere stato ch’i primi popoli della gentilità, per una dimostrata necessità di natura, furon poeti, i quali parlarono per caratteri poetici, la qual discoverta, ch’è la chiave maestra16 di questa Scienza, ci ha costo la ricerca ostinata di quasi tutta la nostra vita letteraria, perocché tal natura poetica di tai primi uomini, in queste nostre ingentilite nature, egli è affatto impossibile immaginare e a gran pena ci è permesso d’intendere. Tali caratteri si truovano essere stati certi generi fantastici (ovvero immagini, per lo più di sostanze animate o di dèi o d’eroi, formate dalla lor fantasia), ai quali riducevano tutte le spezie o tutti i particolari a ciascun genere appartenenti; appunto come le 67 favole de’ tempi umani17, quali sono quelle della commedia ultima18, sono i generi intelligibili, ovvero ragionati dalla moral filosofia, de’ quali i poeti comici formano generi fantastici (ch’altro non sono l’idee ottime degli uomini in ciascun suo genere), che sono i personaggi delle commedie. Quindi sì fatti caratteri divini o eroici si truovano essere state favole, ovvero favelle vere; e se ne scuoprono l’allegorie, contenenti sensi non già analoghi ma univoci19, non filosofici ma istorici di tali tempi de’ popoli della Grecia. Di più, perché tali generi (che sono, nella lor essenza, le favole) erano formati da fantasie robustissime, come d’uomini di debolissimo raziocinio20, se ne scuoprono le vere sentenze poetiche, che debbon essere sentimenti vestiti di grandissime passioni, e perciò piene di sublimità21 e risveglianti la maraviglia22. Inoltre, i fonti di tutta la locuzion poetica si truovano questi due, cioè povertà di parlari e necessità di spiegarsi e di farsi intendere; da’ quali proviene l’evidenza della favella eroica, che immediatamente succedette alla favella mutola per atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee che si volevan significare, la quale ne’ tempi divini si era parlata. E finalmente, per tal necessario natural corso di cose umane, le lingue, appo gli assiri, siri, fenici, egizi, greci e latini, si truovano aver cominciato da versi eroici, indi passati in giambici, che finalmente si fermarono nella prosa; e se ne dà la certezza alla storia degli antichi poeti23, e si rende la ragione perché nella lingua tedesca, particolarmente nella Slesia, provincia tutta di contadini, nascono naturalmente verseggiatori24, e nella lingua spagnuola, francese ed italiana i primi autori scrissero in versi. XLIII. Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu figliuolo di Giove; e Varrone, dottissimo dell’antichità, ne giunse a noverare quaranta. Questa Degnità è ’l principio dell’eroismo de’ primi popoli, nato da una falsa oppenione: gli eroi provenir da divina origine. Questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne dànno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercole tralle nazioni gentili – oltreché ne dimostrano che non si poterono fondare senza religione né ingrandire senza virtù essendono elle ne’ lor incominciamenti selvagge e chiuse, e perciò non sappiendo nulla l’una 68 dell’altra, per la Degnità che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti, debbon aver un motivo comune di vero»25, – ne dànno di più questo gran principio: che le prime favole dovettero contenere verità civili26, e perciò essere state le storie de’ primi popoli. XLVII. La mente umana è naturalmente portata a dilettarsi dell’uniforme27. Questa Degnità, a proposito delle favole, si conferma dal costume c’ha il volgo, il quale degli uomini nell’una o nell’altra parte famosi, posti in tali o tali circostanze, per ciò che loro in tale stato conviene28, ne finge acconce favole. Le quali sono verità d’idea in conformità del merito di coloro de’ quali il volgo le finge; e in tanto sono false talor in fatti, in quanto al merito di quelli non sia dato ciò di che essi son degni. Talché, se bene vi si rifletta, il vero poetico è un vero metafisico29, a petto del quale il vero fisico30, che non vi si conforma, dee tenersi a luogo di falso. Dallo che esce questa importante considerazione in ragion poetica: che ’l vero capitano di guerra, per esemplo, è ’l Goffredo che finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri capitani di guerra. XLIX. È un luogo d’oro quel di Giamblico, De mysterris aegyptiorum, sopra arrecato, che gli egizi tutti i ritruovati utili o necessari alla vita umana richiamavano a Mercurio Trimegisto. Cotal detto, assistito dalla Degnità precedente, rovescerà a questo divino filosofo tutti i sensi di sublime teologia naturale ch’esso stesso ha dato a’ misteri degli egizi. E queste tre Degnità ne dànno il principio de’ caratteri poetici, i quali costituiscono l’essenza delle favole. E la prima dimostra la natural inchinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro. La seconda dimostra ch’i primi uomini, come fanciulli del gener umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici31, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali32, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti; per la qual simiglianza, le antiche favole non potevano fingersi che con de69 coro. Appunto come gli egizi tutti i loro ritruovati utili o necessari al gener umano, che sono particolari effetti di sapienza civile, riducevano al genere dei «sappiente civile», da essi fantasticato Mercurio Trimegisto, perché non sapevano astrarre il gener intelligibile di «sappiente civile», e molto meno la forma di civile sapienza della quale furono sappienti cotal’egizi. Tanto gli egizi, nel tempo ch’arricchivan il mondo de’ ritruovati o necessari o utili al gener umano, furon essi filosofi e s’intendevano di universali, o sia di generi intelligibili! E quest’ultima Degnità, in séguito dell’antecedenti, è ’l principio delle vere allegorie poetiche, che alle favole davano significati univoci, non analogi, di diversi particolari compresi sotto i loro generi poetici: le quali perciò si dissero «diversiloquia»33, cioè parlari comprendenti in un general concetto diverse spezie di uomini o fatti o cose. LIV. Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor appartengono, naturalmente interpetrano secondo le loro nature e quindi uscite passioni e costumi34. Questa Degnità è un gran canone della nostra mitologia, per lo quale le favole, trovate da’ primi uomini selvaggi e crudi tutte severe, convenevolmente alla fondazione delle nazioni che venivano dalla feroce libertà bestiale, poi35, col lungo volger degli anni e cangiar de’ costumi, furon impropiate36, alterate, oscurate ne’ tempi dissoluti e corrotti anco innanzi d’Omero. Perché agli uomini greci importava la religione, temendo di non37 avere gli dèi così contrari a’ loro voti come contrari eran a’ loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dèi, e diedero sconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole. LXIII. La mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi fuori nel corpo38, e con molta difficultà per mezzo della riflessione ad intendere se medesima. Questa Degnità ne dà l’universal principio d’etimologia in tutte le lingue, nelle qual’i vocaboli sono trasportati39 da’ corpi e dalle propietà de’ corpi a significare le cose della mente e dell’animo. [...] 70 Da sì fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i filosofi e filologi dovevan incominciar a ragionare la sapienza degli antichi gentili, cioè da’ giganti, testé presi nella loro propia significazione, de’ quali il padre Boulduc, De ecclesia ante Legem40, dice che i nomi de’ giganti ne’ sagri libri significano «uomini pii, venerabili, illustri»; lo che non si può intendere che de’ giganti nobili, i quali con la divinazione fondarono le religioni a’ gentili e diedero il nome all’età de’ giganti. E dovevano incominciarla dalla metafisica, siccome quella che va a prendere le sue pruove non già da fuori ma da dentro le modificazioni della propia mente di chi la medita, dentro le quali, come sopra dicemmo41, perché questo mondo di nazioni egli certamente è stato fatto dagli uomini, se ne dovevan andar a truovar i princìpi; e la natura umana, in quanto ella è comune con le bestie, porta seco questa propietà: ch’i sensi sieno le sole vie ond’ella conosce42 le cose. Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie, com’è stato nelle Degnità43 stabilito. Questa fu la loro propia poesia44, la qual in essi fu una facultà loro connaturale (perch’erano di tali sensi e di sì fatte fantasie naturalmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano45, come si è accennato nelle Degnità46. Tal poesia incominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch’essi immaginavano le cagioni delle cose, che sentivano ed ammiravano, essere dèi, come nelle Degnità47 il vedemmo con Lattanzio (ed ora il confermiamo con gli americani, i quali tutte le cose che superano la loro picciola capacità dicono esser dèi; a’ quali aggiugniamo i germani antichi, abitatori presso il mar Agghiacciato48, de’ quali Tacito49 narra che dicevano d’udire la notte il Sole, che dall’occidente passava per mare nell’oriente, ed affermavano di vedere gli dèi: le quali rozzissime e semplicissime nazioni ci dànno ad intendere molto più50 di questi autori della gentilità, de’ quali ora qui si ragiona); nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate davano 71 l’essere di sostanze dalla propia lor idea, ch’è appunto la natura de’ fanciulli, che, come se n’è proposta una Degnità51, osserviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favellarvi come fusser, quelle, persone vive. In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnità52 divisato53, dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare54, com’essi l’insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mostrerà55. E di questa natura di cose umane restò eterna propietà, spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamente gli uomini spaventati «fingunt simul creduntque»56. Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell’umanità gentilesca quando – dugento anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia, come si è detto in un postulato (perché tanto di tempo v’abbisognò per ridursi la terra nello stato che, disseccata57 dall’umidore dell’universale innondazione, mandasse esalazioni secche, o sieno materie ignite, nell’aria ad ingenerarvisi i fulmini) – il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impressione sì violenta58. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti59, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati ed attoniti60 dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono61 il cielo62. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnità63 e la natura loro64 era, in tale stato, d’uomini tutti robu72 ste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove65, il primo dio delle genti dette «maggiori» che col fischio de’ fulmini e col fragore66 de’ tuoni voiesse dir loro67 qualche cosa; e sì incominciarono a celebrare68 la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza. [...] Or – perché quella ch’è metafisica in quanto contempla le cose per tutti i generi dell’essere, la stessa è logica in quanto considera le cose per tutti i generi di significarle69 – siccome la poesia è stata sopra da noi considerata per una metafisica poetica, per la quale i poeti teologi immaginarono i corpi essere per lo più divine sostanze, così la stessa poesia or si considera come logica poetica70, per la qual le significa. «Logica» vien detta dalla voce lógov, che prima e propiamente significò «favola», che si trasportò in italiano «favella» – e la favola da’ greci si disse anco mûqov71 onde vien a’ latini «mutus», – la quale ne’ tempi mutoli nacque mentale, che in un luogo d’oro dice Strabone72 essere stata innanzi della vocale o sia dell’articolata: onde lógov significa e «idea» e «parola». E convenevolmente fu così dalla divina provvedenza ordinato in tali tempi religiosi, per quella eterna propietà: ch’alle religioni più importa meditarsi che favellarne; onde tal prima lingua ne’ primi tempi mutoli delle nazioni, come si è detto nelle Degnità73, dovette cominciare con cenni o atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee: per lo che lógov o «verbum» significò anche «fatto» agli ebrei74, ed a’ greci significò anche «cosa», come osserva Tommaso Gatachero75, De instrumenti stylo76. E pur mûqov ci giunse diffinita «vera narratio»77, o sia «parlar vero», che fu il «parlar naturale» che Platone prima e dappoi Giamblico dissero essersi parlato una volta nel mondo; i quali, come vedemmo nelle Degnità78, perché ’l dissero indovinando, avvenne che Platone e spese vana fatiga d’andarlo truovando nel Cratilo, e ne fu attaccato da Aristotile e da Galeno: perché cotal primo parlare, che fu de’ poeti teologi, non fu un parlare secondo la natura di esse cose79 (quale dovett’es73 ser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio concedette la divina onomathesia ovvero imposizione de’ nomi alle cose secondo la natura di ciascheduna)80, ma fu un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine. Così Giove, Cibele o Berecintia, Nettunno, per cagione d’esempli, intesero e, dapprima mutoli additando, spiegarono esser esse sostanze del cielo, della terra, del mare, ch’essi immaginarono animate divinità, e perciò con verità di sensi gli credevano dèi81: con le quali tre divinità, per ciò ch’abbiam sopra detto82 de’ caratteri poetici, spiegavano tutte le cose appartenenti al cielo, alla terra, al mare; e così con l’altre significavano le spezie dell’altre cose a ciascheduna divinità appartenenti, come tutti i fiori a Flora, tutte le frutte a Pomona. Lo che noi pur tuttavia facciamo, al contrario83, delle cose dello spirito; come delle facultà della mente umana, delle passioni, delle virtù, de’ vizi delle scienze, dell’arti, delle quali formiamo idee per lo più di donne, ed a quelle riduciamo tutte le cagioni, tutte le propietà e ’nfine tutti gli effetti ch’a ciascuna appartengono: perché, ove vogliamo trarre fuori dall’intendimento cose spirituali, dobbiamo essere soccorsi dalla fantasia per poterle spiegare e, come pittori84, fingerne umane immagini. Ma essi poeti teologi, non potendo far uso dell’intendimento, con uno più sublime lavoro tutto contrario, diedero sensi e passioni, come testé si è veduto, a’ corpi, e vastissimi corpi quanti sono cielo, terra, mare; che poi, impicciolendosi così vaste fantasie e invigorendo l’astrazioni, furono presi per piccioli loro segni. E la metonimia spose in comparsa di dottrina85 l’ignoranza di queste finor seppolte origini di cose umane: e Giove ne divenne sì picciolo e sì leggieri ch’è portato a volo da un’aquila; corre Nettunno sopra un dilicato cocchio per mare; e Cibele è assisa sopra un lione86. Quindi le mitologie devon essere state i propi parlatori delle favole (ché tanto suona tal voce)87; talché, essendo le favole, come sopra si è dimostrato88, generi fantastici, le mitologie devon essere state le loro propie allegorie. Il qual nome, come si è nelle Degnità89 osservato, ci venne diffinito «diversiloquium», in quanto, con identità non di proporzione ma, per dirla alla scolastica, di predicabilità, esse significano le diverse spezie o i diversi individui compresi sotto essi generi: tanto che devon 74 avere una significazione univoca, comprendente una ragion comune alle loro spezie o individui (come d’Achille, un’idea di valore comune a tutti i forti; come d’Ulisse, un’idea di prudenza comune a tutti i saggi); talché sì fatte allegorie debbon essere l’etimologie de’ parlari poetici, che ne dassero le loro origini tutte univoche, come quelle de’ parlari volgari lo sono più spesso analoghe. E ce ne giunse pure la diffinizione d’essa voce «etimologia», che suona lo stesso che «veriloquium»90, siccome essa favola ci fu diffinita «vera narratio». I. Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa91 e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa92 è la metafora, ch’allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione93, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione94, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad essere una picciola favoletta95. Quindi se ne dà questa critica d’intorno al tempo che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese da’ corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate a dirozzar le filosofie96. Lo che si dimostra da ciò: ch’in ogni lingua le voci ch’abbisognano all’arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le lor origini97. Quello è degno d’osservazione: che ’n tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni. Come capo, per cima o principio; fronte, spalle, avanti e dietro; occhi delle viti e quelli che si dicono lumi ingredienti delle case; bocca, ogni apertura; labro, orlo di vaso o d’altro; dente d’aratro, di rastello, di serra, di pettine; barbe, le radici; lingua di mare, fauce o foce di fiumi o monti; collo di terra, braccio di fiume; mano, per picciol numero; seno di mare, il golfo; fianchi e lati, i canti; costiera di mare, cuore, per lo mezzo (ch’«umbilicus» dicesi da’ latini); gamba o piede di paesi, e piede per fine; pianta per base o sia fondamento; carne, ossa di frutte, vena d’acqua, pietra, miniera; sangue della vite, il vino; viscere della terra; ride il cielo, il ma75 re; fischia il vento; mormora l’onda; geme un corpo sotto un gran peso; e i contadini del Lazio dicevano «sitire agros»98, «laborare fructus»99, «luxuriari segetes»100, e i nostri contadini «andar in amore le piante», «andar in pazzia le viti», «lagrimare gli orni»; ed altre che si possono raccogliere innumerabili in tutte le lingue. Lo che tutto va di séguito a quella Degnità101: che «l’uomo ignorante si fa regola dell’universo», siccome negli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché come la metafisica ragionata insegna che «homo intelligendo fit omnia»102, così questa metafisica fantasticata dimostra che «homo non intelligendo fit omnia»; e forse con più di verità detto questo che quello, perché l’uomo con l’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non intendere egli di sé fa esse cose103 e, col transformandovisi104, lo diventa. II. Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, dovettero i primi poeti105 dar i nomi alle cose dall’idee più particolari106 e sensibili107; che sono i due fonti, questo della metonimia e quello della sineddoche. Perocché la metonimia degli autori per l’opere nacque perché gli autori erano più nominati che l’opere; quella de’ subbietti per le loro forme ed aggiunti108 nacque perché, come nelle Degnità109 abbiamo detto, non sapevano astrarre le forme e la qualità da’ subbietti; certamente quella delle cagioni per gli di lor effetti sono tante picciole favole110, con le quali le cagioni s’immaginarono esser donne vestite de’ lor effetti111, come sono la Povertà brutta, la Vecchiezza trista, la Morte pallida112. III. La sineddoche passò in trasporto113 poi con l’alzarsi i particolari agli universali o comporsi le parti con le altre con le quali facessero i lor intieri. Così «mortali» furono prima propiamente detti i soli uomini, che soli dovettero farsi sentire mortali. Il «capo», per l’«uomo» o per la «persona», ch’è tanto frequente in volgar latino, perché dentro le boscaglie vedevano di lontano il solo capo dell’uomo: la qual voce «uomo» è voce astratta, che comprende, come in un genere filosofico, il corpo e tutte le parti del corpo, la mente e tutte le facultà della mente, l’animo e tutti gli abiti dell’animo. Così dovette avve76 nire che «tignum»114 e «culmen»115 significarono con tutta propietà «travicello» e «paglia» nel tempo delle pagliare116; poi, col lustro delle città, significarono tutta la materia e ’l compimento degli edifici. Così «tectum» per l’intiera «casa», perché a’ primi tempi bastava per casa un coverto. Così «puppis» per la «nave», che, alta, è la prima a vedersi da’ terrazzani, come a’ tempi barbari ritornati si disse una «vela» per una «nave». Così «mucro»117 per la «spada», perché questa è voce astratta e come in un genere comprende pome118, elsa, taglio e punta; ed essi sentirono la punta, che recava loro spavento. Così la materia per lo tutto formato, come il «ferro» per la «spada», perché non sapevano astrarre le forme dalla materia. Quel nastro di sineddoche e di metonimia: Tertia messis erat119 nacque senza dubbio da necessità di natura, perché dovette correre assai più di mille anni per nascere tralle nazioni questo vocabolo astronomico «anno»; siccome nel contado fiorentino tuttavia dicono «abbiamo tante volte mietuto» per dire «tanti anni». E quel gruppo di due sineddochi e d’una metonimia: Post aliquot, mea regna videns, mirabor, aristas120 di troppo accusa l’infelicità de’ primi tempi villerecci a spiegarsi, ne’ quali dicevano «tante spighe», che sono particolari più delle messi, per dire «tanti anni», e, per ch’era troppo infelice l’espressione, i gramatici v’hanno supposto troppo di arte. IV. L’ironia certamente non poté cominciare che da’ tempi della riflessione, perch’ella è formata dal falso in forza d’una riflessione che prende maschera di verità121. E qui esce un gran principio di cose umane, che conferma l’origine della poesia qui scoverta: che i primi uomini della gentilità essendo stati semplicissimi quanto i fanciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole non poterono fingere nulla di falso; per lo che dovettero necessariamente essere, quali sopra122 ci vennero diffinite, vere narrazioni. 77 V. Per tutto ciò si è dimostrato123 che tutti i tropi (che tutti si riducono a questi quattro)124, i quali si sono finora creduti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi <di> tutte le prime nazioni poetiche, e nella lor origine aver avuto tutta la loro natia propietà: ma, poi che, col più spiegarsi la mente umana, si ritruovarono le voci che significano forme astratte, o generi comprendenti le loro spezie, o componenti le parti co’ loro intieri, tai parlari delle prime nazioni sono divenuti trasporti125. E quindi s’incomincian a convellere126 que’ due comuni errori de’ gramatici: che ’l parlare de’ prosatori è propio, impropio quel de’ poeti; e che prima fu il parlare da prosa, dopoi del verso. [...] Ora dalla teologia de’ poeti o sia dalla metafisica poetica, per mezzo della indi nata poetica logica, andiamo a scuoprire l’origine delle lingue e delle lettere, d’intorno alle quali sono tante l’oppenioni quanti sono i dotti che n’hanno scritto. Talché Gerardo Giovanni Vossio127 nella Gramatica128 dice: «De literarum inventione multi multa congerunt, et fuse et confuse, ut ab iis incertus magis abeas quam veneras dudum»129. Ed Ermanno Ugone, De origine scribendi, osserva: «Nulla alia res est, in qua plures magisque pugnantes sententiae reperiantur atque haec tractatio de literarum et scriptionis origine. Quantae sententiarum pugnae! Quid credas? quid non credas?»130. Onde Bernardo da Melinckrot, De arte typographica131, seguìto in ciò da Ingewaldo Elingio132, De historia linguae graecae133, per l’incomprendevolità della guisa, disse essere ritruovato divino. Ma la difficultà della guisa fu fatta da tutti i dotti per ciò: ch’essi stimarono cose separate l’origini delle lettere134 dall’origini delle lingue, le quali erano per natura congionte; e ’l dovevan pur avvertire dalle voci «gramatica» e «caratteri». Dalla prima, ché «gramatica» si diffinisce «arte di parlare» e grámmata sono le lettere, talché sarebbe a diffinirsi «arte di scrivere», qual Aristotile135 la diffinì e qual infatti ella dapprima nacque, come qui si dimostrerà che tutte le nazioni prima parlarono scrivendo, come quelle che furon dapprima mutole. Dipoi «caratteri» voglion dire «idee», «forme», «modelli», e certa78 mente furono innanzi que’ de’ poeti che quelli de’ suoni articolati, come Giuseffo vigorosamente sostiene, contro Appione greco gramatico, che a’ tempi d’Omero non si erano ancor truovate le lettere dette «volgari». Oltracciò, se tali lettere fussero forme de’ suoni articolati e non segni a placito136, dovrebbero appo tutte le nazioni esser uniformi, com’essi suoni articolati son uniformi appo tutte. Per tal guisa disperata a sapersi non si è saputo il pensare delle prime nazioni per caratteri poetici né ’l parlare per favole né lo scrivere per geroglifici: che dovevan esser i princìpi, che di lor natura han da esser certissimi, così della filosofia per l’umane idee, come della filologia per l’umane voci. [...] I. Per le cose ragionate finora in forza di questa logica poetica d’intorno all’origini delle lingue, si fa giustizia a’ primi di lor autori d’essere stati tenuti in tutti i tempi appresso per sappienti137, perocché diedero i nomi alle cose con naturalezza e propietà; onde sopra138 vedemmo ch’appo i greci e latini «nomen» e «natura» significarono una medesima cosa. II. Ch’i primi autori dell’umanità attesero ad una topica sensibile139, con la quale univano le propietà o qualità o rapporti, per così dire, concreti degl’individui o delle spezie, e ne formavano i generi loro poetici. III. Talché questa prima età del mondo si può dire con verità occupata d’intorno alla prima operazione della mente umana. IV. E primieramente cominciò a dirozzare la topica, ch’è un’arte di ben regolare la prima operazione della nostra mente, insegnando i luoghi che si devono scorrer tutti per conoscer tutto quanto vi è nella cosa che si vuol bene ovvero tutta conoscere. V. La provvedenza ben consigliò alle cose umane col promuovere nell’umane menti prima la topica che la critica, siccome prima è conoscere, poi giudicar delle cose. Perché la topica è la 79 facultà di far le menti ingegnose, siccome la critica è di farle esatte; e in que’ primi tempi si avevano a ritruovare tutte le cose necessarie alla vita umana, e ’l ritruovare è propietà dell’ingegno140. Ed in effetto, chiunque vi rifletta, avvertirà che non solo le cose necessarie alla vita, ma l’utili, le comode, le piacevoli ed infino alle superflue del lusso, si erano già ritruovate nella Grecia innanzi di provenirvi i filosofi, come il farem vedere141 ove ragioneremo d’intorno all’età d’Omero. Di che abbiamo sopra proposto una Degnità142: ch’«i fanciulli vagliono potentemente nell’imitare», e «la poesia non è che imitazione», e «le arti non sono che imitazioni della natura, e ’n conseguenza poesie in un certo modo reali». Così i primi popoli, i quali furon i fanciulli143 del gener umano, fondarono prima il mondo dell’arti; poscia i filosofi, che vennero lunga età appresso, e ’n conseguenza i vecchi delle nazioni, fondarono quel delle scienze: onde fu affatto compiuta l’umanità. [...] IV. Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde mûqov, la favola, fu diffinita «vera narratio», come abbiamo sopra144 più volte detto); le quali nacquero dapprima per lo più sconce, e perciò poi si resero impropie, quindi alterate, seguentemente inverisimili, appresso oscure, di là scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficultà delle favole, i quali di leggieri si possono rincontrare in tutto il II libro. V. E, come nel medesimo libro si è dimostrato, così guaste e corrotte da Omero furono ricevute. Note 1 Stordita e stupida: sintagma allitterativo che ritorna più di una volta nella Scienza nuova (§§ 591, 809, 1106) per la tendenza vichiana alla cristallizzazione delle formule eufoniche. 2 Lo stesso raggio... gentili: comprime in un unico capoverso le tesi fondamentali del libro II. 3 sentita... non intesa... riflettuta... dimostrata: con un caratteristico climax si descrive il trapasso da un’intuizione appena abbozzata (corrispondente al 80 pochissimo spazio concesso alla questione omerica nella prima edizione della Scienza nuova, §§ 295-297) al suo pieno possesso razionale, visibile nella dilatazione del tema a un intero libro, il III, della Scienza nuova seconda. È comunque sintomatica una domanda della prima Scienza nuova (§ 297) che sembra anticipare l’immagine di Omero così come appare, cinque anni dopo, nella «dipintura»: «Come, ad un tratto ed anche a roverscio, scese dal cielo in petto ad Omero cotanta sapienza riposta...?». 4 Rerum... humanarum: la tripartizione di tempo oscuro, favoloso e storico, enunciata da Varrone nelle perdute Antiquitates rerum divinarum (di cui però vedi i frammenti raccolti e curati da A.G. Condemi, per Zanichelli, Bologna 1964), viene trasmessa ai tempi moderni da Censorino, De die natali XXI, 1. Attraverso quest’opera (del 238 d.C.) la tematica varroniana è presente in tutto il dibattito sulla cronologia storica che percorre la cultura europea del Seicento. Cfr. P. Rossi, I segni, cap. II. In particolare, per l’incidenza sull’antropologia di Vico: A. Asor Rosa, La fondazione del laico, in AA.VV., Letteratura italiana. Le questioni, Einaudi, Torino 1986, V, pp. 121-124. 5 nuova arte critica: il connubio di filosofia e filologia risulta per Vico la terza via, mai percorsa, alternativa sia alla critica «erudita», cieca e dispersiva, sia alla critica «metafisica», astratta e nebulosa. Il suo operare, conciliando particolare e universale, si riassume nella formula ossimorica della «storia ideale eterna». Tradotta in termini moderni, il suo àmbito di ricerca sarebbe la sociologia della conoscenza o l’antropologia culturale (cfr. A.M. Jacobelli Isoldi, The Role of the Intellectual in Giambattista Vico, in G.B. Vico’s Science, p. 415). Sulle differenze tra la «critica» vichiana, fondata su memoria e immaginazione, e la «critica» di Cartesio, riflessiva e concettuale, vedi D.P. Verene, Vico. La scienza della fantasia, tr. it., Armando, Roma 1984, pp. 154-158 e Id., The New Art of Narration: Vico and the Muses, in «New Vico Studies», I (1983), p. 34. Infine, sulla genesi dell’«arte critica» vichiana, cfr. A.R. Caponigri, Filosofia e filologia: la «nuova arte della critica» di Giambattista Vico, in BCSV, XII-XIII (1982-1983), pp. 29-61. 6 autori: fondatori, nel significato latino (cit. Verg., Aen. VIII, 134). 7 filologia: sull’ampia accezione antropologica di questo concetto: E. Auerbach, La «Scienza nuova» e l’idea di filologia [1936], in San Francesco Dante Vico ed altri saggi di filologia romanza, tr. it., De Donato, Bari 1970, pp. 53-65. (E ora Editori Riuniti, Roma 1987.) 8 storia... nazioni: la definizione è memorizzata, e come tale ritorna più volte: §§ 35, 143, 349, 393. Sul concetto, cfr. N. Petruzzellis, La storia ideale eterna nel pensiero di G.B. Vico, in «Rassegna di scienze filosofiche», XXI (1968), pp. 91-115. 