Quale soggetto in Hume?
Paolo Castaldo
Which Subject in Hume?
Abstract: In Hume’s scholarship the notion of “subject” lacks systematic analysis.
First, because it is often confused with words such as “self ”, “soul” or “person”, which
repeatedly occur in the Treatise. Another reason is that the subject is almost always
reduced to the famous question of personal identity. In this paper I argue that, on
the one hand, the concept of subject has to be distinguished from that of “self ” or
“person”, and from the question of personal identity; on the other, that a positive
notion of subject emerges from the Treatise, which must ultimately be sought within
the very science of human nature.
Keywords: Subject; Personal Identity; Self; Human Nature; Object.
1. Introduzione
Una delle questioni più dibattute all’interno del Trattato sulla natura umana di Hume concerne il problema dell’identità personale. Se da un lato la
decostruzione ivi operata del concetto di identità della persona appare così
radicale – là dove, tolta di mezzo la sostanza pensante, si assume l’io solo
come un fascio o collezione di percezioni –, dall’altro non sono mancati
tentativi da parte degli studiosi di arginarla. La posizione di Hume doveva
risultare irricevibile tanto per il senso comune quanto per la riflessione
filosofica: per il primo, perché lo si sarebbe dovuto convincere che nessun
“io”, propriamente, esiste; per la seconda, perché togliere la base primaria
delle nostre speculazioni, l’unità fondamentale e fondante dell’attività della nostra mente, equivaleva a uno sfaldamento di quest’ultima in assenza di
un legame forte tra le sue componenti1. Da qui la preoccupazione di molti
interpreti di recuperare forme di identità personale all’interno del Trattato,
in modi anche assai diversi tra loro.
*
Università degli Studi di Salerno (
[email protected]; ORCID: 0000-00032442-0942).
1
Si vedano ad esempio le reazioni di alcuni filosofi contemporanei di Hume (tra cui Thomas
Reid) alla sua definizione della mente come fascio di percezioni. Cfr. Thiel (2011, 407 ss.).
Doi: 10.5281/zenoDo.11093868
Consecutio Rerum. Anno VIII, numero 15
Paolo Castaldo
I termini più frequenti utilizzati da Hume per declinare l’identità personale sono “sé”, “persona”, “me stesso” e talvolta “anima”, che ricorrono
pressoché come sinonimi2. Mai, con questo significato, troviamo invece la
parola “soggetto”. Ad oggi manca ancora un’indagine sistematica intorno
a questa nozione all’interno del Trattato. A mio avviso ciò è dovuto essenzialmente a due ragioni: (1) in quanto il soggetto compare nel I libro
come sinonimo di sostanza, la decostruzione di questa – così si pensa –
implica eo ipso la decostruzione di quello; (2) quasi sempre gli studiosi
fanno coincidere il soggetto col sé o con l’io, termini, questi ultimi, di gran
lunga privilegiati perché ampiamente utilizzati dallo stesso Hume. Nessuna meraviglia, dunque, se la questione del soggetto viene confusa con la
questione dell’identità personale. Nelle pagine seguenti argomenterò che il
Trattato contiene una nozione forte – ancorché non assoluta – di soggetto,
che andrà distinta da un lato dall’io e dal sé, perciò anche dal problema
dell’identità personale, dall’altro dal soggetto/sostanza della tradizione aristotelica e cartesiana. In questo modo si vorrebbe mostrare come, da ultimo, una nozione apparentemente così estranea all’empirismo come quella
di soggetto, venga ad assumere proprio nell’opera di Hume un significato
originale e di grande interesse.
Il paper si suddivide come segue: nella prima parte illustro in che modo la
nozione di soggetto si leghi alla questione dell’identità personale; nella seconda
discuto una delle principali prospettive abbracciate dagli studiosi per tentare
di risolvere il problema dell’identità personale lasciato aperto da Hume nel
I libro del Trattato; infine, proverò a mostrare che il soggetto humeano vada
rintracciato nella stessa scienza della natura umana, concludendo dunque
che di soggetto o soggettività si possa parlare a proposito del Trattato anche
in assenza di una soluzione al problema dell’identità personale.
2. Il soggetto e l’identità personale
Nel I libro del Trattato la nozione di soggetto occorre nell’accezione aristotelica di sostanza3, intesa come substratum cui inseriscono gli accidenti
e che permane identico al di là del loro mutamento4. Com’è noto, Hume
respinge l’esistenza di sostanze sulla base del principio per cui da un lato
non percepiamo mai qualcosa di semplice e sempre identico a sé, dall’altro
2
3
4
Cfr. Pike (1967, 161).
Hume (2001, 222).
Ivi, sezioni IV-V.
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qualunque cosa la mente riesca a concepire chiaramente e distintamente
può essere concepita come esistente per sé, senza bisogno di alcun supporto; e dal momento che colori, odori, suoni e in generale le qualità dei
corpi possono essere concepite per sé, dovrebbero tutte, a rigore, risultare
sostanze anziché accidenti. Insomma, o tutto è sostanza o nulla lo è – in
contrasto con la metafisica tradizionale. Formalmente simile a questa determinazione del soggetto/sostanza è quella moderna del soggetto/anima
(o mente) inteso come ciò cui ineriscono le singole percezioni, contro la
quale Hume fa valere il medesimo principio: dal momento che nell’anima
vi sono soltanto impressioni o le loro immagini illanguidite, da dove mai la
mente deriva l’immagine della sua propria sostanza, ossia l’immagine di sé?
