AUTOPREMESSA
Questo libro nasce per celebrare l’auto. Non l’auto come me la
spiegò Marco Zanuso, noto architetto e designer milanese, durante
le sue lezioni al Politecnico di Milano: ovvero quel luogo in cui
finalmente si poteva pensare e fare liberi calcoli, stando isolati e
concentrati, nel silenzio ininterrotto di un viaggio, senza telefoni,
segretarie o collaboratori insistenti e noiosi. Marco calcolò (e non
a caso progettava per IBM) che se si fossero prese tutte le auto
circolanti sulla terra (siamo nel 1986 circa) e se ne fosse sviluppata
geometricamente la superficie in maniera estesa, ovvero spalmando
la lamiera come un cartamodello e aprendo la macchina in una
proiezione piana con le portiere messe equatorialmente (come
un pollo dentro una griglia, totalmente spianato su un unico asse
orizzontale) la superficie totale occupata dalle auto circolanti sul
pianeta sarebbe già allora stata equivalente a quella dell’intera
superficie terrestre. Boom!!! E non credo nemmeno che Marco
Zanuso avesse il cambio automatico... E per fortuna questi pensieri
ti vengono appunto solo quando sei in auto (oggetto poi fermo per
oltre l'85% della sua vita d’uso, mediamente): ma come dicevo non
parliamo di questa tipologia di auto, detta automobile.
È anche vero che, in totale trasparenza e per fugare ogni dubbio,
ad oggi ho avuto, da quando mi sono patentato, esattamente 10
auto. Sono i tempi metronometrici dati dal fiscalismo necessario del
leasing: un’auto ogni 3 anni. Nell’ordine di acquisto e apparizione:
Fiat Ritmo 75 S verde brillante, Renault 18 4x4 grigio metallizzato,
BMW 316 verde inglese (detta "voglio ma non posso"), Volvo T4
grigio scura e a seguire Volvo XC60 verde bottiglia, quindi Audi A4
grigia chiara, e una tripletta maniacale composta da BMW X3 rame,
BMW X1 champagne e BMW X4 rosso porpora infine. Nel mezzo
ho anche avuto un Porsche Targa bianco. Sembra non mi sia fatto
mancare nulla, soprattutto cromaticamente parlando. Ma ancora
una volta: non è questo il motivo della titolazione di questo libro,
anche se ogni auto racconta una storia e un certo periodo di vita.
Ma la mia vita comincia prima della mia prima auto, almeno 18
anni prima.
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Parliamo invece di “auto” come prefisso che indica, dal greco
αυτοκίνητα, ovvero “sé stesso”, ma anche sinonimo di “spontaneo“
o “da sé“. Come appunto il termine “autoscatto”, oramai obsoleto e
sostituito dell’inglesismo di selfie, ma una volta pratica fotografica
assai diffusa tra i professionisti ed equivalente all’autoritratto dei
pittori. Un modo per raccontarsi, da sé.
Quindi parleremo di come rappresentarsi e conseguentemente
di come cavarsela nella vita, per essere sintetici: autonomia come
capacità di governarsi e dare volontariamente a sé stessi leggi e
principi ai quali rispondere, fino forse a sottomettersene. Per lo
meno fino al limite in cui si crede che lo si stia davvero facendo.
In un dizionario italiano le parole che hanno come prefisso
auto sono circa 200, da autoaccensione a autovettura, passando
per altre forse meno note come autobruco, autocoro, autoctisi,
automedonte… di cui lascio a voi trovare il significato. A me ne
bastano 9, intese come autoespressioni per descrivere principi
utili alla gestione della creatività (visto che il mio lavoro di
architetto, designer, docente… si basa su questo presupposto) e al
superamento dei casi aspri posti dalla vita, in generale.
Ecco poi l’AAA Offresi: vi è anche questo rimando, dove ognuno
di noi deve mettere sul mercato il meglio di quanto sa offrire e
produrre, per sè quanto per gli altri. Troverete quindi per ognuno
dei 9 principi almeno 2 sottocapitoli con brevi titoli che in maniera
libera e non prevedibile mischiano e narrano episodi personali,
quanto esperienze professionali: non ho mai fatto differenza tra le
due cose, in quanto non credo nella distinzione tra vita privata e
vita pubblica, tra lavoro e vacanza, tra piacere e dovere. Ma anche
nel libro non è una regola certa.
