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AAAutoscatti

2024, AAAutoscatti

"AAAutoscatti. 9 principi con aneddoti multipli e suggerimenti utili per chi si crede creativo (ma sono poi gli altri a decretarlo)" di Giulio Ceppi _____ Un libro anomalo, certamente autobiografico, soprattutto pensato per suggerire ad altri il senso del fare innovazione, del trasformare la realtà, anche con ironia quando serve. Costruirsi i propri strumenti, lavorare continuamente ed appassionatamente sulla propria cassetta degli attrezzi, come diceva Michael Foucalt, sembra essere la base di qualsiasi ragionamento a venire. Un manuale imperfetto, come lo è la vita d'altronde. Con un invito alla lettura di Piero Bassetti e un saggio di Francesca Alfano Miglietti.

AUTOPREMESSA Questo libro nasce per celebrare l’auto. Non l’auto come me la spiegò Marco Zanuso, noto architetto e designer milanese, durante le sue lezioni al Politecnico di Milano: ovvero quel luogo in cui finalmente si poteva pensare e fare liberi calcoli, stando isolati e concentrati, nel silenzio ininterrotto di un viaggio, senza telefoni, segretarie o collaboratori insistenti e noiosi. Marco calcolò (e non a caso progettava per IBM) che se si fossero prese tutte le auto circolanti sulla terra (siamo nel 1986 circa) e se ne fosse sviluppata geometricamente la superficie in maniera estesa, ovvero spalmando la lamiera come un cartamodello e aprendo la macchina in una proiezione piana con le portiere messe equatorialmente (come un pollo dentro una griglia, totalmente spianato su un unico asse orizzontale) la superficie totale occupata dalle auto circolanti sul pianeta sarebbe già allora stata equivalente a quella dell’intera superficie terrestre. Boom!!! E non credo nemmeno che Marco Zanuso avesse il cambio automatico... E per fortuna questi pensieri ti vengono appunto solo quando sei in auto (oggetto poi fermo per oltre l'85% della sua vita d’uso, mediamente): ma come dicevo non parliamo di questa tipologia di auto, detta automobile. È anche vero che, in totale trasparenza e per fugare ogni dubbio, ad oggi ho avuto, da quando mi sono patentato, esattamente 10 auto. Sono i tempi metronometrici dati dal fiscalismo necessario del leasing: un’auto ogni 3 anni. Nell’ordine di acquisto e apparizione: Fiat Ritmo 75 S verde brillante, Renault 18 4x4 grigio metallizzato, BMW 316 verde inglese (detta "voglio ma non posso"), Volvo T4 grigio scura e a seguire Volvo XC60 verde bottiglia, quindi Audi A4 grigia chiara, e una tripletta maniacale composta da BMW X3 rame, BMW X1 champagne e BMW X4 rosso porpora infine. Nel mezzo ho anche avuto un Porsche Targa bianco. Sembra non mi sia fatto mancare nulla, soprattutto cromaticamente parlando. Ma ancora una volta: non è questo il motivo della titolazione di questo libro, anche se ogni auto racconta una storia e un certo periodo di vita. Ma la mia vita comincia prima della mia prima auto, almeno 18 anni prima. 6 AAAUTOSCATTI 7 Parliamo invece di “auto” come prefisso che indica, dal greco αυτοκίνητα, ovvero “sé stesso”, ma anche sinonimo di “spontaneo“ o “da sé“. Come appunto il termine “autoscatto”, oramai obsoleto e sostituito dell’inglesismo di selfie, ma una volta pratica fotografica assai diffusa tra i professionisti ed equivalente all’autoritratto dei pittori. Un modo per raccontarsi, da sé. Quindi parleremo di come rappresentarsi e conseguentemente di come cavarsela nella vita, per essere sintetici: autonomia come capacità di governarsi e dare volontariamente a sé stessi leggi e principi ai quali rispondere, fino forse a sottomettersene. Per lo meno fino al limite in cui si crede che lo si stia davvero facendo. In un dizionario italiano le parole che hanno come prefisso auto sono circa 200, da autoaccensione a autovettura, passando per altre forse meno note come autobruco, autocoro, autoctisi, automedonte… di cui lascio a voi trovare il significato. A me ne bastano 9, intese come autoespressioni per descrivere principi utili