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Quale soggetto in Hume?

2024, Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità, 15

https://doi.org/10.5281/zenodo.11093868

In Hume's scholarship the notion of "subject" lacks systematic analysis. First, because it is often confused with the "self ", "soul" or "person"; second, because the subject is almost always reduced to the famous question of personal identity. In this paper I argue that, on the one hand, the concept of subject should be distinguished both from "self " and the question of personal identity; on the other, I argue that a positive notion of subject emerges from the "Treatise", and it must ultimately be sought within the very science of human nature.

Quale soggetto in Hume? Paolo Castaldo Which Subject in Hume? Abstract: In Hume’s scholarship the notion of “subject” lacks systematic analysis. First, because it is often confused with words such as “self ”, “soul” or “person”, which repeatedly occur in the Treatise. Another reason is that the subject is almost always reduced to the famous question of personal identity. In this paper I argue that, on the one hand, the concept of subject has to be distinguished from that of “self ” or “person”, and from the question of personal identity; on the other, that a positive notion of subject emerges from the Treatise, which must ultimately be sought within the very science of human nature. Keywords: Subject; Personal Identity; Self; Human Nature; Object. 1. Introduzione Una delle questioni più dibattute all’interno del Trattato sulla natura umana di Hume concerne il problema dell’identità personale. Se da un lato la decostruzione ivi operata del concetto di identità della persona appare così radicale – là dove, tolta di mezzo la sostanza pensante, si assume l’io solo come un fascio o collezione di percezioni –, dall’altro non sono mancati tentativi da parte degli studiosi di arginarla. La posizione di Hume doveva risultare irricevibile tanto per il senso comune quanto per la riflessione filosofica: per il primo, perché lo si sarebbe dovuto convincere che nessun “io”, propriamente, esiste; per la seconda, perché togliere la base primaria delle nostre speculazioni, l’unità fondamentale e fondante dell’attività della nostra mente, equivaleva a uno sfaldamento di quest’ultima in assenza di un legame forte tra le sue componenti1. Da qui la preoccupazione di molti interpreti di recuperare forme di identità personale all’interno del Trattato, in modi anche assai diversi tra loro. * Università degli Studi di Salerno ([email protected]; ORCID: 0000-00032442-0942). 1 Si vedano ad esempio le reazioni di alcuni filosofi contemporanei di Hume (tra cui Thomas Reid) alla sua definizione della mente come fascio di percezioni. Cfr. Thiel (2011, 407 ss.). Doi: 10.5281/zenoDo.11093868 Consecutio Rerum. Anno VIII, numero 15 Paolo Castaldo I termini più frequenti utilizzati da Hume per declinare l’identità personale sono “sé”, “persona”, “me stesso” e talvolta “anima”, che ricorrono pressoché come sinonimi2. Mai, con questo significato, troviamo invece la parola “soggetto”. Ad oggi manca ancora un’indagine sistematica intorno a questa nozione all’interno del Trattato. A mio avviso ciò è dovuto essenzialmente a due ragioni: (1) in quanto il soggetto compare nel I libro come sinonimo di sostanza, la decostruzione di questa – così si pensa – implica eo ipso la decostruzione di quello; (2) quasi sempre gli studiosi fanno coincidere il soggetto col sé o con l’io, termini, questi ultimi, di gran lunga privilegiati perché ampiamente utilizzati dallo stesso Hume. Nessuna meraviglia, dunque, se la questione del soggetto viene confusa con la questione dell’identità personale. Nelle pagine seguenti argomenterò che il Trattato contiene una nozione forte – ancorché non assoluta – di soggetto, che andrà distinta da un lato dall’io e dal sé, perciò anche dal problema dell’identità personale, dall’altro dal soggetto/sostanza della tradizione aristotelica e cartesiana. In questo modo si vorrebbe mostrare come, da ultimo, una nozione apparentemente così estranea all’empirismo come quella di soggetto, venga ad assumere proprio nell’opera di Hume un significato originale e di grande interesse. Il paper si suddivide come segue: nella prima parte illustro in che modo la nozione di soggetto si leghi alla questione dell’identità personale; nella seconda discuto una delle principali prospettive abbracciate dagli studiosi per tentare di risolvere il problema dell’identità personale lasciato aperto da Hume nel I libro del Trattato; infine, proverò a mostrare che il soggetto humeano vada rintracciato nella stessa scienza della natura umana, concludendo dunque che di soggetto o soggettività si possa parlare a proposito del Trattato anche in assenza di una soluzione al problema dell’identità personale. 