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Dissenting Design
SIMONA COSENTINO, ELEONORA LUPO1
Introduzione
Il saggio è organizzato in quattro paragrafi. Nel primo verrà introdotta la
dimensione riflessiva e critica del design contemporaneo, attraverso un
excursus fenomenologico di pratiche progettuali che vanno dal critical design e dalla design fiction fino all’advanced design e al transformation design, facendo emergere di volta in volta gli aspetti di critica di tipo speculativo o di azione reale di cambiamento della realtà, che connotano la
proposta di visioni di futuro (reale, finzionale, poetico, distopico…) generalmente comune a tutti gli approcci, per sottolineare il contributo di una
azione tipo critico o visionario (o di scardinamento delle ortodossie) allo
sviluppo di innovazione. Da questo excursus, infatti, emergerà come possibile costante un atteggiamento progettuale definibile come “dissenso
dialogico”, generatore di un conflitto che può diventare dispositivo creativo e generativo (in questo excursus definitorio si farà spesso uso di citazioni e lemmi in lingua originale per non travisare il pensiero degli autori). Nel secondo paragrafo si passerà dalla scala dell’approccio dissenziente a quella degli artefatti e si tratterà in maniera più specifica la definizione di artefatti dissenzienti attraverso una serie di caratteristiche
(qualità) e relativi esempi. Nel terzo paragrafo conseguentemente si articoleranno le “qualità progettabili degli artefatti dissenzienti” con questo
intendendo quelle caratteristiche che connotano gli oggetti dissenzienti
che possono essere anche progettate in maniera intenzionale e puntuale
(e divenire dunque “variabili” oggetto di progetto). Il quarto paragrafo
argomenterà le conclusioni del concetto di design dissenziente interpretando in senso lato l’idea di conflitto progettabile tramite il design.
1
Il saggio è stato concepito di comune accordo tra gli autori, in particolare entrambi gli autori hanno scritto i paragrafi 2 e 3. Eleonora Lupo ha scritto i paragrafi 1 e 3.1; Simona Cosentino ha scritto i paragrafi 3.2, 3.3 e 4.
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La metodologia di analisi del saggio si basa su presentazione fenomenologica di casi studio e argomentazione e sistematizzazione di ipotesi teorico-progettuali.
1. La dimensione politica e critica del design contemporaneo: dissenso dialogico per attivare riflessioni e visioni
La dimensione politica del design è ormai accreditata da diversi anni: secondo l’European Design Innovation Initiative, una call lanciata dalla Commissione Europea nel 2011 per migliorare l’impatto del design nelle politiche di innovazione, il design è una leva per la crescita e la prosperità:
«Design is not just about the way things look, it is also about the way
they work. Design creates value and contributes to competitiveness, prosperity, and well-being in Europe» (Thomson, Koslkinen 2012 p.27). Poiché il design non si occupa più soltanto di beni (funzionalità, estetica dei
prodotti etc.) lo sviluppo di design policies supporta ad esempio anche i
settori pubblico-amministrativo e i servizi, i sistemi di educazione e ricerca, le imprese, le politiche di sviluppo etc. (Junginger, 2017), così come lo
stesso design beneficia di policies specifiche per aumentarne l’adozione,
l’applicazione e l’impatto ai fini dell’innovazione (Junginger, 2017).
Quello che tuttavia qui ci interessa approfondire e discutere è
l’emersione parallela di una dimensione politica del design non necessariamente istituzionale, ma impegnata socialmente e politicamente e praticata attraverso diverse declinazioni e approcci, da collaborativi, a critici,
a sovversivi. Questo tipo di design si esprime principalmente attraverso
una pratica di tipo riflessivo e critico, che non tende ad addomesticare e
irreggimentare alcuni paradossi della contemporaneità in maniera riduzionistica o risolutiva, bensì a renderli più espliciti e palpabili attraverso
processi e prodotti con obiettivi anche molto diversi, dalla sensibilizzazione alla provocazione al possibile cambiamento. In questo approccio la
connotazione “politica” sfuma da azione di governo della società e della
sfera pubblica a forma di critica sociale costituendo una sorta di deontologia etica del design.
Da una parte, i riferimenti culturali di un simile approccio si possono rintracciare in una visione di design come “fatto sociale totale” (Mauss,
1923) che guarda con una prospettiva più umana le dinamiche
d’innovazione, compiendo una svolta etica di responsabilità sociale, morale ed ecologica nella progettazione di prodotti, strumenti, infrastruttu-
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re: è sintomatico che già Victor Papanek (1971), nel suo testo bestseller,
nel descrivere il passaggio tra come il mondo è e come potrebbe essere,
usi l’espressione rebel with a cause per sviluppare l’abilità a vedere le cose in modo diverso e nuovo. Dall’altra i suoi prodromi storici sono riconoscibili nel movimento di design radicale italiano degli anni Settanta, in
cui la rottura con il passato (attraverso gesti persino plateali) costituiva il
pre-requisito per un progetto del nuovo che superasse gli esercizi utopici
degli anni Sessanta; o nella militanza politica (per quanto a volte opportunistica e poco credibile) del politically correct degli anni Novanta (Antonelli, 2011).
Le pratiche contemporanee di design impegnato sono spesso accompagnate da proposte di visioni di futuro, siano esse immaginifiche, visionarie e poetiche o di reale supporto alle strategie di cambiamento: quanto
più esse sono dissonanti, critiche, sovversive, provocatorie tanto più sono dirompenti poiché in grado di far riflettere e scatenare una reazione.
La progettazione intenzionale di dissensi, attuali e futuri, emerge quindi
come uno degli strumenti privilegiati del design socialmente, culturalmente e politicamente attivo.
1.1. Provocazione e straniamento
Tra gli esempi contemporanei più evidenti di approccio critico-riflessivo,
uno è quello del critical design teorizzato da Anthony Dunne e Fiona Raby
nel 1999. Dunne e Raby distinguono tra affermative design, conformato
alle aspettative culturali, sociali e tecniche, e appunto critical design che
opera in modo critico, fornendo valori alternativi sul piano culturale, sociale, tecnico ed economico. È un design che non risolve problemi o dà
risposte, ma fa pensare, usa la provocazione per stimolare la discussione
e il dibattito: «a form of ‘conceptual design’, meaning not the conceptual
stage of a design project, but a design proposal intended to challenge
preconceptions» (Dunne, Raby, 2001, p. 65).