La soggettività dell’anima è qui negata dalla sua mancata oggettivazione,
dalla intangibilità del principio che dovrebbe farne il sostegno delle nostre
percezioni, le quali, inoltre, in quanto differenti e perciò separabili nella
mente le une dalle altre, si sorreggono a limite da sé, non in virtù di altro.
Non si dà perciò alcun soggetto semplice e indivisibile5. La dimensione
interiore non è meno esente di quella empirica dalle criticità insite nella
costituzione originaria della nozione di sostanza o soggetto. Nell’universo
del cogito e della coscienza non vi è più evidenza di quanta non ve ne sia
nel mondo esterno: ciò che resta inintelligibile e sconosciuto in questo,
vale a dire l’essenza e la natura ultima delle cose, lo è altrettanto in quello;
qualunque idea se ne possa avere, non può che essere un prodotto fallace
della mente, idolum specus.
Di questa specie è la nozione di soggetto inteso come “Io” o “Sé”, la cui
origine va rintracciata ancora una volta nella metafisica cartesiana. L’obiezione fondamentale di Hume si può riassumere nell’idea che dove quest’ultima
vede evidenza, lo scienziato della natura umana rileva solo una apparente
immediatezza: l’Io/sostanza non è all’origine dei nostri pensieri, delle nostre
percezioni o passioni come ciò che permane identico al di là del loro incessante mutamento, bensì ne deriva: è sempre positus, mai praepositus. Non
in quanto scaturisca da una impressione, giacché le impressioni sono tutte
incostanti e mutevoli mentre l’Io è supposto essere semplice e identico, né
tantomeno perché se ne abbia un’impressione (ché non vi è alcun Io/oggetto), bensì in quanto si dà come finzione della mente, sua credenza fallace – e
tuttavia affatto inevitabile, come vedremo immediatamente. L’introspezione
rivela che non vi è alcun Io puro, assoluto, separato dai pensieri determinati,
dalle impressioni o dalle passioni – insomma, dal corpo6.
5
6
Ivi, 233 ss.
Per una discussione generale del problema dell’identità personale, si vedano Castaldo
(2022), Lecaldano (2021, 45-59).
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Paolo Castaldo
Per parte mia, quando mi addentro più intimamente in ciò che chiamo me stesso,
m’imbatto sempre in qualche percezione particolare di caldo o di freddo, di luce o
d’ombra, d’amore o d’odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai ad afferrare me stesso senza una percezione, né posso mai osservare qualcosa che non sia una percezione.
Quando le mie percezioni vengono interrotte per un certo periodo, come nel sonno
profondo, non riesco a percepire il me stesso, e a ragione si può dire che durante quel
periodo non esisto. Se tutte le mie percezioni, poi, fossero interrotte dalla morte, e,
dopo la dissoluzione del mio corpo, non potessi nemmeno pensare, né toccare, né
vedere, né amare, né odiare, io sarei completamente annichilito, e non riesco a concepire qualcos’altro di più necessario per fare di me una perfetta non-entità7.
Ogni qualvolta si pronunci la parola “io” si deve poter specificare quale
esperienza percettiva si ha in mente, altrimenti la parola resta priva di significato e di senso. Io esisto nella misura in cui percepisco, non nella misura in
cui penso. La coscienza non è qualcosa che viene all’io dal fatto di pensarsi
come essere pensante; un ego così astratto è totalmente irreale, frutto di una
operazione innaturale e arbitraria, la quale nega la natura umana proprio nel
momento in cui se ne erge a principio. Lungi dall’essere indiviso e sempre
identico, io non sono altro che “un fascio o collezione di percezioni differenti,
susseguenti le une alle altre con rapidità inconcepibile, e in perpetuo flusso
e movimento”8. Così variazione, mutamento e incostanza del nostro mondo
interiore, insieme al principio di separabilità di esistenze distinte, sono incompatibili con l’idea del sé: parlare di me stesso diventa in questa prospettiva
una contraddizione in termini. Il “soggetto”, l’“anima”, il “sé”, l’“Io” non sono
il luogo in cui convergono le nostre percezioni, bensì qualcosa che si suppone
debba esistere nella misura in cui queste ultime appaiono alla nostra mente
come dotate di una esistenza continuata. Tanto è inarrestabile il flusso delle
percezioni, che la mente, passando così agevolmente da una all’altra, fatica a
crederle separate e distinte e vi attribuisce piuttosto una “identità perfetta”. Per
questo poi non può fare a meno di supporre “un qualche principio nuovo e
inintelligibile, che connetta assieme gli oggetti, impedendo una loro interruzione o variazione”, ossia l’anima, il sé o la sostanza9. Insomma, il soggetto
non presiede all’attività cogitativa, né tantomeno vi coincide, ma ne è piuttosto un prodotto fittizio del quale il pensiero è causa senza riuscire ad esserne
rimedio. In questa misura tramonta con Hume la nozione di soggetto sorta
in seno alla tradizione aristotelica e cartesiana. Il pensiero in quanto tale non
può perciò essere il luogo di costituzione del soggetto.
7
8
9
Hume (2001, 252).
Ibidem (traduzione leggermente modificata).
Ivi, 254.
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Quale soggetto in Hume?