2. Il soggetto e l’identità personale Nel I libro del Trattato la nozione di soggetto occorre nell’accezione aristotelica di sostanza3, intesa come substratum cui inseriscono gli accidenti e che permane identico al di là del loro mutamento4. Com’è noto, Hume respinge l’esistenza di sostanze sulla base del principio per cui da un lato non percepiamo mai qualcosa di semplice e sempre identico a sé, dall’altro 2 3 4 Cfr. Pike (1967, 161). Hume (2001, 222). Ivi, sezioni IV-V. 50 Quale soggetto in Hume? qualunque cosa la mente riesca a concepire chiaramente e distintamente può essere concepita come esistente per sé, senza bisogno di alcun supporto; e dal momento che colori, odori, suoni e in generale le qualità dei corpi possono essere concepite per sé, dovrebbero tutte, a rigore, risultare sostanze anziché accidenti. Insomma, o tutto è sostanza o nulla lo è – in contrasto con la metafisica tradizionale. Formalmente simile a questa determinazione del soggetto/sostanza è quella moderna del soggetto/anima (o mente) inteso come ciò cui ineriscono le singole percezioni, contro la quale Hume fa valere il medesimo principio: dal momento che nell’anima vi sono soltanto impressioni o le loro immagini illanguidite, da dove mai la mente deriva l’immagine della sua propria sostanza, ossia l’immagine di sé? La soggettività dell’anima è qui negata dalla sua mancata oggettivazione, dalla intangibilità del principio che dovrebbe farne il sostegno delle nostre percezioni, le quali, inoltre, in quanto differenti e perciò separabili nella mente le une dalle altre, si sorreggono a limite da sé, non in virtù di altro. Non si dà perciò alcun soggetto semplice e indivisibile5. La dimensione interiore non è meno esente di quella empirica dalle criticità insite nella costituzione originaria della nozione di sostanza o soggetto. Nell’universo del cogito e della coscienza non vi è più evidenza di quanta non ve ne sia nel mondo esterno: ciò che resta inintelligibile e sconosciuto in questo, vale a dire l’essenza e la natura ultima delle cose, lo è altrettanto in quello; qualunque idea se ne possa avere, non può che essere un prodotto fallace della mente, idolum specus. Di questa specie è la nozione di soggetto inteso come “Io” o “Sé”, la cui origine va rintracciata ancora una volta nella metafisica cartesiana. L’obiezione fondamentale di Hume si può riassumere nell’idea che dove quest’ultima vede evidenza, lo scienziato della natura umana rileva solo una apparente immediatezza: l’Io/sostanza non è all’origine dei nostri pensieri, delle nostre percezioni o passioni come ciò che permane identico al di là del loro incessante mutamento, bensì ne deriva: è sempre positus, mai praepositus. Non in quanto scaturisca da una impressione, giacché le impressioni sono tutte incostanti e mutevoli mentre l’Io è supposto essere semplice e identico, né tantomeno perché se ne abbia un’impressione (ché non vi è alcun Io/oggetto), bensì in quanto si dà come finzione della mente, sua credenza fallace – e tuttavia affatto inevitabile, come vedremo immediatamente. L’introspezione rivela che non vi è alcun Io puro, assoluto, separato dai pensieri determinati, dalle impressioni o dalle passioni – insomma, dal corpo6. 5 6 Ivi, 233 ss. Per una discussione generale del problema dell’identità personale, si vedano Castaldo (2022), Lecaldano (2021, 45-59). 51 Paolo Castaldo Per parte mia, quando mi addentro più intimamente in ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in qualche percezione particolare di caldo o di freddo, di luce o d’ombra, d’amore o d’odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai ad afferrare me stesso senza una percezione, né posso mai osservare qualcosa che non sia una percezione. Quando le mie percezioni vengono interrotte per un certo periodo, come nel sonno profondo, non riesco a percepire il me stesso, e a ragione si può dire che durante quel periodo non esisto. Se tutte le mie percezioni, poi, fossero interrotte dalla morte, e, dopo la dissoluzione del mio corpo, non potessi nemmeno pensare, né toccare, né vedere, né amare, né odiare, io sarei completamente annichilito, e non riesco a concepire qualcos’altro di più necessario per fare di me una perfetta non-entità7. Ogni qualvolta si pronunci la parola “io” si deve poter specificare quale esperienza percettiva si ha in mente, altrimenti la parola resta priva di significato e di senso. Io esisto nella misura in cui percepisco, non nella misura in cui penso. La coscienza non è qualcosa che viene all’io dal fatto di pensarsi come essere pensante; un ego così astratto è totalmente irreale, frutto di una operazione innaturale e arbitraria, la quale nega la natura umana proprio nel momento in cui se ne erge a principio. Lungi dall’essere indiviso e sempre identico, io non sono altro che “un fascio o collezione di percezioni differenti, susseguenti le une alle altre con rapidità inconcepibile, e in perpetuo flusso e movimento”8. Così variazione, mutamento e incostanza del nostro mondo interiore, insieme al principio di separabilità di esistenze distinte, sono incompatibili con l’idea del sé: parlare di me stesso diventa in questa prospettiva una contraddizione in termini. Il “soggetto”, l’“anima”, il “sé”, l’“Io” non sono il luogo in cui convergono le nostre percezioni, bensì qualcosa che si suppone debba esistere nella misura in cui queste ultime appaiono alla nostra mente come dotate di una esistenza continuata. Tanto è inarrestabile il flusso delle percezioni, che la mente, passando così agevolmente da una all’altra, fatica a crederle separate e distinte e vi attribuisce piuttosto una “identità perfetta”. Per questo poi non può fare a meno di supporre “un qualche principio nuovo e inintelligibile, che connetta assieme gli oggetti, impedendo una loro interruzione o variazione”, ossia l’anima, il sé o la sostanza9. Insomma, il soggetto non presiede all’attività cogitativa, né tantomeno vi coincide, ma ne è piuttosto un prodotto fittizio del quale il pensiero è causa senza riuscire ad esserne rimedio. In questa misura tramonta con Hume la nozione di soggetto sorta in seno alla tradizione aristotelica e cartesiana. Il pensiero in quanto tale non può perciò essere il luogo di costituzione del soggetto. 