(come l’ottocentesca differenza tra lavoro e svago) che rendono
la vita a volte misera e prevedibile. Non vuol dire anarchia o
arroganza, ma auto-percezione appunto oppure, come dice Paulo
Coelho, che la vita è sia pubblica che privata, ma quella che più
conta è la terza, quella segreta.
Alla fine di ognuno dei 9 principi vi è poi un tentativo di
definizione e spiegazione dello stesso.
Un’ultima nota: questo libro nasce in qualche modo come
complementare e integrativo al mio precedente Biogenie. 99 people
into design tales (List, Trento, 2013): quindi non inganni il fatto che
la parola “auto” venga tanto abusata, rischiando forse di apparire
conseguentemente troppo autocelebrativo e autoriferito. Di fatto
sono sempre le persone che guidano questo racconto, che sia io
in prima persona o terzi, come accade in Biogenie, dove gli altri
sono appunto i protagonisti assoluti. Nessuna autocelebrazione
quindi, ma presa di coscienza di esperienza sul campo, cercando di
trasmettere al lettore consigli e suggerimenti utili per la professione
del “creativo”.
Credo sia tutto per ora e che si possa finalmente cominciare
il viaggio, allacciando le cinture, ovviamente. Ringrazio tutti
coloro che sono citati in queste pagine Piero Bassetti per la
sua introduzione spericolata e Francesca Alfano Miglietti per la
bellissima postfazione (le parti migliori, che consiglio di leggere per
prime).
Mi ha molto confortato leggere durante questa stesura Regole di
vita (1847-1854) di Lev Tolstoj e constatare il casino che anche lui,
sommo scrittore, ha fatto in 7 anni, scrivendo e riscrivendo le sue
regole più volte e contraddicendosi non poco tra teoria e pratica.
Sono infatti, pubblico e privato, facce della stessa medaglia, parte
di un’unica vita, che va vissuta e affrontata senza tirare ingenue e
rassicuranti righe rosse, senza credere che vi siano confini precisi
e netti, perché sono proprio le pseudo-sicurezze piccolo borghesi
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1. AUTOCONTROLLO (Capacità di)
Saper mangiare gli spaghetti sott’acqua
Il piccolo Giulio ebbe la fortuna di conoscere quello che sta sotto
il mare molto prima di tanti altri bambini. Ciò è potuto accadere
grazie a degli incredibili maestri.
Il primo si chiamava Mimmo: curiosamente era stato un Ragno di
Lecco, ovvero un arrampicatore di tutto rispetto che aveva scalato
(e documentato, in quanto fotografo) alcune delle principali vette
del pianeta, dal Cerro Torres al K2, ma anche in seguito, tentato
avventure improbabili, come il Viaggio di Marco Polo a cavallo da
Venezia a Pechino. Questo accadeva nel 1972, con Carlo Mauri,
noto esploratore e mio padre, noto avvocato, che si aggregava
improvvidamente a loro, in modo di non potersi poi sedere su una
seggiola per i mesi successivi al ritorno, date le condizioni del
fondoschiena.
Un maestro eccezionale, che decise poi dai vertici ed aerei
precipizi delle montagne più alte del mondo, di scendere invece
negli abissi marini, per accedere a preziosi coralli. Mio padre ed
io sempre al seguito, nel meraviglioso scenario della penisola del
Sinis, nella costa occidentale della Sardegna.
Quindi Mimmo mi portò, credo verso i 9 o 10 anni a scoprire
gli abissi marini: avevo il mio bombolino arancione Mares da 3
litri, il mio erogatore Scubapro, una meravigliosa tuta Technisub a
mezzemaniche, un enorme e voluminoso profondimetro da polso,
oltre ovviamente a maschera e pinne. Non serviva altro allora.