alla gestione della creatività (visto che il mio lavoro di architetto, designer, docente… si basa su questo presupposto) e al superamento dei casi aspri posti dalla vita, in generale. Ecco poi l’AAA Offresi: vi è anche questo rimando, dove ognuno di noi deve mettere sul mercato il meglio di quanto sa offrire e produrre, per sè quanto per gli altri. Troverete quindi per ognuno dei 9 principi almeno 2 sottocapitoli con brevi titoli che in maniera libera e non prevedibile mischiano e narrano episodi personali, quanto esperienze professionali: non ho mai fatto differenza tra le due cose, in quanto non credo nella distinzione tra vita privata e vita pubblica, tra lavoro e vacanza, tra piacere e dovere. Ma anche nel libro non è una regola certa. (come l’ottocentesca differenza tra lavoro e svago) che rendono la vita a volte misera e prevedibile. Non vuol dire anarchia o arroganza, ma auto-percezione appunto oppure, come dice Paulo Coelho, che la vita è sia pubblica che privata, ma quella che più conta è la terza, quella segreta. Alla fine di ognuno dei 9 principi vi è poi un tentativo di definizione e spiegazione dello stesso. Un’ultima nota: questo libro nasce in qualche modo come complementare e integrativo al mio precedente Biogenie. 99 people into design tales (List, Trento, 2013): quindi non inganni il fatto che la parola “auto” venga tanto abusata, rischiando forse di apparire conseguentemente troppo autocelebrativo e autoriferito. Di fatto sono sempre le persone che guidano questo racconto, che sia io in prima persona o terzi, come accade in Biogenie, dove gli altri sono appunto i protagonisti assoluti. Nessuna autocelebrazione quindi, ma presa di coscienza di esperienza sul campo, cercando di trasmettere al lettore consigli e suggerimenti utili per la professione del “creativo”. Credo sia tutto per ora e che si possa finalmente cominciare il viaggio, allacciando le cinture, ovviamente. Ringrazio tutti coloro che sono citati in queste pagine Piero Bassetti per la sua introduzione spericolata e Francesca Alfano Miglietti per la bellissima postfazione (le parti migliori, che consiglio di leggere per prime). Mi ha molto confortato leggere durante questa stesura Regole di vita (1847-1854) di Lev Tolstoj e constatare il casino che anche lui, sommo scrittore, ha fatto in 7 anni, scrivendo e riscrivendo le sue regole più volte e contraddicendosi non poco tra teoria e pratica. Sono infatti, pubblico e privato, facce della stessa medaglia, parte di un’unica vita, che va vissuta e affrontata senza tirare ingenue e rassicuranti righe rosse, senza credere che vi siano confini precisi e netti, perché sono proprio le pseudo-sicurezze piccolo borghesi 8 AAAUTOSCATTI 9 1. AUTOCONTROLLO (Capacità di) Saper mangiare gli spaghetti sott’acqua Il piccolo Giulio ebbe la fortuna di conoscere quello che sta sotto il mare molto prima di tanti altri bambini. Ciò è potuto accadere grazie a degli incredibili maestri. Il primo si chiamava Mimmo: curiosamente era stato un Ragno di Lecco, ovvero un arrampicatore di tutto rispetto che aveva scalato (e documentato, in quanto fotografo) alcune delle principali vette del pianeta, dal Cerro Torres al K2, ma anche in seguito, tentato avventure improbabili, come il Viaggio di Marco Polo a cavallo da Venezia a Pechino. Questo accadeva nel 1972, con Carlo Mauri, noto esploratore e mio padre, noto avvocato, che si aggregava improvvidamente a loro, in modo di non potersi poi sedere su una seggiola per i mesi successivi al ritorno, date le condizioni del fondoschiena. Un maestro eccezionale, che decise poi dai vertici ed aerei precipizi delle montagne più alte del mondo, di scendere invece negli abissi marini, per accedere a preziosi coralli. Mio padre ed io sempre al seguito, nel meraviglioso scenario della penisola del Sinis, nella costa occidentale della Sardegna. Quindi Mimmo mi portò, credo verso i 9 o 10 anni a scoprire gli abissi marini: avevo il mio bombolino arancione Mares da 3 litri, il mio