9 filosofia dell’autorità: dalla spiegazione del § 350 e dall’etimologia di § 386 si deduce che, fondata sul senso comune, l’autorità consiste nella fiducia prerazionale dell’uomo a vivere in collettività e a regolarsi sulle consuetudini dei costumi, del diritto e della politica. Sul concetto giuridico dell’autorità, appartenente alla cosiddetta «giustizia esterna», vedi D. Pasini, «Autorità» e «libertà» in Vico, in Problemi di filosofia della politica, Jovene, Napoli 1977, pp. 111-134 e A.C. ’t Hart, Hugo de Groot and Giambattista Vico, in «Netherlands International Law Review», XXX (1983), n. 1, pp. 26-41, contributo posteriore alla monografia Recht en Staat in het denken van Giambattista Vico, Alphen aan den Rijn, H.D Tjeenk Willink, 1979, dove in merito è da vedere 81 il cap. VII, pp. 279-322. In italiano, sempre di ’t Hart, si può vedere sull’argomento La metodologia giuridica vichiana, in BCSV, XII-XIII (1982-1983), pp. 5-28. 10 poeti teologi: la definizione, così sintetica, si riferisce agli uomini primitivi che, non capendo razionalmente quanto li circondava, immaginarono in buona fede che la natura fosse popolata di molteplici divinità, risultando a un tempo creatori di miti e fondatori di civiltà. La loro religione politeistica, per quanto grossolanamente falsa, sta a fondamento della società civile. 11 avvertiti: ed. 1744, Flora e Cristofolini. Ed. Nicolini: «avvertite». Ma il maschile va conservato perché, in un passo sulla cronologia, il participio è da riferire a «tempi». 12 si finsero e si credettero: echeggia il tacitiano «fingebant simul credebantque» di Ann. V, 10, poi citato esplicitamente al § 376. 13 storia poetica degli dèi: nel libro II Vico passerà in rassegna i dodici «dèi maggiori» della mitologia greco-romana riconoscendo in ciascuno di essi una fase specifica della storia civile e politica dei primitivi. 14 pienamente... in questi libri: soprattutto nei §§ 428-472. 15 gemelle... del pari: evidentemente, Vico non ha provveduto a correggere quanto asserito, contrariamente a questo suo postulato importantissimo, al § 21, ove si legge che l’origine «delle lettere» è venuta «assai più tardi» di quella «delle lingue». 16 chiave maestra: sull’enfasi di questa formula elativa, che insiste con vigore sulla centralità della teoria degli universali fantastici (o, come è detto poco dopo, dei «generi fantastici»), ha opportunamente attirato l’attenzione D.P. Verene, Vico. La scienza della fantasia cit., pp. 68-70, a sua volta preceduto, a proposito dell’importanza del problema del linguaggio, da Pagliaro, Lingua, pp. 308-309. 17 come... umani: con la differenza sostanziale, però, che gli universali fantastici dei primi uomini erano irriflessi e spontanei, laddove i «generi intelligibili» sono costruiti per astrazione razionale. 18 commedia ultima: la commedia «nuova» di Menandro (§§ 808, 906, 911). 19 non già analoghi ma univoci: la mente dei primitivi non procede per via di somiglianza, con la quale si è consapevoli dell’approssimazione del predicato nei confronti del soggetto, ma per via di identità, in modo che il predicato coincide con il soggetto. Mentre cioè l’uomo moderno può affermare di qualcuno che è «come Ulisse» o che è «un Ulisse», per sostenere che possiede qualità avvicinabili al «tipo» ideale, i primi uomini avrebbero dichiarato che quell’individuo «è Ulisse», identificandolo perfettamente con un archetipo personificato, perché incapaci di astrazione. Di qui il valore mitico-storico (in quanto si sviluppano sempre da vicende concrete) degli universali fantastici. Cfr. D.P. Verene, Vico. La scienza della fantasia cit., pp. 77-78. Un commento all’intero capoverso in Cantelli, pp. 17-18. 20 fantasie... raziocinio: il chiasmo, perfettamente simmetrico sia per la sintassi sia per il significato, connota il rapporto inversamente proporzionale tra immaginazione e ragione. 21 sublimità: pertanto la categoria retorica del sublime è la chiave ermeneutica più adoperata da Vico. Cfr. G. Costa, Vico e lo pseudo-Longino, in GCFI, XLVII (1968), pp. 502-528. 82 22 la maraviglia: il fine ultimo della poesia barocca, teorizzato da tutti i trattatisti del Seicento, viene a valere anche per i primitivi, con la differenza sostanziale che lo stupore dei poeti moderni è artificiosamente suscitato da un’operazione intellettuale, mentre nei primi uomini esso nasceva dalla loro stessa ingenuità. 23 certezza... poeti: per essere la testimonianza di una cultura, anche gli antichi testi in poesia acquistano per Vico l’importanza dei documenti storici. 24 Slesia... verseggiatori: a proposito della Slesia, Vico combina la notizia dell’esistenza di una folta schiera di Poeti (in realtà del Seicento) con quella di una provincia contadina e conclude che in quella regione tedesca si trovano gli ultimi residui di poesia eroica. Le possibili fonti sarebbero, secondo I.M. Battafarano, Vico e Morhof: considerazioni e congetture, in BCSV, IX (1979), pp. 89-110, i prolegomena di Johann Moller al Polyhistor di Morhof (P. Bockmann, Lubecae, 17142, I, pp. 47-48) e una recensione degli «Acta eruditorum lipsiensia» (1682, pp. 271-277) all’altra opera di Morhof, l’Unterricht von der Teutschen Sprache und Poesie. Sul patrimonio folclorico cui Vico allude cfr. B. Zakrzewski, Silesian Folk-Songs in the Collections of the Romantic Period, in «Annales Silesiae», II (1961), n. 2, pp. 67-79. Non convince troppo la spiegazione di Papini I, pp. 291-292 che non crede, come sempre, a un errore o a una confusione di Vico. 25 «idee... vero»: § 144. 26 verità civili: fondamentale scoperta vichiana: i miti non spiegano allegoriche cosmologie naturalistiche ma vicende storiche di carattere sociale e politico, tanto da diventare indispensabile strumento ermeneutico delle età primitive. 27 La mente... uniforme: cfr. Bacone, Novam organum I, 45 (= Works I, p. 165). L’assioma viene confermato nel De mente heroica, ove si afferma che l’uomo «suapte natura fertur ad uniforme». 28 in tale stato conviene: concordanza con l’espressione aristotelica di Poetica 9, 1451a. Ma vedi anche Bacone, Cogitata et visa XIII, per il quale è proprio delle favole il sembrare più armoniose e più convenienti dei fatti veri. 29 metafisico: ideale, perché il personaggio poetico astrae le qualità presentandole in forme superlative, esemplari e perfette. 30 fisico: storico, oggettivamente reale. È il paradosso aristotelico per cui il verisimile poetico, universale e tipico, è superiore al vero storico, soggetto ai limiti del contingente. 31 universali fantastici: una succinta bibliografia su questo concetto fondamentale comprende: M. Fubini, Ancora dell’«universale fantastico» vichiano [1956], in Stile, pp. 201-204; D.P. Verene, Vico’s Science of Imaginative Universals and the Philosophy of Symbolic Forms, in G.B. Vico’s Science, pp. 6595; A. Battistini, Antonomasia e universale fantastico, in Retorica e critica letteraria, a cura di E. Raimondi e L. Ritter Santini, il Mulino, Bologna 1978, pp. 105-121. Le premesse della formulazione degli universali fantastici, rintracciate già all’altezza del De ratione, sono ricostruite da G. Wohlfart, Vico e il carattere poetico del linguaggio, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XI (1981), pp. 71-78. 32 ritratti ideali: per quanto il processo cognitivo che porta all’universale fantastico non avvenga affatto per astrazione razionale, tuttavia, almeno in questo contesto (ma cfr. SNP, § 263), esso non coincide con l’evemerismo, 83 giacché può anche essere il risultato di una idealizzazione avente a protagonista un personaggio mai esistito nella realtà al quale vengono corposamente attribuiti in sintesi tutti i particolari appartenenti al “tipo” da lui impersonato. Cfr. B. Croce, La filosofia di G.B. Vico, Laterza, Bari 19625, p. 66. 33 «diversiloquia»: traduzione latina del greco «allegoria». Cfr. SNP, § 265. 34 quindi... costumi: passioni e costumi sono derivati dalla loro natura e variano secondo che gli uomini vivano nelle età degli dèi, degli eroi o degli uomini. Di qui la diversa interpretazione di uno stesso mito. 35 poi: si emenda, con l’ed. Nicolini, l’ed. 1744 che reca «poiché». 36 impropiate: rese improprie, stravolte. Il prefisso in- ha valore negativo. 37 temendo di non: costrutto latino: temendo di. 38 La mente... fuori nel corpo: enunciato molto affine a quello con cui Locke fa esordire il suo Saggio sull’intelletto umano. Cfr. G. Costa, Vico e Locke, in «Giornale critico della filosofia italiana», XLIX (1970), p. 351. 39 trasportati: in origine il linguaggio era dunque figurato. 40 Boulduc... Legem: il cappuccino parigino Jacques Boulduc o Bolduc (1575 circa-1646), oltre che svolgere un’intensa attività di predicatore, raccolse dalla Bibbia tutte le notizie relative alla liturgia vigente presso gli Ebrei prima di Mosè. Ed è appunto questo il lavoro a cui fa riferimento Vico. Cfr. De Ecclesia ante Legem, Lugduni, sumptibus Claudii Landry, 1626, p. 18. 41 come sopra dicemmo: § 331. 42 conosce: ed. 1744. Ed. Nicolini: «conosca». 43 Degnità: la XXXVI. 44 la loro propia poesia: a differenza della poesia dei tempi culti, riflessa e coscientemente finalizzata a intenti estetici, il modo di esprimersi dei primi uomini era un atto spontaneo di conoscenza, poetico solo perché animato naturalmente dalla fantasia. «Poetico» quindi viene quasi a essere sinonimo di «mitico». 45 ammiravano: latinismo: se ne stupivano. 46 Degnità: la XXXV e la XXXIX. 47 Degnità: la XXXVIII. 48 mar Agghiacciato: Mare glaciale artico. Corrisponde al tacitiano «mare pigrum ac prope immotum». 49 Tacito: Germ. 45. 50 molto più: il metodo vichiano consiste nell’attribuire ai primitivi vissuti in età preistoriche le caratteristiche che in tempi civili gli storici o i viaggiatori hanno riscontrato presso popolazioni appartenenti a culture più arretrate (i Germani rispetto ai Romani, gli Amerindi rispetto agli Europei). 51 una Degnità: la XXXVII. 52 Degnità: sempre la XXXVII. 53 divisato: ed. 1744. Ed. Nicolini: «divisati». Significa “proposto”, “suggerito”. 54 insegnar... operare: nonostante i tentativi dell’idealismo crociano di trovare nella Scienza nuova i fondamenti dell’estetica moderna, Vico si mantiene fedele ai canoni della retorica classica, per la quale il fine della poesia era quello pedagogico ed etico del docere. 55 or ora si mostrerà: § 379. 56 «fingunt... creduntque»: cfr. Tac., Ann. V, 10, leggermente modificato nel senso della citazione vichiana da Bacone, De augm. sc. I (Works I, pp. 455-456). 84 57 la terra... disseccata: di «horribili cum plaga torrida tellus» parla anche Lucr., De rer. nat. V, 1220, nel descrivere lo stesso fenomeno, con cui «populi gentesque tremunt», «divum percussi membra timore». E una prova dell’interesse nutrito negli anni della Scienza nuova per la natura dei fulmini è mostrata da S. Maffei, De’ fulmini. Trattato raccolto da varie sue lettere, Giannalberto Tumermani, Verona 1747. 58 impressione sì violenta: anche l’impresistica moderna raffigura il fulmine «per mostrar forza di religione» (G.C. Capaccio, Delle imprese, ex officina Horatij Saluiani: appresso Gio. Giacomo Carlino & Antonio Pace, Napoli 1592, l. I, p. 23r.). Ancora più arguto in proposito Tesauro, p. 69. 59 alture de’ monti: la notizia collima con le scoperte della paleontologia settecentesca e a Vico torna comoda perché la residenza sulle montagne permetteva ai primi uomini di contemplare meglio i fenomeni metereologici e poi astronomici. Cfr. J.C. Greene, La morte di Adamo. L’evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale [1959], tr. it., Feltrinelli, Milano 1971, pp. 7679 e 109-149. 60 spaventati ed attoniti: stessa reazione è immaginata da Voss («habent fulmina vim pectora terrendi mortalia», De theologia gentili, et physiologia Christiana, p. 277) e da Le Clerc all’interno della loro spiegazione fisica della generazione dei fulmini e dei tuoni: «terribilis fulminum fragor ita hominum mentes precellit, ut pleraeque Gentes crediderint singulari Numinis interventu ea vibrari. Hebraei propterea ignem Dei, fulmen, et vocem Dei, tonitrum vocitant. Gracci quoque Jovis tela esse fulmina existimabant» (Clerici, Physica, III, 4, p. 237). 61 avvertirono: non per caso il verbo è lo stesso della memorabile degnità LIII («avvertiscono con animo perturbato e commosso»). 62 alzarono... il cielo: a parte l’etimo platonico di a º nqrwpov, significante colui che vede le cose e si rende conto di ciò che ha visto (Cratilo 17, 398c) e, in via negativa, l’asserzione, pure platonica, secondo cui l’uomo sensuale guarda a terra (Repubblica IX, 586a), la frase vichiana (di cui vedi già il contesto poetico di Giunone in danza, v. 730) risente di due versi celebri di Ovidio: «[Deus] os homini sublime dedit caelumque videre / iussit et erectos ad sidera tollere vultus» (Metamorfosi I, 85-86). Ma il topos dello status rectus dell’uomo è ricorrente nella classicità, da Senofonte a Platone, da Cicerone a Seneca e a Manilio. I luoghi sono indicati da I. Dionigi nel commento alla sua edizione critica di Seneca, De otio (dial. VIII), Paideia, Brescia 1983, ad V, 4, pp. 235-236. 63 Degnità: la XXXII. 64 la natura loro: la mentalità primitiva interpretava le cose in chiave magico-animistica Cfr. E. Auerbach, San Francesco Dante Vico cit., p. 72. 65 Giove: per il nesso tra il fulmine e Zeus cfr. A.B. Cook, Zeus. A Study in Ancient Religion, University Press, Cambridge 1914-1940, vol. II, parte I, p. 11. 66 fischio... fragore: non è escluso, considerando l’etimologia vichiana di «Zeus» (cfr. § 447), che l’allitterazione della spirante labiodentale acquisti un deliberato valore fonosimbolico. 67 dir loro: ed. 1744. Ed. Nicolini: «loro dir». 68 celebrare: praticare, esercitare. 69 di significarle: Vico insiste più sull’aspetto semantico della logica che su quello argomentativo o dialettico. 85 70 poetica: cfr. I. Bettarello, A «lógica poética» de Vico, in «Anais do I congresso brasileiro de filosofia», Revista dos Tribunais, São Paulo 1950, pp. 271286. 71 favola... mûqoß: cfr. G.J. Voss, Etymologicon, p. 235, s.v. «fabula». 72 Strabone: Geografia I, 2, 6, dove si afferma soltanto che la poesia ha preceduto la prosa, come lo stesso Vico correttamente ricorderà al § 847. Qui forse egli venne però confuso dalla tesi di Strabone secondo cui la poesia era legata al canto e “cantare” fu sinonimo di “dire”, donde l’accento vichiano sulla vocalità e, per contrapposizione, sul «mutismo» anteriore. 73 Degnità: la LVII. 74 «verbum»... ebrei: «Hebraeis, davar, non tantum verbam, sive sermonem, quae propria eius notio est, est etiam rem, seu factum notat» (Voss, Etymologicon cit., p. 638). Ma l’equazione è resa familiare dal Vangelo secondo Giovanni (1, 1-3). 75 Gatachero: Thomas Gataker (1574-1654), teologo inglese esperto in anomalie ortografiche. 76 De... stylo: nel De novi instrumenti stylo [1648], in Opera critica, Traiecti ad Rhenum, apud Fr. Halman, Guilvande Water, Ant. Schouten, 1698, cc. 89-90 si afferma sì che per i Greci lógoß significò anche «cosa», ma l’asserzione è attribuita a Sebastiano Pfochenius e come tale criticata dal Gataker, che scrisse questa dissertazione proprio per combattere le tesi esposte dal Pfochenius nel suo De linguae graecae Novi Testamenti puritate. 