ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
CIELO,
CIELI (haeven; Himmel; ciel, cieux; cieCielo, Cieli
lo, cielos). – SOMMARIO : I. Il cielo come oggetto
filosofico. - II. Il Pitagorismo e Platone. - III. Il
Cielo e i moti planetari. - IV. Aristotele. - V. Ellenismo e tarda antichità. - VI. Dal Medioevo
alla rivoluzione astronomica.
Il cielo e i cieli sono stati oggetto di ripetute
speculazioni filosofiche nell’ambito della cultura greca e poi di quella derivata storicamente dalla cultura greca. Si può d’altronde dire
che il cielo e i cieli abbiano cessato di essere
un oggetto filosofico con la rivoluzione scientifica moderna.
I. IL CIELO COME OGGETTO FILOSOFICO . – Si consideri il cielo al di fuori e prima della nascita della scienza. Il cielo è una parte di «questo tutto»
(l’espressione è di Platone), il mondo. Caratteristica di un mondo configurato per coordinazione di parti è che le parti sono qualitativamente differenziate; i luoghi fondamentali del
mondo sono quelli in cui si raccolgono le differenze qualitative principali. C’è un’espressione presente in molte civiltà, che rende tipicamente questo modo di organizzare il mondo: «cielo e terra». Normalmente questi due
luoghi sono coordinati secondo l’asse altobasso. Importa notare qui che attorno a questa coppia di luoghi possono essere raccolti
numerosi contrasti e numerose opposizioni. Il
cielo è lontano, grande, potente; correlativamente, la terra è vicina, piccola, soggetta. La
terra è caratteristicamente il luogo «nostro»,
per contrasto con il cielo, luogo «altro». Questo modo di considerare il cielo e di coordinarlo agli altri luoghi del mondo non sembra peculiare della cultura greca (basti pensare
all’inizio della Genesi: «In principio Dio creò il
cielo e la terra»). Va notato che le differenze
che qualificano e contrastano il cielo non sono
significative in un’ottica scientifica; sono differenze che articolano internamente il mondo,
in quanto ambito di appartenenza umana.
Il cielo costituirà un possibile oggetto filosofico finché sarà possibile, in presenza della filosofia e della scienza, pensarlo come una parte
(o luogo) del mondo qualificata da un insieme
di differenze fondamentali rispetto alle altre
parti (o agli altri luoghi). Si tratta di una storia
che ha origine nella cultura della Grecia antica, che prosegue nelle culture che ne derivano,
che ha un notevole numero di episodi, e che
termina quando quella possibilità verrà meno.
Nella Grecia antica, la cultura presocratica
(sec. VI-V a. C.) fu caratterizzata, tra l’altro,
Cielo, Cieli
dall’elaborazione di cosmologie a impronta
naturalistica. Nel far questo, essa trattò certamente del cielo, ma in una prospettiva che virtualmente dissolveva il contrasto qualitativo
cielo-terra; a titolo di esempio si può citare
Anassagora, che, alla metà del sec. V a. C., affermava che il sole è una pietra infuocata,
grande molte volte il Peloponneso (H. Diels,
Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W.
Kranz, Berlin 1961-64, pp. 59-72). In questa
prospettiva, il cielo diveniva nient’altro che un
oggetto scientifico tra gli altri, di pertinenza
della cosmologia. Ma non fu questa prospettiva a prevalere.
Un ruolo determinante in questo senso fu giocato dalle prime ricerche di astronomia geometrica, e dalla traduzione che i loro esiti ebbero in termini cosmologici. La tesi della sfericità della terra comparve probabilmente attorno alla metà del sec. V a. C. Sebbene tale tesi
non implichi l’attribuzione della forma sferica
al cielo, tuttavia la suggerisce fortemente; e il
crescente ricorso agli apparati concettuali della geometria nello studio del cielo spingeva
anch’esso fortemente nella stessa direzione,
dato che i moti celesti erano rappresentati mediante cerchi e data l’interpretazione spontaneamente realistica dei modelli geometrici. In
ogni caso, almeno negli ambienti pitagorici alla fine del sec. V a. C. doveva essere ormai diffusa l’accettazione di ciò che la storiografia
moderna ha chiamato «l’universo a due sfere»,
cioè l’immagine di un cielo sferico (la cosiddetta sfera delle stelle fisse) al cui centro si
trova la terra, sferica anch’essa. Nel Fedone (la
cui scena è situata nel 399 a. C.) Socrate parla
della sfericità della terra come di una convinzione da lui acquisita di recente (108 c ss.); e
nel mito finale del Fedone il cielo è sferico.
Questa immagine del mondo, proveniente da
indagini astronomiche già scientifiche, avrà
un’influenza decisiva in tutta la storia successiva del cielo. Il suo primo effetto fu che il cielo
e la terra non erano più disposti lungo l’asse
alto-basso, ma secondo la relazione centrocirconferenza; con ciò stesso ebbe inizio la
tendenza del cielo a estendersi al tutto. Ciò si
riflette in un allargamento della sfera semantica del termine greco per cielo, oujranov"; accanto alla vecchia accezione (che si mantenne in
uso), per cui si trattava di una parte dell’ambiente complessivo, ne comparve una nuova,
nella quale il termine designava l’intero di ciò
che è contenuto nella sfera celeste, significava
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Cielo, Cieli
dunque all’incirca «universo». Tale allargamento è registrato da Aristotele, che distingue
tre significati di oujranov": 1) «il corpo naturale
che si trova nell’ultima orbita del tutto, infatti
siamo soliti chiamare ouj r anov " soprattutto
l’estremità e l’alto, in cui diciamo anche che risiede tutto il divino»; 2) il corpo che si estende
dall’estremità fino alla sfera della luna; 3) tutto il corpo contenuto dalla circonferenza più
esterna, «infatti siamo soliti chiamare oujranov"
la totalità e il tutto» (De caelo, libro I, 9, 287 b
11 ss.). Di queste tre accezioni la seconda è
quella che conserva maggiormente la connotazione iniziale («parte del tutto»), mentre le
altre due («ciò che racchiude il tutto» e «il tutto racchiuso») presuppongono l’universo
chiuso da una forma sferica. Si noti come questa nuova configurazione cosmica possa incorporare facilmente tutte le connotazioni della
vecchia articolazione alto-basso, se si conviene di intendere con «alto» l’esterno e con
«basso» il centro della sfera (come fanno, con
intenzioni differenti, sia Platone nel Timeo sia
Aristotele nel De caelo).
A questa vicenda semantica di oujranov" se ne
sovrappone, all’incirca nello stesso periodo,
un’altra: è posta (da Platone, esplicitamente
nel Timeo e nel Politico) come equivalente a kovsmo". Si noti che i due termini fossero originariamente molto distanti; mentre il primo significava «cielo», kovsmo" significava qualunque
insieme internamente ordinato (una collana,
per esempio, una schiera di soldati, un comportamento composto ecc.). Questa equivalenza fu resa possibile dalle relazioni di senso
che i due termini avevano con la nozione che
Platone rende con l’espressione «questo tutto». Nel Gorgia Platone fa dire a Socrate che «i
sapienti dicono che il cielo e la terra e gli dei e
gli uomini sono tenuti insieme dalla comunanza e l’amicizia e l’ordine e la moderazione
e la giustizia, e per questo chiamano questo
tutto kovsmo", non ajkosmiva» (508 a 3-4). Qui
questo tutto, il mondo, è costituito e popolato
da cielo e terra e dei e uomini; è dunque preso
primariamente nella sua dimensione etico-religiosa; ed è dichiarato un ordine, un kovsmo",
in questa dimensione. Tuttavia il cielo e la terra non sono entità riducibili alla dimensione
etico-religiosa; in questo passo Platone in certa misura rinvia già oltre. Il passaggio alla dimensione che noi diremmo fisico-cosmologica
avviene nel Fedone, dove in primo piano sono
il cielo e la terra. Socrate dichiara di attendersi
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che gli sia detto «[1] anzitutto se la terra è
piatta o rotonda e, dopo che lo si è detto, che
[2] se ne spieghi la causa e la necessità, allegando la ragione del meglio, cioè che è meglio
per essa essere di tal forma; e se si dice [1] che
essa è nel centro, che poi [2] si spieghi che è
meglio per essa essere nel centro» (97 d 7 - e
4). In questo passo fa la sua comparsa la distinzione tra il momento descrittivo (contrassegnato qui con [1]) e quello esplicativo (contrassegnato con [2]) della scienza. E’ importante notare che il principio di spiegazione qui
richiesto per l’assetto cosmologico riconosciuto dall’osservazione – per il cielo e la terra
– è indicato come la «ragione del meglio»; si
tratta di un tipo di spiegazione che consente di
riproporre, su un altro piano, ciò che lo spostamento dell’attenzione dagli dei e gli uomini
al cielo e la terra sembra lasciare cadere.