erogatore Scubapro, una meravigliosa tuta Technisub a mezzemaniche, un enorme e voluminoso profondimetro da polso, oltre ovviamente a maschera e pinne. Non serviva altro allora. Cominciai ad esplorare il fondo del mediterraneo, partendo da qualche metro di profondità, fino a trovarmi poi, qualche anno dopo, con un piccolo gommone attrezzato con un compressore ad aria che mi permetteva di sparare aria nel fondo marino e spolverare dalla sabbia reperti di epoca romana: piatti, anfore, monete, ancore... che caricavo sul mio piccolo batiscafo, convinto che tutto il mare fosse come quel meraviglioso golfo di Sa Marigosa dove vi era stata una fonderia di epoca romana e quindi ancora pieno di incredibili reperti marini, di facile presa ad un occhio oramai allenato e dedito. 10 AAAUTOSCATTI 11 spazi di vendita nelle periferie urbane: questo temporary store diventava il primo esempio di consumer electronics proximity store, destinato a restare poi attivo per anni e a fare scuola. L’Autogrill di Villoresi Est (vedi capitolo 6) è stato il primo edificio della sua categoria ad ottenere una certificazione ambientale Leed e il marchio di qualità Design for All: inoltre per la prima volta si è realizzata una pila termica, ovvero un sistema impiantistico che combina l’energia captata dal tetto grazie ad una copertura radiante (che lavora in tempo reale) con un sistema di geotermia aperta (a ciclo stagionale), ottenendo un risparmio energetico di oltre il 60%. Quando ho rifatto l’immagine coordinata del Cenacolo Vinciano a Milano nel 2018, per la prima volta è stata approvata dal Ministero dei Beni Culturali una denominazione in inglese: The Last Supper Museum, come è noto in effetti in tutto il mondo il capolavoro di Leonardo. In occasione di Sociocromie. 100 anni in 25 colori, la mostra tenutasi al Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano nel 2021, per la prima volta abbiamo portato un avatar in un museo che consentisse la visita da remoto a persone con disabilità… Mi fermo qui: credo la mia patologia sia a tutti evidente. Ripensando quindi alla frase di Hoffmann, a me senza dubbio piace pensare di essere, come uomo, nella seconda categoria, ovvero quella di coloro che allargano gli orizzonti; questo comporta ed implica, quasi inevitabilmente, una seconda variabile, ben più importante della misura economica della celebrità mediatica: il carisma, premessa necessaria per essere creduto a monte sugli obiettivi del proprio agire. Che co’s’è il carisma? Il χάρισμα (da χάρις, “grazia“) è, secondo la dottrina cattolica, un dono soprannaturale straordinario concesso a una persona a vantaggio della comunità: guarire i corpi e le anime, pre-vedere il futuro, operare miracoli, non sbagliarne una insomma… La ragione teologico-pastorale impone che l’esercizio del carisma “in quanto dono alla Chiesa, sia non una realtà isolata o marginale, ma appartenente intimamente ad essa, stia al cuore 16 AAAUTOSCATTI 17 Per questo sono partito con esempi legati squisitamente alla mia vita personale, infatti in quella professionale l’autocontrollo è un processo senza fine, dato che cambiano i progetti, i clienti, gli strumenti, i collaboratori… tutto deve stare sotto controllo, incluso te stesso. Credo in oltre 30 anni di professione di aver aumentato il mio autocontrollo, ma ancora non abbastanza: sono consapevole che me ne servano altri 30 almeno… 2. AUTOMATISMO (Confidenza nell’) Pedalare in Mongolia all’inseguimento degli Tsagaan Nell’anno 2016, oramai passata la cinquantina, con un gruppo di amici abbiamo deciso di compiere una spedizione ciclistica in Mongolia, in particolare nella regione del lago di Ogsval, al confine tra Russia, Kazakhistan e Cina. Ho affrontato la sfida fisica volendone fare anche un’azione documentaria e quindi ho chiesto a MOLESKINE di dotarmi di un certo numero dei loro celeberrimi taccuini, a DOMUS di fornirmi un discreto numero di riviste e a MATERIAL CONNEXION, banca data di materiali, di consentirmi di