77 «vera narratio»: sul mito in Vico cfr. J. Cruz Cruz, Hombre e historia en Vico, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 1982, pp. 195-222 e il classico M. Horkheimer, Vico e la mitologia, in Gli inizi della filosofia borghese della storia [1930], Einaudi, Torino 1978, pp. 70-84. 78 Degnità: ancora nella LVII. 79 non fu... cose: tra le parole e le cose non esisteva un legame necessario, ossia di tipo logico e biunivoco. 80 Adamo... ciascheduna: cfr. Gen. 2, 19-20. 81 Così Giove... dà: nei miti religiosi il rapporto tra le cose e le divinità in cui sono identificate (cielo-Giove, mare-Nettuno...) è di tipo metonimico, con la presunta causa antropomorfa che sostituisce i suoi effetti reali. 82 sopra detto: nelle degnità XLVII-XLIX. 83 al contrario: perché nei tempi colti si personificano consapevolmente idee astratte a fini didascalici e mnemonici, laddove i primitivi proiettavano sui «corpi», inanimati e anche «vastissimi», le loro stesse passioni e affetti. 84 pittori: memore forse dell’Iconologia del Ripa o del Mondo simbolico del Picinelli, Vico ricorre a un’analogia assai pertinente, visto che le imprese e la simbologia figurativa consistevano appunto nel personificare i concetti morali dei vizi e delle virtù. 85 comparsa di dottrina: giudicando il linguaggio visivo dei primitivi con la logica dei tempi moderni, si attribuirono ai primi uomini delle doti di astrazione e di logica che paradossalmente vennero dedotte proprio dalle manifestazioni più evidenti della loro incapacità di ragionare con mente pura. 86 Cibele... lione: G.C. Capaccio, Delle imprese cit., II, p. 5v., ricorda che «un carro tirato da leoni con la dea Cibele di sopra» simboleggia l’agricoltura. 87 tanto... tal voce: di «mitologia» viene qui ricuperato il significato etimologico di “discorso contesto di miti, ovvero di favole”. 86 sopra... dimostrato: § 209. Degnità: nella XLIX. 90 «etimologia»... «veriloquium»: cfr. Voss, Etymologicon cit., p. 231, s.v. «etymon». 91 luminosa: l’immagine discende dalle definizioni canoniche: Quint., Inst. orat. V, 14, 34 («plurimum lucis adfert ipsa tralatio») e VIII, 6,4 («... ut in oratione quamlibet clara proprio tamen lumine eluceat»). 92 spessa: non indica soltanto la sua frequenza nel linguaggio ma anche lo spessore semantico che si concentra nella parola metaforica. Anche per Tesauro la metafora «ci fa travedere in una sola parola più di un obietto», tanto che «in un vocabulo solo» si concentra «un pien teatro di meraviglie» (Il cannocchiale aristotelico, in Trattatisti e narratori del Seicento, a cura di E. Raimondi, Ricciardi, Milano-Napoli 1960, p. 74). 93 alle cose... passione: l’ufficio è lo stesso assegnato al poeta, che, nella definizione di un contemporaneo di Vico, «dà corpo ai concetti e, con animar l’insensato ed avvolger di corpo lo spirito, converte in immagini visibili le contemplazioni eccitate della fantasia» (G.V. Gravina, Della ragion poetica I, 9, in Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 213). Ma Vico la considera operazione spontanea e non espediente riflessivamente didascalico, tanto più che appartiene a un pensiero collettivo, non già alla mente di un singolo artefice. 94 passione: concezione in linea con il Sublime dello pseudo Longino («la piena dei sentimenti irrompe e trascina con sé, come necessaria, anche la molteplicità delle metafore», 32, 1), condiviso dalla retorica patetica di P. Sforza Pallavicino, per il quale la metafora «è convenevole a’ passionati» (Trattato dello stile e del dialogo [1646], Torreggiani, Reggio 1828 p. 56). 95 metafora... favoletta: personificando concetti astratti, la metafora corrisponde a un mito. Per intendere la modernità di questa posizione, cfr. G. Dorfles, Mito e metafora in Vico e nell’estetica contemporanea, in L’estetica del mito. Da Vico a Wittgenstein, Mursia, Milano 1968, pp. 7-25. 96 metafore... filosofie: per una verifica sperimentale dei processi cognitivi e psicologici ispirati dalla metafora cfr. R.E. Haskell, Vichian Tropological Transformation: An Empirical Confirmation, comunicazione presentata al congresso internazionale «Vico/Venezia», 21-25 agosto 1978, alla Fondazione Cini. 97 contadinesche... origini: si veda quanto osserva in proposito C. Pavese, un altro autore in sintonia con il mondo campagnolo (Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952, pp. 252-253). 98 «sitire agros»: «i campi hanno sete». Cfr. Cic., Or. XXIV, 81. 99 «laborare fructus»: «i raccolti vanno male» (tr. R. Faranda). Cfr. Quint., Inst. orat. VIII, 6, 6. Poiché anche il precedente esempio di Cicerone ricorre nello stesso contesto quintilianeo, è da presumere che le locuzioni appartengano ai repertorî dei manuali retorici delle scuole. E non per nulla appaiono anche in quello dettato da Vico (Institutiones, p. 310). 100 «luxuriari segetes»: «i campi sono rigogliosi». Forcellini, Lexicon, s.v. «luxuriare» riporta un «seges luxuriabit» e un «seges luxuriunt» di Ovidio (Ars amandi I, 360; Heroides I, 53-54). 101 Degnità: la I. 102 «homo... omnia»: «l’uomo attraverso il comprendere diventa ogni cosa». 88 89 87 103 l’uomo... esse cose: intendendo si estende razionalmente il proprio pensiero alle cose; non intendendo ci si identifica nelle cose, a livello non razionale ma emotivo. Questa teoria, che risente del pampsichismo meridionale, pare aver lasciato traccia anche in G.V. Gravina, Della ragion poetica cit., I, 13, p. 223: «l’istessa ignoranza dell’esser nostro commuove più la tempesta delle passioni». 104 col transformandovisi: con il trasformarsi nelle cose. 105 primi poeti: espressione ellittica, trattandosi di tutti gli uomini primitivi che per natura erano poeti sublimi. 106 particolari: la sineddoche che considera una parte per il tutto. 107 sensibili: la metonimia che considera il concreto per l’astratto. 108 aggiunti: attributi. 109 Degnità: la XLIX, ove si discute degli universali fantastici, da apparentarsi nella loro genesi linguistica al meccanismo di formazione dei tropi. 110 favole: sono i miti eziologici. 111 effetti: gli attributi che simbolicamente connotano virtù e vizi astratti. 112 Povertà... pallida: sono tutti sintagmi attinti dai classici e presenti nell’Institutio oratoria di Quintiliano. «Tristis senectus» e «turpis egestas» provengono da Verg., Aen. VI, 275-276 e sono ricordati da Quintiliano quali esempi di epiteto (VIII, 6, 41); «pallida mors» risale a Hor., Carm. I, 4, 13, puntualmente ripreso dal retore (VIII, 6, 27). Ma Vico non sdegna neppure di riprendere questi esempi scolastici nei suoi testi oratori: «trista vecchiezza» compare nell’orazione in morte di A. Cimmino, «brutta povertà» ritorna nella supplica a re Carlo di Borbone (Opp. V, p. 274). Senza dire che compaiono pure nelle Institutiones vichiane (p. 318). 113 trasporto: si può parlare di traslato solo se il parlante ha la coscienza paradigmatica di impiegare uno scarto linguistico rispetto alla norma standard. E ciò avviene solo da quando si comprende la differenza tra particolare e universale. Prima di allora l’impiego della parte per il tutto era considerata un’espressione propria. 114 «tignum»: presso i classici (Cesare, Orazio, Livio, Properzio) significa «asse», «trave»; presso i giureconsulti del II-III sec. d.C. (Gaio, Ulpiano) significa più genericamente «materiale da costruzione», come correttamente afferma Vico. 115 «culmen»: anche se meno comune di culmus, è attestato nel significato di «gambo», «stelo di paglia» (Ovidio, Fasti IV, 734). Di qui la metonimia che designa il tetto di paglia (Verg., Aen. VIII, 654). 116 pagliare: voce meridionale, designante appunto una capanna rustica con tetto di paglia. 117 «tectum»... «puppis»... «mucro»: sono tutti esempi scolastici di sineddoche attinti da Quint., Inst. orat. VIII, 6, 20. La spiegazione psicologica è invece di Vico. 118 pome: ed. 1744 e ed. Flora. Ed. Nicolini: «pomo». Ma poiché la forma vichiana è attestata anche presso altri scrittori, per quanto più rara, la si è conservata senza alterazioni modernizzanti. 119 Tertia... erat: «era il terzo anno». La sineddoche consiste nell’indicare ogni tipo di raccolto con le messi; la metonimia risiede poi nel designare una stagione dell’anno con un suo fenomeno specifico, quello della raccolta delle messi. L’esempio è tratto da Ovidio, Heroides, 6, 57, come ha scoperto P. Cher- 88 chi, Cinque piccole chiose al «Gran Commento» di F. Nicolini, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», VI (1976), p. 160. Vico, invece, al § 732, parrebbe attribuirlo a Virgilio. Cfr. anche SNP, § 308 e Vico, Institutiones, p. 320. 120 Post... aristas: «dopo alquanti anni, vedendo i miei regni, proverò stupore» (Verg., Ecl. I, 69). L’esametro è un caso canonico di metalessi, ossia di connessione di più tropi: aristas, «spighe», è sineddoche di «messi»; «messe» è dal suo canto metonimia per «estate»; «estate» è sineddoche di «anno». L’esempio ricorre anche in Vico, Institutiones, p. 330. Per la sua persistenza nei manuali di retorica, cfr. C.Ch. Dumarsais e P. Fontanier, Les tropes [1730], con introd. di G. Genette, Slatkine Reprints, Genève 1967, p. 110. 121 falso... verità: a dirla con la linguistica moderna, per intendere l’ironia occorre mettere a confronto il messaggio con il referente, la cui conoscenza fa sì che il senso del messaggio venga capovolto. La complessità di questa operazione induce Vico a collocarne le origini in età più recenti. 122 sopra: § 401. 123 dimostrato: ed. 1744. Ed. Nicolini: «dimostro». 124 tropi... quattro: Quintiliano, elencandone 13, aveva trasmesso a Umanesimo e a Rinascimento l’elenco più seguito. Ma poi, prima di Vico, altri compiono il processo riduzionistico: A. Talon, sotto la scorta di Pietro Ramo (A. Talaei, Rhetorica, Theobaldum Paganum, Lugduni 1569, p. 6); J. Mazzoni, Della difesa della Commedia di Dante, Bartolomeo Raverii, Cesena 1587, pp. 55-57; G.J. Voss, Commentariorum rhetoricorum sive oratoriarum institutionum libri sex, IV, 5, 2, Lugduni Batavorum, ex officina Joannis Majre, 16434, p. 82. Per tutto ciò cfr. Battistini, Degnità, pp. 153-172. 125 trasporti: in termini più generali, si ribadisce quanto affermato della sineddoche. 126 convellere: verbo espressivo consueto in contesti polemici: «abbattere», «estirpare» capovolgendo le posizioni abituali. 127 Vossio: l’olandese Gerhard Johann Voss (1577-1649), reputato a ragione uno dei massimi eruditi del Seicento, fu una delle fonti primarie di Vico quanto a questioni grammaticali ed etimologiche. Sulle sue opere cfr. le recensioni di J. Bernard in «Nouvelles de la république des lettres», t. XXVI, maggio 1702, pp. 483-502; giugno 1702, pp. 603-626; luglio 1702, pp. 70-88; agosto 1702, pp. 180-207. Sulla sua biografia cfr. Gerardi Jounnis Vossii de vita sua usque ad annum MDCXVII delineatio, a cura di C.S.M. Rademaker, in «Lias», I (1974), Holland University Press, Amsterdam, pp. 243-265. Per i suoi influssi su Vico cfr. Battistini, Degnità, pp. 125-152. 128 Gramatica: Aristarchus, sive de Arte Grammatica libri septem, I, 9, in Opera cit., t. II, p. 13, con qualche intervento personale di Vico sulla citazione. 129 «De literarum... dudum»: «sull’invenzione delle lettere alfabetiche molti hanno accumulato molte opinioni, diffusamente e confusamente cosicché tu te ne allontani più incerto di quando ti ci eri avvicinato». 130 «Nulla... credas?»: «non esiste alcuna altra materia nella quale si ritrovino così numerose opinioni in contrasto come in questo problema dell’origine delle lettere e della scrittura. Quante battaglie di opinioni! Che cosa credere? Che cosa non credere?». Queste affermazioni, riadattate da Vico, sono del gesuita belga Hermann Hugo (1588-1629), lo storico della scrittura docente ad Anversa e poi in Spagna e autore del De prima scribendi origine et universae rei literariae antiquitate, Moret, Antuerpiae 1617. L’affermazione si 89 trova alle pp. 13-14 della II ed., a cura di C.H. Trotz, Traiecti ad R., apud Hermannum Besseling, 1738. 131 Bernardo... typographica: Bernhardt von Mallinckrodt, l’erudito tedesco vissuto nella prima metà del Seicento (1591-1644), oltre che di un De ortu ac progressu artis typographicae edito a Colonia nel 1640, è anche autore di un De natura et usu litterarum disceptatio philologica, apparso a Münster sempre nel 1638 e forse ai suoi tempi più conosciuto dell’opera citata da Vico, se è vero che il De natura... litterarum viene ricordato come fonte dal notissimo Unterricht von der Teutschen Sprache und Poesie (1682; 17002) di D.G. Morhof. 132 Elingio: Lorenz Ingewald Eling, deceduto nel 1688, era docente di logica e di metafisica all’Università di Uppsala. 133 De... graecae: Historia graecae linguae, con prefazione di A. Rechenberg, Ioh. Friedrich Gleditsch, Lipsiae 1691, p. 49. Ma la credenza dell’origine divina della scrittura era talmente diffusa, dall’antichità al Settecento, che la citazione degli umbratili Mallinckrodt ed Eling sembra ricorrere più per stupire i lettori per le sterminate conoscenze erudite di Vico che per una necessità effettiva di tale supporto bibliografico. 134 lettere: come chiarisce Cantelli, p. 25, non si tratta delle lettere alfabetiche, che presuppongono un linguaggio articolato e fonetico di cui sono la trascrizione, ma «tutti quei segni espressivi e significati che per trasmettersi e comunicarsi si fondano sull’organo della vista, anziché su quello dell’udito». 135 Aristotile: Topici, VI, 5, 2, 142b 31, dove, a conferma della sinergia qui sostenuta da Vico tra parola e scrittura, si definisce la grammatica arte dello scrivere e anche del leggere. 136 se tali lettere... a placito: se tali lettere avessero un legame naturale e necessario con i rispettivi suoni, anziché essere, come crede Vico, segni convenzionali. La differenza tra le lingue era già ai tempi di Vico la prova più sicura dell’arbitrarietà dei segni. 137 sappienti: essendo stati i primi uomini gli inventori dei linguaggi e della scrittura Vico non nega loro l’attributo di sapienti conferito dalla «boria dei dotti»; precisa però, polemicamente, che si trattava di un genere di sapienza radicalmente diverso da quello odierno, perché naturale e istintivo, non riflesso. 138 sopra: § 433. 139 topica sensibile: come nel De ratione, III, si sottolineava la priorità ontogenetica della topica, così nella Scienza nuova se ne asserisce la priorità filogenetica. Per questo Vico specifica che la sua natura è «sensibile», volendo differenziarla dalla topica riflessa e codificata dai retori moderni, per i quali essa consiste in un repertorio di loci da percorrere con l’ausilio anche della logica. I primitivi invece ritrovavano gli argomenti adatti al loro discorso non con l’astrazione e l’intelletto ma con l’intuizione, la fantasia e la memoria. 140 ritruovare... ingegno: d’accordo con Cicerone (De orat. II, 35, 147), Vico fa dell’ingegno la risorsa più conveniente all’inventio retorica. Cfr. Mooney, pp. 151-153. 141 il farem vedere: §§ 793-801. 142 Degnità: la LII. 143 i primi popoli... i fanciulli: ecco esplicitamente ribadito il parallelismo tra filogenesi e ontogenesi. 