Così questo tutto, il mondo, dato con l’articolazione interna primaria cielo-terra, e non tale
da contenere nel suo senso la connotazione di
ordine, viene dichiarato ordinato, in quanto il
suo assetto globale, organizzato sull’asse cielo-terra, è passibile di una spiegazione, che si
pretende capace di dire perché è meglio per
esso essere così invece che altrimenti. Nella
spiegazione in termini di ragione del meglio
quella dichiarazione trova la sua giustificazione. Questo tutto ha d’altronde nel cielo il luogo in cui la sua cosmicità si dispiega più propriamente: il cielo contiene e chiude questo
tutto, e tale chiusura rende possibile la domanda stessa circa la ragione del meglio di
questo tutto, dato che così esso dispone di
una configurazione unificata, tale da rendere
determinata la questione stessa.
Mediante l’assetto cosmologico ricevuto
dall’astronomia e mediante la spiegazione in
termini di ragione del meglio, il cielo poteva
così conservare in un certo senso il carattere di
luogo privilegiato, e divenire il luogo esclusivo
del divino (come non era nella tradizione precedente e come non è ancora nelle parole del
Gorgia citate sopra). D’altra parte, questo esito
fa seguito a una elaborazione scientifica e filosofica, che lo legittima; la conseguenza è che
la divinità che i cieli tendono ad acquisire diventa a sua volta tendenzialmente un carattere
derivato. A questo punto si aprono diverse vie;
decisivo diventa qui come si intende la causazione che è alla base dell’ordine di questo tutto. Si può pensare che questa causalità resti
interna al mondo (e interno sarà quindi il divi-
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no); oppure si può pensare a una causalità originaria, situata oltre e «al di là». In questo secondo caso si può pensare al cielo come al luogo di manifestazione privilegiata della causalità
di un divino più fondamentale e trascendente.
Ma certamente questo non è necessario; si
può pensare a un divino trascendente e insieme
a un mondo senza luoghi privilegiati in questo
senso, quindi a un cielo senza privilegi. Sotto
questo profilo il cielo come oggetto filosofico
è coinvolto in problematiche teologiche e religiose (i cui confini non sono sempre chiari).
Restò sempre aperta, ovviamente, la possibilità di rigettare completamente ogni tipo di implicazione teologica per le indagini sul cielo
II. IL PITAGORISMO E PLATONE. – Le più antiche
speculazioni filosofiche sul cielo si ebbero con
il pitagorismo antico. Siamo informati di un sistema planetario elaborato da Filolao (seconda metà del V secolo a. C.), il quale, come
emerge da alcuni indizi, tentava di coordinare
all’emergente cosmologia sferica un sistema
preastronomico di luoghi religiosi (gli storici
moderni dell’astronomia concordano nel giudicarlo una dottrina non ancora propriamente
scientifica). Più significativa è la dottrina pitagorica (destinata a una vita molto lunga) della
musica dei cieli – dottrina che si adatta in modo peculiare alla concezione, per cui il cielo è
la parte propriamente ordinata di un mondo
che trova in esso il piano del suo ordine. Accordi e frasi musicali erano pensati dai pitagorici come gli effetti udibili di determinati movimenti regolati da rapporti espressi numericamente e codificati nelle teorie dell’armonia;
la dottrina pitagorica assumeva che i movimenti del cielo fossero regolati in base agli
stessi rapporti, e dunque producessero una
musica celeste. Tale musica non era udita dagli uomini (con la sola eccezione di Pitagora),
perché il suo prodursi incessantemente ci rende assuefatti ad essa fin dalla nascita e così ci
impedisce di distinguerla e riconoscerla. Ciò
che è più significativo, i suoni musicali dei cielo si distinguevano rispetto ai suoni non tali (e
ai moti sottesi), in quanto i primi accadevano
conformemente alle norme date con i valori
numerici dei rapporti armonici, mentre i secondi non vi si conformavano. L’idea di regola
qui operante è anteriore a quella associata
all’oggettività scientifica, ed è piuttosto pensata sul modello della norma cui si tratta di attenersi, alla quale si può ottemperare più o
meno, e che comunque coesiste sempre con
Cielo, Cieli
una componente di assenza di regola e di disordine, come ciò da cui si distingue. Così alla
piena armonicità dei cielo può essere associata un’armonicità parziale ed episodica in terra.
Il filosofo, in cui affiora per la prima volta pienamente l’intreccio dei temi speculativi che
circoleranno nei discorsi sul cielo, è Platone
(427-347 a. C.). Platone parla molto del cielo.
Anzitutto, a partire dal Fedone riprende e accetta come valida la descrizione cosmologica che
si ricava dall’astronomia geometrica, cioè
l’universo a due sfere, e se ne serve come
dell’articolazione spaziale vera del mondo: il
cielo è la sfera esterna di questo tutto.
In secondo luogo, ne parla (principalmente
nella Repubblica) come del rappresentante visibile dell’oggetto di una delle branche della
matematica, il cui studio, se correttamente
compiuto, produce il pieno rivolgersi dell’anima verso l’intelligibile. L’oggetto proprio di tale branca è inizialmente indicato da Platone
come «il solido in movimento», poi è definito
più precisamente come «la reale velocità e la
reale lentezza nel vero numero e in tutte le vere figure» (529 d 2-3); si deve pensare qui a una
sorta di cinematica astratta relativa a una classe particolare di figure geometriche. La vera
astronomia ha dunque per Platone un oggetto
«invisibile», di cui il cielo è solo il rappresentante visibile; ma l’astronomia del visibile può
essere il tramite d’accesso al suo invisibile, a
condizione che si serva delle configurazioni
celesti come di problemi (al modo dei disegni
sulla lavagna del geometra); una volta così
pervenuto all’intelligibile che il cielo rappresenta, il vero astronomo, dice Platone, «lascerà andare le cose in cielo» (530 b 7); non osserverà più, perché non ne avrà ormai più bisogno, una volta che il cielo abbia esaurito la sua
funzione di rappresentante. Ciò che qui importa notare è il ruolo eccezionale del cielo; il suo
ordine è certo ancora soltanto visibile, e tuttavia soddisfa condizioni che lo fanno un tramite
privilegiato verso l’intelligibile. Il cielo non è
l’unico rappresentante sensibile dell’intelligibile (lo sono anche, per esempio, i disegni geometrici su una lavagna, o l’esecuzione di uno
spartito armonico); esso però è l’unico che
non richiede una nostra produzione, per essere
esperito. Si noti che l’eccezionalità del cielo è
qui associata essenzialmente ai successi
dell’emergente astronomia matematica.
In terzo luogo, Platone parla del cielo più volte
in esposizioni continuate, che chiama mu'qoi
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Cielo, Cieli
(per lo più tradotto con «miti», anche se forse
sarebbe meglio tradurre «racconti»), le quali,
pur avendo una pretesa di validità diversa, e
inferiore, rispetto a quella avanzata nelle parti
dialogate e argomentate, contengono una parte della sua filosofia. Nei miti del Fedone, della
Repubblica e del Fedro ci sono alcuni tratti che
si ripetono. Tutti e tre sono introdotti subito
dopo che è stata dimostrata l’immortalità
dell’anima; in tutti, protagonista è dunque una
tale anima. Nei tre miti, dottrine astronomiche
e cosmologiche forniscono i materiali per produrre l’immagine dell’insieme dei luoghi della
vita complessiva (prima e dopo la separazione
dal corpo) di tale anima, per produrre una sorta di scenario, per così dire. In tutti e tre, tale
insieme di luoghi ha un significato escatologico e il luogo in alto rispetto al nostro (nello
scenario cosmologico, il luogo celeste) è il
luogo dei premi per i buoni. Infine, in tutti, il
luogo celeste è caratterizzato, in termini molto
rilevati, dal fatto che in esso si vede ciò che
dall’interno del luogo «nostro» non si vede, ed
è di primario valore vedere; il premio per le
anime buone è dunque, almeno in parte, una
visione. È evidente, fin qui, la continuità con la
tradizione prefilosofica sul cielo: Platone produce nel mito, come mondo per l’anima, un sistema di luoghi religiosi qualitativamente diversi. Nel mantenere questo collegamento egli
riprende senza difficoltà gli esiti della recente
astronomia; il cielo è il luogo del divino, e insieme è la sfera che contiene il luogo nostro.
Il cielo dunque come il luogo privilegiato di
manifestazione dell’intelligibile nel visibile; il
cielo d’altronde come, entro il mondo come
scenario complessivo della vita dell’anima
umana, il luogo proprio del divino e proprio
dell’anima, in quanto immortale e divina («divino» e «immortale» avevano in quell’epoca
quasi lo stesso significato). Questa congiunzione di caratteri ben distinti richiede una giustificazione, la quale può essere trovata soltanto nella risposta alla domanda causale circa l’assetto complessivo di questo tutto (la domanda introdotta nel Fedone, e riproposta nella Repubblica). Si può dire, schematicamente,
che qui la descrizione di «questo tutto» ricavata dall’astronomia (l’universo a due sfere) è assunta come indiscutibilmente vera, e costituisce l’explicandum; che, dato che questo tutto è
visibile e corporeo, è possibile a) proporre come causa principale l’interazione tra corpi; oppure b) dichiarare che questo tipo di spiega4
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zione è intrinsecamente insufficiente, e richiedere un ulteriore, e più fondamentale, tipo di
spiegazione, che degradi l’interazione tra corpi
a causa secondaria, a conditio sine qua non, di
un ordine che ha un altro tipo di spiegazione.