Tuttavia, Hume è ben consapevole che la decostruzione della nozione di
soggetto, diversamente da quella di sostanza applicata agli oggetti esterni,
apre a una impasse radicale che egli stesso – com’è noto – nell’Appendice al
Trattato dichiara di non essere riuscito a risolvere. Posto infatti che le singole
percezioni che compongono la mente, ovvero quelle cui, sole, si accompagna
l’io, siano distinguibili, e che perciò l’atto di separare le une dalle altre non
implichi contraddizione alcuna, come fanno poi a stare insieme? cosa le tiene
unite? qual è, in altri termini, il collante in virtù del quale la mente risulti
effettivamente una collezione di percezioni? Insomma, per quanto separate e
distinguibili, è pur sempre vero che tali percezioni sono mie. Quale principio
di connessione soggiace allora a questa naturale inclinazione al possesso?10
Così l’eliminazione del soggetto apre a una sorta di atomismo percettivo.
La soluzione indicata da Hume nella sezione VI del Trattato viene giudicata inadeguata nell’Appendice11: le due relazioni alla base della connessione tra percezioni distinte, vale a dire la rassomiglianza e la causalità,
sono espedienti associativi, mezzi attraverso cui la mente è naturalmente
portata ad associare tra loro le percezioni, ma non scoprono né fondano
alcuna connessione necessaria tra di esse. La rassomiglianza consiste nel
richiamare alla memoria le percezioni passate tra loro simili, in modo che
la mente passi agevolmente dall’una all’altra fino a credere che si tratti di
un solo oggetto, generando l’idea di continuità e successione di percezioni;
la causalità invece connette tra loro percezioni differenti così da farle apparire come un fitto reticolato nel quale si influenzano reciprocamente, o
perché l’una nasce dall’altra, o perché ne è distrutta, o perché modificata e
così via, e la trama di questo reticolato è supposta rimanere la medesima al
di là del modificarsi delle percezioni12. Così la mente istituisce quei legami
dai quali dovrebbe invece essere fondata come sistema reale (e non solo
sentito) di percezioni, o meglio non ne risulta fondata nella misura in cui
li istituisce. Come Hume vede chiaramente, l’unica alternativa possibile a
questa petizione di realtà sarebbe l’esistenza di un soggetto o sostanza a cui
ciascuna percezione possa inerire13 – alternativa che però gli resta preclusa
per le ragioni dette.
3. Il soggetto e le passioni
Diversi studiosi hanno suggerito che la sola risposta positiva al problema
dell’identità personale sia da rintracciare all’interno del II libro del Tratta10
11
12
13
Su questo si veda Strawson (2012).
Hume (2001, 635).
Ivi, 261.
Ivi, 636.
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Paolo Castaldo
to, dedicato alla morale14. Riprendendo la distinzione humeana tra “l’identità personale intesa come ciò che riguarda il nostro pensiero e la nostra
immaginazione, e come ciò che riguarda le nostre passioni o l’interesse che
coltiviamo per noi stessi”15, essi mantengono che nel secondo caso l’esistenza del sé o dell’io non viene revocata mai in dubbio. Nella sezione II
della parte I, Hume definisce l’io, “ossia la successione di idee e impressioni
collegate, di cui abbiamo intimamente memoria e coscienza”, come l’oggetto (object) a cui le passioni indirette e contrarie dell’orgoglio e dell’umiltà
sono rivolte: “È proprio qui, infatti, che si fissa il nostro sguardo quando
siamo mossi da una di queste passioni. In funzione al fatto che la nostra
idea di noi stessi sia più o meno favorevole, sentiamo una o l’altra di queste
opposte affezioni, e saremo esaltati dall’orgoglio oppure afflitti dall’umiltà”16. Orgoglio e umiltà “li consideriamo sempre in rapporto a noi stessi;
altrimenti non potrebbero mai sollecitare queste passioni, né produrne il
benché minimo aumento o diminuzione. Quando non consideriamo l’io,
non c’è spazio né per l’orgoglio né per l’umiltà”17. Detto con parole diverse,
se orgoglio e umiltà sono passioni della cui esistenza ed evidenza nessuno
dubita, a fortiori non si può dubitare dell’io, a cui entrambe sono rivolte.
Più avanti leggiamo:
Se la natura non avesse dotato la mente di alcune qualità originarie, essa non
potrebbe nemmeno avere qualità secondarie; perché in tal caso non avrebbe alcun
fondamento per l’azione, né potrebbe neanche iniziare ad agire. Ora, le qualità che
consideriamo necessariamente come originarie sono anche quelle più inseparabili
dall’anima, e non le si può ridurre a nient’altro: questa è la qualità che determina
l’oggetto dell’orgoglio e dell’umiltà18.
L’io, vale a dire l’oggetto di queste due passioni, viene definito come
una qualità originaria della mente e fondamento dell’azione: è l’io che agisce e sente, e di queste azioni e sentimenti “ciascuno di noi è intimamente
consapevole”19. Ciò viene ribadito a proposito del principio di simpatia
(sympathy), grazie al quale riusciamo a sentire le opinioni e le affezioni
degli altri perché soggette alla medesima logica delle passioni: “È evidente
che l’idea, o piuttosto l’impressione di noi stessi ci è sempre intimamente
14
15
16
17
18
19
Cfr. Lecaldano (2002). Altri riferimenti si trovano nel prosieguo del presente paragrafo.
Hume (2001, 253).
Ivi (277).
Ibidem.
Ivi (280).
Ivi (286).
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Quale soggetto in Hume?
presente, e che la nostra coscienza ci dà una concezione talmente vivace
della nostra stessa persona, che non è possibile immaginare che qualcosa
possa oltrepassarla a questo riguardo”20.