7 8 9 Hume (2001, 252). Ibidem (traduzione leggermente modificata). Ivi, 254. 52 Quale soggetto in Hume? Tuttavia, Hume è ben consapevole che la decostruzione della nozione di soggetto, diversamente da quella di sostanza applicata agli oggetti esterni, apre a una impasse radicale che egli stesso – com’è noto – nell’Appendice al Trattato dichiara di non essere riuscito a risolvere. Posto infatti che le singole percezioni che compongono la mente, ovvero quelle cui, sole, si accompagna l’io, siano distinguibili, e che perciò l’atto di separare le une dalle altre non implichi contraddizione alcuna, come fanno poi a stare insieme? cosa le tiene unite? qual è, in altri termini, il collante in virtù del quale la mente risulti effettivamente una collezione di percezioni? Insomma, per quanto separate e distinguibili, è pur sempre vero che tali percezioni sono mie. Quale principio di connessione soggiace allora a questa naturale inclinazione al possesso?10 Così l’eliminazione del soggetto apre a una sorta di atomismo percettivo. La soluzione indicata da Hume nella sezione VI del Trattato viene giudicata inadeguata nell’Appendice11: le due relazioni alla base della connessione tra percezioni distinte, vale a dire la rassomiglianza e la causalità, sono espedienti associativi, mezzi attraverso cui la mente è naturalmente portata ad associare tra loro le percezioni, ma non scoprono né fondano alcuna connessione necessaria tra di esse. La rassomiglianza consiste nel richiamare alla memoria le percezioni passate tra loro simili, in modo che la mente passi agevolmente dall’una all’altra fino a credere che si tratti di un solo oggetto, generando l’idea di continuità e successione di percezioni; la causalità invece connette tra loro percezioni differenti così da farle apparire come un fitto reticolato nel quale si influenzano reciprocamente, o perché l’una nasce dall’altra, o perché ne è distrutta, o perché modificata e così via, e la trama di questo reticolato è supposta rimanere la medesima al di là del modificarsi delle percezioni12. Così la mente istituisce quei legami dai quali dovrebbe invece essere fondata come sistema reale (e non solo sentito) di percezioni, o meglio non ne risulta fondata nella misura in cui li istituisce. Come Hume vede chiaramente, l’unica alternativa possibile a questa petizione di realtà sarebbe l’esistenza di un soggetto o sostanza a cui ciascuna percezione possa inerire13 – alternativa che però gli resta preclusa per le ragioni dette. 3. Il soggetto e le passioni Diversi studiosi hanno suggerito che la sola risposta positiva al problema dell’identità personale sia da rintracciare all’interno del II libro del Tratta10 11 12 13 Su questo si veda Strawson (2012). Hume (2001, 635). Ivi, 261. Ivi, 636. 53 Paolo Castaldo to, dedicato alla morale14. Riprendendo la distinzione humeana tra “l’identità personale intesa come ciò che riguarda il nostro pensiero e la nostra immaginazione, e come ciò che riguarda le nostre passioni o l’interesse che coltiviamo per noi stessi”15, essi mantengono che nel secondo caso l’esistenza del sé o dell’io non viene revocata mai in dubbio. Nella sezione II della parte I, Hume definisce l’io, “ossia la successione di idee e impressioni collegate, di cui abbiamo intimamente memoria e coscienza”, come l’oggetto (object) a cui le passioni indirette e contrarie dell’orgoglio e dell’umiltà sono rivolte: “È proprio qui, infatti, che si fissa il nostro sguardo quando siamo mossi da una di queste passioni. In funzione al fatto che la nostra idea di noi stessi sia più o meno favorevole, sentiamo una o l’altra di queste opposte affezioni, e saremo esaltati dall’orgoglio oppure afflitti dall’umiltà”16. Orgoglio e umiltà “li consideriamo sempre in rapporto a noi stessi; altrimenti non potrebbero mai sollecitare queste passioni, né produrne il benché minimo aumento o diminuzione. Quando non consideriamo l’io, non c’è spazio né per l’orgoglio né per l’umiltà”17. Detto con parole diverse, se orgoglio e umiltà sono passioni della cui esistenza ed evidenza nessuno dubita, a fortiori non si può dubitare dell’io, a cui entrambe sono rivolte. Più avanti leggiamo: Se la natura non avesse dotato la mente di alcune qualità originarie, essa non potrebbe nemmeno avere qualità secondarie; perché in tal caso non avrebbe alcun fondamento per l’azione, né potrebbe neanche iniziare ad agire. Ora, le qualità che consideriamo necessariamente come originarie sono anche quelle più inseparabili dall’anima, e non le si può ridurre a nient’altro: questa è la qualità che determina l’oggetto dell’orgoglio e dell’umiltà18. L’io, vale a dire l’oggetto di queste due passioni, viene definito come una qualità originaria della mente e fondamento dell’azione: è l’io che agisce e sente, e di queste azioni e sentimenti “ciascuno di noi è intimamente consapevole”19. Ciò viene ribadito a proposito del principio di simpatia (sympathy), grazie al quale riusciamo a sentire le opinioni e le affezioni degli altri perché soggette alla medesima logica delle passioni: “È evidente che l’idea, o piuttosto l’impressione di noi stessi ci è sempre intimamente 14 15 16 17 18 19 Cfr. Lecaldano (2002). Altri riferimenti si trovano nel prosieguo del presente paragrafo. Hume (2001, 253). Ivi (277). Ibidem. Ivi (280). Ivi (286). 