Cominciai ad esplorare il fondo del mediterraneo, partendo da
qualche metro di profondità, fino a trovarmi poi, qualche anno
dopo, con un piccolo gommone attrezzato con un compressore
ad aria che mi permetteva di sparare aria nel fondo marino e
spolverare dalla sabbia reperti di epoca romana: piatti, anfore,
monete, ancore... che caricavo sul mio piccolo batiscafo, convinto
che tutto il mare fosse come quel meraviglioso golfo di Sa Marigosa
dove vi era stata una fonderia di epoca romana e quindi ancora
pieno di incredibili reperti marini, di facile presa ad un occhio
oramai allenato e dedito.
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spazi di vendita nelle periferie urbane: questo temporary store
diventava il primo esempio di consumer electronics proximity store,
destinato a restare poi attivo per anni e a fare scuola.
L’Autogrill di Villoresi Est (vedi capitolo 6) è stato il primo edificio
della sua categoria ad ottenere una certificazione ambientale Leed
e il marchio di qualità Design for All: inoltre per la prima volta si
è realizzata una pila termica, ovvero un sistema impiantistico che
combina l’energia captata dal tetto grazie ad una copertura radiante
(che lavora in tempo reale) con un sistema di geotermia aperta (a
ciclo stagionale), ottenendo un risparmio energetico di oltre il 60%.
Quando ho rifatto l’immagine coordinata del Cenacolo Vinciano a
Milano nel 2018, per la prima volta è stata approvata dal Ministero
dei Beni Culturali una denominazione in inglese: The Last Supper
Museum, come è noto in effetti in tutto il mondo il capolavoro di
Leonardo.
In occasione di Sociocromie. 100 anni in 25 colori, la mostra
tenutasi al Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da
Vinci di Milano nel 2021, per la prima volta abbiamo portato un
avatar in un museo che consentisse la visita da remoto a persone
con disabilità…
Mi fermo qui: credo la mia patologia sia a tutti evidente.
Ripensando quindi alla frase di Hoffmann, a me senza dubbio
piace pensare di essere, come uomo, nella seconda categoria,
ovvero quella di coloro che allargano gli orizzonti; questo comporta
ed implica, quasi inevitabilmente, una seconda variabile, ben più
importante della misura economica della celebrità mediatica: il
carisma, premessa necessaria per essere creduto a monte sugli
obiettivi del proprio agire.
Che co’s’è il carisma? Il χάρισμα (da χάρις, “grazia“) è, secondo la
dottrina cattolica, un dono soprannaturale straordinario concesso
a una persona a vantaggio della comunità: guarire i corpi e le
anime, pre-vedere il futuro, operare miracoli, non sbagliarne una
insomma… La ragione teologico-pastorale impone che l’esercizio
del carisma “in quanto dono alla Chiesa, sia non una realtà isolata
o marginale, ma appartenente intimamente ad essa, stia al cuore
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Per questo sono partito con esempi legati squisitamente alla mia
vita personale, infatti in quella professionale l’autocontrollo è un
processo senza fine, dato che cambiano i progetti, i clienti, gli
strumenti, i collaboratori… tutto deve stare sotto controllo, incluso
te stesso. Credo in oltre 30 anni di professione di aver aumentato il
mio autocontrollo, ma ancora non abbastanza: sono consapevole
che me ne servano altri 30 almeno…
2. AUTOMATISMO (Confidenza nell’)
Pedalare in Mongolia all’inseguimento degli Tsagaan
Nell’anno 2016, oramai passata la cinquantina, con un gruppo
di amici abbiamo deciso di compiere una spedizione ciclistica in
Mongolia, in particolare nella regione del lago di Ogsval, al confine
tra Russia, Kazakhistan e Cina.
Ho affrontato la sfida fisica volendone fare anche un’azione
documentaria e quindi ho chiesto a MOLESKINE di dotarmi di un
certo numero dei loro celeberrimi taccuini, a DOMUS di fornirmi
un discreto numero di riviste e a MATERIAL CONNEXION, banca
data di materiali, di consentirmi di trasmettere loro informazioni
sulla cultura materiale mongola. Senza rendermene conto mi ero
dato 3 compiti ulteriori, oltre a quello di pedalare per oltre 800 km
all’inseguimento degli Tsagaan, i cosidetti “uomini renna”, ultimi
rimasti tra le tribù nomadi asiatiche. Anche avevo caricato il mio
zaino di parecchia carta, come mio solito e senza calcolare che,
essendo loro nomadi e noi armati di sole biciclette, l’inseguimento
sarebbe stato avventuroso e pieno di imprevisti.
