1
ASSOCIAZIONE CENTRO CULTURALE
DEL TEATRO DELLE ARTI
In unità con
REGIONE LOMBARDIA
Direzione generale Cultura, Identità
e Autonomie della Lombardia
PROVINCIA DI VARESE
Settore Marketing Territoriale e Identità Culturale
LA LEGGE E LA MORALE
Euripide
Medea
Mariagrazia Boracchi
7 Novembre 2006
TEATRO DELLE ARTI - GALLARATE (VA)
Saeuos Amor docuit natorum sanguine matrem
commaculare manus; crudelis tu quoque, mater:
crudelis mater magis, an puer improbus ille?
Improbus ille puer; crudelis tu quoque, mater.
Virgilio, Ecl. VIII, vv. 47-50,
2
Indice tematico
AMORE E PASSIONE: un kosmos equilibrato di valori etici
OFFESA, SOFFERENZA, ODIO, VENDETTA:
un'ineluttabile sequenza etico-giuridica
DIKE E ADIKIA
NEMESI E TIMORIA: vendetta e punizione
Euripide, Medea
Rappresentata nel I anno della 87° Olimpiade (431 a. C.)
Medea, figlia di Eeta, re della Colchide, sposa di Giasone, con i figli ha seguito il marito a Corinto;
qui viene a sapere che egli intende sposare Glauce-Creusa, figlia di Creonte, re della città e che
perciò l'attende, per il tradimento di Giasone, un destino di moglie ripudiata e, per ordine di
Creonte, una sorte di donna esule. Offesa nei suoi sentimenti più profondi, Medea decide di
vendicarsi in modo orribile. Dopo essersi assicurata la complicità delle donne corinzie che
compongono il Coro, ottiene da Creonte di rimandare di un giorno l'abbandono di Corinto. In un
intenso e drammatico confronto tra Medea ed il marito si rivela il carattere ambiguo e ipocrita di
Giasone. L'aiuto determinante è offerto a Medea dal re di Atene Egeo, che, giunto a Corinto di
ritorno da Delfi, promette alla donna ospitalità e protezione ad Atene. Ormai certa di poter sfuggire
ai suoi nemici, Medea mette in esecuzione il piano di vendetta: finge di riconciliarsi con Giasone e,
simulando il desiderio di rendere omaggio ai sovrani, manda i propri figli a portare alla giovane
sposa, come doni nuziali, una veste ed una corona d'oro, imbevute di filtri mortali. Dopo che un
messaggero ha narrato la fine raccapricciante di Creonte e della figlia, Medea rientra nel palazzo
ed uccide i suoi stessi figli: Giasone resta solo e straziato a maledirla, mentre la donna fugge su un
carro alato trainato da serpenti alati.
3
Premessa
Medea, la tragedia di Euripide (Atene 431), continua ad affascinare: arte, letteratura, teatro, cinema,
psicologia ne indagano le sfaccettature sia in chiave tradizionale sia in chiave moderna, sviluppando
molteplici tematiche, come ad esempio:
1. Il conflitto tra la barbarie, incarnata da Medea, e la civiltà greca, espressa da Giasone
2. l'opposizione straniero/autoctono e la condizione di alterità di Medea, emarginata e proiettata in una
assoluta solitudine.
3. l’inferiorità sociale della donna, contrapposta alla superiorità dell'uomo,
4. l'esplosione del conflitto nella relazione amorosa e nel rapporto coniugale;
5. il contrasto fra freddezza e rigore della ragione e dominio irrazionale delle passioni.
In estrema sintesi, incombono su questa tragedia tutte le diversità di Medea: di razza, di sesso, di
intelligenza, di affetti ed emozioni; ad esse si aggiunge, devastante, non la follia, ma paradossalmente
un'intelligenza fredda, lucida e vendicativa.
Si può parlare allora di una 'polivalenza', di Medea, di una 'concordia discors… sfuggente, impenetrabile,
indefinibile', 'che spinge a nuove riletture, con la promessa di ulteriori approfondimenti e chiarificazioni'.
Proprio questa concezione di work in progress della riflessione critica su Medea diffusa tra gli studiosi mi ha
stimolato a sviluppare una riflessione sull'idea di giustizia e sugli elementi del diritto presenti nella tragedia e
nel suo linguaggio e sulla loro interazione con il diritto sacrale, le norme etiche, il comportamento morale e le
scelte tragiche di Medea.
Introduzione
Medea è vittima di un pregiudizio morale e comunemente intesa come un'eroina dell’odio, una donna che,
ottenebrata dal furore della passione, si macchia di orribili delitti.
In effetti è un'assassina: per consentire la sua fuga dalla Colchide con il vello d'oro trafugato e con Giasone,
inseguito da suo padre Eeta, uccide e smembra il corpo del fratello Absirto e nella sua lunga peregrinazione
con l'eroe divenuto suo marito, 'ogni tappa è segnata da un evento funesto che innesca un meccanismo di
fuga senza ritorno'
A Iolco, in Tessaglia, Medea realizza la sanguinaria vendetta sullo zio di Giasone, Pelia, che viene fatto a
pezzi e messo a bollire dalle sue stesse figlie, istigate dalla maga a compiere quello che credono un rito di
ringiovanimento, ma ignare esecutrici con le loro stesse mani affettuose ed innocenti di un progetto di
omicidio a lungo meditato.
Ancora di ingannevoli doni, di parole suadenti e di mani incolpevoli, quelle dei suoi bambini, Medea si servirà
per uccidere, a Corinto, la donna con cui Giasone si è sposato, Creusa-Glauce e suo padre Creonte, la cui
ospitalità ricambia con la vendetta più orrenda, annullando la dinastia regale.
Medea è creatura di distruzione anche nella sua stessa casa: l'innovazione drammaturgica introdotta da
Euripide nella saga degli Argonauti fa di Medea l'assassina dei suoi stessi figli, che ha reso complici del suo
delitto, 'rivestendo l'innocenza di un colore funereo'. La tradizione mitica precedente infatti attribuiva la morte
dei bambini o agli stessi cittadini di Corinto, per vendetta, o al funesto tentativo della madre di renderli
immortali con pratiche magiche.
Essi sono vittime tanto fragili da essere 'inesistenti'; sono 'cose', non individui soggetti di diritto, e sono
rimasti letteralmente senza nome nel mito e personaggi muti sulla scena tragica.
E' in Euripide che Medea diventa incarnazione del male, simbolo perverso ed universale della madre
infanticida che commette il delitto più nefando e percepito come snaturato, perché l'atto di negare la vita ad
una creatura con la violenza è in contraddizione con la natura femminile, che genera e tutela la vita. Persino
in psicologia ed in psichiatria il gesto estremo di Medea, ('sindrome della madre malevola' o 'complesso di
Medea') è impiegato nell'indagine e nella definizione dei comportamenti umani, in modo emblematico della
perennità ed universalità della figura mitica.
Ma in Medea il principio etico naturale dell'amore materno è annullato da quello che lei sente come un
obbligo assoluto, il legittimo risarcimento del disamore di Giasone, e l'infanticidio è la realizzazione di una
forma estrema di giustizia, 'un atto necessario al giusto compimento della sua vendetta'.
In questo bisogno primario di attuare la giustizia risiede la profonda grecità del personaggio di Medea; deamaga come Circe, sua zia, anche lei manifesta come Achille o l'Aiace sofocleo, un'ira divina per il proprio io
violato e calpestato che, per ottenere vendetta, esige l’esplosione di se stesso.
La categoria di follia diventa incompatibile, perché, sebbene sia abnorme, l'azione di Medea non è insensata
né indotta dall’esterno, ma frutto di precise determinanti psicologiche.
Medea è l'esempio di come un comportamento aberrante non può più essere interpretato con la categoria
della 'colpa tragica', che ha componenti 'fatali' (come in Eschilo e Sofocle), in quanto Euripide chiama in
causa una nuova categoria etica in cui la volontà assume un ruolo determinante: la responsabilità individuale
4
AMORE E PASSIONE: un kosmos equilibrato di valori etici
La comunicazione verbale di Medea è densa di termini del vocabolario erotico, soprattutto del termine 'letto',
definito 'insaziato' con un'arditezza espressiva singolare, ma assolutamente motivata dal carattere
eccezionale dell'amore per Giasone per il quale ha persino tradito la propria famiglia, il ghenos.
L'insistenza sul 'letto', lechos o eunè, è fondamentale anche giuridicamente; la parola connota il vincolo
matrimoniale, il legame affettivo o anche la mera sessualità, inoltre è impiegata come sinonimo dello status
coniugale, una condizione sociale garantita dal legame, da difendere da ogni offesa ed ingiustizia.
'Quando una donna è offesa nel 'letto' non c'è una creatura più sanguinaria', afferma Medea.
Ed il coro nel IV stasimo intona: 'Anche te compiango e il tuo dolore, madre infelice, che i figli vuoi uccidere
per un letto nuziale, il letto che il tuo sposo ha tradito…' ed ancora nel V stasimo: 'O letto di donna, letto di
dolore, quante sciagure procuri agli uomini!' E sarcasticamente, nel IV episodio, Medea si prende gioco della
credulità di Giasone; pregustando la vendetta esclama: 'Sarà felice non una, ma mille volte, di aver preso te
come compagno di letto!'
Molto importante è la ricorrenza di himeros e pothos, (desiderio e nostalgia) e significativa la presenza di un
lessico di valori quali reciprocità, contraccambio, equilibrio (isotes): queste parole definiscono l'amore come
un kosmos, un mondo ordinato regolato al suo interno da giusta distribuzione, simmetria, uguaglianza.
Invece il 'letto' è riduttivamente inteso da Giasone come sesso: 'Ma voi donne siete giunte al punto che, se il
letto va bene, credete di avere tutto, ma qualora avvenga poi qualche sventura che riguardi il letto, rendete
anche i rapporti più belli assai ostili'.
Si può pensare allora che la civiltà ellenica non è ipso facto portatrice di valori etici positivi e che provenga
da una maga barbara una grande lezione sulla morale dell'eros e degli affetti: il principio della reciprocità
amorosa e della giustizia come parità ed equità di trattamento vicendevole. Questa è un'istanza innovativa:
benché sia già presente a tratti nella poesia lirica per esempio in Saffo, risulta comunque certo inconsueta
per un'eroina del mito ma anche per una semplice donna greca.
L'amore tra Medea ed il suo sposo si connota di elementi di fisicità, come 'abbracciare le ginocchia', 'toccare
o stringere le mani', 'sfiorare la pelle'; questa ricerca di contatto ricorre anche nei rapporti di philia, amicizia,
e nei gesti di preghiera e di supplica a dei e ad uomini. La comunicazione affettiva di Medea si può
interpretare allora come espressione di un impegno etico di legame e di reciprocità, come nell'amicizia così
nell'amore, ma è anche una prova del fatto che da Medea tutto è vissuto fisicamente: con il corpo lei
promette amore, giura fedeltà, ama; altrettanto nel corpo soffre e con il corpo e nel corpo fa soffrire. In tutte
le declinazioni e le forme dell'esser donna, infatti, come moglie, come madre ed ancor prima come figlia, lo
stigma di Medea è la sofferenza patita ed inflitta.
5
OFFESA, SOFFERENZA, ODIO, VENDETTA: un'ineluttabile sequenza etico-giuridica
Ad innescare il dramma, come si è detto, sono il disamore di Giasone, ed il ripudio di Medea che sarà
costretta ad abbandonare la città e a vivere in esilio, lasciando i suoi figli a Corinto. La situazione suscita una
insostenibile sofferenza, dapprima tutta racchiusa in se stessa (espressa in modo passivo con una sindrome
di rifiuto della vita: abulia, afasia, anoressia ed uno stato di prostrazione fisica e mentale), ma poi si fa
violenta e vendicatrice, alimentata da un odio implacabile contro Giasone, 'l'odiato nemico', l'echthròs,
l'estraneo, ostile, fuori dalla cerchia dei philoi, gli amici, i propri cari.
Già nel prologo la sua situazione è definita dalla nutrice 'ostile', con l'aggettivo che contiene il semema del
contrasto irriducibile tra nemici, e che indica anche i rivali, gli avversari, in un tribunale. Il vocabolo ricorre 27
volte nella tragedia, a conferma di quanto sia rilevante il campo semantico etico e giuridico.
'E lei, l’infelice Medea, oltraggiata, invoca i giuramenti, la promessa suggellata con una stretta di mano;
chiama gli dei a testimoni di come la ripaghi Giasone. Non mangia, è consunta dal dolore, passa tutto il
tempo a piangere, da quando si è accorta dell’oltraggio patito.