Ad esempio nel progetto Is this your future? commissionato nel 2004 dallo Science Museum di Londra, gli autori propongono ipotetici prodotti basati sull’adozione, in un futuro non troppo lontano, di differenti possibili
ma realistiche forme di energia, con consistenti implicazioni di tipo etico
e politico (ad esempio lavoro infantile, o bio-fuel rigenerando liquidi organici umani). Un altro progetto, Technological dreams series del 2007,
porta a riflettere sulla relazione tra uomo e intelligenza artificiale, ipotiz-
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zando diversi scenari d’interazione e co-abitazione con robot con diverse
abilità e funzionalità (ad esempio superiorità, dipendenza, uguaglianza,
intimità rispetto all’essere umano) come se fossero delle forme di vita
autonome.
Dunne e Raby affrontano deliberatamente temi socialmente e culturalmente controversi e problematici (come il tema dell’eutanasia nel progetto After Life Euthanasia Device del 2009): poiché secondo i critical designer il mercato tende a rifiutare qualunque posizione critica o considerare come sospettoso o irreale qualcosa al di fuori del mainstream, Dunne
e Raby per coinvolgere le persone in ambiti particolarmente delicati tendono ad adottare strategie alternative basate sulla verosimiglianza e a
volte sullo humor, la sorpresa, la meraviglia, per generare una sorta di
complicated pleasure che dosa insieme novità e riconoscibilità, poesia e
fiction (Dunne e Raby, 2001). Lo stesso tipo di atteggiamento caratterizza
ad esempio il lavoro BrandX del 2007 dei designer Peter Allen e Carla
Ross Allen, che illustra come potrebbe apparire un disturbo della pelle in
persone affette da brand addiction: in pratica, i loghi di alcuni famosi
marchi della moda si riproducono come scarificazioni/cicatrici sulla parte
del corpo a contatto con l’oggetto (sia esso una borsa o degli occhiali,
contaminando così il braccio o il collo dell’utente).
I concetti di familiarità e straniamento sono comuni anche alla visione di
Annie Gentès e Max Mollon (2015) che considerano i critical artefacts come dei mediatori per esplorare e interrogare ciò che è sconosciuto. Questi artefatti sono, per gli studiosi, punti di partenza per una strategia di
design che incorpora, più che riflessioni su ipotesi d’uso, uno stimolo al
cambio di percezione o una sfida alla capacità interpretativa del senso
dell’oggetto. Si tratta di artefatti che spesso utilizzano la strategia narrativa del “perturbante” (Uncanny o Unheimlich, concetto sviluppato da
Sigmund Freud) per stimolare una sensibilità critica ed esplorare altre
possibilità, attraverso il coinvolgimento di tensione ed emozione. Secondo questa strategia gli artefatti sono concepiti per sembrare familiari e
non familiari nello stesso momento ed è necessario un equilibrio tra familiarità e straniamento, appropriazione e repulsione, per attivare un
processo d’interpretazione e assicurare una comprensione significativa.
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1.2. Riflessione e finzione
Altri autori (Sengers et al., 2005), in particolare in relazione alle tecnologie, propongono il concetto di reflective design, per sottolineare come
una riflessione critica sia necessaria per mettere in discussione supposizioni, ipotesi e preconcetti sull’uso e sulle implicazioni sociali delle tecnologie nella vita quotidiana per consentirne una migliore progettazione.
L’obiettivo di questa pratica (strutturata in diversi principi e strategie) è di
portare gli aspetti inconsci di un’esperienza con artefatti tecnologici a un
livello di maggiore consapevolezza, utile a utenti e progettisti: il reflective
design viene infatti definito: «a practice which combines analysis of the
ways in which technologies reflect and perpetuate unconscious cultural
assumptions» (Sengers et al., 2005, p. 49).
Più recentemente anche Dunne e Raby (2013) hanno evidenziato la natura speculativa del critical design, per ribadire il suo uso come strumento
per la creazione, piuttosto che di cose, di idee su possibili futuri: non si
tratta tanto di adottare tecniche tradizionali di predizione o forecasting
(ad esempio studi su trend e tendenze comunemente utilizzati in molti
ambiti del design, si pensi ad esempio la moda), quanto di attivare una
riflessione profonda su ciò che è socialmente e culturalmente desiderabile e auspicabile, oltre che possibile. Nessuno dei progetti di Dunne e
Raby, infatti, ambisce a essere realmente scientifico, quanto piuttosto a
schiudere l’immaginazione e generare nuove visioni e possibili storie: le
parole fiction, social dreaming ricorrono spesso negli ipotetici scenari
proposti e gli autori sottolineano spesso il fatto che, per proiettare al parossismo le condizioni attuali nel futuro, più che su science fiction si concentrano su quella che definiscono value fiction per sfidare le ortodossie
e funzionare come uno specchio distorto del presente: «In science fiction
technologies are often futuristic and social values are conservative, the
opposite is true in value fiction. In these scenarios technologies are realistic, but the social and cultural values are often fictional or at least highly
ambiguous» (Dunne, Raby, 2001, p. 63).
La dimensione finzionale (che sia poetica o perturbante) quindi è particolarmente appropriata per investigare rappresentazioni e aspettative collettive distopiche o dissenzienti rispetto allo status quo: in questo ambito
ricade quella che viene definita come design fiction, un approccio “visionario” di design che diventa generativo e trasformativo rispetto alla cultura materiale contemporanea, agli oggetti d’uso quotidiani, agli stili di
vita, al mercato. Il termine Design fiction è citato da Bruce Sterling nel
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2005, nel suo libro Shaping Things (Sterling, 2005, p. 30). Per «sospendere
lo scetticismo sul cambiamento» egli suggerisce di utilizzare «an approach to design that speculates about new ideas through prototyping
and storytelling » (Sterling, 2012). Anche Julian Bleeker, co-fondatore del
Near Future Laboratory e ricercatore presso Nokia, definisce la design fiction, in quanto unione di design, fatti scientifici e science fiction, uno
strumento per la rappresentazione di possibili futuri, specialmente in relazione alle connessioni tra organizzazioni umane e oggetti tecnologici,
combinando lo storytelling con la produzione materiale di oggetti
(Bleeker, 2009). Queste rappresentazioni, sono definite, in contrapposizione ai tradizionali prototipi di oggetti (che servono per verificare funzionalità struttura, meccanismi etc.), diegetic prototypes, ovvero «depictions of future technologies that demonstrate to large public audiences a
technology’s need, viability and benevolence» (Kirby, 2010, p. 41). Kirby
sostiene che i diegetic prototypes «have a major rhetorical advantage
even over true prototypes: in the fictional world – what film scholars refer to as the diegesis – these technologies exist as ‘real’ objects that function properly and which people actually use» (Kirby, 2010, p. 41).