Naturalmente il sé di cui abbiamo impressioni e idee non è quello nudo
e puro del I libro del Trattato, bensì quello che si costituisce in seno al
complesso di passioni e affezioni sottese all’interazione quotidiana con altri
individui, non a una mera riflessione su noi stessi21. La questione dell’unificazione delle percezioni e dell’unità della mente – questo almeno si desume dalle pagine del Trattato – non decide minimamente della costituzione dell’io come soggetto morale. Essere coscienti di sé significa qui essere
consapevoli delle passioni e delle affezioni che ci caratterizzano, ossia che ci
conferiscono un dato carattere. Ciò secondo alcuni studiosi consentirebbe
di risolvere una delle difficoltà relative all’io come fascio di percezioni,
giacché il processo di formazione delle passioni autorizza alla formazione
dell’idea di sé come soggetto dotato di un’esistenza continuata, capace di
agire in vista di fini futuri22. Insomma, io sono l’insieme delle passioni e dei
sentimenti che mi definiscono e da cui le mie azioni sono orientate. Qui
non è più il soggetto solipsistico, ma quello morale e sociale la cui esistenza
(anche continuata nel tempo) non dipende da un atto fondante del pensiero: l’uomo in carne ed ossa che vive e inter-agisce in società esiste non
solo prima di chiedere come, ma indipendentemente dal fatto di chiederlo
(non è un caso se solo nel II libro il corpo venga menzionato accanto alla
mente quale componente altrettanto essenziale dell’io)23. Il sé da positus
diventa praepositus24.
Sul valore eminentemente etico-pratico dell’opera di Hume ha insistito,
tra gli altri, Nicholas Capaldi, secondo il quale con Hume assistiamo al
passaggio – inedito anche per l’empirismo moderno – da una “I Think perspective”, propria della tradizione cartesiana, a una “We Do perspective”, in
cui l’uomo è visto innanzitutto e per lo più come un essere agente, non teoretico25. I problemi relativi all’io sollevati nel I libro, in altri termini, non
20
21
22
23
24
25
Ivi (317).
In particolare, in questo contesto Hume si riferisce alle affezioni che si originano per
simpatia: dapprima mi formo un’idea di una data affezione a partire dal comportamento esteriore della persona che la suscita in me; in un secondo momento, tale idea
viene convertita in un’impressione “e acquisisce un grado tale di forza e vivacità, da
diventare la passione stessa, e produce un’emozione uguale a ogni affezione originaria”
(ivi, 317). Per via dello stesso principio, l’idea di noi stessi può mutare in un’impressione.
Cfr.: Ainslie (1999); Welchman (2015); Rorty (2006, 198-199).
Hume (2001, 298, 303); Baier (1991, 130-131, 141-143).
Su ciò si veda anche Penelhum (1992, 284-286).
Cfr. Capaldi (1989, 22-25).
55
Paolo Castaldo
inciderebbero in alcun modo sulla determinazione dell’io come soggetto
morale. Qui interviene un’altra grammatica del soggetto, i cui termini elementari non sono più l’intelletto e la logica dell’immaginazione alla base
delle relazioni di causalità o rassomiglianza, bensì le passioni e l’interazione
tra esseri umani26. In questa prospettiva, l’io si dà piuttosto come un costrutto sociale, ossia come l’insieme delle affezioni e dei sentimenti i quali
originano dalla relazione con altri individui od oggetti27.
Il rapporto tra l’io a tema nel I libro e quello a tema negli altri due è
stato variamente interpretato. Da un lato vi è chi, sottolineando la loro
radicale alterità, sostiene che soltanto il II e il III libro siano in grado di
portare fuori dall’impasse del I, dall’altro chi, ridimensionandone la frattura, nega una reale opposizione tra i due28. Ora, al di là delle questioni
specifiche oggetto di questa querelle, si può senz’altro affermare che nel II e
III libro del Trattato le criticità relative alla tesi dell’io-fascio, o perlomeno
quella indicata da Hume nell’Appendice, non viene neanche menzionata.
(Ricordo che l’Appendice è stata pubblicata tre anni dopo insieme al III
libro). A mio avviso qui non vi è soltanto l’esigenza da parte di Hume di
guardare oltre le difficoltà di natura speculativa, sottesa all’idea che esse
incidano poco o nulla sulla vita pratica degli esseri umani, ma anche la
convinzione che in fondo il suo sistema non ne fosse compromesso in
maniera significativa (come avrebbe potuto altrimenti non rimaneggiare i
libri già pubblicati ove si parlava dell’io?). Ciò però – va ribadito – al prezzo di lasciare aperto un problema tutt’altro che secondario e che non viene
ripreso nei libri II e III (in effetti, Hume non avrebbe avuto motivo di rilevare un’impasse dopo la pubblicazione dei tre libri del Trattato, se avessero
contenuto la sua soluzione). Quanto di positivo si dice intorno al soggetto
morale regge solo a condizione di tralasciare la questione del fondamento
dell’unità della mente, ovvero di determinare cosa garantisce all’io di essere
una collezione di percezioni.
Sulla base della precedente analisi, una cosa si può affermare con discreta
certezza: del soggetto non si può fare a meno. Non nel I libro, dove il venir
meno del soggetto di inerenza, congiuntamente all’impossibilità costitutiva dell’uomo di percepire un legame reale tra le percezioni, apre all’impasse
suddetta; non nel II e nel III, dove esso viene presupposto al manifestarsi
26
27
28
Cfr. Purviance (1997, 202-204).
Cfr. Penelhum (1992, 288); Baier (1991, p. 139); Lecaldano (2002).