Il lessico si iscrive nell'area semantica dell'etica e del diritto, sia umano sia sacrale, con l'invocazione agli dei
come garanti di un diritto e come testimoni di un vulnus ad esso inferto. Medea è definita etimasmene, con
un vocabolo che connota ingiustizie ed offese in ambito erotico (atimasas, il verbo coniugato all'attivo è per Giasone).
Poi edikemene, vittima di un'umiliazione che è anche un oltraggio, (hybris), poiché l'ha privata della sua
onorabilità e della considerazione e rispetto, cioè della timè, che invece le riconosce la solidarietà del coro.
Timè è parola chiave del mondo valoriale eroico, un vocabolo tematico ricorrente nell'universo epico-omerico
e tragico per connotare il valore morale dei membri della società aristocratica, la ricerca della gloria e
dell'onore da parte dell'eroe, ed il rispetto che di conseguenza gli è dovuto dalla comunità. Con la timè è
connesso il principio etico della reciprocità di bene e male; quasi riecheggiando l'Elegia alle Muse di Solone,
Medea enuncia il precetto in base al quale si deve far bene agli amici e male ai nemici: 'dura con i nemici e
ben disposta verso gli amici'.
Nell'atimia, cioè nella privazione della timè, secondo la prassi giudiziaria ateniese, incorre chi è sconfitto in
un processo e viene privato dei diritti civili: punizione percepita come una vera e propria morte civile,
interdicendo con infamia e disonore da ogni partecipazione alla vita della polis.
Atimoi sono per definizione gli schiavi, esclusi giuridicamente dalla comunità-polis e proprio così, atimos, è
definita Medea dal coro, che rappresenta la comunità. Spesso la condanna all'atimia si accompagna all'esilio
o phygè, come testimoniano le orazioni giudiziarie di Lisia; in esse l'esito del processo spesso prevede
proprio questa condanna come la più temuta perché fa di un cittadino un apolis, esposto alla più grande
incertezza, privo di tutta una rete di rapporti sociali e religiosi, proprio come si definisce Medea, confrontando
la sua condizione con quella delle donne del coro: ''Io invece sono sola e senza città apolis, oltraggiata da
mio marito, rapita come preda da una terra straniera'
La condanna all'esilio è la punizione inflitta a Medea, innocente, solo per la fama delle sue arti magiche e di
quella sophia che il re Creonte teme come strumento di vendetta del torto subito dallo sposo. La decisione
del re è irrevocabile, frutto della paura di un uomo che, immemore di saggezza, 'cerca di coprire la sua
debolezza creando frastuono' (Lesky): la donna è costretta all'esilio da Corinto
ripete
tre volte in pochi versi), come se fosse stata accertata la sua colpevolezza, cioè si fosse svolto un processo
e fosse stata proferita una sentenza di condanna dal re; egli è 'arbitro' (brabeus) ed esecutore del decreto di
espulsione, senza possibilità di difesa per l'imputata.
Come in un processo, allora a Medea resta solo la supplica, la canonica 'mozione degli affetti', nel tentativo
di suscitare comprensione e pietà nel vecchio re; ed così mostra un atteggiamento di sottomissione e di
simulato rispetto, parte integrante del suo piano di vendetta, e si commisera per la vergogna, il disagio
economico, e l'emarginazione sociale che conseguono all'esilio.
Ritroveremo lo stesso vocabolario giuridico inteso a suscitare affetti nel IV episodio: Medea finge di
riconciliarsi con Giasone, lo implora di essere comprensivo, di perdonare la sua ira, di non 'ricambiare' al suo
atteggiamento puerile e di desistere dalla precedente ostilità.
E' vero, come scrive Cicerone, che Medea, profuga in terra straniera, si presentava in scena 'con le mani
interamente ricoperte di gesso'? Questa sarebbe un'immagine estremamente simbolica del bisogno di
Medea di assimilarsi in tutto e per tutto con le donne di Corinto, facendo assomigliare la sua carnagione di
barbara a quel candore della pelle tanto apprezzato nelle donne greche.
In questo consiste il dramma di Medea come essere umano, come persona, prima che moglie e madre:
deve cancellare con un trucco ed un travestimento la propria alterità e dunque negare se stessa per essere
accolta; deve identificarsi con l'altro da sé per avere ospitalità; deve spogliarsi della propria natura ed
indossare una finzione per avere un'identità.
6
Il Tarditi volle cogliere nel dramma di esclusione patito da Medea il rispecchiamento di una situazione di
stringente attualità per Atene: prima dello scoppio della guerra del Peloponneso la città si ripiegò su se
stessa e la legislazione periclea assecondò tale chiusura, riservando la cittadinanza legittima solo ai figli nati
da padre e madre titolari della piena cittadinanza ateniese. La drammatica conseguenza della norma
giuridica fu il ripudio delle mogli straniere, costrette ad una delegittimazione che le rese tutte concubine. La
loro situazione sarebbe equivalente a quella di Medea: anche sulla moglie di Giasone, una barbara, pesano
l'intolleranza ed il rifiuto pretesi da una legge degli uomini.
L'identificazione di Medea con le straniere vittime di questa legislazione negatrice di legami ed affetti, con un
potente scarto temporale - dalla storia al mito- e spaziale - da Atene a Corinto-, trasforma il sapere magico e
barbarico di una 'strega' in doti laiche, in un'intelligenza lucida, in argomentazioni dalla logica rigorosa ed in
strumenti verbali ineccepibili, adeguati alla città che Tucidide definì 'scuola dell'Ellade'.
E' questo un significativo punto di intersezione tra la tematica tragica e le problematiche civili e politico
sociali di Atene, che ritroveremo nell'incontro tra Medea ed Egeo, re di Atene, nel III episodio. Il motivo
dell'attualità nella tragedia è molto interessante, ma non dobbiamo mettere al centro della nostra lettura il
rapporto con la contemporaneità storica, perché il teatro greco affidava alla commedia, non alla tragedia, il
compito di rappresentarla. Se la tragedia non prescinde dai problemi storici contemporanei, non vuole però
identificarsi con essi in modo esclusivo. L'eroe tragico infatti si pone in una dimensione meta-storica ed è
depositario di un destino che trascende il dato contingente, cioè quello di essere un modello di
interpretazione della stessa condizione umana.
Come ricorda Medea, il suo legame nuziale è stato consacrato da giuramenti e da gesti rituali ed altamente
simbolici come la stretta di mano; ne erano testimoni, a garanzia di legittimità e di fedeltà, gli dei invocati ad
assistere al rito. Tutta la tradizione iconografica antica greca e romana conferisce grande rilevanza al gesto
della dextrarum iunctio, momento cardine del rito matrimoniale, che garantisce la reciprocità e la
obbligatorietà del legame.
Nella rievocazione del rito e del gesto torna il linguaggio giuridico con pistis, vocabolo comune al lessico del
processo, che significa, nella sua polisemia, fiducia, ma anche prova, così come marturomai esprime
l'azione del dio testimone del legame nuziale e del teste in un processo.
Si riscontra quindi un intreccio di vocaboli religiosi con termini di alta valenza giuridica; il rito sacro legittima
un atto o una cerimonia anche in termini di diritto umano. L'interferenza tra i due ambiti è diffusa nel mondo
antico: da una parte attesta l'esistenza di uno stretto rapporto tra antropologia e mito divino, dall'altra
conferma la funzione di modello ed archetipo del mito anche per la prassi quotidiana.
Mentre il gesto dell'unione delle mani significa amore, fedeltà e legittimazione della prole, Medea ha ricevuto
come contraccambio, amoibè, solo tradimento ed abbandono: 'L'infelice Medea disonorata supplica a gran
voce i giuramenti, invoca la suprema fedeltà della destra e chiama gli dei a testimoni di che cosa riceve in
cambio da Giasone'. E a sua volta risponde con la straziante reciprocità dell'assassinio di Glauce e
dell'infanticidio, privando Giasone della sua discendenza presente e futura.
Un tragico contrappasso nei gesti e nelle parole, in cui si ripropone la tematica simbolica della mano,
anticipa il precipitare degli eventi: nel IV episodio, per convincere Giasone del suo pentimento e della
rinuncia alla ribellione ('abbiamo fatto la pace') invita i figli a 'prendere la mano destra del padre' come prova
di rappacificazione, ma, con ironia tragica e con inversione di segno, questo sarà l'addio al padre!
Nella mente di Medea divampano affetti opposti: è un incendio che accomuna l'immagine dell'amore giurato,
il tradimento, e la morte dei suoi bambini, una sorta di corto circuito catalizzato dalla visione delle mani di
padre e figli unite a suggellare un patto, a ristabilire un legame.
Un quadro familiare tragicamente presago di dolore su cui aleggia, accanto alla dea Armonia, la cupa
presenza del suo opposto, Neikos, Lite 'Ahimè, come penso a qualcuno dei mali nascosti' esclama Medea,
alludendo al rancore del passato ed all'imminente futuro di orrore e sangue, quando per l'ultima volta bacerà
la mano dei suoi figli ('Date, date, bambini la destra da baciare alla mamma. Oh mano carissima…').
L’odio inesorabile suscitato dall’abbandono, è un sentimento irriducibile alla ragione, una rabbia che può
placarsi solo se ottiene risarcimento, vendetta, nemesis, cioè giusta compensazione, ristabilimento degli
equilibri, il trionfo di dike su adikia, 'la linea portante dell'azione tragica'.
7
DIKE E ADIKIA
Nella tragedia si svolgono molte considerazioni di ordine generale su dike, che conferiscono a Medea un
inatteso spessore culturale e una prospettiva critica oggettiva ed universale: si tratta soprattutto delle
riflessioni sul destino di un apolis, uno straniero in terra straniera, giuridicamente escluso, e spesso anche
oggetto di disprezzo. Ci colpisce per intensità l'affermazione di Medea che 'la giustizia non vive tra gli
uomini', perché' odiano gli estranei solo al vederli'; è vero che la sua considerazione nasce dall'esperienza
personale ed è espressa in modo coerente con la vicenda, ma attinge ad una verità universale.
Un alto senso di giustizia anima anche la famosissima rhesis nella quale Medea demolisce, con logica
stringente ed abilità dialettica, l'assoluta iniquità della misoginia, frutto del pregiudizio maschile e di una
lunga tradizione letteraria. Qui l'eroina non esprime stati d'animo, ma riflessioni di carattere universalizzante
sulla relazione di genere ed i versi, dalla forte connotazione etico-sociale a favore delle donne, tradotti dal
filologo inglese Murray, divennero persino 'a song for feminist' cantata dalle suffragette inglesi.
Medea, con una sensibilità antipatriarcale, rivendica per sé e per le Corinzie, che chiama 'amiche', un diritto
negato, quello della donna ad un'individualità autonoma, nella quale non si subiscano solo doveri, ma si
affermino anche diritti. Invece, sostiene, il matrimonio è un contratto che costringe la donna a prendere un
'padrone' del proprio corpo, che soddisfa l'utilitarismo maschile con le obbligazioni cerimoniali della dote e lo
appaga con la procreazione di figli legittimi. Se il matrimonio è un'obbligazione unilaterale impegnativa solo
per la moglie, quale giustizia resta per la donna? Quale destino attende Medea tradita ed abbandonata?
Solo quello di rassegnarsi, piangere e pregare gli dei, come le consigliano le donne del coro? E l'agognata
autonomia potrà avere come conseguenza solo il delitto e la solitudine?
Le categorie di ingiusto e giusto ricorrono molto spesso nella tragedia: la vicenda di Medea non è quindi un
banale, seppur cruento, 'dramma della gelosia' (sentimento che la lingua greca non indica neppure con un
termine specifico), ma supera il caso singolo ed assume aspetti di grande rilievo etico-sociale. La Giustizia è
concepita come una divinità ed assume un valore particolare, ma contraddittorio, nelle invocazioni
simmetriche ed opposte di Medea e di Giasone; entrambi ne pretendono per antitesi l'assistenza: l'eroina
supplica Zeus, Dike figlia di Zeus e la luce del Sole, perché siano testimoni del suo strazio senza speranza,
mentre Giasone esclama: "Ti distruggano l'Erinni dei figli e la Giustizia vendicatrice del sangue".
Dike ed adikia entrano ora nel circolo magico e tragico della situazione di Medea, in una prospettiva
soggettiva, come componenti della sua vicenda personale. Ad armare la mano di Medea infatti non sono ira,
o gelosia o un furore cieco, ma un'esigenza, paradossalmente percepita quasi come 'etica', di vendicare un
equilibrio turbato, quell'armonia e simmetria che costituiscono la dike amorosa, nel mutuo rapporto tra
amante ed amato.