trasmettere loro informazioni sulla cultura materiale mongola. Senza rendermene conto mi ero dato 3 compiti ulteriori, oltre a quello di pedalare per oltre 800 km all’inseguimento degli Tsagaan, i cosidetti “uomini renna”, ultimi rimasti tra le tribù nomadi asiatiche. Anche avevo caricato il mio zaino di parecchia carta, come mio solito e senza calcolare che, essendo loro nomadi e noi armati di sole biciclette, l’inseguimento sarebbe stato avventuroso e pieno di imprevisti. Quindi la mia prassi durante il viaggio è stata di chiedere ai bambini che incontravo nei villaggi e nei bivacchi di farmi un disegno su un quaderno Moleskine e quindi di regalare loro un’agendina colorata come premio, scattando poi qualche foto con la rivista Domus e mappando i diversi materiali presenti in sito. Una sorta di documentazione in progress, con il solo inconveniente che avendo il primo bambino disegnato una casetta, delle montagne e le nostre biciclette, tutti i bambini a seguire hanno, automaticamente, disegnato una casetta, delle montagne e le nostre biciclette. Rimasi un poco deluso da questo automatismo, anche se dopo qualche centinaio di chilometri percorsi tra taiga e tundra, capii anche io, automaticamente, che in Mongolia non vi era molto altro oltre a casette, montagne e le nostre biciclette. Ma non è questo il tipo di automatismo cui mi riferisco, bensì quello dato da una sorta di processo, quasi inconsapevole, di 20 AAAUTOSCATTI 21 quei professionisti che fanno benissimo una sola cosa e che soprattutto la ripetono instancabilmente e monotonamente da tanto tempo. Potrei citare come esempio il mio amico fotografo Maurizio Galimberti che produce le stesse bellissime Polaroid da 30 anni (iniziammo insieme quando ne avevamo poco più di 20) o l’architetto Mario Botta, che ridisegna, assai prevedibilmente, gli stessi monumentali edifici da oltre quaranta anni. Ma sono solo due, tra i tanti che invidio… Ritagliare giornali con Elio nella Terra dei cachi Durante una di quelle improbabili serate festaiole in cui si incappa a Milano in occasione della famigerata Design Week, fui gentilmente invitato a casa di Stefano Giovannoni, abile quanto facoltoso progettista. Mentre passeggiavo nel giardino pensile della sua modesta dimora, intravidi un personaggio che mi apparve subito come noto, seppur isolato, seduto ramingo su degli scalini semibui, additato dalle persone che passavano e che poi come incredule, sussurravano tra loro: “Ma quello è Elio, l’Elio delle Storie Tese…” e così se ne andavano, come avessero visto la seggiolina in più, l’ennesimo soprammobile da archistar. Mosso da compassione, ma soprattutto eccitato dall’aver occasione di parlare con uno dei miei musicisti preferiti, mi avvicinai e cominciai a conversare con Elio del valore della parola, di come tutte le azioni progettuali per me partissero non da disegni, ma da parole, sapendo quando lui amasse giocare con le stesse, combinarle, equivocarle, distorcerle, con il fine poi di celebrarle e renderle ironicamente musica, intrattenimento, spettacolo. Non troppo diverso da quanto si fa in qualità di progettisti: non che lui non lo fosse, anzi. Ci fu intesa, insomma. E come tante volte, con assoluti outsider, decisi di chiedergli se avrebbe avuto piacere di insegnare con me al Politecnico di Milano, di supportarmi nel mio laboratorio di progetto alla Scuola del Design. Così scoprii che il buon Elio, oltre ad un diploma in flauto traverso al Conservatorio di Milano, aveva anche una laurea, seppur conseguita con tempi generosi, in Ingegneria Elettronica 24 AAAUTOSCATTI 25 invisibile: se non ti danno fiducia è difficile che tu possa essere autonomo, ma se non sei responsabile nella gestione della tua autonomia, la fiducia verrà meno. La fiducia quindi è condizione necessaria, ma non sufficiente, per dirla in termini matematici. Secondo il dizionario Garzanti della Lingua Italiana, l’autonomia è “la capacità di governarsi, di dare a sé stessi le leggi cui ci si sottomette. Per