144 sopra: §§ 401, 403, 808. 90 Da «Idee per la filosofia della storia dell’umanità» di Johann Gottfried Herder* 1) Dovunque in esso si esprime il carattere di climi e di nazioni. Si confronti la mitologia del Groenlandese con quella dell’Indiano, quella del Lappone con quella del Giapponese, quella del Peruviano con quella del Negro e si avrà una geografia completa delle composizioni fantastiche dell’anima. Il Bramino non riuscirebbe a farsi neppure un’immagine di ciò che si dice, se gli si leggesse e spiegasse il Voluspa1 degli Islandesi, e l’Islandese si troverebbe altrettanto a disagio con il Veda. In ogni nazione il modo di rappresentarsi le cose è tanto più radicato in quanto le è proprio, connesso al suo cielo e alla sua terra, scaturito dalle sue forme di vita, ereditato dai padri e dagli antenati. Ciò che fa più stupire uno straniero, è, invece, nell’ambito di ciascuna nazione, la cosa più facile da comprendere, e ciò che lo straniero trova più ridicolo, appare invece serissimo. Gli Indiani dicono che il destino dell’uomo è scritto nel suo cervello, le cui sottili circonvoluzioni rappresenterebbero le lettere in* J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 132-138, 185-191, 231-238. 91 decifrabili tratte dal libro del destino; spesso i concetti e le opinioni nazionali più arbitrarie sono tali fantasticherie, tratti della fantasia derivanti dal legame saldissimo tra corpo e anima. 2) Come si spiega tutto questo? Forse che ogni individuo di questi greggi umani si è trovato da sé la sua mitologia, destinata a rimanere sua proprietà? Per nulla affatto. Non l’ha minimamente inventata, l’ha ereditata. Se l’avesse costruita con la sua riflessione, si potrebbe anche condurlo dal peggio al meglio con la sua riflessione, ma le cose non stanno così. Quando Dobritzhofer2 cercò di far capire ad un intero gruppo di valorosi e intelligenti Abiponi quanto fosse ridicolo il loro terrore per le minacce di uno stregone che prometteva di trasformarsi in una tigre e di cui già pensavano di sentire le grinfie su di sé, e disse loro: «Voi uccidete ogni giorno delle tigri nei campi, senza spaventarvi; perché allora siete così vili da impallidire per una tigre che soltanto immaginate e che non esiste?», un valoroso Abipone gli rispose: «Voi padri non avete nessun concetto delle nostre cose. Noi non temiamo la tigre dei campi, perché la vediamo e la uccidiamo senza fatica. Invece, le tigri nate da incantesimo ci atterriscono appunto perché non le vediamo e non possiamo perciò ucciderle». Mi sembra che qui si trovi il nocciolo della questione. Se tutti i nostri concetti fossero così chiari come quelli che derivano da una esperienza visiva, se non avessimo altre immagini che quelle tratte dagli oggetti della vista e potessimo confrontarle con essi, allora la fonte dell’inganno e dell’errore sarebbe se non chiusa, per lo meno conoscibile. Ma in realtà la maggior parte delle fantasie dei popoli sono un prodotto dell’ascolto e del racconto. Il fanciullo ignaro ha ascoltato con curiosità le saghe che sono fluite nella sua anima, come latte materno e come un vino festivo della stirpe paterna, e l’hanno nutrito. Quelle saghe sembravano spiegargli ciò che vedeva, il giovinetto ne traeva notizie sul modo di vita della sua stirpe e sulla gloria dei suoi padri: esse consacrarono l’uomo in forma nazionale e climatica nel suo compito e così diventarono anche inseparabili da tutta la sua vita. L’abitante della Groenlandia e il Tunguso per tutta la loro vita vedono realmente ciò che hanno soltanto sentito raccontare nella loro infanzia e vi credono come a una ve92 rità constatata con i loro occhi. Di qui i costumi così angosciosi dei popoli tra loro più lontani durante le eclissi di sole e di luna; di qui la loro fede così pavida negli spiriti dell’aria, del mare e di tutti gli elementi. Dove c’è movimento nella natura, dove qualcosa sembra vivere e cambia senza che l’occhio percepisca le leggi del mutamento, l’orecchio sente voci e parole che gli spiegano l’enigma di ciò che vede mediante cose non viste: l’immaginazione viene soddisfatta a suo modo, cioè mediante immagini. In genere l’orecchio è il senso più pavido e timoroso di tutti, e sente in modo vivo, ma oscuro; non può trattenere le sensazioni, non può confrontarle fino a quando abbiano raggiunto la chiarezza, perché i suoi oggetti passano in una successione assordante. Essendo destinato a destare gli altri sensi, è raro che, senza il loro aiuto e specialmente senza l’aiuto dell’occhio, possa informarli fino a dare loro notizie sufficientemente chiare. 3) Si vede quindi che l’immaginazione dovette necessariamente esser tesa soprattutto nei popoli che amano la solitudine, che abitano le contrade selvagge della natura, il deserto, un paesaggio roccioso, le coste tempestose del mare, i piedi di cime vulcaniche o altre contrade ricche di aspetti meravigliosi e movimentati. Fin dall’antichità il deserto arabico è stato fonte di tali fantasie, e quelli che se ne sono invaghiti erano per lo più uomini solitari, estatici. Maometto ha concepito il Corano nella solitudine; la sua fantasia eccitata lo ha estasiato fino a portarlo al cielo e fargli vedere tutti gli angeli, i beati e i mondi: la sua anima non è mai così ardente come quando descrive il lampo della notte solitaria, il giorno del giudizio universale e altri argomenti straordinari. E quanto si è diffusa la superstizione degli Sciamani! Dalla Groenlandia e dalla Lapponia, lungo l’intera costa del Mare Glaciale Artico fin nella Tartaria e in quasi tutta l’America. Dappertutto compaiono stregoni e dappertutto essi vivono in un mondo di fantasmi spaventosi. Più di tre quarti della terra seguono questa credenza, perché anche in Europa la maggior parte delle nazioni di origine finnica e slava sono ancora attaccate al culto della natura e la superstizione dei negri non è altro che uno sciamanismo configuratosi secondo il loro genio e clima. Nei paesi di cultura asiatica veramente lo 93 sciamanismo è stato soppiantato da religioni e ordinamenti statali positivi più raffinati; ma si manifesta ancora, dove è permesso vederlo, nella solitudine e nella plebe, e in alcune isole del Mare del Sud è di nuovo in grande vigore. Il culto della natura, dunque, ha abbracciato tutta la terra e le sue fantasticherie si attaccano ad ogni oggetto connesso al clima che sia una manifestazione di strapotere o causa di terrore e con cui confina il bisogno umano. Nei tempi più antichi era il culto divino di quasi tutti i popoli della terra. 4) Che il modo di vivere e il genio di ogni popolo abbiano qui un’influenza determinante non è neanche il caso di ricordarlo. Il pastore vede la natura con occhi diversi da quelli del pescatore e del cacciatore; in ogni contrada queste occupazioni sono diverse tra loro, come i caratteri delle diverse nazioni. Per es., io mi meravigliavo di trovare nella mitologia dei Camciadali che abitano tanto a Nord una lascivia sfrontata, che pensavo si dovesse cercare piuttosto presso un popolo del Sud; ma il loro clima e il loro carattere genetico spiega anche questa anomalia3. La loro terra fredda ha dei monti vulcanici e fonti di acqua calda: si ha dunque un contrasto tra un freddo rigidissimo e un caldo cocente; i loro costumi lascivi e le loro rozze farse mitologiche sono un prodotto naturale di entrambi. Lo stesso vale per quelle favole che il negro chiacchierone e chiassoso ama raccontare e che non hanno né capo, né coda4; lo stesso dicasi della precisa e concisa mitologia dei Nord-americani5; lo stesso delle fantasticherie floreali degli Indiani6, in cui, come da loro stessi, spira tutta la vita, doveva compiere per altri, ripetendo un analogo sforzo la voluttuosa quiete del paradiso. I loro dei fanno il bagno in mari di latte e di zucchero; le loro dee abitano su stagni refrigeranti nel calice di fiori dal dolce profumo. In breve, la mitologia di ogni popolo è una riproduzione del suo modo proprio di vedere la natura e attesta soprattutto se, a seconda del suo clima e del suo genio, ha trovato in essa più bene o più male, e come ha cercato di spiegare l’uno con l’altro. Anche nelle contrade più selvagge e nei tratti più deformi essa è un tentativo dell’anima umana, che prima di destarsi, sogna e rimane volentieri nell’infanzia. 94 5) Di solito si considerano gli stregoni, i maghi, gli Sciamani come autori di queste favole che accecano il popolo e si crede di aver tutto spiegato, quando li si è chiamati ingannatori. In molti casi, certamente lo sono stati, ma non si dimentichi che essi stessi sono popolo, e quindi furono ingannati da saghe più antiche. Essi furono generati e educati nel complesso delle fantasie della loro stirpe; la loro consacrazione è avvenuta con il digiuno, la solitudine, la tensione dell’immaginazione e l’indebolimento del corpo e dell’anima; perciò nessuno diveniva mai stregone prima che gli apparisse lo spirito e quindi fosse compiuta nella sua anima l’opera che egli poi, per tutta la vita, doveva compiere per altri, ripetendo un analogo sforzo del pensiero e indebolimento del corpo. Anche i viaggiatori più flemmatici sono rimasti stupiti di fronte ad alcuni esempi di destrezza e di illusionismo, perché vedevano risultati dell’immaginazione che a stento avrebbero ritenuto possibili e che spesso non sapevano spiegarsi. In generale, la fantasia è ancora la facoltà meno studiata, e, forse, la meno studiabile tra tutte le facoltà dell’anima umana: siccome essa è connessa con l’intera struttura; del corpo, specialmente con cervello e con i nervi, come attestano molte strane malattie, sembra essere non soltanto il legame e il fondamento di tutte le facoltà psichiche più alte, ma anche il nodo del rapporto tra spirito e corpo, per così dire, il bocciolo fiorito dell’intero organismo sensibile per l’ulteriore uso delle facoltà di pensiero. Essa, quindi, è necessariamente la prima cosa che passa dai genitori ai figli, come dimostrano molti esempi contro-natura, insieme all’incontestabile somiglianza dell’organismo interno ed esterno, anche nelle cose più contingenti. Si è a lungo dibattuto se vi siano idee innate e certo non ve ne sono nel senso in cui si interpretava quel termine; ma se lo si intende, invece, come la disposizione più prossima a ricevere, a collegare ed estendere certe idee ed immagini, allora non sembra esservi nessuna ragione in contrario, anzi tutto sembra deporre a favore di questa concezione. Se un figlio può ereditare le sei dita, se la famiglia del Porcupine-man in Inghilterra ha potuto ereditare la sua aberrazione non umana, se così palesemente si trasmette la conformazione esterna della testa e del volto, come potrebbe accadere, senza un miracolo, che non si trasmettesse anche la conformazione del cer95 vello e non la si ereditasse forse, con le sue circonvoluzioni organiche più raffinate? In molte nazioni sono diffuse malattie della immaginazione, di cui noi non abbiamo nemmeno l’idea. Tra i valorosi e sani Abiponi, per es., è diffusa una follia periodica, di cui l’invasato non è cosciente negli intervalli del benessere: è sano, come prima era sano; soltanto la sua anima, dicono essi, non era in lui. In parecchi popoli, per dare sfogo a questi mali, si sono disposte feste per i sonnambuli, in modo da permettere loro di fare quello che il loro spirito comanda. In generale, presso tutti i popoli ricchi di fantasia, i sogni hanno una forza straordinaria; probabilmente, anzi, i sogni sono stati le prime Muse, i genitori della vera e propria finzione poetica. Essi portarono agli uomini cose che nessun occhio aveva mai visto e il desiderio delle quali si trovava però nell’anima umana; ad es., che cos’è più naturale del fatto che la persona cara defunta compaia nei sogni ai superstiti e che coloro che così a lungo hanno vissuto con noi nella veglia, ora desiderino vivere con noi almeno come ombre nel sogno? La storia delle nazioni mostrerà che la Provvidenza ha usato l’immaginazione come un organo, mediante il quale essa poteva operare in modo così forte, così puro e così naturale sull’uomo; ma sarebbe orribile se l’inganno o il dispotismo ne abusasse e si servisse per i suoi scopi di tutto l’oceano indomito dei sogni e delle fantasie umane. Grande spirito della terra, con quale sguardo abbracci tu tutte le forme d’ombra e i sogni che si inseguono sulla nostra sfera terrestre: perché noi siamo ombre e la nostra fantasia compone soltanto sogni di ombre! Così, come noi non potremmo respirare in un’aria più pura, la ragione pura non può comunicarsi interamente alla nostra spoglia, composta e formata di polvere. Tuttavia anche in tutti gli erramenti della fantasia il genere umano viene educato alla ragione; rimane attaccato alle immagini, perché queste gli danno l’impressione delle cose, ed egli vede e cerca, anche nella nebbia più fitta, raggi della verità. Felice ed eletto l’uomo che nella vita limitata cresce, per quanto può, innalzandosi dalle fantasie all’essere, cioè dall’infanzia alla maturità, e anche in questo intento percorre con spirito puro la storia dei suoi fratelli! L’anima riceve un nobile ampiamento di prospettiva, quando osa mettersi fuori dalla cerchia ristretta, che hanno tracciato intorno a noi il clima e 96 l’educazione, e, osservando le altre nazioni, impara almeno di che cosa si potrebbe fare a meno. Come si vede che si fa a meno e si può fare a meno di tante cose che a lungo sono state considerate essenziali! Rappresentazioni, che spesso abbiamo ritenuto i principi più universali della ragione umana, svaniscono qua e là con il clima di un luogo, proprio come allo sguardo del navigante la terra ferma scompare come una nuvola. A ciò che una nazione ritiene indispensabile per il suo modo di pensare, quell’altra nazione non ha mai pensato o lo considera perfino nocivo. E così andiamo errando sulla terra in un labirinto di fantasticherie: dove sarà il centro del labirinto, a cui riconducono tutti i meandri del cammino, come i raggi spezzati al sole? Questo è il problema. [...] La religione è la tradizione più antica e più sacra della terra Stanchi ed esausti di tutti i mutamenti della superficie terrestre, nelle diverse contrade, nei diversi tempi e nei diversi popoli, non troveremo dunque mai nulla su di essa che sia possedimento e privilegio comune del nostro genere? No, salvo la disposizione alla ragione, all’Umanità e alla religione, che sono le tre Grazie della vita umana. Tutti gli Stati sono sorti tardi e ancora più tardi sono sorte in essi le scienze e le arti; ma le famiglie sono l’opera eterna della natura, l’economia provvidenziale perenne, in cui essa pianta i semi dell’Umanità nel genere umano e lo educa. Le lingue cambiano con ogni popolo in ogni clima; ma in tutte le lingue è riconoscibile una sola e identica ragione umana che cerca dei caratteri. La religione infine, per quanto possa essere diversa la sua veste, si trova anche tra i popoli più poveri e più rozzi ai margini della terra. L’abitante della Groenlandia o della Camciatka, della Terra del Fuoco e della Papuasia, ha delle manifestazioni religiose, come mostrano le sue saghe e i suoi costumi; anzi, se ci fosse tra gli Anzichi7 o gli uomini selvaggi delle isole