Questa forma di dike, che pretende un indissolubile vincolo ed obbligo di fedeltà, appare a Medea un valore
assoluto e viene interiorizzato come esclusivo e totalizzante. La rottura del vincolo sancito ed il tradimento
del patto d’amore sono da lei vissuti come violazione di una norma, come vera ingiustizia, come un'adikia, e
la 'costringono' ad attuare una giustizia 'compensativa'; è un imperativo superiore, un'esigenza inesorabile:
la colpa di Giasone deve essere espiata.
Inoltre Medea vive ossessivamente la paura tutta eroica e diremmo 'maschile' di essere schernita dai suoi
nemici, derisa dalla comunità, se non si vendicherà di Giasone: colpire i philoi per eccellenza sarà il modo
per vendicarsi degli echthroi ed impedire che essi si beffino di lei. Questo assillo di Medea per l'onore e la
fama (doxa ricorre 6 volte) dimostra che la donna ha fatto proprio il principio cardine della 'società della
vergogna,' o società dell'aidòs, norma etica per la quale il valore dell'individuo si identifica e si risolve nella
considerazione che la comunità ha di lui.
E' addirittura la 'barbara' Medea a ricordare al re Creonte gli impegni dell'aidòs, in particolare il dovere di
rispettare i supplici; aideomai ed aidòs prescrivono infatti anche il rispetto per la santità del supplice e per le
sue richieste: nel sistema giuridico-sacrale greco l'obbligo di rispettare il supplice ha natura religiosa tanto
autorevole che chi è supplicato sente l'appello come una sorta di violenta costrizione.
Anche nel III episodio ritroviamo la donna nel ruolo di supplice verso Egeo, re di Atene: si pone, secondo la
norma, in attitudine rituale di inferiorità ed in una dinamica di relazioni finalizzata ad ottenere la concessione
dell'asilo nella città. Naturalmente Egeo a sua volta sente il dovere morale di offrire ospitalità a Medea:
benché la sua decisione non sia esente da interessi personali, egli assicura accoglienza in Atene, perché
vuole essere 'giusto'. Nella protezione e nell''asilo' accordato da Egeo, pegno di intoccabilità giuridica e
sacrale, Medea trova finalmente risposta ai suoi bisogni ed alle preoccupazioni del coro che chiedeva
affranto quale casa o terra l'avrebbe ospitata.
8
Nel testo viene invocato l'istituto della proxenia, che estende la xenia, ospitalità, ai rapporti tra le città: lo
straniero che viene accolto in una città ospitante assume lo status giuridico di 'ospite pubblico', oggetto di
onori e privilegi, in una nuova patria in cui trova comprensione e stima della comunità.
Naturalmente tale istituzione non esiste nella dimensione acronica del mito né nella fase prepolitica; ancora
una volta la tragedia è uno strumento per mettere in scena la tradizione eroica e soprattutto le istituzioni che
fanno grande la città di Euripide. Inoltre il legame tra Medea ed il re di Atene, suggellato con una formula di
giuramento severo, appare un emblema della ritualità e della sacralità di un impegno solenne.
Tale dovere, assunto giurando in nome della Terra, di Helios e di 'tutta la stirpe degli dei', costituisce per
Medea garanzia di inviolabilità del patto, in antitesi con lo spergiuro e traditore Giasone. Medea ripone la sua
fiducia (pistis) in Egeo e nella sua generosità, e per due volte esclama pepoitha, pepoitha, (ho fiducia)
mentre Giasone non è stato fedele, leale, pistos: anche in questi versi, come in tutta la tragedia, è
significativa la ricorrenza lessicale di giurare, giuramento, spergiuro, alla presenza muta e severa degli dei
che sovrintendono e garantiscono la fedeltà dei patti. E Medea arriva a stabilire le pene che toccherebbero
al re di Atene, se fosse spergiuro. 'tutte quelle che accadono agli uomini che mancano di rispetto agli dei'
E' evidente che il sistema di norme imperniato sull'aidòs assume il ruolo di una morale civica, un potente
regolatore del modo di pensare e di agire, sia individuale, sia sociale, che possiede una grande forza di
deterrenza per comportamenti devianti dai dettami e dalle regole della comunità.
Medea ha imparato a conoscere il potere della morale e del diritto e ne sa fare accorto uso: nella cosiddetta
'società della vergogna o del disonore', infatti, la forza cogente del principio dell'aidòs è molto intensa, e si
configura come un vero e proprio obbligo morale perentorio; questo rende anche inevitabile la vendetta del
torto subito, in forza del dovere simmetrico di 'far bene agli amici e male ai nemici'. In questo contesto, in cui
Aidòs, Pudore, ha il compito di trattenere dal compiere l'offesa, la divinità che sempre le si accompagna,
Nemesi, rivendica come ineluttabile la 'giusta vendetta', la doverosa risposta ad un'istanza che a Medea,
seppure in modo istintivo e primordiale, appare etica e contemporaneamente giuridica.
Tutto il percorso drammaturgico e interiore che guida Medea all'esecuzione della sua 'giusta nemesi', è un
cammino progressivo e faticoso: Euripide ci accompagna alla soluzione estrema, attraverso i colloqui di
Medea con se stessa, le confessioni, le confidenze, le esitazioni, i dubbi. E' un ragionamento intimo e
“meditato” che invera il senso del nome Medea: l'etimologia deriva dalla radice indoeuropea del curare, del
portare consiglio, che continua poi nel verbo medomai, meditare, considerare, escogitare, tramare. Dice
infatti il coro al v.402: 'Suvvia Medea, non risparmiare nulla di ciò che sai, meditando e tramando'.
"E l’intelligenza acuisce il gusto della giustizia, come una mola che gira senza sosta affila un coltello",
scrisse Marguerite Yourcenar.
“La terra greca è divenuta il tuo soggiorno, tu hai conosciuto la giustizia e sai vivere secondo la legge e non
secondo la forza” queste parole compiaciute del 'civilizzatore' Giasone si ritorcono contro di lui: Medea,
arrivando nella civile e razionale Grecia, ha appreso i valori di dike e di adikia e la loro applicazione
normativa nelle leggi, il motivo della fiera superiorità dell'Ellade, ma è altrettanto vero che è divenuta
consapevole che ha diritto di ottenere legittimamente giustizia per l'infrazione di dike da parte di suo marito.
I due si affrontano nel II episodio con un'abilità oratoria che riproduce sulla scena l'alta civiltà giuridica e la
prassi processuale ateniese: questo lascia sperare, afferma Giasone, che Medea saprà vivere secondo la
legge e non secondo la forza, e che lo strumento della parola permetterà l'abbandono della vendetta.
Si ha la sensazione dunque, a questo punto della tragedia, che i precetti etici e la norma giuridica possano
prevalere anche nella dimensione atemporale del mito, proprio come accadde storicamente, quando alla
faida tribale si sostituirono nella polis le norme e le garanzie di un processo.
Invece prevarrà la furia assassina di Medea e sarà retaggio di una cultura arcaica, in cui vigevano regole
primarie di vendetta e di espiazione con il sangue, ma anche contrassegno di una barbarie che i Greci
vorrebbero cancellare, assimilandola a sé, addomesticandola, per dominarla con forme di vita e con regole
morali più umane ed evolute. Proprio questo Giasone si illude di aver ottenuto con la propria moglie, per il
solo fatto di averla sradicata dalla Colchide, terra di oscura anarchia, e di averla portata con sé, ospite di
quella che gli appare la culla del diritto e della legalità.
Giasone si inganna: egli crede che il progresso compiuto nelle relazioni sociali e civili, quello che ha portato
a regolare in tribunale contenziosi e delitti, valga anche per la barbara 'civilizzata' Medea e che ella sappia
frenare le passioni per assoggettarle alla legge. Non immagina né sa prevedere che l'esigenza e di giustizia
che egli stesso si vanta di averle insegnato si possano tradurre nella vendetta cruda e sanguinosa,
legittimata in Medea dall'originaria barbarie.
9
Medea, che si imbiancava per assomigliare alle donne di Corinto, cercando di annullare almeno visivamente
la sua diversità, si dimostra capace di mimetismo, di nascondimento, anche nell'assumere le categorie
mentali e gli strumenti verbali del popolo che la ospita, ma è in agguato, come una leonessa, pronta a
svelare la sua vera natura con il delitto. E' un'ipocrisia vera e propria e, dato che in greco hypocrites significa
'attore', Medea recita perfettamente la parte e ci conduce dentro un meccanismo di teatro nel teatro.
Nel II episodio lo scontro verbale tra Giasone e Medea è definito hamilla logon, uno schema espressivo
estremamente conflittuale, un modulo stilistico tipico della contrapposizione tra contendenti in un processo; i
Greci lo chiamano dike, o kindynos, pericolo o agòn, con un vocabolo che esaspera l'antitesi in termini di
sfida e vittoria, come in una competizione, che si conclude con vincitori e vinti.
L'episodio è dunque strutturato come un 'conflitto di discorsi': alla terribile requisitoria di Medea segue la
risposta di Giasone, un'accorta e capziosa autodifesa che trasforma le accuse di Medea in meriti personali e
che occupa un ugual numero di versi, (precisamente 54); è una rigorosa simmetria che rispecchia
l'uguaglianza di tempo che lo stillicidio della clessidra garantiva agli avversari in un processo.
Anche le strutture linguistico-formali rimandano all'oratoria giudiziaria, sia per mezzo dell'impiego di vocaboli
tematici specifici, del linguaggio settoriale, sia per una vera e propria forma mentis giuridica esplicitata dai
personaggi, come l'appello ai testimoni che appartiene alla vita dei tribunali, ma soprattutto, con l'utilizzo
della ripartizione canonica del discorso giudiziario in prooemium o exordium, narratio, discussio o
argumentatio, conclusio o epilogos o peroratio.
10
NEMESI E TIMORIA: VENDETTA E PUNIZIONE
La forza evocatrice dei versi euripidei ci fa immaginare Giasone e Medea seduti come avversari l'uno sulla
pietra dell'ingiuria, lithos hybreos, l'altra su quella dell'inconciliabilità, lithos anaideias; li vediamo fronteggiarsi
e sostenere le proprie ragioni ciascuno per due volte, come in un tribunale, nel II episodio e nell'esodo. Fa
parte del processo, sia di carattere privato sia di ordine politico, il ricorso sistematico alla diffamazione
dell'avversario, la diabolè, che consiste nell'impiego di invettive contro l'antagonista, talora ingiuriose e
perfino attinenti alla sfera intima e privata.
Un tono infamante e sarcastico caratterizza le due parti indicate: Medea e Giasone si rivolgono insulti e si
lanciano reciproche accuse, espresse con la virulenza verbale perfettamente congeniale al ritmo giambico
ed alla sua tonalità aggressiva.
Nel II episodio Medea rovescia astiosa sul marito epiteti come 'scellerato', 'odiosissimo', 'peggiore degli
uomini', 'spergiuro'; denuncia la sua viltà, sfrontatezza, impudenza, (mancanza di aidòs); egli al contrario si
propone di frenare la 'impudente logorrea' della moglie, e la accusa di pazzia e di arroganza. Nel II episodio
Giasone controlla la situazione e parla per primo, mentre alla fine della tragedia la situazione è rovesciata:
esacerbato dal dolore, in una sequenza incalzante ed in climax l'eroe apostrofa Medea come la donna più
odiosa dell'umanità, empia e traditrice, più selvaggia di Scilla, audace omicida, essere detestabile, dal
linguaggio insolente, leonessa impura ed infanticida.
Restando nella prassi formale di un processo, quali attenuanti il diritto antico concederebbe a Medea? In
generale consistevano nell'assenza di intenzione e nell'irresponsabilità fisiologica, dovuta all'età, come
all'infanzia o in stati di alterazione della psiche, (come la demenza, la collera, la passione, la costrizione).
Quale di questi sentimenti non ha provato l'eroina, gettata da Giasone in una condizione di umiliazione,
mortificazione, abbandono, solitudine,?
Euripide nell'ultimo monologo di Medea accompagna lo spettatore a constatare un 'momento di
consapevolezza' di Medea, che si rapporta ad 'una realtà di turbamento estremo'. L'annullamento della realtà
umana ed affettiva di Medea, la distruzione di tutto il suo mondo e del suo status giuridico e sociale: tutto
questo è condensato nelle parole della nutrice fin dai primi versi della parodo: 'Casa più non esiste. Non c'è
più nulla'.