Il catalogo TBD del Near Future Laboratory è un esempio emblematico di
fictional objects, ossia di prototipi extra-ordinari e provocativi che potrebbero far parte della vita quotidiana e ordinaria del futuro prossimo:
«TBD Catalog is a design fiction because it sparks conversations about
the near future. It serves to design-develop prototypes and shape embryonic concepts in order to discard them, make them better, reconsider
what we may take for granted» (Near future Laboratory, 2014, tbdcatalog.com).
1.3. Previsioni e narrazioni
Appare evidente che anche la dimensione temporale assume un ruolo
cruciale in questo tipo di design: non si tratta, però, come già anticipato
di un semplice uso di scenaristica o di trend research; qui il design è un
future maker che riflette in modo creativo espandendo i suoi campi
d’azione verso temi critici quali la giustizia sociale, salute, agenda politica,
educazione (Yelavich, Adams, 2014). Le previsioni di futuro o envisioning,
tipiche dell’advanced design (Celi, 2010) che il design articola devono
orientarsi in questo approccio critico verso una prospettiva di lungo termine, per evitare quell’effetto che Tony Fry definisce defuturing, ovvero
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l’adozione di un orizzonte corto di investimento da parte del design che,
dando priorità all’immediato, provoca l’abbandono del futuro. Per Fry
(2009) defuturing è uno stile di design che privilegia lo strumentale, rispetto al sociale, quando invece il ruolo di un design attivo politicamente
è quello di “prototipare il sociale” (Hunt, 2011) attraverso una critical
practice.
Sia le previsioni di futuro che i fictional objects creano delle vere e proprie
"narrazioni": ciò sposta il ruolo del designer verso quello di uno storyteller (design storytelling) o di un curatore (design curatorship) di nuovi valori
e significati piuttosto che di inventore di soluzioni, in cui agli utenti è richiesto un processo di interpretative design del senso degli oggetti: è un
design che non è pensato per l’immediata produzione e applicazione,
poiché «materialising unusual values in products not intended for production, but as a very powerful form of social critique» (Dunne, Raby,
2001, p. 63) per stimolare la riflessione.
Da questo punto di vista anche l’ambito della DesignArt fornisce interessanti spunti narrativi sia per la dimensione provocativa e/o poetica che
per la apparente non-funzionalità/disfunzionalità che spesso i suoi prodotti incarnano (anche se Dunne e Raby hanno espressamente specificato nel 2012 che il loro lavoro non deve essere visto come arte, in quanto
ha sempre una funzione utilitaria anche se non immediatamente percepibile). Il termine DesignArt è stato coniato da Coles (2005) per evidenziare la tendenza a sfumare i confini tra arte e design rendendo funzionale
l’arte o, all’opposto, compromettendo l’utilità del design con un forte atteggiamento estetico-espressivo che lo rende quasi un’opera d’arte (Lupo, 2011). Gli stessi Dunne e Raby (2001) sottolineano come il design può
imparare molto da artisti degli anni Novanta quali Liam Gillik (che nelle
sue opere esplora, ad esempio, i meccanismi di decision making nella
corporate culture) o il collettivo etoy (che usa la retorica della cultura
d’impresa – advertisment – per attaccare la corporation di giocattoli
eToy) che hanno riconfigurato le loro identità come impiegati di imprese
o organizzazioni immaginarie. Esistono tuttavia anche artisti (Sebastian
Brajkovic, Tejo Remy, Jeroen Verhoeven) che hanno concentrato la loro
produzione artistica su oggetti quotidiani (ad esempio pezzi
d’arredamento) in cui la forte enfasi concettuale o l’uso di linguaggi stilistici o espressivi sono utilizzati per disturbare il grado di familiarità con
questi oggetti, attraverso una diversa, anomala, configurazione formale,
giustapposizione o riferimento ad altre cose o idee (Julier, 2014).
In linea con questo approccio di contestazione, il movimento della Desi-
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gnArt si concentra principalmente su oggetti la cui produzione non è
pensata con fini funzionali, ma speculativi e riflessivi, a volte anche per
portare all’attenzione del consumatore come il mercato stabilisce in modo autoriale il valore economico di tali prodotti, a dispetto della costruzione, necessariamente collettiva, del loro significato e valore d’uso: sono
oggetti, questa volta concepiti da designer, più vicini alla logica del pezzo
unico, o delle edizioni limitate, che sono stati definiti da Marco Petroni,
curatore della Fondazione Plart di Napoli, “super-design”, poiché
nell’unione tra arte e design, “vanno oltre” la funzionalità dell’oggetto
(sottodimensionata in modo evidente nella progettazione), per sperimentare nuove soluzioni e proposte insolite dalla forte personalità o dal
carattere evocativo (Petroni, 2009).
1.4. Attivismo e trasformazione
In una dimensione più pragmatica, il design activism (Fuad-Luke, 2009)
rappresenta la faccia attiva e meno speculativa di questo approccio:
chiamato anche engaged design (Ericson, Mazè, 2011), include tutte quegli
approcci di design a forte implicazione sociale e politica che operano attraverso l’azione concreta nella realtà, e in particolare si concentra più su
processi che prodotti, che possano generare un impatto e cambiamento
positivo verso la sostenibilità, intesa sia in senso ambientale, ma soprattutto sociale ed economico. Per questo è chiamato anche transformative
design, a sottolineare la sua natura processuale e propositiva, in relazione a modalità d’azione e risultati attesi (Burns et al. 2006). Alastair FuadLuke sottolinea in particolare l’importanza del ruolo delle persone e della
partecipazione collettiva (co-design, co-creation e co-innovation) per quella
strategia di cambiamento che definisce “co-futuring”.