indiane un qualche popolo che 97 fosse del tutto privo di religione, proprio questa mancanza sarebbe segno del suo stato estremamente inselvatichito. Donde hanno tratto questi popoli la loro religione? Forse che ogni misero si è inventato il suo culto come una teologia naturale? Questi miseri non hanno inventato nulla, ma seguono in tutto la tradizione dei loro padri. Del resto nulla ha dato loro occasione dall’esterno per inventare una religione: se infatti essi hanno imparato dagli animali o dalla natura l’arco e le frecce, la lenza e il vestito, da quale oggetto naturale, da quale animale avrebbero imparato per imitazione la religione? Da quale animale o da quale oggetto naturale avrebbero imparato il culto? Anche qui dunque la tradizione è la madre che ha trasmesso come il loro linguaggio e la loro modesta cultura, anche la loro religione e i loro usi sacri. Ne consegue dunque che la tradizione religiosa non ha potuto servirsi di alcun altro mezzo che di quello di cui si sono serviti la ragione e il linguaggio stesso, cioè dei simboli. Se il pensiero deve diventare parola, se vuole essere trasmesso e configurarsi come un segno visibile, per poter servire anche per altri e per i posteri: e come poteva l’invisibile esser reso visibile o una storia vissuta esser conservata per i posteri, se non con parole e con segni? Perciò anche nei popoli più rozzi il linguaggio della religione è sempre il linguaggio antico, più oscuro, spesso inintelligibile agli stessi iniziati e molto di più agli estranei. I simboli religiosi di ogni popolo, per quanto potessero essere connessi al clima e alla nazione, divennero ben presto privi di significato in poche generazioni. Né questo può meravigliare, perché lo stesso doveva accadere ad ogni linguaggio, ad ogni sistema di segni arbitrari, se non fossero stati spesso confrontati con i loro oggetti attraverso l’uso vivo, mantenendo così costante il ricordo del loro significato. Nella religione spesso questo confronto vivo è stato difficile o impossibile, poiché il segno concerneva un’idea invisibile o una storia passata. Era inevitabile dunque che i sacerdoti, che al principio erano i sapienti della nazione, non conservassero per sempre tale funzione. Appena persero il senso del simbolo, divennero muti servi della idolatria o falsi profeti della superstizione. E in effetti sono diventati tali in gran parte quasi dappertutto, non per un intenzionale desiderio di ingannare, ma perché la cosa stessa lo 98 comportava. E lo stesso destino tocca pure al linguaggio, come ad ogni scienza, arte o istituzione: chi, senza sapere, deve parlare o deve portare avanti un’arte, è costretto a dissimulare, a inventare, a mentire: una falsa apparenza subentra al posto della verità perduta. Questa è la storia di tutti i misteri sulla terra, che al principio nascondevano senz’altro qualcosa di degno di essere saputo, ma da ultimo, specialmente da quando la sapienza umana se ne era distaccata, degenerarono in misere chiacchiere; e così i loro sacerdoti divennero alla fine poveri impostori nel conservare una sacralità divenuta ormai vuota. E a farli apparire come tali sono stati soprattutto i governanti e i sapienti. I governanti, portati presto dalla loro posizione superiore, ammantata di ogni potenza, ad un arbitrio senza limiti, ritennero dovere del loro stato limitare anche le potenze superiori invisibili e quindi o tollerare i loro simboli come marionette o annientarli. Di qui l’infelice conflitto tra trono e altare in tutte le nazioni semicivilizzate; fino a quando si cercò di legarli entrambi insieme e nacque quindi quella cosa mostruosa che è un altare sul trono o un trono sull’altare. Per forza i sacerdoti, ormai degenerati, dovettero sempre perdere in questo conflitto impari, perché una potenza visibile lottava contro una fede invisibile, l’ombra di un’antica tradizione doveva combattere con lo splendore dello scettro dorato che prima gli stessi sacerdoti avevano consacrato e dato in mano ai monarchi. Con l’aumento della cultura, dunque, passarono, i tempi del dominio sacerdotale: il despota, che originariamente aveva cinto la corona in nome di Dio, trovò più facile portarla in nome proprio e il popolo fu ora abituato dai governanti e dai sapienti a questo nuovo scettro. Ora è innegabile in primo luogo che è stata soltanto la religione a portare dovunque ai popoli la prima civiltà e la prima scienza, anzi che queste originariamente non erano altro che una sorta di tradizione religiosa. Ancor ora nei popoli selvaggi quel poco di civiltà e di sapere è connesso con la religione. Il linguaggio della loro religione è un linguaggio sublime e solenne, che non soltanto accompagna gli usi sacri con canti e con danze, ma anche, per lo più, deriva dalle saghe del mondo primitivo ed è quindi l’unico residuo per questi popoli di antiche notizie, del ricordo del mondo antico o di un barlume di sapere. 99 La numerazione e l’osservazione dei giorni, che è il fondamento di ogni misurazione del tempo, dappertutto era o è qualcosa di sacro, della scienza del cielo e della natura, quale che possa essere, si sono appropriati i maghi di tutte le parti del mondo. Anche l’arte medica e divinatoria, la scienza dell’occulto, e l’interpretazione dei sogni, l’arte di decifrare i caratteri e di conciliarsi con le divinità, di dare pace ai defunti e di avere notizie di essi – in breve tutto l’oscuro dominio dei problemi e delle prospettive riguardanti ciò che inquieta l’uomo, è nelle mani dei sacerdoti, a un punto tale che in molte popolazioni il culto comune e le sue feste sono quasi l’unico elemento che connette in una sembianza di totalità famiglie tra loro indipendenti. La storia della civiltà mostrerà che anche presso i popoli più colti le cose sono andate così. Gli Egiziani e tutti gli orientali fino al margine del mondo orientale, e in Europa tutte le nazioni civilizzate dell’antichità, gli Etruschi, i Greci, i Romani hanno ricevuto le scienze dal seno e sotto il velo delle tradizioni religiose: così furono date loro la poesia e l’arte, la musica e la scrittura la storia e la medicina, la fisica e la metafisica, l’astronomia e la cronologia, e perfino la dottrina dei costumi e dello Stato. I più antichi sapienti non fecero altro che scindere quello che era stato dato loro in germe e farlo crescere come una pianta propria, e questo processo di sviluppo proseguì con i secoli. Anche noi nordici abbiamo ricevuto le nostre scienze in veste di religione e così si può osare di dire, in base alla storia di tutti i popoli, che «la terra deve tutti i germi della sua più alta civiltà alla tradizione religiosa scritta e parlata». In secondo luogo la natura stessa della cosa conferma questa affermazione storica: che cosa infatti ha innalzato l’uomo al di sopra degli animali e, anche nelle forme di degenerazione, gli ha impedito di scadere del tutto al loro livello? Si dice la ragione e il linguaggio. Ma come l’uomo non ha potuto giungere alla ragione senza linguaggio, così non ha potuto giungere ad entrambi, se non osservando l’unità nella molteplicità e quindi rappresentandosi l’invisibile nel visibile, collegando la causa con l’effetto. Una specie di sentimento religioso delle forze invisibili operanti in tutto il caos degli esseri che lo circondava, dovette dunque precedere e fondare quella prima formazione e connessione di idee razionali astratte. Questo è il sentimento 100 dei selvaggi di fronte alle forze della natura, anche quando non hanno nessun concetto esplicito di Dio; un sentimento vivo ed efficace quale attestano perfino la loro idolatria e la loro superstizione. Per quanto riguarda tutti i concetti intellettuali di cose soltanto visibili, l’uomo opera in modo simile all’animale, mentre per innalzarlo al primo grado della ragione superiore ci voleva la rappresentazione di un invisibile nel visibile; di una forza nell’azione. Questa rappresentazione è anche l’unico elemento della ragione trascendente che possiedono le nazioni rozze e che gli altri popoli hanno soltanto sviluppato in un gran numero di parole. Lo stesso vale per la sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Quale che sia il modo in cui l’uomo è arrivato a questo concetto, esso, come credenza popolare universale, è l’unico che distingue l’uomo dall’animale nella morte. Nessuna nazione selvaggia è in grado di darsi una dimostrazione filosofica dell’immortalità di un’anima umana, proprio come non può farlo neanche il filosofo; perché il filosofo può soltanto rafforzare, con motivi razionali, la fede nell’immortalità che già si trova nel cuore umano; ma questa fede è universale sulla terra. Anche l’abitante della Camciatka ha questa fede, quando dà i suoi morti in pasto agli animali e l’abitante della Nuova Olanda, quando getta i cadaveri in mare. Nessuna nazione sotterra i suoi morti, come si sotterrano gli animali: ogni selvaggio, alla sua morte, pensa di andare nel regno dei padri, nella terra delle anime. La tradizione religiosa e il sentimento intimo dell’esistenza, che non vuole saperne dell’annientamento, precedono dunque lo sviluppo della ragione, che altrimenti ben difficilnente sarebbe giunta al concetto di immortalità oppure lo avrebbe astratto in modo del tutto inefficace. E così la fede universale degli uomini nella permanenza della nostra esistenza è la piramide della religione sulle tombe dei popoli. Infine, le leggi e regole divine dell’umanità che si manifestano, sia pur solo in residui, anche nel popolo più selvaggio, dovrebbero forse esser state escogitate dalla ragione dopo secoli e aver tratto le loro salde fondamenta da questa costruzione mutevole dell’astrazione umana? Non posso crederlo, tanto più se guardo la storia. Se gli uomini fossero stati sparsi sulla terra come animali, per trovare da soli la forma interiore dell’Umanità, ancor ora dovremmo scoprire nazioni prive di lin101 guaggio, di ragione, di religione e di costumi, perché l’uomo è ancora adesso sulla terra, come è stato. Ma nessuna storia, nessuna esperienza ci dice che vivano da qualche parte oranghi umani e le favole, raccontate prima da Diodoro e poi da Plinio, di uomini insensibili o di uomini non umani, mostrano esse stesse il loro carattere favoloso o quanto meno non meritano ancora nessuna fede sulla testimonianza di questi scrittori. Così pure sono certo esagerate anche le saghe che i poeti raccontano a proposito dei popoli rozzi del mondo primitivo, per innalzare i meriti dei loro Orfei e Cadmi; già il tempo, in cui questi poeti sono vissuti, e lo scopo delle loro descrizioni escludono infatti che li si possa considerare come testimoni storici. Nessun popolo europeo, per non parlare dei Greci, è stato selvaggio come gli abitanti dell’Oceania o della Terra del Fuoco, anche considerando il loro clima, eppure anche quelle nazioni inumane hanno Umanità, ragione e linguaggio. Nessun cannibale mangia i suoi fratelli e i suoi figli; tale barbaro costume è un orrendo diritto di guerra per conservare il valore e per stimolare il reciproco terrore del nemico. È dunque semplicemente frutto di una rozza ragione politica che ha così represso l’Umanità in quelle nazioni in vista di queste poche vittime della patria, come noi Europei l’abbiamo repressa ancor ora in vista di altre cose. Essi si vergognavano della loro orribile azione di fronte agli stranieri, come invece noi europei non ci vergogniamo delle stragi di uomini che compiamo; essi si mostrano animati di spirito fraterno e nobile verso quei prigionieri di guerra a cui non tocca quella triste sorte. Tutti questi costumi, anche quello dell’Ottentotto che seppellisce vivo il figlio o dell’Esquimese che abbrevia la vita al suo vecchio padre, sono conseguenze della triste necessità, che tuttavia non contraddice mai il sentimento originario dell’Umanità. Orrori molto più strani ha prodotto tra noi la ragione mal guidata o la lussuria scatenata, dissolutezze a cui di rado giunge la poligamia del negro. Ora come nessuno negherà, nonostante tutto questo, che anche nel petto del sodomita, del tiranno, dell’assassino, è scolpita l’immagine dell’Umanità, anche se egli l’ha resa quasi irriconoscibile con le passioni e con abitudini licenziose, così mi si conceda, dopo tutto quanto ho letto e studiato sulle nazioni della terra, di ammettere che questa disposizione interna all’U102 manità è altrettanto universale della natura umana, anzi costituisce propriamente questa natura. Essa è più antica della ragione speculativa, sviluppatasi nell’uomo soltanto con l’osservazione e il linguaggio, e che anzi non avrebbe nessun criterio in campo pratico, se non lo prendesse a prestito da quell’immagine che sta in noi. Se tutti i doveri dell’uomo sono soltanto convenzioni che egli ha escogitato come mezzi per la propria felicità e ha consolidato con l’esperienza, allora cessano di essere miei doveri, se io mi sciolgo dal loro scopo, dalla felicità. Il sillogismo della ragione ora è completo. Ma come hanno fatto quei doveri ad entrare nel petto di colui che non ha mai riflettuto speculativamente sulla felicità e sui mezzi per conseguirla? Come hanno fatto ad entrare nello spirito d’un uomo i doveri della vita coniugale, dell’amore paterno e filiale, della famiglia e della società, prima che egli potesse aver raccolto le esperienze del bene e del male a proposito di ciascuno di essi, dovendo quindi comportarsi mille volte in modo disumano prima di diventare un uomo? No, o divinità benevola, tu non hai abbandonato la tua creatura al caso crudele; agli animali hai dato l’istinto, all’uomo hai scolpito nell’anima la tua immagine, la religione e l’Umanità: i contorni della statua stanno profondamente sepolti nello scuro marmo, solo che non possono venir fuori, esser scolpiti da se stessi; quest’opera dovevano compierla la tradizione e la dottrina, la ragione e l’esperienza, e tu non gliene hai fatto mancare i mezzi. Le regole della giustizia, i princìpi del diritto e della società, perfino la monogamia come matrimonio e amore più naturale per l’uomo, la tenerezza per i figli, l’affetto rispettoso verso i benefattori e gli amici, perfino il sentimento dell’essere più potente e benefico sono tratti di questa immagine, qua e là ora nascosti, ora sviluppati, ma che dovunque mostrano la disposizione originaria dell’uomo a cui egli non può rinunciare, non appena l’avverte. Il regno di queste disposizioni e del loro sviluppo è la vera città di Dio sulla terra, di cui sono cittadini tutti gli uomini, soltanto in classi e gradi diversi. Felice colui che può contribuire alla diffusione di questo regno della vera creazione interiore dell’uomo: non dovrà invidiare le invenzioni di nessun scienziato, né la corona di nessun re. Ma chi ci dirà dove e come questa stimolante tradizione del103 l’Umanità e della religione è sorta e si è diffusa con molte trasformazioni fino ai margini del mondo, dove si perde nei resti più confusi? Chi ha insegnato all’uomo il linguaggio proprio come ancor ora ogni bambino l’impara da altri e nessuno si inventa da sé la sua ragione? Quali furono: i primi simboli compresi dall’uomo in modo che proprio nel velo della cosmogonia e delle saghe religiose si diffusero tra i popoli i primi germi