E la tematica della costrizione si afferma spesso, quando Medea impiega l'ottativo come per esprimere
'l'ossessivo bisogno di uscire da una situazione in cui si sente costretta', o quando riprende il tema della
necessità, ananche, in modo iterativo ('E' assolutamente inevitabile, o vecchio; queste cose gli dei ed io
stessa, pensando al male, ho macchinato'), infine nel monologo in cui si dibatte lacerata tra amore e
necessità ('E' assolutamente necessario che essi muoiano e, poiché deve accadere, ad ucciderli sarò io che
li ho generati'). Il patto tradito reclama vendetta, la giusta nemesi deve affermarsi, c'è una giustizia superiore
alla quale Medea è tenuta, costretta a sottomettersi ('tutto è compiuto e non c’è più scampo): la sua
disperazione trova come unico sbocco possibile l’abisso finale.
Quando Medea, ancor fuori scena, anela alla morte, si odono le sue suppliche: invoca Themi, e chiama
maledetto, (kataraton), il marito spergiuro; il coro affida la donna alla protezione di Zeus e come lei invoca
Themi che i voti consacra, (cui è demandato il compito di ristabilire la giustizia violata) e Zeus custode dei
giuramenti, poi ricorda Zeus e Themi che vigila sui giuramenti, infine definisce Giasone traditore (prodotan),
nella parodo, nel II e IV stasimo e nell'esodo, proprio come la nutrice nel prologo e, naturalmente, come
Medea.
Inoltre nel I stasimo il coro canta "A ritroso dei sacri fiumi muovono le fonti, e giustizia è sconvolta… Gli
uomini hanno consigli di frode e la fede giurata sugli dei non sta più salda. Tutto appare dunque negazione
della giustizia, e gli uomini, precisamente i 'maschi' nel testo euripideo, rinnegano la loro pretesa superiorità
morale; persino i loro rapporti ufficiali e rituali con gli dei sono inficiati da inganno e falsità.
E più avanti: E' finito il rispetto dei giuramenti, non più resta pudore nell'Ellade, è volato via in cielo: il pudore,
componente dell'aidòs, fulcro della società della vergogna ha abbandonato l'Ellade civile e civilizzatrice; solo
la straniera può ristabilire i valori violati, come l'intera comunità esige.
E Medea afferma: 'La fede nei giuramenti è scomparsa ed io non posso sapere se tu credi che gli dei di
allora non esistano più o che nuove leggi ora ci siano per gli uomini, dal momento che sei ben consapevole
di essere spergiuro nei miei confronti'. (vv. 492-95). L'inganno di Giasone non riguarda solo il piano umano,
ma è una sovversione cosmica delle norme, in quanto negazione della fedeltà anche sul piano divino.
Questa elevata e ricorrente coincidenza di vocabolario e di sensibilità tra la nutrice, l'eroina ed il coro
sostiene, convalida e ratifica le suppliche e le maledizioni di Medea, come se la sentenza di condanna di
Giasone fosse anticipata da tutte le donne della tragedia, specialmente dalle coreute. Ricordiamo che esse
sono sempre chiamate philai, amiche, da Medea e che già nel I stasimo esprimono parole di vera e propria
'condanna', dell'ipocrisia maschile con una chiamata a correità non solo di Giasone, che 'non potrebbe mai
essere 'amico' del coro, perché non onora i propri 'cari', ma dell'intero universo maschile, che chiamano la
'stirpe dei maschi'.
11
Si delinea dunque nella tragedia un duplice livello del 'processo' e del 'verdetto', quello particolare di Medea,
l'accusatore implacabile contro il marito spergiuro e traditore e quello più universale, di genere diremmo,
delle donne contro gli uomini, con accenti di dolente universalità.
Il coro è in questo 'agone' tanto coinvolto e vicino a Medea da configurarsi come il syndikos o synegoros,
che nel processo affianca l'accusatore nell'arringa: è il coro infatti a postulare la collaborazione di Zeus, il dio
garante di dike, nella giusta punizione, la timoria, di Giasone, dicendo a Medea: 'Zeus collaborerà con te a
far giustizia. Infatti punirai tuo marito giustamente'. Ed ancora nel V stasimo, chiaramente parteggiando per
Medea: 'Le disgrazie di Giasone sono la giusta punizione per uno spergiuro'.
Euripide ci rende partecipi di un processo particolare, un dibattimento di carattere etico e sentimentale, come
quelli che coinvolgevano minorenni e vecchi, durante i quali la prassi giudiziaria ateniese saggiamente
sospendeva il rigoroso controllo del tempo assegnato alle parti. Questi processi erano definiti dikai aneu
hydatos, processi senz'acqua, che invece di norma stillando dalla clessidra misurava la parte dell'accusa e
quella della difesa in tempi imparzialmente uguali.
Il lessico giuridico greco è ricco di termini che esprimono la forma mentis della giustizia e l'intenzione o la
finalità della pena, come: correzione (kolasis), riparazione (nouthetesia), intimidazione e difesa sociale
(timoria), esempio (paradeigma), dissuasione (apotropè) ed inoltre espiazione (tisis). Nella punizione di
Giasone si colgono tutte queste istanze di natura etico-giuridica, ma quello che più colpisce è il fatto che
l'infanticidio, inteso come giusta punizione del padre, sia concepito da Medea come un atto rituale; le parole
di Medea, infatti, riecheggiano la formula sacra di prammatica con la quale il sacerdote allontanava chi non
fosse degno di assistere alla cerimonia o al culto: 'Chi non potrà assistere al mio sacrificio, ci pensi!'
Quali dei sovrintendono al rito di morte? I demoni degli inferi, alastores, letteralmente 'coloro che non
dimenticano', la Terra, ed Ecate, dea di un mondo ctonio che interagisce con la sophia 'altra' di Medea, con il
mondo magico di cui ella è signora e che nella terra e negli inferi trova una matrice ed una fonte privilegiata.
Prevale nella tragedia tutto un sistema di divinità femminili: Dike, Themis, Ananke, Nemesi, unita ad Aidòs,
tutte 'figure della necessità', che attribuiscono a ciascuno la giusta misura, la parte equilibrata del tutto su cui
esercitano il loro controllo, potenze normative astratte, talora senza volto, prive di un'immagine visibile.
Altre divinità femminili appartengono al pantheon più recente, come Afrodite, Demetra Tesmophoros ed
Artemide: hanno fattezze muliebri e concernono in modo esclusivo la femminilità; regolano e proteggono
momenti specifici della vita della donna; per esempio Artemide, dea vergine e insieme protettrice della
maternità, presiede alla preparazione alla vita adulta ed assiste nel parto. Non solo per Medea, la straniera,
ma anche per la donna greca esiste dunque un pantheon separato da quello maschile, con particolari feste,
riti, sacrifici e la presenza-chiave del sangue, con l'alone misterico e magico che lo circonfonde. Euripide ci
presenta nella tragedia un intenso rapporto di Medea con le divinità femminili, che alla fine si esprime in un
legame diretto con il divino, quando Medea diventa essa stessa dea ex machina e si libra sul carro del Sole.
I processi si concludono con l'assoluzione o con la condanna, quindi con la determinazione della pena e la
sua esecuzione. Erano pene infamanti la privazione di sepoltura, le interdizioni da riti e luoghi sacri, punizioni
che colpivano le adultere, e l'imprecazione o arà. Il termine, ricordiamo, è ambivalente, in quanto significa
augurio di bene, ma anche maledizione.
Nella tragedia ne vediamo un uso pregnante alla fine del II episodio, congedandosi da lei Giasone la
rimprovera: 'Hai imprecato contro i sovrani cose scellerate (aras)' e Medea risponde: 'Ed ecco maledico pure
la tua casa'; un presagio di vendetta che si attuerà con l'aiuto degli dei: 'Forse, se un dio mi ascolta, farai tali
nozze da doverle rinnegare'. La maledizione, l'arà, che Giasone rinfaccia a Medea, ricade su di lui, con un
tragico rovesciamento: sua moglie, una donna, si erge a giudice ed applica a suo marito proprio la pena che
gli uomini greci infliggevano alle loro mogli adultere: l'interdizione dai riti sacri.
Infatti impedendo a Giasone, con mostruoso contrappasso, di celebrare le esequie dei figli, gli sottrae anche
quest'ultimo gesto di pietà e conforto. Medea lo rende apais, privo di figli, poi infierisce su di lui nel modo più
brutale, decretando la 'condanna' ed eseguendo personalmente la pena; la sua vendetta trova compimento
nell'annientamento di Giasone come padre. Quando arriva in scena, per cercare di preservare i figli dalla
vendetta, non trova ormai altro che i loro cadaveri; con loro vola via la sciagurata madre sul carro di Helios, il
dio Sole.
Ed allora supplica: 'Lasciami seppellire e piangere questi morti', ma Medea gli risponde: 'No, sarò io a
seppellirli con le mie mani. Li porterò nel tempio di Era… perché nessun nemico possa oltraggiarli, profanare
la loro tomba'. Medea, con un estremo atto d'amore, vuole tutelare i propri cari, i philoi per eccellenza,
garantendone l'inviolabilità con la protezione divina, dando loro asilo nel tempio, unico luogo dove vige
ancora dike, la sacralità del rispetto per i morti. Eppure lei stessa ne ha annullato la vita per aidòs e
nemesi, 'costretta' a vendicarsi dell'adikia del marito, e per evitare di essere oggetto del scherno dei
nemici, gli echthroi, Giasone ed i Corinzi, preservando con fierezza autodistruttiva la sua timè e la
sua doxa .
12
E' Giasone ora che, irriso da Medea ('Quale dio o demone ti ascolterà, spergiuro e traditore degli ospiti?')
con un inatteso rovesciamento è costretto a chiamare gli dei come testimoni, marturomenos, delle sventure
che deve subire e del fatto che la donna gli 'impedisce di toccare con le mani e di seppellire i morti''
L'efferato delitto nel ghenos afferma il diritto ancestrale e primario della madre sui figli, sul suo sangue; al
padre è precluso ogni diritto, anche quello dell'ultimo abbraccio. La negazione della sepoltura dei suoi figli
riporta Medea ad un'altra barbarie, all'assassinio del fratello, smembrato e gettato in mare, lasciato insepolto:
come a suo marito, anche a suo padre, Medea, la donna creatura di distruzione, con un sacrilegio ha
strappato l'estremo atto di umana pietà e consolazione.
Conclusione
Alla fine della tragedia Medea si allontana da Corinto portata in salvo dal carro del Sole trainato da serpenti
alati; l'eroina dunque esce da un ricorrente schema drammaturgico in cui l'assassino è anche suicida.
La donna colpevole di tanti delitti fugge impunita verso un 'altrove' irraggiungibile, e forse anche
incomprensibile, per gli umani.
Allo smarrimento di Giasone e dello spettatore sembra dar voce nel modo più autentico Seneca: la sua
Medea si conclude con parole che esprimono solo delusione e sconforto assoluti ed universali: come il
filosofo romano, anche Euripide nella sua ricerca teologica esprime l'istanza di trovare almeno nell'universo
divino i valori etici assenti dal mondo umano, arrivando a far coincidere l'eticità degli dei con la loro
ontologia.
Ma se giustizia e rettitudine anche tra gli dei si arrendono ad impunità ed iniquità, di fronte alla salvezza, che
appare insensata, di una madre figlicida, l'uomo si ribella, rifiutandone l'esistenza.
Allora Giasone ha il diritto di gridare il suo strazio, che ha persino l'accento blasfemo di negazione del divino.
'Per alta vade spatia (sublime aetheris), testare nullos esse, (qua veheris,) deos'
'Va' Medea nell'alto dei cieli, testimonia che gli dei non esistono!'
1
ASSOCIAZIONE CENTRO CULTURALE
DEL TEATRO DELLE ARTI
In unità con
REGIONE LOMBARDIA
Direzione generale Cultura, Identità
e Autonomie della Lombardia
PROVINCIA DI VARESE
Settore Marketing Territoriale e Identità Culturale
LA LEGGE E LA MORALE
ia
ar
M
Euripide
ia
az
gr
Medea
hi
cc
ra
Bo
-A
ca
Mariagrazia Boracchi
Virgilio, Ecl. VIII, vv. 47-50,
du
Saeuos Amor docuit natorum sanguine matrem
commaculare manus; crudelis tu quoque, mater:
crudelis mater magis, an puer improbus ille?