All’interno di questo approccio esistono, oltre ad azioni di tipo istituzionale, tattiche di tipo sovversivo/contestatorio, di tipo sia individuale che
collettivo, che fanno leva su collaborazione e coinvolgimento partecipativo e attribuiscono capacità progettuale ad attori non designer professionisti. Si tratta spesso di pratiche sperimentali di design semi-strutturato
o implicito, che abilitano soggetti e comunità in cerca di visibilità e risposte all’espressione e negoziazione di nuovi punti vista e possibilità su bisogni emergenti di tipo sociale, per esempio attraverso la contestazione
o l’occupazione, tattiche difficilmente addomesticabili o irreggimentabili
in una pianificazione dall’alto, a meno di perdere la loro vitalità e creativi-
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tà (citiamo ad esempio progetti di guerrilla urbana quali: Parking day, Reclaim the street, Green Guerrilla). Nonostante la natura spesso temporanea e performativa (da estemporanea a semi-permanente) queste azioni
hanno impatti mediamente duraturi e conformativi, sia nelle soluzioni
proposte, che nella costruzione del senso di identità e appartenenza. Design Act, un progetto di design per l’innovazione sociale, ha censito, in un
archivio on line, diverse tattiche (ed esempi di progetti) che tracciano delle particolari logiche di azione in questo ambito: tra quelle dissenzienti
emergono tattiche per “negoziare interessi conflittuali”; “riconoscere differenze”; “permettere l’azione”; “liberare l’espressione”; “dibattere sul futuro”; “hackerare strutture” etc. È interessante notare come i responsabili del progetto definiscono questo tipo di design «a curatorial, participative and open-ended activity» (Ericson, Mazè, 2011 p. 11) in linea con le caratteristiche di storytelling e interpretazione già incontrate.
1.5. “Design dissenziente”
Come abbiamo visto tante sono le terminologie adottate da diversi autori per definire il design che opera in una dimensione critico-riflessiva: Critical Design; Speculative design; Conceptual design; Interpretative design; Reflective design; Design fiction; DesignArt; Engeged/activist design.
Dal nostro punto di vista è possibile cogliere un atteggiamento progettuale costante in cui la dimensione critica si spinge fino alla progettazione di un conflitto o meglio di un dissenso, e proporre quindi una nuova
definizione di “design dissenziente”. Il concetto di dissenso, oltre a indicare un sentimento base di disaccordo, implica un conflitto di opinioni, di
punti di vista e di pensiero, comportando il sentire e pensare in maniera
differente rispetto a posizioni comunemente, e ufficialmente, diffuse e
condivise, nonché, in un accezione più specifica, il rifiuto di conformarsi
all’autorità o ad una stabilita predominante dottrina. In questo senso il
design dissenziente ha delle analogie (non solo fonetiche) con il dissonant design di Fuad-Luke (un approccio che promuove l’attivismo e una
positive disruption attraverso la progettazione di “frictions”) e
l’adversarial design di Carl DiSalvo (2012), basato sulla teoria politica
dell’Agonism o Agonistic pluralism, che enfatizzano gli aspetti positivi di
certe forme di conflitto politico.
Anche nel nostro caso si tratta di un dissenso connotato da un forte valore positivo poiché è usato come dispositivo creativo e generativo, ma
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in particolare si tratta di un “dissenso dialogico”. Infatti, nella nostra idea
di dissenso progettabile, sia esso critico in modo poetico o politico,
l’elemento costante è la ricerca di un dialogo pro-positivo: il riferimento
diretto, il confronto puntuale con la realtà problematica (degli oggetti,
degli stili di vita, dei valori attuali) sono spesso un punto di partenza per
ancorare a ciò che esiste (il mainstream, lo status quo, la conformità) la
possibilità di alternative, in modo da rendere, se possibile, ancora più
esplicito e riconoscibile il contesto di riferimento e comprensibile e socializzabile il legame, il nesso di senso che è sempre presente tra l’essere
consapevoli della realtà e il possibile miglioramento e cambiamento positivo, sia esso anche solo (all’inizio) in una rinnovata disposizione mentale. In questo senso ha aspetti comuni al conversational/dialogic/discursive
design: infatti, il dissenso, la critica, la contrapposizione, sono sempre
dialogici, generano discorsi – intesi come modi alternativi di rappresentare il mondo, (Fairclough 2003) – tanto tra presente e futuro degli artefatti, quanto tra singolo episodio e scala sociale e collettiva, grazie alla
dimensione relazionale degli oggetti e delle pratiche di design, che sono
costruzioni sociali, risultato di processi di adozione e negoziazione culturale e contestuale.
Gli aspetti sinora discussi (dalla dimensione critica e finzionale a quella
performativa o disfunzionale) possono caratterizzare non solo il processo di design ma anche la scala degli artefatti, che nel saggio definiamo
analogamente “artefatti dissenzienti”, intendendo con essi quel prodotto
di design (qui usato nel senso di risultato), sia esso un artefatto fisico o
concettuale, generato da un dissenso dialogico. Nel prossimo paragrafo
articoleremo la definizione di questi artefatti dissenzienti a partire da alcune dimensioni specifiche e qualità che li caratterizzano.
2. Artefatti dissenzienti: potere, innocenza e conseguenze degli oggetti
La consapevolezza che gli artefatti siano più che semplici oggetti ma materializzazione di relazioni, è riflessione comune a molte delle scienze
umane o che studiano la cultura materiale, così come al design: «Gli oggetti sono “presenze attive”, con cui l’uomo ha stabilito relazioni complesse […] segmenti di un universo umano fatto di relazioni materiali e
immateriali» (Branzi, 2007, p. 9).
Gli artefatti hanno una natura materiale e immateriale poiché hanno un
valore funzionale, di scambio, simbolico, sociale (Baudrillard, 1968) in un
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continuum emozionale e razionale (Rutelli, Bortolanza, 2006). Oltre alla
forte dimensione culturale (i valori culturali e la memoria che negoziano
e incorporano nel tempo) sono caratterizzati da una dimensione pragmatica come “attanti” (nel senso linguistico di partecipanti all’azione) essendo capaci di assumere significati e comportamenti in base ai contesti
in cui si trovano – si pensi ai valori e significati prossimi e remoti di un
oggetto rituale e/o etnico, di tipo funzionale nel contesto d’uso e comunità d’origine e di tipo estetico se de localizzato (Campione 2007) – e da
una dimensione cognitiva, come mediatori dei processi cognitivi di costruzione, modificazione e trasformazione della conoscenza umana, che
li rende soggetti attivi nella relazione con l’uomo o con altri oggetti (Colombi, Lupo, 2016).
