BIBLIOTECA DI «NUOVA STORIA CONTEMPORANEA»
Collana diretta da Francesco Perfetti
25
LUCIANO MONZALI
ITALIANI DI DALMAZIA
1914-1924
Le Lettere
In copertina: cartolina di propaganda irredentistica italiana.
Opera realizzata sotto il patrocinio della Società Dalmata di Storia Patria,
Venezia.
Copyright © 2007 by Casa Editrice Le Lettere - Firenze
ISBN 88 6087 042 9
www.lelettere.it
INTRODUZIONE
Oggetto di questo studio è la ricostruzione delle vicende politiche delle popolazioni italiane della Dalmazia fra lo scoppio della prima guerra mondiale e la firma degli accordi italo-iugoslavi del 1924. In quegli anni l’assetto politico della Dalmazia, così come quello di tutta
l’Europa centro-orientale, conobbe un profondo sconvolgimento. La
dissoluzione dell’Impero asburgico produsse un aggravamento delle
lotte nazionali e politiche nei territori già appartenenti all’ex AustriaUngheria. In Dalmazia, così come in altre parti dell’ex Impero, il crollo del potere asburgico scatenò una lotta fra le varie nazionalità autoctone per affermare la propria egemonia. Nella costa dalmata le lotte nazionali furono particolarmente forti anche perché alimentate e
strumentalizzate dalle mire espansionistiche dell’Italia e della Serbia
(trasformatasi poi in Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), potenze uscite vincitrici dalla guerra mondiale. A partire dal novembre 1918 si assistette così all’aperto esplodere della rivalità fra Italia e nuovo Regno
iugoslavo per affermare la propria sovranità sulla costa dalmata, una
competizione che si sarebbe temporaneamente conclusa solo con il
trattato di Rapallo del novembre 1920. Il conflitto politico dalmata fu
particolarmente complesso e contraddittorio perché, contemporaneamente alla lotta fra Italia e Stato iugoslavo, fra dalmati italiani e italofili e simpatizzanti iugoslavi, si delineò drammaticamente un altro
grave scontro, quello fra le forze nazionali croate autonomiste o indipendentiste e lo Stato centralista ed autoritario incarnato dal governo
serbo di Belgrado. L’accordo di Rapallo pose temporaneamente fine
alla rivalità italo-iugoslava, mentre lo scontro croato-serbo non fece
che aggravarsi nel corso degli anni Venti. La difficile e contrastata applicazione del patto del novembre 1920 mise in luce come ogni progetto di riconciliazione politica e nazionale fra italiani e slavi del sud
si scontrasse con l’opposizione di forze politiche particolarmente aggressive ed organizzate e di importanti settori delle opinioni pubbliche. Gli anni Venti, quindi, furono contraddistinti da una radicalizzazione dell’antagonismo nazionale in Dalmazia, antagonismo alimentato e strumentalizzato da alcune forze politiche italiane (nazionalisti,
VI
INTRODUZIONE
fascisti) e iugoslave (nazionalisti iugoslavi, serbi e croati). In questo
contesto storico gli italiani di Dalmazia furono soprattutto “vittime”
degli sviluppi politici che la società dalmata conobbe, sviluppi prodotti da decisioni, scelte ed atti compiuti ed imposti dagli Stati e da
forze nazionali e politiche più vigorose, organizzate e forti. I comportamenti politici dei dalmati italiani e della loro leadership furono
spesso solamente risposte a iniziative ed eventi provocati da altri. I capi dalmati italiani (Ziliotto, Krekich, Ghiglianovich, Pini, Tacconi) cercarono di adattarsi ai mutamenti politici prodotti dalla guerra, ispirando la propria condotta soprattutto al principio della difesa degli interessi delle loro comunità nazionali e locali. La ricostruzione degli
eventi politici evidenzia che in Dalmazia la lotta nazionale italiana s’identificò anche con la battaglia per la difesa della “piccola patria”, la
difesa delle specifiche tradizioni linguistiche e culturali delle comunità cittadine italiane di Zara, Sebenico e Spalato. Il liberalismo nazionale italiano dalmata preservò anche dopo il 1918 la propria matrice liberale: esso accettava il pluralismo religioso, culturale e nazionale ed era pronto alla collaborazione e al compromesso con le altre
forze nazionali dalmate. Il rapporto degli italiani di Dalmazia con
l’Italia liberale e fascista fu caratterizzato da una forte complessità e
contradditorietà: l’alleanza con il governo di Roma fu una scelta ineludibile per la minoranza italiana, pena il venir meno della sua sopravvivenza; ma fu un’alleanza fra soggetti con identità, obiettivi ed
ideologie politiche diverse. Se alcuni dalmati italiani aderirono con entusiasmo al fascismo, altri, soprattutto quelli legati alla tradizione del
vecchio partito autonomista, cercarono di preservare una propria specificità ed autonomia, tentando di limitare le interferenze del partito
fascista nella vita delle comunità italiane in Iugoslavia negli anni fra
le due guerre: ma il crescente indebolimento della minoranza italiana, sottoposta alla pressione ostile del governo di Belgrado, che la considerava una quinta colonna dell’espansionismo dell’Italia, ed il contemporaneo rafforzarsi dell’autoritarismo dello Stato fascista resero gli
spazi di autonomia sempre più ridotti e limitati.
Questo volume, che continua un progetto di studio iniziato con il
mio precedente libro Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla
Grande Guerra (Firenze, 2004), è debitore del sostegno e dell’aiuto
di molte persone. Desidero, innanzitutto, ringraziare Franco Luxardo
e Tullio Vallery, che mi hanno stimolato ed aiutato ad intraprendere e
concludere questa ricerca, che viene edita sotto il patrocinio della
Società Dalmata di Storia Patria di Venezia. Sono riconoscente a Elio
INTRODUZIONE
VII
Ricciardi per le informazioni sulla storia degli italiani di Arbe e i tanti consigli, e a Giorgio Varisco per la collaborazione nella ricerca delle cartine. Sono poi grato al prof. Vanni Tacconi e alla Fondazione
Tacconi di Venezia per l’interesse verso le mie ricerche dalmatiche e
per le informazioni sulla storia della sua famiglia. Vorrei poi manifestare la mia gratitudine a Francesco Perfetti, che con grande attenzione e disponibilità, ha accettato di pubblicare questo mio volume nella collana di studi da lui diretta. La mia attività di studio ha potuto usufruire dei consigli e suggerimenti di Italo Garzia, Alessandro Duce e
Pietro Pastorelli. Un grazie sincero, infine, agli amici che si sono assunti l’onere della lettura di questo testo, fornendomi utilissime critiche e consigli: Massimo Bucarelli, Francesco Caccamo, Federico
Imperato, Anna Millo e Luca Riccardi.
Modena 10 ottobre 2006
Luciano Monzali
ELENCO DEI FONDI ARCHIVISTICI, DELLE RACCOLTE
DOCUMENTARIE E DELLE ABBREVIAZIONI
ACP: Archivio Conferenza della Pace, Archivio storico del Ministero degli Esteri, Roma.
ACS: Archivio Centrale dello Stato, Roma.
ADAP: Akten zur Deutschen Auswärtigen Politik 1918-1945, Frankfurt/
M.-Göttingen, 1950-1995.
AM, archivio di base: Archivio storico della Marina Militare Italiana, archivio di base, Roma.
AMAF: Archives diplomatiques du Ministère français des Affaires étrangères, Parigi.
AP: Atti parlamentari, Camera dei deputati, Roma, 1861-.
AP 1931-45: Fondo della Direzione degli Affari Politici 1931-1945,
Archivio storico del Ministero degli Esteri, Roma.
AP 1919-30: Fondo della Direzione degli Affari Politici 1919-30, Archivio
storico del Ministero degli Esteri, Roma.
ARC POL 1915-1918: Archivio politico 1915-1918, Archivio storico del
Ministero degli Esteri, Roma.
AS BOLOGNA: Archivio di Stato di Bologna.
ASMAE: Archivio storico del Ministero degli Esteri, Roma.
ASS: Archivio di Stato di Spalato/Drz#avni Arhiv Split, fondo Governo della Dalmazia/Talijanska Vlast u Dalmaciji 1941-1943, Split.
ASSR: Archivio storico del Senato del Regno d’Italia, Roma.
BDFA: British Documents on Foreign Affairs: Reports and Papers from the
Foreign Office Confidential Print, Washington, 1983-.
BL: Biblioteca comunale di Lucera, Foggia.
X
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI
BS: Biblioteca del Senato, Roma.
CARTE ALDROVANDI MARESCOTTI: Carte di Luigi Aldrovandi Marescotti,
Archivio di Stato di Bologna.
CARTE A PRATO: Carte di Carlo Emanuele a Prato, Istituto Nazionale per la
Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Milano.
CARTE BONOMI: Carte di Ivanoe Bonomi, copia conservata all’Archivio
Centrale dello Stato, Roma.
CARTE BOSELLI: Carte di Paolo Boselli, Archivio Centrale dello Stato,
Roma.
CARTE GHIGLIANOVICH: Carte di Roberto Ghiglianovich, Biblioteca del
Senato, Roma.
CARTE GIOLITTI: Carte di Giovanni Giolitti, Archivio Centrale dello Stato,
Roma.
CARTE IMPERIALI: Carte di Guglielmo Imperiali di Francavilla, Archivio storico del Ministero degli Esteri, Roma.
CARTE NITTI: Carte di Francesco Saverio Nitti, Archivio Centrale dello
Stato, Roma.
CARTE SALANDRA: Carte di Antonio Salandra, Biblioteca comunale di
Lucera.
CARTE SALATA: Carte di Francesco Salata, Archivio storico del Ministero
degli Esteri, Roma.
CARTE SFORZA: Carte di Carlo Sforza, Archivio storico del Ministero degli
Esteri, Roma.
CARTE SONNINO/DE MORSIER: Carte di Frank De Morsier, Archivio Centrale
dello Stato, Roma.
DA: Archivio Storico della Società Dante Alighieri, Roma.
DDA: Dokumente zur Aussenpolitik der Bundesrepublik Österreich 19181938, München, 1993-.
DBFP: Documents on British Foreign Policy 1919-1939, London, 1947-.
DDF: Documents diplomatiques français, Paris-Bern, 1987-.
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI
XI
DDI: I Documenti diplomatici italiani, Roma, Libreria dello Stato-Istituto
poligrafico dello Stato, 1952-.
DDS: Documents diplomatiques suisses/Documenti diplomatici svizzeri/Diplomatische Dokumente der Schweiz 1848-1945, Berna, Benteli Verlag,
1979-.
FRUS, The Paris Peace Conference, 1919: Papers on Foreign Relations of
the United States. The Paris Peace Conference, Washington, 1861-.
FV, ARC GEN FIU: Fondazione del Vittoriale, Archivio Generale Fiumano,
Gardone (Brescia).
FV, ARC GEN: Fondazione del Vittoriale, Archivio Generale, Gardone
(Brescia).
GAB 1923-43, AF: Carte del Gabinetto del Ministro e della Segreteria
Generale dal 1923 al 1943, Ufficio Adriatico-Fiume, Archivio storico del
Ministero degli Esteri, Roma.
IB: Die Internationalen Beziehungen im Zeitalter des Imperialismus, Berlin,
1934-1942.
INSMLI: Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in
Italia, Milano.
LN: Un Livre Noir. Diplomatie d’avant-guerre et de guerre d’après les documents des archives russes (1910-1917), Paris, Librairie du Travail, s. d.
LV: Documenti Diplomatici presentati al Parlamento italiano dal ministro
degli Esteri Sforza. Negoziati diretti fra il governo italiano e il governo serbocroato-sloveno per la pace adriatica, Roma, 1921.
MANTOUX: PAUL MANTOUX, Les Délibérations du Conseil des Quatre (24
mars - 28 juin 1919), Paris, 1955.
MIN INT, d.g. pubblica sicurezza: Fondo Ministero dell’Interno, direzione generale pubblica sicurezza, Archivio Centrale dello Stato, Roma.
OA: Le Occupazioni adriatiche, Roma, 1932.
PA, Barrère: Papiers d’agents, Camille Barrère, Archives diplomatiques du
Ministère français des Affaires étrangères, Parigi.
PDH: Papers and Documents relating to the Foreign Relations of Hungary,
Budapest, 1939-1945.
XII
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI
PNF-DN: Fondo del Partito Nazionale Fascista, Direttorio Nazionale,
Archivio Centrale dello Stato, Roma.
RECUIL: Conférence de la Paix 1919-1920. Recuil des Actes de la
Conférence, Paris.
Sebenico, arc. ord.: Archivio del Vice-consolato italiano di Sebenico, archivio ordinario, Archivio storico del Ministero degli Esteri, Roma.
SHS: Serbi, Croati e Sloveni.
Spalato: Archivio del Consolato italiano di Spalato, Archivio storico del
Ministero degli Esteri, Roma.
UNP: Fondo dell’Ufficio per le Nuove Provincie, Archivio Centrale dello
Stato, Roma.
WP: The Papers of Woodrow Wilson, Princeton, 1966-1994.
Zapisnici: Zapisnici sa sednica delegacije Kraljevine SHS na Mirovnoj
Konferenciji u Parizu 1919-1920, Beograd, 1960.
b.: busta.
c.: cartella.
d.: documento.
n.: numero
p.: pagina
pp.: pagine
rap.: rapporto
sc.: scatola
s.d.: senza data
s.n.: senza numero
ss.: seguenti
tel.: telegramma
vol.: volume
I
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA E LA POLITICA ESTERA
ITALIANA DALL’INTERVENTO ALLA FIRMA
DEL TRATTATO DI VERSAILLES
1.1. Gli italiani di Dalmazia e l’irredentismo politico durante
la guerra
Negli anni precedenti allo scoppio della prima guerra mondiale l’aggravarsi delle lotte nazionali in seno all’Impero asburgico aveva reso
le condizioni di vita degli italiani di Dalmazia sempre più precarie1.
Dopo decenni di rivalità, i principali partiti dalmati croati e serbi – infervorati dal sogno di un grande Stato iugoslavo che, dopo le guerre
balcaniche e i successi militari della Serbia, sembrava non essere più
una semplice chimera – si erano uniti in una coalizione che aveva conquistato il controllo politico e amministrativo della provincia. In nome di un ideale d’unione serbo-croata, i nazionalisti iugoslavi si erano lanciati con vigore e accanimento in un’azione politica mirante a
conquistare l’ultima roccaforte italiana della Dalmazia, il Comune di
Zara/Zadar; contemporaneamente i gruppi nazionalisti più estremisti
predicavano l’esigenza di una ripresa della slavizzazione integrale della vita sociale delle città dalmate, con l’obiettivo di fare progressiva1 Per un’analisi delle vicende politiche della minoranza italiana nella Dalmazia asburgica negli anni precedenti allo scoppio della prima guerra mondiale rimandiamo a: LUCIANO
MONZALI, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Firenze, 2004; JOSIP
VRANDECI# C!, Dalmatinski autonomistic#ki pokret u XIX stoljec!u, Zagreb, 2002; ANGELO DE
BENVENUTI, Storia di Zara dal 1797 al 1918, Milano-Roma, 1944; ATTILIO TAMARO, La Vénétie
Julienne et la Dalmatie. Histoire de la Nation italienne sur ses frontières orientales, Roma,
1918-1919, III, p. 435 e ss. ; ANTONINO D’ALIA, La Dalmazia nella storia e nella politica,
nella guerra e nella pace, Roma, 1924; ALESSANDRO DUDAN, La Dalmazia di oggi, in AUTORI
VARI, La Dalmazia. Sua italianità, suo valore per la libertà d’Italia nell’Adriatico, Genova,
1915, p. 65 e ss.; EGIDIO IVETIC!, La patria del Tommaseo. La Dalmazia tra il 1815 e il 1860,
in FRANCESCO BRUNI (a cura di), Niccolò Tommaseo: Popolo e Nazioni. Italiani, Corsi, Greci,
Illirici, Roma-Padova, 2004, p. 595 e ss.
2
LUCIANO MONZALI
mente sparire ogni forma di presenza pubblica e organizzata d’italianità linguistica e culturale. Nonostante decenni di egemonia politica,
i nazionalismi pancroato e panserbo non erano ancora riusciti a cancellare i caratteri multietnici e plurinazionali della società dalmata. Alla
vigilia della prima guerra mondiale tutte le città della Dalmazia erano ancora centri italo-slavi, dove convivevano, fortemente mescolati,
croati, italiani e serbi. L’influenza dell’elemento italiano – costituito
quasi esclusivamente da abitanti delle città, appartenenti sia ai ceti popolari che a quelli aristocratici e borghesi – era più forte sul piano culturale e linguistico che su quello politico. La lingua italiana – o per
precisione il dialetto veneto-dalmata2 – restava alquanto diffusa nei
centri urbani ed era quotidianamente parlata anche da dalmati croati
e serbi3. La sua sopravvivenza era dovuta alla presenza di consistenti
nuclei italiani nei centri urbani e al fatto che il dialetto veneto-dalmata
era la lingua “cittadina” per eccellenza, parlata dagli abitanti delle città
per tradizione e per affermare la propria identità municipale in contrapposizione alle popolazioni delle campagne4. In una società dove il
concetto di coscienza nazionale era soprattutto un dogma ideologico
o una scelta di partito più che una ben definita e rigida identità di matrice etnica, la lingua italiana continuava a dominare la vita di Zara,
Spalato/Split e Sebenico/?ibenik. La specificità culturale dalmata e la
mescolanza etnica spiegavano le divisioni esistenti fra lo stesso elemento italiano sul piano politico: molti italiani per lingua, cultura e
origini (Gajo/Gaetano Bulat5, Lorenzo Monti6, Edoardo Tacconi7, Vito
Morpurgo8) furono fondatori e capi dei partiti nazionalisti slavofili,
2 Al
riguardo: LUIGI MIOTTO, Vocabolario del dialetto veneto-dalmata, Trieste, 1983.
Interessante la testimonianza del nazionalista iugoslavo Smodlaka sulla forte diffusione della lingua italiana a Spalato alla fine dell’Ottocento: JOSIP SMODLAKA, Zapisi dra Josipa
Smodlaka, Zagreb, 1972.
4 Sulla funzione del dialetto veneto-dalmata come lingua identitaria della popolazione
cittadina di Spalato: ANATOLIJ KUDRJAVCEV, Vjec#ni Split, Split, 1985. Riguardo al contrasto
fra cittadini e borghigiani nella società spalatina di quegli anni: BOGDAN RADICA, Vjec#ni Split,
Split-Zagreb, 2002, p. 125 e ss.
5 IVO PERIC!, Politic#ki portreti iz pros#losti iz Dalmacije, Split, 1990, p. 157 e ss.
6 MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit., p. 57.
7 VANNI TACCONI (a cura di), Antonio e Ildebrando Tacconi. Due paladini della civiltà latino-veneto-italica in Dalmazia, Venezia, 1997, p. XXIII; LUCIANO MONZALI, Dalmati o
Italiani? Appunti su Antonio Bajamonti e il liberalismo autonomista a Spalato nell’Ottocento,
«Clio», 2002, n. 3, p. 451.
8 DUSK
# O KECK
# EMET, Vid Morpurgo e Narodni Preporod u Splitu, Split, 1963; ID., Židovi u povijesti Splita, Split, 1971, p. 159 e ss.; MARIANTONIETTA LANZILOTTI, I Morpurgo di
Spalato, in Palestina 1927 nelle fotografie di Luciano Morpurgo, Roma, 2001, p. 59 e ss.
3
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
3
nelle loro varie tendenze ideologiche (pancroatismo, iugoslavismo,
ecc.). Convinti che il miglior futuro per la Dalmazia stesse nella sempre maggiore unione con i popoli del retroterra balcanico, questi italiani slavofili avevano partecipato all’enunciazione di nuove ideologie
politiche nazionaliste, in prevalenza di tendenza iugoslava. Nazionalisti
iugoslavi come Monti, Morpurgo, Bulat sostennero la necessità di una
rigenerazione della nazione dalmatica e la fusione delle varie stirpi dalmatiche in un’unica comunità nazionale dominata dall’elemento maggioritario, quello iugoslavo: per questi italiani slavofili, serbi e croati
erano un’unica nazione all’interno della quale la minoranza italiana dalmata si doveva fondere e cancellare in nome del bene comune; l’italiano doveva progressivamente ridursi a lingua dialettale locale, esclusa dalla vita politica e culturale ufficiale, al fine di non fomentare tendenze centrifughe nella nascente nazione iugoslava9.
Le ideologie nazionaliste slavofile furono accettate da alcuni dalmati
italiani, ma rifiutate da molti altri, fieri della propria tradizionale identità dalmatica e ostili all’idea di un’unione con la Croazia e le altre terre croate e serbe. L’opposizione ai nazionalismi pancroato e iugoslavo
si organizzò nel partito autonomo-costituzionale, formazione politica
liberale e regionalista che raccolse consensi in tutte le fasce della società dalmata e fu forza egemone in Dalmazia fino agli anni Ottanta
dell’Ottocento. Progressivamente il liberalismo autonomista sviluppò
al suo interno una corrente nazionale italiana, che, contro le tendenze
assimilatrici e intolleranti dei movimenti slavofili, auspicava che i dalmati ponessero al centro delle proprie lotte politiche la difesa della lingua e della cultura italiana. L’ideologia nazionale liberale italiana in
9 Sulle ideologie nazionaliste croate, serbe e iugoslave in Dalmazia fra Ottocento e
Novecento: RADE PETROVIC!, Nacionalno pitanje u Dalmacji u XIX stoljec!u. (Narodna stranka
i nacionalno pitanje 1860-1880), Sarajevo, 1968; IVO BANAC, The National Question in
Yugoslavia. Origins, History, Politics, Ithaca-London, 1988; DRAGOVAN ?EPIC!, Politic#ke koncepcije Frana Supila, in FRANO SUPILO, Politic#ki Spisi. Šlanci, govori, pisma, memorandumi,
Zagreb, 1970, pp. 7-95; IVO PETRINOVIC!, Politic#ka misao Frana Supila, Split, 1988; IVO PERIC,!
Ante Trumbic! na dalmatiskom politickom popris#tu, Split, 1984; ANTE TRUMBIC!, Izabrani Spisi,
Split, 1986; ID., Suton Austro-Ugarske i Rijec#ka rezolucija, Zagreb, 1936; ARNOLD SUPPAN,
Die Kroaten, in ADAM WANDRUSZKA, PETER URBANITSCH (a cura di), Die
Habsburgermonarchie 1848-1918, Wien, 1980, vol. III, tomo 2, p. 626 e ss.; GÜNTHER
SCHÖDL, Kroatische Nationalpolitik und ‘Jugoslavenstvo’. Studien zu nationaler Integration
und regionaler Politik in Kroatien-Dalmatien am Beginn des 20. Jahrhunderts, München,
1990; BENIAMINO SALVI, Il movimento nazionale e politico degli sloveni e dei croati.
Dall’Illuminismo alla creazione dello Stato jugoslavo (1918), Trieste, 1971; MARJAN DIKLIC!,
Pravas#tvo u Dalmaciji do kraja prvoga svjetskog Rata, Zadar, 1998.
4
LUCIANO MONZALI
Dalmazia ebbe il suo più importante teorico in Antonio Bajamonti10, capo carismatico dell’autonomismo spalatino, e con il trascorrere degli
anni e il crescere delle discriminazioni anti-italiane conquistò sempre
più simpatizzanti. Sull’esempio del partito liberale-nazionale triestino
il liberalismo autonomista dalmata assunse progressivamente un carattere sempre più nazionale italiano: era un nazionalismo che sorgeva come risposta ai movimenti nazionalisti slavofili, difensivo e liberale, che
mirava soprattutto alla tutela dei diritti linguistici e culturali della minoranza italiana in Dalmazia. Alla fine dell’Ottocento, pur rimanendo
in sostanza un’alleanza fra regionalisti dalmati e liberali italiani, il partito, che ormai si definiva «autonomo-italiano», era dominato da politici di chiara fede nazionale italiana: Luigi Ziliotto11, Roberto
Ghiglianovich12, Ercolano Salvi13, Luigi Pini14 e Natale Krekich15.
10 A proposito della figura di Antonio Bajamonti: MONZALI, Dalmati o Italiani? Appunti
su Antonio Bajamonti e il liberalismo autonomista a Spalato nell’Ottocento, cit.; GRGA NOVAK,
Povijest Splita, Split, 1957-1965, terzo volume; DUS#KO KEC#KEMET, “Associazione dalmatica”
i pad Ante Bajamontja, in AUTORI VARI, Hrvatski Narodni Preporod u Splitu. U povodu stogodis#njice ponarodjenja splitske opc!ine 1882. Presudne pobjede narodnjaka nad autonomas#ima
u Dalmaciji, Split, 1984, p. 75 e ss.; ID., La Fontana di Spalato, «Atti e Memorie della società
dalmata di storia patria», Roma, vol. XIX, 1996, pp. 199-263; ID., Hrvatski Narodni Preporod
u Splitu. Zbivanja i Likovi, Split, 1999; OSCAR RANDI, Antonio Bajamonti, «Archivio storico
per la Dalmazia», 1928, f. 24, p. 263 e ss.; ID., Antonio Bajamonti, il “mirabile” podestà di
Spalato, Zara, 1932; CORRADO CAMIZZI, Il dibattito sull’annessione della Dalmazia alla
Croazia, «La Rivista dalmatica», 1973, nn. 2 e 3, pp. 125 e ss., p. 225 e ss.
11 Circa l’importante personalità di Luigi Ziliotto: NATALE KREKICH, L’opera amministrativa e politica di Luigi Ziliotto, «La Rivista Dalmatica», 1932, nn. 1-2, p. 43 e ss.;
ILDEBRANDO TACCONI, Luigi Ziliotto patriota e irredentista, in ID., Per la Dalmazia con amore e con angoscia. Tutti gli scritti editi ed inediti di Ildebrando Tacconi, Udine, 1994, p. 283
e ss.; GIANCARLO SOPPELSA, Luigi Ziliotto, in FRANCESCO SEMI, VANNI TACCONI, Istria e
Dalmazia. Uomini e tempi, Udine, s.d., II, p. 479 e ss.; GIUSEPPE ZILIOTTO, Luigi Ziliotto e i
suoi tempi, «La Rivista Dalmatica», 1964, nn. 3 e 4, pp. 3-25, pp. 19-45, 1965, n. 1, pp. 740; OSCAR RANDI, L’attività di Luigi Ziliotto alla Conferenza di Parigi, «La Rivista
Dalmatica», 1932, estratto.
12 Sulla figura di Roberto Ghiglianovich: LUCIANO MONZALI, Un contributo alla storia
degli italiani di Dalmazia. Le carte Ghiglianovich, «La Rivista Dalmatica», 1997, n. 3, p. 192
e ss.; ID., La Dalmazia e la questione jugoslava negli scritti di Roberto Ghiglianovich durante la prima guerra mondiale, «Clio», 1998, n. 3, p. 429 e ss.; OSCAR RANDI, Il senatore
Roberto Ghiglianovich. Profilo aneddotico, «La Rivista Dalmatica», 1930, pp. 3-27; ID., Il
Sen. Roberto Ghiglianovich. Mezzo secolo di storia dalmata, «La Rivista Dalmatica», 1963,
1965, 1966, 1967, 1968, 1979, 1981, 1982, 1983, 1984, 1986, 1991.
13 ILDEBRANDO TACCONI, Ercolano Salvi a Spalato, in ID., Per la Dalmazia, cit., p. 274
e ss.; ID., A dieci anni dalla morte di Ercolano Salvi, in ID., Per la Dalmazia, cit., p. 272 e
ss.; OSCAR RANDI, Dalla guerra a Rapallo, «La Rivista Dalmatica», 1931, n. 3, pp. 18-26;
NATALE KREKICH, L’opera di Ercolano Salvi nella Dieta di Dalmazia, ivi, pp. 27-48.
14 MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit., p. 172 e ss.
15 ILDEBRANDO TACCONI, Natale Krekich, in Istria e Dalmazia, cit., II, p. 475 e ss.;
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
5
Dalla fine dell’Ottocento forza minoritaria di fronte ai partiti croati e serbi, il partito autonomo-italiano perseguì una strategia politica
complessa ed ambigua. Gli autonomisti italiani, innanzitutto, si batterono per la difesa dei diritti nazionali linguistici e culturali dei dalmati italiani. Al fine di raccogliere fondi e finanziamenti per aprire
scuole private italiane e svolgere attività politica in competizione con
partiti assai più forti, i dalmati italiani intrecciarono stretti rapporti con
il governo di Roma negli anni Novanta. L’Italia finanziò il partito autonomo-italiano attraverso la società Dante Alighieri, strumento informale per intervenire nella vita politica delle regioni austriache abitate da popolazioni italiane16. All’inizio del Novecento il partito autonomo-italiano perseguiva sostanzialmente una politica di difesa culturale e nazionale, mirando soprattutto a difendere i diritti dell’italianità autoctona, astenendosi dal sostenere apertamente progetti separatisti ritenuti irrealistici. Non a caso gli italiani di Dalmazia cercarono di sfruttare la paura asburgica dell’espansionismo serbo: coltivarono stretti rapporti con le autorità politiche austro-ungariche offrendosi come alleati nella lotta contro l’inquieto nazionalismo iugoslavo
dalmata, dominato da forti correnti serbofile17. Grazie a questo oscillare fra Roma e Vienna i liberali italiani dalmati conservarono il controllo del Comune di Zara e si garantirono un atteggiamento delle autorità asburgiche assai più conciliante e amichevole nei loro riguardi
di quello che il governo austriaco riservò ai partiti italiani di Trieste e
dell’Istria. Contemporaneamente gli autonomi italiani cercarono di
raggiungere un compromesso politico e nazionale con i partiti croati
e serbi dominanti nella provincia, al fine di garantire alla minoranza
italiana alcuni diritti linguistici e culturali. Ma questi tentativi ebbero
scarso successo, scontrandosi con le resistenze e la contrarietà di molti militanti dei partiti nazionalisti croati e serbi, ostili al rafforzamento dell’italianità dalmatica per non favorire gruppi ostili ai diritti nazionali pancroati o iugoslavi18.
Alla vigilia della prima guerra mondiale importanti nuclei italiani
MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit., p. 174.
16 BEATRICE PISA, Nazione e politica nella società “Dante Alighieri”, Roma, 1995; ID.,
Ernesto Nathan e la “politica nazionale”, «Rassegna storica del Risorgimento», 1997, n. 1,
p. 17 e ss.; MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit., p. 165 e ss.; ALESSANDRO LEVI, Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan, Firenze, 1945.
17 MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit., p. 178 e ss.
18 MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit., p. 216 e ss.; TEREZA GANZA-ARAS, Politika “Novog
Kursa” dalmatinskih pravas#a oko Supila i Trumbic!a, Split, 1992.
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LUCIANO MONZALI
erano presenti in tutti i principali centri cittadini della Dalmazia.
Un’analisi dell’approssimativa consistenza della presenza italiana in
Dalmazia è possibile grazie alla lettura del censimento austro-ungarico del 191019. I limiti e i difetti dei censimenti austro-ungarici sono
ben noti: poiché la raccolta dei dati del censimento era un importante momento di lotta politica in uno Stato dominato da forti rivalità nazionali, essa veniva compiuta dalle varie autorità statali e comunali periferiche in modo spesso fazioso e strumentale, favorendo una nazionalità a scapito di altre: in Dalmazia, provincia dominata dai partiti
croati e serbi, le autorità comunali e provinciali si adoperavano in tutti i modi per favorire una sottovalutazione numerica dell’elemento italiano. In ogni caso, nonostante la sua parziale attendibilità, il censimento del 1910 ci aiuta a delineare un quadro della presenza italiana
in Dalmazia prima della guerra mondiale. Il nucleo italiano più consistente era concentrato nel capitanato (Bezirk) di Zara, dove, secondo i dati ufficiali, vi erano 11.768 italiani di fronte a 70.838 serbi e
croati: gli italiani erano la nazionalità maggioritaria nel centro urbano di Zara, mentre il contado era massicciamente croato e serbo. L’altra
zona ad alta concentrazione italiana era la città di Spalato, nel cui capitanato venivano dichiarati presenti 2.357 italiani (concentrati nel capoluogo) insieme a 95.869 croati e serbi. Consistenti comunità italiane vi erano poi nelle isole dalmate: 444 italiani a Curzola/Korc#ula, 265
a Brazza/Brac#, 586 a Lesina/Hvar, 149 ad Arbe/Rab, presenti nei principali centri urbani (Curzola, Arbe, San Pietro/Supetar, Neresi/
Nerez#is#c!a, Lesina e Cittavecchia/Starigrad). Altri nuclei italiani non
privi d’importanza esistevano nei capitanati di Sebenico (968), Ragusa/
Dubrovnik (526) e Cattaro/Kotor (538), sempre concentrati nelle città20. Importanti comunità italiane erano presenti a Veglia/Krk, Cherso/
Cres e Lussino/Los#inj, geograficamente isole dalmate, ma sul piano
amministrativo appartenenti all’Istria asburgica. In queste isole, assai
19 Al riguardo: DIEGO DE CASTRO, Cenno storico sul rapporto etnico tra italiani e slavi
nella Dalmazia, in Studi in memoria della prof. Paola Maria Arcari, Milano, 1978, p. 261 e
ss., in particolare p. 290; GIOTTO DAINELLI, La Dalmazia. Cenni geografici e statistici, Novara,
1918, p. 46 e ss.; GUERRINO PERSELLI, I censimenti della popolazione dell’Istria, con Fiume
e Trieste, e di alcune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, Trieste-Rovigno, 1993, p. 451
e ss.; OLINTO MILETA MATTIUZ, Popolazioni dell’Istria, Fiume, Zara e Dalmazia (1850-2002).
Ipotesi di quantificazione demografica, Trieste, 2006. Una presentazione grafica dei dati del
censimento austriaco del 1910 nella cartina acclusa al volume Die Habsburgermonarchie
1848-1918, cit., vol. III, tomo 2.
20 PERSELLI, op. cit., p. 451 e ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
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vicine all’Istria e all’Italia, la consistenza dell’elemento italiano si era
mantenuta molto forte e compatta, soprattutto nei principali centri urbani a netta maggioranza italiana, anche grazie al fatto che l’appartenenza amministrativa all’Istria, dominata dal partito liberale italiano,
aveva garantito un certo favore da parte delle autorità provinciali e locali. Nel capitanato di Lussino e Cherso il censimento del 1910 segnalava la presenza di 9.883 italiani e di 9.998 croati, mentre in quello di Veglia vi erano 19.553 croati e 1.543 italiani, questi ultimi in grande maggioranza concentrati nella cittadina di Veglia21. Fra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in queste isole si era sviluppato un forte movimento nazionalista pancroato, guidato spesso dal
clero cattolico e che raccoglieva consensi nelle campagne, dove tendeva a prevalere la popolazione di lingua croata22.
In una situazione di sempre più aspre lotte nazionali, negli anni precedenti allo scoppio della prima guerra mondiale il governo austriaco
era parso a molti dalmati italiani un benigno protettore contro le tendenze assimilatrici dei nazionalismi iugoslavi. In Dalmazia, l’Austria,
spaventata dal sorgere di un nazionalismo croato iugoslavo e filoserbo nei ceti intellettuali e borghesi, non perseguiva più una politica anti-italiana e vedeva con favore la sopravvivenza di un partito italiano23.
Ciò spiega la presenza di tendenze filo-asburgiche nel partito autonomo-italiano e, scoppiata la guerra austro-serba nel luglio 1914, il
favore di molti dalmati italiani all’ipotesi di un’alleanza bellica italoasburgica contro la Serbia che, alcuni speravano, avrebbe portato al
rafforzamento dell’elemento italiano in Dalmazia24. Fra il 1914 e il
1915 il deteriorarsi dei rapporti fra Roma e Vienna, a causa dell’impossibilità di raggiungere un accordo soddisfacente sull’eventualità
della neutralità italiana, e la conseguente evoluzione anti-asburgica della politica estera dell’Italia, facilitarono il prevalere della tendenza irredentistica anti-austriaca in seno ai dalmati italiani. Informati sulle
21 GAETANO SALVEMINI, CARLO MARANELLI, La questione dell’Adriatico, in GAETANO
SALVEMINI, Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), Milano, 1964, p. 295.
22 Sulle vicende storiche delle comunità italiane di queste isole: LUCA RICCARDI,
Francesco Salata tra storia, politica e diplomazia, Udine, 2001; ANNA MARIA FIORENTIN,
Veglia la “splendidissima civitas curictarum”, Pisa, 2004.
23 SCHÖDL, Kroatische Nationalpolitik und “Jugoslavenstvo”, cit.; TEREZA GANZA ARAS,
Dalmacija u Austro-ugarskoj i unutras#njoj politici poc#etkom XX stoljeca, «Radovi Instituta
Jugoslavenske Akademije znanosti i umjetnosti u Zadru», 1981, nn. 27-28, pp. 309-342.
24 MONZALI, Un contributo alla storia degli italiani di Dalmazia, cit., p. 202 e ss.; ID.,
Italiani di Dalmazia, cit., p. 311 e ss.
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LUCIANO MONZALI
intenzioni del governo di Roma di puntare al conflitto militare contro
Vienna al fine di conquistare la Venezia Giulia e parte della Dalmazia, nel 1915 i capi del partito autonomo-italiano decisero d’inviare
in Italia Roberto Ghiglianovich, deputato nella Dieta provinciale dalmata, a rappresentare gli interessi e le tesi della minoranza. Per non
scoprire anticipatamente le proprie intenzioni e per cautelarsi contro
l’eventualità di una sconfitta dell’Italia, gli altri principali capi del partito autonomo-italiano, in primis Luigi Ziliotto, podestà di Zara, rimasero in Austria-Ungheria, pronti a svolgere una politica di formale ed ambiguo lealismo verso lo Stato asburgico.
Iniziata la guerra italo-austriaca Ziliotto e l’amministrazione comunale autonomista-italiana di Zara dichiararono la loro fedeltà alla dinastia asburgica. Ziliotto rimase in carica per vari mesi, grazie anche
alla benevolenza del governatore della Dalmazia Attems. Il sotterfugio
dei capi italiani, però, fu ben presto smascherato. Informato dell’attività irredentistica svolta da Ghiglianovich in Italia e raccolta una documentazione compromettente sui passati rapporti fra l’Italia e i capi
autonomo-italiani, il governo di Vienna destituì Ziliotto e sciolse l’amministrazione del Comune di Zara nel maggio 1916. Alcuni capi ed
esponenti del partito autonomo-italiano furono vittime di misure di rigore da parte delle autorità statali asburgiche: furono inviati al confino lontani dalla Dalmazia Krekich, Ziliotto, Ljubo/Amato Talpo,
Gaetano Feoli, Leonardo Pezzoli e Giuseppe Savo; furono rinchiusi in
campi d’internamento Ercolano Salvi e Giovanni de Serragli25. Sempre
in quei mesi, fra il 1915 e il 1916, analoghe misure repressive furono
prese contro gli esponenti politici filoserbi e iugoslavi, accusati di simpatia per la Serbia, ad esempio, Ivan Krstelj, ex podestà di Sebenico,
Matteo/Mate Drinkovic!, Lujo Vojnovic!, Josip Smodlaka26. Lo scoppio
della guerra contro l’Italia e lo scioglimento dell’amministrazione comunale italiana di Zara facilitarono il risorgere di disegni unionistici
fra la Dalmazia, la Bosnia e la Croazia in chiave pancroata. L’opinione
pubblica croata favorevole agli Asburgo o a un’entità statuale croata separata dalla Serbia domandava la creazione di una grande Croazia al25 D’ALIA, op. cit., pp. 144-147; DE BENVENUTI, op. cit., p. 163. Sulla situazione politica interna all’Impero asburgico nel corso della prima guerra mondiale: ARTHUR J. MAY, The
Passing of the Hapsburg Monarchy 1914-1918, Philadelphia, 1966, due volumi.
26 Al riguardo: AM, archivio di base, c. 1414, Ferruzzi all’Ufficio del capo di stato maggiore della Marina, senza data ma 1919; Lupis-Vukic! a Seton-Watson, 5 agosto 1914, in
R. W. Seton-Watson and the Yugoslavs. Correspondence 1906-1941, London-Zagreb, 1976, I,
d. 107.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
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l’interno dell’Austria-Ungheria. Pure esponenti militari asburgici come il generale Stefan Sarkotic!, governatore della Bosnia, e gli amministratori della Serbia e del Montenegro occupati chiedevano al governo di Vienna l’istituzione di una grande Croazia, comprendente la
Croazia, la Dalmazia e la Bosnia, ritenuta possibile soluzione per contrastatare le tendenze secessioniste e filoserbe27. Ma ogni progetto di
unificazione croata e di riorganizzazione dell’Impero asburgico si scontrò con l’irriducibile opposizione ungherese, non disposta ad accettare la creazione di un’entità statale croata che distruggesse il sistema istituzionale dualista fondato sull’egemonia austro-tedesca e magiara28.
Nei mesi precedenti allo scoppio del conflitto italo-asburgico alcune decine di dalmati di sentimenti italiani, animati dal sogno dell’unione alla Nazione madre, fuggirono in Italia. Molti di questi
(Lorenzo Gilardi, Ferruccio Ferruzzi, Antonio Difnico, Antonio de
Nakich, Gustavo Poduje, Edmondo de Hoeberth, Nicolò Luxardo) si
sarebbero arruolati nell’esercito italiano o avrebbero collaborato all’attività politica e militare dello Stato italiano29. Fra gli esuli dalmati italiani fuggiti nella Penisola durante la prima guerra mondiale bisogna ricordare, per la loro rilevanza nelle vicende politiche successive, Roberto Ghiglianovich, l’avvocato zaratino Ludovico Milcovich,
esponente della tendenza liberaldemocratica del partito autonomo-italiano, i giornalisti nazionalisti Silvio Delich e Alessandro Dudan, il
poeta e scrittore Antonio Cippico. Altra figura interessante è quella del
giovane avvocato zaratino Antonio Bucevich che, volontario in guerra, grazie alla sua conoscenza delle lingue fu inviato dalla Marina in
Svizzera a collaborare con il servizio informazioni italiano per spiare l’azione degli emissari asburgici e iugoslavi nel paese alpino30. Nella
mitologia dell’irredentismo italiano dalmata particolare rilevanza
avrebbe assunto la figura di Francesco Rismondo, giovane spalatino,
che, caduto nelle mani dell’esercito asburgico, fu fucilato31.
La scelta irredentista dei vertici del partito autonomo-italiano dalmata, a nostro avviso, fu provocata dall’evoluzione dei rapporti italo27
MAY, op. cit., II, p. 708 e ss.
MAY, op. cit., II, p. 711.
29 Un elenco dei volontari dalmati arruolatisi nell’esercito italiano in D’ALIA, op. cit.,
p. 170 e ss.; Sulle vicende di uno di questi volontari, Nicolò Luxardo: NICOLÒ LUXARDO DE
FRANCHI, I Luxardo del Maraschino, Gorizia, 2004, p. 91 e ss.
30 OSCAR RANDI, Antonio Bucevich, irredentista, volontario di guerra, diplomatico, «La
Rivista Dalmatica», 1931, n. 4, pp. 3-12.
31 D’ALIA, op. cit., p. 176.
28
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LUCIANO MONZALI
austriaci e dalle decisioni del governo di Roma. È interessante notare
che la documentazione diplomatica edita mostra che la minoranza italiana non fu in grado d’influire sul processo decisionale in seno al governo di Roma32. I progetti territoriali italiani, che confluirono poi in
gran parte nel patto di Londra, furono elaborati dal governo in modo
autonomo33. L’inserimento nel patto di Londra della rivendicazione della Dalmazia settentrionale (Zara, Sebenico e i loro retroterra fino alle Alpi Dinariche) e della gran parte delle isole dalmate rispose a due
esigenze della politica estera dell’Italia: fu certamente motivata dall’esigenza di una tutela dei diritti nazionali della minoranza italiana,
ma l’elemento fondamentale fu la convinzione del governo di Roma
che per assicurare la sicurezza strategica e l’egemonia militare dell’Italia nel Mar Adriatico fosse indispensabile controllare parte della
costa e delle isole della Dalmazia. La prevalenza dell’impostazione
strategico-militare nel patto di Londra fu confermata dalla mancata rivendicazione di Fiume/Rijeka e delle isole di Arbe e Veglia e dalla rinuncia a chiedere il possesso di Spalato, dove era concentrato il secondo maggior nucleo italiano dopo Zara, di fronte alle resistenze russe nel corso del negoziato diplomatico34. Altro aspetto da sottolineare era il carattere volutamente massimalistico delle rivendicazioni dal32 Documenti diplomatici italiani (d’ora innanzi DDI), Roma, 1952 e ss., serie V, volumi 1, 2, 3; SIDNEY SONNINO, Carteggio 1914-1916, Roma-Bari, 1974; ID., Carteggio 19161922, Roma-Bari, 1975.
33 Sulla genesi del patto di Londra: MARIO TOSCANO, Il patto di Londra. Storia diplomatica dell’intervento italiano (1914-1915), Bologna, 1934; ID., La Serbia e l’intervento in
guerra dell’Italia, Milano, 1939; ID., Rivelazioni e nuovi documenti sul negoziato di Londra
per l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale, «Nuova Antologia», agosto 1965,
pp. 433-457, settembre 1965, pp. 15-37, ottobre 1965, pp. 150-157, novembre 1965, pp. 295312; ID., Il negoziato di Londra del 1915, «Nuova Antologia», novembre 1967, pp. 295-326;
ID., L’Intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale. Le carte Imperiali e la preparazione del negoziato, «Nuova Antologia», 1968, pp. 303-323, 461-473; ID., Imperiali e il negoziato per il patto di Londra, «Storia e Politica», f. 2, 1968, pp. 177-205; ID., Il libro verde del
1915, «Clio», n. 2, pp. 157-229; H. JAMES BURGWYN, The Legend of the Mutilated Victory.
Italy, the Great War and the Paris Conference 1915-1919, Westport, 1993, p. 16 e ss.; MICHAEL
BORO PETROVICH, The Italo-Yugoslav Boundary Question 1914-1915, in AUTORI VARI, Russian
Diplomacy and Eastern Europe 1914-1917, New York, 1963, p. 178 e ss.; W.W. GOTTLIEB,
Studies in Secret Diplomacy during the First World War, London, 1957, pp. 135-401; PIETRO
PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica
estera italiana 1914-1943, Milano, 1997, p. 15 e ss.; WILLIAM A. RENZI, In the Shadow of the
Sword: Italy’s Neutrality and Entrance into the Great War 1914-1915, New York, 1987; LEO
VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, 1985, p. 85 e ss.
34 Sul contrasto italo-russo sulla Dalmazia molto materiale documentario in: IB, II, 7,
tomi 1 e 2; LN, 3, p. 77 e ss.; L’Intervento dell’Italia nei documenti segreti dell’Intesa, Roma,
1923; DDI, V, 3; SIDNEY SONNINO, Diario 1914-1916, Bari, 1972, p. 118 e ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
11
matiche contenute nel patto di Londra. Obiettivo primario di Sonnino
e Salandra era stato assicurarsi il riconoscimento alleato di un ampio
programma di conquiste. Si era consapevoli che la futura pace avrebbe potuto prevedere condizioni politiche diverse e meno favorevoli:
ma, per il governo italiano, era importante garantirsi in sede di Conferenza della pace una posizione negoziale forte, sostenuta da accordi
internazionali che tutelassero al massimo l’Italia, proprio nell’eventualità di dovere aprire un negoziato fondato su rinunce, compensazioni o scambi territoriali35.
Sin dal 1914 la questione adriatica assunse anche il carattere di dibattito politico interno italiano, dominato da aspre polemiche di stampa. L’impostazione del governo di Roma di fronte alla questione dalmatica raccolse vasti consensi non solo fra i nazionalisti36 ma anche
nell’opinione pubblica liberale e democratica interventista italiana. A
favore dell’annessione di parte della Dalmazia si mobilitarono numerose associazioni, fra le quali vanno ricordate la Dante Alighieri, punto di coagulo delle varie anime del liberalismo italiano37, la Massoneria, al cui interno aveva grande influenza il liberale Ernesto Nathan,
da molti anni grande amico dei dalmati38, e la Pro Dalmazia Italiana,
fondata nel febbraio 1915 e presieduta dal radicale Colonna di Cesarò,
con la partecipazione di Tomaso Sillani, Enrico Corradini, Virginio
Gayda, Luigi Federzoni e Giovanni Amendola39. La posizione della
Dante Alighieri sulle future rivendicazioni italiane fu espressa chiaramente da una lettera del suo presidente, Boselli, a Sidney Sonnino
il 14 aprile 1916. In tale missiva Boselli mostrò di non ritenere pienamente soddisfacente l’assetto adriatico previsto dal patto di Londra:
infatti volle esprimere al ministro degli Esteri i voti di molti irredenti italiani affinché «quando sia giunta l’ora delle decisioni, venga evitato, ad essi il dolore e all’Italia il danno, di concessioni di città, quali ad esempio Fiume e Spalato, e d’isole come Veglia, che in mani stra35
MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit., p. 275 e ss.
A proposito delle posizioni politiche del nazionalismo prima e durante la guerra:
ADRIANO ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo (1908-1923), Roma, 2001; FRANCESCO
PERFETTI, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, Bologna, 1977; ID.,
Il movimento nazionalista in Italia (1903-1914), Roma, 1984; FRANCO GAETA, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, 1981.
37 PISA, Nazione e politica nella Società “Dante Alighieri”, cit.
38 LEVI, op. cit.; PISA, Ernesto Nathan, cit.
39 Al riguardo: ASMAE, ARC POL 1915-1918, b. 70, Ministero degli Interni a Ministero degli Esteri, 8 marzo 1915; ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., p. 318; GIORGIO
PITACCO, La passione adriatica nei ricordi di un irredento, Bologna, 1928, p. 51 e ss.
36
12
LUCIANO MONZALI
niere, prima o poi, diverrebbero fatalmente potente arme d’offesa contro di noi»40. Il patto di Londra appariva a molti liberali, come ad esempio i capi della Dante Alighieri e lo stesso Nathan, un compromesso
territoriale non pienamente soddisfacente e da migliorarsi se le vicende
della guerra avessero reso ciò possibile41.
In seno all’opinione pubblica italiana, tuttavia, si manifestarono
anche visioni alternative della questione adriatica e posizioni critiche
verso alcuni aspetti della politica del governo Salandra-Sonnino e rispetto alle tesi espansionistiche di molti esponenti liberali e nazionalisti. Politici ed intellettuali come Leonida Bissolati, Giuseppe
Prezzolini, Gaetano Salvemini, Pietro Silva e Luigi Albertini, condividevano gli obiettivi finali della politica estera del governo di Roma
ma ritenevano sbagliato il modo concepito per raggiungerli. L’egemonia italiana nell’Adriatico era ritenuta indispensabile anche dai
cosiddetti “interventisti democratici”; ma per conquistarla essi pensavano che non fosse necessario il controllo della Dalmazia continentale42. La netta maggioranza croata e serba fra gli abitanti della
Dalmazia sconsigliava l’annessione di vaste porzioni della terraferma dalmata. Ragioni di opportunità politica, poi, rendevano utile la
ricerca di un’intesa amichevole con i serbi e i croati. Gaetano Salvemini fu uno dei sostenitori più decisi e brillanti della necessità di non
annettere la Dalmazia continentale all’Italia43. La netta preponderanza nazionale croata e serba in tale regione rischiava di trasformarla
in una colonia slava dell’Italia. Lo scrittore pugliese riconosceva come giusta l’esigenza di un confine non etnico e vantaggioso strate-
40
DA, f. 1916, B 13, Boselli a Sonnino, 14 aprile 1916.
PISA, Ernesto Nathan e la “politica nazionale”, cit.
42 Per un’analisi del cosiddetto “interventismo democratico” rimandiamo a: VALIANI, La
dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit.; OTTAVIO BARIÉ, Luigi Albertini, Torino, 1972, p. 323
e ss.; LUCIANO MONZALI, Introduzione, in LUIGI ALBERTINI, I giorni di un liberale. Diari 19071923, Bologna, 1999, p. 155 e ss.; LUCA MICHELETTA, Pietro Silva storico delle relazioni internazionali, «Clio», 1994, n. 3, p. 497 e ss.; ANGELO TAMBORRA, L’idea di nazionalità e la
guerra 1914-1918, in Atti del XLI Congresso di storia del Risorgimento italiano, Trento, 913 ottobre 1963, Roma, 1965, estratto; ROBERTO VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo.
L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991, I, p. 179 e ss.
43 A proposito delle posizioni di Salvemini sulla questione adriatica: SALVEMINI,
MARANELLI, La questione dell’Adriatico, Firenze, 1918, riedito in SALVEMINI, Dalla guerra
mondiale alla dittatura (1916-1925), cit.; ELIO APIH, Gaetano Salvemini e il problema adriatico, in AUTORI VARI, L’imperialismo italiano e la Jugoslavia, Urbino, 1981, pp. 85-127. Molto
interessanti sono i carteggi di Salvemini: GAETANO SALVEMINI, Carteggio 1914-1920, Bari,
1984, in particolare Salvemini a Ojetti, 6 aprile 1916, d. 257; ivi, Salvemini a Silva, 4 ottobre 1916, d. 286; ivi, Salvemini a Silva, 21 agosto 1917, d. 326.
41
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
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gicamente per l’Italia in Venezia Giulia e nel Mare Adriatico: ma a tal
fine era sufficiente assicurarsi il controllo delle Alpi Giulie, di Pola e
di alcune isole dalmate. Le minoranze nazionali italiane sarebbero state tutelate attraverso garanzie internazionali e una forte autonomia per
Fiume e Zara in seno allo Stato iugoslavo. Secondo Giuseppe Prezzolini, autore di uno dei principali scritti dei critici della politica dalmatica di Sonnino, base di un accordo territoriale con gli iugoslavi doveva essere l’annessione all’Italia della Venezia Giulia, della città di
Zara e di qualche isola dalmata e la concessione del resto della
Dalmazia al futuro Stato iugoslavo44. La tutela della minoranza italiana
nella Dalmazia iugoslava poteva essere garantita attraverso specifici
accordi di tutela. Per Pietro Silva, allievo e seguace di Gaetano Salvemini, era interesse italiano favorire la creazione di una Iugoslavia unitaria in funzione anti-asburgica e anti-germanica. A tal fine bisognava riscoprire la lezione politica di Mazzini, fare dell’Italia la potenza
protettrice delle nazioni dell’Europa centrale e raggiungere un compromesso territoriale con gli iugoslavi: Silva riteneva che l’Italia dovesse accontentarsi della Venezia Giulia e di alcune isole dalmate e
chiedere la costituzione di Fiume e Zara come città libere, lasciando
il resto della Dalmazia al futuro Stato iugoslavo45. Il maggiore rappresentante politico dell’interventismo “democratico” fu il socialista
liberale e riformista Leonida Bissolati, ministro nei governi Boselli e
Orlando. Per il politico lombardo, l’Italia doveva intervenire nel conflitto mondiale per completare la propria unità nazionale e farsi protettrice dei diritti nazionali dei popoli balcanici:
Ma per condurre efficacemente la sua nuova politica balcanica occorre altresì che l’Italia appaia agli occhi dei popoli balcanici rivendicatrice sincera e
disinteressata del principio di nazionalità. Ora, questo non può essere, sicché
essa accampa la pretesa di occupare in ipotesi la costa dalmata continentale popolata in enorme maggioranza di slavi46.
L’annessione della Dalmazia, poi, avrebbe rischiato di creare un irredentismo slavo in seno ai territori italiani, indebolendo l’Italia come
44
GIUSEPPE PREZZOLINI, La Dalmazia, Firenze, 1915, p. 65.
PIETRO SILVA, I problemi fatali agli Asburgo. Il problema czecoslovacco. Il problema
jugoslavo, Milano, 1918, pp. 62-64.
46 LEONIDA BISSOLATI, L’Italia e gli Stati balcanici, «Il Secolo», 14 novembre 1914, edito in LEONIDA BISSOLATI, La politica estera dell’Italia dal 1897 al 1920, Milano, 1923,
pp. 332-335.
45
14
LUCIANO MONZALI
i vari irredentismi nazionali avevano indebolito l’Impero asburgico47.
Il governo italiano mostrò di non gradire le critiche alla sua politica adriatica che giunsero da alcuni settori della sinistra interventista
e cercò di difendere la legittimità del proprio programma territoriale
dalmatico sostenendo l’azione pubblicistica di molti esponenti del nazionalismo italiano e dell’irredentismo adriatico48. Giacomo De Martino, segretario generale della Consulta, riteneva importante che si svolgesse in Italia e all’estero un’intensa azione di propaganda a favore
delle rivendicazioni adriatiche e a tal fine sollecitò la collaborazione
di molti esuli italiani provenienti dall’Austria. Bisognava dimostrare
e difendere i diritti italiani sulla Dalmazia e nessuno meglio dei dalmati stessi poteva fare ciò. Molti esuli giuliani, fiumani e dalmati s’impegnarono in una febbrile attività pubblicistica e propagandistica a difesa dei diritti degli italiani adriatici e del programma di rivendicazioni
dell’Italia, sostenuti dal governo di Roma e dalla Dante Alighieri49. Fra
il 1915 e il 1918 Roberto Ghiglianovich fu considerato dal governo il
massimo rappresentante politico degli italiani dalmati50. Nell’autunno
1915 fu nominato tenente di complemento e usato dal Ministero della Marina come consulente sulla questione dalmatica, risiedendo per
la maggior parte del tempo a Roma51. S’impegnò in una difficile ed
intensa attività pubblicistica e politica al fine di sensibilizzare il governo e l’opinione pubblica sugli interessi degli italiani di Dalmazia.
La società Dante Alighieri, della quale era stato fiduciario per la regione dalmata dalla fine dell’Ottocento, lo incaricò di organizzare l’attività di propaganda a favore dell’annessione italiana della Dalmazia.
In questa azione di propaganda dalmatica Ghiglianovich fu affiancato e sostenuto da alcuni esuli dalmati e giuliani: Silvio Delich, giornalista zaratino de «L’Idea Nazionale», Giorgio de Nakich, Enrico
47 Ibidem. Sul pensiero politico di Bissolati circa la questione adriatica: IVANOE BONOMI,
Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Roma, 1945, p. 143 e ss.; RAFFAELE
COLAPIETRA, Leonida Bissolati, Milano, 1958.
48 Sul problema della propaganda italiana nel corso della prima guerra mondiale: LUCIANO
TOSI, La propaganda italiana all’estero nella prima guerra mondiale. Rivendicazioni territoriali e politica delle nazionalità, Udine, 1977.
49 Al riguardo: LUCIANO MONZALI, Tra irredentismo e fascismo. Attilio Tamaro storico e
politico, «Clio», 1997, n. 2, p. 284 e ss.; RENATO MONTELEONE, La politica dei fuoriusciti irredenti nella guerra mondiale, Udine, 1972; RICCARDI, Francesco Salata, cit.
50 Sui contatti fra Ghiglianovich e Ministero degli Esteri: ACS, Carte Sonnino/De Morsier,
b. 1, Ghiglianovich a De Morsier, 28 novembre 1915 e 1° febbraio 1916.
51 A proposito della collaborazione fra la Marina e Ghiglianovich: AM, archivio di base, c. 3138, Thaon di Revel a Orlando, marzo 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
15
Pezzoli, Roberto Ferruzzi, Antonio e Giovanni Difnico. Un ruolo importante nell’azione di propaganda dalmatica in Italia meridionale lo
svolse il prof. Angelo Bertolini, originario di Zara ma residente da molti anni a Bari. Fra questi propagandisti irredentisti, comunque, meritano di essere ricordati in particolare modo Alessandro Dudan, Antonio
Cippico e Attilio Tamaro. Alessandro Dudan52, originario di Spalato,
dopo essersi laureato all’Università di Vienna all’inizio del secolo, era
stato il corrispondente della «Tribuna» di Roma da Vienna per vari anni. Bilingue italo-croato e poliglotta, negli anni precedenti al 1914, pur
lontano dalla Dalmazia ed estraneo alle lotte nazionali in patria, Dudan
si era dedicato ad un’intensa attività pubblicistica rivolta al pubblico
italiano incentrata soprattutto sulla descrizione della vita politica
dell’Impero asburgico. Scoppiata la guerra, si era rifugiato in Italia e,
ben introdotto negli ambienti giornalistici romani di tendenza nazionalistica e affiliato alla Massoneria di Palazzo Giustiniani, era entrato in contatto con Giacomo De Martino e la Dante Alighieri che lo
coinvolsero in varie iniziative di propaganda in Italia e all’estero53.
Dotato di una vasta cultura storico-politica e artistica, Dudan divenne ben presto uno dei principali pubblicisti italiani su argomenti dalmatici54. Antonio Cippico55, invece, era nativo di Zara, appartenente
ad un’antica famiglia nobiliare originaria di Traù e imparentato per via
materna ai Salghetti Drioli, imprenditori e proprietari terrieri zaratini. Come consuetudine per i dalmati più abbienti, aveva compiuto i
suoi studi universitari a Vienna dove aveva vissuto per alcuni anni, per
52 Su Alessandro Dudan: CARLO CETTEO CIPRIANI, I libri di Alessandro Dudan nella
Fondazione Cini di Venezia (con una biografia di A. Dudan), Roma, 2004, pp. 7-22;
ILDEBRANDO TACCONI, Alessandro Dudan, in Istria e Dalmazia, cit., II, pp. 525-529; ALBERTINA
VITTORIA, Alessandro Dudan, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, 1992, XLI,
pp. 766-770; ANTONIO TACCONI, In memoria di Alessandro Dudan, «La Rivista Dalmatica»,
1958, n. 4, pp. 25-27; MANLIO CACE, Alessandro Dudan e la lotta per la università italiana
a Trieste, ivi, pp. 31-34.
53 Sull’attività politica di Dudan nel corso della guerra: ACS, Carte Sonnino/De Morsier,
b. 1, Dudan a De Morsier, 7 gennaio 1916.
54 Ricordiamo solo fra i suoi scritti: ALESSANDRO DUDAN, La Monarchia degli Asburgo.
Origini, grandezza e decadenza. Con documenti inediti, Roma, 1915, due volumi; ID.,
Dalmazia e Italia, Milano, 1915; ID., La Dalmazia è terra d’Italia, Roma, 1919; ID., La
Dalmazia nell’arte italiana. Venti secoli di civiltà, Trieste, 1999 (prima edizione 1922), due
volumi.
55 SERGIO CELLA, Antonio Cippico, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, 1981,
XXV, pp. 732-735; FRANCESCO SEMI, Antonio Cippico, in Istria e Dalmazia, cit., II, pp. 517518. Antonio Cippico era cugino di Ivo Cippico/?ipiko, famoso romanziere dalmata serbofilo: SLOBODAN PROSPEROV NOVAK, Povijest hrvatske knjiz#evnosti, Split, 2004, II, pp. 143-144.
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LUCIANO MONZALI
poi trasferirsi a Londra come insegnante di lingua e letteratura italiana in un’università locale. Letterato e poeta, per molti anni estraneo
ad ogni forma d’impegno politico, Cippico si lanciò nella lotta irredentista solo nel 1914. Presente in Italia al momento dello scoppio della guerra austro-serba, Cippico decise di farsi pubblico difensore della causa dei dalmati italiani: fra la fine del 1914 e l’inizio del 1915 il
sonniniano «Il Giornale d’Italia» pubblicò alcuni suoi articoli a favore della rivendicazione italiana della Dalmazia56, scritti su probabile
ispirazione dei vertici del governo e della Dante Alighieri57. Successivamente ritornò a Londra dove il governo italiano ritenne utile la sua
opera per contrastare l’azione di propaganda filoserba e iugoslava portata avanti da Robert Seton-Watson e Wickham Steed58; ma il carattere estremista delle posizioni di Cippico e la sua «violenta esagerata
austrofobia» fecero sorgere voci e sospetti che il letterato dalmata fosse un agente austriaco e facesse il doppio gioco, sospetti che però non
trovarono conferma certa59. Dudan e Cippico, pur privi di qualsiasi ruolo politico nel partito autonomo-italiano e lontani dalla Dalmazia per
molti anni, della quale spesso mostrarono di avere una visione astratta e datata, si costruirono un ruolo di aggressivi difensori della causa
dalmatica grazie alla loro azione propagandistica nel corso della guerra e alla loro vicinanza con gli ambienti politici e giornalistici romani, il che li rese in Italia assai più noti e influenti di tanti oscuri politici dalmati italiani sempre vissuti in patria. Molto attivo nella propaganda italiana pro Dalmazia fu anche il giornalista triestino Attilio
Tamaro. Esponente della corrente nazionalista del partito liberale-nazionale giuliano, Tamaro si era interessato alle vicende dalmatiche già
negli anni precedenti allo scoppio della guerra, pubblicando varie corrispondenze su «Il Piccolo» di Trieste60. Recatosi in Italia, si dedicò
ad un’intensa attività pubblicistica a difesa delle rivendicazioni italia56
MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit., pp. 282-283.
DA, f. 1914, B 17, Zaccagnini a Sanminiatelli, 3 ottobre 1914.