54 Quale soggetto in Hume? presente, e che la nostra coscienza ci dà una concezione talmente vivace della nostra stessa persona, che non è possibile immaginare che qualcosa possa oltrepassarla a questo riguardo”20. Naturalmente il sé di cui abbiamo impressioni e idee non è quello nudo e puro del I libro del Trattato, bensì quello che si costituisce in seno al complesso di passioni e affezioni sottese all’interazione quotidiana con altri individui, non a una mera riflessione su noi stessi21. La questione dell’unificazione delle percezioni e dell’unità della mente – questo almeno si desume dalle pagine del Trattato – non decide minimamente della costituzione dell’io come soggetto morale. Essere coscienti di sé significa qui essere consapevoli delle passioni e delle affezioni che ci caratterizzano, ossia che ci conferiscono un dato carattere. Ciò secondo alcuni studiosi consentirebbe di risolvere una delle difficoltà relative all’io come fascio di percezioni, giacché il processo di formazione delle passioni autorizza alla formazione dell’idea di sé come soggetto dotato di un’esistenza continuata, capace di agire in vista di fini futuri22. Insomma, io sono l’insieme delle passioni e dei sentimenti che mi definiscono e da cui le mie azioni sono orientate. Qui non è più il soggetto solipsistico, ma quello morale e sociale la cui esistenza (anche continuata nel tempo) non dipende da un atto fondante del pensiero: l’uomo in carne ed ossa che vive e inter-agisce in società esiste non solo prima di chiedere come, ma indipendentemente dal fatto di chiederlo (non è un caso se solo nel II libro il corpo venga menzionato accanto alla mente quale componente altrettanto essenziale dell’io)23. Il sé da positus diventa praepositus24. Sul valore eminentemente etico-pratico dell’opera di Hume ha insistito, tra gli altri, Nicholas Capaldi, secondo il quale con Hume assistiamo al passaggio – inedito anche per l’empirismo moderno – da una “I Think perspective”, propria della tradizione cartesiana, a una “We Do perspective”, in cui l’uomo è visto innanzitutto e per lo più come un essere agente, non teoretico25. I problemi relativi all’io sollevati nel I libro, in altri termini, non 20 21 22 23 24 25 Ivi (317). In particolare, in questo contesto Hume si riferisce alle affezioni che si originano per simpatia: dapprima mi formo un’idea di una data affezione a partire dal comportamento esteriore della persona che la suscita in me; in un secondo momento, tale idea viene convertita in un’impressione “e acquisisce un grado tale di forza e vivacità, da diventare la passione stessa, e produce un’emozione uguale a ogni affezione originaria” (ivi, 317). Per via dello stesso principio, l’idea di noi stessi può mutare in un’impressione. Cfr.: Ainslie (1999); Welchman (2015); Rorty (2006, 198-199). Hume (2001, 298, 303); Baier (1991, 130-131, 141-143). Su ciò si veda anche Penelhum (1992, 284-286). Cfr. Capaldi (1989, 22-25). 55 Paolo Castaldo inciderebbero in alcun modo sulla determinazione dell’io come soggetto morale. Qui interviene un’altra grammatica del soggetto, i cui termini elementari non sono più l’intelletto e la logica dell’immaginazione alla base delle relazioni di causalità o rassomiglianza, bensì le passioni e l’interazione tra esseri umani26. In questa prospettiva, l’io si dà piuttosto come un costrutto sociale, ossia come l’insieme delle affezioni e dei sentimenti i quali originano dalla relazione con altri individui od oggetti27. Il rapporto tra l’io a tema nel I libro e quello a tema negli altri due è stato variamente interpretato. Da un lato vi è chi, sottolineando la loro radicale alterità, sostiene che soltanto il II e il III libro siano in grado di portare fuori dall’impasse del I, dall’altro chi, ridimensionandone la frattura, nega una reale opposizione tra i due28. Ora, al di là delle questioni specifiche oggetto di questa querelle, si può senz’altro affermare che nel II e III libro del Trattato le criticità relative alla tesi dell’io-fascio, o perlomeno quella indicata da Hume nell’Appendice, non viene neanche menzionata. (Ricordo che l’Appendice è stata pubblicata tre anni dopo insieme al III libro). A mio avviso qui non vi è soltanto l’esigenza da parte di Hume di guardare oltre le difficoltà di natura speculativa, sottesa all’idea che esse incidano poco o nulla sulla vita pratica degli esseri umani, ma anche la convinzione che in fondo il suo sistema non ne fosse compromesso in maniera significativa (come avrebbe potuto altrimenti non rimaneggiare i libri già pubblicati ove si parlava dell’io?). Ciò però – va ribadito – al prezzo di lasciare aperto un problema tutt’altro che secondario e che non viene ripreso nei libri II e III (in effetti, Hume non avrebbe avuto motivo di rilevare un’impasse dopo la pubblicazione dei tre libri del Trattato, se avessero contenuto la sua soluzione). Quanto di positivo si dice intorno al soggetto morale regge solo a condizione di tralasciare la questione del fondamento dell’unità della mente, ovvero di determinare cosa garantisce all’io di essere una collezione di percezioni. Sulla base della precedente analisi, una cosa si può affermare con discreta certezza: del soggetto non si può fare a meno. Non nel I libro, dove il venir meno del soggetto di inerenza, congiuntamente all’impossibilità costitutiva dell’uomo di percepire un legame reale tra le percezioni, apre all’impasse suddetta; non nel II e nel III, dove esso viene presupposto al manifestarsi 26 27 28 Cfr. Purviance (1997, 202-204). Cfr. Penelhum (1992, 288); Baier (1991, p. 139); Lecaldano (2002). Cfr. soprattutto Rorty (1990); Baier (1991, 129-145); McIntyre (1989). Una critica di queste posizioni si trova in Penelhum (1992). 