Platone decisamente propende per la seconda
opzione; si noti che il carattere «matematico»
dei fenomeni celesti appare come un argomento a favore della seconda opzione (i corpi
«terrestri» non mostrano una tale regolarità).
Tutti questi fili vengono collegati nel Timeo, in
un discorso che viene introdotto come un «mito verosimile» (eij k wv" mu' q o"). La verosimiglianza è meno della verità, e tuttavia ha un
rapporto con la verità sufficiente a consentire
un giudizio razionale di validità; d’altra parte,
il mito verosimile sembra il terreno più adatto
a raccogliere componenti dottrinali, la cui pretesa di validità non dispone di irrecusabili argomenti a sostegno. Platone dunque assume
che questo tutto, caratterizzato essenzialmente dal divenire, data la sua corporeità, è originato dall’agire causale di un «demiurgo», cioè
un «artigiano», divino buono e intelligente;
nella bontà e intelligenza di questa causa risiede il primo e più fondamentale principio di
spiegazione cosmologico. A partire di qui, egli
nel mito cosmologico verosimile introduce un
insieme di spiegazioni per il mondo, quale gli
è consegnato nella descrizione fattane dalle
varie ricerche scientifiche. Di prima importanza è la base esplicativa di cui viene dotato il
cielo; qui Platone elabora una delle sue dottrine più famose, quella dell’«anima del cielo».
Il tutto, l’universo, è un vivente, composto di
anima e corpo; il cielo è quella parte del tutto
che è in posizione di contenente nel tutto di
cui è parte, ed è quella parte, per la quale primariamente il tutto è un ordine. Il cielo è composto di un’anima propria, la quale è coestesa
con esso e contiene il corpo del tutto. L’anima
del cielo del Timeo non è un costituente primitivo originario e irriducibile dell’essere; essa è
un composto molto complesso, a più strati,
prodotto dal demiurgo nel quadro della sua
produzione di questo nostro tutto ordinato; le
strutture degli strati anteriori sono ereditate
dagli strati successivi. Qui conviene partire
dallo strato più basso e terminale. Esso è pensato come la sottostruttura invisibile geometrico-cinematica del sistema astronomico visibile (si pensi a qualcosa come una sfera armillare, solo un poco più complicata, e la si dematerializzi, per così dire). I suoi cerchi fonda-
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mentali sono la controparte invisibile del cerchio dell’equatore celeste (chiamata «cerchio
dell’identico») e la controparte invisibile del
cerchio dell’eclittica (chiamata «cerchio del
diverso»). I componenti di questa anima-composto cinematico sono regolati da rapporti numerici, i quali derivano dai numeri all’origine
delle serie numeriche che generano i rapporti
armonici. Così i cieli risultano una struttura
geometrica muoventesi secondo regole armoniche. Risalendo ancora, gli ingredienti di base dell’anima del cielo sono dati da nozioni
dialettiche fondamentali – essere, identico, diverso – le quali sembrano costituire il principio ultimo di spiegazione della struttura celeste: il cerchio del diverso (l’eclittica) è subordinato al cerchio dell’identico (l’equatore celeste) e introduce entro l’identità di base una diversità dipendente e controllata dalla sua periodicità, e in tal modo intelligibile.
La principale funzione, cui la dottrina dell’anima del cielo assolve nella cosmologia verosimile del Timeo, consiste nello spiegare l’origine del movimento celeste e il suo ordine.
L’anima del cielo è soggetto di un movimento
intelligente, perciò intelligibile; questa intelligenza-intelligibilità è garantita dalla composizione stessa di tale anima, dalla strutturazione
matematica secondo cui essa è fatta dal demiurgo con ingredienti ontologici quali essere, identico e diverso. La dottrina dell’anima
del cielo riprende il ruolo privilegiato assegnato nella Repubblica al cielo e lo giustifica:
l’astronomia è una scienza matematica, perché i cieli sono internamente costituiti e normati matematicamente. I moti dei cieli sono
spiegati in base all’anima del cielo, la quale è
spiegata in base a ciò di cui è fatta e ai principi
secondo cui il demiurgo l’ha composta.
Va sottolineata la ripresa della dottrina pitagorica della musica celeste. A differenza del pitagorismo, Platone non pensa a una musica
effettiva del cielo (della quale si dovrebbe
spiegare il fatto che non la udiamo); pensa invece alla norma matematica dell’armonia come un costituente dell’insieme di norme secondo cui si muovono i cieli; in altre parole, il
livello non udibile, ma solo intelligibile della
musica (la sua struttura aritmetica sottesa)
coincide con i rapporti di grandezza dei moti
celesti. Si può dire che agli occhi di Platone i
moti celesti visibili stavano a tale struttura
matematica un poco come un’esecuzione musicale sta al suo spartito (che è naturale inten-
Cielo, Cieli
dere come la norma dell’esecuzione); ed è facile qui introdurre l’idea di una teoria matematica generale dell’armonia, entro la quale lo
«spartito» dei cieli costituisce solo una configurazione possibile. In questo modo il cielo
diviene il tramite d’accesso all’intelligibile
non soltanto per la via geometrica, ma anche
per quella aritmetica. Il processo che porta al
riconoscimento di tale ordine è intellettivo;
tuttavia gli sono immediatamente associabili
aspetti, nei quali si può far consistere il valore
dell’intera vita dell’anima: se i rapporti armonici sono norme, allora il loro riconoscimento
coincide con l’internalizzazione della norma, e
questo processo è tale, da coinvolgere l’anima
complessivamente. Il riconoscimento della
musica celeste è dunque insieme anche
un’imitazione (una sorta di esecuzione interna) che fa acquisire una sorta di compostezza
interna all’anima e per questa via ne realizza il
valore.
Dunque i cieli del Timeo hanno un’efficacia formativa sull’anima e sull’intelletto umano, in
virtù del fatto di essere nel sensibile la manifestazione di un ordine matematico, sia musicale sia geometrico-cinematico. Una tale efficacia si manifesta immediatamente, già
nell’esperienza sensibile; il vedere i moti periodici dei cieli, dice Platone, ci dà la comprensione del numero e la conseguente capacità di
indagare la natura del tutto (47 a 5 ss.). In generale, nella relazione percettiva con i cieli si
ha un primo momento di educazione della
sensibilità umana, che, mediante la normazione interna dell’anima, avvia all’attività dell’intelletto. Sotto questo profilo (e solo sotto questo profilo) il cielo è una componente provvidenziale del mondo.
L’anima del cielo del Timeo è fabbricata dal demiurgo divino; il cielo stesso è divino; divini
sono gli astri che vediamo in cielo. Il Timeo
contiene una delle formulazioni più caratteristiche della concezione, secondo la quale questo tutto, in quanto è un kovsmo", un ordine intelligibile, è il prodotto di un’agire causale che
ha origine al di là, al di fuori di esso. È evidentemente controverso il modo in cui si deve intendere questo «fuori», viste le sue implicazioni teologiche. Qui importa notare che in questa concezione il cielo viene a essere un livello
divino di secondo grado, e quel livello del divino che si manifesta nel sensibile secondo
una modalità, che lo fa rivolto primariamente
all’intelletto. Platone in un passo dichiara che
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Cielo, Cieli
si debbono conservare gli dei degli antenati
(40 d 6 ss.), il cui modo di manifestarsi non ne
fa degli dei per l’intelletto (e che non popolavano esclusivamente il cielo); tuttavia il Timeo
sostanzialmente propone, per il divino interno
al mondo, una concezione che lo fa coincidere
con il celeste – fermo restando che questo divino è secondario, e derivato insieme al mondo
di cui è la parte divina.
Nel Timeo la parte immortale dell’anima umana, cioè la sua parte intellettiva, è fatta dal demiurgo con gli stessi ingredienti dell’anima
del cielo; essa è poi affidata agli dei celesti
fabbricati dal demiurgo, perché la congiungano al corpo (e a questo scopo fabbrichino la
parte mortale dell’anima, quella che presiede
alla vita e alle attività individuali). Dunque l’intelletto umano è originariamente affine
all’anima del cielo; e Platone ripetutamente si
esprime come identificando i moti circolari del
cielo con i procedimenti razionali dell’intelletto dell’anima del cielo, e come assegnando
all’attività dell’intelletto umano la forma del
moto circolare. Le anime immortali fabbricate
dal demiurgo sono tante quante le stelle; preliminarmente alla loro congiunzione con il
corpo, esse vedono dal cielo «la natura del tutto», e sono istruite dal demiurgo circa le regole della sorte che le attende nella loro vita immortale (cioè passante da un corpo a un altro);
di nuovo, il cielo è coinvolto in questa ciclicità
escatologica. Come si vede, nel Timeo Platone
conserva gli elementi più notevoli dei precedenti miti non ancora verosimili; l’innovazione
sotto questo profilo è data dal fatto che il cielo, prima ancora di essere un luogo per anime
immortali, è qualcosa che è fatto degli stessi
ingredienti, di cui le anime immortali sono fatte.