58 A proposito dell’attività di Cippico durante la guerra: ACS, Carte Sonnino/De Morsier,
b. 1, Ghiglianovich a De Martino, 28 dicembre 1915, con allegato un memoriale di Cippico
sull’attività del comitato iugoslavo di Londra.
59 DDI, V, 4, Imperiali a Sonnino, 1° luglio 1915, d. 323. Si vedano anche gli attacchi di
Robert Seton-Watson contro Cippico: Seton-Watson a Fisher, 9 ottobre 1916, in R. W. Seton
Watson and the Yugoslavs, cit., I, d. 182.
60 Sulla figura di Attilio Tamaro: GIULIO CERVANI, Momenti di storia e problemi di storiografia giuliana, Udine, 1993, pp. 107-144; MONZALI, Tra irredentismo e fascismo. Attilio
Tamaro storico e politico, cit., pp. 267-301; ANTONIO JUSTUS VERDUS, Il difensore della
Dalmazia, «La Porta Orientale», 1954, nn. 9-10, pp. 422-432.
57
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
17
ne sulla Dalmazia e la Venezia Giulia, sfruttando il suo talento di storico e polemista. Nel 1915, su incarico della Dante Alighieri e di
Giacomo De Martino, preparò un volume intitolato Italiani e Slavi
nell’Adriatico e si recò, poi, insieme a Dudan, a Parigi per propagandare le tesi italiane negli ambienti politici e giornalistici francesi61.
Nell’agosto 1916 Donato Sanminiatelli gli commissionò la preparazione di un grande studio storico-politico sull’italianità giuliana e dalmatica, la cosiddetta «Bibbia adriatica»62, che avrebbe dovuto legittimare sul piano storico le rivendicazioni dell’Italia nell’Adriatico orientale e che fu poi pubblicata fra il 1918 e il 191963.
Ghiglianovich, Cippico, Dudan e Tamaro agirono in stretta simbiosi
con le direttive del Ministero degli Affari Esteri. Ghiglianovich e la
maggior parte degli esuli dalmati, però, propugnarono un programma
territoriale che oltrepassava quanto previsto dal patto di Londra, in
quanto essi rivendicavano il dominio italiano su tutta la Dalmazia centro-settentrionale, inclusa Spalato. In realtà era lo stesso governo a stimolare campagne di propaganda adriatica in chiave massimalistica.
Numerosi esponenti del governo italiano ritenevano la propaganda
massimalistica utile al fine di dimostrare all’opinione pubblica internazionale la forza del sentimento espansionista adriatico in Italia; questa propaganda, poi, serviva per rafforzare la posizione negoziale del
governo di Roma in future trattative di pace64. In una lettera del 1916
Ghiglianovich scrisse a Scodnik, uno dei capi della Dante Alighieri,
che Attilio Tamaro aveva chiesto al ministro Scialoja su quali limiti
territoriali della Dalmazia dovesse insistere la propaganda italiana: la
risposta del capo di gabinetto di Scialoja, Galante, fu che, secondo il
ministro, «la propaganda andava fatta per tutto, senza limiti, compresa dunque Cattaro. Si comprende che se anche i trattati accennano ad
un limite, nelle sfere competenti nulla si vuol pregiudicato e si desidera la propaganda per tutto»65.
Pur scrittori con diverse ideologie politiche – Ghiglianovich era un
liberale nazionale, mentre Dudan e Cippico predicavano un naziona-
61 Al riguardo: DDI, V, 7, d. 672; ATTILIO TAMARO, Ricordi e Appunti di una missione infelice, «La Rivista Dalmatica», 1956, n. 1, pp. 19-31, n. 2, pp. 3-18.
62 DA, f. 1917, A 77, Attilio Tamaro a Società Dante Alighieri, 21 novembre 1917.
63 TAMARO, La Vénétie Julienne et la Dalmatie. Histoire de la Nation italienne sur ses
frontières orientales, cit.
64 MONZALI, Un contributo alla storia degli italiani di Dalmazia, cit., pp. 204-205.
65 DA, f. 1916, B 13, Ghiglianovich a Scodnik, s.d. (ma 1916).
18
LUCIANO MONZALI
lismo italiano estremista, semplicista e rigido, assai vicino alle posizioni del gruppo di Federzoni e simile per molti aspetti al nazionalismo pancroato dei pravas#i – i pubblicisti irredentisti dalmati espressero alcune posizioni e temi ricorrenti. Per Ghiglianovich, Cippico e
Dudan la Dalmazia doveva essere annessa all’Italia per ragioni nazionali e strategiche. La Dalmazia possedeva una tradizione latina e
italiana autoctona che era sopravvissuta per secoli. La prevalenza croata e serba era ritenuta artificiale in quanto conseguenza di ultradecennali politiche di snazionalizzazione attuate dai partiti nazionalisti
croati e serbi con l’indifferenza o il compiacimento dello Stato asburgico. Sul piano militare, secondo gli irredentisti dalmati, il controllo
della Dalmazia avrebbe garantito all’Italia la completa egemonia nel
Mar Adriatico, dandole una totale sicurezza strategica rispetto ad eventuali nemici ad Oriente. L’Italia liberale doveva riconquistare quei territori che erano appartenuti o gravitati intorno alla Repubblica di
Venezia, trasformando l’Adriatico in un lago italiano. Sull’ampiezza
delle future annessioni territoriali vi era una varietà di posizioni in seno all’irredentismo dalmata: convinto che tutta la Dalmazia asburgica fosse italiana, Dudan insisteva sulla necessità che l’Italia annettesse
tutta la costa dalmata da Arbe a Cattaro66. Nel corso della guerra
Ghiglianovich, invece, sostenne prevalentemente la tesi della futura
conquista italiana della Dalmazia solo fino alla Narenta, con la rinuncia a Ragusa e alle Bocche di Cattaro67. Durante la guerra gli irredentisti dalmati furono scettici sulla possibile futura esistenza di uno
Stato iugoslavo unitario e indipendente. Per Dudan e Ghiglianovich,
una nazione iugoslava non esisteva, poiché sloveni, croati e serbi avevano identità specifiche e ben differenziate: croati e sloveni erano cattolici e occidentalizzati, avevano a lungo subìto l’influenza tedesca e
asburgica e, in grande maggioranza, parteggiavano per la sopravvivenza dell’Impero asburgico; i serbi, invece, erano un popolo cristiano ortodosso, orientale e balcanico, ferocemente ostile agli Asburgo68.
Il progetto della creazione di uno Stato iugoslavo era considerato un’i-
66 Ad esempio: Dudan a De Morsier, 7 gennaio 1916, cit. Si veda anche l’intervento di
Dudan riprodotto in «L’Idea Nazionale», 25 novembre 1918, Il gruppo nazionalista romano
per l’italianità della Dalmazia.
67 BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Ghiglianovich a Albertini, 26 gennaio 1918.
68 BS, Carte Ghiglianovich, b. B, ROBERTO GHIGLIANOVICH, I “Jugoslavi” e la “Jugoslavia”, 16 giugno 1917; MONZALI, Un contributo alla storia degli italiani di Dalmazia, cit.,
p. 206.
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19
niziativa strumentale e propagandistica di alcuni politici serbi e croati, i quali, in fondo, perseguivano obiettivi contrastanti: i croati desideravano la creazione di uno Stato croato all’interno dell’Impero
asburgico o parte di una confederazione iugoslava da loro dominata;
i serbi, invece, volevano la grande Serbia69. Proprio nell’analisi del
mondo dalmata slavo si evidenziavano differenze di toni e di analisi
fra la corrente liberale-nazionale dell’irredentismo dalmata, rappresentata da Ghiglianovich, e il nazionalismo estremista, espresso da
Dudan e Cippico. Nei testi di Ghiglianovich non vi erano i toni slavofobi diffusi nella pubblicistica d’ispirazione nazionalista di Dudan
e che saranno in seguito spesso ripresi dalla propaganda “dalmatica”
dell’Italia fascista: nei suoi scritti, ad esempio, era assente il tema tipicamente nazionalista della presunta “invasione” slava che avrebbe
snaturato la civiltà italiana della Dalmazia nel corso dei secoli. Per il
politico zaratino, la presenza slava in Dalmazia era un dato di fatto,
né negativo né positivo, una caratteristica di base della società dalmata.
Era contro l’Austria che Ghiglianovich dirigeva i suoi strali, accusandola di avere provocato e strumentalizzato la questione nazionale
in Dalmazia, per indebolire l’influenza italiana in quella regione dopo il 1866 suscitando rivalità tra le diverse componenti nazionali dalmate, gli italiani contro i croati, questi ultimi contro i serbi. Non era
quindi casuale che il politico zaratino fosse estraneo ai progetti di snazionalizzazione delle popolazioni slave annesse all’Italia, concepiti da
scrittori nazionalisti come Attilio Tamaro70. Il deputato di Zara credeva, forse un po’ illusoriamente, che la sovranità italiana sulla
Dalmazia avrebbe potuto creare una pacifica coesistenza tra le componenti nazionali dalmate, sulla base di ogni più ampia libertà per italiani, croati e serbi nell’esercizio dei propri diritti culturali e nazionali; un giusto e liberale trattamento delle popolazioni dalmate slave
era, a suo avviso, il modo migliore per evitare il sorgere di irredentismi iugoslavi nella futura Dalmazia italiana71.
In quanto rappresentante della componente liberale-autonomista,
la cultura predominante in seno agli italiani di Dalmazia in quegli anni, vale la pena di approfondire l’analisi di alcune tesi enunciate da
69
MONZALI, Un contributo alla storia degli italiani di Dalmazia, cit., p. 206.
MONZALI, Tra irredentismo e fascismo, cit.; ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., p. 302.
71 Al riguardo: BS, Carte Ghiglianovich, busta B, ROBERTO GHIGLIANOVICH, Memoriale,
s.d. (ma 1918).
70
20
LUCIANO MONZALI
Roberto Ghiglianovich nel corso della prima guerra mondiale72. Il deputato zaratino si rese conto rapidamente che, data la tradizionale simpatia dell’opinione pubblica italiana verso il principio di nazionalità,
non era possibile, da parte sua e dei dalmati italiani, eludere la presentazione di una propria analisi della questione nazionale in Dalmazia. I dalmati italiani dovevano legittimare, sulla base del principio
di nazionalità, le proprie rivendicazioni politiche, per guadagnare consenso nell’opinione pubblica italiana ed internazionale. Tale compito
sarebbe stato certamente facile se, fin dall’intervento dell’Italia in
guerra, l’irredentismo dalmata italiano avesse chiesto, seguendo l’esempio degli italiani fiumani, la futura annessione alla madrepatria della sola Zara, unica città dalmata abitata da una netta maggioranza italiana. La richiesta del possesso italiano di tutta la Dalmazia centrosettentrionale, sostenuta dalla gran parte dei dalmati italiani irredentisti, contrastava con quel principio di nazionalità tanto caro alla maggioranza dell’opinione pubblica italiana, poiché, come ammetteva lo
stesso Ghiglianovich, la popolazione dalmata era in prevalenza slava.
Vi erano varie ragioni che spiegavano la richiesta, difesa con determinazione da Ghiglianovich, dell’annessione all’Italia di gran parte
della Dalmazia, con la rinuncia a considerare soluzioni più limitate,
quali, ad esempio, l’annessione italiana della sola città di Zara e del
suo contado. Innanzitutto il fatto che il governo avesse concluso il patto di Londra, il quale prometteva all’Italia un assetto territoriale che
le garantiva una parte importante della Dalmazia, non consigliava atteggiamenti rinunciatari e autolesionisti da parte degli stessi irredentisti dalmati; essi, comunque, peccarono di ingenuità, male interpretando le motivazioni che spiegavano la rivendicazione della Dalmazia
da parte dell’Italia e ponendo un’eccessiva fiducia nella determinazione del governo di Roma di perseguire a tutti i costi il programma
territoriale previsto dal patto di Londra. La presenza di forti comunità
italiane in tutte le principali località della Dalmazia, seppure minoritarie rispetto all’elemento croato e serbo, e le caratteristiche della vita economica di Zara – capoluogo di un ampio capitanato distrettuale e capitale amministrativa di tutta la Dalmazia, nonché città abitata
da italiani che avevano spesso cospicui interessi economici e numerose proprietà nel retroterra e nelle isole circostanti – rendevano im-
72 Riprendiamo e sviluppiamo qui le considerazioni svolte in MONZALI, La Dalmazia e
la questione jugoslava negli scritti di Roberto Ghiglianovich, cit., p. 429 e ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
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proponibili o assai difficili posizioni minimaliste sul piano territoriale. Altro elemento importante che spiegava la riluttanza di Ghiglianovich e di molti liberali autonomisti italiani a rinunciare al disegno
dell’unione di tutta la Dalmazia ex veneziana all’Italia era l’influenza ideologica della tradizione autonomista e regionalista dalmata. Dalla
lettura dei suoi scritti politici, possiamo constatare che Ghiglianovich
credeva nell’esistenza di una specifica identità dalmata, ancora viva
in Dalmazia accanto alle nuove ideologie nazionali croata, serba e italiana. Per il politico zaratino, la società dalmata possedeva uno stile
di vita, una cultura, un’organizzazione sociale specificamente latine
e mediterranee che la distinguevano profondamente dal resto dei
Balcani e del mondo slavo del sud. I dalmati slavi erano completamente diversi dai croati e dai serbi dell’interno.
Le immigrazioni slave hanno trovato in Dalmazia un ambiente autoctono latino. Generazioni su generazioni di slavi si latinizzarono ed italianizzarono facilmente ed anche quelle che rimasero più o meno refrattarie a questa evoluzione non poterono rimanere estranee all’ingranaggio della vita dalmatica, che conferì loro una particolare marca diversa da qualsiasi altra nazione slava, anche dalla più affine, la croata e la serba73.
La forte presenza slava, secondo Ghiglianovich, non significava che
la popolazione dalmata fosse serba o croata, poiché in Dalmazia la vita, le abitudini, la mentalità avevano un’impronta adriatica e latina. A
parere del politico zaratino, «anche l’elemento slavo della Dalmazia,
ben dissimile nella sua psicologia e dai croati e dai serbi, è cresciuto,
si è sviluppato alla luce della civiltà latina ed italiana»74. Ghiglianovich
concepiva la realtà storica e culturale della Dalmazia come un’entità
unitaria, estranea al mondo balcanico, la quale trovava la propria peculiarità nell’incontro e fusione tra italiani e slavi. La società dalmata era un paese mediterraneo, da millenni caratterizzato da una cultura latina e poi italiana, una società più progredita, a suo parere, rispetto
a quelle di Serbia, Albania, e Croazia-Slavonia. Ghiglianovich era convinto che i dalmati, italiani e slavi, fossero più affini alla cultura italiana che a quella croata e serba, e che quindi fosse legittima la richiesta dell’unione della Dalmazia ex-veneziana all’Italia. L’idea di
una specificità culturale e nazionale dalmata, tema classico del vec73 ACS,
74
Carte Sonnino/De Morsier, busta 1, Ghiglianovich a Salvemini, 28 luglio 1917.
GHIGLIANOVICH, I “Jugoslavi” e la “Jugoslavia”, cit.
22
LUCIANO MONZALI
chio autonomismo75, aveva effetti paradossali nel discorso politico di
Ghiglianovich: se, da una parte, l’idea di una identità regionale unitaria dalmata evitava la radicalizzazione in senso slavofobo delle sue
posizioni politiche, dall’altra, rendeva un po’ irrealistica la sua analisi della società dalmata e lo spingeva a sposare tesi, quali l’italianità
culturale dei dalmati croati, difficilmente comprensibili in Italia e all’estero. Inoltre, nelle sue analisi dei dalmati slavi Ghiglianovich sottovalutava la forza del sentimento nazionale pancroato e panserbo esistente tra le popolazioni dalmate, in particolare fra i ceti contadini: forza che era sempre più aumentata negli ultimi decenni e che nasceva
da una visione del futuro della Dalmazia opposta a quella dei dalmati italiani, poiché tutta incentrata non sul rapporto con l’Italia e
l’Europa occidentale, ma sulla speranza di uno sviluppo economico e
sociale della regione attraverso una più stretta relazione con il retroterra balcanico e danubiano. Ma quanti erano gli italiani e gli slavi in
Dalmazia? Secondo Ghiglianovich, vi erano in Dalmazia approssimativamente 100.000 italiani, 100.000 slavi di religione ortodossa e
400.000 slavi di religione cattolica. Dal punto di vista della composizione sociale, l’elemento italiano in Dalmazia, soprattutto concentrato nei centri urbani e nelle isole, comprendeva, a parere di Ghiglianovich, una parte importante dell’elemento operaio, nonché molti proprietari terrieri, industriali, commercianti, artigiani e impiegati76.
La cifra di centomila italiani dalmati era giustificata sulla base della
constatazione che andavano ritenuti italiani anche quei dalmati «di origine, di lingua e di costume italiani», che per ragioni di opportunità
economica e di carriera, militavano nei partiti croati, votavano per candidati croati alle elezioni e dichiaravano, compilando i propri dati anagrafici, che il croato era la loro lingua d’uso. A parere di
Ghiglianovich, il carattere clientelare del sistema politico-amministrativo esistente in Dalmazia, spingeva chiunque volesse essere assunto dalle amministrazioni pubbliche e farvi carriera a dichiararsi
croato, anche se italiano di lingua e cultura, e a schierarsi a favore dei
partiti croati, dominanti a livello locale77. Insomma, molti dalmati italiani, assai spesso bilingui, erano spinti da ragioni di convenienza eco-
75 Sull’ideologia politica autonomista dalmata: MONZALI, Italiani di Dalmazia, cit.;
VRANDEC#IC!, op. cit.
76 ROBERTO GHIGLIANOVICH, Gli Italiani della Dalmazia, 25 agosto 1917, ACS, Carte
Sonnino/De Morsier, busta 1.
77 Ghiglianovich a Salvemini, 28 luglio 1917, cit.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
23
nomica e sociale all’assimilazione nella maggioranza croata. Nonostante la convivenza quotidiana tra italiani e slavi in Dalmazia fosse giudicata dallo stesso Ghiglianovich abbastanza pacifica e priva delle durezze e delle violenze conosciute in tante parti dei Balcani, egli
riteneva che la politica di assimilazione forzata imposta dai partiti croati fosse talmente intensa da provocare sul lungo periodo la scomparsa dell’elemento italiano. Il politico dalmata si dichiarò molto spaventato dalla prospettiva dell’annessione della Dalmazia alla Serbia o
ad uno Stato iugoslavo indipendente che unisse Serbia, Croazia e
Montenegro. L’arrivo della Serbia in Dalmazia avrebbe comportato, a
suo avviso, una balcanizzazione della regione, poiché i serbi «sono violenti, intransigenti, [...] brutali, sopraffattori delle nazionalità diverse
che abitano il paese, intolleranti di tutte le religioni che non siano la
loro, poiché la religione greco-orientale (l’ortodossa) è per essi la base della loro nazione, si identifica colla nazionalità»78. Il dominio iugoslavo sulla Dalmazia, secondo Ghiglianovich, avrebbe significato
l’eliminazione dell’elemento italiano dalmata. Seguendo il modello di
governo sperimentato in Macedonia e in Kosovo dopo la guerre balcaniche, i nuovi governanti serbi non avrebbero rispettato alcun accordo per la protezione delle minoranze. Il metodo di amministrazione dei serbi nei territori dove viveva un popolo differente consisteva
nell’annientamento della razza diversa:
È la eliminazione degli italiani e dell’elemento slavo e non serbo della
Dalmazia che si proporrebbero, sovrapponendo agli stessi il loro materiale
umano non evoluto, balcanico, orientale, psicologicamente violento, importando, imponendo metodi, abitudini, credenze assolutamente estranee alla regione79.
Sulla base delle vicende storiche successive, il pessimismo delle
previsioni del Ghiglianovich circa il futuro degli italiani di Dalmazia
in uno Stato iugoslavo si dimostrò piuttosto fondato. Più debole, invece, e non poco viziata da una concezione liberale-oligarchica, fu l’analisi della popolazione dalmata slava che Ghiglianovich presentò al
governo e all’opinione pubblica italiana. I cinquecentomila slavi dalmati erano, a parere del politico zaratino, suddivisi in due grandi classi sociali: da una parte, la borghesia – va sottolineato che per borghe78
79
Ibidem.
Ibidem.
24
LUCIANO MONZALI
se Ghiglianovich intendeva l’abitante del centro urbano, il non contadino –, stimabile intorno alle centomila unità, al 90% croata e cattolica, in gran parte fedelissima agli Asburgo; dall’altra, la numerosa
classe rurale, in possesso di scarsa coscienza nazionale, poiché i contadini slavi «sanno di non essere italiani», ma si sentono «niente altro
che dei contadini dalmati», fedeli all’autorità costituita e al clero. Per
Ghiglianovich, la classe contadina era un elemento passivo nella lotta politica dalmata, dominata dallo scontro tra gruppi cittadini e borghesi di diverso orientamento (filo-iugoslavo, pancroato, panserbo e
italiano). Il politico italiano accettava e legittimava questa esclusione,
sulla base di una concezione della società di matrice liberale e oligarchica, secondo la quale era diritto-dovere esclusivo dell’elemento
aristocratico-borghese, composto dai possidenti, dai contribuenti, dagli uomini di cultura, partecipare alla vita politica e dirigere la comunità. Figlio del sistema politico della Dalmazia asburgica, dove la vita politica era riservata a minoranze, guidate da notabili locali d’orientamento croato, serbo o italiano, si comprende perché il politico
zaratino sperasse che l’elemento italiano potesse riconquistare un ruolo dominante nella società dalmata: distrutta la presenza austriaca, con
l’annessione all’Italia e il sostegno del governo di Roma il partito italiano avrebbe potuto nuovamente affermare la propria egemonia nelle società cittadine della Dalmazia e ridimensionare l’influenza delle
élites croate e iugoslave. Ghiglianovich – come, d’altronde, i suoi avversari iugoslavi Trumbic!, Tartaglia, Smodlaka, anche essi notabili cittadini espressione delle strutture elitarie della vita politica dalmata prima della guerra mondiale80 – sottovalutava il futuro ruolo politico attivo che, a causa degli sconvolgimenti sociali ed economici provocati dalla guerra e dalla modernizzazione della regione, le popolazioni
rurali avrebbero svolto in Dalmazia81.
80 Al riguardo le riflessioni di SCHÖDL, Kroatische Nationalpolitik und “Jugoslavenstvo”,
cit.
81 Sull’importanza della mobilitazione politica della popolazione contadina in Croazia e
in Dalmazia nel corso della guerra e del dopoguerra: MARK BIONDICH, Stjepan Radic!, the Croat
Paesant Party, and the Politics of Mass Mobilization, 1904-1928, Toronto, 2000, p. 120 e ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
25
1.2. La Dalmazia e la questione iugoslava nella politica europea
durante la prima guerra mondiale
Appena l’Italia entrò in guerra nel 1915, la questione dalmatica divenne ben presto oggetto di un’aspra contesa propagandistica e diplomatica fra, da una parte, l’Italia, dall’altra, il governo di Belgrado,
il comitato iugoslavo in esilio e i simpatizzanti francesi e britannici
per la causa iugoslava82. Come l’Italia, pure la Serbia coltivava mire
espansionistiche sulla Dalmazia asburgica, nella quale era presente una
forte minoranza serba, concentrata nel retroterra di Zara e Sebenico e
nelle Bocche di Cattaro. Fin dal settembre 1914 il governo serbo aveva comunicato alle potenze dell’Intesa i propri scopi di guerra, che prevedevano, in caso di vittoria, l’annessione della Bosnia-Erzegovina,
della Dalmazia, del Banato, della Bac#ka e di parte della Venezia Giulia83. Nikola Pas#ic!84, capo del governo serbo, considerava particolarmente importante la futura conquista della Dalmazia e, temendo possibili rivendicazioni italiane su quella regione, diede istruzioni al suo
rappresentante a San Pietroburgo, Spalajkovic!, di chiedere alla Russia
di opporsi ad eventuali mire dell’Italia:
Attirate l’attenzione del governo imperiale – scriveva il capo del governo serbo nel settembre 1914 – sul fatto che dall’Italia giungono notizie secondo le quali questa si dispone ad invadere la Dalmazia e ad annettersela
[…]. Se questa questione viene discussa, voi potete dichiarare al governo presso il quale siete accreditato che la Serbia si opporrà ad una avanzata dell’Italia,
ch’essa combatterà l’Italia e che di fronte ad una tale procedura dell’Italia,
essa si dichiarerà per l’Austria piuttosto che consentire a sottomettersi alla
potenza italiana. La Dalmazia desidera essere ricongiunta alla Serbia, tale è
il suo ideale, tale è la soluzione che esigono i suoi interessi nazionali e tale
è infine il voto costante di tutto il popolo serbo-croato85.
Il destino politico della Dalmazia era anche al centro delle preoc82
La migliore ricostruzione delle vicende relative alla questione adriatica nelle lotte diplomatiche europee durante la prima guerra mondiale è quella compiuta da DRAGOVAN ?EPIC!,
Sudbinske Dileme Rad¤anja Jugoslavije. Italija, Saveznici i jugoslavensko pitanje 1914-1918,
Pola-Fiume, 1989, tre volumi (la prima edizione fu pubblicata nel 1970).
83 VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., pp. 135-136; TOSCANO, La Serbia,
cit., p. 7 e ss.
84 Sulla figura di Nikola Pas#ic!: ALEX N. DRAGNICH, Serbia, Nikola Pasic and Yugoslavia,
New Brunswick, 1974; OSCAR RANDI, Nicola P. Pasic, Roma, 1927.
85 Pas#ic! a Spalajkovic!, 28 settembre 1914, edito in TOSCANO, La Serbia, cit., p. 7.
26
LUCIANO MONZALI
cupazioni del gruppo di esuli croati, dalmati, serbi e sloveni che, fuggiti dall’Austria-Ungheria allo scoppio della guerra europea, sotto la
guida di Ante Trumbic! e Frano Supilo diedero vita al Comitato iugoslavo in esilio nel novembre 1914, con sede prima a Parigi poi a
Londra86. Fin dall’autunno 1914 Supilo fu particolarmente attivo nel
manifestare alle diplomazie dell’Intesa i desideri dei dalmati croati di
costituire uno Stato iugoslavo indipendente e di impedire la conquista italiana della Dalmazia. Per Supilo i confini fra l’Italia e il futuro
Stato iugoslavo indipendente avrebbero dovuto essere tracciati sulla
base del principio di nazionalità: la futura Iugoslavia, quindi, avrebbe dovuto comprendere tutti i territori in cui fossero presenti popolazioni serbe, croate e slovene, il che avrebbe significato l’annessione
della Dalmazia e di tutta la Venezia Giulia al nascente Stato iugoslavo, mentre Trieste doveva divenire città libera87. Nel corso del mese
di aprile 1915 gli esuli dalmati iugoslavi furono informati confidenzialmente da alcuni amici e simpatizzanti britannici (Wickham Steed,
Robert Seton-Watson) dei negoziati in corso fra l’Intesa e l’Italia e della natura delle rivendicazioni italiane nell’Adriatico orientale. La loro reazione fu furiosa:
Tutto ciò – scrisse Trumbic! all’amico e protettore Seton-Watson il 7 aprile 1915 – ha destato in tutti noi un profondo senso di dolore, di indignazione e di irritazione. La soluzione, che vagheggia l’Italia, sarebbe la più infelice e la più iniqua dell’importantissimo problema adriatico. I postulati
dell’Italia sono un attentato contro l’esistenza di tutto il nostro popolo, il quale dovrebbe divenire oggetto di un mercanteggio internazionale. L’Italia, formatasi non colle proprie armi ma in grazia al principio di nazionalità, vuole
toglierci anche la Dalmazia, cuore della nostra razza […]88.
Nel maggio 1915, per reagire politicamente al patto di Londra, il
86 Riguardo al pensiero di Supilo sulla questione adriatica è utile la raccolta di scritti:
SUPILO, Politic#ki Spisi. Šlanci, govori, pisma, memorandumi, cit. Si leggano anche: DRAGOVAN
?EPIC!, Supilo diplomat, Zagreb, 1961; ID., Sudbinske Dileme, cit., I, p. 74 e ss.; ID., Supilo i
Talijani, «Dubrovnik», 1970, pp. 76-88; IVO PETRINOVIC!, Ante Trumbic!, Split, 1991, p. 85 e
ss.; ID., Politicka misao Frana Supila, cit., p. 151 e ss.; GALE STOKES, The Role of the Yugoslav
Committee in the Formation of Yugoslavia, in DIMITRIJE DJORDJEVIC (a cura di), The Creation
of Yugoslavia 1914-1918, Santa Barbara-Oxford, 1980, pp. 51-72; SALVI, Il movimento nazionale, cit., 197 e ss.
87 TOSCANO, La Serbia, cit., p. 10 e ss.; VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria,
cit., p. 146 e ss.
88 Trumbic! a Seton-Watson, 7 aprile 1915, in R. W. Seton-Watson and the Yugoslavs, cit.,
I, d. 127.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
27
Comitato iugoslavo di Londra delineò con precisione il suo programma di rivendicazioni territoriali preparando un memoriale che consegnò ai governi britannico, russo e francese.
I popoli jugoslavi – proclamava il Comitato – che la storia conosce sotto
il nome di serbi, croati e sloveni, sono una sola e stessa nazione che riunisce
tutte le condizioni per divenire uno Stato nazionale indipendente. Essa ha tutti i diritti storici ed etnici sul territorio ov’essa vive in masse compatte. Il territorio nazionale dei serbi, croati e sloveni comprende:
a) la Serbia ed il Montenegro;
b) la Bosnia Erzegovina;
c) la Dalmazia col suo arcipelago;
d) la Croazia e la Slovenia con Rijeka (Fiume) e la Medjumaria;
e) la contrada della Drava dell’Ungheria meridionale e l’antica Voivodina
serba (Backa e Banato);
f) l’Istria colle sue isole e Trieste;
g) la Carniola e Gorizia;
h) la Carinzia meridionale, la Stiria meridionale colla regione limitrofa
del sud-ovest ungherese89.
Per il Comitato iugoslavo era cruciale che la Dalmazia appartenesse
al futuro Stato iugoslavo:
La Serbia ed il Montenegro attuali colla Bosnia Erzegovina non possono
svilupparsi normalmente senza il possesso della Dalmazia e la costa dalmata resterà inutile per il commercio e la navigazione senza la stretta unione col
suo retroterra. La sicurezza dalmata sarebbe compromessa senza il possesso
dell’arcipelago. L’Austria-Ungheria ha occupata ed annessa la BosniaErzegovina fra l’altro perch’essa possedeva la Dalmazia. La Dalmazia ed il
suo arcipelago non possono appartenere che al padrone della BosniaErzegovina. D’altronde la Dalmazia costituiva nel Medio Evo una parte integrante degli Stati jugoslavi, sia serbi, sia croati, che si erano formati nel corso della storia. Quando essa fu incorporata all’Austria, ebbe essa stessa la medesima tendenza ad unirsi agli altri Paesi jugoslavi90.
In caso l’Italia avesse cercato di conquistare la costa dalmata, ciò
avrebbe creato un’irriducibile inimicizia fra italiani e iugoslavi.
89 Il testo del memoriale è riprodotto in traduzione italiana in TOSCANO, La Serbia, cit.,
pp. 59-69.
90 Ibidem.
28
LUCIANO MONZALI
Se l’Italia domanda la costa settentrionale ed orientale dell’Adriatico vale a dire dalla frontiera attuale fino a Fiume, oltre alla Dalmazia settentrionale e centrale e le isole del Quarnero, è necessario allora ch’essa sappia che
mai la nostra nazione consentirà a che degli organi vitali siano strappati dal
suo organismo 91.
Considerato il carattere massimalistico dei programmi politici della Serbia e del Comitato iugoslavo di Londra92, poco propensi ad idee
di compromesso territoriale, lo scontro diplomatico e propagandistico con l’Italia fu inevitabile. Non a caso, l’intervento italiano in guerra e il diffondersi di voci sul contenuto del patto di Londra provocarono ben presto un forte deterioramento dei rapporti dell’Italia con la
Serbia e gli ambienti politici iugoslavi in esilio. Nell’agosto 1915
Ljuba Jovanovic!, ministro dell’Interno della Serbia, dichiarò apertamente al rappresentante italiano presso il governo serbo, Squitti:
[…] L’Italia d’ora innanzi non potrà più essere considerata come amica
della Serbia, perché ha preso di fronte a questa il posto dell’Austria. I nostri
interessi, ha soggiunto, sono divergenti e perciò né cooperazione militare né
alcun altro atto di solidarietà è più possibile fra noi93.
Squitti constatò a questo riguardo che i serbi rimproveravano
all’Italia «di volerli sacrificare in Dalmazia, di negare loro l’unione
nazionale con la Croazia e la Slavonia, nonché escluderli dall’Albania»94.
In realtà Sonnino non era ostile all’espansione territoriale della
Serbia. Nel corso dei negoziati che si svolsero in seno all’Intesa nell’estate 1915 sul futuro politico dei Balcani, il ministro degli Esteri
italiano si dimostrò pronto a riconoscere il diritto della Serbia a conquistare la Bosnia-Erzegovina e la Dalmazia centro-meridionale in caso di concessioni territoriali serbe in Macedonia a favore della
Bulgaria95. Ma ciò che irritava i serbi e gli iugoslavi era il rifiuto di
91
Ibidem.
92 VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., p. 175 e ss.; TOSCANO, La Serbia,
cit., p. 59 e ss.
93 DDI, V, 4, Squitti a Sonnino, 18 agosto 1915, d. 617.
94 DDI, V, 4, Squitti a Sonnino, 26 agosto 1915, d. 667.
95 DDI, V, 4, Sonnino a Imperiali, Tittoni e Carlotti, 8 agosto 1915, d. 551. Sull’atteggiamento di Sonnino verso la questione iugoslava durante la prima guerra mondiale sono fondamentali il suo diario e i suoi carteggi: SIDNEY SONNINO, Diario 1914-1916, cit.; ID., Diario
1916-1922, Bari, 1972; ID., Carteggio 1914-1916, cit.; ID., Carteggio 1916-1922, cit. Si ve-
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
29
Sonnino di prendere impegni formali sulla futura unione della Croazia
alla Serbia, evento a cui il capo della diplomazia italiana era ostile al
fine di non togliere ogni futuro sbocco al mare all’Ungheria96. Più in
generale Sonnino era contrario al progetto della creazione di un grande Stato iugoslavo, ritenuto una potenziale minaccia militare per l’Italia. Piuttosto auspicava l’esistenza di più Stati iugoslavi: una Serbia
ingrandita, il Montenegro, la Croazia, indipendente o federata all’Ungheria; in più bisognava garantire l’esistenza di uno Stato albanese,
sotto la protezione dell’Italia97.
Di fatto a partire dall’estate del 1915 esplose una forte conflittualità politica fra Italia e Serbia. Il governo serbo, sfruttando la condotta ambigua e poco onorevole del Montenegro di fronte all’esercito
asburgico, scatenò una campagna politica a favore dell’unione serbomontenegrina, che trovò forti consensi pure in parte della classe dirigente montenegrina98. La diplomazia italiana cercò di contrastare questa campagna panserba, sostenuta dai governi russo e francese99; il governo di Roma, però, era pessimista sul futuro del Montenegro indipendente ed era pronto a considerare la possibilità di chiedere il controllo delle Bocche di Cattaro in caso di unione serbo-montenegrina100.
Pure per un critico della politica di Sonnino come Tommaso Tittoni,
ambasciatore a Parigi, il controllo di Cattaro e del monte Lovcen era
cruciale per la sicurezza dell’Italia: a parere di Tittoni, «con Valona,
Cattaro, Pola e le Isole, potremmo veramente dirci padroni dell’Adriatico e non preoccuparci di un maggiore o minore aumento territoriale della Serbia»101.
Altro tema di scontro italo-serbo era naturalmente la questione alda anche: TOSCANO, La Serbia, cit.; LUCA RICCARDI, Alleati non amici. Le relazioni politiche
tra l’Italia e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, Brescia, 1992; VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., I, p. 175 e ss.; ?EPIC!, Sudbinske Dileme, cit.; LUIGI ALBERTINI,
Venti anni di vita politica, Bologna, 1952-53, II, vol. 2 e 3; JAMES H. BURGWYN, Sonnino e
la diplomazia italiana del tempo di guerra nei Balcani nel 1915, «Storia contemporanea»,
1985, n. 1, pp. 133-137; TAMBORRA, L’idea di nazionalità e la guerra 1914-1918, cit.
96 DDI, V, 4, Sonnino a Imperiali, Tittoni e Carlotti, 1° agosto 1915, d. 510; DDF, 1915,
2, Barrère a Delcassé, 8 luglio 1915, d. 225.
97 Una chiara enunciazione delle idee di Sonnino sull’assetto adriatico in DDI, V, 7,
Sonnino a Macchi di Cellere, 16 aprile 1917, d. 739 (edito anche in SONNINO, Carteggio 19161922, cit., d. 129).
98 DDI, V, 7, Romano Avezzana a Sonnino, 14 gennaio 1917, d. 86. Sui rapporti serbomontenegrini in quegli anni: ?EPIC!, Sudbinske Dileme, cit., II, p. 74 e ss.
99 DDI, V, 7, Romano Avezzana a Sonnino, 18 gennaio 1917, d. 122.
100 DDI, V, 6, Carlotti a Sonnino, 12 settembre 1916, d. 420, e nota 1 a p. 276.
101 DDI, V, 6, Tittoni a Sonnino, 19 agosto 1916, d. 294.
30
LUCIANO MONZALI
banese. Il capo del governo serbo, Pas#ic!, riteneva cruciale la conquista dell’Albania settentrionale, a suo avviso, legittimata dall’incapacità degli albanesi ad autogovernarsi.
Bisogna riconoscere – dichiarò Pas#ic! al ministro italiano presso il governo serbo a Corfù, Sforza – che l’Albania quale si creò a Londra non è vitale; gli albanesi non son mai stati una nazione vivente a sé. Han bisogno di regimi autonomi, o di regimi speciali per loro, ma sotto la guida di altri Stati102.
I serbi erano ostili ad eventuali mire italiane su parti dell’Albania103.
Nel 1917 la decisione dell’Italia di sostenere a fini propagandistici la
creazione di uno Stato albanese indipendente sotto la protezione italiana, con l’obiettivo di creare una resistenza a livello locale contro le
mire espansionistiche asburgiche, elleniche e serbe104, irritò profondamente il governo serbo105.
Le rivendicazioni territoriali del governo serbo e dei nazionalisti
del Comitato iugoslavo trovarono la simpatia e il consenso di alcuni
intellettuali britannici e francesi, che s’impegnarono in un’intensa propaganda a loro favore106. Per nazionalisti liberal-progressisti come
Robert Seton-Watson107 e Henry Wickham Steed108 la creazione di uno
Stato iugoslavo unitario corrispondeva all’esigenza morale di diffondere il principio di nazionalità in Europa e all’interesse della Gran
Bretagna di evitare che la guerra avantaggiasse eccessivamente gli in102
DDI, V, 7, Sforza a Sonnino, 30 gennaio 1917, d. 185.
DDF, 1915, 2, Boppe a Delcassé, 16 giugno 1915, d. 120.
104 Al riguardo: LUCA RICCARDI, Il proclama di Argirocastro: Italia e Intesa in Albania
nel 1917, «Clio», 1992, n. 3, pp. 459-470; PIETRO PASTORELLI, L’Albania nella politica estera italiana 1914-1920, Napoli, 1970; DDI, V, 7, d. 508; ivi, 8, dd. 69, 174; SONNINO, Diario
1914-1916, cit., p. 162 e ss.
105 DDI, V, 8, dd. 279, 300.
106 Al riguardo: KENNETH J. CALDER, Britain and the Origins of the New Europe 19141918, Cambridge, 1976; FRANÇOIS FEJTÖ, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione
del mondo austro-germanico, Milano, 1990, p. 315 e ss.; DOMENICO CACCAMO, La «New
Europe» (1916-1920) e la propaganda di guerra inglese, in FRANCESCO PERFETTI, (a cura di),
D’Annunzio e la guerra, Milano, 1996, p. 105 e ss.
107 Circa le idee di Robert Seton-Watson sulla questione adriatica, che riflettevano le tesi dei suoi amici dalmati croati iugoslavofili, si veda: R.W. Seton-Watson al Foreign Office,
1° ottobre 1914, in R. W. Seton Watson and the Yugoslavs, cit., I, d. 109. Più in generale: HUGH
e CHRISTOPHER SETON-WATSON, The Making of a New Europe. R. W. Seton-Watson and the
Last Years of Austria-Hungary, London, 1981.
108 Sulla controversa figura di Steed ricordiamo le sue memorie: HENRY WICKHAM STEED,
Trent’anni di storia europea 1892-1922, Milano, 1962; PETER SCHUSTER, Henry Wickham
Steed und die Habsburgermonarchie, Wien, 1970.
103
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
31
teressi di qualche grande potenza109. La volontà dell’Italia d’espandersi
nell’Adriatico orientale creava irritazione in Francia e Gran Bretagna,
Stati desiderosi di evitare che la guerra fosse l’occasione per un eccessivo rafforzamento dell’Italia nel Mediterraneo e nei Balcani: da
qui la simpatia di alcuni politici e diplomatici britannici e francesi verso le tesi dei nazionalisti slavi del sud a favore della creazione di uno
Stato iugoslavo unitario, eventuale utile contrappeso all’Italia110. A parere di Steed, l’Italia avrebbe dovuto riconoscere la forza del movimento
unitario degli slavi del sud e cercare di raggiungere con il comitato iugoslavo di Londra e il governo serbo un’immediata intesa politico-territoriale che portasse al superamento del patto del 26 aprile 1915. Per
il giornalista britannico, un giusto compromesso territoriale sarebbe stato il riconoscimento dei diritti italiani su Trieste e su parte dell’Istria
occidentale in cambio della concessione al futuro Stato iugoslavo del
dominio sull’Istria orientale, sulla Valle dell’Isonzo, su Fiume e sulla
Dalmazia111. In realtà, contrariamente alle speranze di Steed e SetonWatson, per molto tempo i governi di Londra e Parigi assunsero un atteggiamento ambiguo e strumentale verso i movimenti di liberazione
nazionale dell’Austria-Ungheria: usarono gli esuli iugoslavi, così come gli altri gruppi nazionalisti cechi, slovacchi e polacchi, come una
pedina utile sul piano propagandistico e politico, pronti, però, ad abbandonarli al loro destino in caso di raggiungimento di una pace di
compromesso con gli Asburgo112. È quello che temporaneamente accadde nel corso del 1917, quando l’abdicazione dello Zar e la crisi dello sforzo militare russo indebolirono l’Intesa113, rendendo conveniente sul piano diplomatico il tentativo di staccare l’Austria-Ungheria dal109
CALDER, Britain and the Origins of the New Europe 1914-1918, cit., p. 8 e ss.
110 CALDER, Britain and the Origins of the New Europe 1924-1918, cit.; V. H. ROTHWELL,
British War Aims and Peace Diplomacy 1914-1918, Oxford, 1971, p. 75 e ss.; JACQUES
BARIETY, La France et la naissance du Royaume des Serbes, Croates et Slovènes, 1914-1919,
«Relations Internationales», n. 103, 2000, pp. 307-327; MIRO KOVAC#, La France, la création
du royaume “ yougoslave “ et la question croate, 1914-1929, Bern, 2001; FEJTÖ, Requiem
per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-germanico, cit.
111 SONNINO, Carteggio 1916-1922, cit., Steed a Sonnino, 29 gennaio 1918, d. 262.
112 CALDER, Britain and the Origins of the New Europe 1924-1918, cit.; VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., p. 250; BARIETY, La France et la naissance du Royaume
des Serbes, Croates et Slovènes, cit.
113 Sull’atteggiamento italiano verso le due rivoluzioni russe: GIORGIO PETRACCHI, La
Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo-sovietiche 1917-25, Bari-Roma,
1982; ID., Da San Pietroburgo a Mosca. La diplomazia italiana in Russia 1861-1941, Roma,
1993; RICCARDI, Alleati non amici, cit., p. 436 e ss.; DANIELE VENERUSO, La Grande Guerra
e l’unità nazionale. Il ministero Boselli, Torino, 1996, p. 223 e ss.
32
LUCIANO MONZALI
la Germania attraverso promesse di moderate condizioni di pace, magari a spese dell’Italia ed abbandonando ogni disegno di dissoluzione
dell’Impero asburgico114. L’indebolimento della Russia, tradizionale
potenza alleata della Serbia, il sorgere di disegni di pace separata con
l’Impero asburgico in importanti circoli politici francesi e britannici,
preoccuparono fortemente serbi e nazionalisti iugoslavi115. Sforza constatò a tale riguardo che la rivoluzione russa aveva fortemente indebolito «l’autorità morale di Pachitch [Pas#ic!] il quale nei serbi era specialmente l’uomo della Russia e dello Czar»116. Privo del sostegno russo, il governo serbo divenne sempre più dipendente da francesi e britannici e ritenne opportuna una messa in sordina del tradizionale programma d’espansione panserbo a vantaggio di una più convinta connotazione della propria azione politica in senso iugoslavo. Con il delinearsi di progetti di pace separata con l’Austria-Ungheria, che avrebbero preservato la monarchia asburgica, in seno alle diplomazie francese e britannica, la posizione politica del Comitato iugoslavo di
Londra divenne sempre più precaria, convincendo Trumbic! dell’opportunità di una stretta collaborazione con il governo serbo. Risultato
di questo riavvicinamento fu l’accordo di Corfù del 20 luglio 1917 117.
Il patto di Corfù sancì l’accettazione formale da parte serba della futura creazione di uno Stato iugoslavo con pari dignità e rango fra le
nazionalità slave del sud. Di fatto, però, il carattere vago e propagandistico dell’accordo e il rinvio dell’organizzazione interna del nuovo
Stato ad una futura assemblea costituente che avrebbe deciso a semplice maggioranza, significarono la rinuncia da parte dei nazionalisti
croati guidati da Trumbic! a cautelarsi contro possibili mire egemoni114 Sui negoziati segreti con l’Austria-Ungheria per una pace separata: VICTOR S.
MAMATEY, The United States and East Central Europe 1914-1918. A Study in Wilsonian
Diplomacy and Propaganda, Princeton, 1957, p. 45 e ss.; ZBYNE#K A. ZEMAN, A Diplomatic
History of the First World War, Weidenfeld-London, 1971, p. 128 e ss.; MAY, op. cit., II, p.
519 e ss.; ROTHWELL, British War Aims, cit., p. 80 e ss.; CALDER, Britain and the Origins of
the New Europe 1924-1918, cit., p. 108 e ss.; DRAGAN R. ?IVOJINOVIC!, The United States and
the Vatican Policies 1914-1918, Boulder, 1978, p. 75 e ss.; LEO VALIANI, Nuovi documenti sui
tentativi di pace nel 1917, «Rivista storica italiana», 1963, p. 539 e ss.; ID., La dissoluzione
dell’Austria-Ungheria, cit., p. 297 e ss.; FRIEDRICH ENGEL-JANOSI, Österreich und der Vatikan
1846-1918, Graz, 1958, II; ID., Benedetto XV e l’Austria, in GIUSEPPE ROSSINI (a cura di),
Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, Roma, 1963, p. 343 e ss.
115 DDI, V, 7, d. 587.
116 DDI, V, 7, Sforza a Sonnino, 5 maggio 1917, d. 892.
117 Il testo dell’accordo di Corfù è riprodotto in ATTILIO TAMARO, Raccolta di documenti della questione adriatica, «Politica», 1920, vol. IV, ff. 11-12, pp. 204-342, d. 5. Si veda anche: ?EPIC!, Sudbinske Dileme, cit., II, p. 131 e ss.; ALBERTINI, Venti anni, cit., II, 2.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
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che dei serbi, elemento maggioritario nel prossimo Stato iugoslavo118.
Il riavvicinamento fra Pas#ic! e i nazionalisti iugoslavi guidati da
Trumbic!, non a caso, suscitò dubbi in alcuni politici croati. Supilo, ad
esempio, diffidente verso la classe dirigente serba, si proclamò ostile
verso l’azione del Comitato iugoslavo di Londra, accusato di sacrificare i diritti croati ad una piena autonomia pur di creare un’unione statuale iugoslava, e si dimise119. L’evoluzione in senso filoasburgico della politica francese e britannica e il crescente indebolimento della
Russia nel 1917 sembrarono favorire anche un possibile riavvicinamento fra alcuni esponenti del nazionalismo iugoslavo e l’Italia120. Nel
maggio 1917 Supilo entrò in contatto con ambienti vicini all’ambasciata italiana a Londra, perorando la necessità di un accordo completo
e leale fra Italia e esuli iugoslavi. Il politico dalmata si dichiarò preoccupato dallo sfacelo russo e dal crescente favore verso il mantenimento
dell’Impero asburgico in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti: ciò
avrebbe potuto comportare un danno per il programma di liberazione
e unificazione dei popoli iugoslavi, che correva il rischio di essere tradito dalle grandi potenze al momento della pace. L’Italia e i nazionalisti iugoslavi avevano un interesse comune a collaborare in funzione
anti-austriaca e a tal fine si doveva raggiungere un pieno accordo italo-iugoslavo.
Accordo – a parere di Supilo – si dovrebbe fare sulla base del riconoscimento pubblico da parte degli jugo-slavi delle regioni dell’Italia sull’Adriatico
come sono state fissate dai trattati preliminari all’entrata dell’Italia in campagna; in ricambio il Governo italiano e opinione pubblica della penisola dovrebbero appoggiare con tutte le loro influenze il programma di liberazione,
unificazione e federazione delle genti jugo-slave ottenendone il distacco assoluto dall’Austria121.
Sempre nel maggio 1917 altre aperture degli iugoslavi giunsero alla Consulta tramite re Nicola del Montenegro, che comunicò a Sonnino
che alcuni dirigenti del Comitato iugoslavo di Londra, in cattivi rapporti con il governo serbo, sarebbero stati disposti ad un accordo con
l’Italia, chiedendo però che questa fosse pronta a fornire loro sussi118
VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., p. 294 e ss.
Sui dissidi fra Supilo e Trumbic!: R. W. Seton-Watson and the Yugoslavs, cit., I, dd.
170, 175; PETRINOVIC!, Politic#ka misao Frana Supila, cit., p. 187 e ss.
120 ?EPIC!, Sudbinske Dileme, cit., II, p. 163 e ss.
121 DDI, V, 8, Imperiali a Sonnino, 24 maggio 1917, d. 77.
119
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di122. Secondo Romano Avezzana, l’obiettivo da perseguire era quello di staccare i nazionalisti iugoslavi dal governo serbo e di tenere i
contatti con loro tramite re Nicola. Sonnino si dimostrò pronto a considerare la possibilità di un avvicinamento agli esuli iugoslavi e, alla
fine di giugno, incaricò Sforza123 di prendere contatto con quegli esponenti del comitato di Londra che si erano recati a Corfù124. Di fatto la
conclusione dell’accordo di Corfù nel luglio e la morte di Supilo nel
settembre 1917, capo della componente nazionalista iugoslava ostile
a Pas#ic!, resero improponibile il disegno di una collaborazione italocroata in chiave antiserba. Sforza prese contatto con Trumbic!, giunto
a Corfù per negoziare l’accordo con il governo serbo, e notò che il politico spalatino, vero capo del comitato di Londra dopo le dimissioni
di Supilo, era deciso a rimanere fedele all’alleanza con i serbi. L’unione
con la Serbia era la ragione di essere dell’ex podestà di Spalato, che
credeva con ostinazione nel progetto di creazione di uno Stato iugoslavo unitario:
[Trumbic!] si disse convinto dell’inevitabilità dell’unione jugo-slava e degli interessi dell’Europa di accettarla col prossimo trattato di pace. Schernì
chi in Francia e a Londra gli muoveva obbiezioni basate sulle differenze storiche sociali fra croati, serbi, ecc. e si mostrò sicuro della facilità con cui in
pratica si collegherebbero le varie autonomie125.
Uomo politico intellettualmente sofisticato, ma anche fortemente
dogmatico e ideologizzato, Trumbic! rimase con pervicacia fedele al
suo progetto di unione nazionale croato-serba. Il suo essere un nazionalista iugoslavo dalmata lo pose inevitabilmente in contrasto con la
politica di Sonnino e dell’Italia nell’Adriatico. Nel corso della guerra mondiale Trumbic! si dimostrò pronto a negoziati con il governo italiano ma, convinto quasi messianicamente dell’inevitabile trionfo dei
diritti nazionali croati, serbi e sloveni, rifiutò con pervicacia ed ostinazione ogni compromesso territoriale che riconoscesse la sovranità
italiana sulla Venezia Giulia e su parte della Dalmazia126.
122
DDI, V, 8, Romano Avezzana a Sonnino, 30 maggio 1917, d. 158.
123 Sulla permanenza di Sforza a Corfù, presso il governo serbo in esilio: CARLO SFORZA,
Jugoslavia. Storia e ricordi, Milano-Roma, 1948, p. 112 e ss.; ID., Dalle pagine di diario. Il
periodo prefascista, «Nuova Antologia», 1967, fasc. 2004, p. 447 e ss.
124 DDI, V, 8, Sonnino a Sforza, 23 giugno 1917, d. 435.
125 DDI, V, 8, Sforza a Sonnino, 10 luglio 1917, d. 609.
126 Si veda ad esempio: DDI, V, 11, Paulucci a Sonnino, 21 settembre 1918, d. 556.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
35
Scettico sulla flessibilità politica degli esuli nazionalisti iugoslavi
e sulla compatibilità del loro programma politico con quello dell’Italia,
il ministro italiano presso il governo serbo, Carlo Sforza, consigliò al
governo di Roma di sfruttare l’evoluzione della situazione internazionale per puntare sul raggiungimento di un’intesa privilegiata con
la Serbia. Secondo Sforza, era possibile trovare un compromesso territoriale italo-serbo, cercando di soddisfare parzialmente le mire dei
serbi in Macedonia e nei Balcani in cambio del loro riconoscimento
dei desiderata italiani nell’Adriatico settentrionale127. Pas#ic! aveva accettato l’accordo con gli iugoslavi a malincuore ed era pronto a fare
sacrifici territoriali pur di ottenere un accordo politico concreto con
l’Italia; giustamente il diplomatico italiano riteneva il politico serbo
un pragmatico desideroso soprattutto di realizzare la grande Serbia:
Pas#ic![,] che non si decise che a malincuore a convocare a Corfù gli jugoslavi[,] è piuttosto per le transazioni empiriche e, se ne avesse la scelta, per
soluzioni assai meno grandiose, ma serbe128.
Nonostante la sua diffidenza verso i serbi, Sonnino decise di raccogliere il consiglio di Sforza e accettò d’incontrare Pas#ic! in visita a
Roma il 10 settembre 1917. Ma l’incontro non ebbe esito positivo.
Sonnino dichiarò che era sommo interesse reciproco raggiungere un
accordo territoriale italo-serbo sull’assetto dell’Adriatico, ma si dimostrò irritato dal carattere massimalistico della dichiarazione di
Corfù, che rivendicava per il futuro Stato iugoslavo il possesso di tutti i territori abitati da popolazioni serbe, croate e slovene, incluse tutta la Dalmazia e l’Istria.
Stando ai termini del manifesto jugoslavo, – dichiarò Sonnino al presidente del Consiglio serbo – l’Italia non avrebbe, di fronte alle assicurazioni
vaticane sulle concessioni ottenibili anche oggi dall’Austria-Ungheria mediante accordi, alcun scopo proprio da raggiungere col proseguire ulteriormente la guerra. Ciò tende a dare forza e credito ai pacifisti, mentre disanima i partigiani della guerra fino alla vittoria. Il solo fine di beneficare gli
Jugoslavi con manifesto maggiore pericolo proprio, non poter bastare ad incuorare un paese all’affrontare volonterosamente un terzo inverno di guerra.
Non vedevo come tutto ciò potesse giovare alla giusta e ragionevole causa
127
128
DDI, V, 6, Sforza a Sonnino, 24 ottobre 1916, d. 606 con allegato.
DDI, V, 8, Sforza a Sonnino, 16 agosto 1916, d. 869.
36
LUCIANO MONZALI
della Serbia, cioè alla ricostituzione del Regno e al suo rinvigorimento compreso l’acquisto di un adeguato sbocco sul mare129.
A parere di Pas#ic!, il manifesto-accordo di Corfù aveva avuto una
finalità eminentemente propagandistica, «per difendersi contro le lusinghe dell’Austria verso le popolazioni slave con l’offerta di concessione di autonomie». Un accordo fra italiani e serbi era possibile
sulle seguenti basi:
Col possesso di Trieste e Pola e della metà dell’Istria, di qualche isola, e
di Valona l’Italia – a parere del politico serbo – avrebbe assicurato il predominio militare nell’Adriatico, rinforzato pure dalla stretta amicizia e intesa
col nuovo Stato creatosi sull’altra sponda130.
Pas#ic! era pronto a rinunciare ad alcuni territori nell’Adriatico settentrionale, ma il suo desiderio di un completo controllo della Dalmazia e di spartire l’Albania era in chiaro contrasto con i disegni politici di Sonnino. Il ministro degli Esteri dichiarò inaccettabili le proposte serbe. L’Italia non poteva accettare la soppressione del Montenegro,
che avrebbe riaperto la questione di Cattaro e del monte Lovcen, né
ogni limitazione ad un completo controllo dell’Istria: le popolazioni
slave che sarebbero rimaste comprese nei territori occupati dall’Italia
avrebbero goduto di eque garanzie riguardo al rispetto di ogni loro diritto di scuola, di lingua e di godimento di libertà civili e politiche. A
parere di Sonnino, un accordo italo-serbo era possibile solo prendendo come base quanto previsto dal patto di Londra, il cui contenuto era
ormai noto ai serbi, «salvo magari discuterne poi qualche minore particolare»131.
Il dialogo italo-serbo, in realtà, era bloccato dalla non disponibilità delle due parti a fare concessioni politiche e territoriali sostanziali nel corso della guerra, quando l’esito delle operazioni belliche era
molto incerto ed ogni sviluppo era ancora possibile.
La disfatta militare italiana di Caporetto e il successivo ritiro della
Russia dal conflitto, a causa della rivoluzione bolscevica, resero anco-
129 Un resoconto del colloquio in DDI, V, 9, Sonnino a Salvago Raggi, Carlotti, Sforza
e Borghese, 10 settembre 1917, d. 31. A tale proposito si veda anche SONNINO, Diario 19161922, cit., p. 190 e ss.; ?EPIC!, Sudbinske Dileme, cit., II, pp. 169-171.
130 Sonnino a Salvago Raggi, Carlotti, Sforza e Borghese, 10 settembre 1917, cit.
131 Ibidem.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
37
ra più dura e spietata la lotta fra Italia e Impero asburgico132. In un tale
contesto l’utilità di una collaborazione in chiave anti-asburgica fra italiani, serbi e iugoslavi era ancora più evidente. Sforza continuò ad insistere presso il capo della Consulta affinché si cercasse un’intesa con i
serbi. Il 25 dicembre 1917 il diplomatico italiano constatò che Pas#ic! non
aveva la forza politica sufficiente per raggiungere un accordo territoriale
italo-serbo di compromesso, soddisfacente per gli interessi dell’Italia e
quindi passibile di critiche da parte dei nazionalisti serbi e iugoslavi;
un’opzione praticabile era piuttosto un accordo generico, con una formula vaga, che «anche se solo constatante l’intenzione di intendersi
avrebbe buon effetto, mentre per la sua indeterminatezza stessa potrebbe più facilmente essere accettata da noi e dal Governo serbo»133. Sotto
stimolo anche dei principali diplomatici italiani, favorevoli ad un’intesa italo-serba o italo-iugoslava per ragioni di propaganda134, Sonnino accettò l’idea di Sforza e preparò un progetto di formula da inserire in
un futuro accordo. Il progetto di accordo prevedeva l’affermazione italiana e serba di volere creare una forte e cordiale collaborazione reciproca e l’enunciazione dei princìpi che animavano la loro lotta contro
l’Impero asburgico: Italia e Serbia combattevano «per il trionfo della
libertà dei popoli e della giustizia internazionale. Né l’uno né l’altro
Stato ispirano la loro azione a concetti imperialistici. Riconoscono entrambi il carattere misto delle popolazioni della riva orientale dell’Adriatico ove si trovano territori abitati da slavi e centri italiani di alto
valore economico e storico. Il desiderabile accordo fra i due Paesi non
può quindi ispirarsi che a concetti concilianti ed alla necessità di sacrifici e concessioni reciproche»135. Di fatto però il progetto di accordo italo-serbo non ebbe traduzione concreta. Il discorso di Lloyd
George del 5 gennaio 1918 e i quattordici punti di Wilson convinsero Sonnino dell’inutilità di ogni intesa separata italo-serba in un momento in cui Gran Bretagna e Stati Uniti sembravano mettere in discussione le clausole territoriali previste dal patto di Londra. Alla fine del 1917 la diplomazia sovietica aveva messo in grave imbarazzo
i governi dell’Intesa e gli Stati Uniti, entrati nel conflitto mondiale a
fianco dell’Intesa nell’aprile 1917, con la sconfessione dei trattati con-
132 Al
riguardo: RICCARDI, Alleati non amici, cit., p. 543 e ss.
DDI, V, 9, Sforza a Sonnino, 25 dicembre 1917, d. 802.
134 SONNINO, Carteggio 1916-1922, cit., Macchi di Cellere a Sonnino, 11 dicembre 1917,
d. 241; ivi, Bonin Longare a Sonnino, 24 dicembre 1917, d. 243.
135 DDI, V, 9, Sonnino a Sforza, 28 dicembre 1917, d. 819.
133
38
LUCIANO MONZALI
clusi dalla Russia imperiale e la divulgazione del loro contenuto, e con
l’invocazione di una pace immediata senza conquiste e sulla base dei
princìpi di autodeterminazione dei popoli. Gran Bretagna e Stati Uniti
ritennero di dover reagire a questa offensiva politica spiegando pubblicamente i propri obiettivi di guerra136. Il 5 gennaio 1918 il primo
ministro Lloyd George espresse il punto di vista britannico sulla futura pace in un discorso al Congresso delle Trade Unions. Egli dichiarò
che la dissoluzione dell’Austria-Ungheria non era fra gli obiettivi di
guerra del suo governo, che chiedeva piuttosto autonomia su basi democratiche per i popoli asburgici. Lloyd George, poi, considerò essere fra le richieste vitali da soddisfare la semplice unione degli cittadini austriaci di “razza” e “lingua” italiane all’Italia137. L’8 gennaio 1918
pure il presidente statunitense Woodrow Wilson espresse il suo punto
di vista, in larga parte coincidente con quello di Lloyd George, e definì in 14 punti le future condizioni di pace: in particolare prevedeva
la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria, purché concedesse maggiore autonomia ai suoi vari popoli, e affermava il diritto dell’Italia a ridefinire i suoi confini purché lungo le linee di nazionalità chiaramente
riconoscibili138. Le tesi di Lloyd George e Wilson sembravano sconfessare la legittimità della rivendicazione italiana sulla Dalmazia, motivata da ragioni prevalentemente strategiche e non difendibile sulla
base del principio di nazionalità, poiché gli italiani dalmati erano una
minoranza rispetto alla popolazione croata e serba.
Il discorso di Lloyd George e il messaggio di Wilson irritarono fortemente il governo di Roma139. L’8 gennaio Sonnino si lamentò con
Rodd, ambasciatore britannico a Roma, che Lloyd George, in un discorso pubblico e senza preventiva consultazione con Roma, avesse
136 Al
riguardo: ARNO MAYER, Political Origins of the New Diplomacy 1917-1918, New
York, 1970 (prima ed. 1959), p. 245 e ss.; ZEMAN, A Diplomatic History of the First World
War, cit., p. 246 e ss.
137 MAYER, Political Origins of the New Diplomacy, cit., p. 313 e ss.; CALDER, Britain
and the Origins of the New Europe, cit., p. 125 e ss.; MAY, op. cit., II, pp. 573-74; ZEMAN, A
Diplomatic History of the First World War, cit., p. 262 e ss.
138 DDI, V, 10, dd. 60 e 71. Per un’interpretazione dei quattordici punti nella politica estera di Wilson: MAMATEY, The United States and East Central Europe, cit.; ARTHUR A LINK,
Wilson the Diplomatist. A Look at His Major Foreign Policies, Baltimore, 1957, p. 3 e ss.;
MAYER, Political Origins of the New Diplomacy, cit.; LAWRENCE E. GELFAND, The Inquiry.
American Preparations for Peace, 1917-1919, New Haven-London, 1963, p. 134 e ss.; JEANBAPTISTE DUROSELLE, De Wilson à Roosevelt. Politique extérieure des États Unis 1913-1945,
Paris, 1960 (edizione italiana Bologna 1963), pp. 94-95.
139 RICCARDI, Alleati non amici, cit., p. 599.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
39
buttato a mare «tutti i nostri fini di guerra (come convenuti con gli alleati nella convenzione di Londra o posteriormente) con la sola eccezione dei puri territori abitati da popolazione di razza e di lingua italiana».