56 Quale soggetto in Hume? dell’orgoglio e dell’umiltà, della simpatia e dell’egoismo29. Solo che, mentre qui la sua costituzione ontologica cede il posto alla pre-comprensione comune dell’io o del sé (di cui “ciascuno di noi è intimamente consapevole”, già cit.), lì la ricomposizione del soggetto è difficile da operare per via dei principi che ne hanno guidato la decostruzione. Insomma, siamo qui in presenza di un soggetto dimezzato. Ora, chiediamo, può il soggetto essere appannaggio dei libri II e III a scapito del I? O non esiste piuttosto un luogo più originario di costituzione del soggetto la cui affermazione non implichi eo ipso l’una o l’altra configurazione, e che dunque si collochi al di sopra di tale contesa? Nel prossimo e ultimo paragrafo argomenterò che tale luogo altro non sia che la scienza della natura umana. 4. Il soggetto e la natura umana Per cominciare, va osservato che la nozione di soggetto compare piuttosto raramente nel Trattato, dove è pressoché assente nel I libro – se non col significato di sostanza – mentre vi sono pochissime occorrenze nel II e nel III. Ciò vale altresì nella letteratura su Hume. Una delle tendenze più usuali tra gli studiosi è quella di assimilare il soggetto all’io, al sé, o alla mente, e di utilizzarli come sinonimi. In apparenza ciò è giustificato dal fatto che tale nozione si intreccia al problema dell’identità personale, come si è visto. Tuttavia a mio giudizio le due questioni vanno tenute separate, come vedremo. Il tentativo di rintracciare nella filosofia humeana una nozione a prima vista così stridente con la tradizione empirista come quella di soggetto non è inedito; esso si deve soprattutto a Gilles Deleuze, sebbene non abbia avuto grande seguito tra gli studiosi30. L’idea fondamentale di Deleuze è che in Hume la mente si faccia soggetto in virtù dei principi fondamentali della 29 30 Non è certamente un caso che nel II libro venga riabilitata, almeno da un punto di vista lessicale e concettuale, la distinzione tra soggetto e qualità inerenti. Cfr. Hume (2001, 279, 280, 289). Cfr. Deleuze (2012). Sebbene in modo assai meno articolato rispetto a Deleuze, anche Galen Strawson (2016) tien ferma la soggettività in Hume in forza dell’assunto – mai messo in discussione nel Trattato – secondo cui non si dà esperienza alcuna in assenza di un soggetto di esperienza: affinché vi siano percezioni e sensazioni, deve esservi necessariamente qualcuno (un soggetto) che senta e che esperisca. Tuttavia questa declinazione del soggetto è piuttosto generica, come si vede, perciò Strawson non ha alcuna difficoltà a utilizzare come sinonimi “soggetto”, “sé” e “mente”. Vedremo però che a una caratterizzazione più rigorosa del soggetto, una distinzione tra queste nozioni si impone. 57 Paolo Castaldo natura umana, in primo luogo l’immaginazione e le passioni, e che si tratti perciò di un soggetto che si determina in seno all’attività della mente: un soggetto pratico, che inventa e crede, e non teoretico. Al di là del giudizio particolare sulla lettura di Deleuze, il suo merito principale resta a mio parere quello di aver recuperato una nozione chiave della metafisica in seno alla tradizione che, secondo una storiografia consolidata, nasce in reazione ad essa e vi si contrappone in toto. Il pregiudizio in questione mantiene che l’empirismo humeano, in quanto tale, non possa accogliere la nozione di soggetto; in realtà esso con-fonde soggetto e sostanza, soggettività e razionalismo. Tuttavia, pur muovendo dall’idea fondamentale di Deleuze, qui vorrei provare a individuare un senso di soggettività ancora diverso, ancorché non riconducibile alla tradizione aristotelica respinta da Hume, né tantomeno all’ego cogito cartesiano. Per meglio illustrare ciò che ho in mente, può essere utile partire dalla critica di Montaigne al concetto di soggetto presentata da Amélie Rorty31. La dissoluzione del sé nell’opera del bordolese poggia essenzialmente – leggiamo – sull’idea secondo cui non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti. E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa. Così non si può stabilire nulla di certo dall’uno all’altro, tanto il giudicante quanto il giudicato essendo in continuo mutamento e oscillazione32. Tutto muta, inclusi noi stessi, perciò non possiamo dire di essere una cosa e non un’altra – o viceversa33. Non è difficile avvedersi che una simile conclusione è del tutto irricevibile nel caso di Hume. Fatta salva l’affermazione secondo cui non vi è alcuna esistenza costante, ma tutto muta e fluisce continuamente e inesorabilmente (si ricordi che per Hume l’io è un flusso continuo di percezioni), Hume respingerebbe senz’altro la conclusione di Montaigne, ossia che nulla di certo può essere detto del giudicante e del giudicato, del soggetto e dell’oggetto. La grande opera di costruzione di una scienza dell’uomo non è se non il tentativo di capovolgere questa prospettiva e di abbandonare qualsiasi superficiale relativismo o scetticismo fine a se stesso. L’introspezione di Montaigne, per quanto profonda e com31 32 33 Cfr. Rorty (2006, 198). Cfr. Montaigne (2012, II, XII, p. 1113). Cfr. Rorty (2006, 198): “Arguing from a wealth of erudition, Montaigne ironically mocks the pretention to knowledge and to self-knowledge. [...] As Montaigne’s Essays unfold, even his philosophical beliefs shift. Ironist throughout, he is now Stoic, now Skeptic, now Epicurean, just as in his early Essays, he was now complaisant, now suspicious, now calm”. 