Quindi la mia prassi durante il viaggio è stata di chiedere ai
bambini che incontravo nei villaggi e nei bivacchi di farmi un
disegno su un quaderno Moleskine e quindi di regalare loro
un’agendina colorata come premio, scattando poi qualche foto con
la rivista Domus e mappando i diversi materiali presenti in sito.
Una sorta di documentazione in progress, con il solo inconveniente
che avendo il primo bambino disegnato una casetta, delle
montagne e le nostre biciclette, tutti i bambini a seguire hanno,
automaticamente, disegnato una casetta, delle montagne e le nostre
biciclette.
Rimasi un poco deluso da questo automatismo, anche se dopo
qualche centinaio di chilometri percorsi tra taiga e tundra, capii
anche io, automaticamente, che in Mongolia non vi era molto altro
oltre a casette, montagne e le nostre biciclette.
Ma non è questo il tipo di automatismo cui mi riferisco, bensì
quello dato da una sorta di processo, quasi inconsapevole, di
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quei professionisti che fanno benissimo una sola cosa e che soprattutto
la ripetono instancabilmente e monotonamente da tanto tempo.
Potrei citare come esempio il mio amico fotografo Maurizio
Galimberti che produce le stesse bellissime Polaroid da 30 anni
(iniziammo insieme quando ne avevamo poco più di 20) o
l’architetto Mario Botta, che ridisegna, assai prevedibilmente, gli
stessi monumentali edifici da oltre quaranta anni. Ma sono solo
due, tra i tanti che invidio…
Ritagliare giornali con Elio nella Terra dei cachi
Durante una di quelle improbabili serate festaiole in cui si
incappa a Milano in occasione della famigerata Design Week, fui
gentilmente invitato a casa di Stefano Giovannoni, abile quanto
facoltoso progettista.
Mentre passeggiavo nel giardino pensile della sua modesta
dimora, intravidi un personaggio che mi apparve subito come
noto, seppur isolato, seduto ramingo su degli scalini semibui,
additato dalle persone che passavano e che poi come incredule,
sussurravano tra loro: “Ma quello è Elio, l’Elio delle Storie Tese…”
e così se ne andavano, come avessero visto la seggiolina in più,
l’ennesimo soprammobile da archistar.
Mosso da compassione, ma soprattutto eccitato dall’aver
occasione di parlare con uno dei miei musicisti preferiti, mi
avvicinai e cominciai a conversare con Elio del valore della parola,
di come tutte le azioni progettuali per me partissero non da disegni,
ma da parole, sapendo quando lui amasse giocare con le stesse,
combinarle, equivocarle, distorcerle, con il fine poi di celebrarle
e renderle ironicamente musica, intrattenimento, spettacolo. Non
troppo diverso da quanto si fa in qualità di progettisti: non che lui
non lo fosse, anzi. Ci fu intesa, insomma. E come tante volte, con
assoluti outsider, decisi di chiedergli se avrebbe avuto piacere di
insegnare con me al Politecnico di Milano, di supportarmi nel mio
laboratorio di progetto alla Scuola del Design.
Così scoprii che il buon Elio, oltre ad un diploma in flauto
traverso al Conservatorio di Milano, aveva anche una laurea,
seppur conseguita con tempi generosi, in Ingegneria Elettronica
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invisibile: se non ti danno fiducia è difficile che tu possa essere
autonomo, ma se non sei responsabile nella gestione della tua
autonomia, la fiducia verrà meno. La fiducia quindi è condizione
necessaria, ma non sufficiente, per dirla in termini matematici.
Secondo il dizionario Garzanti della Lingua Italiana, l’autonomia
è “la capacità di governarsi, di dare a sé stessi le leggi cui ci si
sottomette. Per estensione: indipendenza, libertà d’agire”.
Vi è una seconda dicotomia, quasi paradossale, per cui ci si dà
delle leggi, che poi ti permettono di essere libero: una seconda
relazione dinamica che non ti lega solo agli altri, ma a te stesso, che
ti misura in termini di coerenza e responsabilità interna.