Questo insieme di collegamenti tra il cielo,
l’anima e il divino ha la sua ultima formulazione nelle Leggi (l’ultima opera di Platone). Il riconoscimento che l’ordine dei moti visibili degli astri richiede una o più anime divine che li
governino è una delle fonti nella credenza negli dei; solidale a questa concezione è l’emergenza di una «teologia astrale» (secondo
un’espressione corrente negli storici). In
quest’opera – e ancor più nell’Epinomide, che
però molto probabilmente fu redatta da un
suo scolaro, Filippo di Opunte – la teologia
astrale tende a venire in primo piano e a occupare tutta la scena, per così dire; c’è una sorta
di eclissi della dialettica, e di tutto il retroterra
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teoretico ancor ben visibile nel Timeo. In un
passo Platone solleva il problema, in quale
modo l’anima del cielo governi i moti degli
astri, affrettandosi però a dichiarare che ciò
che importa è il riconoscimento del carattere
divino dell’anima celeste. Si tratta di una questione teologica, che si pone in collegamento
con l’astronomia e la cosmologia; tra le risposte possibili c’è quella che pone un’anima del
cielo che non dispone di un corpo, ma possiede proprietà ancora più meravigliose – una risposta dunque che aumenta la distanza di tale
anima dal corporeo. Tuttavia, il divino delle
Leggi è ontologicamente molto più vicino al
cielo di quello del Timeo: il demiurgo del Timeo
era all’origine di questo tutto e del suo ordine,
della sua anima e del suo corpo; nelle Leggi invece l’anima e il corpo del cielo ci sono già nel
mondo, e la questione «teologica» coincide
tendenzialmente con quella riguardante il loro
rapporto.
III. IL CIELO E I MOTI PLANETARI. – Anticipiamo
qui una delineazione sommaria della storia
dell’astronomia antica, nei suoi aspetti più direttamente connessi con la storia filosofica del
cielo. L’immagine dell’universo a due sfere cominciò ad affermarsi all’epoca della giovinezza
di Platone. In una prima fase gli studi specialistici di astronomia furono rivolti ai cicli calendariali, a una descrizione più definita della sfera delle stelle fisse e alla correlazione tra ciclicità celesti e fenomeni meteorologici; in questa fase astronomia e meteorologia non erano
nettamente separate; e nella cultura diffusa esse rimasero strettamente connesse fin nella
tarda antichità. Una certa spinta alla separazione venne da un lato dalla filosofia platonica, dall’altro dall’emergenza di un problema
particolare, quello dei moti planetari. Va peraltro sottolineato che i moti planetari rimasero a lungo un ambito di ricerca insieme molto
specialistico, molto difficile e controverso; per
tutti questi motivi molto lentamente vennero
a occupare quel ruolo, che li pose al centro
della vicenda che si concluse con la cosiddetta
«rivoluzione copernicana». Qui accenneremo
soltanto alle grandi tappe della storia di questo problema.
I sette pianeti (compresi il sole e la luna) si
muovono tra la terra e la sfera delle stelle fisse, approssimativamente ruotando sul piano
dell’eclittica a velocità non uniforme, che tuttavia appare variare con una qualche periodicità. Il fenomeno più sorprendente (che non si
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manifesta per il sole e la luna) è dato dalle retrogradazioni: a intervalli soltanto approssimativamente regolari i pianeti invertono il
senso del loro spostamento longitudinale medio rispetto alle stelle fisse («vanno all’indietro», per così dire), poi, dopo qualche tempo
riprendono il loro «cammino» normale (cioè,
nel senso dello spostamento medio); le curve
descritte con tale retrogradazione sono solo
approssimativamente simili.
Il primo a produrre un modello planetario, che
affrontasse il fenomeno delle retrogradazioni
fu Eudosso di Cnido (prima metà del IV secolo
a. C.); la sua fama peraltro è dovuta al fatto che
fu incorporato da Aristotele nella sua cosmologia. Eudosso suppone per ogni pianeta un
insieme di sfere concentriche: ciascuna sfera
ruota di un proprio moto uniforme su un proprio asse; entro ciascun insieme, l’asse di ciascuna sfera interna è imperniato nella superficie interna di quella immediatamente più
esterna, ereditandone così il movimento;
l’astro visibile si trova sempre sulla sfera più
interna dell’insieme. Il collegamento dei moti
delle diverse sfere spiega, in generale, la complessità apparentemente irregolare dei moti
celesti, come effetto della composizione di più
moti circolari uniformi. Nel seguito, il requisito della circolarità e uniformità dei moti diventerà una delle principali condizioni per l’accettabilità di un modello planetario. Nel caso dei
pianeti che presentano retrogradazioni Eudosso otteneva una curva somigliante a quelle visibili, regolando l’inclinazione dell’asse delle
due sfere più interne e le loro velocità di rotazione. Il modello di Eudosso segna un importante progresso; matematicamente, contiene
una prova molto brillante di geometria (che si
ispira ai metodi del pitagorico Archita). Astronomicamente ha gravi difetti; pensato per il fenomeno delle retrogradazioni, non riesce a generarle, non appena gli si assegnino i valori
numerici richiesti dalle conoscenze dei cicli.
Eudosso non sembra aver applicato metodicamente il suo modello ai fenomeni. Callippo
(probabilmente suo scolaro) al fine di migliorarlo aumentò il numero complessivo delle
sfere; ma i difetti fondamentali del modello
non sono eliminabili. Probabilmente a causa
di questi limiti, il modello planetario a sfere
concentriche ebbe vita breve; quasi certamente era stato già abbandonato alla fine del IV secolo a. C. La documentazione che possediamo
fa pensare che, se Aristotele non ne avesse
Cielo, Cieli
parlato nel cap. 8 del libro XII della Metafisica,
probabilmente oggi non ne sapremmo più
nulla.
Nel sec. III a. C. Aristarco di Samo scrisse un
saggio (perduto), in cui faceva l’ipotesi che la
terra girasse attorno al sole (fermo al centro)
compiendo un moto annuale di rivoluzione
sull’eclittica, e insieme compia un moto quotidiano di rotazione su se stessa (e la luna
compiesse un moto di rivoluzione intorno alla
terra). Per questo è stato chiamato «il Copernico dell’antichità». Ma non abbiamo nessuna
informazione circa tesi di Aristarco sugli altri
pianeti, in particolare riguardo al fenomeno
delle retrogradazioni. In ogni caso, la sua ipotesi non determinò nella cultura antica quelle
reazioni, che si ebbero nel Cinquecento con
Copernico; in generale, le implicazioni delle
controversie sui moti planetari, che la storia
successiva ci fa apparire così evidenti, non furono avvertite complessivamente dalla cultura
dell’antichità.
La forma finale delle teorie antiche sui moti
planetari fu raggiunta con l’adozione della famiglia di modelli cosiddetta degli «eccentrici»
e degli «epicicli». Le irregolarità fenomeniche
vennero spiegate o assumendo che i pianeti
ruotassero lungo cerchi il cui centro non coincideva con la terra (così da dar luogo a variazioni nella loro velocità angolare apparente),
oppure assumendo che i pianeti ruotassero
lungo un cerchio – l’epiciclo – il cui centro a
sua volta ruotava lungo un altro cerchio – il deferente – concentrico alla terra (così da dar
luogo non solo a variazioni nella velocità angolare, ma eventualmente anche alle retrogradazioni, mediante il moto dell’epiciclo), oppure infine combinando le due assunzioni (come
accadde molto di frequente). La superiorità
astronomica di questa famiglia di modelli era
grandissima: infatti, in funzione della loro applicazione ai fenomeni, potevano essere fatte
variare indipendentemente sia le grandezze dei
raggi dei diversi cerchi, sia le loro velocità di
rotazione; inoltre i diversi cerchi potevano essere connessi obliquamente. Per usare
un’espressione moderna, questa famiglia di
modelli godeva di una grandissima flessibilità,
in confronto con la rigidezza estrema delle sfere concentriche; questo la rendeva capace di
adottare agevolmente i valori numerici ricavabili dalle osservazioni e conseguentemente di
produrre previsioni, in vista del proprio perfezionamento. Gli autori di questo sistema pla7
Cielo, Cieli
netario furono essenzialmente Ipparco di Nicea (II sec. a. C.) e Tolomeo (circa 100-170 d.