58 Quale soggetto in Hume? plessa, non ha basi né intenzioni scientifiche; l’analisi di Hume conduce a un articolato meccanismo di relazioni e di rapporti tra impressioni, idee, passioni e affezioni che regola in maniera quasi deterministica non solo la sua natura individuale, ma quella dell’uomo in quanto tale. La sua singolare esperienza diventa esperienza universale dei singoli. La differenza con Montaigne qui è radicale34. Vediamo così configurarsi una nuova immagine del soggetto, da ricercarsi non già in questa o quella determinazione particolare della natura umana, ma nella scienza dell’uomo in quanto tale. Il soggetto non si identifica con un momento specifico della psicologia humeana; l’uomo è soggetto nella misura in cui è restituito dal complesso dei principi fondamentali che ne definiscono la natura, dagli elementi positivi dell’uomo (ossia da cui è posto) che ne fanno un essere determinato, ovvero lo determinano a essere ciò che è. Così, ad esempio, l’uomo è quell’essere che nulla può concludere intorno a un oggetto se prima non ne ha avuto esperienza; guidato sempre dall’abitudine e mai dalla ragione; oppure portato a estendere i propri ragionamenti al di là dell’esperienza e a inferire più di quanto quest’ultima non gli consentirebbe, là dove confonde per natura una successione costante di oggetti con la loro connessione necessaria. Nell’Estratto del Trattato sulla natura umana, Adamo mostra tutta la sua natura, cioè la propria soggettività, nel momento in cui è costretto, in quanto uomo, ad avere esperienza dell’effetto per poterlo inferire dalla causa35. E quanto poco soggetto, cioè uomo, sarebbe un essere, poniamo un angelo, che non avrebbe bisogno dell’esperienza per giungere a una simile conclusione. In questo senso “uomo”, “natura umana” e “soggetto” diventano in Hume sinonimi. La natura umana non è se non la configurazione scientificamente determinata dell’uomo, che in questa misura si fa soggetto. In tale prospettiva, l’affermazione secondo cui “la Natura Umana è la sola scienza dell’uomo”36 può essere convertita in “la Natura Umana è la sola scienza del soggetto”, nel senso che il soggetto si costituisce come natura umana nei limiti entro cui, di esso, si dà scienza. In altri termini, la scienza della natura umana è ciò grazie cui l’uomo si dà come soggetto, il quale però, in quanto se ne dà scienza, è anche perciò stesso oggetto. Insomma, se l’uomo si costituisce come ciò di cui vi è scienza, allora il soggetto in questo senso si dà sempre come (s)oggetto. Scrive Hume nell’Introduzione al Trattato: “Noi stessi non siamo soltanto esseri che ragionano, ma anche 34 35 36 Diversamente Rorty (2006, 198). Cfr. Hume (1971, 676-677). Hume (2001, 545). 59 Paolo Castaldo uno di quegli oggetti su cui ragioniamo”37. Il soggetto humeano non trova la propria ragion d’essere in una opposizione dialettica con l’oggetto, ma si costituisce come tale nella misura in cui si fa oggetto: soggetto e oggetto coincidono qui perfettamente, ma in un senso ben diverso da quanto avverrà con Kant e con l’idealismo38, giacché in Hume il soggetto non si dà mai di contro a un oggetto, ma sempre – e in un senso eminente – come oggetto: (s)oggetto, appunto. La scienza dell’uomo è il luogo in cui le dicotomie tradizionali soggetto/oggetto e uomo/natura si conciliano; in altri termini, è il luogo di una insospettabile coincidentia oppositorum. È questa la natura affatto peculiare e a mio avviso di grande interesse della soggettività humeana. È evidente allora per quale ragione il soggetto così inteso si distingua in un senso primario ed essenziale dall’io, dal sé o dalla persona, giacché la natura umana, sottesa a una indagine sistematica e scientifica intorno alle operazioni fondamentali della mente, non è alcunché di particolare. In quanto indagine scientifica, l’impresa di Hume ha necessariamente ambizioni universalistiche, aspira cioè a valere non per questo o quell’individuo singolare, ma per l’uomo come tale. L’uomo è essenzialmente diverso dalla persona, intesa come singolo dotato di proprie specificità. Queste ultime, indispensabili per la persona poiché ne determinano la differenza rispetto agli altri individui, sono nella scienza della natura umana del tutto accidentali e indifferenti perché non concorrono alla formazione dell’uomo universale. Scrive Hume nel II libro del Trattato a proposito delle cause dell’orgoglio e dell’umiltà: Noi potremmo forse chiederci, come questione più importante, se le cause che producono la passione siano naturali come l’oggetto a cui essa è diretta, e se tutta la sua varietà derivi da un qualche capriccio o dalla costituzione stessa della mente. Questo è un dubbio che elimineremo subito, se gettiamo uno sguardo alla natura umana, e consideriamo che in tutte le nazioni e in ogni età, sempre gli stessi oggetti hanno prodotto orgoglio e umiltà; e che anche di uno straniero possiamo sapere con una certa precisione cosa aumenterà o diminuirà le sue passioni di questo genere. Se ci fosse qualche variazione a questo proposito, deriverebbe soltanto da una differenza nel temperamento e nel carattere degli uomini; ed è inoltre assai poco considerevole39. 