Con ciò fa in certo modo riserva anche sull’Istria, nonché sulla Dalmazia,
ecc. Della difesa dell’Adriatico e garanzie della nostra sicurezza. Accenna a
convenzioni particolari, ma dichiarandole rivedibili e riducibili. […] In sostanza mantiene intatte le aspirazioni anglo-francesi e reseca soltanto sul programma nostro, che era convenuto e che è programma di vita di sicurezza e
di equilibrio. Se la guerra andasse male, tutti gli alleati dovrebbero ridurre le
loro aspirazioni; ma non noi soli, che siamo entrati in guerra volontariamente con condizioni chiaramente stabilite e convenute140.
Pure il messaggio di Wilson contraddiceva i fini di guerra dell’Italia
e di ciò il ministro si lamentò con l’ambasciatore italiano a Washington,
Macchi di Cellere. Secondo Sonnino, affermare che la sistemazione
delle frontiere dell’Italia avrebbe dovuto effettuarsi dopo la fine della guerra secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili era erroneo e fuorviante.
Non v’è dubbio che nelle regioni confinanti col Regno d’Italia siano chiaramente riconoscibili le linee di nazionalità. Ma non deve essere trascurato
il fatto che in altre regioni la popolazione è di carattere misto d’italiani con
slavi e con tedeschi e che pertanto una delimitazione equa non potrebbe aver
luogo se non sulla base di mutue concessioni e di reciproci sacrifici. Il presidente Wilson sembra far consistere le rivendicazioni italiane unicamente nell’aspetto etnico mentre ve ne sono altre il cui fondamento giuridico è egualmente incontestabile. Anzitutto vi è la questione adriatica che per l’Italia significa legittima sicurezza di esistenza141.
Le rivendicazioni italiane nell’Adriatico e nel Mediterraneo, a parere del ministro degli Esteri, erano dovute a irrinunciabili bisogni di
sicurezza, difesa e indipendenza dello Stato italiano e corrispondevano ai valori di libertà, giustizia e democrazia che ispiravano la diplomazia statunitense142.
140 DDI, V, 10, Sonnino a Imperiali, 9 gennaio 1918, d. 61; SONNINO, Diario 1916-1922,
cit., p. 250.
141 DDI, V, 10, Sonnino a Macchi di Cellere, Imperiali e Bonin Longare, 10 gennaio 1918,
d. 69.
142 Ibidem. Si veda anche: DDI, V, 10, Sonnino a Macchi di Cellere, Imperiali e Bonin
40
LUCIANO MONZALI
I discorsi di Lloyd George e Wilson, con il sostanziale preannuncio della volontà alleata di sottoporre il patto di Londra ad una revisione riducendo l’ampiezza delle rivendicazioni italiane, inflissero un
colpo durissimo alle direttive diplomatiche di Sonnino, che aveva puntato tutto sulla creazione di un’alleanza sincera e duratura con l’Intesa
per giustificare l’intervento italiano in guerra e il rifiuto di un accordo di compromesso con l’Impero asburgico, sostenuto dagli ambienti
vaticani e da Nitti143. All’inizio del 1918 era ormai chiaro che il calcolo del ministro degli Esteri si era rivelato errato e troppo ottimistico:
gli anglo-francesi e gli statunitensi sfruttavano l’indebolimento della posizione militare e politica dell’Italia in Europa dopo Caporetto e l’armistizio russo per cercare di sottoporre a revisione unilaterale gli accordi conclusi con l’alleato italiano. Sonnino, profondamente amareggiato dal comportamento alleato, si dimostrò incapace di proporre una
efficace risposta politica e diplomatica alle iniziative degli anglo-francesi e degli statunitensi. A partire dal 1918 la strategia diplomatica del
ministro degli Esteri fu puramente difensiva: si limitò a sperare in una
rapida fine vittoriosa della guerra cercando di preservare sul piano giuridico e diplomatico il valore degli accordi internazionali conclusi
dall’Italia con le potenze dell’Intesa144. Sul piano della questione adriatica ciò si tradusse in un abbandono di ogni iniziativa per un accordo
politico separato italo-serbo o italo-iugoslavo da parte della Consulta.
A parere di Sonnino, un accordo con gli iugoslavi sarebbe stato utile
come risposta propagandistica alle accuse di imperialismo e di antidemocraticismo rivolte alla politica estera italiana. Ma, a suo avviso, serbi e iugoslavi non erano affidabili e credibili come interlocutori.
È però evidente che qualunque trattativa iniziata sopra basi indeterminate servirebbe agli agitatori jugoslavi alcuni dei quali sono certamente in mala fede, per legare il Governo italiano a importanti rinuncie nella questione
adriatica, senza legare i jugoslavi medesimi, i quali, al momento opportuno,
Longare, 23 gennaio 1918, d. 129; MAMATEY, The United States and East Central Europe,
cit., p. 197 e ss.; LILIANA SAIU, Stati Uniti e Italia nella Grande Guerra 1914-1918, Firenze,
2003, p. 168 e ss. Sulle relazioni italo-statunitensi in quei mesi si vedano anche: DANIELA
ROSSINI, L’America riscopre l’Italia, Roma, 1992; AMY A. BERNARDY, VITTORIO FALORSI, La
questione adriatica vista d’oltre Atlantico (1917-1919). Ricordi e documenti, Bologna, 1923.
143 ALBERTO MONTICONE, Nitti e la grande guerra (1914-1918), Milano, 1961, p. 100 e
ss.; ANTONIO SCOTTÀ (a cura di), La conciliazione ufficiosa. Diario del barone Carlo Monti
“incaricato d’affari” del governo italiano presso la Santa Sede (1914-1922), Città del
Vaticano, 1997, II, p. 155 e ss.
144 TAMBORRA, L’idea di nazionalità e la guerra 1914-1918, cit.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
41
eleverebbero ulteriori ed esagerate pretese conformemente ai loro postulati
generali145.
Altro rischio per l’Italia in ogni accordo separato con gli iugoslavi o i serbi era quello di mettere in discussione il patto di Londra, indebolendone il valore giuridico e politico.
Qualunque intesa coi jugoslavi sulla base di riduzione del nostro programma iniziale di guerra, sarebbe necessariamente invocata dagli alleati come un «fatto compiuto» dal quale risulti una diminuzione degli obblighi da
essi formalmente contratti verso l’Italia. Ma è evidente che se a tale estremità fossimo costretti dalle circostanze, cioè di liberare gli alleati da una parte dei loro obblighi verso l’Italia, ciò non deve avvenire altro che in seguito
a negoziati nostri con gli alleati, dai quali potremmo pretendere ed ottenere
vantaggi in cambio del notevole vantaggio ad essi offerto (per esempio, garanzia più o meno formale degli Stati Uniti). Pertanto una presente nostra intesa coi jugoslavi su base di nostre rinuncie comprometterebbe gravemente
il negoziato per la revisione degli accordi con gli alleati, quando, eventualmente, a tale revisione si decidesse di addivenire146.
L’unica forma d’intesa possibile con gli iugoslavi e i serbi poteva
consistere nell’unilaterale accettazione integrale dei postulati di guerra dell’Italia da parte del governo serbo o del Comitato iugoslavo di
Londra. Era questa un’ipotesi irrealizzabile e, non a caso, questo telegramma del 31 gennaio 1918 segnò la definitiva assunzione di una strategia puramente difensiva da parte di Sonnino nella questione adriatica. Da quel momento il capo della Consulta rinunciò definitivamente
ad ogni progetto di accordo con il governo serbo, auspicato da Sforza,
e cercò, senza successo, di ostacolare il negoziato ufficioso con il
Comitato iugoslavo di Londra condotto, con il beneplacito di Orlando,
da Torre, Emanuel e dal gruppo legato a Luigi Albertini.
Come abbiamo notato, il crollo del regime zarista in Russia nel
marzo e la progressiva crisi della partecipazione russa alla guerra –
con il colpo di Stato bolscevico del novembre e la successiva pace separata sancita a Brest Litowsk nel marzo 1918 – furono un colpo durissimo per l’Italia147. Il ritiro della Russia dalla guerra provocò il ve145 DDI, V, 10, Sonnino a Imperiali, Bonin, Macchi di Cellere e Sforza, 31 gennaio 1918,
d. 169.
146
147
Ibidem.
PETRACCHI, La Russia rivoluzionaria, cit., p. 49 e ss.
42
LUCIANO MONZALI
nire meno di quel secondo fronte che aveva consentito l’alleggerimento
dello sforzo bellico italiano con la sottrazione di molte forze asburgiche dalle Alpi. La scomparsa della Russia come elemento politico internazionale, poi, provocò un indebolimento diplomatico dell’Italia,
che da sempre vedeva con favore l’esistenza di un forte Stato russo in
quanto garanzia di equilibrio in Europa. Questi mutamenti misero in
crisi la strategia diplomatica di Sonnino, che non aveva previsto il crollo dell’impero russo e che quindi vedeva svanire la possibilità di quell’equilibrio tra le potenze, condizione indispensabile per fare valere il
peso politico dell’Italia. L’aggravarsi delle difficoltà militari italiane
nel corso del 1917, che dovevano culminare nella sconfitta di Caporetto, faceva prevedere crescenti problemi per l’Italia sul piano del
completo soddisfacimento delle proprie rivendicazioni territoriali. Gli
sviluppi sfavorevoli della guerra e l’incapacità di Sonnino di rispondere in maniera flessibile alle nuove sfide con cui l’Italia si trovò a
confrontarsi alla fine del 1917, portarono ad una progressiva perdita
del controllo della politica estera italiana da parte del ministro degli
Esteri. Nominato presidente del Consiglio nell’ottobre 1917, Vittorio
Emanuele Orlando cominciò a prendere autonome iniziative in campo internazionale e a delineare un approccio alternativo a quello di
Sonnino proprio nella questione adriatica148. Timoroso sui possibili esiti della guerra, Orlando ruppe con la politica di Sonnino di rifiuto intransigente di ogni progetto di pace separata ed autorizzò Nitti a prendere contatto con la Santa Sede per sondare la disponibilità asburgica ad una pace con l’Italia149. Contemporaneamente, maggiormente attento alle esigenze della propaganda e dell’opinione pubblica, il presidente del Consiglio accettò di assecondare le iniziative di “diplomazia informale” escogitate dal gruppo di politici e giornalisti che si
raccoglieva intorno al senatore Luigi Albertini, direttore del «Corriere
della Sera»150. A parere di Luigi Albertini, l’Italia non poteva limitar-
148 Sulla figura di Orlando e la sua azione come presidente del Consiglio dopo Caporetto:
VITTORIO EMANUELE ORLANDO, Memorie 1915-1919, Milano, 1960, p. 71 e ss.; OLINDO
MALAGODI, Conversazioni della guerra 1914-1919, Milano-Napoli, 1960, II, p. 251 e ss.
149 MONTICONE, Nitti e la grande guerra, cit., p. 255 e ss. Sull’atteggiamento vaticano
verso il governo di Roma nel 1918: SCOTTÀ (a cura di), La conciliazione ufficiosa, cit., II,
p. 237 e ss.
150 Sul ruolo di Luigi Albertini nella genesi della politica delle nazionalità: ALBERTINI,
Venti anni di vita politica, cit., II, 3, p. 233 e ss.; ID., Epistolario 1911-1926, Milano, 1968,
vol. II; BARIÉ, Luigi Albertini, cit., p. 340 e ss.; VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., p. 332 e ss.; TAMBORRA, L’idea di nazionalità, cit.; VIVARELLI, Storia delle origini
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
43
si a perseguire esclusivamente i suoi obiettivi territoriali, ma doveva
giustificare la propria partecipazione alla guerra sulla base di princìpi e idee più generali, mirando a creare un nuovo ordine internazionale fondato sul principio di nazionalità: di fronte alla crescente minaccia austro-ungarica bisognava reagire facendo proprio «il programma delle nazionalità», invocando «l’applicazione doverosa del
principio nazionale a favore dei Romeni, degli Ucraini, dei Polacchi,
degli Czeco-Slovacchi, dei Jugoslavi e degli Italiani sottoposti al giogo degli Asburgo», mirando alla dissoluzione dell’Impero asburgico151.
Secondo Albertini, senza un’intesa politica e territoriale con gli iugoslavi, che mostrasse la disponibilità dell’Italia a trovare una ragionevole applicazione delle proprie rivendicazioni in parte almeno sulla base del principio di nazionalità, la pretesa italiana di guidare il movimento delle nazionalità oppresse non sarebbe stata credibile. Era interesse dell’Italia la formazione di uno Stato iugoslavo unitario, che
sarebbe stato una minaccia ben minore dell’Impero asburgico. Più che
un vero accordo territoriale con la futura Iugoslavia l’obiettivo primario che perseguiva il direttore del «Corriere della Sera» era il successo di propaganda che una politica di amicizia con gli slavi del sud
poteva garantire. Insomma, così come i governi britannico e francese, Albertini desiderava strumentalizzare la politica delle nazionalità
a vantaggio dei fini di guerra dell’Italia, per facilitare al massimo la
vittoria militare contro l’Austria-Ungheria e aumentare il peso internazionale del nostro Paese. L’azione di Albertini ebbe una netta accelerazione dopo il tracollo militare di Caporetto alla fine di ottobre. Di
fronte alla crisi militare sul fronte italiano, allo svilupparsi di negoziati segreti fra francesi, britannici, americani ed emissari asburgici,
e al crescere della disponibilità dei governi di Washington e Londra
ad una pace moderata con l’Austria-Ungheria152, era urgente per l’Italia
reagire sul piano politico. Gli sviluppi politici della fine del 1917 e
dell’inizio del 1918 facevano temere pure ai nazionalisti iugoslavi il
possibile abbandono da parte dell’Intesa del sostegno ai loro progetti
indipendentistici153: diventava utile un riavvicinamento con l’Italia in
del fascismo, cit., I, p. 196 e ss.; MONZALI, Introduzione, in ALBERTINI, I giorni di un liberale, cit., p. 157 e ss.
151 ALBERTINI, Venti anni di vita politica, cit., II, 3, pp. 233-34.
152 Un’ottima analisi degli eventi diplomatici di quei mesi in: MAMATEY, The United
States and East Central Europe, cit., p. 153 e ss.
153 Ivi, p. 209 e ss.
44
LUCIANO MONZALI
nome della lotta contro il nemico comune, l’Impero asburgico. Con il
sostegno di Albertini e la mediazione di Steed e Seton-Watson, alla
fine di dicembre vennero iniziati contatti a Londra tra esponenti politici italiani (il generale Mola, Guglielmo Emanuel) e rappresentanti
del Comitato iugoslavo (Trumbic!, Gazzari), che proseguirono nei primi mesi del 1918 e portarono ad un progetto d’intesa (l’accordo TorreTrumbic! del 7 marzo 1918), generica enunciazione dei princìpi che
avrebbero dovuto regolare la soluzione delle controversie italo-iugoslave154. Va sottolineato che Albertini e i suoi collaboratori non chiedevano la revisione o l’abolizione del patto di Londra, poiché, notò il
direttore del «Corriere», «sia esso patto perfetto o imperfetto, non rappresenta meno la carta delle nostre rivendicazioni approvate dagli
Alleati»155, ovvero era un utile strumento negoziale di fronte agli anglo-francesi. Se il senatore chiedeva l’applicazione del principio di nazionalità nell’Europa danubiana, non ne domandava una rigida attuazione riguardo a tutti i confini italiani, ma solo in Dalmazia; egli era
a favore dell’annessione italiana dell’Alto Adige, dell’Alto Isonzo,
dell’Istria orientale, di Zara e di una serie di isole dalmate importanti strategicamente. Il presidente del Consiglio Orlando assecondò e appoggiò le iniziative del gruppo di Albertini, accettando d’incontrare
Trumbic! a Londra e facendo in modo che il direttore del «Corriere»
potesse organizzare in Italia un convegno pubblico che avrebbe radunato numerosi rappresentanti politici dei popoli oppressi dell’AustriaUngheria e proclamato il sostegno italiano alle loro lotte di emancipazione nazionale156. L’iniziativa ebbe successo e tra l’8 e il 10 aprile
1918 si tenne a Roma il Congresso dei popoli oppressi, al quale parteciparono numerose personalità italiane e iugoslave e molti esuli anti-asburgici, che adottò varie risoluzioni le quali sancivano la necessità di continuare la guerra contro l’Austria-Ungheria al fine di liberare le nazionalità dominate dal potere asburgico. Nonostante i tentativi di Salvemini e Silva, non venne raggiunto alcun preciso accordo
politico e territoriale con gli iugoslavi, non disposti a riconoscere for-
154 VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., p. 332 e ss.; ?EPIC!, Sudbinske
Dileme, cit., II, p. 281 e ss.
155 [LUIGI ALBERTINI], Parole e Ragioni, «Corriere della Sera», 23 agosto 1918.
156 VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., p. 348; ?EPIC!, Sudbinske Dileme,
cit., II, p. 299 e ss.; DDI, V, 10, dd. 249, 258, 267. Un punto di vista nazionalista sulla politica delle nazionalità perseguita da Albertini e Salvemini: ATTILIO TAMARO, Il patto di Roma,
«Politica», 1922, f. 39, pp. 306-321; ivi, 1923, ff. 40-41, pp. 94-121.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
45
malmente il dominio italiano sull’Istria e Trieste in cambio della rinuncia dell’Italia alla Dalmazia157. Lo stesso Salvemini constatò personalmente in un lungo colloquio con Trumbic! la profonda diversità
di vedute esistenti fra gli interventisti democratici italiani e i nazionalisti iugoslavi.
Secondo Trumbich – rilevò Salvemini – sarebbe giusto che tutto l’Adriatico Orientale, da Duino ad Antivari appartenesse alla Slavia. Tutta l’Istria, e
il Goriziano cominciando dalle porte di Gorizia, forse anche Trieste e Gorizia,
sono terre slave, in cui vivono italiani, i quali nel suo pensiero probabilmente non sono che slavi italianizzati e rinnegati. Però riconosce la necessità di
certi sacrifizi: e questo termine, in un procedurista come lui, significa che
quel che gli alleati assegnerebbero all’Italia, sarebbe carne viva della
Jugoslavia. Che questo sia il suo pensiero mi pare evidente158.
Anche se non si raggiunse un accordo politico-territoriale italo-iugoslavo, il Congresso di Roma fu un grande successo propagandistico. Vittorio Emanuele Orlando mostrò pubblicamente il suo sostegno
alla collaborazione italo-iugoslava ricevendo l’intera delegazione iugoslava dopo la chiusura del Congresso. L’atteggiamento di Sonnino,
invece, fu di freddo distacco. L’ostilità del ministro degli Esteri verso
la collaborazione con gli esuli iugoslavi e circa l’idea di fare della dissoluzione dell’Austria-Ungheria uno dei principali fini di guerra dell’Intesa, radicalizzò il contrasto fra Sonnino e gli ambienti politici e
giornalistici vicini ad Albertini e a Bissolati, che esplose ripetutamente
nei mesi successivi159. Di fatto, però, la politica delle nazionalità e il
Congresso di Roma furono un importante momento di svolta politica, in quanto costituirono il primo deciso segnale dell’irrigidimento
dell’atteggiamento dell’Intesa e degli Stati Uniti verso l’Impero asburgico – provocato soprattutto dalla ripresa dell’offensiva militare tedesca sul fronte francese con il sostegno di truppe asburgiche e dall’inetta diplomazia di Carlo II e di Czernin, incapaci di dare concretez-
157 APIH, Gaetano Salvemini e il problema adriatico, cit., p. 104 e ss.; VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., p. 363.
158 [GAETANO SALVEMINI], Impressioni sintetiche sui colloqui avuti col Dottor Trumbich,
allegato a Miller a Seton-Watson, 14 aprile 1918, in R.W. Seton-Watson and the Yugoslavs,
cit., I, d. 216.
159 Una sintesi di questa polemica in LUIGI ALBERTINI, Venti anni, cit., parte seconda, III,
p. 358 ss. Si veda pure GIOVANNI AMENDOLA, La crisi dello Stato liberale, a cura di Elio
D’Auria, Roma, Newton Compton, 1974.
46
LUCIANO MONZALI
za ai negoziati segreti con gli occidentali – con il rafforzarsi del sostegno verso il programma della dissoluzione dell’Austria-Ungheria.
Le iniziative propagandistiche di Lloyd George e di Wilson, l’indebolimento della posizione di Sonnino e il delinearsi della politica
delle nazionalità crearono grande preoccupazione negli esuli dalmati
italiani. Il 12 gennaio 1918 ventidue esuli dalmati, capitanati da
Ghiglianovich, inviarono un memoriale a Sonnino, nel quale lodarono il governo italiano per avere previsto nel patto di Londra la futura
annessione di parte della Dalmazia all’Italia160. I recenti discorsi e messaggi di Wilson e Lloyd George, però, avevano aumentato la loro
preoccupazione.
Da queste manifestazioni non solo risulta che l’Inghilterra e gli Stati Uniti
non tendono allo smembramento dell’Austria-Ungheria o ad una considerevole diminuzione del suo territorio, ma che anche riguardo ai limiti delle rivendicazioni italiane possa essere subentrato nei Governi inglese ed americano un criterio restrittivo che intaccherebbe gli accordi presi161.
I dalmati invitarono Sonnino a non rinunciare al programma previsto dal patto di Londra; anzi bisognava cercare di annettere all’Italia
anche Spalato, mentre Ragusa sarebbe potuta tornare ad essere una libera repubblica indipendente. L’unione della Dalmazia alla Serbia o
ad una grande Iugoslavia era un’ipotesi che spaventava i dalmati italiani.
La Dalmazia […] anche nelle sue parti di lingua prevalentemente slave,
nulla ha di comune coi paesi slavi nel cui nesso alcune correnti vorrebbero
inglobarla. La bimillenaria civiltà latina autoctona italiana, elevandole, ha fatto anche di queste parti qualcosa di speciale e caratteristico. Unire queste parti di Dalmazia ad uno Stato serbo o jugoslavo od abbandonarle all’Austria,
significherebbe l’eliminazione a breve scadenza di ogni traccia di italica civiltà nelle parti stesse, la distruzione del rigoglioso elemento italiano che le
abita, le dà vita civile, impulso e progresso. […] Sarebbe una tremenda illusione di supporre che, pur vincolati da trattati internazionali, la Serbia od il
nuovo Stato jugoslavo o l’Austria rispetterebbero nelle parti della Dalmazia,
che venissero loro assegnate, […] le tradizioni, la civiltà e la lingua d’Italia.
Nazioni di coltura inferiore, gelose e diffidenti ed istintivamente sopraffat-
160
BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Ghiglianovich e Dudan a Sonnino, 12 gennaio 1918,
minuta.
161
Ibidem.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
47
trici di popolazioni di diversa nazionalità loro soggette, continuerebbero, con
minore ipocrisia dell’Austria, ma con uguale violenza, i metodi austriaci della più brutale snazionalizzazione. I trattati sarebbero per i nuovi dominatori
meno ancora di pezzi di carta162.
In quei mesi gli esuli dalmati intensificarono la loro attività di propaganda e di contatti politici per spingere il governo di Roma a mantenere inalterato il programma di conquista in Dalmazia e a considerare con maggiore attenzione il problema di Spalato163. La posizione
degli esuli dalmati, però, confliggeva con la nuova politica delle nazionalità propugnata da Bissolati, Albertini e Salvemini, mirante al raggiungimento dell’accordo con serbi e iugoslavi su un futuro assetto
adriatico più compatibile con il principio di nazionalità, con la rinuncia alla Dalmazia continentale (eccetto Zara) in cambio del riconoscimento iugoslavo del dominio italiano su tutta la Venezia Giulia inclusa nella linea Monte Nevoso-Monte Maggiore. In una lettera a
Salandra Ghiglianovich spiegò la sua posizione di fronte alla politica
delle nazionalità propugnata da Luigi Albertini.
Noi siamo d’accordo col «Corriere» che la completa rivendicazione da
parte dell’Italia delle sue terre irredente presuppone un colpo mortale
all’Austria; siamo pienamente d’accordo che occorre persuadere i nostri alleati della necessità di infierire all’Austria questo colpo non solo per raggiungere le nostre aspirazioni ma anche per eliminare uno Stato che, sopravvivendo all’attuale conflitto, sarebbe sempre la base perché la Germania
possa perseverare nei suoi scopi imperialisti mondiali; siamo d’accordo che
l’Italia deve cercare di avere in questa azione anche la collaborazione degli
altri popoli dell’Austria, nettamente antiaustriaci, e quindi anche degli
Jugoslavi – se tali realmente essi sono; ma riteniamo che sarebbe un delittuoso errore regalare agli Jugoslavi, per avere la loro collaborazione (?), anche quel poco di Dalmazia che all’Italia venne garantita col patto di Londra164.
Secondo Ghiglianovich, la rinuncia alla Dalmazia non avrebbe sod162
Ibidem.
Al riguardo: BS, Carte Ghiglianovich, b. B, telegramma di Ghiglianovich, Dudan,
Difnico ed altri esuli a Orlando e Sonnino, s.d. (ma febbraio 1918); ASMAE, ARC POL 19151918, b. 70, Colonna di Cesarò, Scodnik, Ghiglianovich ed altri firmatari a Orlando, 14 gennaio 1918; «Il manifesto dei Dalmati», in «Bollettino del Comitato centrale di propaganda
per l’Adriatico italiano», 30 aprile 1918, nn. 16-18, p. 10.
164 BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Ghiglianovich ad anonimo (ma Antonio Salandra), 2
febbraio 1918, (lettera in parte edita in RANDI, Il Sen. Roberto Ghiglianovich, cit., 1967, n. 3,
p. 37).
163
48
LUCIANO MONZALI
disfatto le rivendicazioni iugoslave, ma le avrebbe alimentate. Gli iugoslavi aspiravano anche al controllo dell’Istria, di Trieste, di Gorizia
e dei territori slavi della provincia di Udine, tutte terre dove vi era un
elemento slavo.
Una loro rinunzia a queste terre, se oggi fatta in corrispettivo della ulteriore parte di Dalmazia, cui agognano, non sarebbe quindi certamente sincera, né li potrebbe vincolare per l’avvenire. […] Ed appunto perché gli
Jugoslavi non rinunzieranno mai alle loro aspirazioni sulla Venezia Giulia e,
più forti che saranno, queste loro pretese si intensificheranno – ed il possesso della Dalmazia li farebbe fortissimi – è inevitabile, poiché fatale, il futuro conflitto italo-jugoslavo nell’Adriatico165.
Per cercare di reagire alla loro crescente marginalizzazione politica, gli esuli dalmati, insieme a quelli trentini, giuliani e fiumani, pensarono di fondare un’organizzazione politica degli irredenti, «L’Associazione Politica fra gli Italiani Irredenti», che si costituì il 7 aprile
1918. Ma tale associazione non riuscì a rappresentare unitariamente
il mondo politico degli esuli italiani provenienti dall’Austria-Ungheria.
Il problema dell’atteggiamento da assumere verso la politica di dialogo con gli iugoslavi sostenuta da Bissolati e Albertini creò divisioni e dissensi in seno all’irredentismo giuliano e trentino e pure fra gli
esuli della Dalmazia. Ludovico Milcovich, che era stato per anni un
esponente di rilievo del partito autonomo-italiano a Zara, contestò la
linea di Ghiglianovich, ostile alla politica delle nazionalità e intransigente nella difesa del patto di Londra, e preferì aderire ad un’associazione d’orientamento liberale-progressista, la «Democrazia Sociale
Irredenta», sorta nel gennaio 1918166. Milcovich e i dalmati italiani in
seno alla «Democrazia Sociale Irredenta» appoggiarono la politica di
compromesso con gli iugoslavi sulla base dell’idea di applicare il principio di nazionalità come criterio per la definizione dei nuovi confini nelle terre adriatiche: da qui l’idea di difendere il diritto dell’unica
città dalmata a maggioranza italiana, Zara, di essere unita all’Italia,
mentre il resto della Dalmazia sarebbe passato allo Stato iugoslavo167.
165
Ibidem.
Sui dissidi interni al mondo degli esuli fra 1917 e 1918: MONTELEONE, op. cit.;
RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 153 e ss.
167 Sulle posizioni di Milcovich si veda un suo discorso riprodotto in RANDI, Il Sen.
Roberto Ghiglianovich, cit., 1967, n. 3, pp. 48-50.
166
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
49
La stessa «Democrazia Sociale Irredenta» inserì fra i suoi obiettivi il
diritto di Zara ad essere annessa all’Italia e l’esigenza di garanzie «di
esistenza e di sviluppo nazionale» per i gruppi nazionali italiani di
Dalmazia che sarebbero stati inclusi nel futuro Stato iugoslavo168.
Questa spaccatura nell’irredentismo dalmata – con Milcovich rappresentante di una minoranza in contrapposizione a Ghiglianovich e
Dudan, che esprimevano le posizioni maggioritarie in seno agli esuli
– si manifestò anche in occasione del Congresso delle Nazionalità organizzato a Roma nell’aprile 1918. Milcovich e la «Democrazia Sociale» accettarono il contenuto del patto Torre-Trumbic! e aderirono al programma del Congresso, mentre Ghiglianovich ed il suo gruppo contestarono la politica di accordo con gli iugoslavi. In una lettera ad
Orlando del 28 aprile, Ghiglianovich criticò le posizioni della «corrente jugoslavofila» in Italia.
La jugoslavofilia che c’è ora in Italia fa dimenticare completamente il programma strategico-militare italiano nell’Adriatico. La soluzione di questo problema, per cui l’Italia è scesa anche in guerra, lo si finisce col mettere da parte: quasi che il patto Torre-Trumbic di rinunzie, perlomeno spirituali, dell’Italia ad ogni parte della Dalmazia vincolasse la futura Jugoslavia ad una eterna alleanza con l’Italia e a non riflettere mai più all’Istria, a Trieste, al Friuli
orientale!169.
Il politico dalmata invitò il presidente del Consiglio a bloccare queste tendenze autolesioniste e a non rinunciare al programma dell’applicazione del patto di Londra, solo mezzo per una giusta soluzione
della questione adriatica170.
Negli ultimi mesi della guerra, quindi, gli esuli dalmati italiani si
trovarono in una posizione di parziale isolamento a causa della loro
opposizione alla politica delle nazionalità e alla collaborazione con il
Comitato iugoslavo di Londra. Scelta quasi obbligata per loro fu il sostegno alle posizioni di Sonnino, incentrate sulla difesa del valore del
patto di Londra e della rivendicazione della Dalmazia.
168
MONTELEONE, op. cit., p. 116.
BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Ghiglianovich a Orlando, 28 aprile 1918 (lettera in
parte edita in RANDI, Il Sen. Roberto Ghiglianovich, cit., 1967, n. 4, pp. 71-72).
170 Ibidem.
169
50
LUCIANO MONZALI
1.3. Un difficile dopoguerra. L’occupazione italiana della Dalmazia
settentrionale
Gli eventi militari della primavera e dell’estate 1918 si rivelarono decisivi per i destini dell’Impero asburgico. Il fallimento dell’offensiva
sul fronte italiano nel giugno, la terribile carestia che affamava le popolazioni dell’Impero, il divampare dei nazionalismi secessionisti, indebolirono fatalmente l’Austria-Ungheria171. Il ritiro della Bulgaria
dalla guerra alla fine di settembre aggravò la situazione militare dello Stato austro-ungarico. Il potere centrale divenne sempre più vacuo
e debole. Di fronte alla crisi, il 16 ottobre, desideroso di accattivarsi
la benevolenza degli Stati Uniti e di riuscire a negoziare un armistizio favorevole, l’imperatore Carlo annunciò con un proclama che la
parte austriaca dell’Impero sarebbe stata riorganizzata in una comunità federale di Stati nazionali. Ma era ormai troppo tardi per riformare lo Stato e frenare il processo di disintegrazione; il proclama imperiale, anzi, accelerò le spinte secessionistiche. Nel corso di ottobre
nelle varie regioni dell’Impero si costituirono autorità politiche indipendentiste. A Zagabria si formò un Consiglio Nazionale iugoslavo
che, il 29 ottobre 1918, proclamò il distacco della Croazia dal Regno
d’Ungheria ed assunse il governo di tutti i territori abitati da slavi del
sud già appartenenti all’Impero asburgico (Croazia-Slavonia, BosniaErzegovina, Dalmazia e Istria), in attesa dell’unione con la Serbia172.
Nelle settimane successive si ebbero negoziati fra il Consiglio Nazionale di Zagabria, il governo di Belgrado e il Comitato iugoslavo di
Londra, che portarono alla proclamazione del Regno dei Serbi, Croati
e Sloveni (SHS), guidato dalla dinastia Karadjordjevic! e con un’amministrazione centralizzata, il 1° dicembre173.
171 MAY, op. cit., II, p. 716 e ss.; ?EPIC!, Sudbinske Dileme, cit., III, p. 7 e ss.; EDMUND
GLAISE HORSTENAU, Il crollo di un Impero, Milano, 1935, p. 196 e ss.; BIONDICH, op. cit., p. 132
e ss.
172 MAY, op. cit., II, p. 779 e ss.; ?EPIC!, Sudbinske Dileme, cit., III, p. 109 e ss.;
HORSTENAU, op. cit., p. 318 e ss.
173 Sugli eventi politici nei territori iugoslavi dell’Austria-Ungheria nel 1918 e sulla costituzione e i primi mesi di vita del Regno SHS: BOGDAN KRIZMAN, Hrvatska u prvom svjetskom ratu. Hrvatsko-srpski politic#ki odnosi, Zagreb, 1989; IVO J. LEDERER, La Jugoslavia dalla conferenza della pace al trattato di Rapallo 1919-1920, Milano, 1966, pp. 57-67; JOZE#
PIRJEVEC, Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992. Storia di una tragedia, Torino, 1993,
p. 15 e ss.; ALEKSANDAR JAKIR, Dalmatien zwischen den Weltkriegen. Agrarische und urbane
Lebenswelt und das Scheitern der jugoslawischen Integration, München, 1999, p. 86 e ss.;
JOHN R. LAMPE, Yugoslavia as History. Twice there was a Country, Cambridge, 2000, p. 101
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
51
A partire dall’ottobre 1918 il Consiglio Nazionale di Zagabria rivendicò il controllo e la sovranità sulla Dalmazia: creò un governo regionale provvisorio per la Dalmazia con sede a Spalato, il quale il 30
ottobre assunse la gestione degli affari della provincia. Nelle città dalmate si costituirono comitati iugoslavi dipendenti da Spalato e da
Zagabria174. Dopo il proclama di Carlo d’Asburgo, a Spalato, a Sebenico e a Zara il governo austriaco lasciò le città, le fortificazioni e gli
armamenti in mano ai comitati iugoslavi locali. Solo a Zara si creò
un’autorità politica alternativa: il 31 ottobre Ziliotto, da alcuni mesi
liberato dall’internamento, proclamò insieme ad altri ex consiglieri comunali italiani l’assunzione dei poteri in città da parte del neocostituito Fascio Nazionale Italiano, rivendicando l’autorità che era stata
propria del destituito podestà e del disciolto Consiglio comunale di
Zara, fino al 1916 controllato dal partito autonomo-italiano175. Di fatto, però, fino all’arrivo delle truppe italiane a Zara il 4 novembre, il
potere di amministrazione nella città venne gestito dai rappresentanti
locali del governo dalmata iugoslavo, Jerko Machiedo e Stefano
Metlic#ic!. Pure nelle altre città dalmate, dalle ceneri del vecchio partito autonomo-italiano vennero fondati vari Fasci Nazionali Italiani, che
inevitabilmente entrarono in contrasto con i comitati nazionali iugoslavi, che avevano assunto il potere di governo in tutta la Dalmazia. Il
3 novembre Ziliotto promulgò a nome del Fascio Nazionale Italiano
di Zara un proclama che apertamente affermava la volontà dei dalmati
italiani di essere uniti all’Italia:
Italiani della Dalmazia! Il nemico più grande della nostra patria, quello
che le impedì per secoli di assurgere a dignità di nazione, e anche più tardi
inceppò il suo naturale svolgimento, ritenendo fra i suoi artigli parti integranti
di essa, è crollato. L’ora dell’integrazione d’Italia, l’ora della grandezza
d’Italia è suonata176.
Abilmente Ziliotto inserì nel proclama anche un appello alla fra-
e ss.; STEVAN K. PAVLOWITCH, Yugoslavia, New York, 1971, p. 53 e ss.; HRVOJE MATKOVIC!,
Povijest Jugoslavije 1918-1991, Zagreb, 1998; DUS#AN BILANDZ#IC, Hrvatska Moderna Povjiest,
Zagreb, 1999, p. 60 e ss.; ATTILIO TAMARO, Origini e Crisi della Jugoslavia, in ID., La lotta
delle razze nell’Europa danubiana, Bologna-Roma, 1923, pp. 157-256.
174 Al riguardo: «Novo Doba», 29 ottobre 1918, Velike narodne manifestacije u Splitu.
175 D’ALIA, op. cit., p. 153 e ss.; DE BENVENUTI, Storia di Zara, cit., p. 172 e ss.
176 Una copia del proclama di Ziliotto del 3 novembre è conservata in ASMAE, Carte
Salata, b. 226. Il proclama è stato edito in DE BENVENUTI, Storia di Zara, cit., pp. 174-175.
52
LUCIANO MONZALI
tellanza italo-slava e un auspicio affinché si realizzassero pure i sogni
iugoslavi di libertà e indipendenza.
Per il cadere della tirannide, sorge a libertà accanto a noi un altro popolo che, soltanto per le perfide suggestioni del comune oppressore, per oltre
mezzo secolo aveva potuto apparire il nostro reale nemico. Ma snebbiata ora
dal sangue, che lo stesso tiranno fece scorrere a torrenti, la caligine della nostra mente, anche noi Italiani della Dalmazia facciamo voti che il popolo slavo assurto a libera nazione, cresca e prosperi e, in istretta unione con la nazione nostra, porti il suo valido contributo alla civiltà del mondo177.
Di fronte all’offensiva italiana, lanciata il 24 ottobre, l’esercito
asburgico, dopo un’iniziale resistenza, si disgregò: ormai consapevoli della fine dell’Impero, i soldati asburgici, stanchi, esausti ed affamati, cominciarono a defluire disordinatamente ai propri luoghi d’origine178. Il conflitto militare cessò ufficialmente con la firma dell’armistizio a Villa Giusti il 3 novembre e la sua entrata in vigore il 4179.
Fin dall’ottobre il governo italiano aveva cominciato a progettare la
possibile conquista della Dalmazia180, affidando alla Marina il compito di organizzare i preparativi a tale riguardo. Di fronte all’incertezza
dell’esito delle operazioni militari, innanzitutto il governo di Roma
puntò ad ottenere in Dalmazia il controllo di gran parte delle isole riservate all’Italia dal patto di Londra, rimandando una possibile occupazione della terraferma181. La situazione mutò radicalmente il 29 ottobre quando il governo di Vienna chiese al Comando Supremo italiano l’inizio di trattative per concludere un armistizio generale. Il 31
ottobre al Consiglio Supremo interalleato a Parigi, invocando l’applicazione dei princìpi stabiliti per il futuro armistizio con la Germania,
Orlando e Sonnino riuscirono ad ottenere il consenso alleato all’occupazione italiana di tutti i territori racchiusi dentro la linea contem-
177
Ibidem.
Sulla crisi e la disintegrazione dell’esercito asburgico sul fronte italiano: GLAISE
HORSTENAU, op. cit., p. 344 e ss.; RONALD W. HANKS, Il tramonto di un’istituzione. L’armata
austro-ungarica in Italia (1918), Milano, 1994, p. 237 e ss.
179 Testo dell’armistizio con l’Austria-Ungheria, firmato il 3 novembre 1918, in FRUS,
The Paris Peace Conference, 1919, II, pp. 175-182. Sulla genesi dell’armistizio: MAY, op. cit.,
II, p. 798; MARIA GRAZIA MELCHIONNI, La vittoria mutilata. Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della Grande Guerra (ottobre 1918-gennaio 1919), Roma, 1981;
LEDERER, op. cit., p. 55 e ss.
180 MELCHIONNI, La vittoria mutilata, cit., p. 26 e ss.
181 Ivi, p. 39 e ss.
178
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
53
plata nel patto di Londra, pur senza ricevere il riconoscimento anglofranco-americano del diritto ad una loro annessione182. L’applicazione
del patto di Londra sul piano armistiziale era comunque – come ha
notato Maria Grazia Melchionni – un grosso successo diplomatico
dell’Italia.
Alla fine della guerra la diplomazia italiana non ottenne, dunque, il riconoscimento americano del trattato di Londra, né accordi prearmistiziali che
pregiudicassero il regolamento della pace futura, ma semplicemente l’occupazione militare alleata di quasi tutti i territori contesi. Carente sotto il punto di vista di una completa garanzia del soddisfacimento degli scopi di guerra del Governo, il risultato diplomatico raggiunto il 31 ottobre appare, tuttavia congruo rispetto ad esso se si tiene conto che con lo strumento armistiziale l’Italia acquisiva il diritto d’insediarsi militarmente in zone delle quali
secondo il patto di Londra sarebbe entrata in possesso solo dopo la conclusione del trattato di pace e che, ciò facendo, avrebbe imposto un’ipoteca di
fatto sulle terre promesse da aggiungere a quella giuridica iscritta nel 1915183.
Ottenuto il consenso degli alleati e firmato l’armistizio con l’Austria, all’inizio di novembre le truppe italiane procedettero all’occupazione dei territori riservati all’Italia dal patto di Londra e dalle clausole armistiziali. La Marina predispose l’invio di navi da guerra in
Dalmazia destinate ad assicurare la presa di possesso dei territori in
questione. A bordo di queste navi vi erano anche dalmati italiani arruolati nella Marina, aventi l’incarico di aiutare le truppe italiane nel
contatto con le popolazioni locali. Nella prima fase delle occupazioni adriatiche la Marina si preoccupò di assumere il controllo della gran
parte delle isole dalmate e dei principali centri urbani costieri, importanti strategicamente e comprendenti i maggiori nuclei italiani in
Dalmazia. Il 4 novembre la Marina prese possesso delle isole di
Lissa/Vis, Lagosta/Lastovo, Melada/Molat, Curzola. Lo stesso giorno
Zara fu occupata dall’equipaggio della torpediniera 55 OS, comandata dal capitano di corvetta De Boccard. L’ufficiale italiano, accolto alla banchina da Luigi Ziliotto, dichiarò la presa di possesso di Zara in
mezzo alle manifestazioni di esultanza e profonda commozione dei cittadini zaratini184. Il giorno successivo il Consiglio comunale fu rein182 DDI, V, 11, Conferenza interalleata, 29, 30, 31 ottobre 1918, dd. 776, 784, 791;
MELCHIONNI, La vittoria mutilata, cit., p. 43 e ss.
183 MELCHIONNI, La vittoria mutilata, cit., p. 59.
184 ASMAE, ARC POL 1915-1918, b. 70, DE BOCCARD, Rapporto di Missione, 5 no-
54
LUCIANO MONZALI
tegrato nei suoi poteri e il podestà Ziliotto diffuse un proclama che
chiedeva l’annessione della città all’Italia. Per alcuni giorni la situazione rimase alquanto tesa. De Boccard aveva a sua disposizione esclusivamente 66 soldati ed aveva preso possesso del solo centro urbano,
mentre nel contado zaratino continuava a sussistere l’amministrazione iugoslava. Il 4 novembre i rappresentanti del governo iugoslavo presentarono all’ufficiale una formale protesta contro l’occupazione italiana della città, dichiarando che «la città di Zadar è, di fatto e di diritto, una parte integrante dello Stato dei Serbi-Croati-Sloveni che si
è già proclamato indipendente»185. Fra il 4 e il 6 il comitato iugoslavo locale cercò di contrastare l’occupazione italiana e l’azione di
Ziliotto, ma il 7, con l’arrivo del cacciatorpediniere Audace e di nuove truppe, il controllo italiano della città si consolidò. La tensione nella città e nel distretto circostante, però, rimase forte. Il 7 novembre De
Boccard scriveva al suo comando a Venezia:
L’apparente tranquillità e cordialità dei rappresentanti del Governo jugoslavo maschera una ostilità che si fa sempre più manifesta. […] Al Governo
provvisorio nazionale jugoslavo di Zara fa capo un’organizzazione che nelle campagne tende a formare una guardia nazionale armata che dovrebbe opporsi alla nostra occupazione. […] Ieri giungevano continue notizie di una
rivolta che doveva essere fomentata dentro e fuori città, con lo scopo di rigettare a mare le nostre poche forze prima che potessero giungerne altre maggiori186.
Secondo De Boccard, i capi iugoslavi zaratini, in realtà, avevano
rinunciato all’idea della conquista della città con la forza, limitandosi ad agire nelle campagne vicine; ma ogni potenziale minaccia sarebbe
vembre 1918, allegato a Capo di Stato maggiore della Marina alla Presidenza del Consiglio
e al Ministero degli Esteri, 12 novembre 1918. Questo rapporto è stato pubblicato in OA, pp.
104-107. Si veda anche: DE BENVENUTI, Storia di Zara dal 1797 al 1918, cit., p. 175; SILVIO
DELICH, Le grandi giornate di Zara redenta, «L’Idea Nazionale», 19 novembre 1918; TULLIO
VALLERY (a cura di), Zara nel cinquantenario della redenzione 4 novembre 1918-1968,
Venezia, 1968.
185 OA, pp. 107-108, Machiedo a De Boccard, 4 novembre 1918. Sulle reazioni iugoslave all’occupazione italiana: «Novo Doba», 7 novembre 1918, Prosvjed Nar. Vijec!a proti
talijanskoj okupaciji; FRUS, The Paris Peace Conference, 1919, II, Dodge a Lansing, 12 novembre 1918, pp. 287-291; ivi, Stovall a Lansing, 13 novembre 1918, p. 291; TAMARO,
Raccolta di documenti, cit., dd. 21, 22, 23; LEDERER, op. cit., p. 79 e ss.; BOGDAN KRIZMAN,
Talijanska okupacija na Jadranu i misija A. Tresic!-Pavic#ica 1918 God., Zara, 1967, estratto.
186 OA, pp.111-113, De Boccard al comando in capo della piazza marittima di Venezia,
7 novembre 1918.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
55
svanita solo «quando vi fossero a Zara circa 500 soldati»187.
Le occupazioni delle isole di Lissa, Lagosta, Melada e Curzola non
provocarono difficoltà ed incidenti188. Le truppe italiane trovarono in
queste isole neo-costituiti comitati nazionali iugoslavi, che avevano assunto il governo dalle decadute autorità asburgiche: questi comitati dichiararono la loro contrarietà all’occupazione italiana, ma non organizzarono alcuna forma di opposizione violenta. Le popolazioni isolane parvero alle truppe italiane tranquille ed abbastanza indifferenti,
ma soggette all’influenza dei gruppi politici iugoslavi, più forti e con
maggiore consenso politico rispetto ai Fasci Nazionali Italiani. Sul piano sociale le comunità isolane si mostravano evolute ed organizzate,
anche se duramente provate dagli anni di guerra: il conflitto bellico e
la crisi dello Stato asburgico avevano provocato scarsità di viveri, di
generi di prima necessità e di medicinali189.
Il 6 novembre alcune unità navali italiane, guidate dal capitano
Monroy, sbarcarono a Sebenico. L’accoglienza della popolazione, in
maggioranza croata, fu alquanto ostile. A capo di poche truppe e timoroso d’incidenti, Monroy preferì rimandare la proclamazione ufficiale della presa di possesso della città190. Rinforzi giunsero l’8 novembre con lo sbarco delle truppe guidate dal contrammiraglio Leopoldo Notarbartolo. Dopo negoziati con i capi del comitato iugoslavo di Sebenico, Smolc#ic!, Stoijc!, e con il presidente del governo di
Dalmazia, Krstelj, Notarbartolo proclamò il 9 la presa di possesso e
l’occupazione della Dalmazia fino al Capo Planka da parte dell’Italia
a nome delle potenze dell’Intesa e degli Stati Uniti d’America191. Nel
corso delle settimane successive la Marina italiana prese possesso di
187
Ibidem.
Le direttive politiche che le forze di sbarco dovevano eseguire erano le seguenti:
«L’occupazione delle isole riveste carattere politico e di affermazione atta a porre in rilievo i
nostri diritti intorno all’assetto definitivo delle Curzolane. La S.V. curerà di stabilire rapporti cordiali ed amichevoli con le autorità civili e militari, astenendosi da ogni dichiarazione riguardante gli scopi dell’occupazione e la sorte delle isole, assicurando che anche essa sarà
oggetto di accordi pacifici improntati a sensi di giustizia. Dovrà essere evitato assolutamente qualsiasi provvedimento ostile, sempre che non reso necessario da ragioni di sicurezza del
nostro presidio o come ritorsione ad atti ostili. La S.V. potrà prendere tutti i provvedimenti
che riterrà del caso per il benessere ed il soccorso della popolazione ed è autorizzato anche
a distribuire viveri, medicinali, ecc.» (OA, pp. 121-122, Comando in capo dell’Armata navale a tenente di vascello Sportiello, 2 novembre 1918).
189 OA, pp. 131-134, Filippini al comando dell’esploratore Sparviero, 4 novembre 1918;
ivi, pp. 139-140, Mongiardini al comando superiore navale dell’Albania, 9 novembre 1918.
190 OA, pp. 218-223, Monroy al comando in capo dell’armata navale, 9 novembre 1918.
191 OA, pp. 224-230, Notarbartolo al Ministero della Marina, 10 novembre 1918.
188
56
LUCIANO MONZALI
altre isole della Dalmazia settentrionale e centrale: il 13 novembre venne occupata parte dell’isola di Lesina, ovvero i centri di Lesina e
Cittavecchia; il 21 novembre le truppe italiane presero possesso di
Pago/Pag192. L’opposizione all’occupazione italiana si manifestò più
vivace nella città di Lesina, continuando anche nei mesi successivi. A
tale riguardo il capitano di corvetta Francesco Filippini rilevò:
Trovai i notabili completamente preparati a fare ogni specie di ostruzionismo nascosto e palese. Evidentemente lo stretto contatto telegrafico, i consigli, le informazioni e i risultati della esperienza dei comitati delle altre città
e delle altre isole da noi successivamente occupate avevano dato loro modo
e tempo di prepararsi, a cominciare dallo spiegamento pomposo di innumeri bandiere jugoslave e serbe su case, su lampioni, su picchi di monti. […]
Fra i più violenti ed intransigenti trovai i preti, i quali pur non azzardando venire a diretta discussione con me, si aggiravano tra la folla e si scalmanavano in consigli evidentemente italofobi193.
Molto più facili furono le occupazioni di isole come Cherso e
Lussino, dove la metà della popolazione era italiana. La presenza d’importanti comunità italiane convinse la Marina a procedere anche all’occupazione di Veglia e di Arbe. Queste due isole non erano state rivendicate dall’Italia nel patto di Londra, verosimilmente per non soffocare il futuro sbocco al mare della Croazia o dell’Ungheria a Fiume.
L’occupazione di queste isole non era stata prevista dalle clausole armistiziali. La volontà della Marina di occupare tutte le isole della
Dalmazia settentrionale e le invocazioni d’aiuto da parte dei capi degli italiani locali convinsero il governo di Roma a consentire l’intervento. Ricevuto un telegramma del podestà italiano della città di
Veglia, Petris, Orlando, d’accordo con Diaz, autorizzò l’occupazione
dell’isola per «motivi di ordine pubblico», ordinata dall’ammiraglio
Cagni il 15 novembre194. Fin dai primi giorni si definirono quelle che
sarebbero state le caratteristiche della situazione politica a Veglia negli anni dell’occupazione italiana. La cittadina di Veglia era totalmente
italiana, mentre gli altri paesi e le campagne dell’isola erano a netta
maggioranza croata. La popolazione croata si dimostrò decisamente
192 Al riguardo: DE BENVENUTI, Storia di Zara, cit., p. 175; «Novo Doba», 5 novembre
1918, Okupacija nekih otoka i Zadra; ivi, 8 novembre 1918, Talijanska vojska u Dalmaciji.
193 OA, pp. 298-301, Filippini al comando dello Sparviero, 13 novembre 1918.
194 Il memoriale del Comune e del Fascio Nazionale Italiano di Veglia è edito in TAMARO,
Raccolta di documenti, cit., d. 28; OA, p. 304 e ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
57
ostile all’occupazione ed era guidata dal clero cattolico locale, tutto
anti-italiano, eccetto il parroco di Veglia, di sentimenti moderati195. Nei
mesi successivi i sacerdoti cattolici furono l’anima dell’opposizione,
svolgendo un’intensa propaganda a favore dell’appartenenza dell’isola
di Veglia al Regno iugoslavo196. Per sedare l’opposizione del clero vegliota, le autorità militari italiane prima invocarono un intervento moderatore della Santa Sede, poi decisero di espellere da Veglia il vescovo
della diocesi, monsignor Mahnic!, che fu costretto a rimanere ospite
del Vaticano a Roma per molti mesi197. L’occupazione di Arbe198 seguì modalità simili a quelle di Veglia. A differenza di Veglia, Arbe era
appartenuta amministrativamente alla Dalmazia asburgica, e ciò aveva contribuito al declino politico dell’elemento italiano, molto forte
nel centro urbano di Arbe, mentre la campagna era compattamente
croata199. Fin dall’inizio di novembre il comitato nazionale italiano di
Arbe, guidato da Doimo Lauro Galzigna, Enrico Macaus, Spiridione
Svircich e Giorgio Palcich, inviò messaggi a Ziliotto e al capo di Stato
maggiore della Marina, Thaon di Revel, affermando l’italianità millenaria di Arbe e la necessità che l’isola fosse occupata200. Ricevuta
notizia di possibili violenze anti-italiane l’ammiraglio Cagni procedette all’occupazione dell’isola il 26 novembre.
Nel frattempo, il 14 novembre il governo italiano istituì la carica
di comandante in capo militare marittimo nella Dalmazia e nelle Isole
Dalmate e Curzolane. A ricoprire la carica di governatore della Dalmazia, su proposta del capo di stato maggiore della Marina Revel, fu nominato il vice ammiraglio Enrico Millo. Millo era nato a Chiavari nel
195
OA, pp. 306-307, rapporto del comandante Mercalli, s.d., ma 15 novembre 1918.
196 AM, archivio di base, c. 1411, Cusani Visconti al Ministero della Marina, 22 settembre
1919.
197 Riguardo alla personalità di Mahnic! e il suo ruolo nelle lotte nazionali a Veglia durante il dominio asburgico: PAOLO BLASINA, Chiesa e problema nazionale, il caso giuliano,
1870-1914, in ANGELO ARA, EBERHARD KOLB (a cura di), Regioni di frontiera nell’epoca dei
nazionalismi Alsazia e Lorena/Trento e Trieste 1870-1914, Bologna, 1995, p. 145 e ss. Sulla
vicenda dell’esilio romano di monsignor Mahnic!: ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1305,
Monti a Sforza, 7 gennaio 1920; ibidem, Sforza a Monti, 10 gennaio 1920; ibidem, Sforza al
Ministero della Marina, 21 gennaio 1920; SCOTTÀ, La conciliazione ufficiosa, cit., II, p. 460
e ss.
198 Su queste vicende i ricordi di LAURO GALZIGNA, Venticinque anni di lotta per l’italianità di Arbe, San Marino, 1930, estratto.
199 Su Arbe anche: ONOFRIO FATTORI, Arbe-San Marino. Cronistoria, San Marino, 1943;
GIOVANNI BATTISTA CARDONA, L’isola di Arbe, «Le vie del mare e dell’aria», 1919, estratto.
200 Ad esempio: OA, pp. 317-318, Galzigna a Ziliotto, 1° novembre 1918. Si veda anche
il proclama degli italiani di Arbe edito in TAMARO, Raccolta di documenti, cit., d. 27.
58
LUCIANO MONZALI
1865201. Nel corso della sua carriera militare si era messo in luce come comandante di navi italiane in Somalia e, soprattutto, durante la
guerra di Libia, quando, nel luglio 1912, a capo di cinque torpediniere, era penetrato per 28 chilometri dentro lo Stretto dei Dardanelli. I
successi militari facilitarono le sue ambizioni politiche, che lo portarono ad essere nominato da Giolitti ministro della Marina nel luglio
1913, carica che occupò fino all’estate del 1914, e poi senatore. Millo
era politicamente in buoni rapporti sia con il gruppo sonniniano-salandrino che con Giolitti e Nitti. Questo spiega la sua permanenza ai
vertici militari della Marina anche nel corso della guerra. Millo, come il capo di stato maggiore della Marina, Paolo Thaon di Revel, autentico deus ex machina della Marina italiana in quegli anni202, era convinto dell’importanza della conquista della Dalmazia per la sicurezza
strategica italiana e si battè strenuamente per l’annessione all’Italia della costa dalmata occupata.
Millo giunse in Dalmazia il 14 novembre e ben presto decise di stabilire la sede del suo comando a Sebenico, che rimase tale fino alla
primavera del 1919 quando fu trasferita a Zara. La temporanea scelta
di Sebenico quale sede del governo dalmata confermava l’importanza
di quel porto per i capi della Marina italiana e manifestava chiaramente
la volontà di cercare di conservare il futuro controllo di tutta la Dalmazia rivendicata dall’Italia con il patto di Londra. Millo, innanzitutto,
s’impegnò a organizzare le strutture di governo. Progressivamente esautorò i comitati nazionali iugoslavi da ogni funzione politica ed amministrativa, pur tollerandone l’esistenza. Il mantenimento formale delle
istituzioni provinciali dalmate (la Dieta provinciale dalmata, la Corte
d’Appello), rappresentative sia della Dalmazia occupata dall’Italia che
di quella serbo-croata e spesso guidate da funzionari filo-iugoslavi, permise comunque all’opposizione iugoslava di conservare una rappresentanza anche istituzionale, in contrapposizione alle autorità italiane203.
Nelle località occupate le autorità italiane cercarono di mobilitare politicamente l’elemento italiano autoctono: molti esponenti del vecchio
partito autonomo-italiano, risorto nei Fasci Nazionali Italiani, vennero
nominati commissari civili o assunti alle dipendenze delle istituzioni
201 A proposito della biografia di Millo: OSCAR DI GIAMBERARDINO, L’ammiraglio Millo
dall’impresa dei Dardanelli alla passione dalmatica, Livorno, 1950.
202 Sulla figura di Thaon di Revel: GUIDO PO, Il grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel,
Torino, 1936.
203 Al riguardo: ASMAE, ACP, b. 20, Millo al Comando Supremo, 29 maggio 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
59
del governatorato204. Le leve del potere politico e amministrativo, comunque, rimasero sempre nelle mani dell’elemento militare. Le autorità italiane, poi, cercarono di mantenere al proprio servizio i funzionari già alle dipendenze dell’amministrazione statale asburgica.
L’incertezza, però, circa il futuro politico della Dalmazia occupata frenò
questa azione di coinvolgimento del personale burocratico asburgico,
poiché molti funzionari temevano rappresaglie al momento della cessione del territorio occupato al Regno SHS205.
Un problema grave nei primi mesi di governo di Millo fu quello
dell’estensione dell’occupazione. Per varie settimane l’occupazione
italiana non raggiunse tutti i territori dalmati riservati all’Italia dalle
clausole armistiziali. A causa delle poche truppe disponibili e probabilmente desiderando evitare gravi incidenti con le truppe serbe e le
milizie iugoslave, la Marina italiana si limitò ad occupare le città di
Zara e Sebenico e gran parte delle isole. Una vasta parte del retroterra della Dalmazia settentrionale rimase per tutto il mese di novembre
terra di nessuno, di fatto amministrata dai comitati nazionali iugoslavi dipendenti da Zagabria. Secondo Millo, la scarsità di truppe italiane presenti in Dalmazia imbaldanziva i circoli iugoslavi e li incoraggiava ad opporsi alla futura annessione all’Italia. Misura necessaria era
un largo spiegamento di forze italiane nel territorio occupato, innanzitutto nelle isole, nella costa e lungo le principali linee ferroviarie206.
Giunti i primi rinforzi richiesti, Millo procedette all’estensione dell’occupazione. Il 3 dicembre fu occupata Vodizze/Vodice, il 5
Scardona/Skradin, importante località non lontana da Sebenico207. Nei
giorni successivi truppe italiane presero ufficialmente possesso delle
isole di Murter (9 dicembre) e di Ugliano/Ugljan (14 dicembre).
Politicamente e militarmente delicata era la possibile occupazione del
distretto di Knin, costituito dai tre comuni di Knin, Dernis/Drnis# e
Promina. In questo distretto vi era una forte presenza non solo croata
ma anche serba, mentre le poche famiglie italiane che vi vivevano, co-
204
AM, archivio di base, c. 1173, Ferruzzi all’Ufficio del capo di stato maggiore della
Marina, 19 dicembre 1918.
205 AM, archivio di base, c. 1414, Perlini all’Ufficio del capo di stato maggiore della
Marina, 9 gennaio 1919.
206 AM, archivio di base, c. 1178, Millo al capo di stato maggiore della Marina, 18 novembre 1918.
207 AM, archivio di base, c. 1178, MAZZARELLA e SARLO, rapporto sull’arrivo a Scardona
del 3° battaglione 15° fanteria, del reparto arditi e di un reparto rr. Carabinieri, 6 dicembre
1918.
60
LUCIANO MONZALI
stituite da funzionari dello Stato e proprietari terrieri, erano concentrate nelle città di Knin e Dernis. Le popolazioni locali avevano costituito delle guardie nazionali a fini di autodifesa e lo stesso esercito serbo
aveva inviato alcune unità nella zona208. Fra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, dopo aver intimato all’esercito serbo di ritirare le proprie unità dai territori riservati dall’armistizio al controllo italiano, Millo
ordinò l’occupazione del distretto di Knin. Se l’occupazione di Dernis
(29 dicembre) e di Bencovaz/Benkovac (31 dicembre), centri a maggioranza cattolica e croata, procedette senza incidenti209, l’avanzata delle truppe italiane verso Knin si scontrò contro la resistenza armata di
forze irregolari e regolari serbe210. La resistenza fu sopraffatta con la
forza e il 1° gennaio 1919 Knin fu occupata. La reazione delle truppe
serbe fu sconfessata dagli alti comandi militari SHS e l’incidente non
ebbe pericolose conseguenze politiche211. In quelle settimane Millo consolidò ulteriormente la presenza militare italiana in Dalmazia, assicurandosi il completo controllo delle isole di Curzola (occupazione di
Blatta/Blato 16 dicembre) e Lesina (presa di possesso dei paesi di
Gelsa/Jelsa e Verbosca/Vrboska il 4 gennaio), nonché occupando stabilmente Obrovazzo/Obrovac (4 gennaio), Kievo/Kijevo (10 gennaio)
e le isole di Pasman/Pas#man (31 gennaio), di Eso/Iz# (12 febbraio) e di
Selve/Silba (20 febbraio)212. Per ragioni strategiche, ovvero al fine di
fissare le linee di difesa della Dalmazia italiana su posizioni geografiche favorevoli, il governo di Roma preferì rinunciare al controllo totale delle valli della Butisnica e della Zermagna, poste sulla frontiera
orientale e settentrionale del governatorato, che rimasero occupate dalle truppe serbe per una profondità di 24 e 12 chilometri213. Per vari mesi, comunque, Millo cercò di spingere il governo di Roma ad espan-
208
Per un’analisi politica e nazionale del distretto di Knin: Ferruzzi all’Ufficio del capo
di stato maggiore della Marina, 19 dicembre 1918, cit. Si veda anche: AM, archivio di base,
c. 1178, Millo al Comando supremo dell’Esercito e all’Ufficio del capo di stato maggiore
della Marina, 14 dicembre 1918.
209 AM, archivio di base, c. 1173, Millo a Ufficio del capo di stato maggiore della Marina,
29 dicembre 1918; OA, p. 335.
210 AM, archivio di base, c. 1178, Millo a Ufficio del capo di stato maggiore della Marina,
30 e 31 dicembre 1918. Sull’occupazione italiana della regione di Knin: DUSA
# N PLENCA
# , Kninska
Ratna Vremena 1850-1946. Knin, Drnis#, Bukovice, Ravni Kotari, Zagreb, 1986, p. 74 e ss.
211 AM, archivio di base, c. 1765, Millo al Comando supremo dell’Esercito e all’Ufficio
del capo di stato maggiore della Marina, 2 gennaio 1919.
212 OA, p. 337 e ss.
213 AM, archivio di base, c. 1765, Millo al Gabinetto della Presidenza del Consiglio, 25
gennaio 1920.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
61
dere l’occupazione italiana anche oltre le linee armistiziali. Era suo
convincimento che il futuro confine della Dalmazia italiana dovesse
essere portato «al Sud, alla Narenta, od almeno se ciò non sarà possibile, al corso del Cetina, comprendendo così nel nostro territorio
Spalato e Traù, nonché le isole prospicienti di Brazza, Solta, Zirona
Grande, Zirona Piccola e Bua»214.
L’argomento più forte – affermava Millo – che il maggiore erede dell’Austria, anzi l’Austria stessa rediviva sotto la maschera slava, adduca, non
ha valore. Tutto ciò che è storia, cultura, intraprendenza, la maggior parte delle aziende, è italiano, e se il sangue e la lingua italiana non appaiono subito
predominanti quando si visitano superficialmente queste terre, si è perché sono stati per lunghi anni conculcati, specie dal ’66 in poi dall’Austria215.