estensione: indipendenza, libertà d’agire”. Vi è una seconda dicotomia, quasi paradossale, per cui ci si dà delle leggi, che poi ti permettono di essere libero: una seconda relazione dinamica che non ti lega solo agli altri, ma a te stesso, che ti misura in termini di coerenza e responsabilità interna. Essere autonomo è un grande vantaggio, perché permette di agire e al contempo di misurarsi con sè stessi. Può essere invece un problema per gli altri: può infastidire, dare la sensazione che tu non ascolti, che non ti interessi il pensiero altrui. Quindi spesso viene confuso o scambiato per egoismo, per menefreghismo. Confesso che, soprattutto con le donne, questo per me è stato un grande problema: ho imparato, con il tempo e con la fatica, a gestirlo, a non essere troppo indipendente ed autonomo, perché può indurre appunto la sensazione di non essere considerati, di non sentirsi necessari o sufficientemente presenti. Tuttavia l’autonomia è la premessa necessaria per decisioni rapide, e devo dire, spesso per essere leader: dimostrare sicurezza nelle tue scelte, convinzione in quello che vuoi fare, spesso aiuta anche gli altri a decidere e a prendere una posizione a loro volta. Non si tratta di essere dei dittatori o voler imporre la propria scelta, ma di essere veloci, di farlo per primi, influenzando comunque gli altri. Non è una questione di intelligenza o superiorità intellettuale, si intenda, ma di indole. Questa attitudine mi è servita molto nella mia professione, per non inseguire, per non copiare, per non stare nel mainstream, ma per cercare quanto credo vada inseguito (comunque sia si insegue sempre qualcosa…). Per cercare quello che mi auguro un giorno di trovare finalmente, un poco come quando veleggiavo per Is Arenas, sempre fiducioso di procacciarmi un buon carico di mirabilia. 54 AAAUTOSCATTI 5. AUTOLESIONISMO (Rischio di) Sopravvivere ad almeno un naufragio Il piccolo Giulio non aveva voglia quell’anno di andare in vacanza. Non gliene fregava proprio nulla: perché si doveva andare in vacanza? Era un obbligo forse, tanto quanto lo era andare a scuola? A lui andare a scuola era sempre piaciuto un sacco e allora tanto valeva che avesse il diritto di non andare in vacanza. Era un bambino fatto così, come quelli di tanti racconti di Gianni Rodari, cui era capitato di vivere in un mondo alla rovescia. Per lui era normale: erano gli altri a non rendersene conto. Allora suo padre Gege quell’anno decise di comprare una barca e di usarla per attraversare il Mediterraneo, per andare da Roma in Sardegna: una cosa normale, che fanno tutti i bambini in estate. Il padre forse aveva navigato in mare, ma mai su una barca di legno di tale dimensione. Decisero allora di partire da Ostia (il mare si era ritirato da Roma nel mentre) e di arrivare in qualche punto dell’isola che vi si trovava di fronte, andando sempre diritti di fatto: detta così, era una roba facile, no? Una gita in barca da 7 o 8 ore, se tutto fosse filato liscio. Doveva capire che avendo sentito nominare “Ostia!...” tante volte invano ed in precedenza, quel sito non avrebbe portato nulla di buono. La partenza fu all’alba e quando si svegliò erano già in alto mare e nulla si vedeva all’orizzonte, nè davanti, nè dietro, anzi nè a prua nè tantomeno a poppa, come aveva abilmente imparato a dire. Non voleva dire essere a metà strada, comunque. Ma ad un certo punto, quando il mare era piatto ed il cielo era terso, il motore si fermò: il prodigo Gege scese in sentina per riparare il guasto, ma la sentenza fu inattesa: “Usiamo il radiotelefono e aspettiamo che qualcuno ci venga a prendere”. Non era semplice come un’interurbana: era un S.O.S in pieno stile, lanciato alle Capitanerie di porto e a tutti i mezzi in circolazione nel raggio di almeno 30 miglia. 