Essere autonomo è un grande vantaggio, perché permette di agire
e al contempo di misurarsi con sè stessi.
Può essere invece un problema per gli altri: può infastidire, dare
la sensazione che tu non ascolti, che non ti interessi il pensiero
altrui. Quindi spesso viene confuso o scambiato per egoismo, per
menefreghismo. Confesso che, soprattutto con le donne, questo per
me è stato un grande problema: ho imparato, con il tempo e con la
fatica, a gestirlo, a non essere troppo indipendente ed autonomo,
perché può indurre appunto la sensazione di non essere considerati,
di non sentirsi necessari o sufficientemente presenti.
Tuttavia l’autonomia è la premessa necessaria per decisioni rapide,
e devo dire, spesso per essere leader: dimostrare sicurezza nelle
tue scelte, convinzione in quello che vuoi fare, spesso aiuta anche
gli altri a decidere e a prendere una posizione a loro volta. Non si
tratta di essere dei dittatori o voler imporre la propria scelta, ma di
essere veloci, di farlo per primi, influenzando comunque gli altri.
Non è una questione di intelligenza o superiorità intellettuale, si
intenda, ma di indole. Questa attitudine mi è servita molto nella
mia professione, per non inseguire, per non copiare, per non
stare nel mainstream, ma per cercare quanto credo vada inseguito
(comunque sia si insegue sempre qualcosa…). Per cercare quello
che mi auguro un giorno di trovare finalmente, un poco come
quando veleggiavo per Is Arenas, sempre fiducioso di procacciarmi
un buon carico di mirabilia.
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5. AUTOLESIONISMO (Rischio di)
Sopravvivere ad almeno un naufragio
Il piccolo Giulio non aveva voglia quell’anno di andare in
vacanza. Non gliene fregava proprio nulla: perché si doveva andare
in vacanza? Era un obbligo forse, tanto quanto lo era andare a
scuola? A lui andare a scuola era sempre piaciuto un sacco e allora
tanto valeva che avesse il diritto di non andare in vacanza. Era un
bambino fatto così, come quelli di tanti racconti di Gianni Rodari,
cui era capitato di vivere in un mondo alla rovescia. Per lui era
normale: erano gli altri a non rendersene conto.
Allora suo padre Gege quell’anno decise di comprare una barca
e di usarla per attraversare il Mediterraneo, per andare da Roma in
Sardegna: una cosa normale, che fanno tutti i bambini in estate. Il
padre forse aveva navigato in mare, ma mai su una barca di legno
di tale dimensione. Decisero allora di partire da Ostia (il mare si era
ritirato da Roma nel mentre) e di arrivare in qualche punto dell’isola
che vi si trovava di fronte, andando sempre diritti di fatto: detta così,
era una roba facile, no? Una gita in barca da 7 o 8 ore, se tutto fosse
filato liscio.
Doveva capire che avendo sentito nominare “Ostia!...” tante volte
invano ed in precedenza, quel sito non avrebbe portato nulla di
buono.
La partenza fu all’alba e quando si svegliò erano già in alto mare
e nulla si vedeva all’orizzonte, nè davanti, nè dietro, anzi nè a prua
nè tantomeno a poppa, come aveva abilmente imparato a dire. Non
voleva dire essere a metà strada, comunque.
Ma ad un certo punto, quando il mare era piatto ed il cielo
era terso, il motore si fermò: il prodigo Gege scese in sentina
per riparare il guasto, ma la sentenza fu inattesa: “Usiamo il
radiotelefono e aspettiamo che qualcuno ci venga a prendere”.
Non era semplice come un’interurbana: era un S.O.S in
pieno stile, lanciato alle Capitanerie di porto e a tutti i mezzi in
circolazione nel raggio di almeno 30 miglia.
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vostro percorso di senso; non è detto che ci si salvi sempre, per
l’amor di Dio, ma credo spesso aiuti: in matematica si direbbe che
è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Io vi consiglio
di allenarvi comunque e capire come dagli errori altrui ci si può
salvare, restando sereni e vedendo tutto come foste appunto parte
di quei cartoni animati alla Popeye (per stare a tema) dove entra in
fabbrica il tronco di una pianta e con mille stratagemmi, scintille,
rimbalzi e martellate, ne escono scatolette di fiammiferi, con le
quali ancora potete fare luce sulla vostra strada.