Sul piano del rapporto con le popolazioni della Dalmazia occupata, le autorità d’occupazione cercarono di conquistare il consenso dei
dalmati slavi, elemento maggioritario, puntando su iniziative che favorissero un deciso miglioramento delle condizioni di vita della gente locale. Molta importanza venne data all’istituzione di servizi sanitari efficienti, disponibili per tutta la popolazione. Poiché in certe zone della Dalmazia la carenza di generi alimentari durante la guerra aveva prodotto fame, si procedette alla distribuzione di viveri alle persone meno abbienti, distribuzione che venne istituzionalizzata216. Millo,
poi, puntò molto su una politica di stimolo dell’economia locale. La
Dalmazia era stata duramente colpita dal crollo dell’Impero asburgico: la fine dell’Austria aveva privato i contadini e i pescatori dalmati
dei principali mercati per i loro prodotti. Il governatorato, innanzitutto, cercò di sostenere gli agricoltori, con l’acquisto statale di prodotti locali, la chiusura del mercato dalmata alle esportazioni d’olio e di
vino provenienti dall’Italia e l’intensificazione dei commerci con la
Penisola217. A fini prettamente politici rispose pure il favorevole cam-
214 AM, archivio di base, c. 1178, Millo al Comando Supremo dell’Esercito, 20 dicembre 1918.
215 Ibidem.
216 Ad esempio: AM, archivio di base, c. 1177, GIOVANNI SQUILLANTE, Relazione sul comune di Comisa, isola di Lissa, 23 dicembre 1918; ivi, c. 1577, STALLO, Relazione circa l’azione svolta da questo comando durante l’occupazione italiana dell’isola di Lissa, 5 marzo 1921.
217 AM, archivio di base, c. 1765, Millo all’Ufficio dello stato maggiore della Marina,
15 gennaio 1919; Millo al Comando supremo dell’Esercito e all’Ufficio del capo di stato maggiore della Marina, 2 gennaio 1919, cit.
62
LUCIANO MONZALI
bio della corona austriaca rispetto alla lira italiana praticato in
Dalmazia. Desiderando facilitare la ripresa economica locale, si decise di mantenere valida la corona austriaca in tutto il governatorato
attraverso la stampigliatura (ovvero dando un proprio contrassegno alle corone austro-ungariche)218 e applicando un tasso di cambio fra la
corona e la lira non troppo sfavorevole per i possessori dalmati della
valuta dell’ex Impero asburgico.
Riguardo alle libertà civili, Millo cercò di conciliare il rispetto delle libertà fondamentali con l’esigenza di consolidare l’occupazione italiana, contestata da varie forze politiche croate e serbe e da larga parte del clero, ma mancò spesso di sensibilità politica e di fronte ad aperte contestazioni della sua autorità usò la mano pesante. Le autorità italiane lasciarono alle forze politiche serbe e croate una certa libertà associativa, consentendo l’esistenza d’istituzioni politiche e culturali iugoslave. Nel corso dell’occupazione italiana rimase attiva anche la
stampa iugoslava – ad esempio giornali come il «Narodni List» di Zara
–, anche se questa fu oggetto di una frequente azione di censura, in
conformità e continuità con la precedente legislazione e prassi asburgica219. Questa parziale libertà politica fu naturalmente sfruttata dai
gruppi filo-iugoslavi per manifestare la loro opposizione alla presenza italiana e il desiderio di essere uniti allo Stato iugoslavo. Da qui lo
svolgersi di dimostrazioni iugoslave, in particolare a Zara, Sebenico,
Lesina e nell’isola di Veglia, contrastate politicamente dai Fasci
Nazionali Italiani con manifestazioni di segno opposto220. In molte località, ad esempio a Zara, i sacerdoti cattolici e i preti ortodossi erano spesso alla guida dell’opposizione iugoslava221. Particolarmente
convinta e accanita fu l’opposizione nell’isola di Veglia.
Ad eccezione della cittadina di Veglia, italiana di sentimento e di origine, – rilevò un ufficiale italiano – tutto il resto dell’isola è in modo manife218 Sulla questione della stampigliatura delle corone austriache: OSCAR RANDI, La
Jugoslavia, Roma, 1925, p. 249 e ss.
219 AM, archivio di base, c. 1414, Ufficio del capo di stato maggiore della Marina al primo aiutante di campo del Re, al presidente del Consiglio e al ministro della Marina, 11 febbraio 1919.
220 Sull’opposizione iugoslava: AM, archivio di base, c. 1173, Picconelli al Comando militare marittimo di Zara, 3 dicembre 1918; ibidem, De Boccard a Millo, 4 dicembre 1918; ibidem, Ferruzzi all’Ufficio del capo di stato maggiore della Marina e al Governo della Dalmazia
e delle Isole Dalmate e Curzolane, 14 dicembre 1918.
221 AM, archivio di base, c. 1414, Perlini all’Ufficio di stato maggiore della Marina, 12
e 15 marzo 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
63
sto a noi ostile, ci considera come oppressori, e confida, anzi ha la certezza
che la nostra occupazione sarà temporanea. Preti e maestri lavorano nell’ombra a nostro danno. […] A Castelmuschio venne arrestato il segretario
comunale, sorpreso mentre tentava di asportare un tratto della nostra linea telefonica. Domenica scorsa a Dobrigno, quel comandante fece sciogliere una
comitiva di giovani che cantavano in croato inneggiando all’avvento iugoslavo. Le donne, sobillate dai preti, sono le più accanite contro di noi. Arrivano
al punto di rimproverare i poveri che accettano il rancio o l’elemosina dai nostri soldati […]222.
L’esistenza di un’opposizione organizzata progressivamente innervosì Millo223. Per stroncare i contestatori iugoslavi il governatore decise di ricorrere alle espulsioni dalla Dalmazia italiana e agli internamenti, cioè all’arresto degli oppositori e al loro invio in Italia in residenza obbligatoria o in campo di prigionia, nelle Marche o in Sardegna.
Nel marzo 1919 erano 80 i dalmati arrestati ed internati in Italia224. Così
Millo spiegò e giustificò l’uso dell’internamento politico.
L’internamento, ed ora che ho potuto allestire i locali, il confinamento degli jugoslavi e rinnegati che più si agitano per provocare disordini, dar luogo
a violenze, infrazioni di bandi, ecc., e che sono sospetti di preparare atti di
rivolta, bolscevismo, oppure che raccolgono adesioni per costituire bande armate o reclutare soldati per la Jugoslavia, è lo unico mezzo a mia disposizione per parare ai bisogni più impellenti del momento in queste terre travagliate da lotta feroce ed invelenita per gli alimenti che essa riceve dalla situazione politica europea. Molte volte mancano le prove per deferire al
Tribunale militare, ma si ha la convinzione della verità delle accuse riunite
da più lati mediante il servizio di informazioni: d’altra parte, un grande numero di processi politici nuocerebbe più degli internamenti perché darebbe
luogo a severe sentenze ad arte aspramente commentate dagli alleati […]225.
Di fatto, però, gli internamenti provocarono molte critiche sul pia222 AM, archivio di base, c. 1411, tenente colonnello Cornelio Dal Molin al Comando
in capo Alto Adriatico, 22 settembre 1919.
223 AM, archivio di base, c. 1178, Millo al Comando supremo e al capo di stato maggiore della Marina, 2 dicembre 1918; ivi, c. 1173, Millo al Comando supremo e al capo di
stato maggiore della Marina, 14 dicembre 1918.
224 AM, archivio di base, c. 3138, Sechi all’aiutante di campo del re, al presidente del
consiglio e al ministro degli Esteri, 19 marzo 1919. Circa le proteste iugoslave contro gli internamenti: «Novo Doba», 9 aprile 1919, O deportiranju iz Dalmacije u Italiju.
225 AM, archivio di base, c. 1414, Millo al presidente del Consiglio, al Comando supremo, al capo di stato maggiore della Marina e al Ministero degli Esteri, giugno 1919.
64
LUCIANO MONZALI
no internazionale, in particolare negli Stati Uniti, dove non si comprendeva come si potessero arrestare civili senza sottoporli a processo226. Per i nazionalisti iugoslavi gli internamenti erano una dimostrazione del carattere dispotico dell’occupazione italiana in Dalmazia.
Anche alcuni capi dei dalmati italiani ne criticarono l’uso. Ercolano
Salvi attaccò duramente Millo per avere fatto arrestare ed internare un
giovane spalatino, Plavko Lovric!, confuso per omonimia con un sospetto di atti anti-italiani. Il Lovric! morì di malattia nel campo di prigionia: secondo Salvi era assurdo, dopo la fine della guerra, arrestare un privato e trattarlo come un prigioniero di guerra, privandolo di
ogni mezzo di difesa legale personale227. Di fronte alle critiche internazionali, a partire dal giugno 1919 gli internamenti furono sempre
più rari e le autorità italiane progressivamente consentirono il ritorno
in patria di molti internati ed espulsi.
L’atteggiamento delle popolazioni dalmate verso l’occupazione italiana fu vario. In molte isole e nelle zone di campagna a grande maggioranza cattolica e croata gli abitanti si adattarono passivamente all’occupazione e non organizzarono alcuna forma di opposizione.
L’evoluzione interna del Regno SHS – con il crescente scontento di
croati e musulmani verso lo strapotere serbo –, la cattiva situazione
politica ed economica della Dalmazia iugoslava raffreddarono gli entusiasmi di molti dalmati slavi per la Serbia. Nel gennaio 1919, il comandante della piazza militare delle isole Curzolane, Piazza, constatava il crescere del consenso verso l’occupazione italiana.
Si può ritenere la situazione nelle isole come sensibilmente vantaggiosa
per noi con aumento notevole degli aderenti. È sintomatico come tutte le persone appartenenti a partiti dell’ordine e quelle più eminenti già austriache siano assai più favorevoli alla nostra occupazione stabile che non ad un’eventuale aggregazione al futuro Stato jugoslavo e che dato l’antagonismo secolare fra serbi e croati non pochi di questi ultimi non nascondano la loro simpatia verso l’Italia piuttosto che subire il dominio della Serbia228.
226 FRUS, The Paris Peace Conference, 1919, XII, Sherman Miles a Coolidge, 29 marzo 1919, pp. 492-496; DRAGAN R. ?IVOJINOVIC!, America, Italy and the Birth of Yugoslavia
(1917-1919), Boulder, 1972, p. 259 e ss.
227 Sulla controversia Millo-Salvi: ASMAE, ACP, b. 20, Millo al Comando supremo,
all’Ufficio del capo di stato maggiore della Marina e al Ministero degli Esteri, 31 maggio
1919, con vari allegati.
228 AM, archivio di base, c. 1414, Piazza a Millo, 10 gennaio 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
65
Millo si sforzò di presentare l’occupazione italiana in un’ottica fortemente conservatrice, come la garanzia della difesa dell’ordine e della stabilità sociale e politica; contemporaneamente cercò di sfruttare
la rivalità fra croati e serbi, presentando l’Italia come potenza cattolica e civile, che difendeva i dalmati slavi cattolici contro uno Stato balcanico ed arretrato quale la Serbia229. Secondo il governatore era una
strategia che raccoglieva successi nelle campagne.
In qualche località interna – comunicò Millo nel febbraio 1919 – si è verificato che mentre in una prima ricognizione delle nostre truppe venivano
dalla popolazione rifiutati i viveri offerti gratis, in altre ricognizioni successive i viveri sono stati accettati con entusiasmo. Ciò sta a dimostrare che la
massa della popolazione, semplice ed ignorante, non segue più le mene e le
minacce dei mestatori jugoslavi, man mano che si sente rassicurata dalla presenza delle nostre truppe, e che comincia a capire che dalla nostra occupazione ne verrà un sensibile miglioramento economico e morale per tutti. Le
simpatie per i serbi vanno sempre diminuendo, specialmente per motivi religiosi, essendo la più gran parte della popolazione slava apolitica. Anche a
Spalato la cittadinanza e il contado mostrano ripugnanza verso i serbi per la
diversità di carattere e di costumi ed anche per la povertà di questi ultimi e
per il loro contegno brutale230.
Diversa e più difficile era la situazione nei principali centri urbani, Zara e Sebenico, nella roccaforte serba di Knin ed in isole come
Veglia e Lesina, dove la popolazione aveva una lunga tradizione di partecipazione politica ed era più colta ed istruita. Qui il movimento filo-iugoslavo trovò consenso fra la borghesia croata e i ceti intellettuali
(i maestri, i funzionari provinciali e statali, i sacerdoti), nei quali la
passione nazionale slavofila e pancroata prevaleva sui timori per l’unione in uno Stato con una forte impronta ortodossa. A Zara231 i capi
del movimento iugoslavo erano Juraj Biankini, Uros Desnica, Jerko
Machiedo, Giuseppe Cortellazzo, il presidente del Gabinetto di Lettura
croato Giuseppe Toncic/Tonc#ic! e il prete ortodosso Milos Parenta; a
Sebenico Vincenzo Smolc#ic!, Marco Stoijc! e Nikola Subotic!232. Con229 Ad esempio: ASMAE, ACP, b. 20, Millo al Comando supremo, all’Ufficio del capo
di stato maggiore della Marina e al Ministero degli Esteri, 19 gennaio 1919.
230 ASMAE, ACP, b. 20, Millo all’Ufficio del capo di stato maggiore della Marina, 5 febbraio 1919.
231 Al riguardo anche DRAGAN ?IVOJINOVIC!, Politic#ko-ekonomske prilike u Zadru 1919
godine, «Zadarska Revija», 1969, n. 6, pp. 654-676.
232 ASMAE, ACP, b. 21, Ufficio del capo di stato maggiore della Marina al presidente
66
LUCIANO MONZALI
tro i nazionalisti iugoslavi si mobilitarono i dalmati italiani e italofili
(Millo definiva «italianizzanti» i dalmati italo-slavi regionalisti ed anticroati), che però presentavano divisioni al proprio interno. A Zara vi
erano dissidi, spesso di natura socio-economica, fra i ceti popolari e i
commercianti, e fra la vecchia classe dirigente liberale-autonomista e
i giovani nazionalisti più intransigenti. Più in generale, parte dell’elemento italiano si asteneva dal mobilitarsi politicamente per timore di
future rappresaglie iugoslave in caso di ritiro dell’Italia dalla Dalmazia.
Vi furono anche alcuni italiani che si dimostrarono ostili al progetto
di unione della Dalmazia all’Italia. Fu questo il caso di Girolamo Italo
Boxich, uno dei capi politici degli italiani di Zara prima del 1914, che
dopo la guerra contestò la strategia irredentistica di Ziliotto, sostenendo la convenienza che tutta la Dalmazia rimanesse unita sotto la
sovranità iugoslava. Boxich, pericoloso politicamente per le autorità
militari italiane, fu fatto arrestare da Millo e inviato in Italia233, e dopo il trattato di Rapallo assunse la cittadinanza iugoslava. L’incertezza
sul destino politico della Dalmazia occupata indebolì le autorità italiane e spronò i comitati iugoslavi a continuare a sperare nella futura
unione con il Regno SHS. A questo riguardo notò Millo nel giugno
1919.
Il tatto degli ufficiali, la condotta dei soldati, molta indulgenza e clemenza
da parte di questo governo, ci avevano fatto acquistare di poi lentamente una
posizione favorevole sicché io pensavo che un plebiscito nell’estate 1919 ci
avrebbe arriso, quando la campagna di alcuni uomini politici e giornali italiani, qui molto letti, ha rovinato in gran parte la nostra opera di fede e di costanza. In seguito le notizie del Congresso di Parigi hanno contribuito ad ostacolarci, sicché abbiamo, come ho scritto e telegrafato, perso ora molto terreno che bisogna riprendere. Gli jugoslavi si sono ringalluzziti, gli italiani depressi, i dubbii e già simpatizzanti per noi, per timore delle minacciate rappresaglie future jugoslave, hanno fatto macchina indietro e non osano più avvicinarci234.
Di fatto, però, nonostante l’esistenza di un’opposizione organizzata, l’occupazione italiana non incontrò gravi difficoltà, paragonabili a quelle che l’Italia fascista avrebbe avuto in Dalmazia fra il 1941
del Consiglio e al ministro degli Esteri, 13 marzo 1919, con allegato.
233 ASMAE, ARC POL 1915-1918, b. 71, Millo al Comando supremo, 13 giugno 1919.
234 Millo al presidente del Consiglio, al Comando supremo, al capo di stato maggiore
della Marina e al Ministero degli Esteri, giugno 1919, cit.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
67
e il 1943. Gli aderenti al movimento unionista iugoslavo, così come i
sostenitori dell’annessione all’Italia, erano numerosi nei principali centri urbani, ma non riuscirono a mobilitare e coinvolgere le popolazioni delle campagne. Se i serbi, così come parte dei ceti cittadini croati filo iugoslavi, erano desiderosi di unirsi allo Stato iugoslavo, molti
dalmati croati e cattolici furono spaventati dall’evoluzione interna del
Regno SHS, dai primi mesi del 1919 caratterizzata dalla dura repressione governativa contro il movimento contadino croato dei fratelli
Radic! e il partito socialista: in questa ottica l’occupazione italiana era
vista da molti dalmati slavi e croati come un male minore. L’opposizione contro l’occupazione italiana, insomma, non si tramutò in un
movimento di massa diffuso in tutto il paese né si radicalizzò al punto da ricorrere a forme organizzate di lotta armata: ciò fu dovuto in
parte alle direttive moderatrici provenienti dal governo di Belgrado, il
quale temeva che conflitti militari in Dalmazia potessero provocare una
guerra contro l’Italia; ma soprattutto si spiega con il fatto che fra il
1918 e il 1921, diversamente che nel corso della seconda guerra mondiale, le autorità italiane non mirarono a sconvolgere e a mutare i valori e i caratteri della società dalmata e svolsero un’azione di governo più abile e pragmatica, desiderando raccogliere il consenso almeno passivo delle popolazioni sottomesse.
1.4. La città irredenta. Le lotte politiche e nazionali a Spalato nel
1918 e 1919
Conformemente a quanto previsto dall’armistizio fra l’Intesa, gli Stati
Uniti e l’Austria, Traù, Spalato e il resto della costa dalmata furono
escluse dalla zona d’occupazione italiana. Alla fine di ottobre in questa zona della Dalmazia il tracollo dello Stato asburgico portò alla temporanea assunzione del governo provinciale da parte di un comitato
locale guidato da Smodlaka, Tartaglia e Gajo Bulat, che proclamò l’unione della Dalmazia allo Stato serbo-croato-sloveno235. I nazionalisti
iugoslavi si dimostrarono molto ostili verso le forze militari italiane
che occuparono la Dalmazia, anche perché vi era il timore che inva235 «Novo Doba», 30 ottobre 1918, Split za Jugoslaviju; SMODLAKA, Zapisi Dra Josipa
Smodlaka, cit., p. 72 e ss. Per una ricostruzione, di taglio soprattutto socio-culturale, della
storia della società spalatina in quegli anni: ANATOLIJ KUDRIJAVCEV, Ša je pusta Londra …,
Split, 2002. Molte informazioni anche in JAKIR, op. cit.
68
LUCIANO MONZALI
dessero pure Spalato. Nel frattempo i proclami di Ziliotto e la volontà
dei dalmati italiani di lottare per l’unione con l’Italia provocarono un
inevitabile duro scontro politico fra i partiti iugoslavi e i Fasci
Nazionali Italiani236. La situazione divenne particolarmente difficile e
tesa a Spalato. La presenza di una numerosa popolazione italiana ben
organizzata politicamente nelle molte associazioni del vecchio partito autonomo-italiano, l’incertezza sulle future decisioni delle grandi
potenze, la presenza di navi alleate nel porto cittadino alimentarono
un clima di antagonismo nazionale fra italiani e iugoslavi che si sarebbe protratto per vari mesi. Ad aggravare la situazione, poi, concorse
il giungere a Spalato di centinaia di profughi iugoslavi provenienti da
Zara, Sebenico e dalle isole occupate, che rimasero nella città fino alla fine dell’occupazione italiana, divenendo il fulcro della continua
mobilitazione anti-italiana che caratterizzò la vita politica spalatina in
quegli anni. All’inizio di novembre, il partito autonomo-italiano spalatino, sciolto dall’Austria, si riorganizzò fondando il Fascio Nazionale
Italiano di Spalato, guidato da Leonardo Pezzoli, Antonio Tacconi237,
Edoardo Pervan e Stefano Selem. Sperando in una possibile occupazione italiana ed in una futura attribuzione della città all’Italia, il Fascio
Nazionale si mobilitò per affermare l’italianità di Spalato e rendere
pubblica la volontà degli italiani spalatini di essere uniti all’Italia. Il
9 novembre, all’arrivo di due cacciatorpediniere francesi a Spalato,
vennero esposte bandiere italiane da molte case e alcuni italiani si recarono al porto per celebrare le truppe dell’Intesa; la reazione iugoslava fu molto dura.
Sulle finestre delle case – riferirono i capi degli italiani spalatini – furono spiegate le bandiere dai colori nazionali. Alla guardia nazionale jugoslava ciò non andò a genio, sicché senz’altro irruppe nelle case, penetrò negli
appartamenti sfondando con violenza le porte delle abitazioni delle famiglie
che erano uscite fuori, danneggiando e asportando vari oggetti, minacciando
gli italiani che trovarono in casa, puntando le rivoltelle contro il petto di alcune distinte signore. Altre percossero coi pugni, strapparono le bandiere […],
le stracciarono le bruciarono sulla piazza principale. A dar animo ai dimostranti il comandante di una nave da guerra già austriaca e battente allora bandiera iugoslava, intimava col megafono alle abitazioni degli italiani site alla
236
«Novo Doba», 8 novembre 1918, Dva talijanska proglasa u Zadru.
Sulla figura di Antonio Tacconi: ILDEBRANDO TACCONI, Per Antonio Tacconi, in ID.,
Per la Dalmazia, cit., pp. 767-760; ID., Ricordiamo il Sen. Antonio Tacconi, ivi, pp. 824-827.
237
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
69
marina di togliere il tricolore italiano, che altrimenti avrebbero sparato238.
Era il primo di tanti incidenti e violenze che avrebbero dominato
la vita di Spalato per molti mesi. I capi italiani spalatini presentarono
una protesta formale al comando delle navi francesi, denunciando che
tali atti costituivano «una inaudita lesione del sentimento nazionale e
della libertà dei cittadini italiani di questa Città, e di quei nobili principi [che] informano la gloriosa opera dell’Intesa, nonché un insulto
alla bandiera della Nazione italiana, alla quale i sottoscritti sono superbi di appartenere»239.
Per timore di possibili ripercussioni internazionali e nei rapporti
con l’Intesa, le autorità municipali di Spalato furono costrette a presentare le proprie scuse formali per l’accaduto. In quei giorni
Smodlaka e i capi iugoslavi cercarono di convincere i dirigenti del
Fascio Nazionale Italiano a fare pubblica dichiarazione di fedeltà e accettazione dello Stato iugoslavo, ma ricevettero il rifiuto degli spalatini italiani, che chiaramente speravano nell’occupazione italiana della città. L’incertezza sul futuro della Dalmazia alimentò una crescente contrapposizione nazionale in seno alla società dalmata. I nazionalisti iugoslavi e il governo serbo protestarono contro l’occupazione italiana della Dalmazia settentrionale e chiesero che le truppe italiane fossero sostituite da una forza interalleata con la presenza americana, francese e britannica240. Iniziarono poi durissimi attacchi contro i capi dalmati italiani, accusati di essere traditori e austrofili241, e una campagna pubblicistica per dimostrare che la Dalmazia era una terra puramente slava. Tale era l’infatuazione per l’unione iugoslava che le truppe e i cetnici serbi furono accolti trionfalmente nelle città dalmate non
238 ASMAE, ACP, b. 20, FASCIO NAZIONALE ITALIANO DI SPALATO, Memoriale degli italiani di Spalato, febbraio 1919, allegato a Pezzoli, Tacconi e Pervan a Millo, 28 febbraio 1919.
Per una ricostruzione iugoslava di questi incidenti: «Novo Doba», 11 novembre 1918, Nakon
incidenta s talijanskom zastavom u Splitu. Echi dell’incidente anche in: FRUS, 1919, The Paris
Peace Conference, II, Page a Lansing, 21 novembre 1918, p. 308; «L’Idea Nazionale», 19 novembre 1918, La situazione a Spalato.
239 AM, archivio di base, c. 1182, Gastone degli Alberti, Giovanni Bettiza, Leonardo
Pezzoli, Silvio de Michieli Vitturi, Leonardo Guaina, Giovanni Gospodnetich, Alfredo Riboli,
Riccardo Savo, Bruno Mayer, Ernesto Seveglievich, Andrea Rados, Carlo Marincovich,
Antonio Tacconi, Edoardo Pervan, Giacomo Marcocchia, al comandante della Flottiglia francese nel porto di Spalato, 9 novembre 1918.
240 FRUS, 1919, The Paris Peace Conference, II, Stovall a Lansing, 13 novembre 1918,
p. 291; ivi, House a Lansing, 18 novembre 1918, pp. 297-298.
241 «Novo Doba», 13 novembre 1918, PERO CINGRIJA, Talijanska okupacija.
70
LUCIANO MONZALI
occupate dall’Italia242. Spalato divenne uno dei punti caldi dello scontro politico e diplomatico fra Italia e Stato iugoslavo, dove gli italiani locali erano in una posizione di debolezza e quindi più esposti alle provocazioni ed agli attacchi degli estremisti iugoslavi. Sotto la spinta delle notizie confuse e drammatiche che provenivano da Spalato,
nel corso di novembre sorse il grave problema del futuro della Dalmazia centrale, restata esclusa dall’occupazione italiana. Già il 5 novembre Ziliotto inviò a tale proposito una lettera a Foscari, sottosegretario alle Colonie e fin da prima della guerra in stretto contatto con
l’elite politica dalmata italiana, invitando il governo ad occupare tutta la Dalmazia centrale.
Da Spalato, la cui esclusione dal patto di Londra, è stata un colpo tremendo per quei nostri fratelli della classica città di Diocleziano e di
Bajamonti, la sorte dei quali le metto particolarmente a cuore, mi giungono
notizie assai gravi. Colà ci sono tutti i sintomi dell’anarchia, del bolscevismo
imminente, e sarebbe urgentemente necessaria almeno una occupazione provvisoria a tutela dell’ordine e della sicurezza degli abitanti di contro alla teppa, composta dei soldati, dei disertori armati, che ritornano e dominano i rispettivi paesi243.
Avuta notizia della lettera di Ziliotto, i dalmati italiani residenti a
Roma si riunirono d’urgenza nella sede dell’Associazione politica degli italiani irredenti e decisero d’inviare un telegramma a Orlando e
Sonnino, col quale chiesero che il governo proteggesse l’italianità dalmatica occupando immediatamente con proprie truppe le città della
Dalmazia244. Nelle settimane successive Ghiglianovich, gli esuli dalmati e numerosi politici italiani fecero pressioni pubbliche e riservate sul governo di Roma perché anche Spalato fosse occupata dall’Italia
o da truppe italiane e americane congiuntamente245. I capi dell’Associazione Nazionalista, Federzoni e Forges Davanzati, in particolare,
chiesero al governo che l’Italia imitasse il comportamento della
242
«Novo Doba», 20 e 22 novembre 1918.
AM, archivio di base, c. 1182, Ziliotto a Foscari, 4 novembre 1918. La lettera fu in
parte pubblicata in «L’Idea Nazionale», 13 novembre 1918, Sebenico e Spalato alla Madre
Italia.
244 Sebenico e Spalato alla Madre Italia, 13 novembre 1918, cit.
245 FRUS, 1919, The Paris Peace Conference, II, Ghiglianovich a Page, 30 novembre
1918, allegato a Page al Dipartimento di Stato, 6 dicembre 1918, pp. 322-323; AS BOLOGNA,
Carte Aldrovandi Marescotti, b. 506, Ghiglianovich a Aldrovandi Marescotti, 27 novembre
1918; DDI, VI, 1, Borsarelli a Sonnino, 1° dicembre 1918, dd. 419, 426.
243
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
71
Francia: come i francesi, oltre all’Alsazia Lorena, avevano occupato
tutta la Renania occidentale e tre teste di ponte sulla riva destra del
Reno, così l’Italia doveva assumere il controllo di tutta la Dalmazia
fino a Cattaro, per ragioni di sicurezza e di ordine e per proteggere le
popolazioni dalmate italiane246. Pure Thaon di Revel e Millo si dichiararono convinti della necessità di occupare Spalato e cercarono di
spingere il governo di Roma ad agire a tal fine. L’11 novembre Revel
scrisse ad Orlando riferendogli notizie degli incidenti anti-italiani di
Spalato del 9 e chiedendogli l’autorizzazione «di procedere rapidamente all’occupazione di Spalato e dintorni con truppe italiane-francesi-inglesi e degli Stati Uniti. Sarebbe in tal caso evidentemente vantaggioso per noi ottenere che il Comando fosse assunto da un ufficiale
italiano»247. Inizialmente Orlando si dichiarò d’accordo con l’idea di
Revel248, poi, timoroso del possibile scoppio di gravi incidenti fra italiani e serbi, preferì soprassedere e rinviare la questione al Comitato
interalleato degli ammiragli per l’Adriatico249. Il 23 novembre Millo
ricordò a Revel le persecuzioni di cui erano oggetto gli italiani di
Spalato e consigliò l’invio almeno di una nave da guerra in quel porto a tutela dei connazionali250. Il governatore della Dalmazia considerava ciò anche un mezzo per tenere viva la rivendicazione italiana sulla regione di Spalato.
Anche geograficamente, militarmente ed economicamente il confine della Dalmazia nostra dovrebbe essere (a sud e sud-est) il corso del Cetina, con
diritto di proprietà completo sulle sue acque, e dalle sorgenti di tale fiume al
punto più vicino della cresta delle Dinariche (Monte Dinara, m. 1831). La
vallata del Cetina è fra le più fertili, e alla foce, ad Almissa, vi è già un impianto della S.U.F.I.D251. Tutta la storia di quelle terre è storia nostra, come
è nostra la cultura, la classe dirigente ed intraprendente, tutto, meno la popolazione immigrata che per legge secolare, da barbara qual è, assimilerà la
civiltà latina che incontra nella sua atavica discesa al mare da levante a po-
246 «L’Idea Nazionale», 25 novembre 1918, commento ad ordine del giorno votato dal
gruppo nazionalista romano.
247 AM, archivio di base, c. 1182, Revel a Orlando, 11 novembre 1918.
248 AM, archivio di base, c. 1182, Orlando a Revel, 13 novembre 1918.
249 Sull’attività di questo comitato: ?IVOJINOVIC!, America, Italy and the Birth of
Yugoslavia, cit., p. 240 e ss.
250 AM, archivio di base, c. 1173, Millo all’Ufficio del capo di stato maggiore della
Marina, 23 novembre 1918, telegramma in gran parte edito in OA, p. 356.
251 La SUFID (Società anonima per l’utilizzazione delle forze idrauliche in Dalmazia)
era una società nata nel 1902 e proprietà di capitalisti italiani e austriaci.
72
LUCIANO MONZALI
nente, e rimarrà a sua volta assimilata dall’elemento nostro. Rimarrebbe alla Jugoslavia la Narenta, ecc. e la regione di Ragusa, Gravosa, ecc., che penso sufficiente a sbocchi importanti di un popolo, che si può dire nascente, e
non ben costituito252.
Nonostante le tesi di Millo, ispirate da una visione piena di pregiudizi e troppo rozza della società dalmata, il governo italiano scelse di seguire una politica prudente, evitando atti di forza unilaterali
che avrebbero potuto creare incidenti con l’esercito serbo ed aumentare la tensione nei rapporti con gli alleati. Per varie settimane il governo preferì evitare l’invio di una nave italiana a Spalato253. Fu solo
l’aggravarsi della situazione delle comunità italiane a Spalato e Traù
a convincere il governo ad inviare una nave. Fra novembre e dicembre lo scontro nazionale nella città di Diocleziano s’intensificò. Il 18
novembre con un’ordinanza il governo provinciale della Dalmazia impose a tutti i funzionari degli uffici pubblici il giuramento di fedeltà
allo Stato dei Serbi, Croati e Sloveni. Alcuni funzionari di nazionalità
italiana rifiutarono di prestare il giuramento poiché lo status politico
e giuridico della Dalmazia era ritenuto ancora provvisorio e «non si
trovavano per coscienza obbligati a prestarlo fino alla decisione definitiva da parte della Conferenza della pace». Ai primi di dicembre il
governo iugoslavo reagì privando questi funzionari di ogni ufficio ed
emolumento254. Il provvedimento colpì duramente il Fascio Nazionale
Italiano di Spalato, poiché la maggior parte dei suoi dirigenti era composta da funzionari statali che improvvisamente perdevano lavoro e
reddito: ad esempio, gli insegnanti Giacomo Marcocchia e Alessandro
Selem, i funzionari provinciali Alfredo Riboli, Andrea Rados, Carlo
Marincovich, Silvio de Michieli Vitturi, il giudice Ernesto Illich. La
tensione nella città crebbe progressivamente nelle settimane successive per poi culminare negli incidenti del 23 dicembre. La sede del
Fascio Nazionale Italiano a Spalato, il Gabinetto di Lettura, storica istituzione autonomista-italiana, fu attaccata da alcune decine di estremisti
nazionalisti iugoslavi e croati, armati di rivoltelle e guidati da Edoardo
Bulat, futuro gerarca ustascia. Gli aggressori danneggiarono i locali e
252
OA, pp. 356-357, Millo a Revel, 3 dicembre 1918.
archivio di base, c. 1173, Orlando a Revel, 11 dicembre 1918, in parte edito in
OA, p. 357.
254 OA, pp. 358-359, Pervan, Pezzoli e Tacconi a Millo, 3 dicembre 1918. Un elenco degli impiegati di nazionalità italiana destituiti per non avere giurato fedeltà allo Stato iugoslavo è conservato in AM, archivio di base, c. 1173.
253 AM,
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
73
imposero la chiusura dell’associazione, minacciando violenze in caso del futuro protrarsi dell’attività del sodalizio. Sempre in quelle ore
fu attaccata la Società Operaia, altra vecchia associazione autonomista, di tendenze socialiste ma a prevalenza italiana, con danni e minacce ai soci, e furono aggrediti numerosi italiani per le strade di
Spalato.
Ogni italiano che veniva incontrato per le vie e riconosciuto, veniva fermato e gli si ingiungeva di recarsi tosto a casa a scanso di maltrattamenti. Del
pari gruppi di dimostranti eccedettero contro i negozi di italiani portanti scritte in lingua italiana. Così dinnanzi al negozio del sig. Giuseppe Valle, radunatosi un gruppo di eccedenti, gli imposero di allontanare la scritta italiana,
ed in pari tempo lo chiusero dentro nel negozio. Anche i lastroni della ditta
«D. Savo», portanti scritte in lingua italiana, vennero ridotti in pezzi255.
Alcuni giorni dopo, il 6 gennaio 1919, scoppiarono altri incidenti
anti-italiani nella vicina Traù. Diffusasi la falsa notizia di un’avanzata dell’esercito italiano verso la cittadina dalmata, gruppi di facinorosi attaccarono e danneggiarono vari negozi ed abitazioni appartenenti
ad italiani di Traù256.
Di fronte al proliferare degli incidenti contro dalmati di nazionalità italiana, alla fine di dicembre il governo di Roma autorizzò l’invio di una nave da guerra a Spalato, l’esploratore Riboty, con l’incarico di soggiornare permanentemente nel porto cittadino257. Millo ordinò al comandante della nave di giustificare la propria presenza a
Spalato con l’esigenza di seguire direttamente l’opera di requisizione
del naviglio austro-ungarico situato in quel porto. Oltre a ragioni di
prestigio, cioè dimostrare lo status di grande potenza vincitrice con la
presenza di una propria nave militare nel principale porto della
Dalmazia iugoslava, l’invio dell’esploratore rispondeva a svariate esigenze politiche del governo di Roma: la protezione dell’elemento italiano locale, la raccolta di informazioni sulla situazione nella Dalmazia centrale ed un’attività di propaganda filo-italiana per mezzo di for-
255 ASMAE, ACP, CP., b. 20, Memoriale degli italiani di Spalato, febbraio 1919. Un cenno a questi incidenti in «Novo Doba», 24 dicembre 1918, Gradske Vijesti.
256 AM, archivio di base, c. 1444, Luigi Nutrizio a Millo, 7 gennaio 1919; ibidem, Millo
al Comando supremo, allo Stato maggiore della Marina e al Ministero degli Esteri, 9 gennaio 1919.
257 Al riguardo: OA, pp. 362-364; DDI, VI, 1, d. 496, Revel a Sonnino, 8 dicembre 1918;
ibidem, dd. 523, 678, 679.
74
LUCIANO MONZALI
niture gratuite di viveri e di concessioni di sussidi258. L’arrivo della nave italiana a Spalato – a partire dal 12 gennaio 1919 sostituita nelle
sue funzioni dall’incrociatore Puglia259 – irritò le autorità iugoslave e
tranquilizzò gli spalatini italiani, che sperarono di potere contare su
una maggiore protezione260. In effetti il governo iugoslavo, desideroso di evitare incidenti che potessero offrire un pretesto all’Italia per
estendere verso sud la propria occupazione, aumentò la vigilanza a
protezione della minoranza italiana. Ma la tensione nella città rimase
alta. La presenza di centinaia di profughi dalla Dalmazia settentrionale, pieni di rabbia e rancore contro l’Italia e i dalmati italiani, forniva lo strumento ideale per organizzare agitazioni e manifestazioni,
spesso violente. Fra dicembre e gennaio l’arrivo di una nave da guerra italiana a Spalato e l’avanzata delle truppe di Millo verso Knin e
Obrovazzo, innervosirono le autorità civili e militari iugoslave. Come
notò il console Roddolo, in servizio sulla Riboty:
Le nostre truppe che occupano mano mano i confini dell’armistizio e perciò si avvicinano a Spalato fanno credere agli Jugoslavi prossima una nostra
occupazione di quella terra, alla quale occupazione quasi certamente i reparti
serbi si opporrebbero con le armi261.
Se negli ambienti croati e iugoslavi spalatini crescevano i timori
circa il futuro, in quelli italiani rimanevano vive le speranze di una futura occupazione dell’Italia. Speranze alimentate dal governatore militare Millo, convinto della necessità di una futura redenzione nazionale della città di Spalato. Ancora il 7 marzo 1919 Millo si proclamò
sicuro che la maggioranza della popolazione di Spalato fosse a favore dell’annessione all’Italia. Lo stato di tranquillità creato dalla presenza delle navi alleate a Spalato aveva permesso «di constatare quanti siano effettivamente gli Italiani, quanti i partigiani dell’annessione
all’Italia, e quanta strada ha fatto fra quegli abitanti la convinzione che
258 OA, pp. 364-366, Millo al comando del Riboty, 28 e 29 dicembre 1918. Sulle reazioni iugoslave alla presenza navale italiana a Spalato: «Novo Doba», 28 dicembre 1918,
Gradske Vijesti.
259 Sull’attività del Puglia: GIULIO MENINI, Passione adriatica. Ricordi di Dalmazia 19181920, Bologna, 1925.
260 OA, pp. 369-372, Vettori a Millo, 30 dicembre 1918 e 1° gennaio 1919.
261 AM, archivio di base, c. 1444, brano di rapporto di Roddolo contenuto in Millo al
Comando supremo, all’Ufficio del capo di stato maggiore della Marina e al Ministero degli
Esteri, 6 gennaio 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
75
solo coll’Italia essi potranno avere un Governo stabile e sicuro, e godere di quella libertà che solo i popoli civili possono assicurare. Io non
esito ad assicurare che noi abbiamo oggi in Spalato e dintorni la maggioranza; e che solo in questi ultimi tempi vi è un poco da guardarsi
dalla continua emigrazione che dalla Balcania, cioè dall’al di là delle Dinariche, avviene con elementi torbidi e pericolosi. […] La società
operaia di Spalato che conta più di mille soci, di tinta socialista, è passata tutta a noi e pertanto, calcolando le famiglie, si arriva alle 8.000
teste alle quali bisogna aggiungere i Baiamontini, e gli italiani di classe elevata; tutto ciò di una popolazione che non arriva ai 20.000 abitanti in città. Aggiungo che solo il terrore delle rappresaglie, sempre
minacciate dagli Jugoslavi con sistemi abissini, trattiene altri anche di
razza croata, dal dichiararsi per noi; mentre la promessa dell’assegnazione delle terre ai contadini ha fatto volgere i proprietari all’Italia
come l’unica nazione che può dare solide garanzie di sicurezza»262.
Di fatto gli italiani di Spalato, da una parte, strumentalizzati da alcuni settori politici e militari italiani, dall’altra, visti da molti dalmati croati come istigatori delle mire espansionistiche dell’Italia263, finirono per essere le principali vittime delle tensioni nazionali in Dalmazia, oggetto di continue violenze ed aggressioni, senza avere concrete possibilità di autodifesa. Una nuova ondata di aggressioni contro gli italiani spalatini ebbe luogo in occasione della visita a Spalato
della Commissione interalleata per l’Adriatico, composta da un ammiraglio francese (Ratyè), un britannico (Kiddle), uno statunitense
(Niblack) ed un italiano (il contrammiraglio Ugo Rombo) il 24 febbraio 1919. Sparsasi la voce che il Fascio Nazionale Italiano volesse
organizzare una dimostrazione per testimoniare alla Commissione la
forza dell’elemento italiano in città, gruppi di nazionalisti iugoslavi
circondarono il Gabinetto di Lettura per molte ore bloccandone l’accesso, insultando e facendo dimostrazioni ostili contro coloro che cercavano di entrare o uscire; le proteste si tramutarono poi in violente
sassaiole contro il Gabinetto. Nel tardo pomeriggio i dimostranti si
spostarono verso altre parti della città:
Indi i dimostranti in fretta percorsero la città con le grida e i canti più scur-
262
DDI, VI, 2, d. 703, Millo a Delegazione italiana a Parigi, 7 marzo 1919.
In una conversazione con ufficiali della Puglia lo stesso vescovo di Spalato, ?aric!/Ciaric, accusò gli italiani irredenti di essere la fonte e gli istigatori dei contrasti fra dalmati e Italia: ASMAE, ACP, b. 20, Menini a Millo, 21 gennaio 1919.
263
76
LUCIANO MONZALI
rili di insulto e di minaccie agli italiani, al Re d’Italia ed alle persone più in
vista del locale partito italiano, sotto le finestre di ciascuno dei quali si inscenava una dimostrazione ostile. Essi si diedero quindi ad una caccia sfrenata agli italiani che trovarono per via. […] I dimostranti si diedero pure ad
aggredire i negozi degli italiani infrangendone le insegne e le vetrate264.
Nel corso delle dimostrazioni anti-italiane avvenute il 24 e il 25,
vennero aggrediti i dirigenti del Fascio Nazionale e alcuni ufficiali di
Marina italiani. Nel tardo pomeriggio del 24, di ritorno da una visita
al contrammiraglio Rombo a bordo della nave italiana Nino Bixio,
Leonardo Pezzoli, Antonio Tacconi, Stefano Selem, Edoardo Pervan
e Riccardo Savo, accompagnati dal comandante della Puglia, Menini,
e da un altro ufficiale, cercarono di entrare nel Gabinetto di Lettura,
ma vennero attaccati da gruppi di dimostranti ostili:
I 5 signori del Fascio e i due ufficiali italiani si trovarono sbarrato l’accesso alla gradinata dai dimostranti che li rispingevano violentemente indietro e si avventavano loro addosso, colpendoli con pugni, bastoni e ombrelli
e scagliando contro di loro anche dei sassi, due dei quali colpirono alla schiena il comandante della Puglia capitano di fregata Giulio Menini mentre il capo dello stato maggiore della nave ammiraglia capitano di fregata G. Alessioni
riceveva pure un colpo alla testa che gli faceva cadere il berretto. Il tutto era
accompagnato da grida di minaccia e di insulto, le più volgari ed oscene ad
essi ed alla Nazione Italiana265.
Se gli ufficiali riuscirono a rientrare nelle loro navi, i dirigenti del
partito italiano, mentre cercavano di tornare alle loro abitazioni provenendo dal porto, vennero nuovamente aggrediti:
In seguito ad energiche rimostranze il signor Dr. Pezzoli, il Dr. Tacconi
ed il fratello di questo Ildebrando riuscirono ad indurre le guardie a lasciarli passare oltre il cordone; ma appena ciò fatto, questo venne rotto dai dimostranti che si scagliarono loro addosso, finché beffeggiati e percossi a stento
riuscirono a ricoverarsi nell’andito della Dogana. Chiuso il portone i dimostranti fecero irruenza contro lo stesso, tentando più volte di sfondarlo e vi
piantonarono davanti per oltre un’ora, costringendo i tre signori a rimaner-
264 AM, archivio di base, c. 1444, Ufficio del capo di stato maggiore della Marina al presidente del consiglio e al ministro della Marina, senza data ma febbraio 1919. Questo documento riproduce la ricostruzione degli incidenti del 24 febbraio fatta dai capi del Fascio
Nazionale Italiano di Spalato.
265 Ibidem.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
77
sene rinchiusi nell’andito, continuamente minacciati e vilipesi, senza che nessun organo di sicurezza trovasse di intervenire onde proteggerli e liberarli266.
Di fronte alla gravità degli incidenti e alle proteste italiane, il
Comitato interalleato degli ammiragli emanò un proclama il 25 febbraio nel quale, constatata l’aggressione compiuta contro ufficiali appartenenti ad una delle Nazioni Alleate, venne affidato all’ammiraglio
americano di stanza a Spalato l’incarico di vigilare sul mantenimento dell’ordine in città attraverso l’uso di pattuglie interalleate. Furono,
poi, considerati atti contrari alle clausole dell’armistizio:
Ogni insulto alle Bandiere Alleate;
Ogni oltraggio con parole e con gesti verso gli ufficiali o marinai o soldati delle Nazioni Alleate;
Ogni assembramento tumultuoso;
Ogni manifestazione contraria agli Alleati;
Ogni attentato contro la libertà individuale e contro le proprietà private;
Ogni violazione di domicilio;
Qualunque rifiuto di ottemperare agli ordini delle Pattuglie267.
L’intervento delle potenze dell’Intesa e degli Stati Uniti migliorò
le condizioni di vita degli italiani di Spalato per alcuni mesi. Il governo
di Belgrado, ostile ad interferenze esterne nel suo territorio e desideroso d’impedire il sorgere di incidenti che avrebbero potuto provocare una completa occupazione interalleata o italiana della città, intensificò le misure di protezione all’elemento italiano per qualche mese.
Ma la città di Bajamonti sarebbe tornata ben presto al centro dello
scontro politico e nazionale fra italiani e iugoslavi.
266 Ibidem. Sugli incidenti del 24 febbraio si vedano anche: «Novo Doba», 25 febbraio
1919, Iskazi u Splitu; «L’Idea Nazionale», 4 marzo 1919, Spalato sotto il controllo degli Alleati.
I gravi fatti che provocarono il provvedimento; MENINI, op. cit., p. 80 e ss.; ILDEBRANDO
TACCONI, La grande esclusa: Spalato cinquanta anni fa, in ID., Per la Dalmazia, cit., pp. 917918.
267 ASMAE, ACP, b. 21, testo del proclama del Comitato interalleato degli ammiragli per
l’applicazione delle clausole dell’Armistizio in Adriatico, 25 febbraio 1919. Si veda anche
«Novo Doba», 26 febbraio 1919, Admiralsko priopc!enje; ibidem, Proglasi gradjanstvu.
Sull’azione del Comitato interalleato a Spalato in quelle settimane: ?IVOJINOVIC!, America, Italy
and the Birth of Yugoslavia, cit., p. 246 e ss.
78
LUCIANO MONZALI
1.5. Il dibattito politico italiano sulla Dalmazia
La vittoria militare dell’Italia, la dissoluzione dell’Impero asburgico
e l’occupazione italiana della Dalmazia settentrionale sembrarono confermare la bontà della linea politica perseguita da Ghiglianovich nel
corso della guerra, il suo stretto allineamento con le direttive del
Ministero degli Affari Esteri e la sua critica ad ogni affrettata rinuncia territoriale. Ma, paradossalmente, la vittoria bellica svelò apertamente le divisioni e le incertezze esistenti in seno alla classe dirigente italiana riguardo alla questione adriatica. Inebriati dal successo sull’avversario austriaco, molti politici e militari, nonché vasti settori dell’opinione pubblica, si convinsero che l’inaspettato crollo dell’Impero
asburgico offrisse nuove occasioni d’espansione da sfruttare pienamente: da qui il favore di molti all’ampliamento del programma di conquiste territoriali previsto dal patto di Londra, puntando anche all’annessione di Fiume, Spalato e di gran parte dell’Albania. Il gruppo politico che teorizzò e operò con più convinzione per ampliare il programma territoriale italiano nell’Adriatico fu l’Associazione Nazionalista268. Il deputato veneziano Piero Foscari era stato l’esponente nazionalista che con maggiore coerenza ed attenzione si era interessato
alla questione dalmatica fin dall’inizio del Novecento269. Alla fine del
1918 Foscari ribadì le sue vecchie tesi sulla necessità di conquistare
tutta la Dalmazia settentrionale e centrale in nome di esigenze di tutela nazionale e di sicurezza strategica. È interessante notare che
Foscari, innanzitutto, si considerava un patriota veneto: a suo avviso,
gli italiani d’Istria e di Dalmazia erano veneti, e quindi l’espansionismo adriatico dell’Italia, erede di Venezia, si giustificava con l’esigenza di unire tutti i veneti in un unico Stato270. Altra specificità di
Foscari – amico di Volpi e con lui animatore del consorzio d’imprenditori che aveva investito in Montenegro nel primo decennio del secolo – era la sua serbofilia.
Sarà bene affermare – dichiarò Foscari alla serbofoba Idea Nazionale –
268 Per una dettagliata analisi dell’azione politica più generale dell’Associazione
Nazionalista in quegli anni: ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit.
269 ARMANDO ODENIGO, Piero Foscari, Bologna, 1959; MONZALI, Italiani di Dalmazia,
cit., p. 256.
270 «L’Idea Nazionale», 20-21 settembre 1918, Le affermazioni adriatiche di Venezia.
“Patria di Veneti tutto l’Adriatico”. (Nostro colloquio con l’on. Foscari).
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
79
che io non soffro di alcuna fobia, e come me i veneti. Tengo anzi a ricordare il mio antico serbismo271.
Egli riteneva che l’annessione italiana della Dalmazia centro-settentrionale fosse perfettamente conciliabile con la realizzazione di larga parte delle rivendicazioni nazionali serbe e auspicava una futura riconciliazione con le nazioni iugoslave, in primis con serbi e montenegrini. Sotto lo stimolo di Foscari, Federzoni272 e Forges Davanzati273,
il nazionalismo italiano si fece sostenitore di una revisione in senso
espansionista del patto di Londra. Nel novembre 1918 Federzoni dichiarò che le conquiste italiane previste dal patto di Londra erano state il frutto di un negoziato con la Russia e che quindi costituivano «un
programma minimo».
Ma ora dal 1915 la situazione è mutata. La Russia è scomparsa; l’Italia
ha dovuto caricarsi sulle spalle un peso infinitamente maggiore di quello che
aveva previsto: e ha vinto magnificamente la guerra, decidendo l’esito del
conflitto mondiale. Il confine imposto all’Italia nel patto di Londra è assolutamente inaccettabile; l’Italia non deve avere altro confine che le Dinariche274.
In quei mesi in seno al partito nazionalista e fra gli irredentisti dalmati a esso vicini (Dudan, Cippico, Ruggeri) furono presenti due tendenze. La prima, massimalistica, per esempio rappresentata da Alessandro Dudan, chiedeva che l’Italia realizzasse l’annessione integrale della Dalmazia «da Arbe a Cattaro»275. La seconda, più moderata,
rappresentata dai principali capi del movimento, Forges Davanzati,
Federzoni, Foscari, sosteneva un programma territoriale imperniato
sull’annessione italiana dell’ex Dalmazia veneziana fino al fiume
Narenta e di Fiume. Il 24 novembre 1918 lo stesso Federzoni dichiarò
a tal proposito, criticando le tesi di Dudan, che «i nazionalisti debbo271
Ibidem.
Sulla figura di Federzoni si legga: LUIGI FEDERZONI, Italia di ieri per la storia di domani, Milano, 1967; BENEDETTO COCCIA, UMBERTO GENTILONI SILVERI (a cura di), Federzoni
e la storia della destra italiana nella prima metà del Novecento, Bologna, 2001.
273 A proposito della biografia di Forges Davanzati: FRATER, Roberto Forges Davanzati.
Lineamenti di vita, Milano-Roma, 1939.
274 «L’Idea Nazionale», 1° dicembre 1918, Il gruppo nazionalista romano contro le sopprafazioni austroslave.
275 «L’Idea Nazionale», 25 novembre 1918, Il gruppo nazionalista romano per l’italianità della Dalmazia.
272
80
LUCIANO MONZALI
no tener massimo conto delle opportunità politiche del momento e che
essi per i primi debbono evitare di provocare delle delusioni nel popolo italiano, formulando programmi di dubbia realizzazione»276.
Le tesi dei nazionalisti erano condivise da molti esponenti del liberalismo italiano, in primis dai capi della Dante Alighieri, Boselli,
Rava, Nathan, Sanminiatelli, Scodnik. Il 1° dicembre 1918 la Dante
Alighieri organizzò un grande convegno a Roma mirante a sostenere
la rivendicazione italiana di Fiume e di Spalato277. Il convegno votò
un ordine del giorno che chiedeva un ampliamento delle conquiste previste dal patto di Londra.
I rappresentanti della Società Nazionale Dante Alighieri […] reclamano
che la Vittoria sia consacrata da un patto storicamente onesto e umanamente equo che, rivendicando all’Italia tutte le sue terre della Regione Tridentina
fino al Brennero, della Venezia Giulia, della Dalmazia tutta con Fiume, italiane di storia, di tradizioni, di linguaggio e di sentimento, consacri il compimento dell’unità nazionale278.
Fra il novembre 1918 e i primi mesi del 1919, si sviluppò una grande campagna di propaganda a favore dell’annessione della Dalmazia
all’Italia, campagna organizzata dai comitati “Pro Dalmazia”, da numerosi politici (Boselli, Colonna di Cesarò, Foscari, Federzoni) e dagli stessi dalmati italiani279. In tutto il Paese, a Roma, Ancona, Milano,
Venezia e Catania si tennero numerose manifestazioni a favore della
Dalmazia italiana, e in particolare per l’occupazione italiana di Spalato
e Traù280. Uno dei massimi protagonisti di questa mobilitazione politica fu Gabriele D’Annunzio281. Il coraggio dimostrato dal poeta abruz276
Ibidem.
«L’Idea Nazionale», 2 dicembre 1918, Per le rivendicazioni adriatiche dell’Italia. Il
grande convegno al Quirino.
278 Ibidem.
279 FRUS, The Paris Peace Conference, 1919, I, Page a House, 15 novembre 1918, con
tre allegati, pp. 447-460.
280 «L’Idea Nazionale», 17 dicembre 1918, ARMANDO HODNIG, Ancona riconsacra italiano tutto l’Adriatico; ivi, 31 dicembre 1918, Roma proclama il diritto dell’Italia su tutta la
Dalmazia.
281 Sull’atteggiamento di D’Annunzio verso la questione dalmatica: CARLO GHISALBERTI,
Da Campoformio a Osimo. La frontiera orientale tra storia e storiografia, Napoli, 2001, p. 146
e ss.; ARRIGO SOLMI, Gabriele D’Annunzio e la genesi dell’impresa adriatica, Milano, 1945;
RENZO DE FELICE, D’Annunzio politico 1918-1938, Roma-Bari, 1978; TULLIO VALLERY, GUIDO
CALBIANI, Zara e la Dalmazia nel pensiero e nell’azione di Gabriele D’Annunzio, Venezia,
1970.
277
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
81
zese con le sue spedizioni aeree nel corso del conflitto lo aveva trasformato in una figura popolarissima e in un eroe di guerra. Per D’Annunzio obiettivo cruciale della guerra era la conquista dell’egemonia
italiana nell’Adriatico, sul modello dell’antica Roma e della Repubblica di Venezia: a tal fine l’Italia doveva assicurarsi il dominio di tutta la Dalmazia. Principale enunciazione della sua fede dalmatica fu la
lettera che D’Annunzio dedicò a Ercolano Salvi e Giovanni Lubin, capi degli italiani di Spalato e Traù, nel gennaio 1919282. Il poeta inveì
contro i nemici interni ed esterni che pensavano d’impedire l’annessione italiana della Dalmazia. A suo avviso, nessuna rinuncia territoriale era ipotizzabile: «Abbiamo combattuto per la più grande Italia.
Vogliamo l’Italia più grande. Dico che abbiamo lo spazio mistico per
la sua apparizione ideale. L’attendiamo alfine quale noi l’annunziammo»283.
D’Annunzio denunciò le violenze che i dalmati italiani stavano subendo e si dichiarò pronto a sostenere le loro lotte contro i croati.
Ma io, per me, come tutto offersi, e se tutto non mi fu preso me ne rammarico e quasi me ne vergogno, io sono oggi pronto a sacrificare ogni amore ogni amicizia ogni convenienza alla vostra causa che è la mia fin da quando, giovinetto, fui abbagliato per la prima volta dalla faccia di Traù a me consanguinea come la diletta delle mie sorelle lasciata nella casa chiara di mia.
[…] Dalmati fedeli, se l’ingiustizia si compia – e il nostro Dio ne disperda
l’ombra imminente – voi caricherete le vostre barche coi rottami delle pietre
gloriose, e vi imbarcherete con essi; e uscirete anche voi nel mare del vostro
amore disperato; e vi lascerete andare a picco, voi e le reliquie, per ritrovare
nel profondo i nostri morti, non più servi ribaditi ma uomini liberi tra uomini liberi. Seguitando la mia vocazione, io sarò con voi: forse non io solo284.
Dalla lettura degli scritti dalmatici di D’Annunzio, tutti fondati sulla drammatica contrapposizione fra la civiltà latino-veneziana dei dalmati italiani e la «barbarie» croata, appare chiaro che il poeta aveva
una conoscenza superficiale e stereotipata della società dalmata, nella quale, contrariamente a quanto lui affermava, prevaleva la mescolanza etnica e dove era difficile separare semplicisticamente e nettamente i dalmati croati dagli italiani. Questa immagine letteraria ed
282 GABRIELE D’ANNUNZIO, Lettera ai dalmati, in ID., Scritti politici di Gabriele
D’Annunzio, Milano, 1980, pp. 157-164.
283 Ivi, p. 160.
284 Ivi, pp. 164-165.
82
LUCIANO MONZALI
ideologica dei dalmati, in fondo utile strumento per legittimare i progetti imperialistici italiani, spiega il fatto che D’Annunzio perorasse
l’annessione all’Italia di tutta la Dalmazia asburgica, da Zara fino a
Cattaro, senza tenere conto della diversità delle situazioni locali, che
consigliavano allo stesso Ghiglianovich di limitare il programma territoriale dei dalmati italiani alla semplice richiesta di annessione della costa fra Zara e Spalato. Ma la retorica nazionale dannunziana, incentrata su un’idea linguistica e culturale di nazionalità, pur nei suoi
stereotipi e nei suoi fraintendimenti, entusiasmava molti dalmati italiani che la sentivano molto affine ai propri ideali nazionali ispirati non
dalla tutela di un’inesistente purezza etnica e razziale, quanto dalla difesa e dalla lotta per la sopravvivenza di un patrimonio linguistico e
culturale autoctono.
Di fronte al crescere dell’entusiasmo e del consenso di larga parte dell’opinione pubblica italiana a favore della causa fiumana e di
quella dalmatica, uno dei principali leader della sinistra interventista,
Benito Mussolini, assunse posizioni sempre più espansioniste285.
Desideroso di crearsi un ruolo di primo piano come capo dello schieramento interventista e combattentista, Mussolini enunciò tesi simili
a quelle dei nazionalisti. Se nel maggio 1918 il politico romagnolo ancora parlava della necessità di creare una grande collaborazione politica ed economica con i serbi e dell’Adriatico come mare italo-slavo,
limitando le mire espansionistiche dell’Italia in Dalmazia alla sola
Zara286, dopo l’armistizio con l’Austria cominciò a domandare l’annessione di gran parte della costa dalmatica: a parere del giornalista
romagnolo, l’esistenza di 80.000 italiani in Dalmazia rendeva impossibile l’abbandono di quella regione agli iugoslavi287. Comunque l’applicazione del patto di Londra non era più sufficiente: occorreva anche l’annessione di Spalato all’Italia288.
Fra il 1918 e il 1919 vi fu una forte mobilitazione di dalmati ita-
285 Sull’atteggiamento di Mussolini verso la questione adriatica fra il 1918 e il 1919:
ENNIO DI NOLFO, Mussolini e la politica estera italiana (1919-1933), Padova, 1960, p. 11 e
ss.; RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino, 1965; VIVARELLI, Storia
delle origini del fascismo, cit., I, p. 259 e ss.
286 BENITO MUSSOLINI, Mezzi e fini dell’intesa italo-jugoslava, «Il Popolo d’Italia», 24
maggio 1918, edito in Opera omnia di Benito Mussolini, Firenze, 1964, vol. XI, p. 90 e ss.
287 BENITO MUSSOLINI, Noi reprobi, «Il Popolo d’Italia», 8 gennaio 1919, edito in Opera
omnia di Benito Mussolini, cit., vol. XII, p. 118 e ss.
288 BENITO MUSSOLINI, [Pro Fiume e Dalmazia], «Il Popolo d’Italia» 15 gennaio 1919,
edito in Opera omnia di Benito Mussolini, cit., vol. XII, pp. 144-145.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
83
liani per la campagna pro Dalmazia, molti dei quali si recarono in Italia
per partecipare personalmente alle manifestazioni e testimoniare concretamente l’esistenza dell’italianità dalmatica. Vennero in Italia molti giovani e, cosa che mostrava quanto la cultura delle città dalmate
fosse stata influenzata dal modello sociale e culturale mitteleuropeo,
molte ragazze e donne, più libere e attive politicamente rispetto alle
italiane della Penisola. Sul piano politico uno dei capi italiani più attivi fu ovviamente Roberto Ghiglianovich. Nei suoi discorsi il deputato zaratino continuò ad insistere sulla necessità dell’annessione della Dalmazia ex veneziana all’Italia, sottolineando la volontà italiana
di non opprimere i dalmati slavi.
La cessione pur di una minima parte di quella che fu la Dalmazia di
Venezia al nuovo Stato balcanico non può quindi trovare assentimento nella
Nazione. La Dalmazia di Venezia deve essere congiunta all’Italia, che, lungi
dal massacrare o comunque sopprimere l’elemento slavo del paese, darà allo stesso, e sul serio, tutte le libertà nazionali289.
Pure i rappresentanti degli italiani di Traù e Spalato s’impegnarono massicciamente nella propaganda pro Dalmazia. Vennero in Italia
per propagandare l’italianità di Traù Umberto Nani, Luigi Nutrizio,
Giovanni Lubin, Giovanni Fanfogna; a difesa dell’italianità di Spalato
si mobilitarono gli spalatini Stefano Selem, Ernesto Illich, Carlo
Pezzoli, Giuseppe Savo, Luca Poduje, Lorenzo Gilardi, Giovanni
Bettiza, Giacomo Marcocchia, Maria Gilardi. Ma l’oratore principe degli italiani della Dalmazia centrale occupata dagli iugoslavi fu il capo del partito autonomo-italiano spalatino, Ercolano Salvi. Fra il 1918
e il 1919 Salvi girò senza sosta l’Italia impegnandosi in comizi ed incontri. Per il politico spalatino, Spalato era la città più classicamente
romano-veneta dell’Adriatico orientale, dove solo gli intrighi dell’Austria avevano fatto perdere agli italiani il controllo della rappresentanza comunale. Il patto di Londra aveva compiuto un crimine dividendo la Dalmazia in due e rinunciando alla rivendicazione di
Spalato. La Dalmazia era qualcosa d’indivisibile e non poteva essere
smembrata fra Italia e Iugoslavia.
Bisogna infatti non conoscere affatto né la struttura geografica della
Dalmazia, né il suo organismo dirò così fisico politico, consolidato da seco289
Per le rivendicazioni adriatiche dell’Italia, cit.
84
LUCIANO MONZALI
li, né la sua naturale legge di gravitazione interna per immaginare di poter
possedere Zara, Sebenico e le isole, senza aver Spalato. Una consimile soluzione, lungi dal risolvere il problema dalmatico, rispettivamente il problema
adriatico, lo complicherebbe irreparabilmente. L’Italia è entrata in guerra per
assicurarsi una giusta supremazia sull’Adriatico. Per ottenerla effettivamente, deve avere la Dalmazia. Ma avere la Dalmazia senza Spalato, è come avere una pianta senza radici, od un corpo senza il torace. È un assurdo, una inverosomiglianza inconcepibile, una materiale impossibilità290.
Le argomentazioni politiche di Salvi e degli altri italiani spalatini
suscitarono dubbi in alcuni esponenti dalmati. Roberto Ghiglianovich
in una lettera al cugino Domenico Barbieri constatò la pericolosità della propaganda di Salvi.