55 vostro percorso di senso; non è detto che ci si salvi sempre, per l’amor di Dio, ma credo spesso aiuti: in matematica si direbbe che è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Io vi consiglio di allenarvi comunque e capire come dagli errori altrui ci si può salvare, restando sereni e vedendo tutto come foste appunto parte di quei cartoni animati alla Popeye (per stare a tema) dove entra in fabbrica il tronco di una pianta e con mille stratagemmi, scintille, rimbalzi e martellate, ne escono scatolette di fiammiferi, con le quali ancora potete fare luce sulla vostra strada. Oppure può essere una certa ostinazione, il non voler cedere e rinunciare, andando oltre i limiti di quanto richiesto, come nel caso delle (S)viste di Lecco: importante rendersene conto, anche se non vuol dire rinunciare, ovviamente. Dove starebbe altrimenti l’autolesionismo? Quindi, perseveriamo, come diceva il buon Agostino. 70 AAAUTOSCATTI 6. AUTODETERMINAZIONE (Diritto di) Poter decidere di chi sei figlio Indubbiamente ho avuto un’infanzia singolare, ben prima che il concetto di singolarità diventasse tanto importante, partendo dalla Silicon Valley. La mia singolarità consiste nel fatto che i miei genitori si divisero quando io avevo circa 6 anni. Oggi la cosa non fa certo notizia: nel 2022 la percentuale di divorzi è del 48% in Italia. Ma qui parliamo del 1976, quando il divorzio rappresentava 0,6% dei casi e ancora non esisteva, legalmente parlando. Inoltre, ulteriore aggravante, questo accadde non in una megalopoli, ma in una cittadina provinciale come Lecco, dove la voce corre e le persone sono note. Specifico questo fattore perché se ho avuto delle difficoltà a volte non è stato per causa dei miei genitori, che sempre fecero di tutto per aiutarmi a farmi sentire a mio agio in una situazione nuova e difficile per tutti, certamente anche per loro. Spesso invece l’imbarazzo o il fastidio l’ho avuto da altri, soprattutto da coloro i quali non sapevano come comportarsi con me, cosa chiedermi rispetto alle condizioni dei miei genitori, trattandomi come se fossi un soggetto da compatire, piuttosto che quasi da temere. Devo dire che con gli anni, acquistai una sorta di sensibilità particolare, generata dalla scelta dei miei compagni di scuola, di chi frequentare o meno. In verità il soggetto problematico non erano i compagni, nonostante frequentassimo tutti un collegio cattolico, perché tra bambini non vi era nessun imbarazzo o differenza, ma le loro famiglie: avevo la sensazione che nelle famiglie in cui regnava un’armonia, un rispetto di coppia, io fossi sempre ben voluto; mentre percepivo un fastidio e un imbarazzo, certamente reciproco, in quelle famiglie dove forse vi erano ipocrisie o situazioni non felici, atteggiamenti di falsità e opportunismo, per cui io risultavo un soggetto scomodo. Sceglievo quindi sempre di invitare a casa a giocare i miei compagni ed amici che avevano situazioni che percepivo di questo secondo tipo, evitando di andare a casa loro, mentre amavo molto andare a giocare dai miei compagni nelle loro case, quando la situazione era del primo tipo. 71 anche sostiene Michael Wehemeyer, uno dei massimi studiosi sul tema, ci stanno tuttavia non l’egoismo o il narcisismo, come sarebbe facile credere forse, ma la responsabilità, verso sé e verso gli altri. Io l’ho imparata fin da bambino. Come progettisti a volte si fanno scelte pensando al meglio per gli altri, al meglio per la società, anche se sembra che uno difenda una posizione personale: almeno così dovrebbe essere, se vogliamo parlare di progettazione responsabile, di etica di progetto, di garantire a tutti un futuro migliore. Per questo ritengo che si debba cercare di essere liberi anche dai brief altrui, costruendo le proprie visioni da zero, e restandone conseguentemente proprietari assoluti: Villoresi Est non era formalmente così, ma la sua lunga marcia ha fatto che questo accadesse, inevitabilmente. Paradossi dell’autodeterminazione. 