Hanno quindi un considerevole potere che può essere attivato basandosi su fattori estetico-formali, configurativi e d’uso in grado di produrre
comprensione, o al contrario sforzo cognitivo, per esempio tramite iconicità, mimesi o dissonanza.
Il potere dirompente degli oggetti può essere indirizzato verso strategie
di controllo sociale, come quelle del consumo e del marketing, ma
all’opposto anche verso riflessioni e pensiero critico, come nel caso di
quello che abbiamo definito design dissenziente.
Nell’excursus fenomenologico del paragrafo precedente abbiamo visto
esempi di critical o reflective o speculative objects (Dunne, Raby, 2013;
Gentes, Mollon, 2015), fictional objects (Bleeker, 2009); la nostra proposta
è di definirli in modo analogo artefatti dissenzienti: per artefatti dissenzienti intendiamo quelle tipologie di artefatti che presentano come proprietà e obiettivi specifici il creare dissenso attraverso diverse strategie e
comportamenti, con il fine comune di proporre alternative a quelle esistenti. Gli artefatti dissenzienti mettono in questione, contestano, si ribellano e, in alcuni casi, obiettano, lo status-quo delle cose; esplorano
nuove potenzialità e requisiti, possibili e infiniti, dell’oggetto, visualizzando e materializzando questo dissenso in maniera proattiva, ovvero come
opportunità per ipotizzare, proporre e rappresentare nuovi scenari culturali, sociali e politici. Un oggetto dissenziente non si limita alla provocazione fine a se stessa ma cerca, in questo atteggiamento di scontro e
ribellione, risposte al conflitto iniziale che ha generato, possibilmente
spingendo e innescando nell’utilizzatore diversi tipi di risposta, dalla riflessione all’azione. Questa definizione implica (come già visto) l’utilizzo
del dissenso come dispositivo dialogico (duale) di contrapposizione o
tensione, in una accezione positiva di conflittualità, ovvero di confronto:
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grazie alla loro capacità dialogica questi oggetti percepiscono il conflitto
in senso assertivo e, quindi, come punto di partenza per cercare di innescare e instaurare un certo tipo di dialogo, riflessione o in alcuni casi, attivare una vera e propria trasformazione dei significati e dei comportamenti. In ciò risiede anche la differenza tra gli artefatti dissenzienti e
qualunque artefatto innovativo: la proposta di nuovo che è contenuta e
veicolata da entrambi non è necessariamente resa tangibile e risolta negli artefatti dissenzienti; mentre un artefatto innovativo è già una nuova
soluzione o abilita un nuovo scenario d’uso, nell’artefatto dissenziente è
centrale l’atteggiamento critico-riflessivo basato sul conflitto tra vecchio
esistente e nuovo possibile. Si tratta infatti spesso di oggetti “incompleti”
«that have to be relieved by user and usage» (Bihanic, Huyghe, 2015, p.
3) poiché soggetti necessariamente a interpretazione e la cui “utilità” si
rivela progressivamente tramite il coinvolgimento del soggetto (Bihanic
e Huyghe li definiscono anche becoming objects o in-process objects o objects to be discovered per sottolinearne la natura, performativa, processuale e trasformativa) o “non funzionali”, o meglio “disfunzionali”, per la
loro indecifrabilità, legata sia a una percezione non immediata del senso
o dell’utilità dell’oggetto, sia a una forte enfasi sugli aspetti narrativi e
poetici: per questo possono essere spesso definiti anche come misbehavioral objects (Bianchini et al. 2015, p. 129) il cui comportamento è scorretto, o disattende le attese, ma non in modo accidentale o temporaneo
(come un cattivo funzionamento), quanto in modo intenzionale e volontario, «to violate certain social rules» (Bianchini et al., 2015, p. 138), usando
una disubbidienza per far riflettere sul valore sociale del comportamento
degli oggetti e la nostra interazione e relazione con essi.
È possibile leggere conflitto che gli artefatti incorporano attraverso due
diverse prospettive tra loro complementari:
a) conflitto intra-oggettuale e trans-oggettuale (con se stesso e con altri
oggetti, ovvero il sistema di oggetti di riferimento a cui appartiene): ovvero l’oggetto è disfunzionale, nel senso che non ha una immediata funzione o ha un valore finzionale, cioè narrativo, poetico, evocativo o visionario;
b) conflitto con l’utente: ovvero l’oggetto crea spiazzamento, corto circuito di senso, costituendo una sfida cognitiva per la sua interpretazione
all’utente, oppure l’oggetto stimola la riflessione tramite l’uso (per esempio un cambio di percezione o di valore) fino a prescrivere un comportamento all’utente stesso tramite obbligo o divieto (come si vede il con-
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flitto con l’utente può essere basato su un conflitto inter/transoggettuale ma non necessariamente).
Fig. 1 Katerina Kamprani, Resize, 2014
Un esempio del primo caso è un oggetto dissenziente che non assolve il
fine per cui è stato progettato, o lo fa in maniera anomala, circoscrivendo così il conflitto all’interno del suo sistema di valori e di senso. The uncomfortable project dello studio KK include una serie di oggetti progettati
secondo principi e ragioni totalmente contrarie per le quali i prodotti
considerati sono normalmente disegnati e realizzati: una sedia dalla seduta esageratamente convessa, una forchetta dallo spessore incredibilmente alto, una pentola dai manici affiancati, sono solo alcuni di questi
oggetti visibilmente e fortemente in conflitto con la funzione finale che
sono chiamati a svolgere, ostacolando l’azione di utilizzo ma senza impedire completamente il loro uso. Si tratta di oggetti che possiamo definire in conflitto con gli archetipi di riferimento e con le qualità proprie
dell’artefatto: se da un lato essi mantengono la semiotica degli oggetti di
origine, dall’altro non si comportano regolarmente, il loro funzionamento
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è scorretto e, sotto certi aspetti, insensato. L’oggetto sembra mettere in
questione le modalità e le forme secondo cui un artefatto può svolgere
una funzione, offrendo così l’opportunità di esplorare nuove soluzioni –
o limiti– che modificano e trasformano il fine stesso dell’oggetto e
l’immagine precostituita che di esso abbiamo.