Oppure può essere una certa ostinazione, il non voler cedere
e rinunciare, andando oltre i limiti di quanto richiesto, come nel
caso delle (S)viste di Lecco: importante rendersene conto, anche
se non vuol dire rinunciare, ovviamente. Dove starebbe altrimenti
l’autolesionismo? Quindi, perseveriamo, come diceva il buon
Agostino.
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6. AUTODETERMINAZIONE (Diritto di)
Poter decidere di chi sei figlio
Indubbiamente ho avuto un’infanzia singolare, ben prima che il
concetto di singolarità diventasse tanto importante, partendo dalla
Silicon Valley.
La mia singolarità consiste nel fatto che i miei genitori si divisero
quando io avevo circa 6 anni. Oggi la cosa non fa certo notizia: nel
2022 la percentuale di divorzi è del 48% in Italia. Ma qui parliamo
del 1976, quando il divorzio rappresentava 0,6% dei casi e ancora
non esisteva, legalmente parlando. Inoltre, ulteriore aggravante,
questo accadde non in una megalopoli, ma in una cittadina
provinciale come Lecco, dove la voce corre e le persone sono note.
Specifico questo fattore perché se ho avuto delle difficoltà a
volte non è stato per causa dei miei genitori, che sempre fecero
di tutto per aiutarmi a farmi sentire a mio agio in una situazione
nuova e difficile per tutti, certamente anche per loro. Spesso invece
l’imbarazzo o il fastidio l’ho avuto da altri, soprattutto da coloro
i quali non sapevano come comportarsi con me, cosa chiedermi
rispetto alle condizioni dei miei genitori, trattandomi come se fossi
un soggetto da compatire, piuttosto che quasi da temere. Devo
dire che con gli anni, acquistai una sorta di sensibilità particolare,
generata dalla scelta dei miei compagni di scuola, di chi
frequentare o meno. In verità il soggetto problematico non erano
i compagni, nonostante frequentassimo tutti un collegio cattolico,
perché tra bambini non vi era nessun imbarazzo o differenza, ma le
loro famiglie: avevo la sensazione che nelle famiglie in cui regnava
un’armonia, un rispetto di coppia, io fossi sempre ben voluto;
mentre percepivo un fastidio e un imbarazzo, certamente reciproco,
in quelle famiglie dove forse vi erano ipocrisie o situazioni non
felici, atteggiamenti di falsità e opportunismo, per cui io risultavo
un soggetto scomodo. Sceglievo quindi sempre di invitare a casa
a giocare i miei compagni ed amici che avevano situazioni che
percepivo di questo secondo tipo, evitando di andare a casa loro,
mentre amavo molto andare a giocare dai miei compagni nelle loro
case, quando la situazione era del primo tipo.
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anche sostiene Michael Wehemeyer, uno dei massimi studiosi
sul tema, ci stanno tuttavia non l’egoismo o il narcisismo, come
sarebbe facile credere forse, ma la responsabilità, verso sé e verso
gli altri. Io l’ho imparata fin da bambino. Come progettisti a volte
si fanno scelte pensando al meglio per gli altri, al meglio per la
società, anche se sembra che uno difenda una posizione personale:
almeno così dovrebbe essere, se vogliamo parlare di progettazione
responsabile, di etica di progetto, di garantire a tutti un futuro
migliore. Per questo ritengo che si debba cercare di essere liberi
anche dai brief altrui, costruendo le proprie visioni da zero, e
restandone conseguentemente proprietari assoluti: Villoresi Est non
era formalmente così, ma la sua lunga marcia ha fatto che questo
accadesse, inevitabilmente. Paradossi dell’autodeterminazione.
7. AUTOCTONIA (Rispetto dell’)
Navigare nella foresta pluviale del Guatemala
Tra i viaggi più incredibili della mia vita ci sono i 10 giorni spesi
sui fiumi Uxumacinta e Rio de la Pasion, al confine tra il Guatemala
ed il Messico, in pieno Peten.