Improbus ille puer; crudelis tu quoque, mater.
.e
ia
m
de
7 Novembre 2006
TEATRO DELLE ARTI - GALLARATE (VA)
2
Indice tematico
AMORE E PASSIONE: un kosmos equilibrato di valori etici
OFFESA, SOFFERENZA, ODIO, VENDETTA:
un'ineluttabile sequenza etico-giuridica
DIKE E ADIKIA
ia
ar
M
NEMESI E TIMORIA: vendetta e punizione
ia
az
gr
Euripide, Medea
Bo
Rappresentata nel I anno della 87° Olimpiade (431 a. C.)
hi
cc
ra
Medea, figlia di Eeta, re della Colchide, sposa di Giasone, con i figli ha seguito il marito a Corinto;
qui viene a sapere che egli intende sposare Glauce-Creusa, figlia di Creonte, re della città e che
perciò l'attende, per il tradimento di Giasone, un destino di moglie ripudiata e, per ordine di
Creonte, una sorte di donna esule. Offesa nei suoi sentimenti più profondi, Medea decide di
vendicarsi in modo orribile. Dopo essersi assicurata la complicità delle donne corinzie che
compongono il Coro, ottiene da Creonte di rimandare di un giorno l'abbandono di Corinto. In un
intenso e drammatico confronto tra Medea ed il marito si rivela il carattere ambiguo e ipocrita di
Giasone. L'aiuto determinante è offerto a Medea dal re di Atene Egeo, che, giunto a Corinto di
ritorno da Delfi, promette alla donna ospitalità e protezione ad Atene. Ormai certa di poter sfuggire
ai suoi nemici, Medea mette in esecuzione il piano di vendetta: finge di riconciliarsi con Giasone e,
simulando il desiderio di rendere omaggio ai sovrani, manda i propri figli a portare alla giovane
sposa, come doni nuziali, una veste ed una corona d'oro, imbevute di filtri mortali. Dopo che un
messaggero ha narrato la fine raccapricciante di Creonte e della figlia, Medea rientra nel palazzo
ed uccide i suoi stessi figli: Giasone resta solo e straziato a maledirla, mentre la donna fugge su un
carro alato trainato da serpenti alati.
du
.e
ia
m
de
ca
-A
3
Premessa
Medea, la tragedia di Euripide (Atene 431), continua ad affascinare: arte, letteratura, teatro, cinema,
psicologia ne indagano le sfaccettature sia in chiave tradizionale sia in chiave moderna, sviluppando
molteplici tematiche, come ad esempio:
1. Il conflitto tra la barbarie, incarnata da Medea, e la civiltà greca, espressa da Giasone
2. l'opposizione straniero/autoctono e la condizione di alterità di Medea, emarginata e proiettata in una
assoluta solitudine.
3. l’inferiorità sociale della donna, contrapposta alla superiorità dell'uomo,
4. l'esplosione del conflitto nella relazione amorosa e nel rapporto coniugale;
5. il contrasto fra freddezza e rigore della ragione e dominio irrazionale delle passioni.
ia
ar
M
In estrema sintesi, incombono su questa tragedia tutte le diversità di Medea: di razza, di sesso, di
intelligenza, di affetti ed emozioni; ad esse si aggiunge, devastante, non la follia, ma paradossalmente
un'intelligenza fredda, lucida e vendicativa.
az
gr
Si può parlare allora di una 'polivalenza', di Medea, di una 'concordia discors… sfuggente, impenetrabile,
indefinibile', 'che spinge a nuove riletture, con la promessa di ulteriori approfondimenti e chiarificazioni'.
Proprio questa concezione di work in progress della riflessione critica su Medea diffusa tra gli studiosi mi ha
stimolato a sviluppare una riflessione sull'idea di giustizia e sugli elementi del diritto presenti nella tragedia e
nel suo linguaggio e sulla loro interazione con il diritto sacrale, le norme etiche, il comportamento morale e le
scelte tragiche di Medea.
ia
Introduzione
Medea è vittima di un pregiudizio morale e comunemente intesa come un'eroina dell’odio, una donna che,
ottenebrata dal furore della passione, si macchia di orribili delitti.
In effetti è un'assassina: per consentire la sua fuga dalla Colchide con il vello d'oro trafugato e con Giasone,
inseguito da suo padre Eeta, uccide e smembra il corpo del fratello Absirto e nella sua lunga peregrinazione
con l'eroe divenuto suo marito, 'ogni tappa è segnata da un evento funesto che innesca un meccanismo di
fuga senza ritorno'
A Iolco, in Tessaglia, Medea realizza la sanguinaria vendetta sullo zio di Giasone, Pelia, che viene fatto a
pezzi e messo a bollire dalle sue stesse figlie, istigate dalla maga a compiere quello che credono un rito di
ringiovanimento, ma ignare esecutrici con le loro stesse mani affettuose ed innocenti di un progetto di
omicidio a lungo meditato.
Ancora di ingannevoli doni, di parole suadenti e di mani incolpevoli, quelle dei suoi bambini, Medea si servirà
per uccidere, a Corinto, la donna con cui Giasone si è sposato, Creusa-Glauce e suo padre Creonte, la cui
ospitalità ricambia con la vendetta più orrenda, annullando la dinastia regale.
hi
cc
ra
Bo
ca
-A
ia
m
de
Medea è creatura di distruzione anche nella sua stessa casa: l'innovazione drammaturgica introdotta da
Euripide nella saga degli Argonauti fa di Medea l'assassina dei suoi stessi figli, che ha reso complici del suo
delitto, 'rivestendo l'innocenza di un colore funereo'. La tradizione mitica precedente infatti attribuiva la morte
dei bambini o agli stessi cittadini di Corinto, per vendetta, o al funesto tentativo della madre di renderli
immortali con pratiche magiche.
Essi sono vittime tanto fragili da essere 'inesistenti'; sono 'cose', non individui soggetti di diritto, e sono
rimasti letteralmente senza nome nel mito e personaggi muti sulla scena tragica.
du
.e
E' in Euripide che Medea diventa incarnazione del male, simbolo perverso ed universale della madre
infanticida che commette il delitto più nefando e percepito come snaturato, perché l'atto di negare la vita ad
una creatura con la violenza è in contraddizione con la natura femminile, che genera e tutela la vita. Persino
in psicologia ed in psichiatria il gesto estremo di Medea, ('sindrome della madre malevola' o 'complesso di
Medea') è impiegato nell'indagine e nella definizione dei comportamenti umani, in modo emblematico della
perennità ed universalità della figura mitica.
Ma in Medea il principio etico naturale dell'amore materno è annullato da quello che lei sente come un
obbligo assoluto, il legittimo risarcimento del disamore di Giasone, e l'infanticidio è la realizzazione di una
forma estrema di giustizia, 'un atto necessario al giusto compimento della sua vendetta'.
In questo bisogno primario di attuare la giustizia risiede la profonda grecità del personaggio di Medea; deamaga come Circe, sua zia, anche lei manifesta come Achille o l'Aiace sofocleo, un'ira divina per il proprio io
violato e calpestato che, per ottenere vendetta, esige l’esplosione di se stesso.
La categoria di follia diventa incompatibile, perché, sebbene sia abnorme, l'azione di Medea non è insensata
né indotta dall’esterno, ma frutto di precise determinanti psicologiche.
Medea è l'esempio di come un comportamento aberrante non può più essere interpretato con la categoria
della 'colpa tragica', che ha componenti 'fatali' (come in Eschilo e Sofocle), in quanto Euripide chiama in
causa una nuova categoria etica in cui la volontà assume un ruolo determinante: la responsabilità individuale
4
AMORE E PASSIONE: un kosmos equilibrato di valori etici
La comunicazione verbale di Medea è densa di termini del vocabolario erotico, soprattutto del termine 'letto',
definito 'insaziato' con un'arditezza espressiva singolare, ma assolutamente motivata dal carattere
eccezionale dell'amore per Giasone per il quale ha persino tradito la propria famiglia, il ghenos.
L'insistenza sul 'letto', lechos o eunè, è fondamentale anche giuridicamente; la parola connota il vincolo
matrimoniale, il legame affettivo o anche la mera sessualità, inoltre è impiegata come sinonimo dello status
coniugale, una condizione sociale garantita dal legame, da difendere da ogni offesa ed ingiustizia.
ia
ar
M
'Quando una donna è offesa nel 'letto' non c'è una creatura più sanguinaria', afferma Medea.
Ed il coro nel IV stasimo intona: 'Anche te compiango e il tuo dolore, madre infelice, che i figli vuoi uccidere
per un letto nuziale, il letto che il tuo sposo ha tradito…' ed ancora nel V stasimo: 'O letto di donna, letto di
dolore, quante sciagure procuri agli uomini!' E sarcasticamente, nel IV episodio, Medea si prende gioco della
credulità di Giasone; pregustando la vendetta esclama: 'Sarà felice non una, ma mille volte, di aver preso te
come compagno di letto!'
ia
az
gr
Molto importante è la ricorrenza di himeros e pothos, (desiderio e nostalgia) e significativa la presenza di un
lessico di valori quali reciprocità, contraccambio, equilibrio (isotes): queste parole definiscono l'amore come
un kosmos, un mondo ordinato regolato al suo interno da giusta distribuzione, simmetria, uguaglianza.
Invece il 'letto' è riduttivamente inteso da Giasone come sesso: 'Ma voi donne siete giunte al punto che, se il
letto va bene, credete di avere tutto, ma qualora avvenga poi qualche sventura che riguardi il letto, rendete
anche i rapporti più belli assai ostili'.
Si può pensare allora che la civiltà ellenica non è ipso facto portatrice di valori etici positivi e che provenga
da una maga barbara una grande lezione sulla morale dell'eros e degli affetti: il principio della reciprocità
amorosa e della giustizia come parità ed equità di trattamento vicendevole. Questa è un'istanza innovativa:
benché sia già presente a tratti nella poesia lirica per esempio in Saffo, risulta comunque certo inconsueta
per un'eroina del mito ma anche per una semplice donna greca.
ra
Bo
hi
cc
L'amore tra Medea ed il suo sposo si connota di elementi di fisicità, come 'abbracciare le ginocchia', 'toccare
o stringere le mani', 'sfiorare la pelle'; questa ricerca di contatto ricorre anche nei rapporti di philia, amicizia,
e nei gesti di preghiera e di supplica a dei e ad uomini. La comunicazione affettiva di Medea si può
interpretare allora come espressione di un impegno etico di legame e di reciprocità, come nell'amicizia così
nell'amore, ma è anche una prova del fatto che da Medea tutto è vissuto fisicamente: con il corpo lei
promette amore, giura fedeltà, ama; altrettanto nel corpo soffre e con il corpo e nel corpo fa soffrire. In tutte
le declinazioni e le forme dell'esser donna, infatti, come moglie, come madre ed ancor prima come figlia, lo
stigma di Medea è la sofferenza patita ed inflitta.
du
.e
ia
m
de
ca
-A
5
OFFESA, SOFFERENZA, ODIO, VENDETTA: un'ineluttabile sequenza etico-giuridica
Ad innescare il dramma, come si è detto, sono il disamore di Giasone, ed il ripudio di Medea che sarà
costretta ad abbandonare la città e a vivere in esilio, lasciando i suoi figli a Corinto. La situazione suscita una
insostenibile sofferenza, dapprima tutta racchiusa in se stessa (espressa in modo passivo con una sindrome
di rifiuto della vita: abulia, afasia, anoressia ed uno stato di prostrazione fisica e mentale), ma poi si fa
violenta e vendicatrice, alimentata da un odio implacabile contro Giasone, 'l'odiato nemico', l'echthròs,
l'estraneo, ostile, fuori dalla cerchia dei philoi, gli amici, i propri cari.
Già nel prologo la sua situazione è definita dalla nutrice 'ostile', con l'aggettivo che contiene il semema del
contrasto irriducibile tra nemici, e che indica anche i rivali, gli avversari, in un tribunale. Il vocabolo ricorre 27
volte nella tragedia, a conferma di quanto sia rilevante il campo semantico etico e giuridico.
ia
ar
M
'E lei, l’infelice Medea, oltraggiata, invoca i giuramenti, la promessa suggellata con una stretta di mano;
chiama gli dei a testimoni di come la ripaghi Giasone. Non mangia, è consunta dal dolore, passa tutto il
tempo a piangere, da quando si è accorta dell’oltraggio patito.