Gli argomenti di Salvi – a parte i sentimentali – non mi piacciono. E glielo scrissi subito. Il dire: «La Dalmazia si piglia tutta o non si piglia» è pericolosissimo. Si svaluta soverchiamente il Patto di Londra. Si indispettisce
Sonnino. Si offre un’arma potente agli avversari che sostengono la stessa cosa e nel peso della bilancia hanno argomenti ben maggiori dei nostri per pigliarla tutta. Il valorizzare troppo – come fa egli – la ricchezza di Spalato e
del suo circondario, il parlare di Spalato come punto di congiungimento tra
l’Italia e i Balcani, per l’Italia è un’arma a doppio taglio e finisce col tagliarci
le gambe se si riflette che non esiste affatto – e tutti lo sanno – la separazione netta, insormontabile – che Salvi asserisce – tra Spalato e il retroterra balcanico. Quando Bajamonti accennava a Belgrado, non pensava a una Spalato
annessa all’Italia. Per chi capisce le cose, la dimostrazione di Salvi si ritorce
contro di noi291.
L’impegno di Salvi, Ghiglianovich, Ziliotto e di tanti dalmati italiani nella campagna a favore dell’annessione della Dalmazia e di
Spalato all’Italia suscitò irritazione e rabbia nei capi del nazionalismo
iugoslavo dalmata. Il principale giornale croato-iugoslavo in Dalmazia,
il «Novo Doba», vicino a Trumbic!, scatenò una campagna di stampa
contro i capi italiani, accusandoli di essere rinnegati slavi, ex austriacanti e fanatici292. Fra la fine del 1918 e i primi mesi del 1919 sul
«Novo Doba» particolarmente numerose furono le difese e le spiega290
ERCOLANO SALVI, Per Spalato, Roma, 1919, p. 3.
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 23 gennaio 1919.
292 «Novo Doba», 19 dicembre 1918, Agitacija za Split u Italiji; ivi, 4 gennaio 1919, De
la Tripolitaine européenne; ivi, 10 gennaio 1919, L’italianità della Dalmazia; ivi, 22 gennaio
1919, Austriacanti; ivi, 9 aprile 1919, Austro-talijani.
291
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
85
zioni del carattere slavo di Spalato293. Per il vecchio capo nazionalista
iugoslavo Pero ?ingrija, Ercolano Salvi era un fanatico, ex confidente della polizia austriaca. Spalato, invece, era una città slava, anche se
?ingrija aveva difficoltà a spiegare l’uso della popolazione spalatina
di parlare il dialetto veneto-dalmata.
Spalato – scrisse ?ingrija – colla sua popolazione, composta in buona parte da villici lavoratori dei campi che parlano la nostra lingua (hrvatski), è una
città slava. L’italiano è parlato in famiglie del ceto cittadino per antica abitudine ereditata dal veneto dominio, di cui grande parte appartiene al nostro
partito294.
In Italia, contro la campagna pro Dalmazia si mobilitarono alcuni
scrittori e politici, che ritenevano un rischio per l’Italia l’annessione di
una provincia abitata da molti allogeni slavi e sostenevano l’utilità di
un compromesso territoriale con lo Stato iugoslavo. Consapevoli dell’esistenza di tendenze anti-italiane nei governi alleati, dopo la guerra
Bissolati, Albertini, Salvemini riproposero l’esigenza di compiere volontariamente alcune rinunce territoriali in Dalmazia per facilitare la
futura pace adriatica ed il riconoscimento alleato del controllo italiano
di tutta la Venezia Giulia295. Ma anche in seno al cosiddetto “interventismo democratico” vi era diversità d’opinioni sull’ampiezza delle rinunce da compiere in Dalmazia. Albertini riteneva che l’Italia dovesse annettere la gran parte delle isole dalmate e la città di Zara, rinunciando al resto della Dalmazia296. Salvemini, invece, considerava necessario il dominio italiano solo su poche isole e consigliava la rinuncia a tutta la Dalmazia continentale: la città di Zara poteva ricevere una
costituzione autonoma e per la minoranza italiana nel nuovo Stato iugoslavo vi sarebbero state varie garanzie a propria protezione, simili a
quelle che l’Italia avrebbe riservato alle sue minoranze croate e slovene297. Pretendere l’annessione di tutta o gran parte della Dalmazia, a
parere di Salvemini, avrebbe significato rendere impossibile l’accordo
293
«Novo Doba», 7 gennaio 1919, 30 aprile 1919.
«Novo Doba», 30 e 31 gennaio 1919, PERO ? INGRIJA, Un nuovo prepotente.
295 BARIÉ, Luigi Albertini, cit., p. 364 e ss.
296 ALBERTINI, Epistolario, cit., III, Albertini a D’Annunzio, 8 novembre 1918, d. 915;
ivi, III, Albertini a Emanuel, 14 novembre 1918, d. 921; MONZALI, Albertini, la guerra mondiale e la crisi del dopoguerra, in ALBERTINI, I giorni di un liberale, cit., p. 162 e ss.
297 SALVEMINI, MARANELLI, La questione dell’Adriatico, in SALVEMINI, Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., pp. 436-444.
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LUCIANO MONZALI
con gli iugoslavi e avrebbe portato l’Italia a perseguire una politica imperialista, contraria al proprio interesse di presentarsi come potenza
amica e protettrice delle nazioni balcaniche e orientali298. Le rinunce
in Dalmazia avrebbero reso possibile ottenere l’annessione di Fiume,
dimenticata dal patto di Londra, e la sicurezza strategica nei confini
giuliani299. Su posizioni simili a quelle di Salvemini si schierò pure
Bissolati. Il politico lombardo sostenne l’esigenza di rinunciare alla
Dalmazia continentale per avere in cambio l’annessione di Fiume, città
in maggioranza italiana. Le comunità italiane dalmate avrebbero potuto proteggere i propri diritti culturali e linguistici «sia mercè la costituzione di autonomie là dove esistono forti gruppi italiani come a Zara;
sia mercè intese fra i due Stati, intese la cui garanzia per l’Italia riposerebbe essenzialmente sul fatto che dentro i confini nostri, anche esclusa la Dalmazia, sarebbero chiamati a vivere jugoslavi in assai maggior
numero che italiani nei confini della Jugoslavia»300.
Le richieste di annessione di Fiume e di Spalato erano condivise
da larga parte dei vertici delle forze armate e del governo italiano. In
particolare, nei primi giorni dopo l’armistizio il presidente del Consiglio Orlando si mostrò animato dalla volontà di ampliare al massimo le occupazioni territoriali italiane, puntando soprattutto ad assicurare all’Italia il controllo di Fiume301. Per alcune settimane il ministro degli Esteri Sonnino, più cauto e consapevole delle difficoltà nei
rapporti con gli alleati, cercò di contrastare queste idee sostenendo la
necessità di non andare oltre quanto previsto dal patto di Londra.
L’applicazione del patto di Londra avrebbe garantito l’annessione della Dalmazia, che stava a cuore di Sonnino molto più di Fiume, in quanto il controllo di parte della costa dalmatica assicurava l’egemonia militare dell’Italia nell’Adriatico. Ma ormai la guida della politica estera italiana non era nelle mani di Sonnino ma in quelle del presidente
del Consiglio, e pure il ministro toscano dovette accettare l’imposta-
298 GAETANO SALVEMINI, “Austria delenda” o “Austria servanda, «L’Unità», 7 settembre
1918, edito in ID., Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., p. 217 e ss.
299 GAETANO SALVEMINI, Ognuno al suo posto, «L’Unità», 2 gennaio 1919, edito in ID.,
Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., p. 475 e ss. Tesi simili a quelle di Salvemini sosteneva pure il giovane Piero Gobetti: PIERO GOBETTI, La questione jugoslava, riprodotto in
ID., Scritti politici, Torino, 1969, pp. 6-11.
300 LEONIDA BISSOLATI, La Lega delle Nazioni e la politica italiana, in ID., La politica
estera italiana, cit., p. 410.
301 Al riguardo: SONNINO, Carteggio 1916-1922, cit., Sonnino a Orlando, 14 novembre
1918, d. 370 e nota; MELCHIONNI, La vittoria mutilata, cit., p. 99 e ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
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zione di Orlando che riteneva fondamentale l’annessione di Fiume. Vi
era un’innegabile confusione in seno al governo italiano sulle direttive da adottare nella questione adriatica. Il 10 dicembre Barrère, ambasciatore francese a Roma, riferì al suo governo che Sonnino gli aveva dichiarato confidenzialmente di essere contrario a rivendicare
Fiume, ritenendo che bisognasse rispettare la lettera del patto di Londra. Orlando, invece, considerava cruciale il controllo del porto del
Quarnero e propendeva per un possibile scambio di territori, con la rinuncia ad alcuni territori dalmati in cambio di Fiume302. A favore di
una politica di rivendicazioni territoriali in Dalmazia, in parziale sintonia con le direttive di Sonnino, si battevano sia il governatore della
Dalmazia, Millo, sia gli alti vertici della Marina italiana. I capi della
Marina ritenevano il controllo di tutta la Dalmazia fino alla Narenta
fondamentale per assicurarsi l’egemonia navale nell’Adriatico. Per
Thaon di Revel, capo di Stato maggiore della Marina, la Dalmazia era
assai più importante di Fiume. Per chiarire il pensiero della Marina
italiana Thaon inviò a Sonnino un promemoria, nel quale veniva riaffermata l’impossibilità di compiere rinunce territoriali in Dalmazia e
la necessità di mantenere il confine sulle Alpi Dinariche.
Si può dunque dire che Fiume rappresenta la ricchezza, la Dalmazia la sicurezza. Fiume rappresenta la possibilità di arredare sontuosamente una casa senza porte, la Dalmazia significa munire di porte inviolabili una casa arredata sia pur più modestamente. Tra queste due soluzioni non può esservi
dubbio circa la scelta: tener fermo per la Dalmazia, e quando tutto venisse a
mancare, immolare Fiume ma salvare la Dalmazia303.
Fra dicembre e gennaio il dissidio in seno al governo italiano sulle direttive da seguire alla Conferenza della pace esplose apertamente. Il 15 e 16 dicembre, in sede di Consiglio dei ministri, Bissolati e
Nitti sostennero l’opportunità di allinearsi maggiormente alle posizioni
degli alleati e di smentire l’esistenza di presunte mire imperialistiche:
un passo in questa direzione doveva essere la rinuncia alla Dalmazia
(eccetto eventualmente Zara da costituirsi come città autonoma) per
avere Fiume città libera o annessa all’Italia304. La maggior parte dei
302 AMAF,
Europe 1918-1940, Italie, vol. 77, Barrère a Pichon, 10 dicembre 1918.
303 SONNINO, Carteggio 1916-1922, cit., Relatività dell’importanza di alcuni possessi, al-
legato a Thaon di Revel a Sonnino, 16 dicembre 1918, d. 388.
304 SONNINO, Diario 1916-1922, cit., pp. 318-320; PIETRO PASTORELLI, Le carte Colosimo,
«Storia e Politica», 1976, n. 2, pp. 370-377; MELCHIONNI, La vittoria mutilata, cit., p. 195 e
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LUCIANO MONZALI
ministri si oppose a questa impostazione, ritenendo pericolosa ogni rinuncia preventiva prima dell’inizio dei negoziati di pace, senza avere
ottenuto compensi o garanzie. Prevalse la tesi di Orlando, fautore di
un programma territoriale fondato sull’applicazione del patto di
Londra e sulla rivendicazione di Fiume. Per reazione all’impostazione politica dell’esecutivo Orlando, Bissolati e Nitti si dimisero dal governo all’inizio di gennaio305. Bissolati manifestò pubblicamente il suo
dissenso e il 4 gennaio 1919 in un colloquio con Wilson, in visita in
Italia, denunciò la politica adriatica del governo italiano come avente
finalità imperialistiche ed aggressive306. Dopo aver esposto le proprie
tesi circa il “giusto” confine orientale italiano (Fiume città libera,
Gorizia e l’Istria occidentale all’Italia, tutta la Dalmazia agli iugoslavi), Bissolati, stimolato da Wilson che gli ricordava che Sonnino sosteneva che le isole e la costa della Dalmazia erano una vitale necessità militare con scopi difensivi per l’Italia, sbugiardò le tesi del capo
della Consulta. Per il politico lombardo, il valore militare della
Dalmazia non era per scopi difensivi ma offensivi: «Dalmatia is really a bridge-head, from which an army could strike to the north or south,
as occasion demanded»307.
Il verbale dell’incontro con Wilson fu sottoposto a Bissolati il 6
gennaio e fu da lui approvato, con l’ulteriore dichiarazione che «[...]
he believed that Italy should abandon the Tirol and the Dodekanese as
well as Dalmatia, as otherwise two national sentiments would be irrevocably offended»308. Il comportamento di Bissolati, le dure polemiche giornalistiche, le feroci lotte personalistiche indicavano che la
classe dirigente italiana si apprestava ad affrontare la Conferenza della pace fortemente divisa sulla strategia politica da seguire e poco com-
ss. Sui dissidi di Nitti con Orlando e Sonnino: MONTICONE, Nitti e la grande guerra, cit., p. 299
e ss.
305 Al riguardo: BONOMI, Leonida Bissolati, cit., p. 211 e ss.; ALBERTINI, Epistolario, cit.,
III, Amendola a Albertini, 1° gennaio 1919, p. 1141 e ss.; ivi, III, Albertini a Amendola, 10
gennaio 1919, p. 1147 e ss.; GAETANO SALVEMINI, Ognuno al suo posto, in ID., Dalla guerra
mondiale alla dittatura, cit., p. 475 e ss.; COLAPIETRA, op. cit., p. 267 e ss.; FRUS, The Paris
Peace Conference, 1919, I, Page alla Delegazione americana per i negoziati di pace, 28 e 30
dicembre 1918, pp. 470-472.
306 WP, 53, LAWRENCE GRANT WHITE, Digest of the President’s Conference with on.
Bissolati, allegato a Page a Wilson, 7 gennaio 1919, pp. 641-644. Si veda anche: ARNO MAYER,
Politics and Diplomacy of Peacemaking. Containment and Counterrevolution at Versailles
1918-1919, New York, 1967, pp. 212-213.
307 GRANT WHITE, Digest of the President’s Conference with on. Bissolati, cit.
308 Ibidem.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
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patta al proprio interno309. Che la spaccatura fra oppositori e sostenitori dell’annessione italiana della Dalmazia continentale si fosse ormai sempre più aggravata fu testimoniato dalle violente dimostrazioni compiute da alcuni nazionalisti e irredentisti dalmati contro Bissolati
e i «rinunciatari» in occasione della manifestazione da lui organizzata alla Scala di Milano nel gennaio 1919310. A queste proteste contro
Bissolati parteciparono pure Salvi e Lubin311.
1.6. La questione dalmatica alla Conferenza della pace di Parigi
(gennaio-giugno 1919)
Nel corso della Conferenza della pace di Parigi, ad una classe dirigente
italiana profondamente divisa sull’ampiezza del programma territoriale da perseguire nell’Adriatico orientale, si contrappose un fronte
alleato unanime nell’intenzione di contrastare l’espansione italiana in
Venezia Giulia e Dalmazia. I rapporti fra l’Italia e le potenze dell’Intesa non erano mai stati facili nel corso della guerra312. Il ritardo italiano nella dichiarazione di guerra contro Turchia ottomana e
Germania e l’impostazione esclusivamente anti-asburgica data dal governo di Roma al suo intervento bellico avevano suscitato diffidenze
ed ostilità in molti circoli politici francesi e britannici. Da parte italiana, l’esclusione dai negoziati interalleati sul futuro dell’Impero ot309 Tra le tante fonti esistenti riguardo alle lotte politiche italiane fra il 1918 e il 1919,
ricordiamo: MALAGODI, op. cit., II; SILVIO CRESPI, Alla difesa d’Italia in guerra e a Versailles
(Diario 1917-1919), Milano, 1937, pp. 223-240; GIAMBATTISTA GIFUNI (a cura di), Il diario
di Salandra, Milano, 1969, pp. 205-214; RAFFAELE COLAPIETRA, Documenti dell’Archivio
Colosimo in Catanzaro, «Storia e Politica», 1981, fasc. 3, pp. 600-616; FERDINANDO MARTINI,
Diario 1914-1918, Milano, 1966, p. 897 e ss.; ALBERTINI, Epistolario, cit., III.
310 DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 485 e ss.
311 FV, ARC. GEN., fasc. Alessandro Dudan, Dudan a D’Annunzio, 9 gennaio 1919.
312 Per un’analisi approfondita delle relazioni fra l’Intesa e l’Italia nel corso della prima
guerra mondiale: RICCARDI, Alleati non amici, cit. Si vedano anche: MARIO TOSCANO, Gli accordi di San Giovanni di Moriana. Storia diplomatica dell’intervento italiano (1916-1917),
Milano, 1936; AUTORI VARI, La France et l’Italie pendant la première guerre mondiale,
Grenoble, 1976, in particolare i saggi di Jean Baptiste Duroselle e di Georges Dethan, pp. 492511, 512-520; PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit.; RODOLFO MOSCA,
La politica estera italiana dall’intervento alla vittoria, in ID., Le relazioni internazionali nell’età contemporanea. Saggi di storia diplomatica (1915-1975), Firenze, 1975, p. 19 e ss.;
GIORGIO PETRACCHI, Diplomazia di guerra e rivoluzione. Italia e Russia dall’ottobre 1916 al
maggio 1917, Bologna, 1974. Utili anche: JAMES RENNELL RODD, Social and Diplomatic
Memories 1902-1919, London, 1925, p. 262 e ss.; ALEXANDRE RIBOT, Journal de Alexandre
Ribot et correspondances inedites 1914-1922, Paris, 1936.
90
LUCIANO MONZALI
tomano nel 1916313 e i vari tentativi anglo-francesi di spingere
l’Austria-Ungheria alla pace separata, magari sacrificando alcune rivendicazioni territoriali italiane, erano state giudicate in modo molto
negativo. Con l’avvicinarsi della fine della guerra i rapporti fra Italia
e gli anglo-francesi si aggravarono. Il ritardo italiano nello scatenare
un’offensiva terrestre contro l’Austria irritò moltissimo il governo di
Parigi, che desiderava distrarre parte delle forze germaniche dal proprio fronte314. Terminata la guerra, la Francia cominciò a criticare duramente l’operato italiano nell’Adriatico orientale. Pichon si lamentò
con Barrère della presunta violazione italiana delle norme armistiziali. I militari italiani rifiutavano la presenza di un contingente serbo a
Fiume e, in generale, ostacolavano l’azione serba tentando di allargare la zona da loro controllata: a parere del ministro degli Esteri francese, tutto ciò non era compatibile con il rispetto dei princìpi di libertà
e giustizia che il governo di Parigi voleva perseguire verso le popolazioni iugoslave315. Fra il dicembre 1918 e i primi mesi del 1919 crebbe nel governo francese l’ostilità verso la politica estera italiana316. Nei
Balcani la diplomazia italiana era accusata di perseguire una politica
anti-francese, mirante ad affermare l’egemonia dell’Italia nella regione e a sostenere le rivendicazioni di ungheresi, bulgari e romeni contro gli iugoslavi317. Nel Mediterraneo e in Etiopia il governo di Roma
era considerato un pericoloso concorrente, desideroso di contrastare
ed indebolire le posizioni francesi318. Anche il governo di Londra era
313 HARRY N. HOWARD, The Partition of Turkey. A Diplomatic History 1913-1923, New
York, 1966 (prima edizione 1931), p. 181 e ss.
314 AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 77, Barrère a Pichon, 1° agosto e 26 settembre 1918.
315 AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 77, Pichon agli ambasciatori a Londra,
Washington e Roma, 2 dicembre 1918; ibidem, Pichon a Barrère, 5 dicembre 1918.
316 Per un’analisi dell’atteggiamento della Francia verso la questione adriatica e la politica dell’Italia in quei mesi: FRANÇOIS GRUMEL-JACQUIGNON, La Yougoslavie dans la stratégie française de l’Entre-deux-Guerres (1918-1935). Au origines du mythe serbe en France,
Bern, 1999; KOVAC#, La France, la création du royaume “ yougoslave “ et la question croate,
cit., p. 207 e ss.
317 AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 77, Charles-Roux a Pichon, 15 dicembre 1918.
318 AMAF, Guerre 1914-1918, Questions générales africaines, vol. 1506, Barrère a
Pichon, 8 maggio 1917; AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 77, Charles-Roux a Pichon,
15 dicembre 1918; AMAF, A-Paix 1914-1920, vol. 294, Direzione generale politica e commerciale, Données générales sur la politique italienne, 1° gennaio 1919. Sulle relazioni italo-francesi dopo la prima guerra mondiale: JEAN BAPTISTE DUROSELLE, Clemenceau, Paris,
1988, p. 780 e ss.; FRANÇOIS CHARLES-ROUX, Souvenirs diplomatiques. Une grande ambassade à Rome 1919-1925, Paris, 1961; JULES LAROCHE, Au Quai d’Orsay avec Briand et
Poincaré 1913-1926, Paris, 1957, p. 57 e ss.; JOEL BLATT, France and the Franco-Italian
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
91
ostile alle direttive adriatiche e mediterranee della politica estera
dell’Italia. Lloyd George, Balfour e i vertici britannici ritenevano nociva e pericolosa per i propri interessi un’eccessiva espansione territoriale italiana nell’Adriatico orientale, in Anatolia e in Africa, e negli anni successivi s’impegnarono per ridimensionare ed ostacolare
le pretese e gli obiettivi dell’Italia319. Alla Conferenza della pace di
Parigi, quindi, francesi e britannici decisero di ridiscutere e di rinegoziare quanto previsto dal patto di Londra, ritenendo che le condizioni internazionali fossero talmente mutate con la fine della guerra
da rendere il trattato superato. In un’ottica di contenimento anti-italiano era utile per Francia e Gran Bretagna sostenere le pretese territoriali della Grecia e del nuovo Stato iugoslavo, potenziali contrappesi ad un’eccessiva influenza italiana. Queste esigenze derivanti dalla
politica di potenza francese e britannica venivano occultate dalle diplomazie dei due paesi ricorrendo spesso ad un’invocazione strumentale del principio di nazionalità, di cui si domandava l’applicazione
nel caso delle rivendicazioni italiane, applicazione, invece, dimenticata in altre parti d’Europa e del Vicino Oriente320. L’ostilità britannica e francese fu percepita dalla classe dirigente italiana321. Lo stesso
Entente 1918-1923, «Storia delle Relazioni Internazionali», 1990, n. 2, p. 173 e ss.; ANNESOPHIE NARDELLI, La France et l’Italie à la Conférence de la Paix, «Revue d’histoire diplomatique», 2004, n. 1, p. 3 e ss.
319 Sull’atteggiamento britannico verso l’Italia e l’Europa meridionale e balcanica fra la
fine del 1918 e il 1919: DAVID LLOYD GEORGE, The Truth about the Peace Treaties, London,
1938, II, p. 315 e ss.; ROTHWELL, British War Aims, cit., p. 111 e ss. ; HAROLD NICOLSON,
Peacemaking 1919, London, 1945, p. 129 e ss.; MICHAEL L. DOCKRILL, J. DOUGLAS GOOLD,
Britain and the Peace Conferences 1919-1923, London, 1981, p. 105 e ss., p. 186 e ss.; SETH
P. TILLMAN, Anglo-American Relations at the Paris Peace Conference of 1919, Princeton, 1961,
p. 315 e ss.; PAUL C. HELMREICH, From Paris to Sèvres. The Partition of the Ottoman Empire
at the Peace Conference of 1919-1920, Columbus, 1974; ERIK GOLDSTEIN, Winning the Peace.
British Diplomatic Strategy, Peace Planning and the Paris Peace Conference, 1916-1920,
Oxford, 1991.
320 A questo riguardo illuminante è lo studio della genesi delle decisioni concernenti i
confini degli Stati dell’Europa centro-orientale in seno alla Conferenza di Parigi: FRANCESCO
CACCAMO, L’Italia e la “nuova Europa”. Il confronto sull’Europa orientale alla conferenza
di pace di Parigi (1919-1920), Milano, 2000; SHERMAN DAVID SPECTOR, Rumania at the Paris
Peace Conference. A Study of the Diplomacy of Ioan I. C. Bratianu, New York, 1962; FRANCIS
DEÁK, Hungary at the Paris Peace Conference. The Diplomatic History of the Treaty of
Trianon, New York, 1942; D. PERMAN, The Shaping of the Czechoslovak State. Diplomatic
History of the Boundaries of Czechoslovakia 1914-1920, Leiden, 1962.
321 A questo proposito Guglielmo Emanuel, giornalista del «Corriere della Sera», scrisse a Luigi Albertini nel dicembre 1918: «Da parte di Clemenceau e di Berthelot persiste invece una ostilità che sarebbe pericoloso di ignorare. […] Mi viene riferito, da qualcuno che
l’ha raccolto dalla bocca stessa di Berthelot, in un momento di sincerità, che l’azione di que-
92
LUCIANO MONZALI
Sonnino era pienamente consapevole delle difficoltà a cui l’Italia doveva fare fronte alla Conferenza della pace. Il 5 gennaio 1919 il ministro degli Esteri dichiarò amaramente a Salandra:
Gli alleati non hanno più bisogno di noi: quindi poco ci calcolano.
L’Inghilterra tenderebbe ad essere benevola, ma finisce poi per assecondare,
quando si conclude, la malevolenza della Francia. Questa si conduce sempre
male verso di noi, per gelosia, per montatura che la induce a rivolere il predominio in Europa, per la speranza di farsi una clientela di piccoli Stati sorti o ingranditisi con lo sfasciamento degli Imperi. Inghilterra e Francia non
rinnegano i patti di Londra; ma la Francia sopra tutto cerca di aiutare i
Jugoslavi a svalutarci presso l’America; e in Inghilterra questa tendenza è assecondata da Steed, dal «Times»322.
Ad indebolire la posizione diplomatica dell’Italia alla Conferenza
della pace contribuì anche il cattivo stato delle relazioni italo-americane323. Fin dall’inizio del 1918 Wilson aveva manifestato il suo dissenso verso il programma territoriale italiano. Da parte degli Stati
Uniti, privi di ambizioni territoriali in Europa e nel Mediterraneo, vi
era soprattutto un’obiezione ideologica al programma italiano d’espansione: la ricerca di confini strategici era ritenuta un’ambizione ingiustificata per una grande potenza in un nuovo sistema internazionale nel quale l’esistenza di una Lega delle Nazioni con il compito del
mantenimento della pace avrebbe scongiurato ogni pericolo d’aggressione contro l’Italia324. Nel governo americano, poi, vi era una forte simpatia verso i movimenti nazionali balcanici e dell’Europa censto si ispira al concetto che la Francia non deve più ripetere l’errore di facilitare lo sviluppo
di potenza degli Stati confinanti: per cui la necessità di osteggiare (per un concetto egoistico) l’accrescimento dell’Italia e quella di favorire ogni dissenso con i nuovi Stati che sorgono, dato che ciò costituirà un elemento di debolezza futura per noi» (ALBERTINI, Epistolario,
cit., III, Emanuel a Albertini, 7 dicembre 1918, d. 935).
322 ANTONIO SALANDRA, I retroscena di Versailles, Milano, 1971, p. 26.
323 Sull’atteggiamento degli Stati Uniti verso la politica estera italiana nel 1918-1919:
RENÉ ALBRECHT-CARRIÉ, Italy at The Paris Peace Conference, Hamden, 1966 (prima edizione 1938), p. 35 e ss.; SAIU, op. cit.; ?IVOJINOVIC!, America, Italy and the Birth of Yugoslavia
(1917-1919), cit.; MAYER, Politics and Diplomacy of Peacemaking, cit.; ID., Political Origins
of the New Diplomacy, cit., p. 329 e ss.; DANIELA ROSSINI, Il mito americano nell’Italia della Grande Guerra, Roma-Bari, 2000, p. 157 e ss.; IUSTUS, V. Macchi di Cellere all’ambasciata
di Washington. Memorie e testimonianze, Firenze, 1920. Per un’analisi dell’influenza americana sull’opinione pubblica italiana: LOUIS JOHN NIGRO JR., The New Diplomacy in Italy.
American Propaganda and U. S. – Italian Relations, 1917-1919, New York, 1999.
324 ITALO GARZIA, L’Italia e le origini della Società delle Nazioni, Roma, 1995, p. 38 e
ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
93
trale, superficialmente ritenuti benigni portatori dei valori di autodeterminazione nazionale e di libertà, mentre lo Stato italiano era considerato parte del vecchio sistema politico europeo, fondato sull’imperialismo e la politica di potenza. Fin dalla fine della guerra la diplomazia statunitense manifestò apertamente la sua opposizione alle
rivendicazioni dell’Italia nell’Adriatico325; in successivi colloqui con
Orlando e Sonnino a Roma e a Parigi il presidente Wilson chiarì ulteriormente le sue posizioni326. A parere del presidente americano
l’Italia usciva dalla guerra enormemente rafforzata. Il patto di Londra
aveva previsto un determinato assetto territoriale ritenendo probabile
la sopravvivenza dell’Impero asburgico: ma tale Impero si era dissolto e quindi erano radicalmente mutate le condizioni che avevano portato alla conclusione dell’accordo. La creazione della Società delle
Nazioni avrebbe garantito il mantenimento della pace e il rispetto del
diritto internazionale. Da qui l’opportunità di un confine italo-iugoslavo fondato principalmente sul principio di nazionalità, con la richiesta americana della rinuncia italiana alla Dalmazia e all’Istria
orientale; Fiume e Zara, centri a maggioranza italiana circondati da
hinterland compattamente croati e serbi, potevano divenire città e porti liberi327. Le richieste e le tesi di Wilson crearono preoccupazione e
sconcerto nel governo italiano. La Conferenza della pace di Parigi iniziava con molte incognite per l’Italia. In seno al governo italiano vi
erano dissensi sul miglior modo di raggiungere gli obiettivi territoriali
auspicati. Desideroso di evitare forti contrapposizioni con gli alleati
e convinto di avere grandi capacità di persuasione, Orlando puntò a
creare un suo rapporto personale con Wilson, sostenendolo nella creazione della Società delle Nazioni al fine di convincere il presidente
americano a moderare le sue posizioni nella questione adriatica328. Con
tale obiettivo Orlando decise di partecipare personalmente ai lavori
della Commissione incaricata di preparare la stesura dello statuto del-
325 MELCHIONNI, La vittoria mutilata, cit., p. 142 e ss.; ALBERTINI, Epistolario, cit., III,
Emanuel a Albertini, 21 dicembre e 22 dicembre 1918, dd. 950, 951; ALBRECHT CARRIÉ, op.
cit., p. 35 e ss.; WP, 53, Derby a Balfour, 22 dicembre 1918, pp. 470-472; ivi, IMPERIAL WAR
CABINET, Memorandum, 30 dicembre 1918, pp. 558-569.
326 WP, 53, From the Diary of Colonel House, 21 dicembre 1918, p. 466; ivi, Edward
Price Bell a Lawrence Lanier Winslow, 31 dicembre 1918, con allegato, pp. 574-576.
327 WP, 54, Wilson a Orlando, 13 gennaio 1919, pp. 50-51; MELCHIONNI, La vittoria mutilata, cit., p. 242 e ss.; ALBRECHT CARRIÉ, op. cit.
328 MALAGODI, op. cit., II, p. 495 e ss.; GARZIA, L’Italia e le origini della Società delle
Nazioni, cit., p. 69 e ss.
94
LUCIANO MONZALI
la futura Società delle Nazioni, unico capo di governo, insieme a
Wilson, a fare ciò329. Pure nelle discussioni del Consiglio Supremo dedicate alla questione delle colonie tedesche, il presidente del Consiglio
italiano appoggiò con forza le tesi americane circa l’opportunità di istituire i mandati, cercando di presentare l’Italia come potenza «wilsoniana» e non imperialista330. Il presidente del Consiglio sperava di convincere Wilson ad accettare un compromesso territoriale nell’Adriatico: l’Italia avrebbe rinunciato a parte della Dalmazia in cambio della piena sovranità su Fiume. Pure Sonnino era disposto a fare alcune
concessioni territoriali nel retroterra dalmata al fine di ottenere Fiume;
ma il ministro degli Esteri dava molta importanza alla questione dalmatica e non voleva una pace adriatica troppo rinunciataria: egli condivideva pienamente le posizioni della Marina italiana e riteneva cruciale il futuro controllo di Zara e Sebenico, di gran parte delle isole
dalmate e di Valona per garantire la sicurezza strategica e l’egemonia
dell’Italia nell’Adriatico. In ogni caso Sonnino era convinto che la migliore strategia negoziale fosse di mostrare la massima rigidità e intransigenza agli inizi delle trattative con gli alleati e di non avere troppa fretta nel fare rinunce unilaterali. La consapevolezza dell’ostilità
alleata verso il programma territoriale dell’Italia provocò un compattamento nella delegazione italiana nei primi mesi della Conferenza di
pace. Si trovò temporaneamente un’intesa su un programma territoriale comune nell’Adriatico: il confine naturale sul displuvio alpino
in Venezia Giulia e un parziale ridimensionamento delle richieste in
Dalmazia in cambio di Fiume italiana e di un mandato sull’Albania.
La delegazione italiana cercò di rompere il proprio isolamento diplomatico puntando a migliorare i rapporti con la Francia. Constatando
le difficoltà che la Francia aveva nell’ottenere il desiderato confine renano a causa dell’opposizione anglo-americana, nei mesi di febbraio
e marzo i delegati italiani fecero capire al governo di Parigi di essere
pronti a difendere le tesi francesi sulla Renania in cambio di un deciso appoggio transalpino nella questione adriatica331. Il 24 febbraio 1919
329 GARZIA, L’Italia e le origini della Società delle Nazioni, cit., p. 69 e ss. Circa la convinzione di Vittorio Emanuele Orlando sull’esistenza di un rapporto di grande stima e simpatia reciproca tra lui e Wilson: ORLANDO, Memorie, cit., p. 467 e ss.
330 FRUS, The Paris Peace Conference 1919, III, pp. 765-768, intervento di Orlando al
Consiglio dei Dieci, 28 gennaio 1919.
331 A questo riguardo si vedano le annotazioni di Barrère su un suo colloquio con Sonnino,
verosimilmente nell’autunno 1919, durante il quale il politico toscano ricordò di avere proposto a Clemenceau la propria disponibilità a sostenere le rivendicazioni renane della Francia:
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
95
Barzilai, su incarico di Orlando, incontrò Barrère proponendogli una
stretta alleanza italo-francese. L’Italia era disposta a sostenere le rivendicazioni francesi sul Reno e in Asia Minore. In cambio l’Italia doveva avere Fiume. A questo riguardo Barzilai dichiarò che la delegazione italiana era pronta a concessioni in Dalmazia:
[…] Nous savons très bien que pour avoir Fiume, nous en devons payer
le prix. Nous sommes prêts à donner 4 croates contre un italien à renoncer à
la plus grande partie de la Dalmatie en échange de cette ville332.
Barrère, molto favorevole alle proposte italiane333 e desideroso che
la Francia conquistasse il controllo della Renania, si recò a Parigi ai
primi di marzo per conferire con Clemenceau. Egli notò un forte risentimento anti-italiano nel presidente del consiglio francese; costui
si dichiarò disposto a dare Fiume all’Italia in cambio della rinuncia
italiana a tutta la Dalmazia e a Susak, oltre a garanzie internazionali
per l’uso del porto fiumano334. L’ambasciatore francese consigliò alla
delegazione italiana di trovare un accordo al proprio interno e di presentare un progetto di compromesso sulla questione335. Probabilmente
su stimolo di Barrère, all’inizio di marzo la delegazione tentò di dare
ulteriore concretezza a questa proposta di collaborazione italo-francese. Sonnino chiese a Clemenceau di cercare un compromesso nella
questione adriatica sulla base di una reinterpretazione delle clausole
del patto di Londra, grazie alla quale in cambio di Fiume italiana
l’Italia avrebbe rinunciato a parte del retroterra dalmata promessole
nel 1915 (la regione di Knin)336. Da parte francese, però, si pretese la
completa rinuncia italiana alla Dalmazia e, di fronte all’indisponibilità di Orlando e Sonnino a tale concessione, il negoziato bilaterale fallì337. Di fatto Clemenceau si dimostrò piuttosto freddo verso le aperture italiane. Come ha ben spiegato Jean Baptiste Duroselle, l’atteggiamento di Clemenceau verso l’Italia fu condizionato dal problema
AMAF, Papiers d’agents, Barrère, vol. 6, CAMILLE BARRÈRE, Note, 24 ottobre 1919. Si vedano anche le dichiarazioni di Orlando e Barzilai a Malagodi: MALAGODI, op. cit., II, p. 518
e ss.
332 AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 88, Barrère a Pichon, 24 e 25 febbraio 1919.
333 AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 88, Barrère a Pichon, 26 febbraio 1919.
334 AMAF, PA, Barrère, vol. 6, CAMILLE BARRÈRE, Note 30 avril-15 mai 1919, s.d.
335 Ibidem.
336 SONNINO, Carteggio 1916-1922, cit., Sonnino a Clemenceau, 8 marzo 1919, d. 437,
con allegato.
337 MALAGODI, op. cit., II, p. 566 e ss.
96
LUCIANO MONZALI
fondamentale del confine franco-tedesco e della pace con la Germania.
Mentre Foch, Barrère, Paul Cambon338 e Poincaré339 erano pronti ad un
duro conflitto politico con le Potenze anglosassoni pur di ottenere una
pace con la Germania che garantisse il definitivo distacco delle regioni
renane dallo Stato tedesco, e in questa ottica vedevano con interesse
un forte riavvicinamento tra Francia e Italia in sede della Conferenza
della pace al fine di un appoggio reciproco nella realizzazione integrale
delle proprie rivendicazioni territoriali, Clemenceau riteneva fondamentale per il futuro della Francia il mantenimento di una salda alleanza con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e priva di grande valore
un’intesa privilegiata con l’Italia. Il presidente del Consiglio francese
accettò una soluzione di compromesso sulla questione delle frontiere
del Reno (creazione del territorio autonomo della Sarre, temporanea
occupazione francese della Renania con tre diverse scadenze e la possibilità di prolungarla o di rioccupare una zona già evacuata in caso di
mancato rispetto germanico nell’esecuzione del trattato di pace) proprio al fine di garantire al governo di Parigi l’esistenza di una forte alleanza anglo-franco-americana, fondata sulla Società delle Nazioni e
sui trattati di garanzia, che assicurasse la sicurezza della Francia e la
sua egemonia nell’Europa continentale340. Logica conseguenza di questa scelta strategica di Clemenceau fu il suo sostanziale disinteresse ad
accogliere le aperture italiane, ed il privilegiare sempre l’amicizia con
la Gran Bretagna e gli Stati Uniti a quella italo-francese.
Falliti i tentativi italiani di trovare un’intesa privilegiata con la
Francia, il governo di Roma si rassegnò progressivamente allo scontro diplomatico con gli alleati e gli iugoslavi in seno al Consiglio
Supremo. Per presentare le proprie posizioni sulla questione adriatica la delegazione italiana preparò il cosiddetto memoriale Barzilai,
compilato da Francesco Salata341 nel febbraio-marzo 1919342. Nel me-
338 Al
riguardo: PAUL CAMBON, Correspondance 1870-1924, Paris, 1946, p. 294 e ss.
Sul contrasto fra Clemenceau e Poincaré: BLATT, France And The Franco-Italian
Entente, cit., p. 173 e ss.; RAYMOND POINCARÉ, Au service de la France. Neuf années de souvenirs. Vol. XI. À la recherche de la Paix, Paris, 1974.
340 DUROSELLE, Clemenceau, cit., pp. 720-773. Sulla questione della Renania alla
Conferenza della pace: WALTER A. MC DOUGALL, France’s Rhineland Diplomacy 1914-1924.
The Last Bid for a Balance of Power in Europe, Princeton, 1978, p. 33 e ss.; HENRY
BLUMENTHAL, Illusion and Reality in Franco-American Diplomacy 1914-1945, Baton Rouge,
1986, p. 70 e ss.
341 Sulla genesi del memoriale Barzilai: RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 193 e ss.
342 DDI, VI, 2, d. 787, Les revendications de l’Italie sur les Alpes et dans l’Adriatique.
339
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
97
moriale il governo italiano difese il significato e il contenuto del patto di Londra, mettendo in rilievo il carattere di compromesso delle
clausole dedicate alla Dalmazia. L’Italia aveva rinunciato a chiedere
Spalato e si era limitata a rivendicare il possesso di solo una parte
della Dalmazia e con il 44% della sua popolazione. Occorreva rilevare, a parere del governo italiano, l’origine multietnica di molti dei
circa 280.000 dalmati che sarebbero divenuti cittadini italiani applicando il patto di Londra: circa un terzo della popolazione dalmata era
di presunte origini illirico-romane, cioè morlacca. Vi era poi un forte e numeroso elemento italiano: secondo il governo di Roma, vivevano in Dalmazia almeno 50.000 italiani, la cui esistenza era stata taciuta dai passati censimenti austriaci. Fra gli slavi dalmati molti parlavano italiano. A parere della delegazione italiana, quindi, la rivendicazione di parte della Dalmazia aveva una sua giustificazione nazionale. Vi erano poi ragioni strategiche che obbligavano l’Italia a essere presente in Dalmazia. Data la natura della costa occidentale
dell’Adriatico, priva di difese naturali e aperta a possibili attacchi provenienti da Oriente, il possesso nemico della Dalmazia settentrionale rendeva l’Italia indifesa. L’Italia doveva quindi controllare una parte della Dalmazia per garantire la propria sicurezza nel Mare
Adriatico343. In questo memoriale il governo italiano si limitava a domandare l’annessione di «une part convenable des côtes et des îles
de la Dalmatie», senza specificare i limiti precisi dei territori richiesti: era chiaro che si era pronti a compiere rinunce rispetto a quanto
previsto dal patto di Londra pur di avere Fiume, territorio che nel memoriale Barzilai veniva rivendicato con molto vigore e con ampiezza di argomentazioni.
Lo sforzo dell’Italia di trovare un compromesso fallì anche a causa dell’irrigidimento delle posizioni iugoslave. I verbali della delegazione iugoslava alla Conferenza della pace344 confermano il fatto che
l’intransigenza del governo di Belgrado in parte era dovuta all’esigenza
di consolidare uno Stato già travagliato da forti contrasti nazionali e
di tenere unita una classe dirigente alquanto divisa345. L’intransigenza
era anche favorita dai segnali di sostegno che francesi, britannici e sta-
343
Ibidem.
Zapisnici sa sednica delegacije Kraljevine SHS na Mirovnoj Konferenciji u Parizu
1919-1920, (d’ora innanzi Zapisnici), Beograd, 1960.
345 Sulla situazione interna al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni: BANAC, The National
Question in Yugoslavia, cit., p. 226 e ss.; BIONDICH, op. cit., p. 149 e ss.
344
98
LUCIANO MONZALI
tunitensi inviavano agli iugoslavi346: sentendo di avere l’appoggio di
Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, la diplomazia iugoslava sostenne
posizioni massimalistiche, chiaramente manifestate dai memoranda
presentati sulla questione adriatica alla Conferenza della pace nel febbraio 1919. Il Regno SHS rivendicò il possesso di tutta la Dalmazia,
del Quarnero, della Venezia Giulia e del Friuli orientale. Riguardo alla Dalmazia, il governo iugoslavo presentò un memoriale347 in cui veniva ribadita la legittimità dell’appartenenza di tale regione, abitata in
gran maggioranza da croati e serbi, al Regno SHS. In questo documento venivano ripetute alcune argomentazioni classiche del pensiero politico nazionalista croato-iugoslavo: dalla presunta costante esistenza di un’entità giuridica e politico-nazionale autonoma ed unitaria croata fin dall’Alto Medioevo, alla visione del dominio veneziano
in Dalmazia come causa della decadenza economica e culturale e della parziale italianizzazione della regione dalmatica. Particolarmente rivelatrice era l’analisi della comunità italiana in Dalmazia. Il governo
iugoslavo non negava che vi fosse una minoranza italiana in Dalmazia,
ma affermava che essa non era autoctona, in quanto composta da immigrati provenienti dall’Italia e da slavi italianizzati.
Gli immigrati sono i discendenti dei funzionari veneziani restati in
Dalmazia nel XVII e XVIII secolo, o funzionari austriaci originari del Regno
Lombardo-Veneto che si sono stabiliti nel paese durante la prima metà del
XIX secolo, o infine piccoli commercianti, artigiani, marinai o pescatori venuti recentemente dall’Italia e che hanno formato delle nuove colonie italiane simili a quelle di Marsiglia, della Tunisia, dell’Argentina. Il resto era composto da slavi italianizzati nelle scuole o di aderenti al partito politico italiano che, ancora recentemente, deteneva il potere. Tuttavia tutti questi dalmati di lingua italiana hanno sempre dichiarato di non essere italiani ma slavi
di civiltà italiana348.
Erano argomentazioni che confermavano chiaramente la tradizio346 Ad esempio: Zapisnici, seduta del 2 febbraio 1919, pp. 41-43; LEDERER, op. cit., p. 167
e ss.
347 Zapisnici, p. 329 e ss., Memoar podnet Konferenciji Mira u Parizu, u vezi s revandikacijama Kraljevine Srba, Hrvata i Slovenaca. Alcuni estratti pubblicati in FEDERICO
CURATO, La conferenza della pace 1919-1920, Milano, 1942, II, p. 98 e ss. Si veda anche:
Documenti sulla questione adriatica. La Conferenza della pace (12 gennaio 1919 - 4 marzo
1920), Roma, s.d., p. 71 e ss.
348 Memoar, cit., p. 363; Memoriale jugoslavo sulla Dalmazia, in CURATO, La conferenza
della pace 1919-1920, cit., II, p. 139.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
99
nale ostilità di molti nazionalisti croati e serbi verso l’esistenza della
minoranza italiana in Dalmazia e la loro riluttanza a riconoscerle l’autoctonia e adeguati diritti politici e culturali.
La crescente opposizione degli Stati Uniti al programma adriatico
dell’Italia, l’ostilità dei franco-britannici e le divisioni in seno alla classe dirigente italiana spaventarono e inquietarono i dalmati italiani.
Roberto Ghiglianovich fu presente a Parigi per vari mesi come rappresentante degli italiani di Dalmazia e seguì attentamente le complesse trattative sulla questione adriatica. Fin dal gennaio il politico
dalmata si dimostrò alquanto pessimista sul futuro esito delle trattative. Egli considerava Orlando un politico debole, che temeva l’opinione
pubblica e desiderava, prima di tutto, assicurare Fiume all’Italia: in
questa ottica, per Ghiglianovich, il presidente del Consiglio mirava al
baratto fra parte della Dalmazia e la città del Quarnero349. Già in gennaio, a parere di Ghiglianovich, ogni speranza per Spalato era priva di
fondamento, mentre forse Zara e Sebenico avrebbero potuto essere salvate; ma pure il futuro di Zara sembrava al politico dalmata alquanto
oscuro e incerto.
Zara sola, senza un adeguato hinterland, senza niente altro che qualche
scoglio all’intorno, isolata ben peggio della Sardegna dalla Penisola, colla
pressione degli slavi, come potrebbe resistere economicamente e politicamente? […] Riuscirebbe Zara, di fronte al prevalente numero delle classi rurali del territorio e delle isole, avere un deputato italiano al Parlamento? Zara,
non finirebbe coll’essere cosa inutile, forse anche un peso per l’Italia?350.
Il deputato zaratino, poi, si dimostrò alquanto critico verso la delegazione italiana:
Sonnino e Salvago Raggi vanno benissimo. Fermi, decisi, incrollabili. Salandra, per quanto sottoscrittore del Trattato di Londra, nel mentre è fermo
sulla rivendicazione della intera Venezia Giulia, è sulla linea di una parziale
rinunziabilità riguardo alla Dalmazia. Barzilai è stato sempre contrario alla
Dalmazia; finse di essere favorevole quando appartenne al ministero
Salandra; poi aderì al Patto di Roma, e già i giornali parigini glielo osservano! Poi assunse un contegno di diffidenza verso gli jugoslavi; poi parlò di Zara
sola; poi ... poi ...: chi sa cosa ora pensa e vuole Barzilai? È un uomo ambi-
349 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 15 gennaio 1919 (in parte
edita in RANDI, Il Sen. Roberto Ghiglianovich, cit., 1979, nn. 2-3, pp. 97-98).
350 Ibidem.
100
LUCIANO MONZALI
zioso, senza ferme linee di convinzione, capace di tutti gli adattamenti351.
Esperto conoscitore dei problemi politici ed amministrativi della
Dalmazia, Ghiglianovich preparò numerosi memoriali sulla questione dalmatica per la delegazione italiana a Parigi. All’inizio del 1919
egli propose una serie di possibili soluzioni confinarie in Dalmazia.
A parere del politico dalmata, la migliore ipotesi sarebbe stata l’annessione all’Italia di tutta la Dalmazia centro-settentrionale, che, partendo dalle due ultime insenature di mare (Novegradi/Novigrad e
Carin/Karin) della terraferma settentrionale, inglobasse Zara, Bencovaz, Chistagne/ Kistanje, Sebenico, Dernis, Spalato, per raggiungere
il limite meridionale a sud di Almissa/Omis# e del fiume Cetina, presso la cascata della Gubavizza: in cambio di Spalato si potevano lasciare
allo Stato iugoslavo la Dalmazia meridionale, con Ragusa e Cattaro,
e i centri prevalentemente slavi di Knin e Obrovazzo, riservati all’Italia
dal patto di Londra352. Ghiglianovich definiva «linea della disperazione» un tracciato che riservasse all’Italia solo le città di Zara, Sebenico e Spalato, senza un adeguato retroterra353. In caso di annessione
della sola Zara, Ghiglianovich ricordò l’importanza di garantire l’esistenza economica della città evitando che i possidenti zaratini si ritrovassero con le loro proprietà terriere in un altro Stato: da qui l’esigenza di mantenere sotto la sovranità italiana, salvo piccole correzioni, l’intero capitanato distrettuale di Zara «fra il mare di Carin e il lago di Vrana»354. In un promemoria dedicato alla questione di Spalato,
Ghiglianovich sottolineò il carattere italiano della popolazione spalatina e ne descrisse la composizione nazionale in un modo piuttosto
semplicistico facendo coincidere le divisioni sociali fra ceti cittadini
e contadini con quelle nazionali:
La compagine nazionale di Spalato – prescindendo dalla slavizzazione della vita pubblica nelle scuole e negli uffici, e dalle defezioni opportunistiche
351 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 18 gennaio 1919 (in parte
edita in RANDI, Il Sen. Roberto Ghiglianovich, cit., 1979, nn. 2-3, pp. 98-100).
352 ASMAE, Carte Salata, b. 226, Ghiglianovich, Progetto A “Linea massima”, minuta,
allegato a Ghiglianovich a Salata, 7 febbraio 1919. Al riguardo RICCARDI, op. cit., pp. 19899.
353 ASMAE, Carte Salata, b. 226, Ghiglianovich, Progetto C “Linea della disperazione”, minuta, allegato a Ghiglianovich a Salata, 7 febbraio 1919.
354 ASMAE, Carte Salata, b. 226, Ghiglianovich, Progetto E “Zara”, minuta, allegato a
Ghiglianovich a Salata, 7 febbraio 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
101
– è ancora oggi tale, quale fu 50 anni fa. Spalato conta 15.000 abitanti, dei
quali 5.000 solamente sono cittadini veri, distribuiti nell’interno del palazzo
di Diocleziano e nelle «calli» adiacenti: la massa rimanente è formata dai
quattro sobborghi, abitati da contadini urbanizzati, detti borghigiani, che di
giorno lavorano i campi, di sera disturbano con cani e animali i passeggi dei
cittadini e di notte cantano avvinazzati, con poca edificazione dell’elemento
veramente civile. I cinquemila cittadini sono senza eccezione italiani o italianizzanti, i borghigiani parlano tanto il dialetto slavo spalatino, pieno d’italianismi e latinismi, che l’italiano, o per lo meno comprendono il linguaggio di Venezia. […] Non bisogna però pensare che tutti i borghi sono irremediabilmente fanatizzati al croatismo. Vivono ancora dei vecchi bajamontiani e delle famiglie intere che conservano il culto dell’autonomia dalmata.
[…] I caporioni politicanti di Spalato, Croati ieri, Jugoslavi oggi, una congrega affetta dal più smaccato nepotismo, sono in parte figli di contadini dei
dintorni, in parte figli d’Italiani, amici e discepoli di Bajamonti, croatizzati
barbaramente nelle scuole. […] Il regime austro-croato a Spalato usò per la
coscienza nazionale dei cittadini gli stessi mezzi, ed ebbe purtroppo anche
gli stessi effetti, che il dominio turco in Bosnia sulla coscienza religiosa355.
Nel corso del 1919 le comunità italiane della Dalmazia inviarono
alla delegazione alla Conferenza della Pace e al governo di Roma numerosi memoriali al fine di testimoniare la propria italianità e il desiderio di unione con la madrepatria. Interessante, ad esempio, è il memoriale che gli italiani di Knin, una delle roccaforti serbe della
Dalmazia settentrionale, inviarono a Millo e al governo di Roma nel
marzo 1919356. Gli italiani di Knin auspicavano l’annessione all’Italia
e la giustificavano anche con il timore che vaste fasce della popolazione dalmata avevano del ritorno dell’esercito serbo-iugoslavo.
Siamo del resto pienamente convinti, che l’Italia non abbandonerà questi paesi dopo averli redenti, giacché coll’allontanamento delle truppe italiane non solo l’elemento italiano del paese ma in generale i cattolici, che pur
rappresentano la maggioranza del distretto, sarebbero esposti alle più crudeli vessazioni ed angherie da parte dei jugoslavi. […] I due mesi intercessi fra
la caduta dell’Austria e l’occupazione italiana, quando qui spadroneggiavano i comitati jugoslavi e le guardie nazionali, sono una infausta recente me-
355 ASMAE, Carte Salata, b. 226, [ROBERTO GHIGLIANOVICH], Spalato, s.d. (ma gennaio,
febbraio 1919), minuta.
356 ASMAE, Carte Salata, b. 198, Carlo de Draganich-Veranzio, Giuseppe Ferrari,
Rodolfo Valenti, Francesco Madirazza e altri firmatari a Millo, marzo 1919, allegato a Millo
a Ministero degli Esteri, 15 marzo 1919.
102
LUCIANO MONZALI
moria per ogni ben pensante. Quel periodo del più truce terrore non può né
deve ripetersi! Il paese è grato all’Italia per averlo liberato dalla barbarie e
dalla ferocia; è grato perché gli ha ridato l’esistenza morale ed anche quella
materiale357.
A nome del Fascio Nazionale Italiano di Spalato Leonardo Pezzoli,
Antonio Tacconi e Edoardo Pervan inviarono un memoriale, con centinaia di firme, alla Conferenza della Pace alla fine del febbraio
1919358. In questa memoria essi spiegarono la storia di Spalato e dell’italianità spalatina, sottolineando l’identità latina e italiana della
città.
Spalato, come tutte le città marinare della Dalmazia, nelle sue origini romane, nel suo sviluppo storico, in tutte le manifestazioni del suo pensiero, si
affermò e si conservò costantemente, attraverso i tredici secoli della sua esistenza, sempre latina ed italiana, legata da indissolubili vincoli politici, etnici, economici e colturali, alle città sorelle dell’altra sponda.
Il Fascio Nazionale ricostruì con dovizia di particolari gli eventi a
Spalato dopo il crollo dell’Impero asburgico, descrivendo i numerosi
soprusi messi in atto contro la popolazione italiana da parte dei nazionalisti iugoslavi e dell’esercito serbo.
Quegli episodi, mentre sono indice evidente della persistenza di quell’odio sapientemente inoculato dall’Austria nei croati di Dalmazia verso tutto
ciò che sapeva d’italiano, conferma l’immaturità loro a dirigere la sorte dei
dalmati che hanno un passato storico, culturale ed etnico indissolubilmente
legato a quello dell’Italia. Essi non sono che la continuazione del lungo martirio cui gli italiani della Dalmazia furono esposti dal governo austriaco, cui
si prestava di buon grado l’elemento slavo, favorito perciò dal governo con
tutti i privilegi economici e sociali. Tale situazione, […] non è tollerabile sia
oggi continuata sotto un preteso regime jugoslavo, che avrebbe a trarre i profitti della nequizia e delle mali arti austriache per tanti anni dirette a falsare,
a violentare ed a distruggere tutto quanto d’italiano secolarmente esisteva su
queste sponde. Pur oggi, malgrado le passate e le nuove violenze, permane
vivo e fecondo quello spirito che, riallacciandosi alla trascorsa gloriosa storia romana e veneta, attraverso i legami della lingua, delle consuetudini, dei
costumi, dei commerci e delle necessità dell’industria, giustifica l’unico ar-
357
358
Ibidem.
Memoriale degli italiani di Spalato, febbraio 1919, cit.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
103
dente voto che gli Italiani di Spalato innalzano: «Che Spalato col suo circondario sia unito al Regno d’Italia»359.
Nel marzo 1919 pure il Fascio Nazionale Italiano di Ragusa, guidato da Giovanni Jelich e Giovanni Marotti, inviò alla delegazione italiana a Parigi un memoriale chiedendo l’annessione all’Italia o, perlomeno, un insieme di garanzie per i diritti della minoranza360. Gli italiani di Ragusa, prima della guerra una fiorente comunità di circa cinquecento persone, denunciarono i soprusi e i maltrattamenti a cui il
nuovo governo serbo sottometteva la minoranza italiana nella
Dalmazia meridionale: divieto di esporre insegne italiane dai negozi
e di parlare italiano in pubblico, soppressione dell’insegnamento dell’italiano nelle scuole e delle prediche in italiano nelle chiese, minaccia di assalire le sedi sociali qualora gli italiani ricostituissero le proprie società soppresse dall’Austria nel periodo di guerra. Per i ragusei italiani la Dalmazia meridionale era da sempre qualcosa di diverso per stile di vita, costumi e civiltà dal retroterra balcanico e quindi
l’unione all’Italia era un fatto naturale e giusto. In quei mesi anche le
piccole minoranze italiane presenti nei centri urbani del retroterra dalmata non occupati dall’esercito italiano si mobilitarono a favore dell’unione con l’Italia. Da Imoschi/Imotski alcune famiglie italiane invocarono l’occupazione dell’Italia «perché il loro amore all’Italia non
sia stato vano, perché l’Italia raccolga intero il frutto della sua vittoria, perché tutto il territorio che fu una volta veneto ritorni a Venezia,
e per sempre»361.
Lo scontro sulla questione adriatica si surriscaldò in aprile. In seno
alla delegazione statunitense crebbe l’influenza degli elementi anti-italiani, molto forti in seno all’Inquiry, il gruppo di esperti che consigliava i diplomatici americani, e nell’entourage di Wilson. Stretti collaboratori del presidente come House e Mezes, favorevoli alla ricerca di un
compromesso, vennero marginalizzati e persero influenza su Wilson.
Per i giovani esperti dell’Inquiry l’Italia non poteva annettere i territori a maggioranza croata: doveva quindi rinunciare a tutta la Dalmazia362.
359
Ibidem.
360 ASMAE,
Carte Salata, b. 198, Jelich e Marotti a Barzilai, 30 marzo 1919.
ASMAE, Carte Salata, b. 198, Matteo e Maria Mirossevich, Ferdinando e Allina
Tadich, Giannina e Antonio Giovannizio e altri firmatari a Millo, 20 marzo 1919, allegato a
Millo a Ministero degli Esteri, 2 aprile 1919.
362 ALBRECHT CARRIÉ, op. cit., p. 114 e ss.; LEDERER, op. cit., p. 216 e ss.; MAYER, Politics
and Diplomacy of Peacemaking, cit., pp. 673 e ss.
361
104
LUCIANO MONZALI
Fiume, invece, centro italiano ma necessario alla Croazia come sbocco marittimo, doveva essere ceduta alla Iugoslavia o eretta a città libera363. Per il presidente americano la questione adriatica divenne l’occasione per affermare concretamente alcuni princìpi ideologici della
sua diplomazia (autodeterminazione dei popoli, principio di nazionalità, sistema di sicurezza collettiva) e riconquistare un prestigio internazionale in parte smarrito nel corso dei negoziati sui confini tedeschi, che, ad esempio, avevano visto la concessione di territori abitati da numerose popolazioni germaniche alla Cecoslovacchia e alla
Polonia. Dopo aver avuto le sue prime manifestazioni in seno al
Consiglio Supremo all’inizio di aprile364, lo scontro fra Italia, Stati
Uniti e franco-britannici sulla questione adriatica raggiunse il suo apice fra il 19 e il 24. Il 19 aprile in sede di Consiglio dei Quattro Orlando
e Sonnino esposero le rivendicazioni italiane365. Il governo di Roma
rivendicò tutta l’Istria e l’annessione dei territori «che sono al di qua
di tutta la frontiera che la natura ha dato all’Italia», cioè il displuvio
delle Alpi; Fiume fu chiesta in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli, essendo l’annessione domandata dagli stessi fiumani. Le ragioni per cui l’Italia rivendicava parte della Dalmazia erano sia strategiche che nazionali. Secondo Orlando il controllo della costa dalmata era indispensabile per la sicurezza dell’Italia.
Non importa essere marinaio per sapere che la costa italiana è alla mercé
di ogni attacco che venga dall’altra sponda. La situazione è tale che se si consentissero alla potenza che detiene l’altra riva dei semplici mezzi di polizia,
ed anche se questi fossero ridotti al minimo, vi sarebbe sempre da parte loro possibilità di bombardare le città italiane e ritornare incolumi ai loro sicuri ancoraggi. […] La cosa è evidente di per sé. L’Italia non sarà mai sicura se non avrà una base difensiva nel mezzo dell’altra sponda366.
Vi erano poi le ragioni della nazione e della storia che spingevano
363
WP, 56, Lunt e altri a Wilson, 4 aprile 1919, p. 607 e ss.
364 PAUL MANTOUX, Les Délibérations du Conseil des Quatre (24 mars-28 juin 1919) (d’o-
ra innanzi MANTOUX), Paris, 1955, I, p. 125 e ss.
365 Al riguardo: LUIGI ALDROVANDI MARESCOTTI, Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti
di diario (1914-1919), Milano, 1936, pp. 221-239. Il resoconto di Aldrovandi Marescotti, capo gabinetto di Sonnino, non è altro che la parafrasi e traduzione del verbale ufficiale delle
sedute del Consiglio dei Quattro, tenuto dall’inglese Hankey, con l’aggiunta di alcuni suoi
ricordi e riflessioni. Altri resoconti di questa seduta del Consiglio dei quattro in WP, 57, p. 479
e ss. e in MANTOUX, I, p. 277 e ss.
366 ALDROVANDI MARESCOTTI, Guerra diplomatica, cit., p. 225.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
105
l’Italia a chiedere il controllo di parte della costa dalmata.
Dalle origini della storia – notò Orlando – fino a Campoformio la
Dalmazia è stata unita all’Italia; prima come parte dell’Impero romano, in seguito come parte di Venezia. E ciò deriva da un fatto naturale, perché le sue
montagne la separano dal territorio ad oriente. Perciò tutta la cultura dalmata gravitò fatalmente verso l’Italia. La Dalmazia è stata italiana fino agli ultimissimi tempi. […] Anche oggi a Zara, a Traù, a Spalato vi è forse maggioranza italiana. Si tratta di italianità fiorente. Sarebbe possibile, dopo tutti i sacrifici della guerra, che l’Italia vedesse questa italianità destinata alla
distruzione? Ciò che l’Italia domandò, in via transazionale, fu solo una piccola parte della Dalmazia, lasciando alla Serbia Cattaro, Spalato, Ragusa.
Crediamo di essere molto moderati se domandiamo di attenerci a quella transazione367.
Wilson ribadì la necessità di essere coerenti con i princìpi ispiratori di un nuovo ordine internazionale, fondato sulla cooperazione e
il rispetto dei diritti delle piccole nazioni, al fine di porre le basi per
una pace duratura. Gli Stati Uniti erano disposti a riconoscere le domande italiane per un confine strategico in Alto Adige e nella Venezia
Giulia, ma non potevano accettare le richieste su Fiume e sulla Dalmazia. Le ragioni avanzate dalla delegazione italiana per rivendicare la
Dalmazia erano incompatibili con i nuovi valori che dopo la guerra
dovevano permeare le relazioni internazionali.
Nel nuovo ordine dell’umanità noi dobbiamo unire i nostri sforzi per assicurare la integrità territoriale e la vita economica indipendente. Non posso
immaginare una flotta jugoslava che sotto il regime della Lega delle Nazioni
possa minacciare l’Italia.
Non era, poi, accettabile dare all’Italia «un piede nei Balcani», poiché in quella regione dovevano cessare l’ingerenza e il controllo delle grandi potenze368. Il corso della discussione confermò che era soprattutto Sonnino il sostenitore più convinto e deciso della rivendicazione dalmatica. Il ministro degli Esteri notò che le promesse di garanzia internazionale avanzate da Wilson erano solo teoriche e che le
richieste italiane si fondavano sull’esperienza storica:
367
368
Ivi, pp. 225-226.
Ivi, pp. 226-230.