37 38 39 Hume (2001, Intr. XV). Un discorso a parte andrebbe fatto naturalmente per l’idealismo hegeliano, il cui perno consiste nel superamento della contrapposizione soggetto/oggetto. Hume (2001, 280-281). 60 Quale soggetto in Hume? Invece di coincidere con la persona, con l’io o col sé, il soggetto rappresenta piuttosto la spersonalizzazione dell’individuo, ciò in cui quest’ultimo si nega in vista di una fondazione di ordine superiore del proprio sé. Contrariamente a una tendenza piuttosto diffusa tra gli studiosi, la soggettività così intesa si colloca al di sopra della disputa sull’identità personale, di cui l’intelletto e le passioni si contendono il primato40. Mentre il problema dell’identità personale da un lato si può ricondurre all’esigenza di rintracciare un centro o un principio unitario del flusso di percezioni (dove il soggetto si dà al limite come sostanza), dall’altro all’insieme delle passioni e dei sentimenti propri di ciascun singolo (dove in certa misura viene recuperata la distinzione tra soggetto d’inerenza e qualità), il soggetto qui delineato si colloca a un livello più originario all’interno del quale queste declinazioni rientrano come momenti particolari – per quanto senza dubbio rilevanti. “Soggetto” dice sempre più di “io” o “sé”. Ma neanche si può identificare con la mente stricto sensu, per quanto abbia un ruolo cruciale specialmente nel I libro, perché ciò lascerebbe fuori il corpo e la dimensione intersoggettiva e sociale in generale, ricacciando l’uomo nel solipsismo dal quale Hume si sforza di tenerlo a riparo. Il soggetto humeano è di una generalità tale da includere sempre anche, in sé, il rapporto con altri soggetti: il soggetto è sia mente, sia corpo, sia individuo in mezzo ad altri individui e così via. Esso, si è detto, è l’insieme dei principi essenziali che definiscono la natura umana, di cui l’io, il sé, la mente sono componenti specifiche: “mente” dice sempre meno di “natura umana”. Non è perciò nell’identità personale che va cercato il soggetto41. Per la medesima ragione, esso resta al riparo dalle criticità rilevate da Hume nell’Appendice circa la mancanza di un fondamento unificante delle percezioni della mente, sia esso la sostanza o un principio di connessione reale e non solo avvertita tra percezioni che ognuno di noi sa di avere: nel primo caso, come si è visto, si avrebbe un soggetto di inerenza che resterebbe invariabilmente identico al di là del fluire delle percezioni; nel secondo, si riuscirebbe a rendere ragione dei principi in virtù di cui esse sono connesse in un certo modo e non altrimenti, laddove le relazioni di causalità e di rassomiglianza alla base del concatenamento tra percezioni sono, secondo i principi della filosofia humeana, inadeguati a questo scopo 40 41 Cfr. ad esempio Rorty (2006, 198); Strawson (2016). Una via d’uscita dalla disputa sull’identità sembra individuarla Penelhum (1992, 283) quando afferma che il legame tra l’io del I libro e quello del II e III (ossia la prospettiva teoretica dell’io penso e quella pratico-morale dell’io sociale) è rappresentato dalla scienza della natura umana, salvo poi intendere quest’ultima come l’insieme degli istinti pratici e vitali che salva dall’astrattezza e dalla immobilità dell’io penso, e non come fondazione della soggettività. 61 Paolo Castaldo in quanto frutto dell’immaginazione. Senza voler entrare in questo controverso problema42, qui sarà sufficiente richiamare l’attenzione sul fatto che esso è tutto interno alla mente, all’io, alla persona, e non riguarda le operazioni complessive della natura umana. Si badi, ciò non significa che non vi sia (o non possa esservi) un problema relativo alla tenuta epistemologica dei principi alla base della psicologia associazionista del Trattato43, ma solo che esso non dipende dalla questione dell’identità personale. Se mai è il contrario: la debolezza o la forza della risposta al problema dell’identità personale è subordinata alla debolezza o alla forza di tali principi. Altrimenti si deve ammettere che la scienza della natura umana dipenda interamente dalla questione circa l’identità personale. Questo passaggio ci porta all’ultimo punto sul quale vorrei soffermarmi, vale a dire la natura del soggetto qui delineato. Com’è noto, nella conclusione del I libro del Trattato Hume formula un giudizio colmo di scetticismo sulla tenuta generale della sua scienza dell’uomo44. Tali perplessità si possono ricondurre al fatto che i principi elementari di connessione alla base delle nostre credenze, sui quali dovrebbe reggersi l’intera scienza dell’uomo (perlomeno nel libro I), poggiano in ultimo sull’attività associativa dell’immaginazione, vale a dire su operazioni mentali e non su qualcosa che risieda nell’oggetto