C.); al primo va assegnata soprattutto l’impostazione stessa di questo programma (con ammirevoli ampliamenti della strumentazione
matematica), al secondo il suo compimento
quasi completo, con la trattazione svolta
nell’Almagesto. Secondo l’autorevole storico
O. Neugebauer non accadde più niente di veramente importante nell’astronomia matematica tra Tolomeo e il Cinquecento.
Dal punto di vista della scienza astronomica ci
fu dunque un notevole progresso nel periodo
che va da Eudosso a Tolomeo; ma questo progresso non ebbe implicazioni molto vistose
per il cielo come oggetto filosofico. Platone
aveva privilegiato il cielo, sotto il profilo della
sua intelligibilità, nella Repubblica, e aveva
confermato, e anzi rinforzato, questa posizione nel Timeo, con la dottrina dell’anima celeste
del tutto. Questo passo platonico era avvenuto in anticipo sui successi dell’astronomia geometrica. I tratti specifici, nei quali si era fissato questo privilegio, erano stati la circolarità e
l’uniformità dei moti. I progressi dell’astronomia matematica non fecero che portare conferme a questa concezione, al di là delle differenze nella modellizzazione geometrica. Data
la comprensione spontaneamente realistica
dei modelli geometrici, l’astronomia scientifica greca fu immediatamente geocentrica. La
possibilità di un abbandono del geocentrismo
fu intravista; ma una fisica adeguata per l’accettazione di un movimento della terra non fu
mai elaborata. D’altra parte, i modelli con gli
eccentrici e gli epicicli mantenevano nei cieli
una complessità di movimenti (consistente
anche in moti di rotazione connessi, ma in
sensi opposti, come in una sorta di grande
orologio), che non si pensava spiegabile altrimenti che in base a intelligenze divine; e la regolarità dei moti celesti, che l’astronomia riconosceva attraverso la loro complessità apparente, rinforzava la sensazione di un contrasto
radicale tra la sfera dei cieli e quella sublunare
e terrestre. I successi dell’astronomia antica
nella trattazione dei moti planetari rinforzarono l’idea che i moti celesti richiedessero spiegazioni differenti.
IV. ARISTOTELE. – Come Platone, anche Aristotele (384-322 a. C.) ritiene l’assetto cosmologico dato con l’universo a due sfere manifestamente vero. Egli cita con qualche cautela le teorie planetarie di Eudosso e Callippo, e in ge8
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
nerale si rifà alle dottrine degli astronomi matematici; tuttavia non parla mai in prima persona come un astronomo matematico. La sua
prospettiva, nel parlare del cielo, è sempre
quella del fusikov" («fisico» o «naturalista»),
entro la quale in generale le dottrine relative
specificamente al cielo sono integrate strettamente in quelle cosmologiche.
La sua innovazione forse più notevole consiste
nell’introduzione (nel De caelo) di un tipo di
corpo specificamente proprio del cielo, che
chiama «primo corpo» e «etere», e che in epoche successive sarà chiamato «quintessenza».
La motivazione di fondo qui è spiegare l’assetto cosmologico mediante la natura dei corpi. In
effetti, la totalità corporea (finita in estensione) che costituisce l’universo è internamente
diversificata; questo dipende dalla diversa natura dei diversi corpi: la natura è per ciascun
corpo il principio interno e causa del comportamento proprio quanto al moto e al cambiamento in generale. Il primo dei cambiamenti è
il moto; spiegare l’universo mediante la natura
dei corpi è allora assegnare ai corpi elementari
i moti per natura richiesti dall’assetto cosmologico. Ora, visto che quei moti sono il rettilineo e il circolare, e che l’assetto cosmologico
richiede inoltre di distinguere i moti «verso
l’alto» da quelli «verso il basso», e dato che
non è possibile assegnare ai corpi elementari
comunemente ammessi (terra, acqua, aria,
fuoco) il moto circolare come proprio per natura (questi infatti si muovono per natura di
moto rettilineo), Aristotele argomenta che è
necessario che ci sia un corpo elementare, cui
è proprio per natura il moto circolare; e questo
è il tipo di corpo proprio del cielo
Questa spiegazione dell’assetto cosmologico,
mediante l’assegnazione ai corpi elementari di
un moto naturale distinto, ha l’effetto di produrre un mondo spaccato dinamicamente. Infatti
la teoria dei moti naturali è elaborata in anticipo su qualsiasi considerazione dinamica; essa d’altronde implica l’esistenza di moti contro natura, «per violenza», spiegata mediante
l’interazione tra corpi. Ora, si ha qui un fenomeno secondario: un corpo si muove secondo
natura, a meno che l’interazione lo impedisca.
D’altra parte, per trattare il principale fenomeno dinamico, le velocità, è indispensabile considerare l’interazione tra corpi. Dunque la «dinamica» aristotelica interviene in un mondo
che c’è già, prima di essa, e che è prodotto e
spiegato da moti che sono originariamente in-
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
dipendenti dall’interazione reciproca dei corpi, e che è impossibile unificare secondariamente. La spaccatura è particolarmente vistosa nel caso della differenza radicale tra il corpo
del cielo e quelli sublunari. Va notato d’altronde che l’astronomia matematica antica, soprattutto per il suo geocentrismo, suggeriva
fortemente questa spaccatura (come unificare
le spiegazioni di comportamenti di moto così
differenti come quelli celesti e quelli terrestri?), e i suoi successi scientifici ebbero sempre l’effetto di corroborarla.
Il corpo celeste aristotelico è caratterizzato, a
differenza degli altri elementi corporei, come
esente da ogni contrarietà (quindi né pesante
né leggero, né caldo né freddo), come non soggetto a cambiamenti e immortale. Ma il cielo
mostra una pluralità di aspetti osservabili, che
le peculiarità del corpo celeste e la naturalità
del suo moto non bastano a spiegare. Nel libro
II del De caelo sono sollevate alcune questioni
al riguardo (la domanda è per lo più del tipo:
perché il cielo è così e non altrimenti?), e proposte alcune soluzioni (nelle quali è talora
presente la ragione del meglio). Nella più significativa, per il mondo spaccato dinamicamente viene ritrovata un’unitarietà sul terreno
dei processi generativi. Perché (cap. 3) i moti
celesti sono più di uno (il riferimento è ai due
moti, lungo l’equatore e lungo l’eclittica)? Il
cielo è divino, quindi necessariamente ha quel
corpo cui è proprio per natura quel moto che
può durare eternamente. Ma non è possibile
che il corpo dell’universo sia tutto quale il corpo del cielo, perché il moto circolare richiede
un centro immobile, e questo non può essere
occupato dal corpo del cielo, perché tale immobilità sarebbe per esso contro natura. Dunque deve esserci la terra, e con essa devono
esserci tutti gli altri corpi semplici sublunari.
Di conseguenza, per l’azione reciproca degli
elementi terrestri, ci saranno i processi di nascita e morte; ma ciò richiede che ci sia l’altro
moto celeste (quello obliquo lungo l’eclittica),
nel ruolo di governo e garante di quei processi.
Più precisamente: il sole, con il suo moto annuale lungo l’eclittica, agisce come causa dei
processi di alterazione corporea sulla terra,
principalmente facendone variare periodicamente le condizioni di caldo e freddo, e in questo modo assicura il mantenimento nella corporeità terrestre delle condizioni necessarie
per il mantenimento dei processi dei viventi.
Questa spiegazione si ispira al Timeo, per il
Cielo, Cieli
ruolo assegnato al movimento lungo l’eclittica
(il cerchio del diverso), cioè quello di introdurre una diversità controllata da un andamento
ciclico. Aristotele fa assolvere qui la funzione
di causa e di controllo di tale variazione al sole
(che quindi diviene l’astro che collega la processualità terrestre di base con i moti celesti),
senza arretrare di fronte alla difficoltà data dal
fatto che il sole (corpo etereo, dunque né caldo né freddo) sembrerebbe non poter agire
sulle variazioni di temperatura dei corpi terrestri. Nella Meteorologia sono escogitati faticosi
aggiustamenti ad hoc per questa incoerenza
dottrinale. Va notato che compare qui l’idea di
un’efficacia causale strettamente unidirezionale
tra corpi.
Ora, è possibile lasciare sullo sfondo quella
parte della cosmologia costruita con l’astronomia e basata sulla teoria dei moti, e far venire in primo piano la parte biologico-meteorologica della cosmologia, mantenendo insieme un ruolo per la dottrina di un corpo specifico del cielo: in questa direzione, il corpo del
cielo tende a diventare il principio organizzante di un tutto pensato tendenzialmente come
un’unità organica. Per un tale ruolo del primo
corpo (molto diverso da quello assegnatogli
nel De caelo) c’è in Aristotele solo uno spunto
embrionale: in un passo del De generatione animalium è detto che il veicolo somatico della
trasmissione della forma dell’anima nei processi generativi dei viventi (dato con lo sperma
maschile) è un «corpo diverso e più divino dei
cosiddetti elementi», la natura del quale è
«analoga all’elemento degli astri» (libro II, 3,
736 b 35). Si noti che si ha qui un’analogia,
quindi non un’identità. Peraltro l’idea di un legame e un’affinità del corpo dei cieli con la
corporeità attiva nei processi generativi dei viventi ebbe presto sfruttamenti dottrinali. Nel
primo successore di Aristotele alla guida del
Liceo, Teofrasto (372-289 a. C.), mentre la
componente astronomica della cosmologia
del maestro tende a perdere rilievo, emerge,
seppure in formulazioni molto caute, la nozione di un corpo celeste distinto, caratterizzato
primariamente dal proprio ruolo nei processi
dei viventi – una sorta di fuoco, che però non
brucia, ma vivifica. Sempre in questa direzione, gli stoici appaiono ignorare del tutto, per
quasi due secoli, il problema dei moti planetari, e producono un cosmo pensato come un
grande organismo vivente permeato e guidato
da un «pneuma» attivo onnipervasivo. Nello
9
Cielo, Cieli
stoicismo sopravvive solo una debole eco della differenza qualitativa del cielo rispetto alla
terra: Zenone pensava che gli astri possono
essere considerati dei (Cicerone, De natura deorum, libro I, 36), Cleante che dio è presente
principalmente nel sole (H. von Arnim [a cura
di], Stoicorum Veterum Fragmenta, Leipzig,1901-05, vol. I, p. 499).