106
LUCIANO MONZALI
Noi non abbiamo mai chiesto condizioni di vantaggio strategico per qualsiasi eventuale offensiva; ma unicamente condizioni indispensabili di difesa
e di sicurezza. Non abbiamo aspirazioni aggressive verso nessuno, ma unicamente quella di por riparo al fatale destino riservato fin qui all’Italia, aperta a tutte le aggressioni altrui.
L’Italia desiderava rimanere fuori dalla politica balcanica e, non a
caso, «la Dalmazia, specialmente la parte settentrionale che chiediamo, è assolutamente fuori dai Balcani. Tutte le sue relazioni economiche e culturali gravitano verso la parte italiana dell’Adriatico»369.
L’impasse nel negoziato sulla questione adriatica fu inevitabile soprattutto a causa della posizione anglo-francese. Lloyd George e Clemenceau riconobbero il valore formale del patto di Londra, ma desiderando la revisione delle sue clausole adriatiche e mediterranee, troppo favorevoli all’Italia, assunsero una posizione d’attesa che lasciava
trapelare la loro solidarietà con le posizioni di Wilson370. Infatti le loro proposte di mediazione erano fondate su un deciso ridimensionamento del patto di Londra, con la rinuncia italiana alla terraferma dalmata, alla gran parte delle isole adriatiche e a Fiume: fra il 21 e il 23
aprile il primo ministro britannico preparò una proposta di compromesso che prevedeva Fiume città libera, alcune isole dalmate all’Italia,
l’Istria orientale, la terraferma dalmata e il resto delle isole della
Dalmazia allo Stato iugoslavo, Zara e Sebenico città libere sotto la protezione della Società delle Nazioni371; compromesso rifiutato sia dalla delegazione italiana che da Wilson. La tensione si aggravò sempre
più. Wilson, convinto che il governo in carica non rappresentasse autenticamente la volontà popolare italiana, pubblicò un appello alla nazione italiana sulla stampa francese all’insaputa di Orlando e Sonnino.
Come reazione la delegazione italiana decise l’abbandono dalla
Conferenza della pace e il ritorno in Italia, al fine di ottenere un nuovo voto di fiducia del Parlamento. Il 24 aprile il Consiglio Supremo
tenne un’altra riunione per cercare di scongiurare una clamorosa crisi sulla questione adriatica372. La delegazione italiana propose una soluzione di compromesso: in cambio della sovranità su Fiume, l’Italia
369
Ivi, pp. 230-231.
MANTOUX, I, p. 292 e ss., p. 300 e ss.
371 MANTOUX, I, p. 307 e ss., 337 e ss.; LLOYD GEORGE, The Truth about, cit., II, p. 854
370
e ss.
372
MANTOUX, I, p. 355 e ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
107
avrebbe rinunciato a tutta la Dalmazia continentale eccetto Zara e
Sebenico, che sarebbero state poste sotto mandato italiano con il controllo della Società delle Nazioni; il governo di Roma, poi, pretendeva l’annessione delle isole dalmate e dell’Istria come previsto dal patto di Londra373. Wilson ribadì la sua opposizione all’applicazione del
patto di Londra, giudicato contrario ai princìpi ispiratori della politica estera degli Stati Uniti, e all’attribuzione di Fiume all’Italia. Non
avendo raggiunto nessuna intesa, il 24 la delegazione italiana abbandonò Parigi e ritornò in patria. La partenza di tutti i cinque delegati e
la prolungata assenza della delegazione italiana da Parigi furono due
gravi errori, che si aggiungevano a quello di non avere accettato la proposta wilsoniana di fare di Fiume una città libera. L’assenza di delegati autorevoli provocò un rallentamento dei negoziati sulla questione adriatica proprio nel momento in cui, forse, sarebbe stato possibile raggiungere un compromesso. Il protrarsi dell’assenza esacerbò ulteriormente gli umori anti-italiani delle delegazioni alleate. La lettura dei verbali delle conversazioni fra Lloyd George, Clemenceau e
Wilson, tenutesi tra il 25 aprile e il 7 maggio 1919374, indica in modo
esplicito che, con il trascorrere dei giorni, l’ostilità ed il rancore dei
capi di governo alleati verso gli italiani si accrebbero a dismisura. Lo
stesso Lloyd George, sicuramente colui che tra i tre capi di Stato alleati maggiormente si era adoperato per il raggiungimento di un compromesso onorevole per l’Italia sul problema adriatico, e che ancora
il 30 aprile si era mostrato desideroso di trovare una soluzione che tenesse conto delle richieste italiane su Fiume375, con il passare dei giorni assunse un atteggiamento sempre meno amichevole376. Un segnale
del deterioramento dei rapporti fra italiani e alleati fu il fallimento del
tentativo di Barrère di venire a Parigi per fare da mediatore fra Italia
e franco-anglo-americani all’inizio di maggio. Tale iniziativa raccolse il consenso italiano377, ma si scontrò con il rifiuto di Clemenceau
di trattare attraverso un tale intermediario, ritenuto negli ambienti politici francesi troppo filoitaliano378. Proprio a partire dai primi di maggio, la soluzione del problema adriatico, poi, divenne più difficile a
373
MANTOUX, I, p. 363.
MANTOUX, I, p. 368 e ss.
375 MANTOUX, I, pp. 422-423.
376 MANTOUX, I, p. 450 e ss.
377 ASMAE, Carte Imperiali, b. 2, Sonnino a Imperiali, 3 maggio 1919, tel. nn. 1157 e
1158.
378 DUROSELLE, Clemenceau, cit., p. 780 e ss.
374
108
LUCIANO MONZALI
causa dell’ampliarsi del contenzioso politico fra Italia e alleati anche
ad altre aree geografiche. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti sfruttarono abilmente l’assenza dell’Italia dalla Conferenza per colpire duramente gli interessi italiani in Asia minore e in Africa. Giunta notizia della presenza militare italiana sulle coste dell’Anatolia379, il 6 e 7
maggio, all’insaputa del governo di Roma, gli alleati diedero il loro
consenso allo sbarco greco a Smirne380, territorio che gli accordi di San
Giovanni di Moriana avevano concesso all’Italia381. Sempre ai primi
di maggio, su pressione britannica, gli alleati decisero improvvisamente di accelerare la discussione sull’attribuzione delle colonie africane tedesche382. Il 6 maggio, il giorno prima del ritorno della delegazione italiana a Parigi, Lloyd George riuscì ad imporre una discussione conclusiva sui mandati383. Britannici, francesi e americani decisero la concreta spartizione delle colonie africane della Germania, attribuite sotto forma di mandati internazionali a Francia e Gran Bretagna, escludendo la partecipazione dell’Italia. Il giorno successivo tale decisione venne ufficialmente ratificata dal Consiglio Supremo e
comunicata all’Italia, che si trovò esclusa da ogni mandato senza avere nessuna concreta contropartita al di là di generiche promesse di future discussioni per applicare l’articolo XIII del patto di Londra384.
Queste iniziative anglo-franco-americane irritarono enormemente il
governo italiano, tornato alla Conferenza della pace il 7 maggio, che
si sentì ingannato e non rispettato nei propri legittimi interessi. In maggio il dissidio sulla questione adriatica si trasformò in una vera e propria «guerra diplomatica» fra Italia e potenze alleate e associate, che
si scontrarono per realizzare i propri disegni politici non solo nel-
379
MANTOUX, I, pp. 422, 452.
Una ricostruzione della reazione alleata alle iniziative italiane in Asia Minore e della genesi dello sbarco greco a Smirne in: MICHAEL LLEWELLYN SMITH, Ionian Vision. Greece
in Asia Minor 1919-1922, New York, 1973, p. 71 e ss.; HELMREICH, op. cit., pp. 94-101;
LAURENCE EVANS, United States Policy and the Partition of Turkey 1914-1924, Baltimore,
1965, p. 160 e ss. Si veda anche: MANTOUX, I, pp. 510-512. Sulla rivalità italo-ellenica nel
1919 anche: DIMITRI KITSIKIS, Propagande et pressions en politique internationale. La Grèce
et ses revendications à la Confèrence de la Paix (1919-20), Paris, 1963, p. 52 e ss.
381 Sugli accordi di San Giovanni di Moriana: RICCARDI, Alleati non amici, cit.; TOSCANO,
Gli accordi, cit.
382 MANTOUX, I, p. 486.
383 MANTOUX, I, p. 501 e ss.
384 ALDROVANDI MARESCOTTI, Guerra diplomatica, cit., pp. 299-306. Sul valore dell’articolo XIII del patto di Londra: LUCIANO MONZALI, La questione etiopica nella politica estera italiana (1896-1915), Parma, 1996, p. 400 e ss.
380
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
109
l’Adriatico orientale, ma anche nei Balcani, nel Mediterraneo orientale e nel Corno d’Africa.
Nel corso della primavera del 1919 numerosi politici dalmati italiani furono presenti a Parigi. Oltre a Ghiglianovich, si recarono a
Parigi Ziliotto e Pini, invitati dal governo a rappresentare gli italiani
di Zara e Sebenico alla Conferenza della pace, nonché Salvi e Lubin
in rappresentanza degli italiani presenti in quella parte della Dalmazia
che il patto di Londra abbandonava allo Stato iugoslavo. Salvi e Lubin
fecero propaganda a favore dell’annessione della regione di Spalato
all’Italia ma senza grandi risultati. Il 23 marzo, cercando di sfruttare
politicamente i disordini anti-italiani avvenuti a Spalato nei mesi precedenti, Ghiglianovich, insieme a Pitacco e Antoni, incontrò Sonnino
e fece pressioni a favore dell’unione della città dalmatica all’Italia.
Sonnino – rilevò Ghiglianovich – mi rispose di essere a perfetta conoscenza dell’attuale situazione di Spalato, […] ma di non poter chiedere ufficialmente l’annessione di Spalato, poiché questa richiesta vorrebbe significare una implicita revisione della convenzione di Londra, che è l’unico documento diplomatico che egli ha in mano e che occorre non vulnerare neppur indirettamente. […] So, aggiunse Sonnino, che in Italia si fa anche un’intensa agitazione per Spalato; alla stessa non ci siamo opposti, né ci opponiamo, poiché questa agitazione, come anche le manifestazioni italiane di
Spalato, valgono a comprovare di fronte all’Intesa e all’America il sagrifizio
che l’Italia ha già fatto abbandonando Spalato385.
A parere di Sonnino, la rivendicazione di Fiume, invece, era possibile, perché, anche se esclusa dal patto di Londra, riguardava una città
a maggioranza italiana che aveva chiesto in modo plebiscitario di essere annessa all’Italia e «poiché la questione di Fiume entra nelle idee
wilsoniane». Spalato, insomma, non era nel programma territoriale del
governo di Roma e ciò creò malumore in seno ai dalmati italiani, con
gli spalatini esasperati e furiosi, critici verso zaratini e sebenzani.
Salvi – notò criticamente Ghiglianovich – come in Piazza dei Signori a
Spalato o al Caffè Troccoli ha assunto qui, per l’esasperazione da cui è invaso, un tono altezzoso, derisorio, impertinente. Dà a voce alta degli imbecilli
a Tizio, Caio, Sempronio; svillaneggia Ziliotto e Pini386.
385 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 24 marzo 1919 (lettera in
parte edita in RANDI, Il Sen. Roberto Ghiglianovich, cit., 1979, n. 4, pp. 205-206).
386 Ibidem.
110
LUCIANO MONZALI
Con il trascorrere dei giorni il pessimismo dei dalmati italiani sul
loro futuro aumentò sempre più. Di fronte al crescere dell’opposizione americana e anglo-francese alle rivendicazioni italiane, Ghiglianovich temeva che l’Italia, pur di avere Fiume, avrebbe rinunciato a
tutta la Dalmazia: «Caro Nade, – scriveva sconsolato Ghiglianovich a
Krekich il 9 aprile – sarà un miracolo della Madonna se oltre a Lissa
potremo salvare Zara e il suo distretto politico. Un vero miracolo, che
la Madonna non ci darà!»387.
Il viaggio di Orlando e Sonnino in Italia e il successivo ritorno a
Parigi non migliorarono la situazione. A parere di Roberto Ghiglianovich, il gesto italiano non era stato valutato positivamente dagli alleati, sempre più irritati. In seno alla delegazione italiana cresceva il
numero di coloro che erano disposti a grandi sacrifici in Dalmazia pur
di avere Fiume; anche nella delegazione iugoslava aumentavano le
pressioni a favore di tale soluzione:
Secondo alcune informazioni private, gli jugoslavi, e cioè il gruppo dalmato serbo, sarebbero disposti ad abbandonare Fiume, pur di salvare la maggior parte dei territori dalmati del Patto di Londra388.
A causa delle difficoltà nella questione adriatica aumentava la sfiducia e si rafforzavano le critiche dei dalmati italiani verso l’operato
del governo Orlando-Sonnino. Il 5 maggio, in una lettera a D’Annunzio Ercolano Salvi criticò la volontà del governo di sacrificare la
Dalmazia al fine di avere Fiume:
[Il governo] per pagare Fiume, era disposto di abbandonare tutto il retroterra dalmata. Questo sagrificio si sarebbe potuto capire soltanto quando, in
cambio, per riparare alla sciagurata imperfezione del Patto di Londra, si avesse voluto estendere la redenzione della costa almeno fino al Biokovo, così da
includere Traù, Spalato, Almissa. Altrimenti, una rinunzia tanto sconsiderata, sarebbe esiziale per le condizioni di vita di Zara e Sebenico e per l’avvenire di tutte le altre città costiere389.
Nazionalisti e giolittiani divennero sempre più ostili a Orlando e
Sonnino. Ghiglianovich scrisse a questo proposito il 15 maggio:
387 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Krekich, 9 aprile 1919 (lettera in parte edita in RANDI, Il Sen. Roberto Ghiglianovich, cit., 1979, n. 4, pp. 209-211).
388 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 11 maggio 1919.
389 FV, ARC GEN, fasc. Ercolano Salvi, Salvi a D’Annunzio, 5 maggio 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
111
Qui a Parigi, ci sono Giuriati e Sinigaglia, membri del Comitato d’azione […]. Sono pronti a tutto. Vogliono la crisi, ma sono spaventati dall’idea
della successione. […] Il direttore dell’Idea Nazionale – Forges – che è qui,
e lo stesso Coppola, pure a Parigi, sarebbero disposti, in disperazione di causa, di contribuire alla formazione di un ministero Luzzatti-Tittoni, col proposito di circuirli, di imporre loro una linea di resistenza ad oltranza, a mantenere la quale si sono manifestati incapaci Orlando e Sonnino. Se Tittoni e
Luzzatti mancassero al compito, si dovrebbe arrivare ad un ministero extraparlamentare, pronto a tutto. E ciò significherebbe la rivoluzione390.
Sotto il fuoco delle critiche interne e della pressione diplomatica
alleata, fra la seconda metà di maggio e l’inizio di giugno il governo
Orlando-Sonnino s’impegnò strenuamente per raggiungere un compromesso adriatico accettabile391. Il segretario generale della Consulta,
Giacomo De Martino, consigliò un ripensamento della strategia diplomatica italiana alla Conferenza. In un appunto che inviò a Sonnino
l’11 maggio, il diplomatico constatò l’urgenza di arrivare ad una soluzione della questione adriatica in tempi brevi:
[...] La formula «trattato di Londra più Fiume» non è praticamente conseguibile. Pertanto la soluzione non potrà essere che di compromesso, cioè a
base di nostre concessioni e rinunzie.
Il problema si pone come appresso: queste concessioni e rinunzie debbono
negoziarsi unicamente nel campo della questione Adriatica, ovvero anche nel
campo delle questioni d’Asia Minore e d’Africa? Non esito a esprimermi per
la seconda maniera, ma attenendosi al seguente modo di negoziato:
Impostare subito nettamente tutti i nostri postulati.
Trattare contemporaneamente ma separatamente le tre questioni Adriatico,
Asia Minore e Africa.
In corso di negoziato opporsi a qualsiasi abbinamento.
Condurre i negoziati Asia Minore e Africa in modo da non concludere prima che giunga alla fase decisiva il negoziato Adriatico.
Giunti a questo punto – se la previsione detta sopra fosse esatta – la soluzione del negoziato Adriatico risulterà impostata sulla base di notevoli ri390 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 13 maggio 1919 (lettera in
parte edita, con data erronea del 15 maggio, in RANDI, Il Sen. Roberto Ghiglianovich, cit.,
1979, n. 4, pp. 213-214).
391 Sui negoziati fra Italia e Alleati nei mesi di maggio e giugno: ALBRECHT-CARRIÉ, op.
cit., p. 153 e ss.; LEDERER, op. cit., p. 140 e ss.; ALDROVANDI MARESCOTTI, op. cit., p. 354 e
ss.; RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 221 e ss.; CRESPI, op. cit., p. 569 e ss.; MARTA
PETRICIOLI, L’occupazione italiana del Caucaso: “un ingrato servizio” da rendere a Londra,
Pavia, 1972, p. 48 e ss.
112
LUCIANO MONZALI
nunzie e concessioni. Ed allora, e non prima, dovrebbero gli stessi plenipotenziari italiani fare l’abbinamento di quelle concessioni e rinunzie, già concretate in massima, con la soluzione delle questioni Asia Minore e Africa. [...]
Questo modus procedendi potrebbe avere luogo alla sola condizione che
sin da ora siano iniziati i negoziati Asia Minore e Africa in modo da condurli
presso al termine pel momento richiesto.Tutto sta nel potere sfruttare il momento utile, l’attimo sfuggevole [...]. Il sistema che venne già adottato, secondo mi disse il Marchese Salvago Raggi, di trattare le tre questioni successivamente, cioè prima Adriatico, in secondo tempo Asia Minore e in terzo luogo Africa, non ha dato buoni frutti, in quanto ha permesso il verificarsi di fatti compiuti per parte dei nostri concorrenti (occupazioni in Asia
Minore e conclusione circa i mandati in Africa)392.
Dalla metà di maggio, al fine di avere maggiori contropartite a disposizione, la delegazione italiana s’impegnò in negoziati per la concessione dei compensi africani previsti dall’articolo XIII del patto di
Londra393 ed in trattative per ottenere un mandato in Anatolia394. Contemporaneamente vennero ripresi i negoziati sulla questione adriatica, sempre al centro della politica estera italiana. In campo alleato furono soprattutto House e alcuni diplomatici francesi a cercare di favorire un compromesso. A metà di maggio, su mandato di House, consapevole del carattere sproporzionato ed insensato che la controversia
italo-statunitense stava assumendo395, il funzionario statunitense Miller
delineò un progetto di compromesso in collaborazione con l’ambasciatore italiano a Washington, Macchi di Cellere396. Il piano Miller
prevedeva Fiume città indipendente e porto franco sotto la protezione
della Società delle Nazioni, l’Istria all’Italia riservando agli iugoslavi la ferrovia Fiume-Vienna, Zara e Sebenico porti franchi sotto la sovranità italiana, tutta la costa dalmata neutralizzata e Valona ed un
392 INSMLI, Carte a Prato, b. 11, GIACOMO DE MARTINO, Appunto per S.E. Il Ministro,
11 maggio 1919.
393 FRANCESCO SALATA, Il nodo di Gibuti. Storia diplomatica su documenti inediti,
Milano, 1939, pp. 291-296; GIOVANNI BUCCIANTI, L’egemonia sull’Etiopia (1918-1923). Lo
scontro diplomatico fra Italia, Francia e Inghilterra, Milano, 1977, pp. 83-90.
394 ALDROVANDI MARESCOTTI, Guerra diplomatica, cit., pp. 337-338; MANTOUX, II, p. 110
e ss.; HELMREICH, op. cit.
395 Sull’atteggiamento di House verso la controversia italo-iugoslava: CHARLES
SEYMOUR, a cura di, The Intimate Papers of Colonel House, London, 1928, IV, p. 448 e ss.;
LEDERER, op. cit., p. 240 e ss.; CHARLES SEYMOUR, The Role of Colonel House in Wilson’s
Diplomacy, in EDWARD H. BUEHRIG, Wilson’s Foreign Policy in Perspective, Bloomington,
1957, p. 11 e ss.
396 IUSTUS, op. cit., p. 191 e ss.; ALBRECHT CARRIÉ, op. cit., p. 153 e ss.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
113
eventuale mandato albanese all’Italia397. Il progetto Miller fu all’origine del cosiddetto piano Tardieu, con il quale il governo di Roma si
dichiarò pronto a rinunciare al controllo della maggior parte della
Dalmazia e alla richiesta dell’annessione immediata di Fiume: il piano prevedeva l’attribuzione all’Italia di tutta l’Istria, di Zara, Sebenico
e delle isole di Cherso, Lissa, Lussino e Pelagosa; in cambio il governo
italiano rinunciava al resto della Dalmazia e accettava la costituzione
di uno Stato libero fiumano, sul futuro del quale si sarebbe tenuto un
plebiscito fra 15 anni398. Mentre il governo italiano si dichiarò pronto
ad accettare il piano Tardieu, gli iugoslavi lo rifiutarono: in particolare Trumbic!, esponente dell’ala più intransigente della delegazione, dichiarò inaccettabile l’eventualità della sovranità italiana su Zara e
Sebenico399. Lloyd George e Clemenceau, stanchi della controversia
adriatica, cercarono di convincere il presidente americano ad accettare il piano Tardieu, ma si scontrarono con le resistenze di Wilson.
Ritenendolo troppo favorevole all’Italia e punitivo per gli iugoslavi,
Wilson propose la modifica del piano Tardieu. Il presidente americano si dichiarò contrario alla sovranità italiana su Sebenico e Zara; alla proposta di Clemenceau di lasciare Zara al dominio italiano, Wilson
ribadì di essere ostile a che l’Italia s’installasse sulla costa orientale
dell’Adriatico: la maggioranza della popolazione di Zara era italiana,
ma – dichiarò Wilson – sarebbe proponibile la cessione di Milwaukee,
città statunitense con una forte presenza germanica, ai tedeschi?400 A
parere del presidente americano Sebenico doveva essere iugoslava,
mentre Zara poteva divenire città libera sotto la protezione della Società delle Nazioni; Wilson desiderava anche che fossero riservate all’Italia il minor numero possibile di isole dalmate401. Dopo lunghe consultazioni Wilson convinse gli anglo-francesi a definire in comune una
proposta unitaria da presentare ad italiani e iugoslavi402. Il 7 giugno il
presidente statunitense trasmise un memorandum anglo-franco-americano sulla questione adriatica ad Orlando. Secondo Wilson, Lloyd
397 IUSTUS, op. cit., p. 195.
398 MANTOUX, II, p. 237 e ss.;
ALBRECHT CARRIÉ, op. cit., p. 184 e ss.; LEDERER, op. cit.,
p. 246 e ss.
399 WP, 60, A memorandum by Douglas Wilson Johnson, 4 giugno 1919, pp. 137-138;
LEDERER, op. cit., pp. 247-248.
400 MANTOUX, II, p. 326.
401 MANTOUX, II, p. 322 e ss.; WP, 60, Hankey’s Notes of a Meeting of the Council of
Four, 6 giugno 1919, pp. 206-213.
402 MANTOUX, II, p. 327.
114
LUCIANO MONZALI
George e Clemenceau, bisognava prevedere la creazione di un vasto
Stato libero fiumano, che avrebbe dovuto inglobare oltre a Fiume,
l’Istria orientale e le isole di Cherso e di Veglia. In Dalmazia l’Italia
avrebbe potuto ottenere il controllo delle isole di Lissa, Lagosta,
Lunga/Dugi Otok e di alcuni isolotti di fronte a Zara. Sebenico sarebbe
passata allo Stato iugoslavo, mentre Zara sarebbe stata costituita come libera città sotto la Lega delle Nazioni, con la sua rappresentanza
sul piano internazionale affidata all’Italia403. La delegazione italiana
rispose agli alleati con un memorandum datato 9 giugno. Il governo
di Roma rifiutò le proposte wilsoniane ed alleate, ritenendole assai più
svantaggiose di quanto previsto dal piano Tardieu: riguardo alla
Dalmazia il memoriale di Wilson toglieva Sebenico e le isole vicine
all’Italia; la stessa Zara si vedeva ridotta allo status di città libera, mentre il piano Tardieu ne sanzionava l’annessione all’Italia404.
I dalmati italiani videro con crescente preoccupazione l’ulteriore
cedimento della delegazione riguardo alla Dalmazia. L’ipotesi di Zara
e Sebenico città libere fu giudicata negativamente da Ghiglianovich,
che, in un colloquio con Orlando il 15 maggio, manifestò apertamente la sua opposizione: «Ieri Orlando mi chiese cosa pensassi della soluzione del problema dalmatico colla creazione di città libere in
Dalmazia. […] Gli ho risposto che le città dalmate, compresa Zara,
sarebbero finite, assai presto, per la penetrazione slava dal retroterra,
ecc., città jugoslave con etichetta di città libere. Gli dissi che soltanto l’annessione dei territori dalmati avrebbe potuto salvare l’italianità
ivi messa dall’Austria a dura prova»405.
Pure l’idea di rivendicare solo i centri urbani di Zara e Sebenico
riscuoteva scarsa simpatia nei dalmati, perché avrebbe impoverito le
città separandole dal loro retroterra406. Ghiglianovich non aveva più fiducia nel governo Orlando-Sonnino, ma temeva che qualunque altro
ministero sarebbe stato peggio.
403 Il testo del memorandum di Wilson è riprodotto in traduzione italiana in: ALATRI, Nitti,
cit., pp. 36-37. Al riguardo: WP, 60, p. 206 e ss. Sull’opposizione italiana al progetto di accordo americano: ACS, Carte Orlando, b. 7, Colosimo a Orlando, 9 giugno 1919.
404 Il testo del memorandum italiano del 9 giugno è riprodotto in WP, 60, allegato a
Orlando a Wilson, 9 giugno 1919, pp. 307-311. Si veda anche: PAOLO ALATRI, Nitti,
D’Annunzio e la questione adriatica (1919-1920), Milano, 1959, pp. 37-38.; ALDROVANDI
MARESCOTTI, Nuovi ricordi, cit., p. 53 e ss.
405 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 16 maggio 1919 (lettera in
parte edita in RANDI, Il Sen. Roberto Ghiglianovich, cit., 1979, n. 4, pp. 214-215).
406 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 1° giugno 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
115
Se la crisi avverrà […] essa non potrebbe risolversi che con elementi ancor meno dalmatofili degli attuali: Tittoni, Luzzatti, Nitti, Bissolati. Parlare
di un ministero extraparlamentare non è il caso. Il Paese in gravissimo disagio economico, con scioperi aperti o latenti dovunque, non troverà in sé l’energia di agire e finirà coll’adattarsi a qualunque soluzione, pur di farla finita407.
Le proteste iugoslave, la rigidità di Wilson di fronte alle richieste
italiane e la caduta del governo Orlando il 19 giugno, sostituito da un
nuovo esecutivo guidato da Nitti con Tittoni ministro degli Esteri, fecero fallire il lungo negoziato adriatico, che dovette ripartire da capo
alcune settimane dopo, con alcuni nuovi protagonisti (Nitti e Tittoni)
e l’assenza di Wilson, tornato definitivamente a Washington dopo la
firma del trattato di Versailles. Come hanno osservato Mira e Salvatorelli, Orlando e Sonnino avevano cercato di raggiungere un compromesso territoriale alquanto simile a quello che sarebbe stato sancito dal patto di Rapallo: avevano tentato di ottenere il confine naturale sulle Alpi Giulie in Istria e nella valle dell’Isonzo e di preservare perlomeno l’italianità di Fiume attraverso la formula dello Stato libero; in cambio erano stati pronti a rinunce in Dalmazia408. Il fallimento nel negoziato adriatico fu dovuto alla maggiore forza diplomatica della posizione iugoslava nel corso del 1919. La grande influenza americana sulla politica europea in quei mesi e il sostegno degli Stati Uniti alle tesi serbo-croate-slovene rafforzarono enormemente
le posizioni di Belgrado. La situazione interna iugoslava, seppur già
grave, non si era ancora drammaticamente deteriorata come sarebbe
successo nel 1920; da parte italiana, quindi, non fu possibile puntare
sulla strategia di cercare un accordo preferenziale con i serbi, nel 1919
ancora desiderosi di mantenere un’unità d’intenti con i croati. Il governo Orlando-Sonnino cercò di trovare un compromesso territoriale
adriatico rinunciando a parte dei territori promessi all’Italia dal patto
di Londra. Ma l’intransigenza iugoslava, il rigido ed ideologizzato atteggiamento americano e la politica poco amichevole dei francesi e
britannici resero impossibile un accordo diplomatico.
407 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 9 giugno 1919. Si veda anche ibidem, Ghiglianovich a Barbieri, 18 maggio 1919 (lettera in parte edita in RANDI, Il Sen.
Roberto Ghiglianovich, cit., 1979, n. 4, pp. 215-216).
408 LUIGI SALVATORELLI, GIOVANNI MIRA, Storia d’Italia nel periodo fascista, Milano,
1974, I, p. 74.
116
LUCIANO MONZALI
1.7. Il problema della protezione degli italiani nella Dalmazia
iugoslava e i trattati per la tutela delle minoranze in Europa
centro-orientale
I difficili negoziati sulla questione adriatica in seno alla Conferenza
di Parigi e la crescente consapevolezza dell’improbabilità di una futura annessione di gran parte della Dalmazia all’Italia, spinsero il governo di Roma a riflettere sull’opportunità di ottenere nei trattati di
pace alcune garanzie a tutela dei diritti nazionali e culturali della minoranza italiana dalmata.
Per stimolo degli Stati Uniti, desiderosi di stabilire una serie di garanzie per le minoranze religiose e nazionali in Europa, in particolare per tutelare gli ebrei spesso vittime di persecuzioni e discriminazioni, e sotto la pressione di parte delle opinioni pubbliche europee e
americana, impressionate dalle notizie di eccidi anti-ebraici avvenuti
in Polonia nella primavera del 1919, il 1° maggio il Consiglio supremo della Conferenza della pace decise di creare una Commissione (la
Commission des Nouveaux États et de la protection des droits des minorités) avente l’incarico di studiare il problema degli obblighi internazionali che il governo polacco e gli altri nuovi Stati creati dai trattati di pace avrebbero dovuto accettare, in particolare riguardo alla protezione delle minoranze «de race et de religion»409. La Commissione,
composta originariamente dai soli rappresentanti britannico, francese
e statunitense, iniziò i suoi lavori il 3 maggio. Dopo il ritorno della
delegazione a Parigi ed avuta comunicazione dell’esistenza di questa
nuova Commissione, l’Italia chiese di potere partecipare ai lavori di
questo organo410. A partire dal 12 maggio un rappresentante italiano
collaborò a pieno titolo all’attività della Commissione: per rappresentare l’Italia venne scelto Giacomo De Martino, che nei mesi suc409 MANTOUX, I, p. 440 e ss.; ASMAE, RECUIL, VII/B-1, Hankey al segretario generale della Conferenza della pace, 1° maggio 1919, annesso I a verbale della seduta della
Commissione dei Nuovi Stati, 3 maggio 1919, pp. 5-6. Sull’origine dei trattati di garanzia
delle minoranze: CAROLE FINK, The Minorities Question at the Paris Peace Conference: The
Polish Minority Treaty, June 28, 1919, in MANFRED F. BOEMEKE, GERALD D. FELDMAN,
ELISABETH GLASER, The Treaty of Versailles. A Reassessment after 75 Years, WashingtonCambridge, 1998, p. 249 e ss.; LUCA DEI SABELLI (LUCA PIETROMARCHI), Nazioni e minoranze
etniche, Bologna, 1929, II; MARIO TOSCANO, Le minoranze di razza, di lingua, di religione
nel diritto internazionale, Torino, 1931; CACCAMO, L’Italia e la “nuova Europa”, cit., p. 308
e ss.
410 ASMAE, RECUIL, VII/B-1, verbale della seduta della Commissione dei Nuovi Stati,
9 maggio 1919, p. 21.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
117
cessivi ebbe come stretti collaboratori i diplomatici Di Villanova,
Stranieri, già console nell’Impero asburgico ed incaricato in seno alla delegazione italiana di seguire le questioni connesse alle minoranze nazionali dell’ex Austria-Ungheria, e il colonnello Castoldi, esperto di problemi albanesi. La Commissione studiò la possibilità d’imporre ai nuovi e vecchi Stati dell’Europa orientale (Iugoslavia, Romania, Polonia, Cecoslovacchia, Grecia) una serie di accordi sulla tutela delle minoranze da firmarsi con le potenze alleate, la cui conclusione sarebbe stata prevista dai trattati di pace con specifiche clausole di rinvio. La peculiarità di questi trattati sarebbe stata che gli Stati
dell’Europa centrale ed orientale avrebbero assunto impegni internazionali a tutela delle minoranze nazionali e religiose che le grandi potenze non avrebbero dovuto rispettare411: da qui il carattere lesivo del
prestigio nazionale che le diplomazie degli Stati dell’Europa centroorientale attribuirono a tali accordi. Nel corso del maggio la Commissione dei Nuovi Stati si concentrò sulla preparazione del trattato
per la protezione delle minoranze viventi in Polonia, il cui progetto di
testo fu consegnato dalle potenze alleate al governo di Varsavia il 21
dello stesso mese.
Dopo essere ritornata a Parigi, la delegazione italiana dedicò molta attenzione al problema delle garanzie delle minoranze. Francesco
Caccamo ha spiegato chiaramente le ragioni di questo interesse italiano:
La protezione delle minoranze e la concessione di autonomie erano effettivamente considerate dalla diplomazia italiana come possibili soluzioni per
realtà particolarmente complesse dal punto di vista nazionale come quelle dei
paesi dell’Europa orientale. A ciò si aggiungevano considerazioni di natura
più diretta, cioè la preoccupazione per la sorte dei nuclei italiani sulla costa
orientale dell’Adriatico che presumibilmente sarebbero stati sottoposti al dominio della Iugoslavia412.
In effetti, la sempre maggiore probabilità che gran parte della
Dalmazia sarebbe passata sotto il dominio serbo-croato rese necessaria una riflessione sull’urgenza di ottenere particolari garanzie internazionali per quelle popolazioni italiane che avrebbero fatto parte del
Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Un’azione della delegazione a fa411
412
CACCAMO, L’Italia e la “nuova Europa”, cit., p. 309.
CACCAMO, L’Italia e la “nuova Europa”, cit., p. 310.
118
LUCIANO MONZALI
vore della minoranza italiana nella Dalmazia iugoslava era richiesta
anche dal governatorato della Dalmazia e dagli stessi dalmati italiani.
Il 18 maggio Millo segnalò alla delegazione a Parigi il rischio che gli
italiani di Traù e Spalato, dominati dal Regno SHS, fossero vittime di
persecuzioni e rappresaglie di ogni genere. Era necessario assicurare
a questi italiani il diritto di optare per la cittadinanza italiana e alcune garanzie a questa connesse.
Si dovrebbe sul trattato di pace assicurare loro il diritto di opzione, nonché la piena libertà di realizzazione e trasporto delle loro sostanze, e che non
fosse tolto loro il diritto di continuare a possedere beni immobili nei paesi
jugoslavi con garanzie […]. Del pari occorre garantire nel trattato di pace gli
italiani che optassero per la cittadinanza italiana, il diritto di esercizio professionale dell’avvocatura, medicina, ingegneria, etc., nonché nei svariati rami di commercio ed industria […]413.
Gli stessi dalmati italiani – in particolare quelli di Spalato, che cominciavano a rassegnarsi all’idea del passaggio di gran parte della
Dalmazia allo Stato iugoslavo – sollecitarono un impegno del governo di Roma a favore di garanzie giuridiche internazionali per le minoranze. I capi del Fascio Nazionale Italiano di Spalato, Pezzoli, Tacconi e Pervan, inviarono a tale riguardo due memoriali al governo di
Roma e alla delegazione a Parigi nel maggio 1919414. Pochi mesi di
dominio iugoslavo erano bastati per far comprendere ai dalmati italiani che la fine dell’Impero asburgico aveva provocato un peggioramento delle proprie condizioni di vita. I capi spalatini prevedevano che
la condizione della minoranza italiana, ormai priva anche della tutela
giuridica che era stata a lungo garantita dalla legislazione asburgica,
si sarebbe drasticamente aggravata con il dominio serbo.
L’Austria infatti – constatavano i capi del Fascio Nazionale Italiano di
Spalato – era per sua essenza uno Stato plurinazionale, basato teoricamente
sul principio dell’equiparazione delle varie nazionalità, in guisa che la vita e
413
ASMAE, Carte Salata, b. 206, Millo a Comando supremo dell’esercito, 18 maggio
1919.
414 ASMAE, ACP, b. 20, Pezzoli, Tacconi, Pervan a Menini, 22 maggio 1919, allegato a
Millo al ministro degli Esteri, 8 giugno 1919; ibidem, FASCIO NAZIONALE ITALIANO DI SPALATO, Promemoria sulle eventuali garanzie da istituirsi a favore degli italiani di Spalato in caso di assegnamento della città alla Jugoslavia, senza data, allegato a Millo a ministro degli
Esteri, 8 giugno 1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
119
la lotta nazionale collimavano in sé cogli ordinamenti formanti la base stessa
dello Stato. A tutela dei diritti nazionali di ogni singolo ceppo e di ogni cittadino era inoltre stabilita una serie di ordinamenti di legalità e di reclami ad
appositi dicasteri. Tutte queste garanzie, teoricamente larghissime, non valsero però comunque ad infrenare l’opera di snazionalizzazione che da mezzo secolo andava qui compiendosi a danno dell’elemento italiano. Il nuovo Stato
jugoslavo sarebbe invece uno Stato nazionalmente unitario, nel quale nuclei
nazionali di altra stirpe verrebbero sentiti come stranieri, e quelli italiani poi,
specie dopo l’aspra lotta sostenutasi in questi ultimi mesi pel destino di queste terre, come direttamente ostili all’integrità dello Stato, il quale dovrebbe
quindi, quasi per l’istinto di conservazione proprio ad ogni organismo, tendere ad eliminarli. E supporre pure – ciò che è difficile concepire – che nel
Trattato di pace si riuscisse a far comprendere a favore di tali nuclei garanzie
così ampie come quelle previste già dalla costituzione e dalla legislazione austriaca, non è il caso di pensare che quelle cautele, che si resero illusorie sotto il regime austriaco, potrebbero nello Stato jugoslavo, non certo altrettanto
sviluppato in linea di legalità, ma retto piuttosto con sistemi balcanici, da persone ispirate nei riguardi dell’elemento italiano dalla passione e dall’intransigenza, assumere nella realtà una qualche consistenza ed efficacia415.
Da qui la previsione di un forte esodo dell’elemento italiano da
Spalato e dalla Dalmazia iugoslava. Al fine di tutelare gli italiani di
Dalmazia andava prevista la possibilità dell’opzione, dell’assunzione
della cittadinanza italiana. Per coloro che avrebbero assunto la cittadinanza italiana bisognava garantire la facoltà di potere continuare a
possedere nel circondario «sostanza mobile ed immobile con garanzia di fronte ad eventuali nuovi provvedimenti legislativi, come p. es.
la progettata riforma agraria, […] come pure di poter al caso anche
indisturbatamente realizzare tali loro sostanze ed asportare immuni da
tasse fuori dal paese oggetti mobili o il ricavato della realizzazione di
oggetti immobili». Per gli italiani che sarebbero rimasti in Dalmazia
(commercianti, industriali e liberi professionisti), bisognava anche assicurare «il diritto di continuare l’esercizio della propria arte, mestiere e professione, in eguale misura come i cittadini indigeni, e senza
andar soggetti ad eventuali restrizioni che fossero già fissate o venissero fissate in seguito dalle leggi del nuovo Stato di fronte a cittadini
esteri, come pure il diritto di non poter venire in qualsiasi forma o sede sfrattati dal paese»416. Per Spalato, in particolare, andavano previ415
416
Pezzoli, Tacconi e Pervan a Menini, 22 maggio 1919, cit.
Ibidem.
120
LUCIANO MONZALI
ste garanzie affinché fossero tutelati i diritti linguistici e scolastici della popolazione italiana, nonché il diritto di associazione, riunione, e
di libero esercizio professionale; gli italiani spalatini, poi, dovevano
avere una rappresentanza nei corpi elettivi statali e locali417.
Alla fine di maggio in seno alla delegazione italiana a Parigi si aprirono discussioni e vennero compiuti studi sul modo di ottenere alcune garanzie a favore delle comunità italiane nella Dalmazia iugoslava. In un appunto del 25 maggio, sulla base delle richieste dei dalmati
italiani, la delegazione iniziò a riflettere sul problema dell’opzione,
constatando le difficoltà di conciliare l’opzione con la libertà professionale degli optanti.
Il diritto di optare, entro un certo termine, per la cittadinanza italiana è
compreso nel progetto di trattato con l’Austria, il quale sancisce anche il principio del libero trasferimento dei beni, in caso di emigrazione dal territorio
austriaco. Si procurerà di includere tali clausole anche nei trattati da stipularsi con gli altri Stati risultanti dalla dissoluzione dell’Impero austriaco.
Quanto all’esercizio delle professioni, sopra tutto quella di avvocato, occorre tener presente che esso è così legato alla cittadinanza e alla residenza abituale che non sembra possibile di garantirlo agli optanti, che, profittando della facoltà di opzione, trasferiranno fuori dello Stato la loro residenza. Si è procurato di assicurare agli antichi sudditi austriaci il godimento di alcuni diritti (di proprietà letteraria, industriale, ecc.) nelle condizioni anteriori al loro
cambiamento di cittadinanza; sembra difficile chiedere di più; essi saranno
del resto equiparati per ogni riguardo agli altri cittadini italiani e godranno
quindi dello stesso trattamento e degli stessi diritti di questi ultimi418.
Francesco Salata fu incaricato di studiare i progetti di norme per
la protezione delle minoranze in Europa centro-orientale preparati
dalla Commissione dei Nuovi Stati fino a quel momento e di riflettere su eventuali proposte di modifiche che la delegazione avrebbe
potuto avanzare a tutela degli italiani in Dalmazia. Riguardo al problema della cittadinanza, secondo Salata sarebbe stato importante tutelare il diritto degli eventuali optanti alla residenza nella Dalmazia
iugoslava:
417 FASCIO NAZIONALE ITALIANO DI SPALATO, Promemoria sulle eventuali garanzie da istituirsi a favore degli italiani di Spalato in caso di assegnamento della città alla Jugoslavia,
s.d., cit.
418 ASMAE, ACP, b. 113, RICCI BUSATTI e firma non decifrabile, Appunto, 25 maggio
1919.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
121
Riguardo all’opzione, certo converrebbe a noi evitare l’obbligo del trasferimento della residenza per quelli che avranno esercitato il diritto d’opzione. Ammesso che, come si ritiene, i gruppi italiani della Dalmazia rimasti esclusi dall’annessione all’Italia esercitino in massa il diritto di opzione a
favore della nazionalità italiana, sarebbe opportuno nel loro interesse personale e per la nostra influenza, che potessero conservare la residenza nei luoghi di origine419.
La clausola sulla tutela dell’uso della lingua preparata dalla Commissione (articolo 8) era, a parere di Salata, alquanto vaga e segnava
«piuttosto un regresso che un miglioramento di fronte alle condizioni fatte in passato alle varie nazionalità dalla Costituzione austriaca».
Sarebbe stato opportuno chiedere una modifica all’ultimo capoverso
dell’articolo 8 che assicurasse alle minoranze l’uso della propria lingua «non solo “oralmente” ma anche in iscritto, non solo “davanti ai
tribunali” ma anche nei rapporti con qualunque autorità governativa
ed autonoma»420. Pure lacunosi e poco favorevoli alle minoranze erano i progetti degli articoli 8 e 9 riguardanti le scuole per gli allogeni.
A parere di Salata, però, bisognava stare attenti a non pretendere per
la minoranza italiana dalmata diritti che l’Italia non sarebbe stata disposta a concedere alle proprie popolazioni allogene.
Altrettanto vaghe e meno favorevoli delle leggi vigenti in materia sotto il
passato regime austriaco sono le norme sulle scuole per le minoranze a spese dello Stato. Ma per un miglioramento non conviene insistere da parte nostra: lasciando queste stesse disposizioni una certa libertà di azione a noi di
fronte alle minoranze nazionali dei territori che annetteremo, e dove non si
potrà pretendere da parte nostra un trattamento delle minoranze più favorevole di quello che sarà fatto negli Stati vicini in base a questo speciale Statuto.
Così potrà essere invocata a nostro favore la disposizione secondo cui allo
Stato è data facoltà di rendere obbligatorio – contrariamente a quanto era stabilito dalle leggi del passato regime – l’insegnamento della lingua ufficiale
dello Stato anche nelle scuole delle minoranze d’altra lingua421.
Nei giorni successivi la volontà di non assumere impegni internazionali a favore delle popolazioni allogene annesse spense progressi-
419 ASMAE, Carte Salata, b. 268, [FRANCESCO SALATA], Appunto, 26 maggio 1919 (vi è
anche la minuta dell’appunto fatto da Salata).
420 Ibidem.
421 Ibidem.
122
LUCIANO MONZALI
vamente l’interesse della delegazione italiana ad ottenere garanzie giuridiche a favore degli italiani di Spalato e Traù nel futuro trattato per
la protezione delle minoranze da imporsi al Regno dei Serbi, Croati e
Sloveni. Il 31 maggio, nel corso della seduta della Commissione dei
Nuovi Stati, il rappresentante francese Berthelot dichiarò che il governo di Belgrado aveva comunicato al presidente della Conferenza della pace di essere disposto ad accettare le clausole per la protezione delle minoranze, però chiedendo anche come sarebbero state garantite le
minoranze iugoslave in altri paesi, «specialmente in Italia». De Martino
rammentò a Berthelot che all’Italia, in quanto grande potenza, non era
richiesta l’accettazione delle garanzie per le minoranze.
Ho ricordato che secondo decisione precedente, la questione delle garanzie
delle minoranze non concerne le Grandi Potenze come Italia, Francia,
Inghilterra. Per quanto riguarda l’Italia, ho aggiunto, non è il caso di clausole speciali anche per la ragione che il regime liberale vigente in Italia costituisce la migliore garanzia per le minoranze. Ma noi ci opponiamo per ragioni di principio422.
All’inizio di giugno il giurista D’Amelio preparò un progetto di
clausola relativa al diritto di presentare reclami al Consiglio della Lega
delle Nazioni da parte di ex sudditi asburgici che avessero acquistato
la cittadinanza di uno Stato diverso da quello del territorio nel quale
risiedevano. Il 10 giugno De Martino presentò il progetto di clausola
alla Commissione dei Nuovi Stati, scontrandosi con le resistenze degli altri delegati, che ritenevano che compito della Commissione fosse la protezione delle minoranze allogene, mentre «le persone che si
trattava di proteggere mediante la clausola proposta erano divenute
straniere al paese in cui continuavano a risiedere»423. De Martino ribadì alla Commissione «il grande interesse politico dell’Italia a proteggere anche in questo campo speciale la nazionalità italiana di talune città adriatiche contro i gravi pericoli da cui saranno minacciate in
avvenire», ma accettò di rimandare la questione alle future discussioni sul trattato per le garanzie delle minoranze in Iugoslavia424. Peraltro
lo stesso Sonnino – che pur manifestò interesse ad una formulazione
422 ASMAE, ACP, b. 84, GIACOMO DE MARTINO, Appunto per S.E. il Ministro, 31 maggio 1919.
423 ASMAE, ACP, b. 113, De Martino a D’Amelio, 11 giugno 1919.
424 Ibidem.
GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE
123
del trattato per la garanzia delle minoranze in Polonia che tutelasse
adeguatamente i diritti linguistici e scolastici delle popolazioni di nazionalità non polacca – invitò i membri della delegazione italiana alla prudenza e alla cautela in questo campo: a parere del ministro degli Esteri – riferì De Martino – «si può prevedere che, in occasione
del regolamento della questione adriatica, gli Alleati e l’America esigeranno da noi una clausola di reciprocità a favore degli Slavi in territorio italiano. Pertanto il Barone Sonnino è d’avviso che occorra essere guardinghi nel proporre clausole che potrebbero in seguito creare imbarazzi a noi stessi»425.
Il timore di dovere subire limitazioni alla propria sovranità circa
il trattamento delle minoranze, quindi, convinse la delegazione dell’opportunità di abbandonare per il momento la questione delle garanzie giuridiche per gli italiani della Dalmazia iugoslava. Nel frattempo il 28 giugno, oltre al trattato di pace con la Germania e alla carta istitutiva della Società delle Nazioni, venne anche stipulato il trattato fra le principali potenze alleate e associate (Gli Stati Uniti
d’America, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e il Giappone) e la
Polonia per la protezione delle minoranze426. Era il primo trattato del
genere, e dal punto di vista teorico costituiva un’importante innovazione nel campo della protezione internazionale delle minoranze religiose e nazionali in Europa.
425
426
Ibidem.
FINK, The Minority Question, cit., p. 269 e ss.
II
TRA NITTI E D’ANNUNZIO.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA E LA LOTTA
PER ZARA ITALIANA
(LUGLIO 1919-MAGGIO 1920)
2.1. I dalmati italiani e il governo Nitti di fronte al progetto dello Stato
libero dalmatico
La formazione del governo Nitti-Tittoni1 portò ad un mutamento della politica italiana verso la questione dalmatica. L’indebolimento diplomatico e il crescente isolamento internazionale dell’Italia consigliarono al nuovo esecutivo di ridimensionare le rivendicazioni in
Dalmazia al fine di assicurarsi Fiume e un buon confine in Venezia
Giulia. Nitti dava molta importanza alla questione di Fiume2 perché riteneva che l’annessione italiana della città avrebbe garantito un successo di prestigio per il nuovo governo; giudicava, poi, cruciale chiudere il contenzioso territoriale con lo Stato iugoslavo per favorire la ripresa economica e la soluzione dei problemi interni. Sia Nitti che Tittoni
erano stati in disaccordo con le direttive della politica estera di Sonnino.
Nel 1914-15 Tittoni aveva criticato l’eventuale rivendicazione territoriale della Dalmazia perché foriera dell’ingresso di troppi allogeni nei
confini nazionali3. Il politico romano dava molta importanza all’asset1 Al
riguardo l’analisi di Rodd, ambasciatore britannico a Roma: BDFA, II, F, 4, Rodd a
Curzon, 23 giugno 1919, d. 45.
2 MONTICONE, Nitti e la grande guerra, cit. Sulla personalità politica di Nitti: FRANCESCO
BARBAGALLO, Francesco S. Nitti, Torino, 1984; FRANCESCO SAVERIO NITTI, Edizione nazionale delle opere di Francesco Saverio Nitti. Scritti politici. Volume V. Diario di prigionia,
Meditazioni dell’esilio, Roma-Bari, 1967; ID., Edizione nazionale delle opere di Francesco
Saverio Nitti. Scritti politici. Volume VI. Rivelazioni, Meditazioni e ricordi, Bari-Roma, 1963;
ID., Edizione nazionale delle opere di Francesco Saverio Nitti. Volume XVI. Tomo II. Scritti
politici. Articoli e discorsi inediti vari, documenti, Bari-Roma, 1980.
3 DDI, V, 3, d. 172, Tittoni a Sonnino, 23 marzo 1915; LUCIANO MONZALI, Tommaso Tittoni
e la politica coloniale africana dell’Italia nel 1919, «Clio», 2003, n. 4, p. 565 e ss.
Un’approfondita ricostruzione della formazione politica di Tittoni e della sua azione come
126
LUCIANO MONZALI
to dell’Adriatico meridionale e riteneva fondamentale piuttosto il controllo italiano delle Bocche di Cattaro e dell’Albania.
I politici dalmati percepirono immediatamente il nuovo atteggiamento del governo verso la questione dalmatica. Fra la fine di giugno
e l’inizio di luglio Ghiglianovich, Lubin e Salvi incontrarono Nitti: «Io,
Salvi e Lubin siamo stati ricevuti da Nitti – scrisse Ghiglianovich il
1° luglio – e abbiamo avuto un’accoglienza glaciale. Egli ci disse che
la questione internazionale la aveva messa in mano della delegazione
e precisamente di Tittoni; che le nostre erano le sue speranze; che, a
Parigi, parlassimo con Tittoni; che oltre alla questione dalmata, c’era
quella di Fiume; che senza avere Fiume l’Italia avrebbe creduto di aver
perduto la guerra. Non una parola di fronte alle necessità strategiche
inerenti alla Dalmazia. Non una parola di fronte all’italianità di Zara,
che ho, ancora una volta, celebrata»4.
Riguardo a Tittoni, il giudizio di Ghiglianovich fu ben presto negativo: se Sonnino e Orlando erano sostanzialmente arrivati ad accettare compromessi territoriali rinunciatari, «ho la sensazione – riferiva il politico zaratino all’amico Salata –, più che l’impressione, che
Tittoni, pur di fare la pace, sia disposto a transazioni ancor più disastrose»5. Altro fattore d’indebolimento politico per i dalmati fu la nomina di un nuovo ministro della Marina, Sechi, il quale, dotato di «una
sua propria personalità capace di mettersi in antitesi con Revel», non
condivideva la visione della questione adriatica del capo di stato maggiore della Marina, tutta fondata sulla necessità strategica per l’Italia
di acquisire il controllo della Dalmazia settentrionale: il nuovo ministro, invece, riteneva cruciale l’annessione di Fiume, ed era pronto a
sacrificare Sebenico6. Le previsioni pessimistiche di Ghiglianovich si
rivelarono fondate. All’inizio di luglio, pur riaffermando sul piano giuridico la validità del patto di Londra, il nuovo ministro degli Esteri italiano fece capire alla diplomazia americana di essere pronto a rinunciare alla terraferma dalmata e a gran parte delle isole del Quarnero
ministro degli Affari Esteri fra il 1903 e il 1909 in FRANCESCO TOMMASINI, L’Italia alla vigilia della guerra. La politica estera di Tommaso Tittoni, Bologna, 1934-1941, cinque volumi.
Si vedano anche: SERGIO ROMANO, Tommaso Tittoni, in Il Parlamento italiano, Milano, 1990,
VIII, pp. 249-266; TOMMASO TITTONI, Questioni del giorno. Tunisia, Abissinia, Bessarabia,
Libia, Jugoslavia, Albania, Milano, 1928.
4 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 1° luglio 1919.
5 ASMAE, Carte Salata, b. 193, Ghiglianovich a Salata, 7 luglio 1919. Al riguardo
RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 228.
6 Ghiglianovich a Salata, 7 luglio 1919, cit.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
127
e della Dalmazia in cambio di Fiume e delle Bocche di Cattaro7, regione ritenuta da Tittoni importante per l’equilibrio strategico dell’Adriatico. Nelle settimane successive, invece, la diplomazia italiana cominciò a pensare alla creazione di uno Stato libero dalmata da porsi
sotto la protezione della Società delle Nazioni. Tornato a Parigi,
Ghiglianovich, insieme a Lubin, incontrò Tittoni il 16 luglio. I due politici dalmati ribadirono la loro richiesta di applicazione integrale del
patto di Londra e parlarono negativamente dell’ipotesi di uno Stato autonomo dalmata.
Abbiamo insistito nel dire che il costituire dei territori dalmati del Patto
uno Stato autonomo, libero, equivarrebbe alla costituzione di uno Staterello
jugoslavo con etichetta di Stato autonomo-libero. Che Sebenico era necessaria per la sicurezza dell’Adriatico e per il futuro. Che anche Zara costituita
in città libera sarebbe destinata a jugoslavizzarsi ben presto per la penetrazione slava dall’hinterland8.
Tittoni rispose che niente era stato ancora deciso e che avrebbe insistito per l’applicazione del patto di Londra. Ma questa si rivelò una
risposta poco sincera. Già il 18 luglio Ghiglianovich fu informato da
Francesco Coppola, confidente del ministro, e da Salata, che il vero
programma adriatico di Tittoni consisteva nella richiesta del distretto
di Assling/Jesenice in Venezia Giulia e nella costituzione dello Stato
libero di Fiume, comprendente anche Veglia e parte dell’Istria orientale; in Dalmazia il ministro pensava all’annessione di Zara e del suo
distretto politico, nonché di Cattaro e del monte Lovcen. In caso di
opposizione alleata, il ministro era pronto a rinunciare all’annessione
di Zara e a considerare la costituzione di uno Stato libero zaratino9. Il
giudizio di Ghiglianovich su queste idee di Tittoni fu molto duro.
Chiedere Cattaro metteva in discussione il valore del patto di Londra
e irritava fortemente i serbi: a parere del politico dalmata, era «un’ingenuità bambinesca» e una cosa da «sciocchi»10. Spaventato dai pro7 LEDERER, op. cit., p. 270. L’archivio della delegazione italiana alla Conferenza della pace conserva una mappa della Dalmazia meridionale, intitolata Proposte per l’Hinterland italiano di Cattaro e s.d. (ma estate 1919), che prevedeva l’annessione italiana delle Bocche di
Cattaro, Budua e del Monte Lovcen: ASMAE, ACP, b. 113.
8 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 17 luglio 1919.
9 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 18 luglio 1919. Si veda anche ASMAE, Carte Salata, b. 193, Ghiglianovich a Salata, 21 luglio 1919.
10 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, prima e seconda lettera del
18 luglio 1919.
128
LUCIANO MONZALI
getti della delegazione italiana, Ghiglianovich pensò di abbandonare
la Conferenza e di ritornare in Dalmazia; poi invitò Ziliotto a recarsi
a Parigi11. In quei giorni il sindaco di Zara era in frenetico spostamento
fra l’Italia e la Dalmazia, impegnato in continue consultazioni politiche. Il 15 luglio Ziliotto ribadì le posizioni dei dalmati italiani in un
messaggio a Scialoja, nuovo delegato italiano a Parigi. Era necessario opporre la più forte resistenza contro le minacciate rinunce, salvando i dalmati italiani dall’oppressione straniera e balcanica e l’Italia
da una traumatica umiliazione e perdita di prestigio12. Pure per il sindaco zaratino l’ipotesi dello Stato autonomo dalmatico era pericolosa; se non fosse stato possibile opporsi a tale ipotesi, bisognava almeno
garantire il dominio italiano su Zara, «centro irradiazione italianità»13.
Il diffondersi in Italia e in Dalmazia di voci circa la possibile creazione di uno Stato libero dalmata provocò inevitabilmente una spaccatura in seno ai dalmati italiani. Il 28 luglio i capi del Fascio Nazionale Italiano di Sebenico (Luigi Pini, Giovanni Miagostovich, Doimo
Cace, Tullio Nicoletti), inviarono telegrammi a Ziliotto, Ghiglianovich
e Tittoni, nei quali, in accordo con il Fascio Nazionale di Spalato, dichiararono di preferire la creazione dello Stato libero dalmatico, sotto la tutela della Società delle Nazioni ed inglobante la Dalmazia centro-settentrionale fino alla Narenta, all’annessione della sola Zara
all’Italia14. I capi degli italiani di Sebenico e Spalato erano pronti ad
accettare la creazione di uno Stato dalmatico autonomo e separato
dall’Italia perché era un’ipotesi ritenuta migliore di un eventuale dominio diretto iugoslavo; vi era poi la speranza che la formazione di
una Dalmazia indipendente ed autonoma avrebbe potuto creare vasti
consensi anche in parte della popolazione dalmata slava, con una spiccata identità regionale e non favorevole al dominio serbo. Leonardo
Pezzoli spiegò a Ghiglianovich la posizione degli italiani spalatini in
questi termini:
11 BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Roberto Ghiglianovich, Annotazioni per mio uso, senza data (ma luglio-agosto 1919); AM, archivio di base, c. 3138, telegramma di Sechi che trasmette messaggio di Barbieri a Ghiglianovich, 15 luglio 1919.
12 AM, archivio di base, c. 3138, telegramma di Sechi che invia messaggio di Ziliotto a
Scialoja, 15 luglio 1919.
13 AM, archivio di base, c. 3138, telegramma di Sechi che trasmette una comunicazione
di Ziliotto, Krekich e Millo a Ghiglianovich, 22 luglio 1919.
14 BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Pini, Miagostovich, Cace, Nicoletti, Lobasso, Mazzoleni e Hein a Luigi Ziliotto, 28 luglio 1919; AM, archivio di base, c. 3138, Pini, Miagostovich,
Cace, Nicoletti, Pojani, Hein, Mazzoleni e Lambasso a Tittoni, 28 luglio 1919.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
129
Certo che la soluzione [dello Stato libero] non è per noi l’ideale e che la
Dalmazia autonoma sarebbe preponderantissimamente slava. Di fronte però
alla prospettiva di vedere annegare tutta la Dalmazia nei flutti della Jugoslavia,
col salvataggio sì e no della sola Zara, l’altra suaccennata avrebbe tanto nei
riguardi dei nostri interessi, ed assai più ancora di quelli generali italiani, indubbi vantaggi. Anzitutto essa rappresenterebbe pure per l’Italia una via d’uscita dal presente ginepraio e le risparmierebbe l’onta di dover capitolare di
fronte ad un piccolo popolo di civiltà inferiore e di abbandonare alla mercè
di questo paesi ora occupati dalle sue truppe. Nei riguardi del presente lo Stato
libero soggetto alla Lega delle Nazioni sarebbe sempre aperto ad una certa
influenza italiana […]. Nei riguardi dell’avvenire lo Stato libero rappresenta
poi sempre una porta aperta che, se fortuna arriderà all’Italia, potrebbe un
giorno convertirsi anche in annessione o in altra forma a questa assai vicina;
mentre, data l’incorporazione alla Jugoslavia, questa avrebbe carattere definitivo e non potrebbe venir corretta che da una nuova guerra di violenta conquista che dovrebbe tagliar nel vivo delle carni di un popolo unificato. Anche
quelle garanzie per le minoranze, che sarebbero affatto illusorie in seno alla
Jugoslavia, acquisterebbero ben altra importanza e concretezza nello Stato libero sotto il suaccennato controllo e con diretta maggiore o minore ingerenza italiana15.
Ghiglianovich giudicò duramente il telegramma degli italiani di
Sebenico, ritenendolo un atto unilaterale che rompeva la solidarietà fra
i dalmati italiani: «Prevale in essi l’impulso del più basso egoismo personale alla possibilità di redimere almeno Zara. E in essi questo egoismo offusca la visione realistica di quello che sarebbe lo Stato libero
dalmatico»16. Ziliotto, Ghiglianovich e Lubin inviarono a Pini una risposta in cui biasimarono l’invio di un telegramma in chiaro a Tittoni
che sembrava sconfessare il loro operato e mostrava l’esistenza di forti divisioni fra i dalmati italiani. Essi ribadirono che il loro programma era la lotta per l’applicazione del patto di Londra; se ciò non fosse stato possibile si sarebbero battuti per l’annessione all’Italia di Zara
e del suo capitanato distrettuale e per l’eventuale creazione di uno Stato
autonomo nel resto della Dalmazia fino alla Narenta17. Di fatto nei mesi successivi si aprì una profonda spaccatura politica in seno al vecchio partito autonomo-italiano. Ghiglianovich, Ziliotto e gli zaratini
erano contrari ad ogni ipotesi di Stato libero dalmata, che sarebbe sta-
15
BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Pezzoli a Ghiglianovich, 28 luglio 1919.
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 29 luglio 1919.
17 AM, archivio di base, c. 3138, Ziliotto, Ghiglianovich e Lubin a Pini, 29 luglio 1919.
16
130
LUCIANO MONZALI
to dominato da una maggioranza serbo-croata, preferendo in ogni caso l’annessione anche della sola Zara all’Italia; gli italiani di Sebenico, Traù, Spalato, Ragusa e delle isole, invece, sostennero con vigore
l’ipotesi dello Stato libero dalmatico, con o senza il controllo della
Società delle Nazioni.
Il 30 luglio Ghiglianovich e Ziliotto incontrarono Tittoni, il quale,
per una volta, fu con loro sincero: «Tittoni – riferì Ghiglianovich a
Barbieri – ci ha detto questo: “Sebenico e le isole è inutile pensarci.
Non ce li danno sotto nessuna forma. Mi batterò per la sovranità italiana su Zara, ma dispero di riuscire. Wilson ha prospettato la sua disposizione di fare una città autonoma. Io, [a] mia volta, prospetterò,
se il principio della sovranità non mi riuscisse, una forma di mezzo e
cioè: Zara città libera col perpetuo mandato dell’Italia, eventualmente sotto il protettorato italiano. Richiamarsi al Patto di Londra è improponibile, essendo stato deciso col concorso della precedente delegazione italiana che le conclusioni, per essere valide, dovevano essere unanimi […]. L’unanimità non la possiamo ottenere, causa il dissenso americano”»18.