Il lessico si iscrive nell'area semantica dell'etica e del diritto, sia umano sia sacrale, con l'invocazione agli dei
come garanti di un diritto e come testimoni di un vulnus ad esso inferto. Medea è definita etimasmene, con
un vocabolo che connota ingiustizie ed offese in ambito erotico (atimasas, il verbo coniugato all'attivo è per Giasone).
Poi edikemene, vittima di un'umiliazione che è anche un oltraggio, (hybris), poiché l'ha privata della sua
onorabilità e della considerazione e rispetto, cioè della timè, che invece le riconosce la solidarietà del coro.
az
gr
ia
Timè è parola chiave del mondo valoriale eroico, un vocabolo tematico ricorrente nell'universo epico-omerico
e tragico per connotare il valore morale dei membri della società aristocratica, la ricerca della gloria e
dell'onore da parte dell'eroe, ed il rispetto che di conseguenza gli è dovuto dalla comunità. Con la timè è
connesso il principio etico della reciprocità di bene e male; quasi riecheggiando l'Elegia alle Muse di Solone,
Medea enuncia il precetto in base al quale si deve far bene agli amici e male ai nemici: 'dura con i nemici e
ben disposta verso gli amici'.
Nell'atimia, cioè nella privazione della timè, secondo la prassi giudiziaria ateniese, incorre chi è sconfitto in
un processo e viene privato dei diritti civili: punizione percepita come una vera e propria morte civile,
interdicendo con infamia e disonore da ogni partecipazione alla vita della polis.
Atimoi sono per definizione gli schiavi, esclusi giuridicamente dalla comunità-polis e proprio così, atimos, è
definita Medea dal coro, che rappresenta la comunità. Spesso la condanna all'atimia si accompagna all'esilio
o phygè, come testimoniano le orazioni giudiziarie di Lisia; in esse l'esito del processo spesso prevede
proprio questa condanna come la più temuta perché fa di un cittadino un apolis, esposto alla più grande
incertezza, privo di tutta una rete di rapporti sociali e religiosi, proprio come si definisce Medea, confrontando
la sua condizione con quella delle donne del coro: ''Io invece sono sola e senza città apolis, oltraggiata da
mio marito, rapita come preda da una terra straniera'
hi
cc
ra
Bo
ca
-A
du
.e
ia
m
de
La condanna all'esilio è la punizione inflitta a Medea, innocente, solo per la fama delle sue arti magiche e di
quella sophia che il re Creonte teme come strumento di vendetta del torto subito dallo sposo. La decisione
del re è irrevocabile, frutto della paura di un uomo che, immemore di saggezza, 'cerca di coprire la sua
debolezza creando frastuono' (Lesky): la donna è costretta all'esilio da Corinto
ripete
tre volte in pochi versi), come se fosse stata accertata la sua colpevolezza, cioè si fosse svolto un processo
e fosse stata proferita una sentenza di condanna dal re; egli è 'arbitro' (brabeus) ed esecutore del decreto di
espulsione, senza possibilità di difesa per l'imputata.
Come in un processo, allora a Medea resta solo la supplica, la canonica 'mozione degli affetti', nel tentativo
di suscitare comprensione e pietà nel vecchio re; ed così mostra un atteggiamento di sottomissione e di
simulato rispetto, parte integrante del suo piano di vendetta, e si commisera per la vergogna, il disagio
economico, e l'emarginazione sociale che conseguono all'esilio.
Ritroveremo lo stesso vocabolario giuridico inteso a suscitare affetti nel IV episodio: Medea finge di
riconciliarsi con Giasone, lo implora di essere comprensivo, di perdonare la sua ira, di non 'ricambiare' al suo
atteggiamento puerile e di desistere dalla precedente ostilità.
E' vero, come scrive Cicerone, che Medea, profuga in terra straniera, si presentava in scena 'con le mani
interamente ricoperte di gesso'? Questa sarebbe un'immagine estremamente simbolica del bisogno di
Medea di assimilarsi in tutto e per tutto con le donne di Corinto, facendo assomigliare la sua carnagione di
barbara a quel candore della pelle tanto apprezzato nelle donne greche.
In questo consiste il dramma di Medea come essere umano, come persona, prima che moglie e madre:
deve cancellare con un trucco ed un travestimento la propria alterità e dunque negare se stessa per essere
accolta; deve identificarsi con l'altro da sé per avere ospitalità; deve spogliarsi della propria natura ed
indossare una finzione per avere un'identità.
6
ia
ar
M
Il Tarditi volle cogliere nel dramma di esclusione patito da Medea il rispecchiamento di una situazione di
stringente attualità per Atene: prima dello scoppio della guerra del Peloponneso la città si ripiegò su se
stessa e la legislazione periclea assecondò tale chiusura, riservando la cittadinanza legittima solo ai figli nati
da padre e madre titolari della piena cittadinanza ateniese. La drammatica conseguenza della norma
giuridica fu il ripudio delle mogli straniere, costrette ad una delegittimazione che le rese tutte concubine. La
loro situazione sarebbe equivalente a quella di Medea: anche sulla moglie di Giasone, una barbara, pesano
l'intolleranza ed il rifiuto pretesi da una legge degli uomini.
L'identificazione di Medea con le straniere vittime di questa legislazione negatrice di legami ed affetti, con un
potente scarto temporale - dalla storia al mito- e spaziale - da Atene a Corinto-, trasforma il sapere magico e
barbarico di una 'strega' in doti laiche, in un'intelligenza lucida, in argomentazioni dalla logica rigorosa ed in
strumenti verbali ineccepibili, adeguati alla città che Tucidide definì 'scuola dell'Ellade'.
E' questo un significativo punto di intersezione tra la tematica tragica e le problematiche civili e politico
sociali di Atene, che ritroveremo nell'incontro tra Medea ed Egeo, re di Atene, nel III episodio. Il motivo
dell'attualità nella tragedia è molto interessante, ma non dobbiamo mettere al centro della nostra lettura il
rapporto con la contemporaneità storica, perché il teatro greco affidava alla commedia, non alla tragedia, il
compito di rappresentarla. Se la tragedia non prescinde dai problemi storici contemporanei, non vuole però
identificarsi con essi in modo esclusivo. L'eroe tragico infatti si pone in una dimensione meta-storica ed è
depositario di un destino che trascende il dato contingente, cioè quello di essere un modello di
interpretazione della stessa condizione umana.
az
gr
ia
Come ricorda Medea, il suo legame nuziale è stato consacrato da giuramenti e da gesti rituali ed altamente
simbolici come la stretta di mano; ne erano testimoni, a garanzia di legittimità e di fedeltà, gli dei invocati ad
assistere al rito. Tutta la tradizione iconografica antica greca e romana conferisce grande rilevanza al gesto
della dextrarum iunctio, momento cardine del rito matrimoniale, che garantisce la reciprocità e la
obbligatorietà del legame.
Nella rievocazione del rito e del gesto torna il linguaggio giuridico con pistis, vocabolo comune al lessico del
processo, che significa, nella sua polisemia, fiducia, ma anche prova, così come marturomai esprime
l'azione del dio testimone del legame nuziale e del teste in un processo.
Si riscontra quindi un intreccio di vocaboli religiosi con termini di alta valenza giuridica; il rito sacro legittima
un atto o una cerimonia anche in termini di diritto umano. L'interferenza tra i due ambiti è diffusa nel mondo
antico: da una parte attesta l'esistenza di uno stretto rapporto tra antropologia e mito divino, dall'altra
conferma la funzione di modello ed archetipo del mito anche per la prassi quotidiana.
hi
cc
ra
Bo
ca
-A
Mentre il gesto dell'unione delle mani significa amore, fedeltà e legittimazione della prole, Medea ha ricevuto
come contraccambio, amoibè, solo tradimento ed abbandono: 'L'infelice Medea disonorata supplica a gran
voce i giuramenti, invoca la suprema fedeltà della destra e chiama gli dei a testimoni di che cosa riceve in
cambio da Giasone'. E a sua volta risponde con la straziante reciprocità dell'assassinio di Glauce e
dell'infanticidio, privando Giasone della sua discendenza presente e futura.
du
.e
ia
m
de
Un tragico contrappasso nei gesti e nelle parole, in cui si ripropone la tematica simbolica della mano,
anticipa il precipitare degli eventi: nel IV episodio, per convincere Giasone del suo pentimento e della
rinuncia alla ribellione ('abbiamo fatto la pace') invita i figli a 'prendere la mano destra del padre' come prova
di rappacificazione, ma, con ironia tragica e con inversione di segno, questo sarà l'addio al padre!
Nella mente di Medea divampano affetti opposti: è un incendio che accomuna l'immagine dell'amore giurato,
il tradimento, e la morte dei suoi bambini, una sorta di corto circuito catalizzato dalla visione delle mani di
padre e figli unite a suggellare un patto, a ristabilire un legame.
Un quadro familiare tragicamente presago di dolore su cui aleggia, accanto alla dea Armonia, la cupa
presenza del suo opposto, Neikos, Lite 'Ahimè, come penso a qualcuno dei mali nascosti' esclama Medea,
alludendo al rancore del passato ed all'imminente futuro di orrore e sangue, quando per l'ultima volta bacerà
la mano dei suoi figli ('Date, date, bambini la destra da baciare alla mamma. Oh mano carissima…').
L’odio inesorabile suscitato dall’abbandono, è un sentimento irriducibile alla ragione, una rabbia che può
placarsi solo se ottiene risarcimento, vendetta, nemesis, cioè giusta compensazione, ristabilimento degli
equilibri, il trionfo di dike su adikia, 'la linea portante dell'azione tragica'.
7
DIKE E ADIKIA
Nella tragedia si svolgono molte considerazioni di ordine generale su dike, che conferiscono a Medea un
inatteso spessore culturale e una prospettiva critica oggettiva ed universale: si tratta soprattutto delle
riflessioni sul destino di un apolis, uno straniero in terra straniera, giuridicamente escluso, e spesso anche
oggetto di disprezzo. Ci colpisce per intensità l'affermazione di Medea che 'la giustizia non vive tra gli
uomini', perché' odiano gli estranei solo al vederli'; è vero che la sua considerazione nasce dall'esperienza
personale ed è espressa in modo coerente con la vicenda, ma attinge ad una verità universale.
ia
ar
M
Un alto senso di giustizia anima anche la famosissima rhesis nella quale Medea demolisce, con logica
stringente ed abilità dialettica, l'assoluta iniquità della misoginia, frutto del pregiudizio maschile e di una
lunga tradizione letteraria. Qui l'eroina non esprime stati d'animo, ma riflessioni di carattere universalizzante
sulla relazione di genere ed i versi, dalla forte connotazione etico-sociale a favore delle donne, tradotti dal
filologo inglese Murray, divennero persino 'a song for feminist' cantata dalle suffragette inglesi.
Medea, con una sensibilità antipatriarcale, rivendica per sé e per le Corinzie, che chiama 'amiche', un diritto
negato, quello della donna ad un'individualità autonoma, nella quale non si subiscano solo doveri, ma si
affermino anche diritti. Invece, sostiene, il matrimonio è un contratto che costringe la donna a prendere un
'padrone' del proprio corpo, che soddisfa l'utilitarismo maschile con le obbligazioni cerimoniali della dote e lo
appaga con la procreazione di figli legittimi. Se il matrimonio è un'obbligazione unilaterale impegnativa solo
per la moglie, quale giustizia resta per la donna? Quale destino attende Medea tradita ed abbandonata?
Solo quello di rassegnarsi, piangere e pregare gli dei, come le consigliano le donne del coro? E l'agognata
autonomia potrà avere come conseguenza solo il delitto e la solitudine?
ia
az
gr
cc
ra
Bo
Le categorie di ingiusto e giusto ricorrono molto spesso nella tragedia: la vicenda di Medea non è quindi un
banale, seppur cruento, 'dramma della gelosia' (sentimento che la lingua greca non indica neppure con un
termine specifico), ma supera il caso singolo ed assume aspetti di grande rilievo etico-sociale. La Giustizia è
concepita come una divinità ed assume un valore particolare, ma contraddittorio, nelle invocazioni
simmetriche ed opposte di Medea e di Giasone; entrambi ne pretendono per antitesi l'assistenza: l'eroina
supplica Zeus, Dike figlia di Zeus e la luce del Sole, perché siano testimoni del suo strazio senza speranza,
mentre Giasone esclama: "Ti distruggano l'Erinni dei figli e la Giustizia vendicatrice del sangue".
hi
Dike ed adikia entrano ora nel circolo magico e tragico della situazione di Medea, in una prospettiva
soggettiva, come componenti della sua vicenda personale. Ad armare la mano di Medea infatti non sono ira,
o gelosia o un furore cieco, ma un'esigenza, paradossalmente percepita quasi come 'etica', di vendicare un
equilibrio turbato, quell'armonia e simmetria che costituiscono la dike amorosa, nel mutuo rapporto tra
amante ed amato.