Aristotele introdusse dunque il corpo celeste
in un contesto fisico e astronomico; in seguito
fu utilizzato a fini esplicativi per classi di processi terrestri e meteorologici. Nella sua prima
funzione troverà a lungo una corroborazione
nell’astronomia matematica; infatti, la differenza radicale dei comportamenti di moto dei
cieli appariva richiedere una corporeità differente, come parte della sua spiegazione.
Nell’altra funzione, nel momento in cui viene
in primo piano il ruolo vivificante del corpo del
cielo, affiora la tesi che tale corpo sia la materia dell’anima in generale. Si ha qui una formazione dottrinale che fonde ingredienti platonici (il rapporto dell’anima con i cieli nei miti),
aristotelici (la speciale corporeità del cielo) e
stoici (la corporeità dell’anima), ma che non è
coerente con nessuna delle sue fonti (è incompatibile soprattutto con Aristotele) – una formazione dottrinale suscettibile di elaborazioni
diverse. Qui segnaliamo la sua presenza
nell’ebreo Filone di Alessandria (attivo nel I
secolo d. C., e di cui è caratteristico lo sforzo di
fondere le tradizioni giudaica ed ellenistica),
che dice che l’anima umana è un «frammento»
della quintessenza, da cui sono nati «gli astri e
il cielo intero» (Filone di Alessandria, Quis rerum divinarum heres sit, p. 283).
Ritornando ad Aristotele, va citato il ruolo del
cielo nella dottrina dei motori immobili. Tale
dottrina è sostenuta due volte (in Metafisica, libro XII e in Physisica, libro VIII) con argomenti,
la cui complessità non consente un esame qui.
È comunque da notare che l’impostazione di
entrambe le dimostrazioni è a priori: nessuna
procede assumendo le proprietà del cielo. In
particolare, in entrambe è richiesta l’eternità
del movimento, e Aristotele non ritiene che
basti assumere una successione temporale infinita di movimenti finiti, bensì che siano richiesti singoli movimenti eterni. Tuttavia egli
non assume a questo scopo l’eternità dei moti
celesti come premessa dell’argomento; piuttosto, i moti eterni implicati dall’argomento sono identificati nei moti del cielo; le proprietà
del cielo dunque non costituiscono un anello
10
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
della sequenza dimostrativa, bensì si trovano
alla sua conclusione, e la confermano. Peraltro
Aristotele fin dal principio fa riferimento ai cieli, come sostanze mobili eterne; soprattutto,
condizione necessaria dell’eternità di un moto
è la sua circolarità, e questa condizione è soddisfatta manifestamente dai moti celesti. Di
fatto, dunque, il riferimento al cielo e alle sue
proprietà è in certa misura presente tra le premesse dell’argomento.
Un legame stretto tra il cielo e i motori immobili è presente nel famoso capitolo della Metafisica (libro XII, 8), in cui Aristotele incorpora le
sfere concentriche di Eudosso nella sua dottrina. L’argomento aristotelico richiede soltanto
che i motori immobili siano finiti e insieme;
resta aperta la domanda, quanti sono (anche
se a volte Aristotele si esprime, come se pensasse a un solo motore immobile). Il procedimento corretto per rispondere a questa domanda – propriamente: qual è il numero dei
membri della popolazione della classe delle
sostanze motori immobili, della quale è stata
dimostrata la necessità? – passa attraverso la
considerazione dei movimenti, cui l’astronomia matematica sta riducendo i moti visibili
degli astri: posto che ogni singolo movimento
ottenuto con questa riduzione è mosso da un
unico motore, i primi motori saranno tanti,
quanti sono quei movimenti. Ciò porta Aristotele a citare, a titolo di esempio, le sfere concentriche di Eudosso, quindi la loro modificazione
da parte di Callippo; egli nota poi che, se si
vuole che i distinti sistemi di sfere di ciascun
pianeta siano collegati tra loro, è necessario
aggiungere altre sfere; perviene così a un totale di cinquantacinque, aggiungendo però che,
se si apporta una certa modificazione (non
chiara), saranno quarantasette.
Sotto quale profilo Aristotele dipende qui
dall’astronomia matematica, sotto quale no?
Il procedimento da lui proposto come corretto
dipende dalla validità della riduzione, metodicamente praticata dall’astronomia contemporanea, dei moti fenomenici degli astri a moti
circolari e uniformi; altrimenti non sarebbe
nemmeno proponibile. Aggiungiamo che Aristotele comprende realisticamente questa riduzione (altrimenti non avrebbe senso la correlazione stessa movimenti-motori). Tale procedimento non è invece vincolato alle particolari versioni della teoria planetaria che cita; va
sottolineato il tono disimpegnato, con cui sono citate, e la varietà delle risposte effettive
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
elencate (sembra addirittura esservi disattenzione nel conteggio delle sfere). Tuttavia sarebbe sbagliato dire che il procedimento aristotelico sia compatibile senza problemi anche con modelli molto diversi, quali quelli
successivi degli eccentrici e gli epicicli. Infatti
la dottrina dei corpi naturali semplici e dei
moti naturali (del De caelo, ma riconfermata in
questo capitolo della Metafisica) implica centri
immobili, quali non saranno quelli dell’astronomia successiva; Aristotele dunque si vincola
in questo capitolo a un cielo fatto di sfere concentriche.
Le sfere celesti sono sostanze corporee mobili;
i loro motori sono sostanze immobili incorporee, che dunque costituiscono un livello di sostanze ulteriore a quello corporeo; in questo
senso essi sono trascendenti. Peraltro restano
vicinissimi, visto che la loro popolazione è determinata a partire dai moti celesti visibili di
cui essi sono cause. Il libro XII della Metafisica
è principalmente una trattazione dei tre livelli
delle sostanze: sensibili e transitorie, sensibili, mobili ed eterne (i cieli), non sensibili, immobili ed eterne. Gli ultimi due livelli sono, in
modo diverso, divini, ma l’ottica del libro non
è teologica. È stato tuttavia letto frequentemente come uno scritto di teologia; una delle
questioni più discusse è stata quella sollevata
dalla compresenza dell’affermazione di molti
motori immobili con l’affermazione di un primo motore immobile. Qui basti osservare che
l’astronomia delle sfere concentriche può essere servita ad Aristotele per attenuare questo
contrasto. Infatti le sfere che egli aggiunge a
quelle degli astronomi sono espressamente
motivate dall’intento che tutte le sfere restino
«collegate», così da costituire una successione connessa. Così i molti motori immobili non
sono compresenti come una costellazione, ma
come membri di una successione unitaria, di
cui la successione astronomica delle sfere celesti è la riproduzione; e il motore del primo
cielo è primo di una successione unitaria.
I motori immobili sono cause per i mossi dei
loro moti, e questi mossi sono i cieli; i cieli e i
loro motori costituiscono la popolazione del
divino; dunque questa relazione causale è al
centro della concezione aristotelica del divino.
Peraltro, come è stato notato da molti, Aristotele dice a questo proposito meno di quel che
ci si aspetterebbe (ciò che sembra confermare
che la sua prospettiva non è in primo luogo teologica). Certamente i motori sono cause effi-
Cielo, Cieli
cienti; ma non è facile capire in che modo tale
efficacia si attui. Una tradizione interpretativa
già antica e molto diffusa ha ritenuto che
l’aspetto di causa motrice si combinasse qui
con quello di causa finale – sebbene questo
secondo aspetto non sia presente in modo evidente nelle parole di Aristotele. In un passo famosissimo egli dice che un motore immobile
«muove come un amato»; questa frase contiene un paragone, non dice quindi che il motore
è amato dal cielo; è tuttavia possibile intenderla in questo secondo senso, cioè che il motore muova il cielo in quanto amato. Elaborando questo punto, il movimento del cielo è pensabile come espressione di una tendenza quale quella di un amante all’assimilazione
all’amato (ed è possibile pensare il movimento dei cieli come una sorta di imitazione). Così
il motore si configura come una sorta di fine.
Sebbene tutto questo sembri andare oltre
quanto scrive Aristotele (e sarebbe più conforme alla filosofia aristotelica che il fine del movimento del cielo fosse la realizzazione piena
di se stesso, non l’assimilazione ad altro), storicamente la concezione di un cielo mosso
dall’amore verso il suo motore divino è stata
ripetutamente associata al nome di Aristotele;
è quasi una consuetudine citare qui il verso
dantesco «l’amor che move il cielo e l’altre
stelle».