della cultura? Dove sta appeso il primo anello di questa catena del genere umano, della sua formazione spirituale e morale? Vediamo cosa ci dice a questo proposito la storia naturale della terra insieme alla più antica tradizione. La lingua, la mitologia e la poesia dei Greci Arriviamo ora in un campo che già per secoli ha costituito, ed io spero costituirà sempre, la gioia della parte più raffinata del genere umano. La lingua greca è la lingua più colta del mondo, la mitologia greca è la mitologia più ricca e più bella che si trovi sulla terra e la poesia greca, infine, è forse la poesia più perfetta della sua specie, se la si considera in rapporto al suo luogo e al suo tempo. Chi ha dato a queste tribù, che un tempo erano rozze, una tale lingua poesia e sapienza simbolica? È stato il genio della natura, la loro terra, il loro modo di vivere, il loro tempo, il loro carattere ereditario. La lingua greca muove i suoi primi passi da una fase iniziale rozza; ma questa fase iniziale conteneva già i germi di ciò che poteva svilupparsene. Questa lingua infatti non era un impasto di geroglifici, una serie di sillabe emesse isolatamente, come le lingue che vengono parlate al di là dei monti mongolici. Organi fonetici più flessibili, più agili produssero tra i popoli del Caucaso una modulazione di suoni più facile e sciolta, che ben presto potè assumere forma regolare, sotto l’impulso dell’amore per la musica nella vita in comune. Le parole vennero connesse in modo più garbato, i suoni furono ordinati in un ritmo: la lingua fluì come una corrente più piena, le sue immagini assunsero una piacevole armonia, innalzandosi perfino alla melodia della danza. Così si spiega quel carattere esclusivo della 104 lingua greca, che non venne tratta a forza da mute leggi, ma sorse come una forma viva della natura dalla musica e dalla danza, dal canto e dalla storia, in breve dalla libera comunicazione e conversazione di diverse tribù e colonie. I popoli del Nord Europa non ebbero questa fortuna nella loro formazione. Avendo ricevuto costumi stranieri mediante leggi straniere e mediante una religione priva di canti, anche la loro lingua è ammutolita. La lingua tedesca per es., ha incontestabilmente perduto gran parte della sua interna duttilità e tendenza ad una più precisa designazione nella flessione delle parole, anzi, ancor peggio, gran parte di quella viva risonanza che aveva prima, in contrade più favorevoli. Un tempo essa era una parente assai prossima della lingua greca ed ora quanto diversamente si è sviluppata dalla sorella! Nessuna lingua al di là del Gange ha la flessibilità e la delicata fluidità della favella greca; e nessun dialetto aramaico al di qua dell’Eufrate l’aveva nelle sue forme antiche. Soltanto la lingua greca è nata attraverso il canto: sono stati infatti il canto e la poesia e un precoce costume di vivere liberamente a farne la lingua delle Muse di tutto il mondo. E come è raro che si ritrovino nuovamente insieme quelle circostanze che hanno favorito la formazione della civiltà greca, com’è impossibile che il genere umano possa tornare alla sua infanzia e riportare in vita un Orfeo, un Museo, un Lino o un Omero o un Esiodo con il loro mondo, così è impossibile che nasca una lingua greca nei nostri tempi, anche in queste contrade. Nella mitologia dei Greci confluirono saghe di diverse contrade, la fede popolare, i racconti delle tribù riguardo ai loro capostipiti e i primi tentativi del pensiero di spiegarsi il miracolo del mondo e di dare forma alla società umana8. Per quanto spurii e rielaborati siano gli inni dell’antico Orfeo, da noi posseduti, sono pur sempre riproduzioni di quelle forme di viva adorazione e preghiera alla natura che tutti i popoli amano nel primo grado della loro formazione. In modo molto simile a quello di Orfeo, il cacciatore barbaro parla all’orso di cui ha paura9, il negro al suo feticcio sacro, il parso Mobed ai suoi spiriti e elementi naturali; ma quanto più puro e nobile è l’inno alla natura orfico già soltanto per le parole e le immagini greche! E quanto più piacevole ed eterea divenne la mitologia greca 105 quando, con il passare del tempo, ripudiò anche negli inni le catene dei semplici epiteti e li sostituì, come nei poemi omerici, con racconti e favole riguardanti la divinità. Anche nelle cosmogonie, con il passare del tempo, le antiche rozze leggende originarie furono raccolte e più strettamente collegate, e si cominciò a sostituirle con canti di eroi e di capostipiti umani che vennero allacciati a quelle leggende e alla figure degli dei. Gli antichi vati cantori delle teogonie avevano felicemente inserito nelle tavole genealogiche delle loro divinità e dei loro eroi allegorie così efficaci, così belle, spesso costituite da una sola parola della loro amabile lingua che, quando gli interpreti successivi vollero anche soltanto svilupparne il significato e collegarvi le loro idee, ormai più complesse, ne nacque un nuovo bell’intreccio. Perciò anche i vati epici, con il tempo, abbandonarono le loro saghe consuete di generazioni di dei, di assalti al cielo, di imprese di Ercole ecc. e cantarono invece argomenti più umani per un uso umano. Di tutti questi il più celebre è Omero, il padre di tutti i poeti e sapienti greci, vissuti dopo di lui. Per un caso felice, i suoi canti dispersi e separati vennero raccolti al momento giusto e uniti in un insieme costituito da due parti, che, anche dopo millenni, risplende come una dimora indistruttibile degli dei e degli eroi. Come si cerca di spiegare un prodigio della natura, così ci si è sforzati di spiegare la genesi di Omero10 che pure era semplicemente un figlio della natura, un felice cantore della costa ionica. Può essere che siano scomparsi altri vati della sua specie che potrebbero in parte contestargli la gloria attribuita a lui soltanto. Gli sono stati costruiti dei templi e lo si è venerato come un dio umano, ma tuttavia la più grande venerazione sta nella permanente influenza che ha avuto sulla sua nazione e che ancor ora ha su tutte quelle che sono in grado di apprezzarlo. Certo i temi del suo canto per noi sono piccolezze, miserie: le sue divinità e i suoi eroi, con i loro costumi e le loro passioni sono quelli che poteva offrire la leggenda dei suoi tempi e di quelli passati; altrettanto limitata è la sua conoscenza della natura della terra, la sua morale e la sua concezione dello Stato. Ma la verità e la sapienza con cui intesse tutti i fatti e gli argomenti del suo mondo in una totalità vivente, il contorno preciso dei tratti di ogni personaggio dei suoi quadri immorta106 li, il modo garbato e sciolto con cui, libero come un dio, guarda tutti i caratteri, con i loro vizi e le loro virtù, racconta i casi felici e infelici, la musica infine che incessantemente fluisce dalle sue labbra in poesie così grandi nella loro varietà, e che anima ogni immagine, ogni suono delle sue parole, e che vive eterna con i suoi canti: tutto questo rende Omero unico nel suo genere nella storia dell’umanità e degno dell’immortalità, se qualcosa sulla terra può essere immortale. Necessariamente l’influenza di Omero sui Greci è stata diversa da quella che può avere su di noi, che spesso proviamo per lui una fredda ammirazione, strappata a forza, o perfino un freddo disprezzo. Non così tra i Greci: per i Greci Omero cantava in una lingua viva, non ancora legata a ciò che in tempi successivi si è chiamato dialetto; cantava le imprese degli antenati con spirito patriottico rispetto agli stranieri e nominava loro stirpi, tribù, costituzioni e contrade che in parte erano davanti ai loro occhi come loro proprietà, in parte erano nella loro memoria come retaggio della gloria degli avi. Perciò per i Greci, per molti aspetti, era come un messaggero divino della gloria nazionale, una fonte della varia sapienza nazionale. I poeti successivi lo imitarono: i tragici presero da lui favole, allegorie didascaliche, esempi e sentenze; ogni scrittore, iniziatore di un nuovo genere, prese come modello della sua opera la costruzione dell’arte omerica, in modo che ben presto Omero divenne l’emblema del gusto greco e, per le menti più deboli, la regola di ogni sapienza umana. Omero ha influito anche sui poeti romani e senza di Omero non ci sarebbe l’Eneide. Ancor più ha contribuito a trarre i popoli europei moderni dalla barbarie: quanti giovani hanno provato nel contatto con la sua poesia una gioia che ha avuto per loro valore formativo, e quanti uomini adulti, tanto quelli dediti al lavoro che quelli dediti alla contemplazione, ne hanno tratto regole per il gusto e per la conoscenza dell’uomo! Tuttavia è innegabile che, come ogni grand’uomo, quando le sue doti vengono fatte oggetto di un’ammirazione eccessiva, può dar luogo a qualche abuso, anche il buon Omero non si è sottratto a questo destino, al punto che egli stesso sarebbe il primo a meravigliarsene se, tornando al mondo, vedesse che cosa hanno fatto di lui in ogni tempo. Tra i Greci, Omero ha servito a far sì che la favola du107 rasse più a lungo e si consolidasse assai più di quanto probabilmente sarebbe accaduto senza di lui: rapsodi ne trassero ispirazione per i loro canti, freddi poetastri lo imitarono e l’entusiasmo per Omero finì con il diventare tra i Greci un’arte così vuota, dolciastra ed esagerata, quale non si è avuta per nessun altro poeta in altri popoli. Le innumerevoli opere dei grammatici su Omero sono per lo più perdute, altrimenti noi avremmo occasione di constatare anche in esse qual è la vana fatica che Dio impone alle successive generazioni umane, quando fa nascere uno spirito superiore; del resto, non ci sono, anche nei tempi moderni, esempi abbastanza del modo errato in cui Omero è stato rielaborato e applicato? Comunque rimane certo che uno spirito come quello di Omero, nei tempi in cui è vissuto e per la nazione per cui la sua opera è stata raccolta, è stato un dono della civiltà, di cui nessun altro popolo può vantare l’eguale. Nessun popolo orientale possiede un Omero; in nessun popolo europeo è comparso, nella sua fioritura giovanile, un poeta come Omero, al tempo giusto. Perfino Ossian non lo è stato per i suoi Scozzesi ed è dubbio se il destino vorrà dare, con un nuovo colpo di fortuna, un Omero allo stretto delle isole dell’Amicizia neogreca, un nuovo Omero che le porti così in alto come il suo antico gemello. Su questo punto bisogna interrogare il destino. Siccome la civiltà greca è venuta fuori dalla mitologia, dalla poesia e dalla musica, non c’è da meravigliarsi che il gusto per queste cose sia rimasto un tratto fondamentale del carattere greco, un carattere che contraddistingue anche i suoi scritti e le sue imprese più serie. Per il nostro costume è una cosa strana che i Greci parlino della musica come dell’elemento fondamentale dell’educazione, che la considerino come un grande strumento dello Stato e attribuiscano alla sua decadenza le più importanti conseguenze. Anche più strane ci sembrano le lodi così entusiastiche e quasi estasiate che i Greci hanno tributato alla danza, alla mimica e al teatro come arti sorelle, per natura, della poesia e della sapienza. Molti che hanno letto queste lodi hanno creduto che la musica dei Greci sia stata un prodigio anche per perfezione sistematica, perché i suoi effetti così celebrati ci sono rimasti estranei. Ma l’uso stesso che i Greci hanno fatto della musica mostra che per essi non dovette avere una 108 particolare importanza la sua perfezione scientifica. I Greci, cioè, non trattarono la musica come un’arte particolare, ma soltanto come sussidio della poesia, della danza, della mimica e del teatro. L’importanza fondamentale della sua efficacia sta quindi in questo legame con le altre arti e con l’intero sviluppo della cultura greca. La poesia greca, nata dalla musica, amava tornarvi: anche l’elevata tragedia era nata soltanto dal coro, così come l’antica commedia, e i divertimenti pubblici, i cortei preparatori alle battaglie e le gioie domestiche del convito ben di rado si svolgevano per i Greci senza l’accompagnamento della musica e del canto, e la maggior parte degli spettacoli era accompagnata da danze. Certo in questo, essendo la Grecia composta da diversi Stati e popoli, ogni regione si distingueva molto dalle altre, ma in complesso rimane vero che i Greci consideravano lo sviluppo comune di queste arti come il punto supremo dell’azione umana e vi attribuirono il massimo valore. Certo si deve pur dire che da noi né la pantomima, né il teatro, né la danza, né la poesia, né la musica sono quello che erano per i Greci, dove costituivano una sola opera, una sola fioritura dello spirito umano, quella fioritura di cui noi vediamo il germe rozzo in tutte le nazioni selvagge, che hanno un carattere dolce e che vivono in una contrada felice. Se quindi sarebbe sciocco volersi rimettere in quell’epoca di giovanile spensieratezza, che ormai è passata, e fare come un vecchio zoppicante che vuole saltellare con i giovani, non si vede però, perché questo vecchio dovrebbe aversela a male con i giovani che sono pieni di vigore e di brio, e danzano. La civiltà dei Greci è fiorita proprio nell’epoca della gaiezza giovanile, dalle cui arti essi hanno tratto tutto quanto se ne poteva trarre e perciò hanno anche ottenuto un’efficacia e influenza che noi oggi scorgiamo a mala pena in malattie o stati di eccessiva tensione. Io dubito infatti se ci possa essere un momento di maggiore e più raffinata efficacia sull’animo umano di quanto ha avuto quel punto supremo e perfetto di unione di queste arti, tanto più presso animi che erano educati e formati e che vivevano in vista di ciò, in un mondo vivente di tali impressioni. Se dunque non possiamo essere Greci, ci sia concesso almeno di rallegrarci del fatto che una volta ci sono stati dei Greci e che ogni fiore del109 l’animo umano, e quindi anche questo, ha trovato il suo tempo e il suo luogo per il suo sviluppo più bello. Da quanto si è detto, si può dunque presumere che noi consideriamo come fantasmi molti generi di composizioni greche che si riferiscono ad una rappresentazione vivente mediante musica, danza e pantomima, e, quindi, anche nelle spiegazioni più accurate, finiamo forse col cadere in errore. Il teatro di Eschilo, di Sofocle, di Aristofane e di Euripide non era il nostro teatro; il dramma proprio dei Greci non si è più avuto in nessun altro popolo, per quanto siano buone le opere che anche altre nazioni ci hanno dato in questo campo. Staccate dal canto e da quelle solennità e da quei concetti elevati che i Greci avevano dei loro giochi, le odi di Pindaro ci devono per forza sembrare frutto di ebbrezza, proprio come perfino i dialoghi di Platone, pieni di un ritmo sillabico ed eleganti nella composizione delle immagini e delle parole, proprio nei passi dove la loro veste è più ingegnosamente elaborata, hanno attirato su di sé le maggiori critiche. Perciò devono essere i giovani ad imparare a leggere i Greci, perché i vecchi di rado sono propensi a comprenderli o ad appropriarsi della fioritura del loro ingegno. Può essere che la loro fantasia spesso abbia prevalso sul loro intelletto e quella fine sensibilità in cui i Greci hanno riposto l’essenza della buona formazione dell’uomo, talvolta abbia prevalso sulla ragione e sulla virtù; noi vogliamo imparare ad apprezzare i Greci, senza diventare perciò Greci noi stessi. Noi abbiamo ancora sempre da imparare dal loro modo di presentare il pensiero, dalla misura e dai contorni dei loro concetti, dalla vitalità così spontanea delle loro sensazioni e infine da quel ritmo così melodioso della loro lingua, che non ha mai più avuto in nessun luogo l’eguale. Note 1 Volupsa o Völupsa. È una composizione islandese che fa parte del ciclo dell’Edda. In forma profetica la fata Volva, una sorta di nordica Sibilla, descrive l’inizio del mondo, l’origine della morte e del male, e infine l’avvento degli ultimi tempi che vedranno la distruzione di tutte le cose. Questa composizione è riportata da Herder nella raccolta Alte Volkslieder, parte II, XXV, 96-103 e nei Volkslieder, parte II, XXV, pp. 460-469. 