Anche gli Oggetti disobbedienti di Giulio Iacchetti presentano questa caratteristica di “disaccordo interiore”; essi si pongono dei dubbi sul loro
essere prodotti industriali legati alle tradizionali logiche di consumo. Si
tratta, nelle parole del designer, di una serie di artefatti volutamente deboli dal punto di vista oggettuale e funzionale ma con un forte impatto
visivo-comunicativo, proprio per portare un messaggio politico, porre
dubbi, innescare un pensiero, provocare un sorriso (Iacchetti, 2009): ad
esempio la panchina Flexible bench che usata sottosopra diventa un riparo, il mappamondo Odnom con specchio che riflette il mondo al contrario. Il fine è di creare e comunicare una sorta di tensione attraverso
l’oggetto che porti proprio a questionare il sistema di valori legato a esso.
Nel caso di conflitto con l’utente, l’oggetto è dissenziente poiché in grado
di porre l’utente in uno stato di conflitto con i suoi tradizionali canoni
percettivi e riferimenti culturali e sociali, innescando così in lui una reazione che provoca un senso di contrasto e disorientamento, seguito da
una riflessione più o meno cosciente che non porta mai alla completa
accettazione o al totale rifiuto dell’oggetto. Questo può avvenire ad
esempio utilizzando la già citata strategia dell’uncanny (Gentès, Mollon,
2015) dell’inquietante o sorprendente per coinvolgere l’utente unendo
stranezza e familiarità, e disorientamento percettivo.
Fig. 2 James Aujer e Jimmy Loizeau, Afterlife, 2007
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Una primissima sensazione, infatti, che questi oggetti provocano è quella
di non sembrare completamente “giusti”: l’utente si ritrova in una sorta
di stato emotivamente dubbioso rispetto a ciò che vede, poiché
nell’oggetto sono presenti aspetti facilmente riconoscibili, ai quali è abituato e che lo rassicurano poiché ciò che è conosciuto ci pone in uno stato di comfort abitudinale; e aspetti diversi, sconcertanti, che provocano
reazioni totalmente opposte, innescando così un processo narrativo che
coinvolge per curiosità e preoccupazione, rigetto o gradimento, oscillando e rimanendo in equilibrio tra questi stati. Il progetto Afterlife di James
Auger e Jimmy Loizeau, esposto al MoMa nell’esibizione Design and the
Elastic Mind, 2007, esplora le potenzialità delle tecnologie legate al tema
delicato della morte – e di conseguenza della fede e dei diversi credo religiosi – proponendo una bara che conferisce la possibilità di ricarica
energetica che sfrutta il processo di decomposizione umana. Il pubblico,
nonostante il prodotto si presentasse come una classica bara funeraria e
presentasse una funzione innovativa e utile, si è concentrato sull’aspetto
macabro della decomposizione e dell’utilizzo “alternativo” degli aspetti
umani, non riuscendo però ad avviare quel dialogo che portasse
all’accettazione o solo alla riflessione sull’intero oggetto.
Gli oggetti non sono mai innocenti, sia poiché il contesto in cui sono posti, i valori di cui sono intrisi, la forma con cui sono concepiti, il programma attraverso cui vengono interagiti, sono culturalmente connotati
e orientati, sia perché il loro script progettuale (inteso come quella configurazione del prodotto in grado di «guiding the behaviour of the user, in
a more or less forceful way, to comply with values and intentions inscribed into the product by its designer» (Jelsma, Knot, 2004, p. 120) a volte
comporta e innesca conseguenze indesiderabili e usi non previsti; tuttavia è evidente che è anche possibile attivare esplicitamente il dissenso
degli oggetti attraverso un deliberato processo e intento progettuale: nel
prossimo paragrafo quindi descriveremo alcune delle qualità proprie
degli oggetti dissenzienti che possono anche divenire intenzionali variabili oggetto di progetto, proprio per raggiungere l’obiettivo di provocare
dissenso e dialogo.
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3. Qualità progettabili degli artefatti dissenzienti
Il comportamento principale degli artefatti dissenzienti è quello di provocare un conflitto, di creare tensione per poter avviare e instaurare in
seguito un discorso che coinvolga l’utente, oltre che su di un livello “istintivo” e emotivo, su di un livello riflessivo cosciente che implichi un’attività
di critica. Quest’aspetto evidenzia un’importante caratteristica di questi
artefatti: l’essere oggetti dinamici e stimolanti dal punto di vista intellettuale e, di conseguenza, essere in grado di innescare una riflessione che
a volte attiva un processo di trasformazione di pensiero e azioni e comportamenti. Questa dimensione riflessiva è una caratteristica importante
che deve essere attentamente progettata: deve implicare un processo
mentale di presa di coscienza da parte dell’utente per non costituire un
“obbligo” per l’utente a pensare o a eseguire una certa azione o in un
certo modo; occorre cioè trasformare tramite riflessione consapevole e
non persuasione.
Le principali qualità progettabili degli artefatti dissenzienti sono:
- la qualità performativa e processuale (in relazione alla natura dinamica
e attiva attraverso cui il dispositivo conflittuale-dialogico si esplica);
- la qualità visionaria e immaginativa (in relazione la capacità fictional di
evocare mondi - spesso conflittuali, ovvero distopici, indesiderabili e ostili ma anche possibili e auspicati- a fini riflessivi: “come sarebbe se?”);
- la qualità anticipatoria e trasformativa (in relazione alla possibilità di
promuovere una spinta verso il cambiamento positivo, quindi una critica
più proattiva).
Tali qualità, occorre precisare, possono caratterizzare anche gli artefatti
normali, non conflittuali o non dissenzienti: esistono sempre di più nel
panorama contemporaneo oggetti che eseguono funzioni (ad esempio
oggetti interattivi che si attivano rispondendo a uno stimolo con un
feedback), oggetti che evocano e narrano storie – ad esempio oggetti
multimediali di un sistema espositivo (Trocchianesi, 2013) –, oggetti che
trasformano le nostre azioni (si pensi ai cestini pubblici tripartiti per la
raccolta differenziata): lo scarto introdotto dagli artefatti dissenzienti è
farlo attraverso un conflitto esplicito, una differenza che non appare né
necessaria né sensata ma volutamente forzata, proprio per non passare
inosservata come una semplice alternativa ma far riflettere e rendere
consapevoli in modo profondo; come già detto nel paragrafo precedente negli artefatti dissenzienti è più importante il come (il processo) che il
cosa (la nuova soluzione).