Tra i 20 e i 30 anni di età, ho viaggiato molto in Messico e
Guatemala, spinto dagli interessi di mio padre, che aveva acquistato
una finca nella regione lacustre di Izabal, vicino a Livingstone, sul
delta del Rio Dulze. Devo dire che ho amato molto quella stagione
di viaggi, perché almeno 2 volte all’anno mi recavo in America
Latina per qualche settimana, visitando in ogni occasione, per
compensazione, qualche luogo nuovo (Messico, Belize, Honduras),
arrivando a spingermi fino alle Galapagos, oltre 1000 km dalla
costa dell’Equador.
Passavo molto tempo da solo durante questi viaggi, scattando
appassionatamente fotografie, scrivendo e illustrando diari in
modalità un poco ottocentesca, ma anche conoscendo molte
persone e costruendomi solide amicizie. Sfruttando una vecchia ed
obsoleta legge fascista che favoriva i figli unici residenti all’estero
e consentiva loro l’esonero dal servizio di leva militare, mi feci
assumere al Museo Popol Vuh di Città del Guatemala, dove
imparai a conoscere la cultura precolombiana e a capirne la fertile
cosmologia. Nei pomeriggi collaboravo con lo studio dell’architetto
Tono Prado, cogliendo una cultura del progetto diversa dalla nostra
e visitando le sponde del lago Izabal, dove Tono costruiva ville
magnifiche. Andavo spesso all’Università del Guatemala a tenere
conferenze e lezioni e mi feci molti amici tra professori, studenti e
architetti locali.
Il mio luogo preferito era certamente Antigua Guatemala, dove
spesso mi recavo con gli amici per i weekend e dove anche trascorsi
un periodo per imparare lo spagnolo: era l’antica capitale, in stile
totalmente coloniale, con case di colori sgargianti, le vette dei
vicini vulcani, una vegetazione lussureggiante, le strade in pietra
lavica. Un luogo sospeso nel tempo, dove la sera non vi era quasi
illuminazione stradale e il silenzio della notte calava profondo.
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9. AUTOAPPRENDIMENTO
(Formazione perenne come)
Applicare la metafora esplorante dell’Awareness Design
Nel 2011 mi fu chiesto, come già accaduto altre volte in
precedenza e poi altre ancora a seguire, di sviluppare per la
Scuola del Design del Politecnico di Milano, quanto viene definito
Laboratorio di sintesi finale: tradotto in termini semplici, un
corso progettuale che aiuti gli studenti della laurea magistrale a
intraprendere il tema delle tesi e il suo svolgimento finale.
Quello che mi sono sempre posto come obiettivo nella vita non
è forse di dare sempre giuste risposte, ma di imparare a formulare
le corrette domande. Diciamo che questa seconda attività è la
condizione necessaria, ma non sufficiente, alla prima. Almeno
credo.
Quindi mi chiesi: cosa succede se alla consueta attenzione posta
dal progettista (designer) sull’oggetto viene associata un’attenzione
continuata sul soggetto stesso? E precisamente in direzione della
fonte dell’esperienza ovvero sul “sé in azione”? E cosa succede
se sono gli invece gli oggetti a parlarci e a comunicare con noi,
come avviene nello scenario prossimo venturo dell’IoT (Internet
of Things)? Dove finisce allora, ci domandiamo, la distinzione tra
soggetto ed oggetto, tra realtà e narrazione?
È possibile quindi pensare che mettere al centro del momento
progettuale non l’attività stessa ma la presenza consapevole del
sé in azione possa cambiare positivamente e significativamente
la qualità del lavoro in una direzione esperienzialmente più ricca
e significativa. Forse questo serve anche ad imparare a progettare
degli oggetti che saranno sempre più dei “quasi-soggetti” e a
riconoscere un mondo in cui tra soggetto ed oggetto le distinzioni
si fanno sempre più fluide e sottili, dove le marche diventano dei
contesti relazionali, dei frame interattivi dove produrre valore.
Per formulare queste domande in modo corretto e trarne spunti
progettuali, serviva, oramai l’avrete tutti già capito, mettere insieme
una squadra eccezionale, un team fortemente interdisciplinare.