Cfr. soprattutto Rorty (1990); Baier (1991, 129-145); McIntyre (1989). Una critica
di queste posizioni si trova in Penelhum (1992).
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Quale soggetto in Hume?
dell’orgoglio e dell’umiltà, della simpatia e dell’egoismo29. Solo che, mentre qui la sua costituzione ontologica cede il posto alla pre-comprensione
comune dell’io o del sé (di cui “ciascuno di noi è intimamente consapevole”, già cit.), lì la ricomposizione del soggetto è difficile da operare per via
dei principi che ne hanno guidato la decostruzione. Insomma, siamo qui
in presenza di un soggetto dimezzato. Ora, chiediamo, può il soggetto essere
appannaggio dei libri II e III a scapito del I? O non esiste piuttosto un
luogo più originario di costituzione del soggetto la cui affermazione non
implichi eo ipso l’una o l’altra configurazione, e che dunque si collochi al
di sopra di tale contesa? Nel prossimo e ultimo paragrafo argomenterò che
tale luogo altro non sia che la scienza della natura umana.
4. Il soggetto e la natura umana
Per cominciare, va osservato che la nozione di soggetto compare piuttosto
raramente nel Trattato, dove è pressoché assente nel I libro – se non col
significato di sostanza – mentre vi sono pochissime occorrenze nel II e
nel III. Ciò vale altresì nella letteratura su Hume. Una delle tendenze più
usuali tra gli studiosi è quella di assimilare il soggetto all’io, al sé, o alla
mente, e di utilizzarli come sinonimi. In apparenza ciò è giustificato dal
fatto che tale nozione si intreccia al problema dell’identità personale, come
si è visto. Tuttavia a mio giudizio le due questioni vanno tenute separate,
come vedremo.
Il tentativo di rintracciare nella filosofia humeana una nozione a prima
vista così stridente con la tradizione empirista come quella di soggetto non
è inedito; esso si deve soprattutto a Gilles Deleuze, sebbene non abbia avuto grande seguito tra gli studiosi30. L’idea fondamentale di Deleuze è che in
Hume la mente si faccia soggetto in virtù dei principi fondamentali della
29
30
Non è certamente un caso che nel II libro venga riabilitata, almeno da un punto di
vista lessicale e concettuale, la distinzione tra soggetto e qualità inerenti. Cfr. Hume
(2001, 279, 280, 289).
Cfr. Deleuze (2012). Sebbene in modo assai meno articolato rispetto a Deleuze, anche
Galen Strawson (2016) tien ferma la soggettività in Hume in forza dell’assunto – mai
messo in discussione nel Trattato – secondo cui non si dà esperienza alcuna in assenza
di un soggetto di esperienza: affinché vi siano percezioni e sensazioni, deve esservi
necessariamente qualcuno (un soggetto) che senta e che esperisca. Tuttavia questa
declinazione del soggetto è piuttosto generica, come si vede, perciò Strawson non ha
alcuna difficoltà a utilizzare come sinonimi “soggetto”, “sé” e “mente”. Vedremo però
che a una caratterizzazione più rigorosa del soggetto, una distinzione tra queste nozioni
si impone.
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Paolo Castaldo
natura umana, in primo luogo l’immaginazione e le passioni, e che si tratti
perciò di un soggetto che si determina in seno all’attività della mente: un
soggetto pratico, che inventa e crede, e non teoretico. Al di là del giudizio
particolare sulla lettura di Deleuze, il suo merito principale resta a mio parere quello di aver recuperato una nozione chiave della metafisica in seno
alla tradizione che, secondo una storiografia consolidata, nasce in reazione
ad essa e vi si contrappone in toto. Il pregiudizio in questione mantiene
che l’empirismo humeano, in quanto tale, non possa accogliere la nozione di soggetto; in realtà esso con-fonde soggetto e sostanza, soggettività e
razionalismo. Tuttavia, pur muovendo dall’idea fondamentale di Deleuze,
qui vorrei provare a individuare un senso di soggettività ancora diverso,
ancorché non riconducibile alla tradizione aristotelica respinta da Hume,
né tantomeno all’ego cogito cartesiano.
Per meglio illustrare ciò che ho in mente, può essere utile partire dalla critica di Montaigne al concetto di soggetto presentata da Amélie Rorty31. La
dissoluzione del sé nell’opera del bordolese poggia essenzialmente – leggiamo
– sull’idea secondo cui
non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti.
E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa. Così non si può stabilire nulla di certo dall’uno all’altro, tanto il giudicante
quanto il giudicato essendo in continuo mutamento e oscillazione32.
Tutto muta, inclusi noi stessi, perciò non possiamo dire di essere una
cosa e non un’altra – o viceversa33. Non è difficile avvedersi che una simile
conclusione è del tutto irricevibile nel caso di Hume. Fatta salva l’affermazione secondo cui non vi è alcuna esistenza costante, ma tutto muta e
fluisce continuamente e inesorabilmente (si ricordi che per Hume l’io è un
flusso continuo di percezioni), Hume respingerebbe senz’altro la conclusione di Montaigne, ossia che nulla di certo può essere detto del giudicante
e del giudicato, del soggetto e dell’oggetto. La grande opera di costruzione
di una scienza dell’uomo non è se non il tentativo di capovolgere questa
prospettiva e di abbandonare qualsiasi superficiale relativismo o scetticismo
fine a se stesso. L’introspezione di Montaigne, per quanto profonda e com31
32
33
Cfr. Rorty (2006, 198).