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Ogni qualità è descritta attraverso esempi reali per evidenziare le modalità progettuali con cui possono essere meglio incorporate in termini
conflittuali nella forma e nel comportamento degli oggetti.
Fig. 3 Kristina Bjaadal, Underfull e Underskog, 2009
3.1. La qualità performativa e processuale
Negli oggetti dissenzienti il dialogo o confronto si esplica attraverso una
dinamica, ossia un processo, di tensione e contrapposizione che connota
tanto il modo in cui si manifesta e svolge di per sé, quanto quello in cui
viene recepito e le conseguenze che produce. Michela Deni introduce
un’interessante differenza tra oggetti che producono e prescrivono un
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saper-fare negli utenti (dimensione fattiva, ovvero capacità potenziale di
comunicare efficacemente le modalità d’uso, provocandole) e oggetti che
possiedono un saper-fare, e attraverso questa competenza possono
compiere l’azione (dimensione performativa) (Deni, 2002, pp. 23-29). Gli
artefatti dissenzienti hanno una natura performativa e processuale perché spesso vengono progettati sia per esprimersi attraverso un’”azione”
che dura un certo intervallo di tempo (sia esso uno scambio dialogico o
lo svolgersi di un accadimento) sia per richiedere un’azione (la necessaria
interpretazione da parte di un soggetto o la prescrizione, attraverso riflessione e persuasione di certi comportamenti d’uso, definibile come
design for behavioral change, Gamman e Thorpe, 2011): si tratta però, a
differenza degli artefatti fattivi, di un’azione critica o criptica.
Fig. 4 Branko Lukic, CUn5 Superpractical cell phone, 2010
Gli artefatti dissenzienti, infatti, generano significato tramite dei “comportamenti” critici. Oggetti esemplificativi dell’atteggiamento performativo sono i progetti Underfull (2009) e Underskog (2009) di Kristina Biaadal,
il cui apparentemente negativo sporcarsi o consumarsi nell’oggetto (stra-
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tegia progettuale spesso utilizzata all’opposto in termini esclusivamente
funzionali, per esplicitare l’esaurirsi delle proprietà dell’oggetto e suggerire quindi la sua sostituzione), rivela nella tovaglia una decorazione nascosta e nella seduta della sedia una nuova trama: in questo caso
l’azione svolta appare realmente disfunzionale (sporcarsi) ma porta alla
scoperta di una seconda vita dell’oggetto. Un esempio tipico di atteggiamento dialogico è il CUn5 Superpractical cell phone di Branko Lukic che
interroga cripticamente i sensi dell’utente sulla base di una gestualità
progettata ad hoc, in una logica di iper-sensorialità.
In relazione, invece, all’impatto o agli effetti che producono, il cambiamento attivo richiesto all’utente può essere di tipo cognitivo e fisico insieme, come risposta consapevole ma anche obbligata o a una iniziale
difficile interpretazione di significato e d’uso dell’oggetto o una sua evidente disfunzionalità. Del primo caso è esemplificativo il progetto The
stop thief chair, 2001 (di Lorraine Gamman, Jackie Piper e Marcus Willcocks) sviluppato all’interno del Centro di ricerca Design Against Crime
del Central Saint Martin, in cui la gestualità sconveniente di appendere
una borsa o uno zaino nella zona della seduta di una sedia tramite un
gancio ritagliato a stretto contatto con l’area intima con cui ci si siede, si
trasforma, dopo un opportuno sforzo interpretativo, in un vantaggio ottenuto in modo non convenzionale (protezione della borsa da furti) e in
un comportamento obbligato (alzarsi per poter prendere la borsa). Del
caso della disfunzionalità degli oggetti è emblematico invece il progetto
Social Cups, 1999 di Kristina Niedderer, un set di calici senza sostegno
che però stanno in piedi se collegati in gruppo, il che obbliga gli utenti a
riflettere sul ruolo degli oggetti come mediatori di relazioni sociali e ad
adeguare e modificare le proprie azioni e interazioni con altri utenti –
approccio definito dall’autrice come mindful interaction (Niedderer, 2006)
– per poter far svolgere ai calici la loro funzione.
3.2. La qualità visionaria, immaginativa
Le diverse forme di artefatti dissenzienti mettono in luce come il conflitto
offre l’opportunità di pensare e vedere oltre ciò che è presente e conforme, suggerendo e proponendo alternative a quelle che sono nella
realtà. In questo enfatizzano quella dimensione già propria e intrinseca
del progetto, e di conseguenza degli oggetti, di essere portali tra il mondo reale e mondi di fantasia. Oggetti che nella loro sfera del valore sim-
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bolico rimandano a un vasto e complesso sistema di significati, innescando un legame con l’utente che va oltre la semplice relazione d’uso e
funzione, toccando la sfera percettiva ed emozionale, attraverso forme
espressive capaci di trasportarci proprio sul terreno dell’immaginario
(Barthes, 1994).
La storia del design stesso è caratterizzata da visioni e fantasie di mondi
diversi; abbiamo già citato il movimento del radical design negli anni Settanta e Ottanta, dove l’atteggiamento di ribellione al razionalismo architettonico precedente, si esprime e realizza attraverso prodotti dal forte
impatto emotivo, astratti, artistici, e sensoriali, dove il linguaggio principale è quello che si sviluppa sul piano simbolico.
Anche l’approccio della DesignArt, grazie alla sua dimensione propriamente artistica, può generare oggetti che, liberi di poter essere ciò vogliono, non hanno la pretesa di poter diventare realmente usabili, e sono
evocativi e poetici nel loro essere disfunzionali, come le sedute impacchettate Kokon furniture del 1999 dello studio Makkink & Bey.
Punto comune intorno al quale ruotano gli oggetti dissenzienti è la visionarietà come capacità di trasformare e tradurre il conflitto in nuove visioni, in nuovi differenti modi di vedere e intendere le cose, di immaginare contesti, comportamenti e valori possibili. Mondi puramente ipotetici
che, seppur irreali, non sono falsi ma finzionali (Sterling, 2013), e possiedono la forza concreta di suscitare e instaurare, attraverso una disruptive
action – azione di critica e rottura con quello che è – una reazione
nell’utente, portandolo a percepire come reali situazioni che non sono; a
concretizzare, anche solo per un breve momento, l’ipotesi del “se fosse
possibile”.