stesso. Scrive Hume: Ciò che la mente umana è più desiderosa di conoscere sono le cause di ogni fenomeno; e non ci accontentiamo di conoscere le cause immediate, ma spingiamo oltre la nostra indagine, fino ad arrivare al principio primo e originario. E saremmo soddisfatti soltanto quando avremo conosciuto l’energia della causa con cui questa agisce sul suo effetto; il legame che le collega insieme; e l’efficace qualità da cui il legame stesso dipende. Questo è lo scopo che anima tutti i nostri studi e le nostre riflessioni: come potremmo, allora, indisporci quando apprendiamo che questa connessione, legame, o energia, alberga semplicemente in noi stessi, e che è soltanto la determinazione mentale acquisita dall’abitudine che ci induce a passare da un oggetto al suo compagno abituale, e dall’impressione di uno all’idea vivace dell’altro? Una simile scoperta non soltanto stronca qualunque speranza di una soddisfazione, ma ci impedisce persino di desiderarla: sembra infatti che, dicendo che desideriamo conoscere il principio primo e agente, inteso come qualcosa che risiede negli oggetti esterni, noi ci contraddiciamo, oppure diciamo cose senza senso45. 42 43 44 45 La letteratura sull’argomento è assai vasta. Si vedano almeno Ainslie (2008); Ellis (2006). Su questa enorme questione, si vedano almeno Ainslie (2008); Penelhum (2012); Fogelin (2009); Stroud (2016). Hume (2001, 263 ss). Hume (2001, 266-267). 62 Quale soggetto in Hume? La questione dello scetticismo humeano è stata a lungo dibattuta. Qui non interessa certamente stabilire se Hume sia o meno uno scettico, ed eventualmente di che genere; interessa piuttosto capire in che modo tale perplessità si rifletta sulla nozione di soggetto. Ora, è evidente che nella misura in cui la scienza della natura umana poggia da ultimo su principi essenzialmente contingenti e non assoluti, in quanto ha come unica fonte epistemica l’abitudine e l’osservazione empirica, neanche l’immagine del soggetto che ne scaturisce può essere assoluta. Ciò distingue in ultima istanza il soggetto humeano da quello kantiano e, soprattutto, dell’idealismo. Cionondimeno, occorre pure riconoscere che in sé il sistema filosofico di Hume è coerente, nel senso che i principi su cui si regge, ancorché dati solo empiricamente, una volta ammessi spiegano in maniera rigorosa e sistematica l’origine delle nostre credenze. “Il mondo intellettuale, per quanto avvolto da un’oscurità infinita, non è afflitto da contraddizioni simili a quelle che abbiamo scoperto nel mondo naturale. Ciò che ne conosciamo, è coerente con se stesso; e ciò che è ignoto, dobbiamo accontentarci di lasciarlo tale”46, scrive Hume all’inizio della sezione sulla immaterialità dell’anima. Il fatto di non poggiare su un fondamento assoluto non rende meno coerente e robusto il suo sistema. Se permettiamo che una tiepida immaginazione sia accolta in filosofia, e che le ipotesi siano accolte semplicemente perché accattivanti e gradevoli, non potremo mai avere princìpi saldi, né sentimenti che adeguati alla pratica e all’esperienza comune. Ma se queste ipotesi venissero poi rimosse, allora potremmo sperare di stabilire un sistema o una serie di opinioni le quali, se non vere (poiché, forse, è una speranza eccessiva), potrebbero almeno soddisfare la mente umana, e superare la prova dell’esame più critico. [...] Quanto a me, la mia unica speranza è di poter contribuire in minima parte al progresso della conoscenza, imprimendo, a riguardo di alcuni particolari, una nuova svolta alle speculazioni dei filosofi, e indicando loro più distintamente gli unici argomenti in cui è lecito aspettarsi sicurezza e convinzione. La Natura Umana è la sola scienza dell’uomo; e tuttavia è ancora la più trascurata47. 46 47 Ivi, 232. Ivi, 272-273. In generale, nel Trattato Hume è convinto della saldezza dei principi della sua scienza dell’uomo. Sono moltissimi i passi che si potrebbero citare. Si veda a titolo esemplificativo il seguente: “Devo distinguere, nell’immaginazione, tra i principi permanenti, irresistibili, e universali, come il passaggio abituale dalle cause agli effetti e dagli effetti alle cause, e tra i principi mutevoli, fiacchi, e irregolari, come quelli che ho appena esaminato. I primi costituiscono il fondamento di tutti i nostri pensieri e di tutte le nostre azioni, al punto che, rimuovendoli, la stessa natura umana sarebbe condannata a cadere in rovina e perire. I secondi, invece, non sono né inevitabili, né necessari al genere umano, e nemmeno utili nella vita quotidiana: è evidente che si manifestano soltanto in menti deboli, e inoltre, opponendosi agli altri principi dell’abitudine e del ragionamento, possono essere facilmente sovvertiti da un adeguato contrasto o opposizione” (ivi, 225). 63 Paolo Castaldo La scienza della natura umana è ancora in grado di dire qualcosa di esatto intorno all’uomo nonostante si scopra fallibile al rischio di sapersi incompiuto48. Perciò non costituisce in alcun modo un limite o una negazione della nostra definizione di soggetto il fatto che della natura umana non si dia una scienza definitiva. Per questo, anche, si può dire che quello humeano sia un (s)oggetto sempre incompiuto, mai perfectus; ma ciò non toglie minimamente che possa essere considerato, in questa misura, soggetto. Bibliografia Ainslie D. C. 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