Nicola De Domenico
Non intempestivo
commiato
“plumelia”
edizioni
Plumelia
FrecceMagnum
Nicola De Domenico
Non intempestivo
commiato
premessa
di Aldo Gerbino
plumelia edizioni
De Domenico, Nicola
Non intempestivo commiato / Nicola De Domenico ;
premessa di Aldo Gerbino. Bagheria : Plumelia, 2020.
ISBN 978-88-98731-80-0
(Frecce/Magnum)
851.92 CDD-23
SBN Pal0332164
CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
2019
ad Anna, di tutto compendio
‘Uno che guarda’
Aldo Gerbino
Forse io verrò, con man devota a l’ara
Appendendo vaghissime ghirlande
Di giunchiglie e di pallide vïole!
[Saverio Baldacchini, da Erato, 1857]
Per averti ti perdo,
e non mi dolgo: sei bella ancora,
ferma in posa dolce di sonno:
serenità di morte estrema gioia.
[Salvatore Quasimodo, da Sillabe a Erato, 1936]
Cosa si agita in questo manipolo di versi confezionati e
consegnati da Nicola De Domenico nel perimetro ardente
d’una plaquette (dedicata ad Anna, compendio del tutto)
sorretta dal titolo: Non intempestivo commiato? Prima di ogni
altra cosa, e non potrebbe essere altrimenti, si agita quella
musa che noi, spandimento degli dèi, ben conosciamo: l’amabile Erato, la figlia, tra le nove, di Giove e Mnemosine.
Partorita in Tessaglia, porta da tempo immemorabile, – lo
apprendiamo dalla Teogonia esiodea, – il fardello della parola amorosa, della lirica e della geometria, lasciando l’elegiaca
alla dolce voce di Calliope, ad Urania, la didascalica e a Clio,
l’epica. D’altronde lo stesso autore ne fa chiaro riferimento
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nel suo “congedo in prosa”: «Dall’inizio dell’anno», scrive,
«Erato m’incalzava, nella veglia e nel sogno, ad approntare,
finché ne avessi la forza e la capacità, con affetto a vergare,
per le persone più care e per gli amici, una cordiale memoria
di me, in equilibrio fra reticenza e confessione, così come
a questo mondo si conviene, per continuare», conclude, «a
volersi bene come prima, finché dura.» E se le parole posseggono un peso e una misura, il termine “equilibrio” non può
non richiamare alla geometria proprio per quel testimoniare,
– nella volontà del mitografo Fabio Planciade Fulgenzio, il
berbero del V secolo d.C.,– la fatica dell’impegno creativo
per la quale Nicola pone, come interfacce a tale proporzione,
due precisi sostantivi femminili: “reticenza” e “confessione”.
Se per Solmi l’Erato e Apòllion quasimodeo si volge con trasporto alla ricerca della propria ancestrale genealogia, in tale
prova contemporanea vengono indirizzate le proprie aeree
radici lungo i tortuosi camminamenti del ricordo, della rammemorazione, del trasporto confessionale fin, dunque, ad un
lucido riflettere spalmato costantemente sulla pedana inconfutabile della realtà. Guardando ordunque tale realtà emergono quelle corroboranti parole del filosofo Giuseppe Rensi
secondo il quale la sensibilità poetica non è per un pensatore
un serpeggiante tralcio di scarso interesse. «Più si acquista la
consuetudine del pensiero filosofico, e più si tocca con mano
che il filosofo è artista», afferma lo studioso veneto nelle sue
Lettere spirituali. Poi, prendendo in considerazione come il
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filosofo si esponga non già come «uno che sa», ma piuttosto
nel modo in cui «guarda», aggiunge di conseguenza che egli,
appunto, oltre ad essere «uno che sa: che conosce tutte le soluzioni che si sono date a un problema, che è al corrente della
“fase attuale” della logica o dell’estetica o della dottrina della
conoscenza, e delle varie tappe che vi hanno messo capo» è
«uno che guarda: che, cioè, come l’artista, ha una certa sua
visione personale delle cose e le esprime nel modo in cui le
vede. Così egli fa», aggiunge, «al pari del poeta, nei trattati i
suoi poemi, nei saggi o nei “frammenti” le sue liriche.»