Questa forma di dike, che pretende un indissolubile vincolo ed obbligo di fedeltà, appare a Medea un valore
assoluto e viene interiorizzato come esclusivo e totalizzante. La rottura del vincolo sancito ed il tradimento
del patto d’amore sono da lei vissuti come violazione di una norma, come vera ingiustizia, come un'adikia, e
la 'costringono' ad attuare una giustizia 'compensativa'; è un imperativo superiore, un'esigenza inesorabile:
la colpa di Giasone deve essere espiata.
m
de
ca
-A
du
.e
ia
Inoltre Medea vive ossessivamente la paura tutta eroica e diremmo 'maschile' di essere schernita dai suoi
nemici, derisa dalla comunità, se non si vendicherà di Giasone: colpire i philoi per eccellenza sarà il modo
per vendicarsi degli echthroi ed impedire che essi si beffino di lei. Questo assillo di Medea per l'onore e la
fama (doxa ricorre 6 volte) dimostra che la donna ha fatto proprio il principio cardine della 'società della
vergogna,' o società dell'aidòs, norma etica per la quale il valore dell'individuo si identifica e si risolve nella
considerazione che la comunità ha di lui.
E' addirittura la 'barbara' Medea a ricordare al re Creonte gli impegni dell'aidòs, in particolare il dovere di
rispettare i supplici; aideomai ed aidòs prescrivono infatti anche il rispetto per la santità del supplice e per le
sue richieste: nel sistema giuridico-sacrale greco l'obbligo di rispettare il supplice ha natura religiosa tanto
autorevole che chi è supplicato sente l'appello come una sorta di violenta costrizione.
Anche nel III episodio ritroviamo la donna nel ruolo di supplice verso Egeo, re di Atene: si pone, secondo la
norma, in attitudine rituale di inferiorità ed in una dinamica di relazioni finalizzata ad ottenere la concessione
dell'asilo nella città. Naturalmente Egeo a sua volta sente il dovere morale di offrire ospitalità a Medea:
benché la sua decisione non sia esente da interessi personali, egli assicura accoglienza in Atene, perché
vuole essere 'giusto'. Nella protezione e nell''asilo' accordato da Egeo, pegno di intoccabilità giuridica e
sacrale, Medea trova finalmente risposta ai suoi bisogni ed alle preoccupazioni del coro che chiedeva
affranto quale casa o terra l'avrebbe ospitata.
8
ia
ar
M
Nel testo viene invocato l'istituto della proxenia, che estende la xenia, ospitalità, ai rapporti tra le città: lo
straniero che viene accolto in una città ospitante assume lo status giuridico di 'ospite pubblico', oggetto di
onori e privilegi, in una nuova patria in cui trova comprensione e stima della comunità.
Naturalmente tale istituzione non esiste nella dimensione acronica del mito né nella fase prepolitica; ancora
una volta la tragedia è uno strumento per mettere in scena la tradizione eroica e soprattutto le istituzioni che
fanno grande la città di Euripide. Inoltre il legame tra Medea ed il re di Atene, suggellato con una formula di
giuramento severo, appare un emblema della ritualità e della sacralità di un impegno solenne.
Tale dovere, assunto giurando in nome della Terra, di Helios e di 'tutta la stirpe degli dei', costituisce per
Medea garanzia di inviolabilità del patto, in antitesi con lo spergiuro e traditore Giasone. Medea ripone la sua
fiducia (pistis) in Egeo e nella sua generosità, e per due volte esclama pepoitha, pepoitha, (ho fiducia)
mentre Giasone non è stato fedele, leale, pistos: anche in questi versi, come in tutta la tragedia, è
significativa la ricorrenza lessicale di giurare, giuramento, spergiuro, alla presenza muta e severa degli dei
che sovrintendono e garantiscono la fedeltà dei patti. E Medea arriva a stabilire le pene che toccherebbero
al re di Atene, se fosse spergiuro. 'tutte quelle che accadono agli uomini che mancano di rispetto agli dei'
ia
az
gr
E' evidente che il sistema di norme imperniato sull'aidòs assume il ruolo di una morale civica, un potente
regolatore del modo di pensare e di agire, sia individuale, sia sociale, che possiede una grande forza di
deterrenza per comportamenti devianti dai dettami e dalle regole della comunità.
Medea ha imparato a conoscere il potere della morale e del diritto e ne sa fare accorto uso: nella cosiddetta
'società della vergogna o del disonore', infatti, la forza cogente del principio dell'aidòs è molto intensa, e si
configura come un vero e proprio obbligo morale perentorio; questo rende anche inevitabile la vendetta del
torto subito, in forza del dovere simmetrico di 'far bene agli amici e male ai nemici'. In questo contesto, in cui
Aidòs, Pudore, ha il compito di trattenere dal compiere l'offesa, la divinità che sempre le si accompagna,
Nemesi, rivendica come ineluttabile la 'giusta vendetta', la doverosa risposta ad un'istanza che a Medea,
seppure in modo istintivo e primordiale, appare etica e contemporaneamente giuridica.
Bo
hi
cc
ra
Tutto il percorso drammaturgico e interiore che guida Medea all'esecuzione della sua 'giusta nemesi', è un
cammino progressivo e faticoso: Euripide ci accompagna alla soluzione estrema, attraverso i colloqui di
Medea con se stessa, le confessioni, le confidenze, le esitazioni, i dubbi. E' un ragionamento intimo e
“meditato” che invera il senso del nome Medea: l'etimologia deriva dalla radice indoeuropea del curare, del
portare consiglio, che continua poi nel verbo medomai, meditare, considerare, escogitare, tramare. Dice
infatti il coro al v.402: 'Suvvia Medea, non risparmiare nulla di ciò che sai, meditando e tramando'.
"E l’intelligenza acuisce il gusto della giustizia, come una mola che gira senza sosta affila un coltello",
scrisse Marguerite Yourcenar.
-A
.e
ia
m
de
ca
“La terra greca è divenuta il tuo soggiorno, tu hai conosciuto la giustizia e sai vivere secondo la legge e non
secondo la forza” queste parole compiaciute del 'civilizzatore' Giasone si ritorcono contro di lui: Medea,
arrivando nella civile e razionale Grecia, ha appreso i valori di dike e di adikia e la loro applicazione
normativa nelle leggi, il motivo della fiera superiorità dell'Ellade, ma è altrettanto vero che è divenuta
consapevole che ha diritto di ottenere legittimamente giustizia per l'infrazione di dike da parte di suo marito.
I due si affrontano nel II episodio con un'abilità oratoria che riproduce sulla scena l'alta civiltà giuridica e la
prassi processuale ateniese: questo lascia sperare, afferma Giasone, che Medea saprà vivere secondo la
legge e non secondo la forza, e che lo strumento della parola permetterà l'abbandono della vendetta.
Si ha la sensazione dunque, a questo punto della tragedia, che i precetti etici e la norma giuridica possano
prevalere anche nella dimensione atemporale del mito, proprio come accadde storicamente, quando alla
faida tribale si sostituirono nella polis le norme e le garanzie di un processo.
du
Invece prevarrà la furia assassina di Medea e sarà retaggio di una cultura arcaica, in cui vigevano regole
primarie di vendetta e di espiazione con il sangue, ma anche contrassegno di una barbarie che i Greci
vorrebbero cancellare, assimilandola a sé, addomesticandola, per dominarla con forme di vita e con regole
morali più umane ed evolute. Proprio questo Giasone si illude di aver ottenuto con la propria moglie, per il
solo fatto di averla sradicata dalla Colchide, terra di oscura anarchia, e di averla portata con sé, ospite di
quella che gli appare la culla del diritto e della legalità.
Giasone si inganna: egli crede che il progresso compiuto nelle relazioni sociali e civili, quello che ha portato
a regolare in tribunale contenziosi e delitti, valga anche per la barbara 'civilizzata' Medea e che ella sappia
frenare le passioni per assoggettarle alla legge. Non immagina né sa prevedere che l'esigenza e di giustizia
che egli stesso si vanta di averle insegnato si possano tradurre nella vendetta cruda e sanguinosa,
legittimata in Medea dall'originaria barbarie.
9
Medea, che si imbiancava per assomigliare alle donne di Corinto, cercando di annullare almeno visivamente
la sua diversità, si dimostra capace di mimetismo, di nascondimento, anche nell'assumere le categorie
mentali e gli strumenti verbali del popolo che la ospita, ma è in agguato, come una leonessa, pronta a
svelare la sua vera natura con il delitto. E' un'ipocrisia vera e propria e, dato che in greco hypocrites significa
'attore', Medea recita perfettamente la parte e ci conduce dentro un meccanismo di teatro nel teatro.
ia
ar
M
Nel II episodio lo scontro verbale tra Giasone e Medea è definito hamilla logon, uno schema espressivo
estremamente conflittuale, un modulo stilistico tipico della contrapposizione tra contendenti in un processo; i
Greci lo chiamano dike, o kindynos, pericolo o agòn, con un vocabolo che esaspera l'antitesi in termini di
sfida e vittoria, come in una competizione, che si conclude con vincitori e vinti.
L'episodio è dunque strutturato come un 'conflitto di discorsi': alla terribile requisitoria di Medea segue la
risposta di Giasone, un'accorta e capziosa autodifesa che trasforma le accuse di Medea in meriti personali e
che occupa un ugual numero di versi, (precisamente 54); è una rigorosa simmetria che rispecchia
l'uguaglianza di tempo che lo stillicidio della clessidra garantiva agli avversari in un processo.
Anche le strutture linguistico-formali rimandano all'oratoria giudiziaria, sia per mezzo dell'impiego di vocaboli
tematici specifici, del linguaggio settoriale, sia per una vera e propria forma mentis giuridica esplicitata dai
personaggi, come l'appello ai testimoni che appartiene alla vita dei tribunali, ma soprattutto, con l'utilizzo
della ripartizione canonica del discorso giudiziario in prooemium o exordium, narratio, discussio o
argumentatio, conclusio o epilogos o peroratio.
ia
az
gr
hi
cc
ra
Bo
du
.e
ia
m
de
ca
-A
10
ia
ar
M
NEMESI E TIMORIA: VENDETTA E PUNIZIONE
La forza evocatrice dei versi euripidei ci fa immaginare Giasone e Medea seduti come avversari l'uno sulla
pietra dell'ingiuria, lithos hybreos, l'altra su quella dell'inconciliabilità, lithos anaideias; li vediamo fronteggiarsi
e sostenere le proprie ragioni ciascuno per due volte, come in un tribunale, nel II episodio e nell'esodo. Fa
parte del processo, sia di carattere privato sia di ordine politico, il ricorso sistematico alla diffamazione
dell'avversario, la diabolè, che consiste nell'impiego di invettive contro l'antagonista, talora ingiuriose e
perfino attinenti alla sfera intima e privata.
Un tono infamante e sarcastico caratterizza le due parti indicate: Medea e Giasone si rivolgono insulti e si
lanciano reciproche accuse, espresse con la virulenza verbale perfettamente congeniale al ritmo giambico
ed alla sua tonalità aggressiva.
Nel II episodio Medea rovescia astiosa sul marito epiteti come 'scellerato', 'odiosissimo', 'peggiore degli
uomini', 'spergiuro'; denuncia la sua viltà, sfrontatezza, impudenza, (mancanza di aidòs); egli al contrario si
propone di frenare la 'impudente logorrea' della moglie, e la accusa di pazzia e di arroganza. Nel II episodio
Giasone controlla la situazione e parla per primo, mentre alla fine della tragedia la situazione è rovesciata:
esacerbato dal dolore, in una sequenza incalzante ed in climax l'eroe apostrofa Medea come la donna più
odiosa dell'umanità, empia e traditrice, più selvaggia di Scilla, audace omicida, essere detestabile, dal
linguaggio insolente, leonessa impura ed infanticida.
ia
az
gr
Restando nella prassi formale di un processo, quali attenuanti il diritto antico concederebbe a Medea? In
generale consistevano nell'assenza di intenzione e nell'irresponsabilità fisiologica, dovuta all'età, come
all'infanzia o in stati di alterazione della psiche, (come la demenza, la collera, la passione, la costrizione).
Quale di questi sentimenti non ha provato l'eroina, gettata da Giasone in una condizione di umiliazione,
mortificazione, abbandono, solitudine,?