Cfr. Montaigne (2012, II, XII, p. 1113).
Cfr. Rorty (2006, 198): “Arguing from a wealth of erudition, Montaigne ironically
mocks the pretention to knowledge and to self-knowledge. [...] As Montaigne’s Essays
unfold, even his philosophical beliefs shift. Ironist throughout, he is now Stoic, now
Skeptic, now Epicurean, just as in his early Essays, he was now complaisant, now
suspicious, now calm”.
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Quale soggetto in Hume?
plessa, non ha basi né intenzioni scientifiche; l’analisi di Hume conduce a
un articolato meccanismo di relazioni e di rapporti tra impressioni, idee,
passioni e affezioni che regola in maniera quasi deterministica non solo la
sua natura individuale, ma quella dell’uomo in quanto tale. La sua singolare esperienza diventa esperienza universale dei singoli. La differenza con
Montaigne qui è radicale34.
Vediamo così configurarsi una nuova immagine del soggetto, da ricercarsi non già in questa o quella determinazione particolare della natura
umana, ma nella scienza dell’uomo in quanto tale. Il soggetto non si identifica con un momento specifico della psicologia humeana; l’uomo è soggetto nella misura in cui è restituito dal complesso dei principi fondamentali che ne definiscono la natura, dagli elementi positivi dell’uomo (ossia
da cui è posto) che ne fanno un essere determinato, ovvero lo determinano
a essere ciò che è. Così, ad esempio, l’uomo è quell’essere che nulla può
concludere intorno a un oggetto se prima non ne ha avuto esperienza;
guidato sempre dall’abitudine e mai dalla ragione; oppure portato a estendere i propri ragionamenti al di là dell’esperienza e a inferire più di quanto
quest’ultima non gli consentirebbe, là dove confonde per natura una successione costante di oggetti con la loro connessione necessaria. Nell’Estratto del Trattato sulla natura umana, Adamo mostra tutta la sua natura, cioè
la propria soggettività, nel momento in cui è costretto, in quanto uomo,
ad avere esperienza dell’effetto per poterlo inferire dalla causa35. E quanto
poco soggetto, cioè uomo, sarebbe un essere, poniamo un angelo, che non
avrebbe bisogno dell’esperienza per giungere a una simile conclusione.
In questo senso “uomo”, “natura umana” e “soggetto” diventano in
Hume sinonimi. La natura umana non è se non la configurazione scientificamente determinata dell’uomo, che in questa misura si fa soggetto. In
tale prospettiva, l’affermazione secondo cui “la Natura Umana è la sola
scienza dell’uomo”36 può essere convertita in “la Natura Umana è la sola
scienza del soggetto”, nel senso che il soggetto si costituisce come natura
umana nei limiti entro cui, di esso, si dà scienza. In altri termini, la scienza
della natura umana è ciò grazie cui l’uomo si dà come soggetto, il quale
però, in quanto se ne dà scienza, è anche perciò stesso oggetto. Insomma,
se l’uomo si costituisce come ciò di cui vi è scienza, allora il soggetto in
questo senso si dà sempre come (s)oggetto. Scrive Hume nell’Introduzione
al Trattato: “Noi stessi non siamo soltanto esseri che ragionano, ma anche
34
35
36
Diversamente Rorty (2006, 198).
Cfr. Hume (1971, 676-677).
Hume (2001, 545).
59
Paolo Castaldo
uno di quegli oggetti su cui ragioniamo”37. Il soggetto humeano non trova
la propria ragion d’essere in una opposizione dialettica con l’oggetto, ma
si costituisce come tale nella misura in cui si fa oggetto: soggetto e oggetto coincidono qui perfettamente, ma in un senso ben diverso da quanto
avverrà con Kant e con l’idealismo38, giacché in Hume il soggetto non si
dà mai di contro a un oggetto, ma sempre – e in un senso eminente – come
oggetto: (s)oggetto, appunto. La scienza dell’uomo è il luogo in cui le dicotomie tradizionali soggetto/oggetto e uomo/natura si conciliano; in altri
termini, è il luogo di una insospettabile coincidentia oppositorum. È questa la
natura affatto peculiare e a mio avviso di grande interesse della soggettività
humeana.
È evidente allora per quale ragione il soggetto così inteso si distingua
in un senso primario ed essenziale dall’io, dal sé o dalla persona, giacché
la natura umana, sottesa a una indagine sistematica e scientifica intorno
alle operazioni fondamentali della mente, non è alcunché di particolare. In
quanto indagine scientifica, l’impresa di Hume ha necessariamente ambizioni universalistiche, aspira cioè a valere non per questo o quell’individuo
singolare, ma per l’uomo come tale. L’uomo è essenzialmente diverso dalla
persona, intesa come singolo dotato di proprie specificità. Queste ultime,
indispensabili per la persona poiché ne determinano la differenza rispetto
agli altri individui, sono nella scienza della natura umana del tutto accidentali e indifferenti perché non concorrono alla formazione dell’uomo
universale. Scrive Hume nel II libro del Trattato a proposito delle cause
dell’orgoglio e dell’umiltà:
Noi potremmo forse chiederci, come questione più importante, se le cause che
producono la passione siano naturali come l’oggetto a cui essa è diretta, e se tutta
la sua varietà derivi da un qualche capriccio o dalla costituzione stessa della mente.