V. ELLENISMO E TARDA ANTICHITÀ. – All’epoca ellenistica è dovuta una importante novità culturale relativa al cielo: dalla pratica della divinazione – la quale risaliva a epoche molto più
antiche, ed era largamente diffusa anche fuori
dal mondo greco – nasce l’astrologia. I tratti
distintivi dell’astrologia erano dati, in primo
luogo, dal fatto che in essa il ruolo di segno
per la previsione veniva riservato ai fenomeni
celesti, più precisamente alle configurazioni
astrali studiate dall’astronomia matematica
(caratterizzate da una perfetta regolarità e da
una prevedibilità autonoma) e, in secondo
luogo, dal fatto che essa poteva giustificare la
propria pretesa di prevedere in base all’assetto cosmologico ormai assunto dalla cultura
greca – e tanto più lo poteva, quanto più era ritenuta stretta la catena causale interna al cosmo. Tutti questi caratteri fanno dell’astrologia, intesa in senso preciso, un fatto culturale
specificamente greco; la sua nascita non è anteriore al sec. II a. C. (i più antichi oroscopi greci rimastici sono del sec. I a. C.). Di norma
all’astrologia era associata la concezione di un
11
Cielo, Cieli
cielo eterno ed efficace sulle cose in terra, in
quanto origine di una corrente unidirezionale di
influssi causali sui corpi terrestri; e questa
concezione reintroduceva l’idea di un cielo
profondamente diverso rispetto alla terra.
Sebbene l’astrologia non avesse una definita
affiliazione filosofica, essa sotto questo profilo
era associabile piuttosto al platonismo e
all’aristotelismo, al quale attinse per le spiegazioni fisiche della causalità del cielo (mentre nella cultura generale essa apportava argomenti a favore della visione del cielo come divino).
Tutto questo insieme di dottrine filosofiche relative al cielo si ritrova in Tolomeo. Nell’Almagesto egli riafferma la diversità radicale del corpo dei cieli (caratterizzandolo come massimamente sottile); la sua motivazione è che la diversità (messa in evidenza dall’astronomia
matematica) dei comportamenti dinamici dei
corpi celesti rispetto a quelli terrestri è compatibile soltanto con una differente costituzione
materiale dei cieli; e il principio esplicativo dei
moti celesti osservabili è fatto risiedere (nelle
Ipotesi planetarie) nella divinità degli astri, i
quali si muovono, entro una corporeità che
non fa ostacolo, in accordo con la loro intelligenza e volontà. Nel suo scritto astrologico (la
Tetrabiblos) pone i cieli come dotati di un ordine proprio immutabile e insieme come fonte
di influenze causali sulle vicende terrestri. Il
suo scritto musicologico (gli Armonici) ripropone nella parte finale la dottrina pitagoricoplatonica dell’armonia celeste, operando una
coordinazione tra sistemi musicali e configurazioni astrali. L’articolazione cosmica cieloterra, con la connessa differenza qualitativa
fondamentale, trova così la propria riconferma
entro l’enciclopedia scientifica della tarda antichità; essa passerà nella cultura e nella filosofia dei secoli successivi con la convalida apportatale dall’autorità di Tolomeo.
Nel neoplatonismo il quadro concettuale e
dottrinale entro cui situare il cielo è dato dalla
caratteristica concezione metafisica, secondo
cui la realtà è costituita da una successione di
piani gerarchicamente ordinati, e ciò che si
trova a ogni livello ha il principio della propria
spiegazione nel livello superiore. Il mondo
sensibile, di cui il cielo è parte, si colloca al livello più basso; il piano della sua spiegazione
risiede nel livello superiore, ipostatico,
dell’anima, di cui l’anima cosmica, talvolta
equiparata con la natura, è, per così dire, una
12
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
sorta di traduttore efficace nel corporeo. Ma
come giustificare il carattere privilegiato, entro il sensibile, del cielo, parte del sensibile?
Plotino (205-270 d. C.) si chiede perché, mentre le altre cose corporee godono della sola
immortalità specifica, solo i cieli sono individualmente immortali; non può né vuole addurre una spiegazione basata sulla corporeità
(non può dunque ammettere l’aristotelica
quintessenza); introduce allora, alquanto artificiosamente e rifacendosi al Timeo, una sorta
di maggiore vicinanza dell’anima celeste al livello ipostatico dell’anima rispetto alle anime
dei viventi terrestri (Enneadi, libro II 1, 5.1 ss.);
sopravvive qui, ridotta ai minimi termini, l’articolazione cielo-terra. In Proclo (412-485 d.
C.), la scansione gerarchica della realtà è sottoposta a una notevole amplificazione, con
l’inserzione entro i livelli gerarchici, e tra gli
uni e gli altri, di articolazioni triadiche (che
possono ulteriormente articolarsi). In una successione così dilatata diventa possibile inserire anche il cielo, che così tende a convertirsi
da parte del mondo sensibile a livello sensibile di una gerarchia ontologica; in modo embrionale ciò avviene nel Commento al Timeo,
dove è accennata un’articolazione del cielo in
triadi planetarie (chiuse in alto e in basso da
due enadi, la sfera delle stelle fisse e la luna).
In generale, un cielo organizzato in sfere concentriche si presta bene a una coordinazione
con articolazioni gerarchiche di ordine teologico. Come una delle prime espressioni di
questa tendenza (la quale consente molte variazioni), si può citare il cristiano noto con il
nome di Dionigi l’Areopagita (vissuto nella
prima metà del VI sec. d. C.); lungo questa direzione i cieli diventeranno i luoghi in cui si dispiega la gerarchia dei cori angelici. Sempre
entro questa tendenza, si può citare il filosofo
islamico al-Farabi (morto nel 950), il quale associa in modo puntuale alla successione delle
sfere celesti i diversi passi del processo di
emanazione (di tipo neoplatonico) all’origine
del mondo.
VI. DAL MEDIOEVO ALLA RIVOLUZIONE ASTRONOMICA. – La storia del cielo nel Medioevo cristiano
coincide inizialmente con la ripresa del Timeo.
Contro un atteggiamento prolungato di rifiuto
verso la mundana sapientia (il sapere degli antichi), contrastata alla verità rivelata del testo
sacro, il Timeo consentiva di riproporre, entro
la concezione di un’origine divina del mondo,
una cosmologia naturalistica, nella quale il
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
Dio del racconto della Genesi poteva essere coordinato con il demiurgo platonico e l’azione
creatrice del primo si scandiva analogamente
alla causazione del secondo. Rappresentativa
di questa tendenza fu soprattutto, ma non unicamente, la scuola di Chartres (le cui figure
principali vissero nel XII secolo). Il tratto forse
più ricorrente di tale coordinazione era dato
dall’articolazione della causalità in due livelli,
il primo all’origine del mondo (e consistente
nella sua creazione da parte di Dio) e il secondo interno al mondo. Il cielo qui veniva a occupare una posizione cerniera: oggetto diretto
della creazione divina, e tramite e fonte della
sua efficacia causale in terra. In questo quadro
poteva essere ricuperata la dottrina platonica
dell’anima del cielo – l’anima mundi – che poteva essere identificata o con la natura o con il
principio causale celeste agente sulla natura
terrestre. Le forme di questa relazione causale
tra cielo e terra potevano essere definite anche
molto diversamente. Va segnalato uno degli
effetti di questa ripresa platonica: l’astrologia
veniva legittimata, dato che la causalità del
cielo sulla terra rientrava in linea di principio
nell’ordinamento divino del mondo. Va aggiunto che diveniva possibile pensare di prevedere mediante l’astrologia il destino delle
religioni (di produrre quindi un «oroscopo delle religioni», e costruire così una storia di tipo
escatologico): l’influenza dei cieli si estendeva
così dal piano degli eventi appartenenti all’ordine stabile della natura al piano degli eventi
storici. Una concezione di questo tipo fu propria di Ruggero Bacone (morto nel 1292), il
quale la riprendeva in parte dall’astrologo arabo Albumazar (morto nel 886). Speculazioni di
questo tipo relative al cielo, ispirate a un Platone letto neoplatonicamente, sono presenti
fino al Cinquecento. Su questo sfondo va visto
il collegamento tra astrologia e magia compiuto da Marsilio Ficino (1433-99): la magia – capacità di operare efficacemente sulle forze naturali – ricava la sua efficacia da comunicazioni
invisibili esistenti tra tutte le cose (pensate come universalmente animate); i cieli dunque influiscono sulla terra, in un modo che l’astrologia decifra (più che spiegare). Sempre su questo sfondo va vista la polemica di Giovanni Pico della Mirandola (1463-94) contro l’astrologia, in particolare contro la dottrina dell’oroscopo delle religioni, respinta perché tale da
subordinare a leggi del corporeo un ordine ad
esso superiore.