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Testo di riferimento: Giorgio Agamben, Genius, Nottetempo,
Milano, 2004
Brief: Quali sono i nostri materiali preferiti e quindi di che
materiali siamo fatti, quali materiali siamo? Come esprimere
la nostra personalità e le nostre attitudini attraverso la scelta
di 3 materiali in modo tale che possano arrivare a coprire
l’intera superficie a disposizione (ma non necessariamente) e
rappresentare le corrispondenti qualità materiche e sensoriali
(con una proporzione voluta e controllata) di alcuni aspetti del
nostro carattere? Sul retro 3 aggettivi descrittivi vanno abbinati ai 3
materiali scelti. Quantità forme e geometrie sono libere, ma non va
superato complessivamente il centimetro di spessore.
3. DIFFERENZIARE. SELF-DETACHMENT
Progettare l’imperfezione come qualità unica
Project leader: Giacomo Mojoli
Partner: TerraMoretti, Consorzio tutela del Bitto Storico
Brief: L’omologazione dei gusti, in ogni settore, ha generato una
sorta di pigrizia progettuale, dove anche la percezione sensoriale
si limita a utilizzare codici limitati che impediscono d’interpretare
sfumature e mutevolezze presenti in ogni entità e in ogni artefatto.
Fattori che distrattamente possono apparire come limiti, se osservati,
vissuti e interpretati con paradigmi aperti, si trasformano altresì
in un “valore aggiunto”. L’imperfezione può essere, in questo
senso, un forte attributo distintivo analizzabile in molti oggetti, un
elemento narrativo di un’esperienza ricca di peculiarità virtuose.
Si richiede pertanto una ricerca di casi, modelli, oggetti e/o
prodotti in cui siano percepibili attributi di varia natura (acustici,
cromatici, tattili, olfattivi) riconducibili ad una qualità distintiva
d’imperfezione, da descrivere ed identificare (500 battute) sul
retro. In seguito a questo, l’esercitazione prevede l’ideazione ex
novo di un oggetto o l’applicazione a modelli già esistenti di fattori
imperfetti in funzione della crescita di valoriale del caso.
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Le 5 parole del progettare di Giulio Ceppi
Francesca Alfano Miglietti
Il mondo è cambiato, ed è cambiato anche il design, la necessità
di ri-pensare questo insieme di pratiche.
La ricerca di Giulio Ceppi è anche linguistica, Ceppi va all’origine
dei termini e utilizza i loro significati come pretesto per la
discussione. La forma per Giulio è quella che in primo luogo fa
apparire la materia. E se la forma è il come della materia, la materia
il che cosa della forma, allora il design è uno di quei metodi per
conferire forma alla materia e farla apparire così e non in altro modo.
La materia nel design è dunque il modo in cui appaiono le forme.
Cinque parole come cinque direzioni, cinque modi per perdersi
ancora nel deserto della possibilità di altre forme di esistenza.
1. ORIZZONTE
L’orizzonte non è a una distanza precisa: è fin dove si riesce a
guardare. In linea d’aria è una lontananza misurabile in coraggio,
rabbia e fantasia.
Ed è una sorta di ricerca come “invenzione del margine“ quella
di Giulio Ceppi. Ad esempio, caratteristica prima della ricerca di
Giulio è quella di non essere mai “conclusiva“, nessuna sua ricerca,
infatti, sembra essere mai veramente finita, in ciò riprendendo un
privilegio che è sempre stato della tecnica pittorica: come interrotta
da improvvise intuizioni che ne modificano l’andamento. Immagini,
frammenti di realtà, punti di vista, gerarchie di figure, insomma vere
e proprie tavole di visioni, vertiginosamente utili, come immagini
sospese, che obbligano, chi guarda i progetti, a proseguirli nella
propria mente, continuandoli in un’estensione arbitraria estorta
alla propria fantasia. Progetti “un po’ nel tempo o nello spazio, alle
volte in tutt’e e due”. Un singolare slittamento spaziale o temporale
fa scivolare i progetti di Giulio al centro di un evento, ma lungo
gli orli del significato, ai bordi delle conoscenze, al margine di
un’invenzione. Per Giulio l’evento è la zona di massima rarefazione
dell’essere: praticamente un passaggio del tempo.
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