E se per Nicola, pensatore e traduttore, «è brace la
memoria / non completamente combusta», – lo sottolinea
nel testo “In reticente riserbo”, – da tale brace estrae, – nel
modo in cui si esprime Henrik, protagonista delle Braci di
Sándor Márai, – la sua valenza illusoria mentre in parallelo
i dettagli di cui son disseminati i suoi versi fungono, riprendendo Márai, «in un certo senso da adesivo» in quanto fissano «la materia essenziale dei ricordi». Un registro poetico
attraversato da scenari onirici i quali, moltiplicandosi nella
forma di abbaglianti «fiori di mandorlo del sogno», sibilano, «scoppiano e illuminano, / riverberati dallo smalto nero
del cielo» per inserirsi nel mondo delle proprie passioni, dei
propri ricordi, delle non sopite amarezze. Scenari inseguiti
dal tremore dei desideri, degli amori, dei distacchi capaci di
irrompere nel bagliore lieve e forte d’un «rubino scuro delle
braci» (“Coda”), in quella fase temporale nella quale, si dice
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in “Fantasmi dell’alba”, «duole la cesura crudele del giorno,
/ che non spegne il desiderio del desiderio». Su tale immagine glittica del ‘rubino’ ecco affacciarsi refoli di primavera
nel nome di Eucàri, ninfa ammaliatrice di Telemaco e della
quale, non tralasciata da Carlo Ant. Vanzon nel suo Dizionario Universale (1844), leggemmo, con l’ausilio di Martino
Deschnero maestro in filosofia, nelle Aventures de Télémaque,
fils d’Ulysse di Fénelon. ‘Illuminazioni e Visioni oniriche alla
maniera di e con Rimbaud’, è dichiarato da De Domenico,
che a loro modo tracciano e scandiscono il passo dei decenni,
il fiato dei sentimenti: il tutto per il tempo che resta. Chi,
più di Mnemosine, madre delle Muse, può essere artefice di
tale commercio ideale? Lei che nei versi di Eleanor Wilner,
poetessa e traduttrice di Cleveland, è vista sorgere «come
un geyser dalla fonte sibilante»? In tal modo nel «Ricordo
non ricordo» (in “Come una ninna nanna”) De Domenico
sancisce in che maniera la memoria possa essere, di certo,
«Ricordo del presente, / Inerte illusoria visione», ma anche
camera di fissazione di ogni nostro umano desiderio, d’ogni
oblio, determinando un’immobilità funzionale alla conoscenza, forse un’inerzia riflessiva, in cui ci si attarda nell’esser
cullati dalla ristoratrice «breve onda del mare». Nicola, traslando e con-sentendo un innesto, dilata la sua immagine
col richiamare di Friedrich Hölderlin la terza stesura della
lirica Mnemosyne, nella quale, appunto, la necessità di una
sedimentazione fa sì che vengano liberati i noti versi: «Ci
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lasciamo cullare / come un battello che sul mare oscilla.» Che
la poesia, non dimenticando Nietzsche,‘rompa il passo alla
prosa’ lo raccogliamo da Pier Aldo Rovatti mentre risponde
a Mary Barbaro Tolusso sul tema “Poesia e Filosofia” (2011).
Egli chiarisce come nella nostra lingua «esistano le pause del
linguaggio» troppo spesso contenute nella prosa; scrivere,
dunque, «con un occhio alla poesia, vuol dire imparare non
tanto a camminare, ma a “saltare”». Un allacciarsi, in fondo, a quanto esposto da Josif Brodskij sulla capacità della
poesia a operare per ‘salti semantici’: veri e propri (si pensi
all’arditezza semantica di Alfredo de Palchi) ‘acceleratori del
pensiero’ creativo. Su tutto, allora, quali migliori agitatrici
rintracciamo se non le Sirene, creature delle quali temiamo,
più che il canto da cui è anche possibile sfuggire, – secondo l’ammonimento di Kafka – di non potersi «salvare dal
loro silenzio»? Appare scontato che penetrare quell’anima
di Giuseppe Tomasi «esiliata in “Lighea”», così lucidamente esposta da Basilio Reale (1986), permette di accogliere il
portato ambiguo di tali figliole di Calliope e Acheloo (tardivamente caudate come leggiamo nei capitelli del chiostro
monrealese) per toccare la loro ambiguità attingendo a quegli «strati della psiche legati ancora all’essere biologico». Una
commixtio Eros/Thanatos in cui il fulcro ruota attorno al
femminile, pars primaria del pensiero meridiano qui tradotto in «quell’enigma di un sorriso schietto di labbra carnose»
(“Lighea seduce il principe di Salina”): labbra carnose che
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ritroviamo, sempre pertinenti e ricche di procacità passionale, nei disegni e nei guazzi di Bruno Caruso che già s’era
espresso in una riproposizione della Lighea tomasiana con
una acquaforte per le edizioni L’Ariete (1990) nella collana
“La mano sapiente”. La parola ha, per Nicola De Domenico,
una cogenza assoluta sulla sua esistenza e sulla simultaneità produttiva sia in prodotti creativi sia nell’esercizio della
traduzione indirizzato all’imagista Amy Lowell o a Rupert
Brooke o a T.S. Eliot. Anche qui un entrare nel corpo nudo
della parola alla ricerca della “musa che abita la lingua” fino
ad accompagnarsi a quella «Ninfa dei tubi e dei rubinetti»,
dedicata a Lucia Girlanda, traduttrice e poetessa riscoperta
per il suo impegno civile (T. Cerutti e G. Baldissona, 2007)
e agente negli anni Sessanta in quell’atmosfera dove un giovane De Domenico operava al Teatro Sperimentale di Messina fondato, nel 1936, dal valoroso Enrico Fulchignoni: è
lo stesso anno in cui Erato gioca con Quasimodo immerso
«nel senso di morte», e ancor oggi, con Nicola, «spaventato
d’amore».
[a.g.]
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«Ἄμπελος ὣς ᾔδη κάμακι στηρίζομαι αὐτῷ
σκηπανίῳ˙ καλέει μ’εἰς ἀΐδην θάνατος.
δυσκώφει μὴ Γόργε˙ τί τοι χαριέστερον, ἢ τρεῖς
ἢ πίσυρας ποίας θάλψαι ὑπ’ἠελίῳ;»
ὧδ’εἲπας οὐ κόμπῳ, από ζωὴν ὁ παλαιός
ὤσατο, κἠς πλεόνων ἦλθε μετοικεσίην.
Λεωνίδας ο Ταραντίνος
Что в имени тебе моём?
Оно умрёт, как шум печальный
Волны, плеснувшей в берег дальный,
Как звук ночной в лесу глухом.
Оно на памятном листке
Оставит мёртвый след, подобный
Узору надписи надгробной
На непонятном языке.
Что в нём? Забытое давно
В волненьях новых и мятежных,
Твоей душе не даст оно
Воспоминаний чистых, нежных.
Но в день печали, в тишине,
Произнеси его тоскуя;
Скажи: есть память обо мне,
Есть в мире сердце, где живу я…
Александр С. Пушкин
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In reticente riserbo
Proprio perché non immemore
di antica virilità spavalda,
proprio perché non geloso
di ardori tenaci e maldestri,
proprio perché non astioso
a chi in un selfie s’accoppia,
appartato ne sto; non sdegnoso
ad attendere nulla;
paziente col tempo che scema;
amabile se il tempo vi è lungo.
E nondimeno è brace la memoria
non completamente combusta:
tenui punti rossi la sera
quando soffia il maestrale.
La facella dal debole guizzo,
è scarto del desiderio,
che la cenere pacatamente
estingue in un sospiro turchino,
tra parentesi quadre
saggiamente rattenuto.
Si discorre con sé con pudore,
per l’imbarazzo d’esser vivi
non più idonei.
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Si affida ad ambiguo silenzio
il decoro dell’età e la parvenza
d’una saggezza, che gli anni non comprano,
onde non ci ferisca la compassione
a buon mercato, o l’astiosa occhiata
per uno sguardo tenero ad astrifiammante
gelida pupilla fra ciglia bistrate.
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Scandire la durata
Se non una burla, fu un’irrisione
la proroga della giovinezza sine die.
Non comprendete: sostano infatti gli effimeri
In prescritte stazioni di danzatori in cerchio,
In scambio alterno di generazioni su unica zolla,
Le pose figurando d’un rondeau di stagioni.
Pulsazione chiamate la misura del volo
Dal principio spiccato al termine prescritto,
O la discesa – ascesa, se volete – di finissima sabbia
O d’acqua tersa refluente in bolle volventi.
Così anni mesi ore sommate nei battiti.
Con isócroni conci innalzate una torre di lustri,
Del principio remoto superbi, fieri addizionate
Decenni a decenni fingendovi immortali.
Una sola emozione vi scalda nell’uniforme scorrere
Del tempo vuoto: l’infantile tenerezza di sé,
Non commendevole né appropriata a vuote gengive,
Che di prestanza, oltre l’età feconda, il nome offendono.
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Due sole sono le stagioni che voi, stolti, sapete:
Infanzia e giovinezza. E dilatata è la seconda per dilazioni
Farmaco-cosmetiche, enfiata d’aspettativa di vita
Di queruli postulanti di proroghe sine die.
Durata è presagio d’immortalità per i cristiani,
Cui vita eterna non arride, e pei caimani
Dagli insaziati appetiti; unanimi essi odiano
Il volgere del tempo e la necessità delle stagioni.
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Esercizi di memoria e di oblìo
1.
Pantaleone, monsignore erudito d’asciutta oratoria,
giallastro un teschio forbito additò con unzione
sul lucido ebano della pesante scrivania gestatoria
al piccolo visitatore vocato alla santificazione.
Giglio di prima comunione e sterile cranio cavo,
dorata erezione in virginale candida vagina di lilium
copulata alla secca concavità dell’osseo memento:
ecco le insegne del comando dell’ordine di San Luigi.
2.
Così, non pure adolescente, apprese l’impubere novizio
che mai di Scilla le sirene impudiche gli avrebbero
intonato canti di seduzione; che, con crocifisso propizio
sarebbe scampato ai gorghi spumosi ed a Cerbero.
Così, fanciullo docile, apprese che la castità,
è il segreto della potenza che governa il potere,
è l’alta virtù del milite di Cristo, è la sua verità,
scudo che infrange le vane lusinghe del piacere.
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3.
Riluttante al mistero, fissava altero il mondo adulto,
del superlativo indigente che trascende l’umano;
testardo non concesse del casto connubio l’indulto,
stimando i gradi di perfezione impossibile caso strano.
Irredimibile parve alla sua grammaticale semplicità
un mondo senza guida agitato da genitali furenti,
alla dissipazione abbandonato da dèi lascivi e possenti
abitatori degli inferi, bestemmiatori d’ogni santità.
4.
Non fu veloce la crescita del piccolo eletto,
ostinato a trovare da sé soluzione a dilemmi mal posti,
empiamente curioso d’altre vie di saggezza,
di là dall’ossessione del potere e dal timore della morte.
Mai la benevolenza - ebbe a scoprire - sola l’agonistica
competizione di maschio e femmina regge il gioco
della riproduzione, che è necessità di natura e non scelta,
gravame e non consolazione dell’accoppiamento.
5.
E sino in fondo percorse la via della disperazione,
trovando, su piazzuole ai margini, tenzoni ed agoni
che lo rinsaldarono nella sua fiera disaffezione,
prima d’avere inteso che non l’eros giocoso
né la solitudine né la distanza sono il male su questo pianeta.
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Meno che un prestito
più che parodia
Intermezzo in memoria di Lucia Girlanda (1940-1978)
A Mallarmé sottraggo un piccolo niente,
Espediente invero corrivo,
Per distoglierti dal giardino a ponente
Con un messaggino tardivo:
Affinché l’argutissima amica,
Ninfa dei tubi e dei rubinetti,
Cessando d’innaffiare l’ortica,
Legga e dica: che versi perfetti!
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Utopia dell’urbanità
L’indifferenza sia pegno di equanimità alla fine della corsa,
quando i rancori si placano, se la stretta s’allenta,
quando comprendi che il dare e l’avere non s’eguagliano,
che il danno subìto
e il dolore patito non hanno misura comune.
Ma non così per tutte le generazioni: non tutte trepidarono
per un mondo migliore, non tutte credettero, con gli idealisti,
che indefinitamente perfettibili siano gli umani,
come noi puri ignari neo-arcadi,
che pretendemmo di iniziare da noi stessi
a riformare il tumulto incosciente della riproduzione,
a infrenare gli agoni non di rado cruenti di ménadi ebeti
e satiri ebbri fuori dei recinti del sacro,
affrancati da ogni legge umana, che a forza l’ordine imponga.
Dal colloquio c’illudevamo nascesse un canto cordiale,
una polifonia di voci distinte,
concordi nell’essere l’altra dell’altra, liberi da annessioni,
esenti dall’uso antropofagico del possessivo:
non “mio” né “mia”, e neppure “noi”, come fossimo uno solo,
ma pronti ciascuno ad accogliere,
a riconoscere l’inviolabile alterità dell’altro.
Ma quanto puoi orientare l’accidentalità dell’appetito?
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Quanto per persuasione mutare in amicizia
la fame vorace degli amanti accoppiati dal caso?
Un tossico dardo di Eros, un succo di violette
di Oberon, la ricombinatoria
affinità elettiva dei sessi, un afrodisiaco di Isolde
erroneamente somministrato
congiungono le coppie a capriccio,
per disperatissimi struggimenti e voluttà di dissolversi
in stagionali copulazioni involontariamente feconde.
E mi ricordo ora di te, creaturina espiantata,
compianta mai da una lacrima, in una clinica di Lamezia,
da un camice non obiettore,
dell’ineludibile comando esecutore
in obbedienza al capriccio d’altrui senile ardore.
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Come una ninna nanna
Vieles aber ist
Zu behalten. Und not die Treue.
Vorwärts aber und rückwärts wollen wir
Nicht sehn. Uns wiegen lassen, wie
Auf schwankem Kahne der See.
Friedrich Hölderlin, Mnemosyne
Ricordo non ricordo.
Solo non dimenticare:
La memoria può essere
Ricordo del presente,
Inerte illusoria visione.
Indifferenza è fissità dello sguardo,
Che ignora ciò che è stato,
Come se mai fosse stato,
Ciò che verrà, come non fosse il futuro.
Compianto è memorare
Una presenza viva,
Una immagine riflessa;
Perdita lo specchiarsi in questa.
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Guardo le mie/le tue mani
Come fossero oggetto
Dello sguardo tuo/mio carezzevole.
Non quelle che vidi ieri,
Non quelle che vedrò domani
Quelle che mi finge il ricordo di oggi.
Così siamo immobili
mentre ci culla
la breve onda del mare.
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Fantasmi dell’alba
Sed corpus tetigisse nocet, sed longa dedisse
oscula, sed femori conseruisse femur
Tibullus, Elegiae, I 8, 25-26
Un fremito al contorno
del mandorlo in travaglio,
Non brezza né sùbito réfolo
Ma alterno ambiguo palpitare
del blu piceo del crepuscolo.
Ora nero riluttante che lene cede all’albore,
Ora pulviscolo d’oscurità dimidiata.
Si dismemora il miraggio voluttuoso
Di due occhi stellati, che assonnata
La mente ignava travede,
mentre più indugia l’abbagliante riflesso
di aguzzi denti canini,
candore denudato da labbra arricciate per sfida.
Desto vorresti essere altrove
a specchiarti in quegli occhi
a cercare col labbro il morso di incisivi affilati.
Pur ti resta l’amaritudine del mattino,
il dileguare del miraggio del molo e del binario.
E ti duole la cesura crudele del giorno,
che non spegne il desiderio del desiderio.
26
Lighea seduce il principe
di Salina nell’ora sua estrema
Volupté, sois toujours ma reine!
Prends le masque d’une sirène
Faite de chair et de velours
Charles Baudelaire, La prière d’un païen
a te [madre Ellade] discesero le stirpi
degli Immortali che incedeano al fianco
degli Efimeri sopra il dominato
dolore, e quelli e questi erano eguali,
e tutti erano Ellèni ed una lingua
parlavano divina, uomini e iddii.
D’Annunzio, Alcyone – “L’oleandro”
Un doppio viatico accompagnò l’agonìa di Don Fabrizio:
il rituale cattolico cui era tenuto come blasonato patrizio,
celebrazione in articulo del potere che rende umili i potenti,
non annullò la religione del principe, quella celata ai parenti
ma non perciò indebolita. Da scienziato e letterato erudito
detestava l’instrumentum regni
da cui, pure, ripeteva la legittimità
del suo privilegio: la lugubre venerazione
delle insegne della morte,
le cataste di teschi ai Cappuccini di Vienna e Palermo.
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Alter ego del professor La Ciura, che tornò alle madri
tuffandosi presso la millenaria sirena della sua precoce rivelazione
il principe incontrò la seduttrice che mutò in piacere
il suo ultimo rantolo, felice di rendersi al gran mare dell’essere.
Così va incontro alla morte
chi, non perché immerso nell’acqua lustrale, è esente
dalla macchia dell’antefatto criminale della specie umana,
che nella morte e nel travaglio del parto
patirebbe meritato castigo.
Così gli si offrì la morte, “più bella di come mai
l’avesse intravista negli spazi stellari”.
In sogno, presso la tabella oraria d’un’affollata lounge,
ho intravisto il volto malizioso di quell’hostess, che tanti
si dice abbiano spesso incontrato nella sala last calls,
vibrante per increspature di labbra slightly dischiuse.
Timido la fissai not too close, non sicuro dell’invito:
tendeva un blazer severo un corpo da giovane madre,
saldamente piantato, pretty glamorous su polpacci torniti
per l’elevazione d’un tacco medio ladylike, bastante
a esaltare la caviglia sottile sulla moving walkway.
La seguii sul marciapiede mobile non disperando
che mi si volgesse.
Ed ecco:
la luce calda emanante dal suo lacustre sguardo stellato,
l’enigma di un sorriso schietto di labbra carnose,
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fra fossette di un candore racchiuso tra capelli corvini,
m’accese repente un desiderio struggente di compimento,
quale solo le chimere al crepuscolo sanno attizzare.
Mi ridestai e compresi che l’avrei riveduta.
Era più di un presagio.
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Nella Wunderkammer di Aldo
Funamboli sulla corda tesa di un’armonia
privata di tempo, eppur nel tempo;
nessun tremore di corda, attendendo l’inciampo
che giustifichi il perché della corda, delle ore
con ineluttabili legami di anime, di tocchi sonori.
A. Gerbino, Fulgori d’una pulsar, “Vibranti armonie. I”
La conversazione s’interrompe spontanea
per un suono sommesso di carillon
annunciato da un concitato frullare
di bilancieri vorticosamente rotanti:
le note staccate di I Know that My Redeemer Liveth,
la abusata suoneria Westminster al tocco dell’ora.
Per sincronizzazione approssimata uno chalet rustico
dello Schwarzwald eiettò a scatti un dardo ornitomorfo
modulando due stizzite note ascendenti
contro la greve pendola di rovere polito.
Restammo in ascolto, e nel silenzio montava
una sorta di brusio salmodiante di pigri scatti di contrappesi
sul basso di una corsa sibilante di ingranaggi in affanno,
scandita dal tic-tac d’una sfera oscillante, anelante al gong.
Decine di orologi meccanici di varia dimensione
tutti insieme, nella loro corsa polifonicamente discorde,
con discanto di pervi ingranaggi e schiocchi felpati,
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soverchiavano il pulsare isocrono e periodico
della singola macchina, simulando il flusso d’una
cascata in lontananza o, a tratti, il battere alterno del mare
su tutte le coste del mondo.
Le tavole anatomiche
e i bambinelli di cera esortavano a meditare sulla vanità
del lento distendersi delle molle motrici, sul frastuono
della gran collezione di apparati di misura del tempo vuoto,
e all’orecchio, ormai acuito, quella organizzata cacofonia
si mutò nell’immagine acustica del fruscìo amplificato
della cascata di sabbia che va a colmare la bolla inferiore
per arrestarsi a fine corsa.
L’immobilità della clessidra ci turbò tutti
e mesti ci congedammo dalle pendole e dai carillons.
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Coda
Illuminazioni. Visioni oniriche
alla maniera di e con Rimbaud (2016)
Presso il ponte m’arrestai:
un leprotto immobile, con gli occhi sbarrati,
contemplava l’arcobaleno
attraverso una ragnatela stillante
tesa tra due siepi di lavanda.
Angeli girovaghi zampettavano
sul declivio della sponda
candidi in veste di lana,
fra erbe d’acciaio e smeraldo.
Forse gabbiani in cerca di pesci iridati?
Un filo orizzontale saldo e vibrante
congiungeva un sole deciduo a nubi
sfioranti le creste collinari all’orizzonte,
secato da sguardo incidente a gradi 42,
traversando l’umidità aerea ricreava il miraggio di Noè,
l’arco dell’arca zoologica, un ponte inesistente
fra niente e nulla, che illude di pace l’albe e i tramonti
col suo orifiamma iridescente.
È l’ora delle visioni, fallaci allucinazioni
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se non avrai teso corde da campanile a campanile;
ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella
per la danza dopo la commedia.
Ed ecco che uno stormo di piccioni scarlatti
mi rintrona intorno al pensiero,
e mentre bracieri piovono sotto le raffiche di brina,
Eucàri mi annuncia che è già primavera
ma primavera di metà inverno, fuori del tempo prescritto,
coi boccioli di fuochi d’artificio,
quando il pubblico denaro è dilapidato in feste di fratellanza
ed i fiori di mandorlo del sogno
sibilano, scoppiano e illuminano,
riverberati dallo smalto nero del cielo,
ed il rubino scuro delle braci
brilla sotto il vortice d’aria
scagliato dal vanno della strega.
C’è una compagnia di guitti ambulanti,
intravisti lungo la strada.
In costumi improvvisati, con gusto da incubo,
recitano condoglianze, tragedie di malviventi e semidei,
e nondimeno hanno tanto spirito,
quanto la storia o la religione non ebbero mai.
Sarebbero capaci di interpretare
commedie nuove e filastrocche antiche.
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Saltimbanchi provetti, simulano luoghi
e recitano prose poetiche, magnetiche, psicotrope.
Ed i loro occhi ardono, e canta il sangue nell’arteria pulsante,
e si dilatano le ossa e le lacrime scorrono come ruscelli.
Ma la cascata risuona dietro la baracca mobile dei guitti.
Girandole rutilanti roteano rombando,
prolungando nei mandorleti e nei viottoli
lungo la riva i verdi e rossi del tramonto,
che stende adesso il suo malinconico bucato d’oro
ed annuncia il pallido arcobaleno lunare.
“L’acqua è bigia e azzurra,
larga come un braccio di mare.
Un raggio bianco, cadendo dall’alto del cielo,
annienta questa commedia,
al tocco d’una campana di fuoco rosa fra le nubi”.
Incombe un inganno più vero:
la metamorfosi delle stagioni e l’eterna rinascita della bellezza.
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Saggi di traduzione
Omaggio ad Amy Lowell (Dreams)
Non m’importa di parlarti, benché
le tue parole evochino immense affinità
benché tutte le armonie silenziose del mio essere
si destino tremanti in una musica.
Quando non ci sei
è come se uno schianto orrendo
m’avesse con ferocia tranciato le corde dello strumento.
No, non parlare! Usiamo piuttosto
questo nostro dono segreto: il silenzio che sappiamo.
Altri indovinerà i tuoi pensieri dalle tue parole,
come si indovinano le tempeste dalle nuvole,
dove incombe la tenebra.
È proprio il giorno invece
che mi svela l’intento suo riposto e il sentimento;
così il pioppo sente la pioggia e di subito
arrovescia le foglie e brilla luminoso nel bosco.
37
Omaggio a Rupert Brooke
(Sonnett. Suggested by some of the “Proceedings of the
Society for Psychical Research”, 1913)
Non con impeto vano, quando saremo oltre il sole,
Busseremo alle porte massicce, né batteremo
Le polverose strade maestre dei morti
che non sanno dove andare
E rimpiangono la Terra; ma imboccheremo di corsa
Una qualche scorciatoia celata dell’aria,
Un dolce viale che s’insinua in basso fra un vento e l’altro,
Ci nasconderemo sotto un bagliore impercettibile,
traverseremo le ombre,
Troveremo un murmure cantuccio
dimenticato dagli spettri e lì
Trascorreremo il nostro dì etemo in pura comunione spirituale;
Ciascuno penserà in ciascuno, ed avrà conoscenza intuitiva
immediata;
Apprenderemo tutto ciò che prima ignorammo;
udremo, sapremo e diremo
Quel che questo corpo irrequieto adesso ci nega;
E toccheremo, noi che non abbiamo più mani per tastare;
e vedremo, noi che non siamo più accecati dai nostri occhi.
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Omaggio a T. S. Eliot
(Little Gidding. II. Dai Four Quartets)
II
Cenere, sul braccio d’un vecchio sparsa,
È cenere di rosa combusta ed arsa.
Lì polvere nell’aria sospesa
Indica qui una storia conclusa.
La polvere inalata fu un villino
fu muro, fu tramezzo e topolino.
Non più speranza in disperata sorte.
Ecco dall’aria la morte.
O frana limacciosa o terra secca
ricopre gli occhi o colma la bocca.
Fluida creta e morta sabbia
Alterne prevalgono con rabbia.
Il suolo riarso e solcato da buche
Sbadiglia per la vanità delle fatiche,
E ride tristemente a labbra aperte.
Ecco dalla terra la morte.
L’acqua e il fuoco cancellano le tracce
Della città, di pascoli ed erbacce.
L’acqua e il fuoco beffa si fanno
39
Della preservazione dei beni dal danno.
L’acqua e il fuoco faranno scempio
Delle fondamenta guaste del tempio
E del coro, che trascuraste non poco.
Ecco la morte per acqua e per foco.
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Congedo in prosa
Dall’inizio dell’anno Erato m’incalzava, nella veglia e nel sogno,
ad approntare, finché ne avessi la forza e la capacità per le persone
più care e per gli amici, una cordiale memoria di me, in equilibrio fra
reticenza e confessione, così come a questo mondo si conviene, per
continuare a volersi bene come prima, finché dura.
Tutte le composizioni di quest’anno intenso sono state concepite,
abbozzate, più o meno a lungo rimuginate in momenti di ozio, strappati talvolta a pressanti occupazioni. Concluse alla fine di settembre
sono state date in lettura ad Anna e Aldo, cui debbo incoraggiamento e varianti.
Alle nuove mi è piaciuto aggiungere, in Coda, le Illuminazioni
del 2016, che presentano qualche variazione rispetto al testo pubblicato nel 2017. I tre Omaggi sono traduzioni, due delle quali già pubblicate: il sonetto di Rupert Brooke era stato dedicato alla memoria
di Fanny Giambalvo, nel corpo d’una commemorazione stampata
nel 2016; il secondo “movimento” di Little Gidding di T. S. Eliot
è una completa riscrittura di quello che pubblicai nella traduzione
commentata dell’intero Quartetto nel 2001.
Se le parole si compongono quasi da sole in un testo, la cui brevità esige la concentrazione massima dell’ideazione, questa è opera
della musa che abita la lingua. Ma non soltanto.