Questo è un dubbio che elimineremo subito, se gettiamo uno sguardo alla natura
umana, e consideriamo che in tutte le nazioni e in ogni età, sempre gli stessi oggetti
hanno prodotto orgoglio e umiltà; e che anche di uno straniero possiamo sapere con
una certa precisione cosa aumenterà o diminuirà le sue passioni di questo genere. Se
ci fosse qualche variazione a questo proposito, deriverebbe soltanto da una differenza
nel temperamento e nel carattere degli uomini; ed è inoltre assai poco considerevole39.
37
38
39
Hume (2001, Intr. XV).
Un discorso a parte andrebbe fatto naturalmente per l’idealismo hegeliano, il cui
perno consiste nel superamento della contrapposizione soggetto/oggetto.
Hume (2001, 280-281).
60
Quale soggetto in Hume?
Invece di coincidere con la persona, con l’io o col sé, il soggetto rappresenta piuttosto la spersonalizzazione dell’individuo, ciò in cui quest’ultimo
si nega in vista di una fondazione di ordine superiore del proprio sé.
Contrariamente a una tendenza piuttosto diffusa tra gli studiosi, la soggettività così intesa si colloca al di sopra della disputa sull’identità personale, di cui l’intelletto e le passioni si contendono il primato40. Mentre il
problema dell’identità personale da un lato si può ricondurre all’esigenza
di rintracciare un centro o un principio unitario del flusso di percezioni
(dove il soggetto si dà al limite come sostanza), dall’altro all’insieme delle
passioni e dei sentimenti propri di ciascun singolo (dove in certa misura
viene recuperata la distinzione tra soggetto d’inerenza e qualità), il soggetto
qui delineato si colloca a un livello più originario all’interno del quale queste declinazioni rientrano come momenti particolari – per quanto senza
dubbio rilevanti. “Soggetto” dice sempre più di “io” o “sé”. Ma neanche
si può identificare con la mente stricto sensu, per quanto abbia un ruolo
cruciale specialmente nel I libro, perché ciò lascerebbe fuori il corpo e la
dimensione intersoggettiva e sociale in generale, ricacciando l’uomo nel
solipsismo dal quale Hume si sforza di tenerlo a riparo. Il soggetto humeano è di una generalità tale da includere sempre anche, in sé, il rapporto con
altri soggetti: il soggetto è sia mente, sia corpo, sia individuo in mezzo ad
altri individui e così via. Esso, si è detto, è l’insieme dei principi essenziali
che definiscono la natura umana, di cui l’io, il sé, la mente sono componenti specifiche: “mente” dice sempre meno di “natura umana”. Non è
perciò nell’identità personale che va cercato il soggetto41.
Per la medesima ragione, esso resta al riparo dalle criticità rilevate da
Hume nell’Appendice circa la mancanza di un fondamento unificante delle percezioni della mente, sia esso la sostanza o un principio di connessione
reale e non solo avvertita tra percezioni che ognuno di noi sa di avere:
nel primo caso, come si è visto, si avrebbe un soggetto di inerenza che
resterebbe invariabilmente identico al di là del fluire delle percezioni; nel
secondo, si riuscirebbe a rendere ragione dei principi in virtù di cui esse
sono connesse in un certo modo e non altrimenti, laddove le relazioni di
causalità e di rassomiglianza alla base del concatenamento tra percezioni
sono, secondo i principi della filosofia humeana, inadeguati a questo scopo
40
41
Cfr. ad esempio Rorty (2006, 198); Strawson (2016).
Una via d’uscita dalla disputa sull’identità sembra individuarla Penelhum (1992,
283) quando afferma che il legame tra l’io del I libro e quello del II e III (ossia la prospettiva teoretica dell’io penso e quella pratico-morale dell’io sociale) è rappresentato
dalla scienza della natura umana, salvo poi intendere quest’ultima come l’insieme
degli istinti pratici e vitali che salva dall’astrattezza e dalla immobilità dell’io penso, e
non come fondazione della soggettività.
61
Paolo Castaldo
in quanto frutto dell’immaginazione. Senza voler entrare in questo controverso problema42, qui sarà sufficiente richiamare l’attenzione sul fatto
che esso è tutto interno alla mente, all’io, alla persona, e non riguarda le
operazioni complessive della natura umana. Si badi, ciò non significa che
non vi sia (o non possa esservi) un problema relativo alla tenuta epistemologica dei principi alla base della psicologia associazionista del Trattato43,
ma solo che esso non dipende dalla questione dell’identità personale. Se
mai è il contrario: la debolezza o la forza della risposta al problema dell’identità personale è subordinata alla debolezza o alla forza di tali principi.
Altrimenti si deve ammettere che la scienza della natura umana dipenda
interamente dalla questione circa l’identità personale.
Questo passaggio ci porta all’ultimo punto sul quale vorrei soffermarmi, vale a dire la natura del soggetto qui delineato. Com’è noto, nella
conclusione del I libro del Trattato Hume formula un giudizio colmo di
scetticismo sulla tenuta generale della sua scienza dell’uomo44. Tali perplessità si possono ricondurre al fatto che i principi elementari di connessione
alla base delle nostre credenze, sui quali dovrebbe reggersi l’intera scienza
dell’uomo (perlomeno nel libro I), poggiano in ultimo sull’attività associativa dell’immaginazione, vale a dire su operazioni mentali e non su qualcosa che risieda nell’oggetto stesso. Scrive Hume:
Ciò che la mente umana è più desiderosa di conoscere sono le cause di ogni
fenomeno; e non ci accontentiamo di conoscere le cause immediate, ma spingiamo
oltre la nostra indagine, fino ad arrivare al principio primo e originario. E saremmo
soddisfatti soltanto quando avremo conosciuto l’energia della causa con cui questa
agisce sul suo effetto; il legame che le collega insieme; e l’efficace qualità da cui il
legame stesso dipende. Questo è lo scopo che anima tutti i nostri studi e le nostre
riflessioni: come potremmo, allora, indisporci quando apprendiamo che questa connessione, legame, o energia, alberga semplicemente in noi stessi, e che è soltanto la
determinazione mentale acquisita dall’abitudine che ci induce a passare da un oggetto al suo compagno abituale, e dall’impressione di uno all’idea vivace dell’altro?