Cielo, Cieli
Il cielo come luogo di realizzazione di un’armonia matematica, come mosso da un’anima
cosmica, come piano primario di manifestazione e di attuazione di un ordine, la cui origine trascende il mondo: sono questi i temi centrali del versante platonico della sua storia filosofica. Nel versante aristotelico di questa storia
il cielo è presente in quanto i suoi moti costituiscono un aspetto del più generale problema dei moti, e costituiscono una difficoltà
supplementare per la teoria dei moti naturali;
in primo piano sono in generale le concezioni
dinamiche. L’ammissibilità teorica (contro Aristotele) di un moto della terra (normalmente
di rotazione su se stessa) ebbe sostenitori tra
i non astronomi (tra i quali vanno citati Giovanni Buridano – morto nel 1359 – e Nicole
Oresme – morto nel 1382 – ; entrambi ritennero peraltro che di fatto la terra fosse immobile)
nei due secoli che precedono la pubblicazione
da parte dell’astronomo Niccolò Copernico
(1473-1543) del De revolutionibus orbium coelestium (1543). L’eliocentrismo di quest’opera
eliminava immediatamente la spaccatura dinamica tra il cielo e la terra, anche prima che
fosse prodotta una dinamica soddisfacente; la
scomparsa dei moti di retrogradazione dei pianeti, spiegati dall’eliocentrismo come l’effetto
apparente della composizione del moto eliocentrico della terra con il moto eliocentrico dei
pianeti, appariva da un lato semplificare i moti
planetari, dall’altro togliere dal cielo i moti
connessi, ma ruotanti in sensi opposti, quindi
aprire la via al conseguimento di spiegazioni
fisiche soddisfacenti. Peraltro agli occhi degli
astronomi specialisti, quella semplificazione
era illusoria: restavano anomalie residuali, in
misura tale che la loro spiegazione in Copernico richiedeva un numero di moti non inferiore
a quello dell’astronomia tolemaica. Lo scritto
risolutivo, dovuto a Keplero (1571-1630), qui
fu Astronomia nova (1609, il cui sottotitolo è
Physica coelestis), in cui avviene l’abbandono
dei requisiti della circolarità e uniformità dei
moti e il passaggio alle orbite ellittiche, nelle
quali le velocità variano secondo leggi fisiche.
La fisica celeste di Keplero è ancora immersa
in concezioni neoplatoniche; nell’Harmonice
mundi (1618) i principi dell’armonia sono applicati all’universo e c’è un tentativo di produrre una base teorica per l’astrologia; si può tuttavia dire che all’interno della sua scienza è ormai isolabile un nucleo meccanicistico, sulla
via che sfocia nella dinamica newtoniana.
13
Cielo, Cieli
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
Con la rivoluzione astronomica e la costituzione di una dinamica soddisfacente finisce, si
può dire, la storia del cielo come oggetto filosofico. Talvolta i cosmologi di oggi citano ciò
che è chiamato il «principio copernicano» (ma
che storicamente è piuttosto un effetto copernicano, fortemente integrato nella cultura
contemporanea): la terra non è in una posizione speciale nell’universo. La conseguenza immediata è che l’articolazione cielo-terra perde
significato, e il cielo non è più pensabile come
un luogo, in qualche senso, privilegiato del
mondo.
Opere e Autori
F. Franco Repellini
BIBL.: F.M. CORNFORD, Plato’s Cosmology. The Timaeus
of Plato, London 1937, traduzione e commento; T.
GREGORY, Anima mundi. La filosofia di Guglielmo di
Conches e la scuola di Chartres, Firenze 1955; TH.S.
KUHN, The Copernican Revolution, New York 1957; A.
KOYRÉ, La révolution astronomique. Copernic, Kepler,
Borelli, Paris 1961; S. SAMBURSKY, The Physical World
of Late Antiquity, London 1962; P. MORAUX, Quinta
essentia, in Realencyklopädie der classischen Altertumswissenschaft, a cura di A. Pauly, G. Wissowa e altri,
vol. XXXXVII, Stuttgart 1963, colonne 1171-1263; O.
NEUGEBAUER, A History of Ancient Mathematical
Astronomy, 3 voll., Berlin - New York 1975; T. WESTMAN (a cura di), The Copernican Achievement, Berkeley 1975; D.E. HAHM, The Origins of Stoic Cosmology, Columbus 1977; G.E.R. LLOYD, Saving the Appearences, in «Classical Quarterly», 28 (1978), pp. 202222; C. WILDBERG, John Philoponus’ Criticism of Aristotle’s Theory of Aether, Berlin - New York 1988; W.R.
KNORR, Plato and Eudoxus on the Planetary Motions,
in «Journal for the History of Astronomy», 21 (1990),
pp. 313-329; C.A. HUFFMAN, Philolaus of Croton,
Pythagorean and Presocratic, Cambridge 1993; B.
STEPHENSON, The Music of the Heavens: Kepler’s Harmonic Astronomy, Princeton 1994; D. PINGREE, From
Astral Omens to Astrology: from Babilon to Bîkâner,
Roma 1997; E. BERTI, Metaphysics L 6, in M. FREDE D. CHARLES FREDE-CHARLES (a cura di), Aristotle’s Metaphysics Lambda. Symposium Aristotelicum, Oxford
2000, pp. 181-206; G.E.R. LLOYD, Metaphysics L 8, in
M. FREDE - D. CHARLES FREDE-CHARLES (a cura di), Aristotle’s Metaphysics Lambda. Symposium Aristotelicum, Oxford 2000, pp. 245-272; F. FRANCO REPELLINI,
Tolomeo, in Storia della scienza, vol. I, a cura di S. Petruccioli, Roma 2001, pp. 963-979; F. FRANCO REPELLINI, Astronomia e armonica, in Platone. La Repubblica, tr. it. e commento a cura di M. Vegetti, vol. V, Napoli 2003, pp. 541-563; A. LINGUITI, Il cielo di Plotino,
in M. BONAZZI - F. TRABATTONI (a cura di), Platone e la
tradizione platonica. Studi di filosofia antica, Milano
2003, pp. 251-264.
• De caelo et mundo: Aristotele
• Genesi: Anonimo
• Die Fragmente der Vorsokratiker: Diels,
Hermann
• Fedone: Platone
• Fedone: Platone
• Fedone: Platone
• De caelo et mundo: Aristotele
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
• Politico: Platone
• Gorgia: Platone
• Gorgia: Platone
• Fedone: Platone
• Fedone: Platone
• Gorgia: Platone
• Fedone: Platone
• Repubblica: Platone
• Repubblica: Platone
• Repubblica: Platone
• Fedone: Platone
• Repubblica: Platone
• Fedro: Platone
• Fedone: Platone
• Repubblica: Platone
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
• Repubblica: Platone
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
14
Cielo, Cieli
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
• Timeo: Platone
• Almagesto: Tolomeo, Claudio
• Timeo: Platone
• Ipotesi planetarie: Tolomeo, Claudio
• Leggi: Platone
• Tetrabiblos: Tolomeo, Claudio
• Epinomide: Platone
• Armonici: Tolomeo, Claudio
• Timeo: Platone
• Timeo: Platone
• Leggi: Platone
• Enneadi: Plotino
• Timeo: Platone
• Enneadi: Plotino
• Timeo: Platone
• Commento al Timeo: PROCL
• Leggi: Platone
• Timeo: Platone
• Metafisica: Aristotele
• Timeo: Platone
• Almagesto: Tolomeo, Claudio
• Genesi: Anonimo
• Repubblica: Platone
• De revolutionibus orbium coelestium:
Copernico, Nicolò
• Timeo: Platone
• De caelo et mundo: Aristotele
• De caelo et mundo: Aristotele
• Timeo: Platone
• Meteorologia: Aristotele
• De caelo et mundo: Aristotele
• De generatione animalium : Aristotele
• De generatione animalium : Aristotele
• De natura deorum: Cicerone, Marco Tullio
• De natura deorum: Cicerone, Marco Tullio
• Stoicorum Veterum Fragmenta: ARNIM,
Hans Friedrich von
• Quis rerum divinarum heres sit: Filone
d'Alessandria
• Quis rerum divinarum heres sit: Filone
d'Alessandria
• Metafisica: Aristotele
• Metafisica: Aristotele
• Fisica: Aristotele
• Fisica: Aristotele
• Metafisica: Aristotele
• De caelo et mundo: Aristotele
• Metafisica: Aristotele
• Metafisica: Aristotele
• Astronomia nova: Kepler, Johannes
• Harmonice mundi: Kepler, Johannes
Autori
+ al-Farabi, Abu Nasr Muhammed Ibn
Muhammad
+ Anassagora
+ Archita
+ Aristarco di Samo
+ Aristotele
+ Bacone, Ruggero
+ Buridano, Giovanni
+ Cicerone, Marco Tullio
+ Copernico, Nicolò
+ Diels, Hermann
+ Eudosso di Cnido
+ Ficino, Marsilio
+ FILIPPO di Opunte
+ Filolao di Crotone
+ Filone d'Alessandria
+ Ipparco, di Nicea
+ Kepler, Johannes
+ Pico della Mirandola, Giovanni
+ Pitagora
15
Cielo, Cieli
+ Platone
+ Plotino
+ Proclo
+ Socrate
+ TEOFRASTO
+ Tolomeo (gnostico, II sec. d. C.)
+ Zenone di Cizio
Parole
- sensazione
- unità
Caratteri
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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA