Miscellanea di studi interdisciplinari
Arti dello Spettacolo / Performing Arts
Direttore di collana
Donatella Gavrilovich
Università di Roma Tor Vergata
Comitato scientifico
Marie-Christine Autant-Mathieu
Directrice de Recherches CNRS, Paris (Francia)
Paola Bertolone
Università di Siena
Maria Ida Biggi
Università di Venezia “Ca’ Foscari”
Direttrice del “Centro studi per la ricerca
documentale sul teatro e il melodramma”
Fondazione Giorgio Cini, Venezia
Enrica Dal Zio
“Michael Chekhov Association MICHA”, New York (USA)
Erica Faccioli
Accademia di Belle Arti di Bologna
Gabriella Elina Imposti
Università di Bologna
Ol’ga Kupcova
Direttrice delle Ricerche del Dipartimento di Teatro,
Istituto di Storia dell’Arte, Mosca (Russia)
Roger Salas
Critico di danza e giornalista, Madrid (Spagna)
Donato Santeramo
Head Languages, Literatures and Cultures,
Queen’s University, Kingston (Canada)
Questo volume di studi in onore di Edo Bellingeri è un' edizione speciale. I testi non
sono stati sottoposti al consueto sistema di valutazione basato sulla revisione paritario,
imparziale e anonimo (peer-review).
Miti antichi e moderni
A cura di
Donatella Gavrilovich
Carmelo Occhipinti
Donatella Orecchia
Pamela Parenti
UniversItalia
Il presente volume è stata pubblicato con il contributo del
Dipartimento di Scienze storiche, filosofico-sociali,
dei beni culturali e del territorio.
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Copyright 2013 - UniversItalia - Roma
ISBN 978-88-6507-556-2
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633. Ogni riproduzione per finalità diverse da quelle per uso personale deve essere autorizzata specificatamente dagli autori o dall’editore.
In copertina: Foto di scena. A. Fedotov e K. Stanislavskij nel ruolo di Leporello e di Don
Giovanni nella tragedia Il convitato di pietra di A. Puškin. 1889.
Associazione d’arte e letteratura, Mosca.
Miti antichi e moderni
Euripide, Oreste e la trilogia “allargata”
Valerio Casadio
Il racconto mitico1 nella prassi della poesia epica arcaica non ha vincoli, se
non quelli imposti dall’occasione performativa. Come apprendiamo
dall’Odissea2, l’aedo improvvisa il suo canto su un episodio di quella che potremmo chiamare la “catena mitica”, quelle gesta che costituiscono un patrimonio narrativo comune, che il pubblico conosce ed apprezza, e per questo vuole
riascoltare per sognare o commuoversi, soffrire o gioire3. L’oggetto della narrazione non ha peraltro limiti di tempo e di spazio. Un buon esempio sono gli apologhi di Odisseo, che ripercorrono in quattro canti, dal nono al dodicesimo, in
meno di 2500 versi le avventure di un viaggio decennale che tocca svariate località. Diversamente la tragedia, in cui l’azione viene vissuta sotto gli occhi degli
spettatori, appare vincolata all’hic et nunc: limitate incursioni oltre queste dimensioni sono riservate a contesti narrativi, affidati al Prologo, quando si tratta degli
antefatti, che preludono agli eventi che saranno rappresentati sulla scena, ma anche al Coro o ad altri personaggi, spesso messaggeri, quando si tratti del racconto
di eventi extrascenici, necessari allo sviluppo dell’azione drammatica, o anche
1
L’espressione rischia di essere tautologica: mythos è di per sé “racconto”. Acquisisce quelle
connotazioni che l’epos innanzitutto gli ha conferito: ovvero di “narrazione di gesta di dei ed
eroi”.
2
Istruttivo è l’ottavo Canto dell’Odissea (siamo alla corte dei Feaci che hanno accolto e ospitano il naufrago Odisseo), ove il poeta mette in scena più di una performance dell’ aedo Demodoco, ai vv. 62-99, ai vv. 254-369 e per finire ai vv. 499-520: nel primo caso oggetto del
canto è un momento della guerra di Troia, una contesa tra Achille ed Odisseo, nel secondo gli
amori clandestini di Ares ed Afrodite, e la trappola loro tesa dal tradito Efesto, nell’ultimo
l’episodio del cavallo di legno. Un episodio che va oltre la cronologia della nostra Iliade (sappiamo che era narrato nella ʾΙίου πέρσις, La Distruzione di Ilio). È interessante rilevare che il
racconto, che si suppone ben noto al cantore e all’uditorio, è fatto su esplicita richiesta di Odisseo (vv. 482-498).
3
Si tratta di quella terpsis, gusto dell’ascolto, che vediamo in atto nell’atteggiamento dei Feaci
e di Odisseo (Od. 8.91, 367-369), in risposta al canto dell’aedo, ma anche della commozione
dell’eroe al racconto dei fatti che l’hanno visto protagonista (Od. 8. 83-86, 92-95, 521-531) o,
addirittura, viene teorizzata dal medesimo Odisseo, quando si appresta a narrare le sue avventure in prima persona (Od. 9. 3-13). Sono sentimenti, che in qualche modo preludono
all’effetto più complesso e coinvolgente che produce la visione drammatica, portando, come
vuole Aristotele (Poet. 1449b, 24-28, Pol. 1341b 32-1342a 16), alla katarsis.
47
Valerio Casadio
dell’enfatica e protratta espressione di un’ansia, di una gioia o di un timore, che
creano il pathos dell’attesa e, insieme, convenzionalmente, coprono anche cesure
temporali di una certa estensione4. La continuità del mythos, se la cesura tra gli
eventi è notevole, è assicurata da un’unità superiore alla singola tragedia, di cui
non conosciamo l’inventor, ma che di certo è ben radicata già a metà del V sec.
a.C., se è vero che la trilogia, e o meglio la tetralogia5 (di questo appunto stiamo
parlando) era il prescritto pensum per i drammaturghi selezionati a confrontarsi
negli agoni tragici6. È possibile che l’uso possa aver tratto origine da un’esigenza
semplicemente organizzativa, come vuole A. Pickard-Cambridge7, ma siffatta
strutturazione salvaguarda l’unitarietà del mito e ne consente le articolazioni nel
tempo, rendendole compatibili col fine primario del dramma, quello di far condividere al pubblico un’azione che va svolgendosi sotto i suoi occhi, e, nel contempo, consente al poeta di seguire la concatenazione dei fatti istituita dalla narrazione dell’epos arcaico.
Eschilo magistralmente ci mostra nell’Orestea quale ruolo potesse avere la trilogia nell’organizzazione della materia mitica8: l’Agamennone, con il ritorno del
sovrano e la sua proditoria uccisione, rappresenta con nuove modalità un evento
4
Cfr. il primo stasimo dell’ Agamennone (vv. 355-487), che copre il periodo che va
dall’annuncio “in tempo reale” della caduta di Troia, manifestato dall’ingegnoso sistema di
fuochi sulle alture di avvistamento, escogitato da Clitemestra, all’ effettivo arrivo sulla scena
dell’araldo di Agamennone di ritorno per mare dalla guerra: un tempo non precisabile, ma
prevedibilmente non piccolo, anche in assenza di intoppi, come sembra dal racconto omerico
(Od. 3. 277-279): è però curioso che dal punto di vista drammaturgico è come se questo
tempo non fosse superiore a quello che effettivamente scorre sulla scena. Non c’è infatti cesura con l’episodio precedente: il Coro si attende una risposta sulla veridicità del messaggio
giunto attraverso le segnalazioni dei fuochi, proprio come se pochissimo tempo fosse trascorso dalle rivelazioni di Clitemestra alla comparsa in scena del keryx. Un tempo non irrilevante,
per portare un altro esempio, è anche quello che va a colmare il terzo stasimo dei Sette contro
Tebe (vv. 720-791): qui la sofferta attesa del Coro, che fa seguito all’uscita di Eteocle per il
combattimento, prelude al racconto del Messaggero circa l’esito del combattimento stesso,
fausto per i Tebani, anche se i due fratelli nemici, Eteocle e Polinice, si sono dati reciprocamente la morte.
5
Alle tre tragedie, almeno per tutto il V secolo, era associato un terzo dramma, di norma un
dramma satiresco: un’opera peculiare, che con la presenza del coro dei satiri dava un tocco di
comicità, smorzando le tensioni dell’evento tragico, che comunque tale rimaneva: si pensi al
Ciclope di Euripide, ove gli sberleffi e le comiche paure di Sileno e dei Satiri nulla tolgono alla
tragicità della morte dei compagni di Odisseo, pasto di Polifemo, o dell’accecamento del Ciclope da parte dell’eroe, secondo il modello omerico.
6
Cfr. A. Pickard-Cambridge, Le feste drammatiche di Atene, seconda edizione riveduta da J.
Gould, E.D. Lewis, traduzione di A. Blasina, aggiunta bibliografica di A. Blasina, N. Narsi, La
Nuova Italia, Firenze 1996 (ed. orig. The Dramatic Festivals of Athens, Oxford University
Press, Oxford 1968), pp. 110-113.
7
A. Pickard-Cambridge, Le feste drammatiche di Atene, cit., p. 110.
8
Come è noto, è questa l’unica trilogia che ci pervenuta.
48
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ben noto dell’epos arcaico, ma è insieme la premessa a quella “giusta” vendetta,
che a distanza di anni si compie nelle Coefore; poi, ad una distanza cronologica
non meglio precisata9, assistiamo nelle Eumenidi alla difesa di Oreste da parte di
Apollo e, con un cambio di scena repentino, che ci porta da Delfi ad Atene10,
all’assoluzione del figlio di Agamennone da parte dell’Areopago. Si tratta di una
sequenza, che ai dati tradizionali, cui il drammaturgo guarda con attenzione, associa elementi fortemente innovativi: mentre nell’Odissea è esaltato il ruolo di
Oreste quale uccisore di Egisto11, ben poco si dice della sorte della madre, per la
quale, pure, Oreste offre un pasto funebre agli Argivi12, ed è da supporre che abbia subito lo stesso destino. Tale notizia, irrilevante per l’epos, diviene sofferto
dramma in Eschilo, in parallelo col fatto che nella tragedia non secondario ma
fondamentale diviene il ruolo di Clitemestra nell’assassinio di Agamennone e, di
converso, inessenziale risulta quello di Egisto13.
La nuova centralità di Clitemestra, e la conseguente problematicità del rapporto madre/figlio14, non saranno più ignorati dagli autori successivi. Diversa è
invece è la sorte della strutturazione a trilogia “legata”, cui Eschilo sembra si sia
rigidamente attenuto15. Questa, per lo meno stando alle tragedie giunte sino a
noi, è infranta da Sofocle, che preferisce concentrare la sua attenzione su un
9
Ad apertura di scena troviamo già Oreste supplice all’altare di Apollo a Delfi, circondato dalle Erinni dormienti.
10
Apollo caccia le Erinni che si lanciano all’inseguimento di Oreste, che improvvisamente si
trova supplice ad Atene, inseguito dalle Erinni, che si precipitano sulla scena.
11
Cfr. Od. 1. 29-30, 35-43, 298-300.
12
Un banchetto comune ad Egisto, cfr. Od. 3. 309-310.
13
Nonostante questi, a cose fatte, rivendichi quel ruolo di «tessitore», ovvero di «artefice»
dell’assassinio, che gli era stato proprio nell’epos, cfr. V. Casadio, Aesch. Agam. 1576ss. (Aegistus του̑ φόνου ῥαϕεύϛ?) in «Museum Criticum» XXXII-XXXV, 1997-2000, pp. 29-36.
14
Difficile è peraltro concludere se questa risalga ad Eschilo o se sia il retaggio di una rielaborazione del mito più recente, di cui non restano che frustuli non decisivi in proposito (vanno
ricordati Hes. frr. 22 et 176 M.-W., Stesich. fr. 42 P., Simon. fr. 103, 1 a P.). Di certo condivide
l’impostazione eschilea Pind. P. XI 17-36, ma è problematica la datazione relativa del luogo
pindarico e dell’Orestea. Comunque la nuova posizione di Clitemestra sembra gradualmente
preparata dai loci odissiaci: nel racconto di Nestore a Telemaco (Od. 3. 253-305) e poi in
quello di Proteo a Menelao (Od. 4. 512-537) la regina è assente dal luogo del delitto, mentre
nella Nekyia (Od. 11. 405-434) e nella Deuteronekyia (Od. 24.96-97) la sua partecipazione
all’omicidio e alla sua preparazione appare evidente: è lei la dolometis, la tessitrice di inganni
(Od. 11. 422), non più Egisto (Od. 1. 300, 3. 250): già peraltro un oscuro, duplice accenno al
dolos della donna affiorava in Od. 3. 234-235 et 4. 91-92 da parte di Atena prima, poi di Menelao.
15
Ragione per cui gli studiosi si sono cimentati nella ricostruzione delle tetralogie e delle trilogie, in cui sarebbero state organizzate dal poeta le tragedie di cui abbiamo una qualche notizia, cf. Tragicorum Graecorum Fragmenta, vol. 3, Aeschylus, editor S. Radt, Vandenhoeck &
Ruprecht, Göttingen 1985, pp. 111-120.
49
Valerio Casadio
momento peculiare del mito, circoscritto in un singolo dramma. Lo può testimoniare la sicura discontinuità cronologica di tragedie che trattano diversi momenti di una stessa unità mitologica: è il caso del mito tebano, cui vanno riferite
l’Antigone, che appartiene alla fase più antica della produzione sofoclea pervenutaci, l’Edipo Re che può collocarsi intorno al 430 a. C., l’Edipo a Colono, che non è
anteriore al 406 a.C., anno della morte del poeta.
Lo specifico modus operandi di Sofocle in rapporto al modello eschileo risulta
peraltro più chiaro, se prendiamo in considerazione l’unica tragedia sofoclea superstite ascrivibile al mito affrontato nell’Orestea16: ovvero l’Elettra, che corrisponde alla medesima sezione mitica delle Coefore. Che il poeta non intenda andar oltre la risoluzione, ad opera del tanto invocato fratello Oreste, dell’atroce
sofferenza della figlia di Agamennone, restata in balia degli assassini del padre,
soprattutto di una madre nemica, dimostra l’alterazione della cronologia relativa
dell’uccisione di Egisto e Clitemestra, che aveva imposto il modello eschileo: là
precedeva quella di Egisto, seguiva quella di Clitemestra, prodromo allo scatenarsi delle Erinni vendicatrici del sangue materno. Invertendo l’ordine, Sofocle
esclude definitivamente l’arrivo di queste ultime, di cui, infatti, nel dramma non è
alcun sentore. Et pour cause: ben difficilmente un Oreste impazzito avrebbe potuto portare a termine l’opera intrapresa. Ma questa scelta rappresenta anche il
taglio di qualsiasi continuità. Protagonista del dramma risultano in assoluto Elettra, il suo dolore e la sua finale vittoria: non c’è spazio per il pentimento, nemmeno per il comprimario Oreste.
Della continuità del mito si riappropria Euripide, anche se, dopo l’esempio
sofocleo, rinuncia alla trilogia “legata” di Eschilo17: il suo modo di procedere è
ancora una volta nuovo e diverso da quello dei predecessori, di cui non dimentica il modello, magari per metterlo alla prova critica, ribaltarlo, integrarlo: un metodo, che ci sembra verificabile proprio a partire da quello che potremmo chiamare il «mito di Oreste». Al quale il drammaturgo dedica in un primo tempo
un’attenzione per così dire “tangenziale” nei vv. 881-1008 dell’Andromaca18. Si
tratta di un episodio, comunque decisivo, che crea un’intersezione con un altro
mito, quello della sposa di Ettore, divenuta schiava di Neottolemo, cui ha dato
16
Scarso credito trova l’attestazione di un Egisto sofocleo reperibile in Philodem. de piet. 22
(fr. 23 N.2= 26 P.), Hesych. α 7574 Latte (Soph. fr. 24 N.2= 27 P.), cfr. Tragicorum Graecorum
Fragmenta, vol. 4, Sophocles, Editior correctior et addenda aucta, editor S. Radt, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 1999, pp. 126-127. In ogni caso non vi sono elementi per dichiararne
la contiguità o meno con l’Elettra.
17
Trilogia legata sarebbe forse tuttavia quella del 415 a. C. (Alessandro, Palamede, Troiane).
18
La tragedia, sulla base di uno scolio che la data ai primissimi anni della guerra del Peloponneso, nonché per ragioni metriche, viene ascritta ad un periodo tra il 427 e il 425 a. C.: a monte delle Troiane, i cui rapporti anche formali, nel tratteggiare Andromaca e il figlio,
nell’Andromaca Molosso, nelle Trioane Astianatte, sono strettissimi.
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Miti antichi e moderni
un figlio, motivo di odio da parte della legittima moglie, Ermione, e del padre di
lei, Menelao: nel corso della sua errabonda fuga, inseguito dalle Erinni, il figlio di
Agamennone viene in soccorso di quella che era stata la sua promessa sposa,
promettendole di portarla via con sé e soprattutto di provocare la morte del figlio
di Achille19, il che puntualmente poi avviene, con la complicità (o sarebbe meglio
dire, per volontà) di Apollo (vv. 1070-1165).
Il drammaturgo dedica, peraltro, pienamente alla saga dei figli di Agamennone la (successiva?) Elettra, di cui controversa è la datazione20, soprattutto quella
in rapporto alla parallela tragedia di Sofocle, rispetto alla quale è estremamente
innovativa: l’ambientazione non è il palazzo degli Atridi (come era in Eschilo, ma
anche in Sofocle), ma una casupola di campagna, in cui Elettra vive, da quando le
è stato imposto il matrimonio con un povero contadino (per allontanarla e per
toglierle ogni possibile pretesa sul trono paterno, come del resto è stato per Oreste). A ben vedere, però, tutto è giocato sul modello eschileo e sui modelli epici
che stanno a monte dell’Orestea. Esemplare è la scena (vv. 487-549), in cui il
vecchio pedagogo manifesta l’ipotesi del ritorno di Oreste sulla base dei tekmeria, degli «indizi», che erano stati addotti nelle Coefore21 e avevano portato al riconoscimento di Oreste da parte della sorella (la ciocca di capelli lasciata sul tumulo di Agamennone, le orme impresse dai calzari, il tessuto della veste indossata da Oreste): qui punto per punto confutati dalla stessa Elettra, a segnalare, ad
un tempo, un ossequio e una presa di distanza del drammaturgo dal suo modello.
Marca, così, una continuità “discontinua”, che manifesta anche la “nuova” ambientazione, di fatto un allusivo ritorno al retroterra epico: nei luoghi odissiaci
citati l’assassinio di Agamennone avveniva nella casa di campagna di Egisto, e qui
Euripide porta a morire Egisto e Clitemestra lontano dal Palazzo. La continuità
con Eschilo è peraltro evidenziata sia dall’identica sequenza cronologica
dell’uccisione dell’uomo prima e della donna poi, sia dalle parole di Castore (vv.
1238-1291), che, intervenendo come deus ex machina (insieme a Polluce, personaggio muto), traccia il destino di Oreste e quello di Elettra, preannunciando la
persecuzione delle Erinni (qui definite Chere, v. 1252), la necessità di ricorrere
19
Oreste afferma di essere diretto all’oracolo di Dodona e di essersi fermato a Ftia per rivedere la cugina (vv. 885-890). I tempi non sono ulteriormente precisati: ma Neottolemo è a Delfi
e a Delfi andrà Oreste, per ordirne la morte, si dovrà concludere che l’episodio si inserisce in
un lasso di tempo tra la morte di Clitemestra e l’arrivo all’Oracolo di Apollo, tempo in Eschilo
scandito dalla fine delle Coefore e l’inizio delle Eumenidi.
20
Sulla base di un probabile accenno nei vv. 1347-1356, da parte di Castore come deus ex
machina, alla spedizione di una flotta in soccorso degli Ateniesi in guerra coni i Siracusani, la
tragedia parrebbe doversi datare al 413 a.C.: ma motivi metrici, portati all’attenzione degli
studiosi da G. Zuntz, The Political Plays of Euripides, Manchester University Press, Manchester 1955, pp. 64-71, sembrerebbero retrodatarla ad un periodo precedente la cennata trilogia
del 415 a. C.
21
Cfr. Aesch. Choeph. 168-234.
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Valerio Casadio
all’aiuto di Atena, il giudizio liberatorio dell’Areopago, secondo il “copione” (con
qualche variante) delle Eumenidi22, ma anche un oltre, ovvero la destinazione finale del giovane in una città da lui fondata in Arcadia, che prenderà il suo nome,
nonché il matrimonio di Elettra e Pilade. È l’annuncio programmatico di uno
svolgimento inedito, che ripercorrerà i diversi momenti della trilogia eschilea,
non senza alterarne i limiti, proprio perché svincolato dalla struttura compatta
della trilogia legata: un impegno, che, come vedremo, il poeta, nel corso della sua
“carriera” porterà in qualche modo a compimento, realizzando quella che potremmo qualificare come una «trilogia “allargata”».
Una (ulteriore?23) tappa di questo processo è rappresentato dall’ Ifigenia in
Tauride, una tragedia che “sconfina”, non diversamente dal ricordato episodio
dell’Andromaca, dal programma eschileo originario, rappresentando un ponte
verso un’altra trilogia (eschilea), incentrata su Ifigenia24, di cui rappresenta un
tassello importante, se non, con qualche verosimiglianza, l’elemento conclusivo,
mentre, nel contempo, “allarga” la trilogia incentrata su Oreste, arricchendola di
nuovi particolari che ne allontanano, nei tempi e nei modi, la conclusione.
L’intreccio tra le due vicende nasce da un’inattesa inventio euripidea: come apprendiamo ai vv. 971-986 dallo stesso Oreste, alcune Erinni, che non hanno accettato la sentenza dell’Areopago, hanno proseguito la loro persecuzione e saranno placate solo quando l’eroe, su suggerimento di Apollo, avrà recuperato
dalla terra dei Tauri e portato ad Atene la statua lignea di Artemide. Il riconoscimento tra i due fratelli ed un rocambolesco piano di fuga consentono anche la
felice conclusione delle peripezie di Ifigenia. Garante del buon esito delle due
vicende parallele è Atena, che, intervenendo come deus ex machina a conclusione
della tragedia (vv. 1435-1474), ferma le armi di Toante, sovrano del paese che si
appresta ad attaccare i fuggiaschi.
22
Si nota qualche divergenza “erudita”, quale la diversa etimologia del nome dell’ Areopago
(dai sacrifici offerti ad Ares dalle Amazzoni, in lotta contro Teseo, in Eschilo, dal processo che
qui gli dei avevano per la prima volta celebrato contro Ares, colpevole di omicidio, in Euripide), ma anche più strettamente pertinente l’andamento della vicenda: Oreste sarà assolto,
non perché il matricidio trovi una qualche giustificazione, come nelle Eumenidi (nell’“arringa”
di Atena), ma perché Apollo se ne assumerà la responsabiltà, in quanto è lui che lo ha indotto
a tale atto con un vaticinio.
23
Viene in genere datata al 414 o 413 a. C..
24
L’esiguità dei frammenti e l’assenza di argumenta chiaramente riconducibili all’opera di Eschilo hanno indotto gli studiosi a formulare ipotesi piuttosto diverse su detta trilogia e sulla
posizione che vi occupa (come prima, seconda o anche terza) una tragedia denominata Ifigenia: ad essa sono variamente associate le Iereiai («Sacerdotesse») i Talamopoioi («Allestitori
di camera nuziale»), ma anche Telefo e Palamede, cfr. Tragicorum Graecorum Fragmenta, vol.
3, Aeschylus, editor S. Radt, cit., p.115. Ulteriori ipotesi (ibidem) la spostano in una trilogia di
Telefo, insieme a Telefo e Misi.
52
Miti antichi e moderni
La suddetta inventio euripidea, che presuppone delle Erinni “dissidenti” rispetto al giudizio dell’Areopago, sembra peraltro aprire uno squarcio su una tradizione altra e parallela, verosimilmente più antica di quella, per così dire “atenocentrica”, inaugurata da Eschilo25: una tradizione di cui è forse reperibile una
traccia nel Crise di Sofocle, se la interpretiamo alla luce delle Fabulae 119-121 di
Igino, una “narrazione continua” della vicenda di Oreste, in cui non compare il
processo ateniese, mentre trovano spazio l’avventura della Tauride, imposta da
Apollo immediatamente dopo il matricidio, e il successivo “casuale” incontro,
durante il viaggio di ritorno, di Oreste, Pilade ed Ifigenia con Crise, figlio di Agamennone e Criseide26. Gli scarsi frammenti pervenutici rendono difficile discriminare, nel racconto del mitografo latino, quanto sia autenticamente sofocleo, quanto possa risalire alla più antica tradizione o quanto dipenda da una tragedia di età ellenistica27. Risulta comunque evidente il ruolo che si è assunto Euripide, di (ri)sistematore della tradizione, il suo intento di “far quadrare” gli elementi comunque tràditi in un quadro coerente ed unitario.
Successivamente, nel 408 a.C., Euripide con l’Oreste riprende la saga a partire
dalle esequie di Clitemestra, quindi, potremmo dire, incidendo la narrazione e25
Un rimodellamento del mito teso all’esaltazione di Atene e delle sue istituzioni (nello specifico quella del tribunale dell’Areopago), era nelle corde di Euripide non meno che in quelle di
Eschilo: si considerino ad esempio le Supplici, non casualmente considerate da Aristofane di
Bizanzio (cfr. il II Argumentum della tragedia) un «elogio di Atene». Sofocle, sempre sulla
base di quanto ci è pervenuto, sembra “adeguarsi” solo a conclusione della sua vita, con
l’Edipo a Colono.
26
Dovrebbe essere la “trama” del Crise: l’ipotesi di una connessione con il testo di Igino per
questa tragedia (che si direbbe tra l’altro all’origine di una omonima di Pacuvio) risale a F. G.
Welcker, Die Griechische Tragödien mit Rücksicht auf den epischen Cyclus geordnet von F. G.,
Bonn 1839-1841, pp. 210ss. Secondo uno scolio ad loc., Aristofane negli Uccelli (v. 1240) ne
rielaborerebbe un passo (fr. 727 R.), la tragedia pertanto dovrebbe essere stata rappresentata
prima del 414 a. C.: se posteriore a tale data, la tragedia euripidea, troverebbe proprio una
“giustificazione” nell’intento di connettere tradizioni diverse. Che l’originale sofocleo avesse a
che fare con il racconto di Igino, negava peraltro U. von Wilamowitz-Moellendorff, Der
glaube der Hellenen, II, Weidmann, Berlin 19552, p. 400.
27
Il testo di Igino prosegue poi (Fabula 122) con il racconto del tentativo di Alete, figlio di
Egisto, di impadronirsi del trono di Micene in seguito alla falsa notizia della morte in Tauride
di Oreste e Pilade. Sarebbe, ancora secondo F. G. Welcker, Die Griechische Tragödien mit
Rücksicht auf den epischen Cyclus, cit., pp. 215s. la “trama” dell’Ale(i)te, di cui sono conservati
pochi frammenti, tutti da Stobeo, che li attribuisce a Sofocle. Il giudizio decisamente negativo
di U. von Wilamowitz-Moellendorff, Kleine Scriften, Herausgegeben von den Akademien zu
Berlin und Göttingen, 1935-1972, IV, pp. 291 et 483ss. ha persuaso il Radt, che ha escluso i
frammenti dall’edizione sofoclea: lo Snell ipotizzava una possibile paternità di Sofocle, nipote
del poeta maggiore, cfr. Tragicorum Graecorum Fragmenta, vol. I, Didascaliae tragicae, Catalogi
Tragicorum et Tragoediarum, Testimonia et Fragmenta Tragicorum Minorum, Editor B. Snell,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1986, p. 208.
53
Valerio Casadio
schilea in un momento che va collocato tra le Coefore e le Eumenidi e andando ad
occupare quel vuoto che avevamo rilevato tra le due tragedie28, per colmarlo con
la vivida rappresentazione dello stato di estrema prostrazione di Oreste e della
sua allucinata follia, che lo porta a lottare con le Erinni (vv. 255-27529), fantasmi
che lui solo vede, proiezioni in definitiva di quel rimorso che, come lui stesso
ammette, gli viene dalla synesis, dalla «consapevolezza» del male commesso (v.
396). In questo spazio “dilatato” Oreste, ed Elettra che lo assiste, respinti da Elena e Menelao, cui avevano chiesto aiuto, ferocemente attaccati da Tindareo, abbandonati da tutti salvo che da Pilade, vedono allontanarsi, nel futuro, il giudizio
dell’Areopago, che Eschilo, ma anche l’Euripide dell’Elettra, avevano indicato
come felice conclusione della storia. Qui si prepara un processo da parte degli
Argivi, una sorta di anticipazione, ma in negativo, di quello assolutorio di Atene e
la vicenda prende insolite strade: condannati (Pilade al pari di Oreste ed Elettra), i tre tentano disperati il tutto per tutto, pensano ad una possibile rivalsa nei
confronti di Menelao con l’uccisione di Elena o il rapimento di Ermione.
Una pacifica composizione è ancora una volta assicurata dal deus ex machina,
in questo caso Apollo, che riconduce gli eventi al loro atteso svolgimento (vv.
1625-1665): Pilade sposerà Elettra, Oreste sarà giudicato e assolto
dall’Areopago e sposerà Ermione30. Risulta in tal modo confermato il ruolo, già
percepibile nelle tragedie precedentemente esaminate, della rhesis del deus ex
machina quale essenziale momento di raccordo e di “sistemazione” di eventi, che
nella cronologia del mito debbono considerarsi concatenati e che sono, invece,
portati sulla scena a distanza di anni: in definitiva elemento strutturale di quella
28
Diversamente da quanto rilevato per l’Andromaca, qui i tempi sono meticolosamente indicati: forse anche per registrare le differenze con quanto affermato in Omero circa l’arrivo di
Menelao, il poeta fa dire ad Elettra, che recita il Prologo, fornendo le coordinate degli eventi,
che è il sesto giorno dalle esequie di Clitemestra (vv. 39-40: nell’Odissea risultava giunto ad
Argo il giorno stesso del rito funebre, cf. Od. 3. 331, 4. 546-547).
29
Analoghe allucinazioni erano descritte nell’Ifigenia in Tauride (vv. 280-305).