7. AUTOCTONIA (Rispetto dell’) Navigare nella foresta pluviale del Guatemala Tra i viaggi più incredibili della mia vita ci sono i 10 giorni spesi sui fiumi Uxumacinta e Rio de la Pasion, al confine tra il Guatemala ed il Messico, in pieno Peten. Tra i 20 e i 30 anni di età, ho viaggiato molto in Messico e Guatemala, spinto dagli interessi di mio padre, che aveva acquistato una finca nella regione lacustre di Izabal, vicino a Livingstone, sul delta del Rio Dulze. Devo dire che ho amato molto quella stagione di viaggi, perché almeno 2 volte all’anno mi recavo in America Latina per qualche settimana, visitando in ogni occasione, per compensazione, qualche luogo nuovo (Messico, Belize, Honduras), arrivando a spingermi fino alle Galapagos, oltre 1000 km dalla costa dell’Equador. Passavo molto tempo da solo durante questi viaggi, scattando appassionatamente fotografie, scrivendo e illustrando diari in modalità un poco ottocentesca, ma anche conoscendo molte persone e costruendomi solide amicizie. Sfruttando una vecchia ed obsoleta legge fascista che favoriva i figli unici residenti all’estero e consentiva loro l’esonero dal servizio di leva militare, mi feci assumere al Museo Popol Vuh di Città del Guatemala, dove imparai a conoscere la cultura precolombiana e a capirne la fertile cosmologia. Nei pomeriggi collaboravo con lo studio dell’architetto Tono Prado, cogliendo una cultura del progetto diversa dalla nostra e visitando le sponde del lago Izabal, dove Tono costruiva ville magnifiche. Andavo spesso all’Università del Guatemala a tenere conferenze e lezioni e mi feci molti amici tra professori, studenti e architetti locali. Il mio luogo preferito era certamente Antigua Guatemala, dove spesso mi recavo con gli amici per i weekend e dove anche trascorsi un periodo per imparare lo spagnolo: era l’antica capitale, in stile totalmente coloniale, con case di colori sgargianti, le vette dei vicini vulcani, una vegetazione lussureggiante, le strade in pietra lavica. Un luogo sospeso nel tempo, dove la sera non vi era quasi illuminazione stradale e il silenzio della notte calava profondo. 84 AAAUTOSCATTI 85 9. AUTOAPPRENDIMENTO (Formazione perenne come) Applicare la metafora esplorante dell’Awareness Design Nel 2011 mi fu chiesto, come già accaduto altre volte in precedenza e poi altre ancora a seguire, di sviluppare per la Scuola del Design del Politecnico di Milano, quanto viene definito Laboratorio di sintesi finale: tradotto in termini semplici, un corso progettuale che aiuti gli studenti della laurea magistrale a intraprendere il tema delle tesi e il suo svolgimento finale. Quello che mi sono sempre posto come obiettivo nella vita non è forse di dare sempre giuste risposte, ma di imparare a formulare le corrette domande. Diciamo che questa seconda attività è la condizione necessaria, ma non sufficiente, alla prima. Almeno credo. Quindi mi chiesi: cosa succede se alla consueta attenzione posta dal progettista (designer) sull’oggetto viene associata un’attenzione continuata sul soggetto stesso? E precisamente in direzione della fonte dell’esperienza ovvero sul “sé in azione”? E cosa succede se sono gli invece gli oggetti a parlarci e a comunicare con noi, come avviene nello scenario prossimo venturo dell’IoT (Internet of Things)? Dove finisce allora, ci domandiamo, la distinzione tra soggetto ed oggetto, tra realtà e narrazione? È possibile quindi pensare che mettere al centro del momento progettuale non l’attività stessa ma la presenza consapevole del sé in azione possa cambiare positivamente e significativamente la qualità del lavoro in una direzione esperienzialmente più ricca e significativa. Forse questo serve anche ad imparare a progettare degli oggetti che saranno sempre più dei “quasi-soggetti” e a riconoscere un mondo in cui tra soggetto ed oggetto le distinzioni si fanno sempre più fluide e sottili, dove le marche diventano dei contesti relazionali, dei frame interattivi dove produrre valore. Per formulare queste domande in modo corretto e trarne spunti progettuali, serviva, oramai l’avrete tutti già capito, mettere insieme una squadra eccezionale, un team fortemente interdisciplinare. 