Euripide nell'ultimo monologo di Medea accompagna lo spettatore a constatare un 'momento di
consapevolezza' di Medea, che si rapporta ad 'una realtà di turbamento estremo'. L'annullamento della realtà
umana ed affettiva di Medea, la distruzione di tutto il suo mondo e del suo status giuridico e sociale: tutto
questo è condensato nelle parole della nutrice fin dai primi versi della parodo: 'Casa più non esiste. Non c'è
più nulla'.
E la tematica della costrizione si afferma spesso, quando Medea impiega l'ottativo come per esprimere
'l'ossessivo bisogno di uscire da una situazione in cui si sente costretta', o quando riprende il tema della
necessità, ananche, in modo iterativo ('E' assolutamente inevitabile, o vecchio; queste cose gli dei ed io
stessa, pensando al male, ho macchinato'), infine nel monologo in cui si dibatte lacerata tra amore e
necessità ('E' assolutamente necessario che essi muoiano e, poiché deve accadere, ad ucciderli sarò io che
li ho generati'). Il patto tradito reclama vendetta, la giusta nemesi deve affermarsi, c'è una giustizia superiore
alla quale Medea è tenuta, costretta a sottomettersi ('tutto è compiuto e non c’è più scampo): la sua
disperazione trova come unico sbocco possibile l’abisso finale.
hi
cc
ra
Bo
ca
-A
du
.e
ia
m
de
Quando Medea, ancor fuori scena, anela alla morte, si odono le sue suppliche: invoca Themi, e chiama
maledetto, (kataraton), il marito spergiuro; il coro affida la donna alla protezione di Zeus e come lei invoca
Themi che i voti consacra, (cui è demandato il compito di ristabilire la giustizia violata) e Zeus custode dei
giuramenti, poi ricorda Zeus e Themi che vigila sui giuramenti, infine definisce Giasone traditore (prodotan),
nella parodo, nel II e IV stasimo e nell'esodo, proprio come la nutrice nel prologo e, naturalmente, come
Medea.
Inoltre nel I stasimo il coro canta "A ritroso dei sacri fiumi muovono le fonti, e giustizia è sconvolta… Gli
uomini hanno consigli di frode e la fede giurata sugli dei non sta più salda. Tutto appare dunque negazione
della giustizia, e gli uomini, precisamente i 'maschi' nel testo euripideo, rinnegano la loro pretesa superiorità
morale; persino i loro rapporti ufficiali e rituali con gli dei sono inficiati da inganno e falsità.
E più avanti: E' finito il rispetto dei giuramenti, non più resta pudore nell'Ellade, è volato via in cielo: il pudore,
componente dell'aidòs, fulcro della società della vergogna ha abbandonato l'Ellade civile e civilizzatrice; solo
la straniera può ristabilire i valori violati, come l'intera comunità esige.
E Medea afferma: 'La fede nei giuramenti è scomparsa ed io non posso sapere se tu credi che gli dei di
allora non esistano più o che nuove leggi ora ci siano per gli uomini, dal momento che sei ben consapevole
di essere spergiuro nei miei confronti'. (vv. 492-95). L'inganno di Giasone non riguarda solo il piano umano,
ma è una sovversione cosmica delle norme, in quanto negazione della fedeltà anche sul piano divino.
Questa elevata e ricorrente coincidenza di vocabolario e di sensibilità tra la nutrice, l'eroina ed il coro
sostiene, convalida e ratifica le suppliche e le maledizioni di Medea, come se la sentenza di condanna di
Giasone fosse anticipata da tutte le donne della tragedia, specialmente dalle coreute. Ricordiamo che esse
sono sempre chiamate philai, amiche, da Medea e che già nel I stasimo esprimono parole di vera e propria
'condanna', dell'ipocrisia maschile con una chiamata a correità non solo di Giasone, che 'non potrebbe mai
essere 'amico' del coro, perché non onora i propri 'cari', ma dell'intero universo maschile, che chiamano la
'stirpe dei maschi'.
11
ia
ar
M
Si delinea dunque nella tragedia un duplice livello del 'processo' e del 'verdetto', quello particolare di Medea,
l'accusatore implacabile contro il marito spergiuro e traditore e quello più universale, di genere diremmo,
delle donne contro gli uomini, con accenti di dolente universalità.
Il coro è in questo 'agone' tanto coinvolto e vicino a Medea da configurarsi come il syndikos o synegoros,
che nel processo affianca l'accusatore nell'arringa: è il coro infatti a postulare la collaborazione di Zeus, il dio
garante di dike, nella giusta punizione, la timoria, di Giasone, dicendo a Medea: 'Zeus collaborerà con te a
far giustizia. Infatti punirai tuo marito giustamente'. Ed ancora nel V stasimo, chiaramente parteggiando per
Medea: 'Le disgrazie di Giasone sono la giusta punizione per uno spergiuro'.
Euripide ci rende partecipi di un processo particolare, un dibattimento di carattere etico e sentimentale, come
quelli che coinvolgevano minorenni e vecchi, durante i quali la prassi giudiziaria ateniese saggiamente
sospendeva il rigoroso controllo del tempo assegnato alle parti. Questi processi erano definiti dikai aneu
hydatos, processi senz'acqua, che invece di norma stillando dalla clessidra misurava la parte dell'accusa e
quella della difesa in tempi imparzialmente uguali.
az
gr
Il lessico giuridico greco è ricco di termini che esprimono la forma mentis della giustizia e l'intenzione o la
finalità della pena, come: correzione (kolasis), riparazione (nouthetesia), intimidazione e difesa sociale
(timoria), esempio (paradeigma), dissuasione (apotropè) ed inoltre espiazione (tisis). Nella punizione di
Giasone si colgono tutte queste istanze di natura etico-giuridica, ma quello che più colpisce è il fatto che
l'infanticidio, inteso come giusta punizione del padre, sia concepito da Medea come un atto rituale; le parole
di Medea, infatti, riecheggiano la formula sacra di prammatica con la quale il sacerdote allontanava chi non
fosse degno di assistere alla cerimonia o al culto: 'Chi non potrà assistere al mio sacrificio, ci pensi!'
ia
Quali dei sovrintendono al rito di morte? I demoni degli inferi, alastores, letteralmente 'coloro che non
dimenticano', la Terra, ed Ecate, dea di un mondo ctonio che interagisce con la sophia 'altra' di Medea, con il
mondo magico di cui ella è signora e che nella terra e negli inferi trova una matrice ed una fonte privilegiata.
Prevale nella tragedia tutto un sistema di divinità femminili: Dike, Themis, Ananke, Nemesi, unita ad Aidòs,
tutte 'figure della necessità', che attribuiscono a ciascuno la giusta misura, la parte equilibrata del tutto su cui
esercitano il loro controllo, potenze normative astratte, talora senza volto, prive di un'immagine visibile.
Altre divinità femminili appartengono al pantheon più recente, come Afrodite, Demetra Tesmophoros ed
Artemide: hanno fattezze muliebri e concernono in modo esclusivo la femminilità; regolano e proteggono
momenti specifici della vita della donna; per esempio Artemide, dea vergine e insieme protettrice della
maternità, presiede alla preparazione alla vita adulta ed assiste nel parto. Non solo per Medea, la straniera,
ma anche per la donna greca esiste dunque un pantheon separato da quello maschile, con particolari feste,
riti, sacrifici e la presenza-chiave del sangue, con l'alone misterico e magico che lo circonfonde. Euripide ci
presenta nella tragedia un intenso rapporto di Medea con le divinità femminili, che alla fine si esprime in un
legame diretto con il divino, quando Medea diventa essa stessa dea ex machina e si libra sul carro del Sole.
hi
cc
ra
Bo
ca
-A
du
.e
ia
m
de
I processi si concludono con l'assoluzione o con la condanna, quindi con la determinazione della pena e la
sua esecuzione. Erano pene infamanti la privazione di sepoltura, le interdizioni da riti e luoghi sacri, punizioni
che colpivano le adultere, e l'imprecazione o arà. Il termine, ricordiamo, è ambivalente, in quanto significa
augurio di bene, ma anche maledizione.
Nella tragedia ne vediamo un uso pregnante alla fine del II episodio, congedandosi da lei Giasone la
rimprovera: 'Hai imprecato contro i sovrani cose scellerate (aras)' e Medea risponde: 'Ed ecco maledico pure
la tua casa'; un presagio di vendetta che si attuerà con l'aiuto degli dei: 'Forse, se un dio mi ascolta, farai tali
nozze da doverle rinnegare'. La maledizione, l'arà, che Giasone rinfaccia a Medea, ricade su di lui, con un
tragico rovesciamento: sua moglie, una donna, si erge a giudice ed applica a suo marito proprio la pena che
gli uomini greci infliggevano alle loro mogli adultere: l'interdizione dai riti sacri.
Infatti impedendo a Giasone, con mostruoso contrappasso, di celebrare le esequie dei figli, gli sottrae anche
quest'ultimo gesto di pietà e conforto. Medea lo rende apais, privo di figli, poi infierisce su di lui nel modo più
brutale, decretando la 'condanna' ed eseguendo personalmente la pena; la sua vendetta trova compimento
nell'annientamento di Giasone come padre. Quando arriva in scena, per cercare di preservare i figli dalla
vendetta, non trova ormai altro che i loro cadaveri; con loro vola via la sciagurata madre sul carro di Helios, il
dio Sole.
Ed allora supplica: 'Lasciami seppellire e piangere questi morti', ma Medea gli risponde: 'No, sarò io a
seppellirli con le mie mani. Li porterò nel tempio di Era… perché nessun nemico possa oltraggiarli, profanare
la loro tomba'. Medea, con un estremo atto d'amore, vuole tutelare i propri cari, i philoi per eccellenza,
garantendone l'inviolabilità con la protezione divina, dando loro asilo nel tempio, unico luogo dove vige
ancora dike, la sacralità del rispetto per i morti. Eppure lei stessa ne ha annullato la vita per aidòs e
nemesi, 'costretta' a vendicarsi dell'adikia del marito, e per evitare di essere oggetto del scherno dei
nemici, gli echthroi, Giasone ed i Corinzi, preservando con fierezza autodistruttiva la sua timè e la
sua doxa .
12
E' Giasone ora che, irriso da Medea ('Quale dio o demone ti ascolterà, spergiuro e traditore degli ospiti?')
con un inatteso rovesciamento è costretto a chiamare gli dei come testimoni, marturomenos, delle sventure
che deve subire e del fatto che la donna gli 'impedisce di toccare con le mani e di seppellire i morti''
L'efferato delitto nel ghenos afferma il diritto ancestrale e primario della madre sui figli, sul suo sangue; al
padre è precluso ogni diritto, anche quello dell'ultimo abbraccio. La negazione della sepoltura dei suoi figli
riporta Medea ad un'altra barbarie, all'assassinio del fratello, smembrato e gettato in mare, lasciato insepolto:
come a suo marito, anche a suo padre, Medea, la donna creatura di distruzione, con un sacrilegio ha
strappato l'estremo atto di umana pietà e consolazione.
Conclusione
ia
ar
M
Alla fine della tragedia Medea si allontana da Corinto portata in salvo dal carro del Sole trainato da serpenti
alati; l'eroina dunque esce da un ricorrente schema drammaturgico in cui l'assassino è anche suicida.
La donna colpevole di tanti delitti fugge impunita verso un 'altrove' irraggiungibile, e forse anche
incomprensibile, per gli umani.
Allo smarrimento di Giasone e dello spettatore sembra dar voce nel modo più autentico Seneca: la sua
Medea si conclude con parole che esprimono solo delusione e sconforto assoluti ed universali: come il
filosofo romano, anche Euripide nella sua ricerca teologica esprime l'istanza di trovare almeno nell'universo
divino i valori etici assenti dal mondo umano, arrivando a far coincidere l'eticità degli dei con la loro
ontologia.
Ma se giustizia e rettitudine anche tra gli dei si arrendono ad impunità ed iniquità, di fronte alla salvezza, che
appare insensata, di una madre figlicida, l'uomo si ribella, rifiutandone l'esistenza.
Allora Giasone ha il diritto di gridare il suo strazio, che ha persino l'accento blasfemo di negazione del divino.
'Per alta vade spatia (sublime aetheris), testare nullos esse, (qua veheris,) deos'
'Va' Medea nell'alto dei cieli, testimonia che gli dei non esistono!'
ia
az
gr
hi
cc
ra
Bo
du
.e
ia
m
de
ca
-A