Tittoni proclamò d’essere favorevole all’annessione di Zara
all’Italia, poiché ciò avrebbe avuto un’ottima ripercussione sull’opinione pubblica italiana; ma si dimostrò molto scettico circa le possibilità di successo a tale riguardo. Tittoni chiese a Ghiglianovich e
Ziliotto di preparare per il giorno successivo due carte che segnassero, l’una, il territorio e le isole che avrebbero dovuto essere unite a Zara
in caso di annessione all’Italia, l’altra, i limiti minimi dei confini di
Zara sotto il mandato amministrativo o protettorato dell’Italia. Era questo un compito non semplice per i politici zaratini, poiché, riguardo
alla seconda carta, Tittoni disse loro «di badare ad escludere da questa circoscrizione il maggior numero possibile di slavi onde non prevalgano nelle elezioni della Dieta o Consiglio direttivo che dovrebbe
presiedere a questo Stato zaratino amministrato per virtù di mandato
dall’Italia o sotto il suo protettorato»19. Ciò poneva in difficoltà
Ghiglianovich e Ziliotto, perché l’elemento italiano era concentrato in
stragrande maggioranza nel centro urbano di Zara e «se la circoscrizione si dovesse ridurre alle quattro mura della città, si scoprirebbe la
debolezza nazionale della nostra tesi»20. D’altronde, bisognava anche
18
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 30 luglio 1919.
Ibidem.
20 Ibidem.
19
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
131
avere riguardo per le esigenze economiche di Zara.
I possidenti di Zara Stato libero – notò Ghiglianovich – non possono andare a vendemmiare né a villeggiare in loro terreni […] in Jugoslavia. Il pesce Zara non lo può attendere da pescatori jugoslavi. Gli zaratini non possono andar a tumulare i loro morti in Jugoslavia!21.
Altra difficoltà nel progettare i futuri confini di Zara derivava dalla constatazione che la guerra mondiale, il crollo dell’Impero asburgico, il sorgere del Regno iugoslavo avevano mutato la situazione politica dalmata. Ziliotto, da molti anni sindaco di Zara, non era più in
grado di fare previsioni sugli esiti di elezioni all’interno di un eventuale Stato libero zaratino, né nei villaggi del contado né nella stessa
Zara, poiché «la guerra ha trasformato tutto»22, sconvolgendo schieramenti e posizioni politiche di tutta la popolazione della regione.
Rispondendo alla richiesta del ministro, Ghiglianovich, Ziliotto e
Lubin inviarono a Tittoni una lettera-memoriale con due carte annesse il 31 luglio 191923. Nella lettera chiesero al governo di Roma di continuare a lottare per l’esecuzione del patto di Londra, il quale, se non
risolveva del tutto in senso italiano il problema nazionale, politico e
strategico-militare dell’Adriatico, lasciava «aperte le porte per la sua
completa non lontana soluzione». Qualora ostacoli insormontabili impedissero tale soluzione, i politici dalmati ritenevano assolutamente necessario:
a) che almeno la città di Zara con i suoi territori ed isole costituenti il
«Capitanato distrettuale di Zara» e quindi anche l’isola di Arbe, vengano annesse all’Italia.
b) Che la rimanenza dei territori ed isole della Dalmazia contemplati dal
trattato di Londra come pure il territorio di Spalato e le isole prospicienti questa città, vengano costituiti in Stato libero sotto il controllo della «Lega delle Nazioni», quando non fosse possibile di ottenere l’affidamento del mandato amministrativo di questo Stato all’Italia.
Richiesti da Tittoni di fornire dettagli sui confini di un eventuale
Stato libero limitato alla sola città di Zara, pur dichiarandosi contrari
a tale ipotesi, i deputati dalmati proposero due possibili linee.
21
Ibidem.
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 31 luglio 1919.
23 ASMAE, Carte Salata, b. 193, Ghiglianovich, Ziliotto e Lubin a Tittoni, 31 luglio 1919.
22
132
LUCIANO MONZALI
L’indicazione dell’estensione territoriale dell’eventuale «Stato libero di
Zara» è subordinata a quello dei seguenti due criterii che V. E. riterrà prevalenti in proposito, e cioè:
al criterio oltre che nazionale, politico, strategico, militare;
oppure al criterio strettamente nazionale.
Nel primo caso (caso a) lo «Stato libero di Zara» dovrebbe essere costituito dai Comuni politici di Zara, Nona, Sale […]. Nel secondo caso (caso b)
lo «Stato libero di Zara» non dovrebbe essere costituito che, tutto al più, dalla città di Zara e dal suo comune censuario, e dai comuni censuarii di Borgo
Erizzo, Cerno, Murvizza, Boccagnazzo, Diclo, Cozino, Petarciane, legati territorialmente l’uno all’altro. Tutti questi comuni censuarii formano parte dell’attuale comune politico di Zara.
A Scialoja fu consegnato, insieme alla lettera-memoriale, un appunto, esplicativo delle tesi dei politici dalmati24. Ziliotto, Ghiglianovich e Lubin ribadirono che Zara non poteva rinunciare al controllo di Borgo Erizzo/Arberesh, Cerno, Murvizza/Murvica, Boccagnazzo/Bokanjac, Diclo/Diklo, Cozino/Koz#ino, Petarciane: la città di Zara
traeva l’acqua che alimentava la sua popolazione dall’acquedotto di
Boccagnazzo; gli zaratini avevano le proprie proprietà terriere in tali
comuni, tutti legati territorialmente alla città. Certo vi era un problema nazionale poiché se Zara aveva una netta maggioranza italiana, secondo l’ultimo censimento austriaco nei comuni di Borgo Erizzo,
Cerno, Murvizza, Boccagnazzo, Diclo, Cozino, Petarciane vi erano
5192 abitanti, dei quali 4925 slavi (croati e serbi) e 191 italiani. Tuttavia gli abitanti di Borgo Erizzo non erano slavi ma albanesi giunti
in Dalmazia nel XVIII secolo, che conservavano la loro lingua e le proprie abitudini nazionali e votavano il partito politico italiano o serbocroato a seconda della convenienza: potevano, quindi, essere favorevoli alle tesi italiane. Inoltre la maggioranza della popolazione dei comuni in questione, seppur slava, aveva in passato sempre votato per il
partito italiano-autonomo. Da qui la legittimità della richiesta di mantenere Zara unita al suo contado, preferibilmente annessa all’Italia25.
Il 4 agosto Tittoni presentò agli inglesi il suo primo piano per
l’Adriatico26, mentre il 6 Scialoja consegnò il progetto di accordo
24 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Aggiunta – per S.E. Scialoja – alla lettera del 31-71919 rimessa da Ziliotto, Ghiglianovich, Lubin a S.E. Tittoni, s.d.
25 Ibidem.
26 RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 224 e ss.; DBFP, I, 4, d. 18; MICHELETTA, op. cit.,
I, p. 33 e ss.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
133
adriatico a tutti gli alleati. Riguardo alla Dalmazia, il governo di Roma
dichiarò di essere pronto a compiere importanti rinunce rispetto al patto di Londra; tuttavia, «qualsiasi nostra arrendevolezza deve però arrestarsi dinanzi alle seguenti esigenze:
a) impedire che lo Stato serbo-croato-sloveno si valga del possesso dei porti e delle isole dalmate per acquistare una superiorità strategica e tattica, che tale possesso può consentire anche con forze navali relativamente deboli; b) tutelare i dalmati di nazionalità italiana
contro l’oppressione di elementi meno civili e a noi apertamente ostili; c) salvaguardare gli interessi italiani in Dalmazia ed i nostri commerci colla penisola balcanica»27.
Il governo italiano, quindi, chiese l’annessione di Lissa e Lagosta
per garantire la propria sicurezza strategica; in nome del principio di
nazionalità, invece, domandò la sovranità italiana (o il protettorato) su
Zara, sui borghi di San Giovanni, Borgo Erizzo e Cezaria e sull’isola
di Ugliano28. La delegazione italiana, infine, chiese che le minoranze
italiane negli altri centri della Dalmazia fossero tutelate «da alcune
clausole da inserirsi nel Trattato fra le Grandi Potenze e lo Stato
S.H.S.»29. In quelle settimane la posizione di Belgrado fu espressa da
un memoriale comunicato alla delegazione britannica a Parigi il 19
agosto30. Il governo iugoslavo chiese che tutta la Dalmazia fosse annessa al Regno SHS, con il centro urbano di Zara che avrebbe goduto dei privilegi di una città libera con grande autonomia locale sotto
la sovranità iugoslava, con garanzie internazionali a tutela della sua
autonomia e della sua italianità. Nei successivi negoziati condotti da
Tittoni con britannici e francesi fu evidente l’ostilità degli alleati all’ipotesi di Zara annessa all’Italia. A fine agosto Lloyd George parlò
di fare di Zara una città libera sotto il mandato della Società delle
Nazioni31.
L’incertezza sull’esito dei negoziati diplomatici e il favore di Nitti
e Millo all’idea di costituire un vasto Stato libero dalmatico, includente
Zara, Sebenico, Traù e Spalato, rianimarono le speranze dei sebenzani e degli spalatini italiani. All’inizio di agosto, in loro rappresentan27 Il promemoria italiano del 6 agosto è edito in ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 503
e ss., con la data errata del 29-31 agosto 1919.
28 Ibidem.
29 Ibidem.
30 DBFP, I, 4, allegato a d. 19.
31 LEDERER, op. cit., p. 276 e ss.; MICHELETTA, op. cit., I, p. 39 e ss.; ALATRI, Nitti,
D’Annunzio, cit., p. 147 e ss.
134
LUCIANO MONZALI
za si recarono a Parigi Salvi, Pezzoli e Miagostovich32. Pochi giorni
dopo giunsero Smerchinich, Dojmi, Bervaldi e Botteri, rappresentanti delle comunità italiane isolane. Il loro arrivo aggravò il dissidio in
seno ai dalmati italiani. Si aprirono lunghe e dure discussioni sulla strategia politica da seguire. Salvi, Pezzoli, Miagostovich, Smerchinich e
tutti i dalmati non zaratini (compreso Giovanni Lubin, originario di
Traù ma residente a Zara, distanziatosi dalle posizioni di Ghiglianovich
e Ziliotto) affermavano che la Dalmazia si poteva salvare solo nell’unione con l’Italia; se ciò per il momento non fosse stato possibile, il
mezzo migliore per salvare gli italiani dalmati sarebbe stato la costituzione di uno Stato libero sotto l’egida della Società delle Nazioni,
che doveva però includere anche Zara per rafforzare l’elemento italiano al suo interno. Ghiglianovich e Ziliotto contestarono tali tesi sostenendo che uno Stato libero dalmatico e la Dalmazia iugoslava erano la stessa cosa. L’esistenza di una maggioranza iugoslava in seno allo Stato libero avrebbe portato al suo controllo da parte dei partiti serbo-croati: l’esistenza dello Stato libero sarebbe stata solo una tappa,
una fase intermedia, sulla via dell’assorbimento della Dalmazia da parte iugoslava. Più opportuno, invece, era lottare per l’annessione di almeno Zara all’Italia, il che avrebbe significato la salvezza dell’italianità zaratina e una base dell’Italia in Dalmazia, possibile punto di partenza per future altre aspirazioni33. Il dissenso in seno ai dalmati rimase forte per varie settimane. Nella sua corrispondenza Ghiglianovich usò termini molto duri contro i connazionali spalatini e sebenzani, accusandoli ripetutamente d’insipienza politica e di egoismo. In
una lettera del 6 agosto a Salata il deputato dalmata così descrisse la
situazione:
La dichiarazione di Nitti a Salvi che la delegazione tendeva a sottrarre la
Dalmazia alla Jugoslavia, costituendo della stessa uno «Stato libero» sotto il
controllo [della Lega] delle nazioni (cosa questa seppur disastrosa campata
in aria), accese gli animi di tutti i dalmati non zaratini. Ed ecco la ragione per
cui accorsero a Parigi Salvi, Pezzoli, Smerchinich, Miagostovich – col motto: sia immersa anche Zara nella nuova provincia jugoslava, controllata dalla Lega, se dall’immersione di Zara deve dipendere l’esistenza del nuovo
Stato! A nulla valsero […] le nostre calorose, talvolte violente insistenze. […]
Essi non si ricredettero e nel colloquio con Tittoni neppur accennarono a Zara,
32
33
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 1° e 3 agosto 1919.
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 6 agosto 1919.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
135
alla necessità assoluta di salvare almeno Zara. Ci manca adunque il concorso dei non zaratini nell’azione nostra e cioè: insistere e ottenere dalla delegazione che concentri tutto il fuoco per Zara. Salvi, Pezzoli, Lubin hanno voluto andare soli, incontrollati, da Tittoni. E agiscono indipendentemente da
noi!34.
Le discussioni a Parigi continuarono aspre e snervanti per vari giorni, sostanzialmente rompendo l’unità politica fra i dalmati italiani35.
Di fronte alla volontà degli spalatini e dei sebenzani di presentare un
proprio memoriale alla delegazione italiana, Ziliotto e Ghiglianovich
pensarono di prepararne uno alternativo. Prevalse il buon senso: sarebbe stato sconveniente mostrare apertamente alla delegazione il dissenso esistente in seno agli italiani di Dalmazia e si optò per la preparazione di un unico memoriale. Ma la genesi di questo si rivelò oltremodo difficile, con lunghe e dure discussioni circa ogni frase ed aggettivo, affinché né la richiesta dello Stato libero dalmatico, né quella di Zara annessa all’Italia, avessero la prevalenza l’una sull’altra.
Dopo varie bozze provvisorie36, si raggiunse il consenso su un me34 ASMAE,
Carte Salata, b. 193, Ghiglianovich a Salata, 6 agosto 1919.
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 11 agosto 1919.
36 Inizialmente si raggiunse un consenso provvisorio su un progetto di memoriale nel quale i dalmati italiani affermavano di non ritenere conciliabile col decoro della Nazione l’abbandono della zona dalmata occupata:
«Tale abbandono, demoralizzando irreparabilmente il loro paese, annienterebbe tutta l’opera di difesa nazionale cui i Dalmati durarono da secoli, dandoli inumanamente, qualunque
sieno per essere le larve delle concesse garanzie, in balia del nemico; affermano che con l’abbandono, anche parziale, del territorio e delle isole occupate – tra cui in linea strategica importantissimi il porto di Sebenico e le Curzolane –, l’Italia rinuncerebbe alla sicurezza e tranquillità del suo confine orientale ed a quella supremazia nell’Adriatico che è condizione del
suo sviluppo e della sua forza economica e politica».
In caso non fosse stato possibile applicare il patto di Londra, diveniva accettabile l’ipotesi di creazione di uno Stato libero dalmatico sotto la protezione della Società delle Nazioni,
che avrebbe dovuto inglobare tutta la Dalmazia e le isole fino al fiume Narenta, lasciando
però fuori Zara, in quanto destinata all’annessione all’Italia. Nel progetto di memoriale vi era
enunciato il ripudio di «qualunque progetto di autonomia di una o più città di Dalmazia»: Zara
e il suo capitanato distrettuale dovevano essere annessi all’Italia. Il progetto dello Stato libero dalmatico presentava, a parere dei capi della minoranza italiana, i seguenti vantaggi:
«1) Uscita dalla difficile situazione attuale, con risparmio dell’onta suprema di dover cedere, ed indubbiamente per sempre, i territori occupati ed i loro abitanti, ad un piccolo Stato
nemico, di civiltà inferiore come la Jugoslavia;
2) Porta aperta per uno sperabile migliore avvenire;
3) Possibilità di permanenza e di vita per l’elemento italiano, di fronte alla necessità di
emigrazione;
4) Possibilità di garanzie nazionali e linguistiche per la minoranza italiana, che sarebbero invece affatto illusorie in Jugoslavia;
35
136
LUCIANO MONZALI
moriale che si limitava a sostenere le posizioni classiche del partito
italiano dalmata, la richiesta di applicazione del patto di Londra e la
domanda di garanzie per la minoranza italiana nella Dalmazia iugoslava. Il memoriale definitivo, datato 14 agosto37 – che fu sottoscritto
da Ghiglianovich, Ziliotto, Salvi, Pezzoli, Miagostovich, Smerchinich,
Dojmi, Bervaldi e Botteri, ed inviato a Nitti e a Tittoni38 – dichiarava
inammissibile la rinuncia alla Dalmazia occupata e affermava nella sua
parte conclusiva:
Supplichiamo il Governo e la Delegazione Italiana:
di non desistere a nessun costo e per alcuna forza di circostanze dalla pretesa che tutto senza eccezione il territorio dalmata compreso nel Patto di
Londra e già occupato militarmente dall’Italia le venga assegnato in dominio;
di conseguire che la residua Dalmazia, ed in particolare Spalato col suo
circondario, che è il maggior centro economico, commerciale ed industriale
della provincia, illustre per la storia, il carattere ed il sentimento italico, quando non ne fosse possibile per ora la redenzione, venga compresa in una forma di tutela italiana o quanto meno internazionale che ne garantisca il carattere e la salvi dalla consegna a discrezione dei Jugoslavi;
5) Conservazione dell’integrità storica, etnica e geografica della provincia, di fronte a tagli artificiosi ed innaturali;
6) Probabilità di graduale alienazione dell’elemento slavo della Dalmazia dalla tendenza alla Jugoslavia, con riguardo ai tanti momenti di natura religiosa, economica ed agraria
che lo distinguono ed allontanano dalla stessa;
7) Conservazione della civiltà occidentale in un paese che ha storia e tradizioni nobilissime, di fronte alla sua inevitabile balcanizzazione» (BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Memoriale
A, allegato a Ghiglianovich a Barbieri, 15 agosto 1919).
Tale documento mostrava che nei dalmati italiani continuavano a coesistere una tradizione
autonomista e regionalista, che tendeva a considerare gli slavi di Dalmazia un’entità a sé stante e diversa dal resto dei popoli iugoslavi e balcanici, e un sentimento nazionale d’italianità.
Queste diverse tradizioni culturali e politiche, però, ostacolavano la definizione di un’azione
politica pragmatica e realista: la difficoltà di abbandonare il progetto dell’annessione di tutta la Dalmazia ex veneziana all’Italia, progetto politico inattuabile stante la resistenza dei partiti nazionalisti iugoslavi e la netta prevalenza etnico-nazionale serbo-croata nei territori in
questione, e il sorgere del sogno di uno Stato dalmatico autonomo ne erano la riprova. Il carattere contradditorio e abbastanza sconclusionato del progetto di memoriale, che cercava di
conciliare le tesi contrastanti di zaratini, spalatini e sebenzani, spinse i politici dalmati a non
presentarlo alla delegazione italiana.
37 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Memoriale B, 14 agosto 1919, allegato a Ghiglianovich
a Barbieri, 15 agosto 1919. Copia di questo memoriale è stata pubblicata in LUIGI FEDERZONI,
L’ora della Dalmazia, Bologna, 1941, pp. 184-185; si veda anche qualche accenno in ALATRI,
Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 140-141.
38 Al riguardo Ghiglianovich a Barbieri, 15 agosto 1919, cit.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
137
di ottenere in ogni modo che per quei dalmati italiani i quali andassero
sciaguratamente a cadere sotto il dominio jugoslavo, il diritto di opzione alla cittadinanza italiana sia congiunto al diritto di stabile permanenza nel loro paese, nella certezza che ogni altra garanzia, data dagli Jugoslavi, sarebbe vana ed irrisoria39.
Al fine di avere maggiore influenza sulle decisioni del governo, gli
zaratini fecero pressioni su Millo perché sostenesse l’idea dell’annessione di Zara e del suo capitanato all’Italia40. Il 6 agosto, per non
scontentare i capi zaratini, Millo scrisse al comandante Ruspoli, esperto della Marina in seno alla delegazione italiana a Parigi, affinché difendesse la tesi della necessità di annettere all’Italia Zara, il suo capitanato distrettuale e le isole circostanti, in particolare Arbe e Pago41.
In realtà, in quelle settimane, Millo non era ostile all’ipotesi di uno
Stato autonomo dalmatico, che considerava un modo per evitare la
creazione di un assetto definitivo in Dalmazia troppo sfavorevole
all’Italia: la costituzione di uno Stato autonomo, infatti, poteva rimandare il ritiro delle truppe italiane dalla Dalmazia occupata. Egli,
poi, riteneva che il diffondersi di sentimenti anti-serbi fra i dalmati slavi avrebbe aumentato il consenso popolare locale all’ipotesi di uno
Stato autonomo dalmatico.
Io non vedo la prospettiva della autonomia – scrisse Millo a Ghiglianovich
il 2 agosto 1919 – come senza speranza per l’avvenire e ciò per le notizie recenti sul modo di pensare dei Dalmati, non italianizzanti finora, della
Dalmazia non occupata. Spalato, che ne è il centro ed il cervello, gira a noi
ogni giorno sensibilmente42.
Il 22 agosto Millo ribadì la sua convinzione che le spinte centrifughe in seno allo Stato iugoslavo si stessero rafforzando e che quindi l’idea dello Stato libero dalmatico conquistava crescente consenso
popolare.
Unione Dalmazia Serbia non incontra più favore alcuno nei territori dalmati non occupati donde giovani fuggono per evitare arruolamento. Non più
di trecento intellettuali jugoslavi tengono in tutta la Dalmazia accesa l’av-
39
Memoriale B, 14 agosto 1919, cit.
BS, Carte Ghiglianovich, b. C, Krekich a Ziliotto, 9 agosto 1919.
41 ACS, Carte Nitti, b. 37, Millo a Ruspoli, 6 agosto 1919.
42 BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Millo a Ghiglianovich, 2 agosto 1919.
40
138
LUCIANO MONZALI
versione all’Italia e per mio conto sono sempre del parere convenga oggi ritardare la soluzione perché l’avvenire promette più del presente43.
Nel corso del mese di agosto le trattative sulla questione adriatica
a Parigi non produssero risultati. Di fronte alle resistenze americane,
su consiglio britannico Tittoni presentò un nuovo piano d’accordo. Pur
di ottenere l’annessione di Fiume o la sua costituzione in città libera,
l’Italia rinunciò alla richiesta del confine sulle Alpi Giulie e al territorio di Assling e accettò la linea Wilson. Riguardo alla Dalmazia, il ministro chiedeva l’annessione di Zara e delle isole di Ugliano, Lissa,
Lagosta, Unie e Lussino; gli interessi economici dell’Italia in Dalmazia
e i diritti delle minoranze italiane dalmate avrebbero dovuto essere garantiti44. Britannici e francesi si mostrarono freddi verso le proposte italiane. Il governo di Londra, in particolare, continuava ad essere ostile
ad una presenza italiana in Dalmazia. Il 31 agosto Lloyd George si dichiarò contrario alla sovranità italiana su Zara e Ugliano e pretese che
il governo di Roma si accontentasse di ottenerle in mandato dalla
Società delle Nazioni. Sotto la spinta delle pressioni alleate il governo
di Roma rinunciò all’idea dell’annessione di Zara ed accettò la proposta di creare una città libera sotto la tutela della Società delle Nazioni45.
Le idee di francesi e britannici sulla futura sistemazione adriatica furono enunciate in un messaggio di Lloyd George e Clemenceau a
Wilson datato 10 settembre, con il quale proposero al presidente americano una soluzione di compromesso fondata sulla linea Wilson in
Istria e sulla creazione di uno Stato libero fiumano. Circa la Dalmazia
e le isole, Lloyd George e Clemenceau prevedevano il loro passaggio
allo Stato iugoslavo, ad eccezione di Lussino, Pelagosa/Palagruz#a e
Lissa, riservate all’Italia, e di Zara e Ugliano, da costituirsi in Stato libero sotto la garanzia della Società delle Nazioni46.
Ghiglianovich e i capi dalmati ebbero notizia di queste pressioni
alleate e della crescente arrendevolezza del governo di Roma. Essi giudicavano l’ipotesi del mandato o della città libera a Zara come catastrofica, in quanto non avrebbe stabilizzato la situazione politica dalmata e avrebbe reso gli zaratini facili vittime delle pressioni economiche iugoslave. Disperavano della volontà del governo di Roma di
43
BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Millo a Ghiglianovich, 22 agosto 1919.
Il testo del promemoria italiano è edito in DBFP, I, 4, d. 20.
45 MICHELETTA, op. cit., I, p. 42 e ss.
46 DBFP, I, 4, dd. 20, 21; ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 510.
44
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
139
resistere alle pressioni alleate e americane: l’opinione pubblica, gli ambienti parlamentari italiani volevano farla finita con la questione adriatica47.
2.2. La rinuncia dell’Italia a tutelare gli italiani di Dalmazia nel
trattato di protezione delle minoranze in Iugoslavia
Anche dopo la firma del trattato di pace della Germania e del patto
per la protezione delle minoranze in Polonia, i lavori della Commissione dei Nuovi Stati proseguirono. De Martino, con la stretta collaborazione di Stranieri, continuò a rappresentare l’Italia in seno alla
Commissione. La nuova politica adriatica del governo Nitti-Tittoni,
fondata sulla decisione di sacrificare la gran parte delle rivendicazioni territoriali in Dalmazia pur di avere l’annessione di Fiume o la sua
indipendenza, spinse la delegazione a considerare con attenzione la
possibilità della tutela internazionale della minoranza italiana in Dalmazia, in gran parte destinata ad essere sottomessa al dominio iugoslavo. Nitti, poi, sperava che gli eventuali sacrifici territoriali dell’Italia in Dalmazia potessero essere in parte compensati con la tutela e il
potenziamento degli interessi economici italiani nell’Adriatico orientale. Nelle prime settimane di luglio, su stimolo del presidente del
Consiglio, che lo aveva nominato capo dell’Ufficio centrale per le
Nuove Province48, Francesco Salata ritornò a Parigi per collaborare con
la delegazione alla Conferenza della pace e preparò alcuni memoriali dedicati alla questione della protezione della minoranza italiana nella futura Dalmazia iugoslava. Il 18 luglio Salata propose cinque richieste a tutela degli interessi economici italiani in Dalmazia che la
delegazione avrebbe dovuto far approvare dalla Conferenza della pace come impegni internazionali del governo di Belgrado49. La prima
richiesta stava molto a cuore agli italiani zaratini e concerneva il diritto di collegare il futuro territorio italiano in Dalmazia con le reti ferroviarie iugoslave.
È assicurato all’Italia, rispetto al territorio della Dalmazia annesso allo
47
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 4 settembre 1919.
RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 207 e ss.
49 ASMAE, ACP, b. 20, FRANCESCO SALATA, Clausole economiche per la Dalmazia, 18
luglio 1919.
48
140
LUCIANO MONZALI
Stato dei Serbi, Croati e Sloveni il diritto di allacciamento con Knin e con
Dernis (già provveduti di linee ferroviarie) delle linee ferroviarie che l’Italia
intendesse di costruire nel proprio territorio dalmato e così pure il diritto di
allacciamento di queste nuove linee anche con nuove linee ferroviarie che lo
Stato dei Serbi, Croati e Sloveni costruisse nel territorio dalmato assegnato
a questo Stato50.
Il punto secondo del memoriale di Salata mirava a permettere lo
sfruttamento da parte di cittadini italiani del bacino carbonifero di
Monte Promina, dei giacimenti di bauxite e marna di Spalato, di
Salona/Solin e di Almissa e degli impianti idroelettrici di Sebenico e
di Spalato, mentre il terzo avrebbe garantito l’immutabilità del corso
dei fiumi Cherca/Krka e Cetina51. Salata, poi, chiedeva che fossero tutelati l’esportazione e il transito verso l’Italia di ogni specie di merce
e prodotto della Dalmazia assegnata al Regno SHS, così come ogni
importazione proveniente dall’Italia; dovevano anche essere garantiti
il diritto di pesca nelle acque territoriali dalmate e il cabotaggio nei
porti a favore del naviglio italiano52. Ricevute le proposte di Salata,
De Martino pensò di presentarle alla Commissione dei Nuovi Stati53,
che in quelle settimane discuteva del trattato per la protezione delle
minoranze nel Regno SHS. Augusto Stranieri discusse delle idee di
Salata con d’Amelio e Moscheni, esperti della delegazione in campo
giuridico ed economico che, però, sconsigliarono l’adozione di tali
proposte54. Secondo d’Amelio e Moscheni, le richieste di collegamenti
ferroviari e di mantenimento del corso di alcuni fiumi dalmati non potevano essere prese in considerazione fino a che non fosse risolta la
questione territoriale, mentre non aveva possibilità di essere accettata dagli alleati la domanda di privilegi economici in Dalmazia quali
prefigurati dal punto secondo della memoria di Salata. La libera circolazione delle merci fra la Dalmazia iugoslava e l’Italia era in sostanza e su un piano generale già sancita degli articoli 12 e 14 del progetto di accordo con la Iugoslavia. Le questioni della pesca e del diritto di cabotaggio, invece, erano in fase di trattazione nella Commis-
50
Ibidem.
Ibidem.
52 Ibidem.
53 Minuta di De Martino su appunto di Salata, Clausole economiche per la Dalmazia,
18 luglio 1919, cit.
54 ASMAE, ACP, b. 20, AUGUSTO STRANIERI, Relazione al segretario generale comm. De
Martino, 28 luglio 1919.
51
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
141
sione delle clausole politiche europee. In sostanza gli esperti giuridici della delegazione non ritenevano opportuno cercare in quel momento specifiche garanzie a tutela degli interessi economici italiani in
Dalmazia. Sempre in quei giorni, Stranieri, con la collaborazione di
Salata, preparò una relazione sull’ipotesi di inserire clausole politiche
a tutela dei dalmati italiani nel trattato per la protezione delle minoranze nello Stato iugoslavo55. Stranieri riferì che, dopo aver studiato
il progetto di accordo preparato dalla Commissione dei Nuovi Stati,
Salata consigliava di accontentarsi delle clausole generali già ideate.
Per quanto grande possa essere il nostro patriottico desiderio di vedere
assicurata la maggiore protezione possibile agli italiani stabiliti nei territori
dalmati che rimarranno alla Jugoslavia, sarebbe, a suo avviso, un errore, se
noi chiedessimo di più, poiché difficilmente potremmo evitare il pericolo di
una richiesta di reciprocità da parte degli jugoslavi a favore delle minoranze
slave nei territori redenti, ben più numerose e compatte che non le minoranze italiane nello Stato dei Serbi, Croati e Sloveni. È vero che nella Commissione dei Nuovi Stati, dove la questione fu già discussa, fu deciso che le clausole politiche relative alla tutela delle minoranze non erano applicabili alle
Grandi Potenze Alleate ed Associate, ma, a prescindere che una tale decisione non è stata ancora convalidata dal Consiglio Supremo, tutto fa prevedere
che nel regolamento finale della questione adriatica, non potremmo in niun
caso sottrarci alla richiesta della reciprocità, qualora, oltre alle clausole generali (stabilite così per le minoranze in Jugoslavia come per quelle in Polonia,
Czeco-Slovacchia, Grecia e Rumania) domandassimo speciali vantaggi e privilegi per le minoranze italiane di Dalmazia56.
Salata, quindi, consigliava sostanzialmente di accettare il progetto
di trattato preparato dai delegati della Commissione dei Nuovi Stati;
uniche modifiche proponibili erano per gli articoli 3 e 7 del futuro trattato: nell’articolo terzo era opportuna la specificazione che la cittadinanza andava fondata sul «droit d’indigénat», al fine di evitare facili
esclusioni dal diritto di cittadinanza per molti appartenenti alle minoranze; nel settimo bisognava sancire il libero uso della lingua della minoranza non solo nelle pratiche presso i tribunali ma anche in quelle
da svolgersi davanti a qualsiasi autorità amministrativa57. De Martino
55 ASMAE, ACP, b. 84, AUGUSTO STRANIERI, Relazione al segretario generale comm. De
Martino. Clausole politiche per la protezione delle minoranze italiane nella Jugo-slavia, 21
luglio 1919.
56 Ibidem.
57 Ibidem.
142
LUCIANO MONZALI
e Tittoni decisero di presentare gli emendamenti proposti da Salata alla Commissione dei Nuovi Stati e fecero preparare un progetto a tale
riguardo58. Nella seduta del 4 agosto i delegati italiani proposero alla
Commissione le due ipotesi di modifica degli articoli 3 e 7. De Martino
spiegò agli altri delegati le motivazioni delle richieste italiane:
La prima delle due suddette modificazioni è richiesta perché non abbiano a verificarsi discrepanze fra le clausole concernenti la cittadinanza del
Trattato con lo Stato Serbo-Croato-Sloveno e quelle analoghe inserite nel
Trattato con l’Austria, dove (art. 37), agli effetti della cittadinanza per le persone appartenenti ai territori ex-austro-ungarici trasferiti all’Italia, non è adottato il criterio del domicilio civile, ma il criterio dell’indigenato o domicilio
amministrativo. La seconda modificazione viene richiesta, sembrando equo
di estendere, in favore delle minoranze, la facoltà di servirsi della propria lingua anche alle pratiche da svolgersi davanti le autorità amministrative, ben
più frequenti delle pratiche giudiziarie, tanto più che un tal diritto era riconosciuto alle minoranze italiane in Dalmazia dalla legislazione della cessata
Monarchia59.
Se la modifica dell’articolo 3 venne accettata senza problemi, quella dell’articolo 7 suscitò critiche da parte delle altre delegazioni. In particolare i delegati britannici rilevarono che le clausole politiche generali circa la protezione delle minoranze dovevano essere sostanzialmente identiche per tutti i nuovi Stati e che quindi la modifica richiesta dall’Italia doveva estendersi a tutti i trattati sulle minoranze: ma ciò
non era più possibile perché il trattato della Polonia era già stato firmato. La Commissione, secondo la delegazione britannica, avrebbe potuto accettare la proposta italiana, ma «limitatamente alle città italiane
dell’Adriatico»; era poi opportuno che il governo di Roma presentasse spontaneamente una dichiarazione secondo la quale si sarebbe accordata «alle minoranze slave che saranno incorporate all’Italia la facoltà dell’uso della loro lingua sia davanti le autorità giudiziarie che
davanti quelle amministrative»60: il che, secondo gli inglesi, avrebbe facilitato l’accettazione da parte degli iugoslavi della futura soluzione del-
58 ASMAE, ACP,
b. 113, Modifications à apporter à la redaction du traité pour la protection des minorités dans le Royaume des Serbes, Croates e Slovenes, allegato a Stranieri a
De Martino, 26 luglio 1919.
59 ASMAE, ACP, b. 113, [AUGUSTO STRANIERI], Commissione dei Nuovi Stati. Seduta del
4 agosto 1919.
60 Ibidem.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
143
la questione adriatica. Da parte italiana si ricordò che la Commissione
aveva già deciso che le clausole per la protezione delle minoranze non
si applicassero alle grandi potenze; circa il problema della dichiarazione
sulle popolazioni slave annesse all’Italia si preferì rimandare ogni risposta61 e chiedere istruzioni a Tittoni. Ad avviso del ministro degli
Esteri, era improponibile ogni ipotesi di obbligo internazionale a carico dell’Italia: al massimo si poteva considerare l’idea di compiere in
sede di Commissione una spontanea dichiarazione verbale sulla volontà
italiana di rispettare i diritti linguistici e culturali delle popolazioni allogene annesse62. Il 6 agosto Tittoni ritenne d’informare Nitti della questione. Inviò un telegramma in cui riferì della discussione in sede di
Commissione dei Nuovi Stati e chiese al presidente del Consiglio.
È opportuno oppure no inserire clausole speciali per le minoranze italiane in Dalmazia? In caso affermativo basta la formula dell’uso della lingua
propria avanti le autorità giudiziarie ed amministrative oppure sono da richiedersi altre garanzie? Possiamo oppure no consentire a dichiarare in sede
di Commissione con menzione a processo verbale la nostra spontanea intenzione di applicare garanzie analoghe agli slavi in Italia63?
Proprio il 6 agosto, come abbiamo visto, la delegazione italiana presentò agli alleati un progetto di accordo territoriale adriatico. È interessante notare che fra le domande dell’Italia vi era la richiesta che le
minoranze italiane nella Dalmazia iugoslava fossero tutelate «da alcune clausole da inserirsi nel Trattato fra le Grandi Potenze e lo Stato
S.H.S.». In particolare la delegazione chiedeva che in tali clausole fossero comprese disposizioni che assicurassero:
a) il rispetto dello Stato S.H.S. degli impegni assunti dai precedenti governi di fronte a società e sudditi italiani;
b) l’equiparazione dei sudditi italiani, per l’esercizio di qualsiasi mestiere, professione, commercio o industria, ai sudditi della nazione più favorita;
c) il pieno diritto da parte dei dalmati italiani di assumere, entro il termine di un anno, dalla firma del Trattato, la nazionalità italiana;
d) la validità, nel territorio jugoslavo, di tutti i diplomi rilasciati dalle scuole superiori italiane64.
61
Ibidem.
ASMAE, ACP, b. 84 [GIACOMO DE MARTINO], Istruzioni del ministro (presente sen.
Scialoja), 5 agosto 1919.
63 ASMAE, ACP, b. 84, Tittoni a Nitti, 6 agosto 1919.
64 Promemoria del governo italiano, 6 agosto 1919, edito in ALATRI, Nitti, D’Annunzio,
62
144
LUCIANO MONZALI
In quei giorni, quindi, la delegazione italiana sembrava determinata ad ottenere una protezione internazionale multilaterale per i diritti della minoranza italiana dalmata. Ma questa volontà ebbe breve
durata. Il 7 agosto Nitti, dopo aver consultato Salata, rispose al telegramma di Tittoni dichiarando che era da deplorarsi il fatto che la delegazione italiana non avesse sollevato la questione della protezione
della minoranza dalmata alcuni mesi prima quando si stavano preparando i trattati con la Polonia e la Cecoslovacchia.
Poiché ciò non fu fatto allora forse era meglio non parlarne ora. Il consenso dato alla nostra domanda per quanto riguarda gli italiani di Dalmazia
può essere inteso tendenziosamente a dimostrare che nulla Italia deve opporre
alla tesi di una Dalmazia jugoslava poiché le giuste garanzie ci sono state già
concesse65.
A parere di Nitti, però, in caso la questione fosse nuovamente sollevata in sede di Commissione dei Nuovi Stati un rifiuto di fare qualsiasi dichiarazione sulle minoranze slave in Italia avrebbe prodotto una
cattiva impressione.
Dobbiamo dunque dichiarare in tal caso che se non possiamo né vogliamo ammettere che una dichiarazione scritta sia contenuta nel testo del trattato per quanto riguarda le garanzie da concedersi ai nuovi sudditi italiani di
razza slava, noi siamo però ben lieti di dichiarare verbalmente che è [nostra]
intenzione di riconoscere ai sudditi italiani di razza slava il diritto di fare uso
di lingua slava dinanzi alle nostre autorità giuridiche ed amministrative66.
Il 9 agosto De Martino parlò con Headlam-Morley, presidente della Commissione dei Nuovi Stati, e trovò un escamotage per evitare che
l’Italia dovesse fare dichiarazioni o prendere impegni sulle popolazioni
slave annesse, il che comportò la rinuncia ad ogni protezione internazionale per gli italiani dalmati in Iugoslavia. Nel corso della seduta
della Commissione, Headlam-Morley dichiarò che era praticamente
impossibile deliberare circa il trattamento delle minoranze italiane che
sarebbero rimaste in Iugoslavia «prima di sapere quali saranno tali minoranze, cioè prima che siano fissate le frontiere dello Stato jugoslavo». Tutti i delegati, compresi gli italiani, si associarono alla tesi del
cit., p. 507.
65 ASMAE, ACP, b. 84, Nitti a Tittoni, 7 agosto 1919.
66 Ibidem. Si veda anche ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 117.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
145
presidente e la proposta italiana di modifica dell’articolo 7 fu ritirata. Scialoja e De Martino comunicarono a Nitti che in questo modo la
questione della protezione degli italiani nella Dalmazia iugoslava era
stata risolta nel modo desiderato, «salvo riprenderla in sede politica
dell’assestamento territoriale adriatico»67.
La ragione della rinuncia ad una protezione internazionale della minoranza italiana dalmata appare molto chiaramente dalla documentazione diplomatica: come ha notato Francesco Caccamo, in seno al governo di Roma prevalse la linea di non rivendicare particolari e specifiche concessioni per la minoranza italiana dalmata, «per non dare
modo alla controparte di Belgrado di chiedere misure analoghe per le
ben più numerose popolazioni slovene e croate che sarebbero state annesse all’Italia»68.
Nel corso di agosto i lavori della Commissione dei Nuovi Stati procedettero speditamente e portarono alla preparazione dei testi per i trattati di garanzia delle minoranze allogene in Iugoslavia e Romania69. I
trattati per la protezione delle minoranze etniche, nazionali e religiose viventi in Iugoslavia, Cecoslovacchia e Romania vennero firmati
congiuntamente al trattato di pace austriaco a Saint Germain il 10 settembre 1919. Il trattato riguardante le minoranze in Iugoslavia riprendeva nei primi otto articoli le garanzie presenti in tutti gli altri accordi, in primis in quello con la Polonia. Lo Stato iugoslavo s’impegnava ad assicurare piena protezione della vita e della libertà a tutti i
suoi abitanti, senza distinzione di nascita, di nazionalità, di lingua, di
religione o di razza (articolo 2), nonché il diritto per i sudditi tedeschi, austriaci e ungheresi di scegliere liberamente se rimanere sudditi del Regno SHS o optare per un altro Stato (articoli 3, 4, 5). Importanti erano gli articoli 7 e 8. Con la clausola VII il governo di Belgrado
s’impegnava a considerare tutti i sudditi iugoslavi eguali davanti alla
legge e in possesso di pari diritti civili e politici, senza distinzione di
razza, di religione o di lingua. Le differenze religiose non dovevano
impedire l’accesso ai pubblici impieghi o alle varie professioni. Nes67 ASMAE, ACP, b. 84, Scialoja a Nitti, 9 agosto 1919 (la minuta del telegramma è di
De Martino).
68 CACCAMO, L’Italia e la “Nuova Europa”, cit., p. 315.
69 Sul ruolo dell’Italia nell’elaborazione di questi trattati: ASMAE, ACP, b. 113, CASTOLDI,
Commissione Nuovi Stati e protezione minoranze. Regno dei Serbi-Croati e Sloveni (territori già ottomani), 14 settembre 1919; CACCAMO, L’Italia e la “Nuova Europa”, cit., p. 313 e
ss. Riguardo all’atteggiamento iugoslavo verso il trattato sulle minoranze: Zapisnici, p. 180
e ss.; LEDERER, op. cit., 277 e ss.
146
LUCIANO MONZALI
suna restrizione doveva essere imposta al libero uso di qualsiasi lingua da parte di ogni suddito iugoslavo nella vita privata, nel commercio, nella religione o nelle pubbliche adunanze; si dovevano poi
concedere facilitazioni ai sudditi di nazionalità minoritaria per l’uso
della propria lingua davanti ai tribunali. L’articolo 8 sanciva il diritto
dei sudditi iugoslavi appartenenti a minoranze etniche, di religione o
di lingua, di fondare e gestire a proprie spese opere di beneficienza,
di culto e di carattere sociale, scuole e altri istituti di educazione, con
la possibilità di usarvi la propria lingua. L’articolo 9 prevedeva che nelle città e nei distretti dove viveva una notevole proporzione di sudditi serbo-croato-sloveni di lingua diversa dalla ufficiale fossero concesse agevolazioni per assicurare ai figli di questi l’istruzione nella loro lingua nelle scuole primarie; in queste città e distretti doveva essere assicurata alle minoranze un’equa partecipazione nel godimento dei
fondi pubblici aventi finalità educative, religiose o di beneficienza. Le
disposizioni di questo articolo, però, si sarebbero applicate solo ai territori trasferiti alla Serbia o allo Stato serbo-croato-sloveno dopo il 1°
gennaio 1913, cioè non sarebbero state applicate in Kosovo e Macedonia70.
Nel trattato riguardante le minoranze in Iugoslavia non furono incluse clausole specifiche a protezione degli italiani di Dalmazia. Il governo di Belgrado, contrario ad assumere impegni internazionali riguardo alle popolazioni allogene, rifiutò di firmare il trattato per alcune settimane e vi aderì, dopo dure pressioni alleate, solo il 5 dicembre 1919. Ciò era indicativo della scarsa volontà dello Stato iugoslavo di applicare seriamente e volontariamente il trattato. La stessa esclusione delle popolazioni bulgaro-macedoni e albanesi della
Macedonia e del Kosovo dalla possibilità di godere dei diritti previsti
dall’articolo 9 era un chiaro segnale dell’ostilità iugoslava e serba verso il principio del pluralismo nazionale e religioso. Non avevano torto gli italiani di Dalmazia ad attendersi dallo Stato iugoslavo una carente applicazione del trattato delle minoranze e uno scarso rispetto
dei propri diritti linguistici e culturali71.
A partire dall’estate del 1919 il governo di Roma rinunciò all’idea
70 Il testo del trattato per la protezione delle minoranze concluso fra le principali potenze alleate e associate e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni è pubblicato in AMEDEO GIANNINI,
Trattati ed accordi per l’Europa danubiana e balcanica, Roma, 1936, p. 358 e ss.
71 Al riguardo: ASMAE, ACP, b. 84, Salata alla delegazione italiana per la pace, 31 ottobre 1919 (trasmette una comunicazione di Millo, s.d.).
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
147
di tutelare la popolazione italiana nella Dalmazia iugoslava attraverso i trattati per la protezione delle minoranze in Europa orientale.
Piuttosto si optò per il metodo bilaterale, cioè si decise di inserire questo tema fra gli argomenti dei negoziati politico-territoriali in corso
con Belgrado. Nel novembre 1919 la delegazione italiana propose che
il governo iugoslavo assumesse impegni bilaterali verso l’Italia a tutela dei diritti economici, linguistici e culturali degli italiani di Dalmazia72. Lo Stato iugoslavo doveva impegnarsi a non imporre ai cittadini italiani alcuna limitazione ed esclusione discriminatoria riguardo
all’esercizio dei loro mestieri, professioni, commerci e industrie. Gli
italiani nati o presenti nei territori dell’ex Impero asburgico passati al
Regno SHS avrebbero avuto la facoltà di acquisire la cittadinanza italiana entro un anno dall’entrata in vigore di questo accordo. Sia i cittadini italiani residenti in Iugoslavia che quelli iugoslavi di nazionalità italiana avrebbero avuto il diritto a creare, dirigere e controllare a
loro spese istituzioni di beneficienza, religiose e sociali, scuole o altri istituti edicativi, con la libertà d’uso della loro lingua. I titoli universitari ottenuti in Italia da italiani del Regno SHS sarebbero stati riconosciuti validi73. Erano impegni che in parte riprendevano il contenuto di alcuni articoli dei trattati delle minoranze; l’obiettivo era di tutelare sia i dalmati italiani che sarebbero rimasti cittadini iugoslavi,
sia coloro che avrebbero optato per la cittadinanza del Regno d’Italia.
Ma dalla lettura di questi progetti si può notare come l’attenzione del
governo di Roma fosse riservata in modo crescente soprattutto alla protezione dei diritti dei dalmati che avrebbero assunto la cittadinanza italiana, relegando in secondo piano gli italiani che avrebbero mantenuto la cittadinanza iugoslava: quasi che la mancata assunzione della cittadinanza del Regno sabaudo significasse una rinuncia alla propria
identità nazionale da parte di alcuni dalmati italiani, perciò meno degni d’interesse e di tutela da parte dell’Italia. Era questo un grave errore di valutazione da parte del governo di Roma, che svalutava e non
comprendeva le gravi motivazioni sociali ed economiche che potevano consigliare a molti italiani di Dalmazia la preferenza per la cittadinanza iugoslava: una cittadinanza che poteva servire per non esse-
72 Ad esempio il progetto di accordo italo-iugoslavo per la protezione delle minoranze
dell’11 novembre 1919: DBFP, I, 4, allegato 3 a d. 121, Clauses économiques et concernant
la Protection des Minorités entre l’Italie et le Royaume des Serbes-Croates-Slovenes, 11 novembre 1919.
73 Ibidem.
148
LUCIANO MONZALI
re esclusi dalle istituzioni e dalle principali professioni (insegnanti, avvocati, notai, medici) della società dalmata ed essere costretti a divenire cittadini di seconda categoria, viventi in una sorta di ghetto giuridico. Di fatto progressivamente la politica del governo di Roma ostacolò i tentativi dei dalmati italiani di rimanere parte attiva ed integrata della società dalmata, spingendoli piuttosto ad assumere ad ogni costo la cittadinanza italiana.
Nell’autunno 1919 le richieste dell’Italia di protezione della minoranza italiana in Dalmazia su un piano bilaterale si scontrarono non
solo con l’opposizione iugoslava, ma anche con quella degli Stati
Uniti: gli americani erano contrari a privilegi economici riservati ad
un solo Stato e ritenevano che le clausole del trattato per le minoranze concluso dalla Iugoslavia fossero sufficienti per la protezione delle comunità italiane74.
2.3. Il movimento dannunziano e la questione dalmatica
In un momento di grave crisi politica interna ed internazionale e di
crescente indebolimento delle posizioni italiane nelle trattative adriatiche, ebbe luogo la spedizione di volontari guidata da Gabriele D’Annunzio, che il 12 settembre occupò Fiume. Non è nostro obiettivo ricostruire le origini e le vicende della spedizione dannunziana a
Fiume75. Bisogna comunque sottolineare che le motivazioni di politi74 DBFP, I, 4, AMERICAN COMMISSION TO NEGOTIATE PEACE, Comment on the Italian
Statement of the American Position, 17 novembre 1919, allegato 1 a d. 129.
75 Fra la vasta memorialistica e storiografia esistente sul movimento dannunziano e l’impresa di Fiume ricordiamo: DE FELICE, D’Annunzio politico 1918-1938, cit.; ID., Sindacalismo
rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D’Annunzio (1919-1922), Brescia,
1966; FRANCESCO PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, 1988; LUIGI
EMILIO LONGO, L’esercito italiano e la questione fiumana (1918-1921), Roma, 1996, due volumi; FERDINANDO GERRA, L’Impresa di Fiume. Nelle parole e nell’azione di Gabriele
D’Annunzio, Milano, 1966; GIOVANNI GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo in difesa
dell’Adriatico, Firenze, 1954; SOLMI, Gabriele D’Annunzio e la genesi dell’impresa adriatica, cit.; PAOLO ALATRI, D’Annunzio, Torino, 1983; ID., Nitti, D’Annunzio, cit.; NINO VALERI,
Dalla “Belle Époque” al fascismo. Momenti e personaggi, Bari-Roma, 1975, p. 53 e ss.; ID.,
D’Annunzio davanti al fascismo, Firenze, 1963; MICHAEL A. LEDEEN, D’Annunzio a Fiume,
Bari-Roma, 1975; GIOVANNI HOST-VENTURI, L’impresa fiumana, Roma, 1976; VALLERY,
CALBIANI, Zara e la Dalmazia nel pensiero e nell’azione di Gabriele D’Annunzio, cit.; PAOLO
VENANZI, Gabriele D’Annunzio tra fiumanesimo e fascismo, Padova, 1979; FABIO ANDRIOLA,
Luigi Rizzo, Roma, 2000, p. 138 e ss.; FERDINANDO CORDOVA, Arditi e legionari dannunziani, Venezia, 1969; ANTONELLA ERCOLANI, La fondazione del Fascio di Combattimento a Fiume
tra Mussolini e D’Annunzio, Roma, 1996.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
149
ca estera furono cruciali nella sua genesi76. Il rischio che il ritiro di
gran parte delle truppe italiane da Fiume e il passaggio ad un’occupazione interalleata pregiudicassero la futura annessione della città
all’Italia furono le cause fondamentali che spinsero il poeta abruzzese ad accettare di guidare la spedizione77. Nelle intenzioni dei suoi organizzatori – Giuriati, Foscari, Sinigaglia, D’Annunzio – l’occupazione di Fiume doveva essere solo un primo passo nel più generale disegno di affermare i diritti italiani in tutto l’Adriatico, e, soprattutto,
in Dalmazia. Da qui la volontà di reagire platealmente alle possibili
intenzioni del governo Nitti-Tittoni di compiere importanti rinunce territoriali. Giuriati e Foscari, esponenti di punta del nazionalismo veneto, credevano ciecamente nel dovere dell’Italia di riconquistare quei
territori già appartenuti alla Repubblica di Venezia78. Lo stesso D’Annunzio, come abbiamo visto, fin dagli anni della guerra, si era dimostrato un convinto sostenitore dell’esigenza che l’Italia conquistasse
tutta la Dalmazia ed aveva criticato il programma «rinunciatario» previsto dal patto di Londra. È interessante rilevare che D’Annunzio inizialmente aveva pensato ad una spedizione di volontari per occupare
non Fiume ma Spalato, città irredenta abitata da migliaia di italiani;
fu poi l’evoluzione della situazione a Fiume a convincerlo a mutare
obiettivo79. Come ha notato Giovanni Giuriati, nel pensiero di D’Annunzio «la occupazione di Fiume avrebbe dovuto consentire al
Governo italiano di accantonare il problema fiumano, puntando decisamente sull’adempimento del patto di Londra», cioè all’annessione
della Dalmazia compresa nelle linee armistiziali80. La forte connotazione patriottica, il volere perseguire un grande obiettivo di politica
estera, l’affermazione dell’Adriatico quale mare italiano, spiegano le
simpatie e i consensi che il movimento dannunziano raccolse in seno
alle forze armate, ai partiti e a certi settori del governo italiano. Partico76 Nella storiografia italiana è diffusa l’opinione che la spedizione dannunziana rispondesse a finalità prevalentemente di politica interna, miranti al colpo di Stato e alla creazione
di un governo autoritario. Ad esempio: ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit.; ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., p. 380 e ss.
77 Al riguardo, ad esempio, la testimonianza di Carlo Rigoli: ACS, Carte Bonomi, b. 4,
Relazione del maggiore Carlo Rigoli, s.d., ma estate 1920.
78 Sulla personalità politica di Giuriati: GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit.; ID., La
parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, Roma-Bari, 1981; ALESSANDRA STADERINI,
Rivendicazioni territoriali e mobilitazione nazionale nei documenti del 1919 di Giovanni
Giuriati e Oscar Sinigaglia, «Storia contemporanea», 1983, n. 1, p. 89 e ss.
79 SOLMI, Gabriele D’Annunzio e la genesi dell’impresa adriatica, cit., p. 161 e ss.
80 GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., p. 67.
150
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larmente forte fu il richiamo di D’Annunzio sugli effettivi della Marina, convinti della necessità che l’Italia annettesse Fiume e la Dalmazia: nel settembre 1919 centinaia di marinai e ufficiali di Marina abbandonarono le proprie unità e disertarono per unirsi alle forze dannunziane81. La spedizione di D’Annunzio ebbe successo e poté durare per molti mesi grazie alla non opposizione dell’esercito e al sostegno materiale, economico e politico che essa ricevette in modo costante dal governo e dalle forze armate italiane presenti in Venezia
Giulia e Dalmazia82.
L’arrivo di D’Annunzio a Fiume provocò un immediato peggioramento dei rapporti fra Italia e Regno SHS. Il 18 settembre la delegazione serbo-croato-slovena presentò una nota di protesta al segretariato
della Conferenza di Parigi, rilevando che l’agitazione creata dagli
eventi fiumani minacciava l’ordine e la tranquillità in Dalmazia e in
Istria. A tal fine il governo di Belgrado proclamò che le popolazioni
serbo-croate di Fiume e Zara reclamavano la protezione della Conferenza della pace contro le azioni di D’Annunzio e dei suoi seguaci,
fra i quali vi era pure, a parere iugoslavo, Millo83. La spedizione dannunziana a Fiume, poi, ebbe immediatamente contraccolpi in Dalmazia. Fra gli italiani dalmati, in particolare fra quelli della Dalmazia
occupata dall’esercito iugoslavo, risorsero speranze di una futura unione con l’Italia. Sotto la suggestione degli eventi di Fiume un vero e
proprio atto militare di stile dannunziano fu organizzato a Traù il 23
settembre. Nino Fanfogna, trentaduenne appartenente ad una delle più
importanti famiglie italiane di Traù, convinse alcuni ufficiali italiani
di stanza a Prapatnica, al confine fra il territorio dalmata occupato
dall’Italia e la regione controllata dagli iugoslavi, ad organizzare una
spedizione che occupasse la sua città nativa84. La notte del 23 settembre
81 Al riguardo vi è molto materiale nell’archivio dell’Ufficio storico della Marina militare. Ad esempio: AM, archivio di base, c. 1445, Contrammiraglio Frank al comandante in
capo dell’Alto Adriatico Cusani Visconti, 24 settembre 1919; ibidem, Contrammiraglio Nunes,
Relazione sui fatti di Fiume, s.d.
82 Sul continuo invio di rifornimenti (benzina, denaro, viveri, armi) dalla Dalmazia occupata a Fiume: FV, ARC GEN FIU, fasc. Enrico Millo, Millo a D’Annunzio, 13 dicembre
1919; ibidem, fasc. Umberto Bucci, Bucci all’Ufficio del capo di gabinetto del Comando di
Fiume, 6 maggio 1920.
83 AM, archivio di base, c. 1445, Vesnich a Clemenceau, 18 settembre 1919.
84 Sulla spedizione di Traù vi è una relazione documentata edita dal governo italiano della Dalmazia nel 1920: AM, archivio di base, c. 1765, ATTILIO VIGEVANO (capo dell’Ufficio
I.T.O. del governo della Dalmazia e delle Isole Dalmate e Curzolane), L’incursione italiana
a Traù, Zara, 1920. Brani di questa relazione editi in LONGO, op. cit., II, p. 141 e ss. Si ve-
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
151
un centinaio di soldati italiani e il Fanfogna, con quattro autocarri, oltrepassarono i posti di frontiera iugoslavi e, di sorpresa e senza spargimento di sangue, occuparono Traù. Il reparto italiano assunse il comando della città nominando Fanfogna “dittatore”. La spedizione
avrebbe potuto provocare lo scoppio di un conflitto militare fra Italia
e Regno SHS, ma questa eventualità venne scongiurata dal pronto intervento degli ufficiali italiani della nave Puglia e dei militari americani di stanza a Spalato. Giunta a Spalato nella prima mattinata la notizia dell’occupazione di Traù, alle ore 10 del 23 settembre il capitano di corvetta Paolo Maroni, comandante in seconda della Puglia, e
l’ufficiale americano Field partirono per Traù con il compito di persuadere i soldati sconfinati a rientrare nelle linee italiane. Convinti i
comandi serbi a non lanciare per il momento nessun attacco, Maroni
e Field giunsero a Traù ed iniziarono a negoziare con gli occupanti e
Fanfogna il ritiro dalla città. Fanfogna – descritto nei documenti italiani come uomo «incosciente» e privo di ogni capacità politica –
«enormemente preoccupato per quello che gli poteva capitare all’allontanarsi degli italiani, insistette perché le truppe italiane non partissero»85, ma poi si lasciò convincere. Nel frattempo a Traù arrivarono
alcune navi americane.
A quella vista la popolazione croata della città, ripreso animo, cominciò
sulla riva e in piazza una violenta dimostrazione contro i nostri soldati, alcuni dei quali vennero anche aggrediti e disarmati. Però fucilate sparate qua
e là ebbero per effetto di far presto dileguare la folla e di affrettare lo sbarco
della compagnia americana di sbarco che era sul Cowell. Nel momento del
trambusto il conte Nino Fanfogna si ritirò in casa, vi si rinchiuse e non si fece più vedere, e solo un vecchio, Achille de Michelis, si avvicinò al comandante Maroni, e, dichiarandosi il più anziano del «Fascio» italiano, dopo aver
protestato contro l’incosciente leggerezza del conte Fanfogna, si mise a disposizione del Maroni per facilitargli il compito e per tutto quello che potesse
occorrergli dagli italiani di Traù. Frattanto disordinatamente la compagnia italiana coi tenenti de Toni, Manfredi e Mantica evacuava Traù […] e fra le ore
14 e le ore 15 rientrava nelle linee86.
dano anche: AM, archivio di base, c. 1421, Il tenente generale Montanari a Millo, 24 settembre
1919; ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Millo a Comando supremo, Ufficio del capo di stato maggiore della Marina e Presidenza del Consiglio, 23 settembre 1919; VALLERY, CALBIANI, op.
cit., p. 53.
85 VIGEVANO, L’incursione italiana a Traù, cit., p. 6.
86 Ibidem.
152
LUCIANO MONZALI
La spedizione di Traù, organizzata e condotta «in maniera da sembrare opera […] di bambini giocanti alla guerra»87, ebbe pesanti ripercussioni sulle comunità italiane di Traù e Spalato. Il governo iugoslavo procedette all’arresto di numerosi esponenti italiani di Traù
(Nino, Simeone e Umberto Fanfogna, Vincenzo Santic, Achille Demicheli/de Michelis, Giorgio de Rossignoli, Lorenzo Lubin, Giacomo
Vozila/Vosilla, Antonio Strojan, Marino, Michele e Spiridione Marini,
ecc.), anche se molti di questi non erano stati coinvolti nel fatto; altri
italiani (i figli di Giovanni Lubin, Rados e Nicolò, Giuseppe Zizak,
Ildegardo Calebotta, Giuseppe Maric, Antonio Dudan) furono costretti
a fuggire nella Dalmazia italiana per evitare l’arresto. Per alcuni giorni, gruppi di teppisti, aizzati dalle autorità governative, si diedero ad
atti vandalici contro le abitazioni e le proprietà d’italiani che vivevano a Traù e nella vicina regione dei Castelli/Kas#tela88. La conseguenza della spedizione, quindi, fu la distruzione politica del Fascio
Nazionale Italiano di Traù e un deciso peggioramento delle condizioni di vita degli italiani locali. Anche nella vicina Spalato, dove negli
ultimi mesi la situazione sembrava essersi rasserenata, la spedizione
di Traù ebbe dure conseguenze, con la ripresa delle violenze e di atti
teppistici contro gli italiani locali.
A Spalato – riferì il Fascio Nazionale Italiano di Spalato – subito alla prima notizia che soldati italiani erano penetrati a Traù, una folla di dimostranti percorse le vie cittadine con grida di vituperio all’Italia e di morte agli
Italiani. Venne invaso il Caffè del nostro connazionale sig. Giulio Nani alla
marina, mandandosi in frantumi tutti i vetri, specchi ed ogni altro arredamento
[…]. Vennero gittati sassi contro il Gabinetto di Lettura, infrangendosi alcune vetrate. Vennero del pari rotti i lastroni del negozio del barbiere Cirillo
Devich in Piazza dei Signori. Vennero aggredite e vilipese alcune persone ed
in particolare signore e signorine. Vennero aggrediti, percossi ed indi arrestati i nostri connazionali Petricich, Ozretich e Rosandich. Venne pure aggredito il nostro consenziente Umberto Dalmas da sette soldati serbi. Durante
la notte poi vennero prese a sassate le finestre del nostro connazionale
Costantino Cuznanich infrangendosi parecchie vetrate89.
87
Ivi, p. 23.
Ivi, p. 22; AM, archivio di base, c. 1421, Il Fascio Nazionale Italiano di Spalato a
Menini, 24 settembre 1919, allegato a Menini a Millo, 24 settembre 1919; ASMAE, ACP, b.
21, TOMMASO GULLI, Riassunto delle pratiche fatte dal 19 ottobre in poi per sospensione procedimento penale militare contro gli arrestati di Traù, s.d. (ma novembre 1919), allegato a:
Millo al ministro degli Affari Esteri, 24 novembre 1919.
89 Il Fascio Nazionale Italiano di Spalato a Menini, 24 settembre 1919, cit.
88
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
153
Questi eventi piuttosto drammatici spiegano perché il movimento
dannunziano fosse visto in modo contradditorio da molti dalmati italiani. Tutti apprezzavano lo spirito irredentista e la passione dalmatica di D’Annunzio e dei suoi seguaci, ma alcuni dalmati temevano gli
effetti negativi che eventuali iniziative simili alla spedizione di Traù
potevano avere sulle concrete condizioni di vita dell’elemento italiano. L’occupazione di Fiume, poi, poteva portare ad un peggioramento delle relazioni fra l’Italia e gli alleati, con gravi ripercussioni sui
negoziati adriatici. Fra i capi liberali-nazionali zaratini, Ziliotto,
Krekich e Ghiglianovich, e D’Annunzio e i suoi seguaci, vi erano
profonde differenze culturali ed ideologiche: il carattere anti-borghese e populista del dannunzianesimo era abbastanza lontano dalla cultura liberale ed elitaria della tradizione politica dalmata. I liberali zaratini ritenevano che le sorti della minoranza italiana fossero ineluttabilmente legate alle direttive del governo di Roma: certe tendenze
antigovernative e ribellistiche dei dannunziani inquietavano non poco
Ziliotto e Ghiglianovich, che invece erano favorevoli alla collaborazione fra i volontari fiumani e lo Stato italiano. Questo brano di una
lettera di Ghiglianovich del 14 settembre 1919 esprime bene la contradditorietà dell’atteggiamento dei liberali dalmati verso D’Annunzio.
La gesta di D’Annunzio – secondo il politico zaratino – è di una bellezza patriottica ed estetica incomparabile. Essa varrà certamente a scuotere l’opinione pubblica italiana dal letargo in cui la gettò la politica dell’attuale ministero; ma praticamente non avrà nessun risultato. Detti atteggiamenti pongono il Ministero e la Delegazione in una gravissima situazione di imbarazzo di fronte agli alleati, ed anche nei riguardi interni. La partecipazione all’impresa di reparti dell’esercito mobilitato (volontari del Regno ce ne sono
pochissimi) dimostra che nel meccanismo dell’esercito manca ormai qualche
ruota funzionante. E ciò, statalmente parlando, è grave. […] Non mi pare che
per il fatto del gesto dannunziano sia presumibile la capitolazione degli Alleati
e molto meno di Wilson nella questione di Fiume90.