114 AAAUTOSCATTI 115 Testo di riferimento: Giorgio Agamben, Genius, Nottetempo, Milano, 2004 Brief: Quali sono i nostri materiali preferiti e quindi di che materiali siamo fatti, quali materiali siamo? Come esprimere la nostra personalità e le nostre attitudini attraverso la scelta di 3 materiali in modo tale che possano arrivare a coprire l’intera superficie a disposizione (ma non necessariamente) e rappresentare le corrispondenti qualità materiche e sensoriali (con una proporzione voluta e controllata) di alcuni aspetti del nostro carattere? Sul retro 3 aggettivi descrittivi vanno abbinati ai 3 materiali scelti. Quantità forme e geometrie sono libere, ma non va superato complessivamente il centimetro di spessore. 3. DIFFERENZIARE. SELF-DETACHMENT Progettare l’imperfezione come qualità unica Project leader: Giacomo Mojoli Partner: TerraMoretti, Consorzio tutela del Bitto Storico Brief: L’omologazione dei gusti, in ogni settore, ha generato una sorta di pigrizia progettuale, dove anche la percezione sensoriale si limita a utilizzare codici limitati che impediscono d’interpretare sfumature e mutevolezze presenti in ogni entità e in ogni artefatto. Fattori che distrattamente possono apparire come limiti, se osservati, vissuti e interpretati con paradigmi aperti, si trasformano altresì in un “valore aggiunto”. L’imperfezione può essere, in questo senso, un forte attributo distintivo analizzabile in molti oggetti, un elemento narrativo di un’esperienza ricca di peculiarità virtuose. Si richiede pertanto una ricerca di casi, modelli, oggetti e/o prodotti in cui siano percepibili attributi di varia natura (acustici, cromatici, tattili, olfattivi) riconducibili ad una qualità distintiva d’imperfezione, da descrivere ed identificare (500 battute) sul retro. In seguito a questo, l’esercitazione prevede l’ideazione ex novo di un oggetto o l’applicazione a modelli già esistenti di fattori imperfetti in funzione della crescita di valoriale del caso. 118 AAAUTOSCATTI 119 Le 5 parole del progettare di Giulio Ceppi Francesca Alfano Miglietti Il mondo è cambiato, ed è cambiato anche il design, la necessità di ri-pensare questo insieme di pratiche. La ricerca di Giulio Ceppi è anche linguistica, Ceppi va all’origine dei termini e utilizza i loro significati come pretesto per la discussione. La forma per Giulio è quella che in primo luogo fa apparire la materia. E se la forma è il come della materia, la materia il che cosa della forma, allora il design è uno di quei metodi per conferire forma alla materia e farla apparire così e non in altro modo. La materia nel design è dunque il modo in cui appaiono le forme. Cinque parole come cinque direzioni, cinque modi per perdersi ancora nel deserto della possibilità di altre forme di esistenza. 1. ORIZZONTE L’orizzonte non è a una distanza precisa: è fin dove si riesce a guardare. In linea d’aria è una lontananza misurabile in coraggio, rabbia e fantasia. Ed è una sorta di ricerca come “invenzione del margine“ quella di Giulio Ceppi. Ad esempio, caratteristica prima della ricerca di Giulio è quella di non essere mai “conclusiva“, nessuna sua ricerca, infatti, sembra essere mai veramente finita, in ciò riprendendo un privilegio che è sempre stato della tecnica pittorica: come interrotta da improvvise intuizioni che ne modificano l’andamento. Immagini, frammenti di realtà, punti di vista, gerarchie di figure, insomma vere e proprie tavole di visioni, vertiginosamente utili, come immagini sospese, che obbligano, chi guarda i progetti, a proseguirli nella propria mente, continuandoli in un’estensione arbitraria estorta alla propria fantasia. Progetti “un po’ nel tempo o nello spazio, alle volte in tutt’e e due”. Un singolare slittamento spaziale o temporale fa scivolare i progetti di Giulio al centro di un evento, ma lungo gli orli del significato, ai bordi delle conoscenze, al margine di un’invenzione. Per Giulio l’evento è la zona di massima rarefazione dell’essere: praticamente un passaggio del tempo. 132 AAAUTOSCATTI 133