110 2 Dobritzhofer, Geschichte der Abiponer. Martin Dobritzhofer (17171791), gesuita austriaco, missionario in Paraguay dove trascorse molti anni tra i Guarany e gli Abiponi, scrisse una Historia de Abiponibus equestri bellicosaque paraquariae natione, 3 voll., Vienna 1783-84; quest’opera ebbe molto successo, fu tradotta in inglese e tedesco ed ebbe molta importanza per lo studio delle lingue del Sudamerica. 3 Cfr. Steller, Krascheninnikow, ecc. Georg Wilhelm Steller o Stoeller (1709-1746), naturalista tedesco, compì numerosi viaggi di esplorazione nell’Estremo Oriente ed in particolare accompagnò Bering nella esplorazione della Siberia e della Camciatka (1741), scrisse un De Bestiis marinis, Pietroburgo 1751, il suo diario di viaggio fu pubblicato da Pallas nei «Neue Nordische Beiträge». Stephan Petrovitch Krascheninnikow (1713-1755), viaggiatore ed esploratore della Camciatka, dove rimase quattro anni, al ritorno a Pietroburgo ebbe la cattedra di botanica e storia naturale. La sua opera (in russo) Descrizione della Camciatka, 2 voll., Pietroburgo 1755, fu tradotta in diverse lingue e rimase a lungo un testo fondamentale sull’argomento. 4 Cfr. Römer, Bossmann, Müller, Oldendorp, ecc. Wilhelm Bossmann (n. nel 1672), viaggiatore olandese, al servizio della Compagnia olandese delle Indie, si fermò a lungo in Guinea e scrisse un libro presto tradotto in francese con il titolo: Voyage de Guinée, contenant une description nouvelle et très exacte de cette côte, où l’on trouve et où l’on trafique l’or, les dents d’éléphant et les esclaves, Utrecht 1705. Wilhelm Johann Müller (n. nel 1633), viaggiatore e missionario danese, visse a lungo nella colonia di Fetu nella Costa d’Avorio, lasciando un’opera di notevole valore intitolata Die Afrikanische auf der Guineischen Gold-Cust gelegene Landschaft Fetu (Amburgo 1673) con un’importante ed accurata descrizione della vita di quelle popolazioni. Christian Georg Oldendorp (1721-1787), missionario dei Fratelli Moravi, nel 1763 fu inviato nelle Antille con il compito di scrivere la storia della vita dei suoi correligionari in quelle isole: Geschichte der Mission der evangelischen Brüder in Caraibischen Inseln, Barby 1777. 5 Cfr. Lafiteau, Le Beau, Carver, ecc. Joseph François Lafiteau (1670-1740), gesuita francese, missionario in Canada scrisse tra l’altro un volume intitolato Moeurs des Sauvages comparées aux moeurs des premiers temps, 2 voll., Parigi 1723. Jonathan Carver (1732-1780), esploratore nordamericano, percorse i territori dell’America Settentrionale dall’Atlantico al Pacifico, dando poi notizia dei suoi viaggi nel volume: Travels through the Interior Parts of North America, Londra 1778. 6 Baldeus, Dow, Sonnerat, Holwell, ecc. Philippe Balde o Baldeus (16321672), olandese, missionario a Giava e a Ceylon scrisse in olandese un’importante descrizione delle Indie Orientali (Amsterdam 1672), interessante per le notizie sul culto e sulla letteratura religiosa di quei paesi. Alexander Dow (m. 1779), orientalista scozzese, visse a lungo in India e scrisse: On the Origin and Nature of Despotism in Hindostan. An Inquiry into the State of Bengala, Londra 1772. John Zephanian Holwell, funzionario e scrittore inglese, visse a lungo in India e fu il primo a occuparsi delle antichità indù, scrivendo numerose opere: India Tracts, Londra 1758; Historical Events relative to the Province of Bengala and the Empire of Indostan, 1765-1771. 7 [Tribù africane abitanti nel bacino del Congo. Herder ne aveva già par- 111 lato diffusamente nel capitolo quarto del sesto libro (XIII, 232-3), definendoli, per il loro carattere, i Mongoli e i Tartari dell’Africa.] 8 Cfr. Heyne, De fontibus et caussis errorum in historia mythica. De caussis fabularum physicis. De origine et caussis fabularum Homericarum. De Theogonia ab Hesiodo condita ecc. 9 Cfr. Georgi, Abbildungen der Völker des russischen Reichs, parte I. [Johann Gottlieb Georgi (1738-1802), chimico tedesco, si trasferì in Russia chiamatovi dall’Accademia delle Scienze di Pietroburgo e vi compì numerosi viaggi di cui diede importanti resoconti. Tra gli scritti principali: Bemerkungen auf einer Reise im russischen Reich im Jahre 1772, 2 voll., Pietroburgo 1775; Beschreibung aller Nationen des russischen Reichs, ihrer Lebensart, Religion, Gebräuche, 2 voll., Pietroburgo 1776; Geographysch-physikalisch und natur-historische Beschreibung des russischen Reichs, 5 voll. con appendici, Königsberg 1797-1802.] 10 Cfr. Blackwell, Enquiry into the Life and Writings of Homer, 1736 [in effetti quest’opera, dovuta allo studioso scozzese Thomas Blackwell (17011757) comparve a Londra nel 1735]; Wood, Essay on the Original Genius of Homer, 1769. [In realtà il testo qui citato ha una storia abbastanza complessa poiché costituisce la versione anonima ed ampliata di un primo schizzo dell’opera stampato in pochissime copie nel 1767 con il titolo A Comparative View of the Ancient and Present State of the Troade. To which is prefixed an Essay on the Original Genius of Homer, mentre l’intero disegno dell’opera venne edito più tardi, nel 1775, da Jacob Bryant con il titolo An Essay on the Original Genius and Writings of Homer, with a Comparative View of the Ancient and Present State of the Troade. L’autore Robert Wood (1717-1771), ripetutamente citato da Herder, partecipò attivamente alla vita politica inglese, oltre a compiere numerosi viaggi in Grecia e in Asia Minore con l’intento di leggere l’Iliade e l’Odissea là dove Achille aveva combattuto, Ulisse viaggiato e Omero composto i suoi poemi.] Indice Lo scandalo del mito di Anna Clara Bova V «Lo Spettatore», 29 settembre 1711 di Joseph Addison 3 L’origine delle favole di Bernard Le Bovier de Fontenelle 8 Favole di Voltaire 21 Mitologia di Louis de Jancourt 23 Da «Sistema della Natura» di Paul-Henry d’Holbac 30 Da «Della perfetta poesia italiana» di Ludovico Antonio Muratori 42 Da «Della ragion poetica» di Gian Vincenzo Gravina 54 Da «Scienza nuova» di Giambattista Vico 65 Da «Idee per la filosofia della storia dell’umanità» di Johann Gottfried Herder 91 113 gli strumenti serie verde cultura umanistica Mario Sechi-Bruno Brunetti, Lessico novecentesco Bartolo Anglani (a cura di), Teorie moderne dell’autobiografia Francesco Tateo, Istituzioni di letteratura italiana Girolamo de Liguori (a cura di), Positivismo e letteratura Massimo Del Pizzo, I microscopi dell’Altrove. Utopia Fantastico Fantascienza Grazia Distaso (a cura di), Il teatro di Rosso di San Secondo Vito Attolini, Teorie classiche del cinema Raffaele Cavalluzzi, Cinema e letteratura Anna Clara Bova, Contro il romanticismo. Il «Discorso di un italiano» di Giacomo Leopardi Giovanni Attolini, Il cinema italiano degli anni Sessanta. Tra commedia e impegno Giovanni Attolini, L’antinaturalismo a teatro Sandro Maxia-Marina Guglielmi (a cura di), L’eredità di Babele. Situazioni e percorsi di letteratura comparata Antonia Acciani, Desiderio di forma vera. Tre meditazioni su Petrarca Paolo Quazzolo, Il teatro. Guida alla lettura dell’arte teatrale Vittorio Alfieri, Polinice e Saul, a cura di Vitilio Masiello Raffaele Cavalluzzi, Tra etica e storia. La «Storia della colonna infame» di Alessandro Manzoni Augusto De Angelis, Interviste e sensazioni, introduzione e cura di Bruno Brunetti serie gialla scienze dei segni e del linguaggio Patrizia Calefato, Sociosemiotica Michele Lomuto-Augusto Ponzio, Semiotica della musica. Introduzione al linguaggio musicale Susan Petrilli, Teoria dei segni e del linguaggio Augusto Ponzio, La coda dell’occhio. Letture del linguaggio letterario Augusto Ponzio, La comunicazione Emmanuel Lévinas, Filosofia del linguaggio, a cura di Julia Ponzio Charles Morris, Significazione e significatività. Studio sui rapporti tra segni e valori, a cura di Susan Petrilli Cosimo Caputo, Semiologia e semiotica, o la forma e la materia del segno Giovanni Vailati, Il metodo della filosofia. Saggi di critica del linguaggio, a cura di Augusto Ponzio Patrizia Calefato (a cura di), Metafora e immagine. Corpo, cinema, letteratura, comunicazione Patrizia Calefato, Lingua e discorso sociale Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale Charles Morris, L’io aperto. Semiotica del soggetto e delle sue metamorfosi, a cura di Susan Petrilli Luciano Ponzio, Visioni del testo Adam Schaff (a cura di), Sociolinguistica, a cura di Arianna De Luca Cosimo Caputo, Semiotica del linguaggio e delle lingue Marcel Danesi-Susan Petrilli-Augusto Ponzio, Semiotica globale. Il corpo nel segno: introduzione a Thomas A. Sebeok Susan Petrilli, Percorsi della semiotica Massimo A. Bonfantini, Semiotica ai media Augusto Ponzio, Linguaggio e relazioni sociali Augusto Ponzio, Produzione linguistica e ideologia sociale. Per una teoria semiotica del linguaggio e della comunicazione Marcel Danesi, Matematica e fantasia Laura Borràs Castanyer, Testualità elettroniche. Nuovi scenari per la letteratura, a cura di Patrizia Calefato Augusto Ponzio, La cifrematica e l’ascolto Georg Klaus, Il potere della parola, traduzione e cura di Arianna De Luca Arianna De Luca, Il commercio dello sguardo. Fotografia, cinema, televisione, moda Victoria Welby, Senso, significato, significatività, traduzione e cura di Susan Petrilli serie blu opere e autori di lingua inglese Franca Dellarosa, Drama on the Air. Introduzione al radiodramma inglese Shaul Bassi, Le metamorfosi di Otello. Storia di un’etnicità immaginaria Luciana Pirè, Dall’eroe al cortigiano. La scena sociale di «All for Love» di John Dryden Henry James, Is There a Life After Death? C’è una vita dopo la morte?, a cura di Vittoria Intonti Stefano Bronzini, Modi di narrare. Note su «Robinson Crusoe» e «David Copperfield» Vito Amoruso, Alla ricerca di Ismaele. La narrativa di Herman Melville Stefania Rutigliano, Il Golem. Mistica e letteratura serie blu testi Edward Bond, Estate. Un dramma europeo, a cura di Vito Amoruso John Ruskin, Sulla memoria, a cura di Rosalba de Giosa Ben Jonson, The Masque of Queens, a cura di Anna Anzi Ralph Waldo Emerson, Lo studioso americano e altri saggi, a cura di Vito Amoruso serie turchese germanistica Marina Foschi Albert, Generi letterari. 1. Narrativa Loretta Lari, Generi letterari. 2. Dramma Marina Foschi Albert-Loretta Lari, Generi letterari. 3. Lirica Pasquale Gallo (a cura di), Fabula docet. Poesia e pedagogia nella favola tedesca dell’Illuminismo serie rossa linguistica tedesca Alessandra Tomaselli, Introduzione alla sintassi del tedesco Maria Teresa Bianco, Introduzione al lessico del tedesco Sabine Elisabeth Koesters Gensini, Fonetica e fonologia del tedesco Eva-Maria Thüne-Irmgard Elter-Simona Leonardi, Le lingue tedesche: per una descrizione sociolinguistica serie magenta medicina e scienze della vita Vittorio A. Sironi, Oltre la disabilità. Storia della riabilitazione in medicina Cesare Cerri, Introduzione alla medicina riabilitativa moduli Francesco Tateo, Le svolte nella letteratura italiana. 1. Dallo «Stilnovo» al petrarchismo Francesco Tateo, Le svolte nella letteratura italiana. 2. Da Tasso a Leopardi Ferdinando Pappalardo, Le svolte nella letteratura italiana. 3. «Fine secolo» e Novecento Francesco Tateo (a cura di), Letteratura italiana: esempi di metodologia e didattica. 1. Percorsi del testo letterario Francesco Tateo (a cura di), Letteratura italiana: esempi di metodologia e didattica. 2. Contesti e confini Francesco Tateo-Nicola Valerio, Antologia di testi della letteratura italiana dell’Ottocento Francesco Tateo-Nicola Valerio, Letteratura italiana dell’Ottocento Maristella Trulli, Nascita di una metropoli. Testimonianze e rappresentazioni di Londra dal 1666 al primo ’800 Luisa Pontrandolfo, Luci e ombre della metropoli. Testimonianze e rappresentazioni di Londra nel XIX secolo Trifone Gargano (a cura di), Antologia modulare di letteratura italiana. Sette-Ottocento Francesco Tateo-Nicola Valerio, Letteratura italiana. Sette-Ottocento Carmela Ferrandes (a cura di), Il turismo in Francia Trifone Gargano (a cura di), Antologia modulare di letteratura italiana. Due-Quattrocento Francesco Tateo, Letteratura italiana. Due-Quattrocento Pierfranco Moliterni (a cura di), Voci da Londra. Gli italiani e l’opera inglese tra ’700 e ’900 Francesco Tateo, Letteratura italiana. Cinque-Seicento Trifone Gargano (a cura di), Antologia modulare di letteratura italiana. Cinque-Seicento Pierfranco Moliterni (a cura di), Paisielliana. Un ‘napoletano’ in Europa: Paisiello, Mozart e il ’700 I volumi pubblicati dalle Edizioni B.A. Graphis sono disponibili presso le seguenti librerie: Bari • L’Adriatica, via Andrea da Bari 119, 080.523.56.40 • La Feltrinelli, via Melo 119, 080.520.75.01 • La Goliardica, via Roberto da Bari 136, 080.521.87.31 • Libreria Laterza, via Sparano 136, 080.521.17.80 Bologna • Feltrinelli International, via Zamboni 7/B, 051.26.80.70, 051.26.82.10 Brindisi • Libreria Piazzo, c.so Garibaldi 38/a, 0831.56.20.47 Cagliari • Libreria CUEC, via Is Mirrionis 1, 070.29.12.01 Chieti • Libreria De Luca, via De Lollis 12/14, 0871.33.01.54 Firenze • GPL (Marzocco), via Martelli 6, 055.28.28.73 • Libreria Le Monnier Mondadori, via S. Gallo 53, 055.48.32.15 Foggia • Libreria Dante, via Oberdan 1, 0881.72.51.33 • Libreria dell’Ateneo, via Rosati 1/B, 0881.72.41.36 • Libreria Universo Simone, via Volta 7, 0881.70.96.38 L’Aquila • Libreria Colacchi, via Bafile 17, 0862.253.10 Lecce • Libreria Adriatica Editrice Salentina, via Arco di Trionfo 7, 0832.30.59.24 Matera • Libreria dell’Arco, via Ridola 37, 0835.31.11.11 Milano • Libreria CUEM, via Festa del Perdono 3, 02.58.30.73.70 Napoli • Libreria Renato Pisanti, corso Umberto I 38/40, 081.552.71.05 Padova • Libreria Gregoriana, via Roma 82, 049.66.10.33 • Libreria Piccin, via Belzoni 23, 049.875.54.48 Perugia • L’Altra, via U. Rocchi 3, 075.573.61.04 Pescara • Libreria d’Arte, piazza Rinascita 47, 085.421.14.55 Pisa • Astrea, piazza S. Frediano 10, 050.58.10.00 Roma • Libreria MEL Bookstore, via Nazionale 254-255, 06.488.54.05 Siena • Ticci, via delle Terme 5/7, 0577.28.00.10 Taranto • Libreria Filippi, via Nitti 8/c, 099.453.07.50 Teramo • Libreria La Scolastica, c.so S. Giorgio 39, 0861.25.03.94 Torino • Libreria Facoltà Umanistiche s.r.l., via G. Verdi 39/b, 011.88.25.70 • Libreria Libri&Libri di Raineri & C. s.a.s., via S. Ottavio 25, 011.83.55.86, 011.83.72.38