30
Apollo aggiunge due altri elementi probabilmente forieri di possibili evoluzioni performative: l’annuncio che Elena non è stata uccisa, ma si è salvata, perché destinata all’immortalità, e
la correlata ingiunzione a Menelao a sposare un’altra donna. Fornisce inoltre alcune varianti
del destino di Oreste: all’eroe ordina di trascorrere in Arcadia un anno prima di raggiungere
Atene, per poi, dopo il giudizio dell’Areopago, prendere possesso del regno di Argo, che Menelao dovrà lasciare a lui. Si trasforma così in esilio temporaneo quello che appariva definitivo
nell’Elettra. L’ulteriore ingiunzione ad Oreste di sposare Ermione, è suffragata dalla perentoria negazione che quest’ultima vada mai in sposa a Neottolemo, accompagnata
dall’affermazione che questi sarà ucciso da spada delfica (vv. 1654-1657). È questa una smentita clamorosa della tradizione epica: i primi versi del quarto canto dell’Odissea narrano del
banchetto a Sparta per le nozze di Ermione col figlio di Achille. Ma è anche una parziale
smentita dell’Andromaca, la tragedia, in cui, come abbiamo visto, si intrecciano i destini di
Ermione e di Oreste: là Ermione era la sposa (poi la vedova) di Neottolemo.
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Miti antichi e moderni
trilogia “allargata”, la cui costruzione ci sembra Euripide abbia voluto con costanza perseguire31.
L’ultima tessera di questo grandioso mosaico è una tragedia che il poeta ha
composto poco prima della sua morte e di sicuro ad Atene è stata rappresentata
postuma: si tratta dell’Ifigenia in Aulide, che costituisce quello che, mutuando la
terminologia dei sequels contemporanei, potremmo definire l’«episodio zero»,
l’origine di tutto. Qui il drammaturgo porta sulla scena quel sacrificio di Ifigenia,
che era stato evocato, peraltro con straordinaria forza icastica, dal Coro
dell’Agamennone di Eschilo (vv. 223-257), dando così forza a quelle ragioni di
Clitemestra che, ignorate dall’epos, erano state violentemente espresse proprio
dall’Orestea32 e nello stesso tempo fornendo quello che, ancora con la terminologia dell’attualità cinematografica, indicheremmo come un proquel dell’ Ifigenia in
Tauride33. Il ciclo del mito di Oreste, tornando alle origini, così si chiude, dando
alla sequenza delle tragedie che lo hanno rappresentato la continuità dell’epos
narrato34 insieme alla visualità dell’hic et nunc che solo il teatro può dare.
31
In qualche modo analoga è la tendenza a delineare un file rouge che connetta gli elementi
del mito, a distanza di tempi e di luoghi, che abbiamo individuato nelle Fenicie: una funzione
che là sembra assolvere il Coro, cfr. V. Casadio, Nel segno di Cadmo. Personaggi e situazioni
delle Fenicie di Euripide, Evoé edizioni, Teramo 2012, pp. 5-6, 38-40.
32
E sulle quali si interrogava Pind. P. XI 17-36, cit.
33
Nulla sappiamo, nonché della trilogia eschilea (cfr. n. 24), della caratteristiche della tragedia che ne doveva costituire l’incipit e in che rapporto stesse con l’episodio narrato
nell’Agamennone. Scarsi sono peraltro i dati noti della parallela Ifigenia di Sofocle, cfr. Tragicorum Graecorum Fragmenta, vol. 4, Sophocles, Editior correctior et addenda aucta, editor S. Radt,
cit., pp. 269-274. Di sicuro in quest’ultima tra i personaggi figurava Odisseo (cfr. fr. 305 R.),
autore “materiale”, insieme a Taltibio (o a Diomede?), dell’inganno perpetrato nei confronti
di Clitemestra ed Ifigenia, indotta a venire in Aulide con la promessa delle nozze con Achille,
in realtà per esservi sgozzata. Non diverso da quello euripideo doveva essere l’esito: la salvezza di Ifigenia per opera di Artemide, che la trasferiva in Tauride. Se poi fosse anche divinizzata, come già nei Cypria e in Hes. fr. 22 M.-W., cit., e come afferma Ps. Apollod. Epit. 3.21-22,
ci è ulteriormente ignoto.
34
Una peculiare attenzione di Euripide per le modalità compositive dell’epos arcaico trova
un’ulteriore conferma nella creazione di nuovi stilemi “formulari”, che hanno i tratti tipici della dizione omerica, cfr. V. Casadio, Un dramma “tormentato”. L’Oreste e le formule euripidee,
Evoé edizioni, Teramo 2011, pp. 307-311.
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Valerio Casadio
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Stefano Gallo
Finito di stampare in proprio
nel mese di settembre 2013
UniversItalia di Onorati s.r.l.
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