Academia.eduAcademia.edu

Il Pellicano

2024, Paolo Melandri

Clizia adorata, assorto in lembo a un gualdo fungoso di ritrecini in affondo a maglie che sdiragna allo smeraldo in sprazzo cui s’insolca verecondo nel margo donde affaldo le cìrtidi sottili in smerli a sgrondo, t’invio irredento un orlo di risposta lambito di madore boschereccio, fra il tiglio d’aracnéi bandoli in rosta cui tremola e barcolla in osseo intreccio su passi di mangosta tra sugheri di leccio. Un frastagliar di glicine pervinca ronciglia muraiolo in nicchie e crepe a pietra in borni, là, ove il grigio zinca la cenere perlacea e il forasiepe s’infiltra nel cespuglio di pruni irti e vi strepe: non è questo subbuglio silvestre di ciglioni angusti in rampe il luogo donde scriverti, entro al brago ispido in sorbe e rovi accesi in lampe d’interrotto cinabro ove propago lo sguardo, come in stampe pallide nell’imago. Ma l’ideogramma che i tuoi polpastrelli trasmisero al divario in me lumèbrio di relapso fra pedipalpi in nielli di ràgnolo, sospeso sull’avverbio precluso (i grimaldelli del catenaccio impervio), oh, la tarsia dolcissima in emblema musivo, stemma araldico di smalto, l’edace pellicano che indiadema il falbo rostro all’aspide d’asfalto e ne sbrana la rema di spire in soprassalto! Volta presbiteriale, per le converse nicchie, per le ancone d’abside in te riecheggia il fruscio d’ali che fra le scaglie fulgide in castone si modula, e non mai per queste fratte in luce obitoriale d’algoso acquario putrido, disfatte di scempio come mutila cariatide in rasseghìo di latte, che infrasca di livore una clemàtide d’ammanto. E tu m’incruna col tuo becco aguzzo di topazio in trafittura, sfrucòna vulnerante nell’assecco dell’anguiforme sirte che impaura col tosco che inschidiona, con un buiore testile di olona… Stelle sanguigne, astri di singhiozzi effuse il molle chiostro della notte sorgévole di pianto asperso in ghiozzi di lume sonnolento, – e navi a flotte salparono in un varo di ermi cieli capovolti, oltre sponde al guardo flebile che le avvistò dall’alta coffa ai geli tenebricosi d’attimo indelebile… Quindi apparisci erosa, mia vigilia di una contratta Pasqua alla deriva su un flutto decumano che mi esilia nel lacero scirpeto o in un’ogiva labile d’ora. Oh, cuore di psalterio ignaro all’inspigarsi in desiderio! Così mi sussurravo tra un groviglio di cespiti e di melma, umida gromma pultacea di lumache, ed il cartiglio nitido a dispiegarsi entro il suo domma, per losanghe di aiuole io tenea fra le stole e la pistagna del pastrano lieve di tremulo percalle; quando a un tratto per un nartece in lestre cui s’imbeve di unguenti resinosi, esterrefatto io scorsi nell’arcano d’amore, il pellicano. Poi, tra gonfrene e silique di chiocciole e muschiosi tralicci, fu il ritorno gonfio d’esausto oblio; e rade gocciole d’imbrifero scirocco d’ognintorno solcavano il fondale di luce obitoriale. Da qual battaglio tempellasse roco di campana sfinita quel singulto volubile, non so, ma al passo fioco il murmure esalava un tardo indulto di via senza percorso segreto nel rimorso. E allora spicca il volo, spazia d’aria nel cerulo tiburio, ad ali spanse librati in alto all’ansima gemmaria in sìnclasi di nembi cui s’infranse al vuoto del ricordo! Un’eco d’arpicordo tinnisce fievole, poi nulla. Sparve con dileguarsi di cometa il fregio scalfito di tersezza in fondo a larve sublunari di ragne in sortilegio, ma dura il foglio pronubo di maggio, più alto sposalizio, se trasfuma sospeso al tenue raggio un bianco tremolar sciolto di piuma. © Paolo Melandri (25. 10. 2024)