Una simile scoperta non soltanto stronca qualunque speranza di una soddisfazione,
ma ci impedisce persino di desiderarla: sembra infatti che, dicendo che desideriamo
conoscere il principio primo e agente, inteso come qualcosa che risiede negli oggetti
esterni, noi ci contraddiciamo, oppure diciamo cose senza senso45.
42
43
44
45
La letteratura sull’argomento è assai vasta. Si vedano almeno Ainslie (2008); Ellis
(2006).
Su questa enorme questione, si vedano almeno Ainslie (2008); Penelhum (2012);
Fogelin (2009); Stroud (2016).
Hume (2001, 263 ss).
Hume (2001, 266-267).
62
Quale soggetto in Hume?
La questione dello scetticismo humeano è stata a lungo dibattuta. Qui
non interessa certamente stabilire se Hume sia o meno uno scettico, ed
eventualmente di che genere; interessa piuttosto capire in che modo tale
perplessità si rifletta sulla nozione di soggetto. Ora, è evidente che nella
misura in cui la scienza della natura umana poggia da ultimo su principi
essenzialmente contingenti e non assoluti, in quanto ha come unica fonte epistemica l’abitudine e l’osservazione empirica, neanche l’immagine
del soggetto che ne scaturisce può essere assoluta. Ciò distingue in ultima
istanza il soggetto humeano da quello kantiano e, soprattutto, dell’idealismo. Cionondimeno, occorre pure riconoscere che in sé il sistema filosofico
di Hume è coerente, nel senso che i principi su cui si regge, ancorché dati
solo empiricamente, una volta ammessi spiegano in maniera rigorosa e sistematica l’origine delle nostre credenze. “Il mondo intellettuale, per quanto avvolto da un’oscurità infinita, non è afflitto da contraddizioni simili a
quelle che abbiamo scoperto nel mondo naturale. Ciò che ne conosciamo, è coerente con se stesso; e ciò che è ignoto, dobbiamo accontentarci
di lasciarlo tale”46, scrive Hume all’inizio della sezione sulla immaterialità
dell’anima. Il fatto di non poggiare su un fondamento assoluto non rende
meno coerente e robusto il suo sistema.
Se permettiamo che una tiepida immaginazione sia accolta in filosofia, e che le
ipotesi siano accolte semplicemente perché accattivanti e gradevoli, non potremo mai
avere princìpi saldi, né sentimenti che adeguati alla pratica e all’esperienza comune.
Ma se queste ipotesi venissero poi rimosse, allora potremmo sperare di stabilire un sistema o una serie di opinioni le quali, se non vere (poiché, forse, è una speranza eccessiva), potrebbero almeno soddisfare la mente umana, e superare la prova dell’esame
più critico. [...] Quanto a me, la mia unica speranza è di poter contribuire in minima
parte al progresso della conoscenza, imprimendo, a riguardo di alcuni particolari, una
nuova svolta alle speculazioni dei filosofi, e indicando loro più distintamente gli unici
argomenti in cui è lecito aspettarsi sicurezza e convinzione. La Natura Umana è la
sola scienza dell’uomo; e tuttavia è ancora la più trascurata47.
46
47
Ivi, 232.
Ivi, 272-273. In generale, nel Trattato Hume è convinto della saldezza dei principi
della sua scienza dell’uomo. Sono moltissimi i passi che si potrebbero citare. Si veda a
titolo esemplificativo il seguente: “Devo distinguere, nell’immaginazione, tra i principi permanenti, irresistibili, e universali, come il passaggio abituale dalle cause agli
effetti e dagli effetti alle cause, e tra i principi mutevoli, fiacchi, e irregolari, come
quelli che ho appena esaminato. I primi costituiscono il fondamento di tutti i nostri
pensieri e di tutte le nostre azioni, al punto che, rimuovendoli, la stessa natura umana
sarebbe condannata a cadere in rovina e perire. I secondi, invece, non sono né inevitabili, né necessari al genere umano, e nemmeno utili nella vita quotidiana: è evidente
che si manifestano soltanto in menti deboli, e inoltre, opponendosi agli altri principi
dell’abitudine e del ragionamento, possono essere facilmente sovvertiti da un adeguato
contrasto o opposizione” (ivi, 225).
63
Paolo Castaldo
La scienza della natura umana è ancora in grado di dire qualcosa di
esatto intorno all’uomo nonostante si scopra fallibile al rischio di sapersi
incompiuto48. Perciò non costituisce in alcun modo un limite o una negazione della nostra definizione di soggetto il fatto che della natura umana
non si dia una scienza definitiva. Per questo, anche, si può dire che quello
humeano sia un (s)oggetto sempre incompiuto, mai perfectus; ma ciò non
toglie minimamente che possa essere considerato, in questa misura, soggetto.
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48
Cfr. soprattutto Penelhum (2012).
64
Quale soggetto in Hume?
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