Non v’è mai intensità senza implicito. Che i pochi miei lettori se
lo figurino come loro meglio aggrada. Difficilmente si sbaglieranno.
Nicola De Domenico
Palermo, 5 ottobre 2019
41
Notizia
Nicola De Domenico (Messina 1944), filosofo, traduttore e
scrittore, ha conseguito la laurea in filosofia a Messina nel 1968,
in anni in cui l’ordinamento italiano non prescriveva il Dottorato
di ricerca; e in Germania, dove dal 1969 ebbe una borsa di studio
a Freiburg im Breisgau, ai maestri di lì pareva innaturale doversi
rivolgere a lui col titolo di Doktor, che di solito omettevano. Cresciuto da studente fra gli scolari di Galvano della Volpe, aspirava
a specializzarsi in Estetica; ma vi rinunciò subito per dedicarsi a
meno impervi studi di logica e di storia della filosofia moderna
e contemporanea tedesca e italiana. Per molti anni – favorito da
una insonnia cronica che gli donava gran disponibilità di tempo
per la lettura dei necessari libri del Canone e per l’ascolto della
musica – si adoperò ad accumulare quella esperienza delle arti, che
la città provincialissima e culturalmente indigente in cui era diventato adulto gli aveva lesinato. Questi anni di vaste letture ed
avido apprendimento furono anche anni di lunghi pellegrinaggi
ed alterni soggiorni di studio e lavoro in una Europa profondamente lacerata dalla Guerra fredda. Entrò nei ruoli universitari a
Messina nel 1974 e nel 2010, a Palermo, concluse la sua carriera
da professore associato di Filosofia morale. Come autore di saggi
storiografici ed eruditi non fu precoce, sia perché svincolato dalla
disciplina di una scuola universitaria sia perché fu a lungo intento
a formarsi uno stile di pensiero e di scrittura nel confronto attivo
con le lingue costitutive, ed i relativi testi, della tradizione europea.
A Hegel e Marx, a Giovanni Gentile e Gramsci ha dedicato i suoi
studi più impegnativi, che, in gran parte, sono oggi liberamente
accessibili sulla sua pagina web di Academia.edu. Ha militato nella
Sinistra parlamentare (PSIUP, PCI) dal 1964 fino al 1982. Negli
43
anni Ottanta ha collaborato intensamente con l’Istituto Gramsci
Siciliano. Dopo il collasso del cosiddetto socialismo reale ha convintamente, e senza legarsi ad alcuna appartenenza, adottato le idee
del liberalismo democratico, che in Italia, strette fra egemonia cattolica, laicismo massonico totalitario e populismo plebiscitario nazionalfascista non hanno mai trovato un terreno fertile per mettere
radici. A Thomas S. Eliot, che apprese a compitare dalla Critica del
gusto di della Volpe e dalle meditate versioni della poetessa Lucia
Girlanda, ha dedicato studi e traduzioni. Dopo il pensionamento si è cimentato come autore e interprete di esperimenti teatrali (ciclo di sette atti unici Controversie metafisiche fra sordi, 2013;
Illuminazioni, 2016). È presidente del Centro Internazionale di
Studi Filosofici “Giovanni Gentile” di Castelvetrano e socio corrispondente dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo. Ha
avuto due figli, Laura (Catania 1970), madre di Francesca, Lucilla
e Fiammetta, e Carlo (Catania 1989). Dal 2002 divide la vita con
la storica del teatro e della recitazione Anna Sica, moglie e dedicataria di questa prima raccolta di meditazioni concentrate e di
scherzi letterari concepiti per una lettura ad alta voce.
(Scheda biografica a cura dell’autore)
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indice
Premessa
‘Uno che guarda’ di Aldo Gerbino
7
2019
In reticente riserbo
Scandire la durata
Esercizi di memoria e di oblìo
Meno che un prestito più che parodia
Utopia dell’urbanità
Come una ninna nanna
Fantasmi dell’alba
Lighea seduce il principe di Salina nell’ora sua estrema
Nella Wunderkammer di Aldo
Coda
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17
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22
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27
30
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Saggi di traduzione
Omaggio ad Amy Lowell (Dreams)
Omaggio a Rupert Brooke
Omaggio a T. S. Eliot
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39
Congedo in prosa
Notizia
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43
FRECCEMAGNUM
Questo volumetto è stato stampato
per conto delle Edizioni Plumelia (di A&P)
nel mese di settembre 2020
presso le Officine Tipografiche Aiello & Provenzano
Bagheria (Palermo) in edizione limitata