Gli artefatti dissenzienti spesso sono la concettualizzazione di prodotti
futuristici che dalla reinterpretazione di oggetti esistenti si sviluppano fino essere immaginati in mondi totalmente opposti e conflittuali, secondo le logiche della già citata design fiction. È il caso dei progetti della mostra What if critical di Dunne e Raby; commissionata inizialmente dalla
Science Gallery di Dublino, 2009, e ampliata negli anni definendosi infine
come progetto ongoing, consiste in artefatti/concept che si pongono tra
la realtà e l’impossibile, in «a space of dreams, hopes, and fears » (Dunne, Raby, 2009): si tratta di progetti che estrapolano tendenze presenti
ma non chiaramente visibili nella società contemporanea e le amplificano per un effetto di drammatizzazione, come ad esempio le Evidence
Dolls, che esplorano le conseguenze sociali delle tecnologie di campiona-
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tura del DNA, da una prima seduzione allo sconcerto di possibili modificazioni genetiche “su misura”.
Fig. 5 The Near Future Laboratory, An Ikea Catalog from the Near Future, 2015
3.3. La qualità anticipatoria e trasformativa
La dimensione visionaria/immaginativa introduce un’altra dimensione, a
essa strettamente correlata, che possiamo definire come quella anticipatoria e trasformativa. La caratteristica visionaria di questi oggetti, infatti,
si traduce in molti casi come la capacità effettiva di osservare attentamente il reale e vederne, prevederne e anticiparne le possibilità o gli sviluppi prossimi futuri.
Si sottolineano così due importanti aspetti, tipici del mondo del progetto:
da un lato l’individuazione e la focalizzazione all’interno del conflitto di
quei design phaenomena (Deserti, 2013) già esistenti che rappresentano
proprio la proposta alternativa a quella “conflittuale”; dall’altro, all’azione
di envisioning è affiancata una contestualizzazione in scenari reali e presenti dell’attività visionaria e immaginativa.
Progetti rappresentativi sono quelli del già citato del The Near Future Laboratory: i loro oggetti esplorano in maniera specifica le potenzialità delle
tecnologie e della scienza nel trasformare ogni aspetto del quotidiano,
nel modificare comportamenti, gesti e rituali del nostro ordinario modo
di vivere.
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Progetti quali An Ikea Catalog from the Near Future, dove l’IoT entra in tutti
i settori della casa in maniera pervasiva, quasi ovvia e scontata, attraverso l’onnipresente catalogo dell’Ikea, o Curious Rituals, un libro e video sui
gesti, le posture e le abitudini del “quotidiano digitale”, sono caratterizzati da una visionarietà concreta. Unendo l’immaginario e la realtà, la finzione e il realismo, questi progetti mostrano come ciò che pensavamo
come totalmente fantastico, in questo caso fantascientifico («self-driving
nanny cars, Panda Jerky, compute-intensive garden hoses, Internetconnected bathroom doors, selfie-refrigerators, soy-based hair combs,
revolutionary underwear elastic band, Tweeting cat doors, on-demand,
lovingly computed artisanal t-shirt»), è effettivamente non solo possibile
ma realizzabile e realizzato, e di come questi artefatti hanno già innescato un’innovativa trasformazione degli scenari abituali.
4. Conclusioni
Il conflitto rappresenta, dunque, nel design, un modo per attivare nuovi
processi di trasformazione e innovazione culturale e sociale. Ovviamente
si tratta di un conflitto inteso in senso lato, da una più semplice non conformità a ciò che ci si aspetta da parte di un oggetto a una vera e propria
provocazione. A volte questa dimensione critica ha una esplicita connotazione di tipo politico, altre volte sviluppa proposte alternative a quelle
esistenti.
In generale però, la riflessione critica che gli oggetti dissenzienti provocano, indipendentemente dalle modalità e “dimensioni” privilegiate viste
sopra attraverso cui essi creano e mettono in atto il dissenso, ha sempre
un fine specifico: questionare e riflettere sul presente per ipotizzare non
semplicemente possibili futuri, ma scenari di un presente diverso, forse
“migliore”.
Attraverso visioni, immaginazioni e ipotesi, questi artefatti possiedono
un potere narrativo tale da riuscire a coinvolgere l’utente su tutti livelli –
emotivo/riflessivo/mentale/comportamentale – spingendolo e immergendolo nelle situazioni poste a “conflitto”, siano esse reali o immaginarie, e portandolo ad affrontare, implicitamente ed esplicitamente, tali
questioni generando risposte.
L’interpretazione del conflitto attraverso il progetto quindi si esprime e
rappresenta attraverso la progettazione non di artefatti volti semplicemente al proporre soluzioni per bisogni definiti a priori, ma attraverso la
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vera e propria progettazione di un dialogo relazionale costante, messo in
scena e rappresentato dagli oggetti ma fatto di significati e rimandi simbolici, di emozioni e interazioni, che operano per un impegno e interesse
attivo e dinamico per i cambiamenti e l’evoluzione del contesto culturale
e sociale. In questo dialogo gli oggetti fanno da tramite e mediano tra il
punto di vista e la proposta del progettista e l’interpretazione che ne fa
l’utilizzatore, divenendo, di fatto, dispositivi di conversazione sul piano
culturale, politico e sociale, più che effettive soluzioni funzionali.
Occorre sottolineare che questo tipo di design dissenziente, seppur in
evidente espansione, rappresenta una nicchia ristretta rispetto al design
così come tradizionalmente inteso per la progettazione e produzione di
beni e servizi. Lungi dall’essere un segnale debole o un atteggiamento
solipsistico e chiuso in se stesso, che potrebbe isolare questo design rispetto al reale, resta tuttavia da dimostrare l’impatto reale nel tempo del
suo atteggiamento critico, spiccatamente contro-culturale e alternativo
sulle retoriche e logiche di produzione culturale contemporanea. Poiché
auspichiamo un ruolo sempre più consapevole del design, speriamo, attraverso la sistematizzazione di alcuni nodi del dibattito, di aver contribuito all’agenda etica e politica del design del prossimo futuro.
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