Fra i gruppi più estremisti dei dalmati italiani, popolari fra i giovani, spesso critici verso il moderatismo e il conservatorismo della vecchia guardia liberale autonomista, invece, sorse un grande ed incondizionato entusiasmo per D’Annunzio. Pochi giorni dopo l’occupazione di Fiume, un gruppo di giovani dalmati, guidati da Enrico de
90
BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 14 settembre 1919.
154
LUCIANO MONZALI
Schönfeld e Giuseppe Donati, si recò nel capoluogo del Quarnero per
chiedere al poeta abruzzese di organizzare una spedizione in Dalmazia91. La spedizione di D’Annunzio a Fiume nel settembre 1919, di fatto, fu il momento di nascita e di primo sviluppo di gruppi politici dannunziani e nazionalisti italiani in Dalmazia, critici e in contrapposizione con il vecchio establishment che aveva guidato il partito autonomo-italiano prima della guerra. All’interno di questi gruppi cominciarono a distinguersi Maurizio Mandel, Enrico de Schönfeld,
Egidio Rovaro Brizzi, alcuni dei quali, poi, sarebbero divenuti i capi
del nazionalismo e del fascismo zaratino. Sotto la pressione di una base politica in preda a tendenze massimalistiche, che sognava future spedizioni dannunziane per occupare Spalato o Traù, e di fronte alla drammatica prospettiva di un possibile ritiro da Zara delle truppe italiane
in caso di accordo territoriale a Parigi, Ziliotto e Krekich decisero d’instaurare un rapporto di collaborazione con il movimento dannunziano al fine di cercare di usarlo a proprio vantaggio. Nella seconda metà
di settembre Ziliotto stabilì che una delegazione dalmata si recasse a
Fiume per parlare con D’Annunzio, chiarire le sue intenzioni e cercare di dare un indirizzo politicamente utile alle sue eventuali iniziative. Il calcolo politico che stava dietro questa iniziativa era così espresso da Ghiglianovich:
Io considero inattuabile una spedizione in Dalmazia, pericolosa per l’Italia
nei rapporti internazionali; ma se D’A[nnunzio] la vuole non possiamo noi
impedirgliela: dobbiamo soltanto avvertirlo in forma abile della situazione che
troverebbe. […] Se consento alla missione è soltanto perché sono sicuro che
D’Annunzio, che ha già tanti grattacapi per Fiume, non farà nulla; e perché
così i nostri non potranno rimproverarsi o rimproverarci di non aver parlato
con D’A[nnunzio]. Se D’A[nnunzio] vorrà poi fare, la responsabilità diretta
e principale sarà sua92.
Su questa missione dalmata a Fiume esistono poche fonti disponibili. Sappiamo che fu composta da cinque persone, fra i quali probabilmente vi furono il giornalista zaratino de «L’Idea Nazionale», Silvio
Delich, l’avvocato Miagostovich in rappresentanza degli italiani di
Sebenico, e Pervan, uno dei capi del Fascio Nazionale Italiano di
91 ILDEBRANDO TACCONI,
L’impresa dannunziana in Dalmazia, «La Rivista Dalmatica»,
1938, n. 2, p. 38 (edito anche in ID., Per la Dalmazia, cit., p. 466 e ss.).
92 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, s.d. (ma settembre 1919).
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
155
Spalato93. Fu verosimilmente lo stesso Delich a pubblicare, anonimo,
un breve resoconto del colloquio dei rappresentanti dalmati con
D’Annunzio e il messaggio del poeta rivolto ai dalmati italiani. Il poeta dichiarò di avere a cuore la sorte dei dalmati italiani. Grande era il
suo rammarico per non avere avuto a disposizione, al momento dell’occupazione di Fiume, forze sufficienti per «propagare l’incendio in
quel medesimo giorno fino a Spalato nostra, e più oltre ancora fino
alle Bocche di Cattaro, fino a quell’antica Perasto che custodisce la
speranza e il gonfalone. La passione di Dalmazia non travagliò mai
così addentro il mio petto come durante la mia marcia verso Fiume»94.
D’Annunzio invitò alla fiducia e alla speranza in un intervento liberatore.
Fratelli di Dalmazia, non vi abbiamo dimenticati, non possiamo dimenticarvi. […] Confidate in me servitore primo e perdutissimo della causa vostra, o fratelli dalmati. Confidate nell’esercito fraterno della vittoria. Le sorti dell’Adriatico non possono essere decise se non dagli italiani. Ogni altra
gente è intrusa, e noi non lasceremo che prevalga95.
Da un accenno contenuto in una lettera di Ghiglianovich96 sappiamo che nel corso di ottobre i contatti fra i capi italiani di Zara e
D’Annunzio continuarono: verosimilmente Ziliotto, preoccupato dall’eventualità di un improvviso ritiro dell’esercito italiano dalla Dalmazia e da Zara, ottenne la promessa di un intervento di volontari dannunziani nella capitale dalmata in caso di partenza dell’esercito regolare e di minaccia di consegna della città alla Iugoslavia97. Sempre in
ottobre, al fine di dare un’organizzazione militare ai dalmati affluiti a
Fiume, D’Annunzio fondò la legione dei volontari dalmati, anche denominata Legione dalmata, inserita all’interno delle forze militari dannunziane presenti nel capoluogo del Quarnero. La possibilità di una
spedizione dannunziana in Dalmazia creò preoccupazione nel governo italiano. L’eventualità di una tale iniziativa si evinceva anche dal
93
Ibidem.
«L’Idea Nazionale», 25 settembre 1919, D’Annunzio ai fratelli di Dalmazia.
95 Ibidem. Circa questo messaggio di D’Annunzio: VALLERY, CALBIANI, Zara e la
Dalmazia, cit., pp. 50-51.
96 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, brano di una lettera di Ghiglianovich a Barbieri, senza data (ma fine ottobre 1919).
97 Si veda anche il messaggio che D’Annunzio inviò a Ziliotto il 16 ottobre 1919, edito
in TACCONI, L’impresa dannunziana in Dalmazia, cit., p. 34.
94
156
LUCIANO MONZALI
fatto che a partire dalla fine di settembre, in seguito al discorso di
Tittoni alla Camera dei Deputati il 27 dello stesso mese e all’intensificarsi dei negoziati adriatici alla Conferenza di Parigi, si diffusero voci sempre più insistenti di un prossimo accordo territoriale italo-iugoslavo e di un futuro sgombero dalla Dalmazia: di fronte ad un tale
evento i dannunziani minacciarono una spedizione che avrebbe occupato parte della Dalmazia per scongiurare l’arrivo delle truppe iugoslave. In effetti Nitti e Tittoni contavano fortemente sul raggiungimento
di un accordo adriatico per ottenere un successo di prestigio entro la
fine dell’anno. In caso di accordo territoriale bisognava essere pronti
ad evacuare gran parte della Dalmazia: è quanto, il 16 ottobre, fiducioso in un prossimo accordo a Parigi, Nitti comunicò a Millo. Il presidente del Consiglio chiese a Millo di rassicurare gli ambienti dalmati che il governo avrebbe garantito la massima protezione agli italiani appartenenti ai territori che sarebbero stati evacuati: oltre alla tutela in campo nazionale, economico e professionale che le clausole del
futuro trattato avrebbero assicurato ai nostri connazionali, «ogni facilitazione sarà dal Governo accordata a quelli che specie se compromessi politicamente vorranno trasferire proprio domicilio entro confini vecchi e nuovi Regno»98. Millo era ostile ad ogni ritiro affrettato
dalla Dalmazia, ritenendo che, protraendo l’occupazione, la posizione italiana si sarebbe rafforzata politicamente a causa dell’aggravarsi
del conflitto nazionale croato-serbo nello Stato iugoslavo. Le rivolte
anti-governative scoppiate in Bosnia e nella Dalmazia centro-meridionale a partire dal maggio 1919 a causa del malgoverno serbo e del
rifiuto di molti croati di prestare il servizio militare obbligatorio in
Macedonia e in Kosovo99, erano indubbiamente segnali di forte malcontento in Iugoslavia. Molti dalmati croati e cattolici sia nella
Dalmazia occupata che in quella iugoslava, a parere del governatore,
cominciavano a preferire di essere parte di uno Stato libero dalmatico o annessi all’Italia piuttosto che finire sotto il dominio serbo100.
L’ostilità ad ogni abbandono e ritiro affrettato dalla Dalmazia spiega98 AM, archivio di base, c. 1445, Nitti a Millo, 16 ottobre 1919, riprodotto in Millo a
Nitti, 20 ottobre 1919: questo documento è stato pubblicato in DI GIAMBERARDINO, op. cit.,
pp. 134-137.
99 AM, archivio di base, c. 1765, Millo a Ufficio del capo di stato maggiore della Marina,
10 maggio 1919.
100 ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Millo a Gabinetto del ministro della Marina, 15 settembre 1919; AM, archivio di base, c. 1765, Millo al Gabinetto del ministro della Marina, 28 dicembre 1919.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
157
va il sostegno economico e finanziario che Millo forniva a D’Annunzio a Fiume. A Nitti, che gli chiese di preparare il futuro ritiro italiano dalla Dalmazia destinata agli iugoslavi, il governatore rispose indicando numerose difficoltà che, a suo avviso, rischiavano di rendere
assai ardua ogni affrettata evacuazione. Se nella parte interna del territorio dalmata lo sgombero avrebbe potuto essere realizzato in modo
disciplinato, diverso era il caso sulla costa.
Avvicinandosi alla costa, e più particolarmente a Sebenico, le probabilità
di uno sgombero ordinato e calmo diminuiscono sensibilmente, perché la popolazione italiana di tale porto si attacca fino d’ora disperatamente ai nostri
soldati e marinai per non essere abbandonati. Non parlo di Zara perché se,
per disgraziati eventi, l’ordine di sgombero dovesse comprendere anche Zara
prevedo sangue, atti di disperazione e distruzione, i quali atti non escludo,
però, possano avvenire anche a Sebenico dove, so, si parla da tempo di far
saltare, alla nostra partenza, per opera dei nostri connazionali stessi, i maggiori edifizii italiani perché non siano invasi o contaminati dagli Jugoslavi;
o meglio dai Serbi qui odiati e chiamati «le capre»101.
Vi era, poi, il rischio che, in caso di sgombero italiano, arrivassero gruppi di volontari fiumani in Dalmazia.
A parte le complicazioni internazionali cui la spedizione di tale genere
darebbe luogo, essa avrebbe certamente molto eco nell’animo delle nostre forze regolari di terra e di mare sgomberanti; sicché, in tale eventualità, le mie
previsioni divengono cattive; e sento che allora la disciplina ed il dominio dei
dipendenti ci sfuggirebbe con grave, incommensurabile danno della compagine già così provata dalle notizie di Fiume102.
Di fronte a tali prospettive, a parere di Millo la cosa migliore da
fare era «di soprassedere subito allo sgombero, rimandandolo ad altro tempo»103.
Il dissenso di Millo, il cui parere rifletteva le opinioni di molti ufficiali della Marina italiana, con il governo di Roma era talmente lampante ed evidente da provocare in Nitti una forte irritazione. Il 24 ottobre il presidente del Consiglio inviò a Millo un telegramma nel quale lo accusò velatamente di ostacolare l’azione del governo e di su101
Millo a Nitti, 20 ottobre 1919, cit.
Ibidem.
103 Ibidem.
102
158
LUCIANO MONZALI
scitare complicazioni che rendevano difficile la difesa degli interessi
nazionali. A questo telegramma il governatore rispose chiedendo di essere richiamato dalla Dalmazia, domanda che fu rifiutata dal governo104. Per cercare di superare lo scontro politico fra lui e il governo,
alla fine di ottobre Millo inviò a Roma un suo stretto collaboratore, il
capitano di vascello Umberto Bucci, suo capo di stato maggiore a Zara,
al fine di conferire con il presidente del Consiglio. Il 30 ottobre Bucci
telegrafò a Millo di aver parlato con Nitti e di aver convinto il governo della bontà delle tesi del governatorato circa l’esigenza di ritardare il ritiro dalla Dalmazia.
Sgombero meno Zara sarà effettuato solo quando questione Fiume sarà
completamente risolta105.
Che il governo avesse concesso una certa libertà d’azione a Millo
nei contatti con D’Annunzio, lasciandolo proseguire nella sua politica di collaborazione con i volontari fiumani, traspare chiaramente dal
biglietto del ministro della Marina, Sechi, che Bucci portò al governatore della Dalmazia il 4 novembre. Il biglietto confermava confidenzialmente che «il R. Governo trova opportuna l’idea di inquadrare la gente (volontari o regolari) che eventualmente sbarcasse sulle coste dalmate nei limiti della nostra occupazione; e lascia a S.E. il
Governatore di provvedere al riguardo come meglio giudicherà»106.
Gli stretti rapporti fra il governatorato della Dalmazia e D’Annunzio furono dimostrati dalla visita che uno dei consiglieri politici
del poeta abruzzese, il nazionalista veneto Giovanni Giuriati, compì a
Zara a fine ottobre. Il 29 ottobre Giuriati giunse a Zara. Compito di
Giuriati era appurare se fosse vero che il governo di Roma si apprestava ad abbandonare la Dalmazia occupata e conoscere quale sarebbe stato in tal caso l’atteggiamento di Millo, delle truppe e dei dalmati italiani107. Millo smentì la veridicità delle notizie su prossime operazioni di sgombero e ribadì che egli stava cercando di convincere il
governo della necessità di rimanere in Dalmazia. Il governatore dichiarò di essere convinto che preservando i territori occupati alla fi-
104 La corrispondenza fra Millo e Nitti relativa a questo scontro è pubblicata in DI
GIAMBERARDINO, op. cit., pp. 138-139.
105 AM, archivio di base, c. 1765, Bucci a Millo, 30 ottobre 1919.
106 Il testo del messaggio di Sechi è edito in DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 140.
107 GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., pp. 69-70.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
159
ne l’Italia avrebbe prevalso sul Regno SHS, entità politica fragile e debole.
Se non commetteremo debolezze, la Jugoslavia sarà costretta a cedere. La
Jugoslavia è una costruzione politica sbagliata: è un castello di carte. Se noi
sapremo soffiare, crollerà108.
In caso di futuro sgombero della Dalmazia occupata Giuriati e
Millo concordarono sull’opportunità di organizzare una spedizione di
volontari dannunziani per occupare Sebenico ed impedire l’arrivo delle truppe serbe. Il governatore promise di avvertire segretamente i volontari dannunziani nell’eventualità che il governo decidesse il ritiro
delle truppe in modo da consentire a D’Annunzio di organizzare la
propria spedizione in tutta calma109. Nonostante le rassicurazioni di
Millo, negli ambienti dannunziani continuarono a circolare voci circa
un prossimo ritiro delle truppe italiane. Irritato dalle tergiversazioni
del governo (in continuo contatto con i volontari fiumani ma non desideroso, come richiesto dai dannunziani, di sfidare apertamente gli
alleati procedendo all’annessione di Fiume e della Dalmazia occupata)110, D’Annunzio decise che era necessario organizzare una spedizione in Dalmazia. Secondo il poeta, un’azione immediata «ormai si
imponeva, senza di che la occupazione di Fiume, lungi dal costituire
un incitamento per il Governo, sarebbe diventata per il Governo una
comoda giustificazione della rinuncia alla Dalmazia. Bisognava perciò dimostrare che Fiume e la Dalmazia costituivano per noi i due
aspetti di un unico problema»111. D’Annunzio stabilì di recarsi a Zara.
Partito a bordo della nave Nullo alla mezzanotte del 13 novembre, il
poeta e 800 suoi seguaci giunsero a Zara il 14, accolti dalle acclamazioni della popolazione zaratina112. L’andamento tranquillo ed ami-
108
GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., p. 70.
GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., pp. 71-72. Il resoconto del colloquio con
Giuriati che Millo, tacendo su certi argomenti discussi, inviò al Ministero della Marina è stato pubblicato in DI GIAMBERARDINO, op. cit., pp. 141-143.
110 Sui contatti fra alcuni esponenti del governo italiano e i collaboratori di D’Annunzio:
FV, ARC GEN FIU, fasc. Giovanni Giuriati, Giuriati a D’Annunzio, 23 e 24 novembre 1919;
ivi, fasc. Giovanni Host Venturi, Host Venturi a D’Annunzio, 15 giugno 1920; MASSIMO BUCARELLI, «Delenda Jugoslavia». D’Annunzio, Sforza e gli “intrighi balcanici” del ’19-20, «Nuova
Storia Contemporanea», 2002, n. 6, pp. 19-34; FRANCESCO CACCAMO, Il sostegno italiano all’indipendentismo croato 1918-1920, «Nuova Storia Contemporanea», 2004, n. 6, pp. 23-56.
111 GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., pp. 74-75.
112 Per una descrizione della spedizione di Zara: GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit.,
109
160
LUCIANO MONZALI
chevole dei colloqui fra Millo e D’Annunzio confermò la sostanziale
concordia di obiettivi fra i due. In una comunicazione al ministro della Marina e al presidente del Consiglio, così il governatore riferì il contenuto delle sue conversazioni con il poeta:
D’Annunzio mi disse che la situazione politica, mutatasi negli ultimi giorni, gli aveva imposto di venire in Dalmazia coi suoi volontari per affermare
il diritto d’Italia su questa terra e mi chiedeva di sbarcare subito le sue truppe. Gli esposi la situazione in Dalmazia ed egli mi assicurò del mantenimento
dell’ordine. Gli chiesi se le sue truppe erano disposte a mettersi alla completa
mia dipendenza in Dalmazia ed egli mi rispose di sì alla condizione che io
garantissi che non sarebbe in alcun modo avvenuto lo sgombero del territorio ed isole del trattato di Londra. Ho ben ponderato la mia risposta tenendo
presente la situazione sotto i suoi aspetti e l’ho assicurato colla mia parola
d’onore che la Dalmazia occupata non sarebbe stata sgomberata. Ho con ciò
interpretato tutto il mio sentimento di soldato e marinaio d’Italia: se per mia
disgrazia non lo avessi fatto, oggi la Dalmazia affidata al mio governo sarebbe in fiamme, mentre l’ordine vi regna completo113.
Millo prese accordi con D’Annunzio per l’organizzazione delle
truppe (una compagnia di arditi, una di bersaglieri, una di fanti) che
il poeta intendeva lasciare a Zara ed ottenne la promessa che i legionari non avrebbero intrapreso azioni dimostrative contro Spalato.
D’Annunzio e Millo arringarono insieme la folla riunitasi in piazza,
e lo stato d’animo d’entusiasmo diffuso fra i militari e la popolazione convinsero definitivamente il governatore che il giuramento circa
il futuro della Dalmazia era stato una «impellente necessità»114. La
mattina del 15 novembre D’Annunzio partì per Fiume lasciando a Zara
un reparto di legionari dannunziani quale segno della volontà di mantenere ad ogni costo il controllo della Dalmazia. Nelle settimane successive vennero create anche delle milizie volontarie dalmate di tendenza dannunziana115. Nitti reagì con grande irritazione alla notizia
p. 75 e ss.; VALLERY, CALBIANI, op. cit., p. 56 e ss.; GERMANO PALCICH PAOLI, Lo sbarco di
D’Annunzio a Zara (14 novembre 1919) in un rapporto “riservatissimo” dell’Amm. Millo,
«La Rivista Dalmatica», 1982, n. 1, p. 7 e ss.; DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 144 e ss.;
TACCONI, L’impresa dannunziana in Dalmazia, cit.
113 AM, archivio di base, c. 1445, Millo a presidenza del Consiglio, Gabinetto e Stato
maggiore della Marina, Comando supremo, 15 novembre 1919. Questo documento è riprodotto in DI GIAMBERARDINO, op. cit., pp. 146-151.
114 Ibidem.
115 GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., p. 81 e ss.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
161
della spedizione dannunziana a Zara, avvenuta alla vigilia delle elezioni
politiche nazionali. Il presidente del Consigliò si lamentò con Millo per
le dichiarazioni circa il futuro assetto politico della Dalmazia fatte senza alcuna autorizzazione. Nel corso dei negoziati a Parigi il governo
era stato costretto a rinunciare al possesso della Dalmazia (eccetto Zara
e alcune isole) per avere il sostegno di Francia e Gran Bretagna.
Pertanto V. E. impegnandosi a non sgomberare la Dalmazia del patto di
Londra ha preso un impegno che nessun Governo italiano sarà in grado di
mantenere se non mettendosi in aperto contrasto cogli alleati. Sollevare in questo momento la questione della Dalmazia non può avere altre conseguenze
che quelle di rendere poco amichevoli Francia ed Inghilterra nel momento in
cui ci stanno appoggiando e dare nuovo motivo agli Stati Uniti per persistere nel rifiuto alle nostre domande per Fiume […]116.
Ma, al di là della ramanzina, Nitti non prese alcun provvedimento
contro Millo. Di fatto la strategia del dialogo e della collaborazione
segreta con D’Annunzio e i suoi uomini perseguita dal governatore
della Dalmazia era accettata dalle alte autorità militari e politiche dello Stato, da Badoglio a Tittoni e Sforza117, e Nitti non aveva la forza
necessaria per contrastarla efficacemente poiché essa rispondeva ad
alcune reali esigenze della politica italiana: conservare il controllo di
Fiume e di parte della Dalmazia fino alla conclusione di un accordo
territoriale soddisfacente ed evitare lo scoppio di una guerra civile fra
dannunziani e forze leali al governo italiano.
La spedizione dannunziana a Zara creò entusiasmo, agitazione e
fibrillazione fra gli italiani di Dalmazia. Ercolano Salvi esaltò l’atto
di D’Annunzio ritenendolo fondamentale per la redenzione della Dalmazia.
Ella ha deluso i mercanti, – scrisse il politico spalatino a D’Annunzio il
16 novembre – […] ha reso vana la capitolazione che ci avrebbe sagrificato
per sempre. Comandante, Ella ha salva la mia povera patria dal periglio esterno, e nell’attimo estremo118.
116 AM, archivio di base, c. 1445, Nitti a Millo, 15 novembre 1919, riprodotto in ALATRI,
Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 314-315.
117 BUCARELLI, «Delenda Jugoslavia». D’Annunzio, Sforza e gli “intrighi balcanici” del
‘19-20, cit., pp. 19-34; CACCAMO, Il sostegno italiano all’indipendentismo croato 1918-1920,
cit., pp. 23-56.
118 FV, ARC GEN FIU, fasc. Ercolano Salvi, Salvi a D’Annunzio, 16 novembre 1919.
162
LUCIANO MONZALI
Fra la fine di novembre e l’inizio di dicembre i capi italiani di
Sebenico, Pini, Miagostovich, Cace, temendo una prossima ritirata dell’esercito italiano da Sebenico in caso di accordo territoriale a Parigi,
pensarono di chiedere l’intervento di D’Annunzio. Il 27 novembre
1919 Pini e Cace inviarono a nome degli italiani di Sebenico un appello al Comandante con l’invito a «venire assieme a’ suoi volontari
nella città di Tommaseo»119. Proprio in quei giorni alcuni rappresentanti italiani di Sebenico, capitanati dall’avvocato Miagostovich, si recarono a Fiume: loro obiettivo era convincere D’Annunzio a compiere una nuova spedizione in Dalmazia, questa volta mirante all’occupazione permanente di Sebenico o di Spalato120. Il 29 novembre
Miagostovich presentò un memoriale sulla questione. Secondo l’avvocato sebenzano, molte erano le ragioni politiche e militari che consigliavano una spedizione dei legionari fiumani a Sebenico:
Politiche, per rinfrancare la fede dei deboli senza colpa, per togliere agli
avversari ogni speranza di vittoria; per dare forma visibile a quel fatto compiuto che, pur compreso dagli intelligenti avversari, si mentisce al popolo semplice, in massima parte pur tanto desideroso di avvicinarsi a noi; per togliere
così ai nemici l’arma più potente, quella delle minacciate rappresaglie nel giorno del temuto abbandono; ché, tale arme togliendo, può ben sperarsi di avere
un quasi unanime consentimento della popolazione. […] Ragioni militari, perché verrebbe sanato un ambiente in parte corrotto, ridata forza agli uomini di
fede rinfocolandone il già ardente entusiasmo e perché al fante semplice e buono si presenterebbero chiari la visione ed il significato del grande avvenimento,
con malvagia oggi sottaciuto o, peggio ancora, mentito e svalutato121.
Millo fu ostile e critico verso le iniziative di Miagostovich, in quanto consapevole dei rischi che una spedizione dannunziana provocasse
un conflitto armato con l’esercito iugoslavo. Il 26 novembre il governatore scrisse a D’Annunzio per convincerlo a non prendere nessuna
iniziativa: «Noi abbiamo buone speranze di riuscita se rimaniamo dove siamo. Oggi ci conviene assolutamente non accada nulla»122. Millo
119 FV, ARC GEN FIU, fasc. Italiani di Sebenico, Luigi Pini, Doimo Cace, Ester Lorenzini, Vince Lobasso a D’Annunzio, 27 novembre 1919.
120 FV, ARC GEN FIU, fasc. Giovanni Miagostovich, Miagostovich a D’Annunzio, 3 dicembre 1919; DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 233.
121 FV, ARC GEN FIU, fasc. Miagostovich, Miagostovich a D’Annunzio, 29 novembre
1919.
122 Millo a D’Annunzio, 26 novembre 1919, pubblicato in DI GIAMBERARDINO, op. cit.,
p. 233.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
163
sapeva che Miagostovich era venuto a Fiume per ottenere che le truppe dannunziane andassero a Sebenico, ma l’avvocato sebenzano, a parere del governatore, non si rendeva conto «della situazione generale
e non pensa che a se stesso. Del mio pensiero sono anche i migliori
Dalmati che sono a Roma»123. Il giorno successivo, in un’altra lettera, Millo rincarò la dose contro Miagostovich, «preso da desiderio di
emergere e di fare a modo suo, contro il parere di chi, come me, vede la questione non sotto l’aspetto di Sebenico solo, ma di tutta la
Dalmazia»124. Fare una spedizione a Sebenico era cosa alquanto pericolosa che Millo sconsigliava amichevolmente a D’Annunzio.
A Sebenico sono sempre arcigni assai gli slavi, ma è caratteristica della
città; perciò ti pregherei di non prendere impegni precisi per tale località nei
riguardi di una tua visita125.
Di fatto, D’Annunzio seguì i consigli di Millo e per vari mesi non
organizzò più alcuna spedizione per la Dalmazia. La ragione per cui
il governatore sconsigliò nuove spedizioni in Dalmazia era la consapevolezza dei rischi che l’arrivo di D’Annunzio comportava, ovvero
un conflitto armato con parte delle popolazioni locali o con le forze
armate serbe, il che avrebbe potuto provocare una vera e propria guerra. In effetti nell’autunno 1919, a causa delle spedizioni a Fiume, Traù
e Zara, i rapporti italo-iugoslavi avevano raggiunto livelli di altissima
tensione, che lasciavano presagire la possibilità di una guerra. Che tale eventualità non fosse remota lo testimonia il fatto che il Comando
supremo italiano cominciò a preparare piani militari di difesa in caso
di conflitto con il Regno SHS126. In una comunicazione del 2 ottobre
il Comando supremo notò che l’azione di D’Annunzio a Fiume e l’incidente di Traù rendevano necessario pensare all’eventualità di un conflitto bellico contro lo Stato iugoslavo. Il governo italiano non aveva
velleità offensive: «Ogni azione nostra è subordinata a palese, sicura,
decisa offesa che contro le nostre truppe sia effettuata da reparti
S.H.S.»127. In caso di guerra il fronte offensivo principale sarebbe sta123
Ibidem.
Millo a D’Annunzio, 27 novembre 1919, pubblicato in DI GIAMBERARDINO, op. cit.,
pp. 233-234.
125 Ibidem.
126 Al riguardo: LONGO, op. cit., I, p. 382 e ss.
127 AM, archivio di base, c. 1415, Diaz al capo di stato maggiore della Marina, 2 ottobre 1919.
124
164
LUCIANO MONZALI
to quello giuliano, con l’obiettivo di colpire i principali centri strategici e ferroviari in Croazia (Ogulin, Zagabria, Karlovac e Varaz#din).
In Dalmazia, a causa della vastità del territorio occupato e dell’esiguità
delle truppe colà presenti, bisognava tenere un contegno difensivo.
Ove le forze nemiche siano sovverchianti le nostre truppe dovranno essere ripiegate in successive posizioni difensive sino a ridursi all’ultimo alla
difesa di Sebenico e di Zara, costituendo teste d’imbarco che possano permettere il carico delle truppe sulle navi anche sotto il tiro del nemico128.
Millo cominciò a preparare piani per la difesa della Dalmazia occupata, tutti impostati, in caso di attacco iugoslavo, sull’idea di un’eventuale ritirata verso le due teste d’imbarco di Zara e Sebenico. Da
questi piani sappiamo che alla metà di ottobre l’esercito italiano aveva in Dalmazia 650 ufficiali e 16.000 soldati129.
2.4. Tommaso Tittoni, i dalmati italiani e i negoziati adriatici
nell’autunno 1919
Sotto la pressione di un’opinione pubblica sempre più impaziente, alla ricerca di un successo diplomatico da poter usare sul piano interno
in previsione delle elezioni parlamentari di metà novembre, nel corso
dell’autunno il governo Nitti s’impegnò strenuamente per giungere alla chiusura del contenzioso adriatico. Tittoni puntò a trovare un’intesa diretta con gli Stati Uniti, cercando di sfruttare l’occupazione di
Fiume da parte di D’Annunzio e i suoi seguaci, avvenuta il 12 settembre: l’idea era di chiedere la separazione di Fiume dal resto del futuro Stato autonomo, e di garantire alla città la contiguità territoriale
con l’Italia130. Il 27 settembre Tittoni fece un lungo discorso alla Camera nel quale espose la situazione dei negoziati sulla questione adriatica e spiegò le intenzioni del governo al riguardo. Il ministro degli
Esteri, innanzitutto, enunciò i princìpi che avevano ispirato l’azione
dell’esecutivo. Qualunque compromesso per l’Adriatico doveva ave-
128
Ibidem.
129 AM, archivio di base, c. 1415, Specchio riassuntivo della forza presente in Dalmazia
e dei materiali più importanti (dati approssimativi ed arrotondati), allegato a Millo a capo
di stato maggiore della Marina, 11 ottobre 1919.
130 MICHELETTA, op. cit., I, p. 75 e ss.; LEDERER, op. cit., p. 292 e ss.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
165
re le seguenti basi fondamentali: «che nessuna terra o città in maggioranza italiana fosse assoggettata a dominio straniero; che dovunque esistessero minoranze italiane queste fossero efficacemente tutelate nella loro esistenza nazionale; che fossero garantiti i nostri interessi economici; che fosse validamente provveduto alla nostra sicurezza nelle frontiere di terraferma e nel mare Adriatico e non nel
Quarnero soltanto, ma dal Quarnero al Canale d’Otranto»131.
Tittoni spiegò che, sulla base di questi princìpi e tenendo conto delle posizioni degli alleati, il governo aveva presentato un progetto di
accordo adriatico che prevedeva in Venezia Giulia la concessione al
Regno SHS del distretto di Volosca e di parte di quelli di Castelnuovo,
Postumia/Adelsberg e Idria. Circa Fiume vi erano due possibilità: o la
sovranità italiana o la creazione di uno Stato indipendente fiumano sotto la garanzia della Società delle Nazioni e con la tutela della sua italianità. Riguardo all’assetto territoriale dalmata, Tittoni dichiarò ai deputati:
La Dalmazia, tranne Zara e poche isole, avrebbe dovuto essere assegnata alla Jugo-Slavia con efficaci garanzie per la minoranza italiana e per gli
interessi economici italiani. In ambo i casi tutto il Quarnero, e tutta la costa
della Dalmazia fino a Cattaro incluso avrebbe dovuto essere neutralizzata con
formole rigorose132.
Il discorso, che era una chiara dichiarazione di rinuncia alla Dalmazia prevista dal patto di Londra, e in particolare a Sebenico, mise
in agitazione gli ambienti dalmati. Il 28 settembre, con un clamoroso
gesto d’opposizione, i più eminenti capi politici dalmati italiani
(Ghiglianovich, Krekich, Lubin, Pini, Salvi, Smerchinich e Ziliotto)
decisero di preparare un messaggio di protesta contro il discorso di
Tittoni alla Camera, che fu divulgato e pubblicato dalla stampa. I dalmati italiani contestarono il contenuto del possibile compromesso territoriale adriatico anticipato da Tittoni al Parlamento, che sacrificava
la Dalmazia eccetto Zara. A loro parere, l’abbandono della Dalmazia,
salva pur Zara, era «una abdicazione sciagurata del diritto italiano» e
comprometteva il presente e l’avvenire dell’Italia nell’Adriatico, costringendola a rinunciare alla supremazia in quel mare133. Nei giorni
131 Testo del discorso in TOMMASO TITTONI, VITTORIO SCIALOJA, L’Italia alla Conferenza
della Pace. Discorsi e documenti, Roma, 1921, p. 9 e ss., citazione p. 19.
132 Ivi, p. 20.
133 Il testo del messaggio di Ghiglianovich, Krekich, Lubin, Pini, Salvi, Smerchinich e
166
LUCIANO MONZALI
successivi il governo cercò di tranquillizzare e rassicurare i dalmati italiani. Riguardo a Zara, Tittoni ebbe un colloquio con Ghiglianovich a
Roma il 12 ottobre 1919. Il ministro degli Esteri fu molto vago, dichiarando che la situazione internazionale imponeva un programma
di rinunce in Dalmazia e che per Zara avrebbe cercato di ottenere la
migliore soluzione possibile. Gli italiani di Dalmazia non dovevano
avere paura dell’arrivo delle truppe iugoslave: «Si poteva essere sicuri – Tittoni dichiarò a Ghiglianovich – che l’abbandono delle nostre
truppe e la consegna delle nostre terre al nuovo governo sarebbero seguite in modo da escludere ogni possibilità di violenze a danno nostro»134.
Il politico dalmata uscì pessimista dall’incontro.
Ho ritratto […] l’impressione di una fiacchezza di propositi anche per la
soluzione del problema di Zara. E sono persuaso che, pur di conseguire dei
miglioramenti nella formula «cuscinale» di Fiume, si sarebbe disposti di sagrificare anche Zara. […] È ormai inutile illudersi. Se non alla consegna anche di Zara alla Jugoslavia, dobbiamo prepararci, e Dio sa in che modo e forme!, alla sua costituzione in Stato libero o in città libera135.
In una lettera del 21 ottobre 1919 inviata ad un alto ufficiale della Marina italiana136, Ghiglianovich rilevò che chiedere la semplice annessione della città era una formula superficiale e riduttiva, poiché impediva di domandare l’annessione dei territori del Capitanato distrettuale di Zara o quelli del suo distretto giudiziario, o perfino i territori del comune di Zara, più vasti del semplice centro urbano. Secondo
il deputato zaratino, nei negoziati con gli alleati «si deve chiedere l’annessione di Zara e dei territori e isole costituenti il suo Capitanato distrettuale»137. In realtà, il progetto di accordo che il governo italiano
presentò alla diplomazia americana il 15 ottobre confermava che a
Roma si era ormai pronti a rinunciare all’annessione di Zara. Il progetto prevedeva la costituzione di uno Stato libero di Zara, sotto la protezione della Società delle Nazioni e con la rappresentanza diplomatica riservata all’Italia, e l’annessione italiana delle isole di Lagosta,
Ziliotto, datato 28 settembre 1919, è pubblicato in «L’Idea Nazionale», La protesta dei deputati dalmati contro le rinuncie adriatiche, 29 settembre 1919.
134 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 12 ottobre 1919.
135 Ibidem.
136 AM, archivio di base, c. 3138, Ghiglianovich ad anonimo, 21 ottobre 1919.
137 Ibidem.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
167
Unie, Lissa, Pelagosa e Lussino138. L’atteggiamento di Ghiglianovich
e Ziliotto di fronte ai progetti governativi rimase alquanto negativo e
critico. In quelle settimane tale era il pessimismo che i politici zaratini cominciarono a considerare possibile l’eventualità di un passaggio di tutta la Dalmazia allo Stato iugoslavo. Con questa prospettiva
i capi liberalnazionali ritennero opportuno provare a sviluppare contatti con alcuni esponenti dalmati iugoslavi. Fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre Krekich incontrò Josip Smodlaka, già deputato alla Dieta provinciale dalmata nell’età asburgica e ritenuto uno dei nazionalisti croato-iugoslavi più disponibili a considerare un accordo con
i dalmati italiani. L’incontro non produsse risultati, stante la lontananza
delle reciproche posizioni, ma era indicativo della flessibilità politica
dei liberali nazionali italiani e del loro pessimismo circa le future prospettive di annessione all’Italia in quei mesi 139. Altra iniziativa dei dalmati liberali nazionali fu d’ampliare i contatti politici in Italia.
Tradizionalmente i dalmati italiani avevano avuto come riferimento politico nella Penisola lo schieramento liberale nelle sue varie tendenze
(progressisti, massoni, conservatori, ecc.) e alcuni settori del nazionalismo. Constatando la crisi dei gruppi liberali e la crescita di nuove forze politiche come i socialisti e i popolari, Ghiglianovich decise
di migliorare i rapporti con questi partiti, in particolare con il Partito
Popolare Italiano. Nel corso di ottobre ebbe colloqui e contatti con il
senatore Santucci, importante esponente popolare, al quale inviò un
promemoria che presentava le rivendicazioni degli italiani di Zara.
Ghiglianovich ribadì che era importante per l’Italia fare tutti gli sforzi per ottenere l’annessione di Zara e dei territori e delle isole costituenti il suo capitanato distrettuale.
Il Capitanato Distrettuale di Zara, col suo centro di Zara, italianamente
compatto, potrebbe quindi esercitare, se in possesso dell’Italia, un’alta influenza, non solo nazionale, ma economica e politica sul resto della Dalmazia,
per ora sacrificata alla Jugoslavia. Questa parte di Dalmazia, oggi immolata,
e terrorizzata da non più di 200 politicanti jugoslavi, soltanto coll’esempio
di civiltà, di pacificazione nazionale della contigua parte di Dalmazia italiana, potrebbe assumere assai presto un atteggiamento politico separatista dalla Jugoslavia, che l’Italia potrebbe sfruttare e trasformare, con una politica
138
ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 256-257; DBFP, I, 4, d. 78.
Alcuni accenni a questi contatti fra Krekich, Ziliotto e Smodlaka in: BS, Carte
Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 1° novembre 1919.
139
168
LUCIANO MONZALI
saggia ed abile, in un non lontano movimento annessionista verso l’Italia140.
A parere del politico dalmata, né il mandato internazionale né la
creazione della città libera a Zara erano progetti favorevoli all’Italia.
La forma del mandato e ancor più quella della città libera, dovrebbero venir escluse, poiché il semplice mandato non conferirebbe all’Italia i diritti che
le deriverebbero dalla sovranità e perché Zara, città libera, diverrebbe un centro di penetrazione slava che finirebbe ben presto coll’alterare il suo carattere nazionale italiano, che l’Italia, non avendo in tal caso nessun speciale diritto su Zara, non potrebbe arginare141.
Nonostante le speranze italiane, la risposta americana alle proposte di Tittoni fu ancora una volta negativa. Il 27 ottobre il delegato alla conferenza di Parigi, Polk, comunicò a Tittoni la contrarietà di
Wilson alle proposte italiane. Gli americani erano ostili ad un’eccessiva autonomia della città di Fiume in seno al futuro Stato libero e alla contiguità territoriale fra l’Italia e la città del Quarnero. Circa Zara
il governo americano confermava la sua opposizione all’annessione
italiana: era disponibile ad accettare la costituzione di una città libera sotto la protezione della Società delle Nazioni, senza rappresentanza
diplomatica riservata all’Italia ma in stretti rapporti con lo Stato iugoslavo; le isole dalmate di Pelagosa, Lissa, Lussino e Unie sarebbero state annesse dal governo di Roma, con la concessione di autonomia locale per le popolazioni croate di Lissa142. La reazione italiana
alla risposta americana fu di grande delusione e irritazione. Gli ambienti militari italiani, in particolare, ritenevano le proposte americane inaccettabili. In un appunto del 2 novembre il brigadiere generale
Cavallero constatò che il confine proposto in Venezia Giulia era militarmente inaccettabile; inoltre le proposte americane avrebbero portato alla completa iugoslavizzazione della Dalmazia.
Tutta la Dalmazia è data in piena sovranità alla Jugoslavia. La formola
proposta per l’autonomia di Zara dimostra il proposito evidente di raggiungere al più presto la slavizzazione di questa città. A slavizzare gli altri centri
140
BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Ghiglianovich a Santucci, 20 ottobre 1919.
Ibidem.
142 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 294-295; ASMAE, ACP, b. 113, Memorandum,
27 ottobre 1919, allegato a Polk a Tittoni, 27 ottobre 1919.
141
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
169
italiani della costa dalmata penseranno in tal caso gli Jugoslavi, tenuto conto che non si fa cenno nemmeno delle garanzie da noi richieste per le minoranze, come pure si tace delle garanzie economiche143.
Il governo italiano, pur di concludere il negoziato adriatico, era ormai rassegnato a chiedere la semplice costituzione della città libera di
Zara. Il governo britannico, che cercò di mediare fra americani e italiani, consigliò di rinunciare alla rappresentanza diplomatica di Zara144.
Vi era comunque il problema di definire con maggiore precisione i
confini del futuro Stato libero, al fine di garantire la prevalenza dell’elemento italiano al suo interno. Nitti scrisse a Tittoni di essere ostile ad uno Stato libero di Zara troppo ampio, perché ciò avrebbe messo a rischio l’italianità della città145. Il ministro degli Esteri si dichiarò
d’accordo su ciò e riferì che, per persuadere i dalmati della necessità
di limitare l’estensione dell’eventuale Stato zaratino, aveva telegrafato a Ghiglianovich per incontrarlo146. La rinuncia del governo italiano
a chiedere l’annessione di Zara provocò dure proteste fra i politici liberali zaratini147. In caso di creazione dello Stato libero Ziliotto e
Krekich minacciarono di dimettersi da ogni carica politica ed amministrativa. Essi ritenevano che, in un contesto internazionale che sembrava favorire l’Italia e indebolire Wilson, era inaccettabile ogni ipotesi diversa dall’applicazione del patto di Londra148. Ziliotto e Krekich,
quindi, rifiutarono di recarsi a Roma e di collaborare alla definizione
di una linea confinaria per l’eventuale Stato libero di Zara. La minaccia
di dimissioni fu dovuta anche al crescere delle contestazioni verso la
leadership politica di Ziliotto, Krekich e Barbieri in seno al Fascio
Nazionale Italiano di Zara, alimentate dalla componente estremista d’ispirazione dannunziana e nazionalista149. Sotto le pressioni dei suoi
amici, il 12 novembre 1919 Ghiglianovich scrisse a Carlo Sforza, sottosegretario agli Esteri, di non essere più disponibile a fornire informazioni che potessero essere usate per perseguire una politica contraria
alle aspirazioni degli italiani di Dalmazia.
143 ASMAE, ACP, b. 113, UGO CAVALLERO, Osservazioni alla risposta del Governo americano data 27 ottobre 1919.
144 MICHELETTA, op. cit., I, pp. 81-83.
145 ACS, Carte Nitti, b. 45, Nitti a Tittoni, 26 ottobre 1919.
146 ACS, Carte Nitti, b. 45, Tittoni a Nitti, 27 ottobre 1919.
147 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 9 novembre 1919.
148 BS, Carte Ghiglianovich, b. C, Ziliotto e Krekich a Ghiglianovich, 7 novembre 1919.
149 BS, Carte Ghiglianovich, b. A, Ghiglianovich a Barbieri, 9 novembre 1919.
170
LUCIANO MONZALI
Io e i miei colleghi di deputazione, e per iscritto ed a voce, abbiamo sempre sostenuto, e innanzi alla precedente Delegazione e innanzi all’attuale, che,
nei riguardi della Dalmazia, l’Italia dovesse tenacemente insistere per l’esecuzione del Trattato di Londra. E ritengo che anche oggi, oggi forse come mai,
si potrebbe e dovrebbe far ciò, e che, ogni caso, convenga non affrettare diplomaticamente la soluzione del contestato problema adriatico ma mantenere l’attuale stato di fatto anziché subire transazioni disastrose quali sarebbero l’abbandono da parte dell’Italia di tutta la Dalmazia occupata e la costituzione di Zara in città libera. […] Così essendo, V.E. e S.E. il Ministro, che
hanno così alto il senso delle responsabilità politiche, comprenderanno, senza dubbio, la assoluta mia impossibilità di entrare in qualsiasi discussione riferibile ad una costituzione di Zara in Città libera e di collaborare comunque,
anche indirettamente, ad una soluzione non corrispondente a quello che è il
nostro programma nazionale e politico e comprometterebbe irreparabilmente la questione adriatica in senso italiano, rovinerebbe definitivamente la causa dalmatica e non congiungerebbe Zara all’Italia150.
Nonostante il rifiuto dei dalmati italiani, Nitti e Tittoni presentarono una nuova proposta di accordo adriatico l’11 novembre. Essa prevedeva la costituzione di uno Stato fiumano, al cui interno sarebbe esistita una città libera di Fiume, con piena indipendenza. Per ottenere il
consenso americano a queste richieste, in Dalmazia il governo italiano si accontentava della costituzione della città libera di Zara, pienamente indipendente, con uno statuto speciale e con la possibilità di scegliere la propria rappresentanza diplomatica all’estero; si chiedeva, poi,
l’annessione delle isole di Unie/Unije, Lussino, Lissa, Pelagosa e
Lagosta, e la concessione di garanzie per gli interessi economici italiani esistenti in Dalmazia e di un’adeguata protezione per la minoranza italiana in Iugoslavia151. Proprio per proteggere la minoranza e
gli interessi economici italiani in Dalmazia il governo di Roma presentò uno specifico progetto di accordo italo-iugoslavo l’11 novembre152. I tentativi di Tittoni di risolvere la questione adriatica furono
fallimentari. Nonostante le ulteriori concessioni e rinunce dell’Italia,
il governo di Wilson mantenne una posizione intransigente. Le ri150 ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Ghiglianovich a Sforza, 12 novembre 1919. Una copia
in BS, Carte Ghiglianovich, b. A.
151 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., 305-306; DBFP, I, 4, allegati 1 e 2 al d. 121; ASMAE,
ACP, b. 113, Memorandum, 11 novembre 1919, allegato a De Martino a Tittoni, 12 novembre 1919.
152 Clauses économiques et concernant la Protection des Minorités entre l’Italie et le
Royaume des Serbes-Croates-Slovenes, 11 novembre 1919, cit.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
171
chieste italiane di completa indipendenza della città di Fiume e riguardo allo spostamento della frontiera in Istria ad est rispetto alla linea Wilson erano inaccettabili. Riguardo a Zara, Wilson chiese la sua
assoluta indipendenza, limitata solo dall’essere la città in unione doganale con lo Stato iugoslavo; il presidente era anche ostile alla concessione dell’isola di Lagosta all’Italia. Il governo americano era contrario alla concessione di privilegi economici all’Italia in Dalmazia e
riteneva che per la protezione degli italiani dalmati fosse sufficiente
quanto proposto dal trattato sulle minoranze concluso con la Iugoslavia153. L’intransigente rifiuto americano di acconsentire alle proposte italiane su Fiume e sulla Dalmazia, e ad ogni forma di compromesso territoriale non pienamente accettabile per gli iugoslavi, fece
fallire il tentativo di Tittoni di raggiungere un accordo territoriale adriatico. In non buone condizioni di salute, desiderando evitare un completo tracollo del suo prestigio personale, il politico romano decise di
dimettersi dalla carica di ministro degli Esteri alla fine di novembre.
2.5. D’Annunzio, i dalmati italiani e il progetto della Lega
delle città marine
Anche dopo la spedizione a Zara D’Annunzio continuò ad interessarsi
alla questione dalmatica. Dal novembre 1919, però, abbandonò lo strumento delle spedizioni militari e cercò di usare mezzi politici e diplomatici per raggiungere i propri obiettivi. Pure i gruppi nazionalisti romani lo sconsigliarono dall’intraprendere nuove iniziative militari in Dalmazia. Significativa a questo riguardo è la lettera che Alessandro Dudan scrisse a D’Annunzio il 23 dicembre 1919154. L’irredentista spalatino consigliò al comandante di non abbandonare Fiume per
recarsi a Zara o in altri parti della Dalmazia. Una tale iniziativa avrebbe indebolito la posizione di Millo, aggravandone i rapporti con il governo di Roma con pericolose conseguenze.
Considerato il momento presente – scrisse Dudan – della situazione in-
153 DBFP, I, 4, A. W. A LEEPER, Memorandum, 14 novembre 1919, allegato a d. 122; ibidem, AMERICAN COMMISSION TO NEGOTIATE PEACE, Comment on the Italian Statement of the
American Position, 17 novembre 1919, allegato 1 a d. 129; ibidem, AMERICAN COMMISSION TO
NEGOTIATE PEACE, Memorandum, 18 novembre 1919, allegato 2 a d. 129.
154 FV, ARC GEN FIU, fasc. Alessandro Dudan, Dudan a D’Annunzio, 23 dicembre 1919.
172
LUCIANO MONZALI
ternazionale ed interna d’Italia, io non mi sentirei di consigliare oggi un colpo di mano su parti della Dalmazia ancora irredenta155.
Unica iniziativa possibile poteva essere un’azione a Veglia e Arbe,
non garantite dalla linea d’armistizio156.
Consapevole della forte crisi interna che stava sconvolgendo lo
Stato iugoslavo, con il divampare della lotta separatistica croata guidata dal partito contadino e dai pravas#i contro l’egemonia serba,
D’Annunzio e i suoi seguaci puntarono a garantire il possesso italiano della Dalmazia favorendo la disintegrazione della Iugoslavia attraverso la ricerca di accordi con le forze anti-serbe ed anti-unitarie,
quali i nazionalisti croati, albanesi e montenegrini. In parte d’intesa
con alcuni esponenti del governo di Roma e con i capi del movimento nazionalista157, D’Annunzio e i suoi collaboratori fomentarono i
molti movimenti secessionisti che erano alimentati dal malcontento di
croati, sloveni, montenegrini, musulmani bosniaci e albanesi contro lo
strapotere serbo158. Nel corso dell’autunno 1919 alcuni esponenti dannunziani (Pettorelli Lalatta/Finzi, Giuriati) svolsero negoziati segreti
con i nazionalisti croati e sloveni al fine di raggiungere un’intesa fra
l’Italia, rappresentata dai politici e militari vicini a D’Annunzio, e le
nazionalità oppresse dai serbi. Questi negoziati proseguirono nei mesi successivi e portarono ad un progetto d’accordo: l’Italia avrebbe favorito l’indipendenza di sloveni, croati e montenegrini; in cambio il
governo di Roma avrebbe annesso l’Istria e Fiume. La controversia dalmatica sarebbe stata risolta creando uno Stato dalmata indipendente,
al cui interno sarebbe esistita una Lega delle città marine (quelle nelle quali era concentrata la maggioranza dei dalmati italiani, cioè Zara,
Sebenico, Traù, Spalato, e Ragusa), dotata di larga autonomia e con
tutele per l’elemento italiano; all’interno della Dalmazia indipendente l’Italia avrebbe avuto il diritto di disporre di basi navali. Questo pro-
155
Ibidem.
Ibidem.
157 Sulle simpatie del movimento nazionalista verso il separatismo croato e montenegrino:
«L’Idea Nazionale», 22 febbraio 1920, CORRADO ZOLI, Per una Repubblica croata. Intervista
a Frank capo del partito del Diritto; ivi, 13 giugno 1920, ATTILIO TAMARO, Una tomba della libertà nei Balcani. L’Affare del Montenegro; CACCAMO, Il sostegno italiano all’indipendentismo croato 1918-1920, cit., pp. 23-56.
158 BUCARELLI, «Delenda Jugoslavia». D’Annunzio, Sforza e gli “intrighi balcanici” del
’19-20, cit., pp. 19-34; ID., La Jugoslavia nella politica estera di Mussolini (1924-1937),
Roma, 2004, pp. 139-140; CACCAMO, Il sostegno italiano all’indipendentismo croato 19181920, cit., p. 23 e ss.; GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., p. 137 e ss.
156
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
173
getto di accordo con i separatisti croati e montenegrini entusiasmò
D’Annunzio e Millo159, ma irritò molti dalmati italiani. Dalla scarsa
documentazione disponibile sappiamo che negli ultimi mesi del 1919
e all’inizio del 1920 all’interno della vecchia classe dirigente liberale-nazionale risorse la spaccatura fra gli zaratini e gli altri dalmati italiani160. I capi del Fascio Nazionale di Sebenico, Miagostovich, Pini e
Nicoletti, ormai consapevoli delle scarse possibilità per la loro città
di essere annessa all’Italia, speravano che il movimento dannunziano
potesse salvarli dal dominio iugoslavo. Senza molte altre alternative,
insieme ai capi italiani spalatini diedero il loro consenso al progetto
di una repubblica dalmatica che comprendesse al proprio interno la
Lega delle città marine, con forte autonomia e grande tutela per l’elemento italiano161. Fra gli italiani di Zara che facevano riferimento a
Ziliotto e Krekich, invece, questo progetto suscitò forte irritazione, perché minacciava di inserire la loro città in uno Stato a forte maggioranza serbo-croata e dal futuro alquanto incerto. Nei primi mesi del
1920 i liberali nazionali zaratini continuarono a chiedere l’applicazione
del patto di Londra; se ciò non fosse stato possibile erano favorevoli
all’annessione di Zara all’Italia. Uno dei pochi documenti disponibili sull’atteggiamento dei liberalnazionali zaratini e dalmati verso il progetto della Lega delle città marine è il promemoria che Ziliotto consegnò a Giovanni Giuriati il 23 febbraio 1920, al termine di una lunga assemblea fra i rappresentanti dei Fasci Nazionali Italiani tenutasi
a Zara per discutere sul progetto dannunziano di creazione di uno Stato
dalmata indipendente. Giuriati fu presente ai lavori dell’assemblea e
giudicò la discussione al suo interno «lunga, appassionata, in alcuni
episodi drammatica». Il testo che Ziliotto consegnò al collaboratore
di D’Annunzio, espressione delle direttive politiche emerse dall’assemblea dei Fasci Nazionali era il seguente:
Nell’assemblea dei rappresentanti dei Fasci Nazionali della Dalmazia, tenuta nei giorni 22 e 23 Febbraio a Zara, avendo il signor maggiore Giuriati
esposto un progetto per la formazione di tutta la Dalmazia in Stato indipendente col consenso dei fattori croati e con la collaborazione degli Italiani della Dalmazia, da tutta la lunga ed animata discussione, seguita all’esposizio-
159
DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 233 e ss.
Circa i dissensi in seno agli italiani di Dalmazia si vedano i numerosi accenni nella
corrispondenza fra Millo e D’Annunzio: DI GIAMBERARDINO, op. cit., pp. 233, 257.
161 DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 239.
160
174
LUCIANO MONZALI
ne del sig. maggiore, emerse ad evidenza l’opinione unanime dei presenti che
la più desiderabile soluzione, date le circostanze, sarebbe l’annessione delle
terre occupate. Aperta quindi la discussione sulla soluzione prospettata dal
maggiore Giuriati, prevalse tra i rappresentanti dei Fasci Nazionali il seguente
voto:
premesso che il trattato di Londra resta sempre una base salda del nostro
diritto, che non tocca certamente a noi di infirmare, se anche possano averne in parte e transitoriamente sminuito il valore esitanze e debolezze di uomini politici incompetenti e fiacchi; premesso che dopo cent’anni di austriaco dispotismo e snaturamento del carattere etnico della Dalmazia un equilibrio riparatore a favore degli Italiani potrebbe essere instaurato soltanto col
diretto dominio d’Italia; premesso che soltanto un diretto dominio d’Italia sulle terre occupate – e non già semplici patti di garanzie destinate per lunga
esperienza ad essere eluse e nullificate – può premunire l’Italia da future insidie e sorprese nell’Adriatico; premesso che il maggiore Giuriati ha tosto nell’esordio della sua esposizione riferito che quei fattori croati avevano riconosciuto la validità ed efficacia del patto di Londra e del plebiscito di Fiume
e che soltanto nel progresso delle trattative si ebbe a prescindere da questo
riconoscimento ed a sostituire la formula della Dalmazia indipendente;
I Fasci Nazionali della Dalmazia dichiarano di aderire alla collaborazione richiesta dal comandante D’Annunzio per mezzo del maggiore Giuriati soltanto a patto che, prima di impegnare qualsiasi trattativa coi fattori croati, si
richieda ed ottenga da loro come condizione imprescindibile ed assoluta il
rinnovato esplicito riconoscimento della piena sovranità d’Italia su tutte le terre occupate della Dalmazia, nonché del diritto d’Italia di regolare in emanazione di tale sovranità la costituzione interna delle terre medesime. Tenuta ferma ed inderogabile tale condizione, i Fasci Nazionali aderiscono a trattare e
a collaborare con tutti i loro mezzi per l’ordinamento dei paesi non compresi nella zona d’occupazione e per l’avviamento di buoni rapporti tra i vari elementi nazionali che li abitano162.
Da questo ordine del giorno emergeva chiaramente che i capi zaratini avevano imposto all’assemblea il loro punto di vista critico verso i progetti dannunziani, mantenendo l’obiettivo primario dell’annessione all’Italia. Non a caso nelle sue memorie lo stesso Giuriati
notò che «quest’ordine del giorno non poteva essere considerato come un preciso successo dell’azione da me iniziata»163. Le ragioni del
dissenso di alcuni capi dalmati italiani verso le iniziative dei dannun-
162
163
GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., pp. 155-156.
Ibidem.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
175
ziani erano molteplici. Vi era diffidenza verso gli interlocutori croati
di D’Annunzio, che erano esponenti dei partiti del diritto e contadino, tradizionalmente i più forti nemici dell’elemento dalmata italiano. Mancava poi fiducia nello stesso movimento dannunziano, il cui
carattere sovversivo era estraneo alla cultura politica del liberalismo
italiano dalmata; un movimento dannunziano, poi, che a Zara si era
impiantato e sviluppato mettendo in discussione l’egemonia politica
della vecchia classe dirigente d’estrazione autonomista. Di fatto l’interlocutore privilegiato dei liberalnazionali dalmati restava lo Stato italiano, con il quale anche nei momenti di maggiore dissenso politico
non si erano mai interrotti i più stretti rapporti. Nei primi mesi del 1920
Ziliotto, Krekich e Ghiglianovich preservavano forti relazioni con il
capo dell’Ufficio per le Nuove Provincie, Francesco Salata, con esponenti della diplomazia e della Marina, ed era su queste forze ed istituzioni che essi soprattutto puntavano per garantire la salvezza politica dell’italianità dalmatica.
Nonostante il dissenso di molti dalmati italiani, in primis dei liberali zaratini, i dannunziani proseguirono nei loro negoziati con i separatisti croati e montenegrini. Alcuni ambienti governativi italiani, ad
esempio il sottosegretario agli Esteri Sforza, erano favorevoli a queste iniziative dannunziane non perché volessero realmente la disintegrazione dello Stato iugoslavo, quanto per spaventare il governo di
Belgrado e costringerlo ad accettare un compromesso territoriale favorevole all’Italia. Sotto la guida di Giuriati e di Giovanni Host-Venturi
i dannunziani conclusero con alcuni esponenti nazionalisti croati, montenegrini e albanesi due accordi segreti il 5 luglio 1920. Il primo accordo aveva come obiettivo la disintegrazione dello Stato iugoslavo e
prevedeva l’organizzazione di rivolte militari anti-serbe in Croazia,
Kosovo e Montenegro; il governo dannunziano s’impegnava a rifornire di grandi quantitativi di armamenti i ribelli164. Il secondo accordo fu concluso esclusivamente fra i rappresentanti croati (Ivica Frank
e Vladimir Sachs-Petrovic!) e il movimento dannunziano e trattava la
definizione dei confini fra i futuri Stati croato e sloveno e l’Italia165.
164 Testo del trattato generale firmato il 5 luglio 1920 tra i rappresentanti del comandante D’Annunzio e i rappresentanti delle Nazionalità oppresse dalla Serbia, edito in GIURIATI,
Con D’Annunzio e Millo, cit., pp. 221-222.
165 Testo del trattato particolare firmato a Venezia il 5 luglio 1920 tra i rappresentanti
del comandante D’Annunzio e i rappresentanti della Croazia, edito in GIURIATI, Con
D’Annunzio e Millo, cit., pp. 223-226.
176
LUCIANO MONZALI
L’accordo prevedeva il riconoscimento croato dell’appartenenza di
Fiume all’Italia, dell’esistenza di una frontiera giuliana quale quella
prevista dal patto di Londra (con qualche piccola modifica) e dell’annessione italiana delle isole di Lussino, Cherso, Unie, Arbe, Pelagosa e Lissa. Era poi sancita la creazione di una repubblica dalmata,
indipendente, neutrale e sotto la garanzia dell’Italia: questa repubblica avrebbe compreso i territori della ex Dalmazia asburgica, con l’esclusione delle Bocche di Cattaro, destinate a far parte del futuro
Montenegro indipendente. All’interno della Dalmazia indipendente si
sarebbe creata un’entità autonoma, la Lega delle città marine, composta dalle città di Zara, Sebenico, Spalato, Traù e Ragusa. L’articolo
10 del trattato regolava la futura creazione della Lega:
Le città di Zara, Sebenico, Spalato, Traù e Ragusa, perpetuamente autonome, sia nel campo politico che in quello amministrativo. Esse costituiranno tra loro una Lega, retta da un consiglio di cinque membri, nominato uno
per ogni città e presieduta da un sesto membro nominato dal Governo della
Repubblica Dalmatica. I porti delle cinque città saranno sottoposti al regime
di porto franco.
Con un plebiscito la repubblica dalmata avrebbe deciso se rimanere amministrativamente e politicamente autonoma o unirsi alla
Croazia indipendente, ma ciò non avrebbe potuto riguardare la Lega
delle cinque città. L’articolo 11 dell’accordo prevedeva il diritto dello Stato italiano di occupare militarmente le isole e alcuni punti del
territorio dalmatico, già appartenuti alla Dalmazia controllata dall’Italia sulla base del patto di Londra, ritenuti necessari a garantire la
sua sicurezza strategica. L’accordo italo-croato era abbastanza sconclusionato: appariva abbastanza improbabile pensare di unire città dalmate prive di contiguità territoriale in una Lega; era poi chiaramente
insostenibile un assetto politico in Dalmazia che separasse tutti i principali centri costieri dal loro retroterra e dalle isole circostanti. Ciò fa
supporre che da parte dannunziana non si credesse seriamente alla futura creazione di una repubblica dalmatica e di una Lega delle città
marine e si pensasse soprattutto ad alimentare la sovversione separatista anti-serba con accordi di natura propagandistica: una volta crollata la Iugoslavia, si sarebbe potuto ridiscutere l’assetto della Dalmazia
in termini più favorevoli all’Italia. L’accordo per la disintegrazione della Iugoslavia conobbe un ulteriore sviluppo ed ampliamento con un’altra convenzione firmata il 19 ottobre 1920, con la quale aderivano ai
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
177
progetti anti-serbi anche rappresentanti politici slavo-macedoni e magiari della Voivodina. Ma questi accordi non ebbero nessuna realizzazione. Nessuna rivolta anti-iugoslava ed anti-serba scoppiò fra la fine del 1920 e il 1921. Se l’insoddisfazione contro lo Stato unitario e
lo strapotere serbo era fortissima e diffusa fra croati, albanesi, montenegrini, ungheresi e macedoni, mancava a queste popolazioni la capacità politica ed organizzativa di contrastare la forza militare serba,
spesso feroce e senza scrupoli umanitari. A partire dall’estate 1920,
poi, il governo di Roma, con l’emergere di un nuovo orientamento della classe dirigente serba favorevole ad un compromesso territoriale con
l’Italia su basi moderate, abbandonò ogni sostegno ai disegni separatisti coltivati dai dannunziani e dai nazionalisti croati.
2.6. La lotta per Zara italiana
Le dimissioni di Tittoni dalla guida della Consulta e la nomina di
Vittorio Scialoja a ministro degli Esteri166 non produssero modifiche
alla linea politica seguita dal governo nella questione dalmatica. Personalmente Scialoja, liberale conservatore in buoni rapporti con gli
ambienti nazionalisti, era favorevole ad una decisa difesa delle rivendicazioni italiane in Dalmazia. Ma a partire dal dicembre 1919 le direttive e la gestione della politica estera italiana subirono sempre più
l’influenza del presidente del Consiglio. Uomo portato a vedere le relazioni internazionali in un’ottica prevalentemente economica, Nitti riteneva fondamentale la creazione di una forte collaborazione italo-britannica, mirante a favorire una rapida normalizzazione dei rapporti fra
Stati vincitori e vinti e una stabilizzazione finanziaria del continente
europeo167. Egli, poi, desiderava il rapido miglioramento dei rapporti
166 Riguardo alla figura di Scialoja: AMEDEO GIANNINI, Vittorio Scialoja, «Rivista di studi politici internazionali», 1954, pp. 688-699.
167 Sulla politica estera di Nitti dalla fine del 1919 al giugno 1920: MICHELETTA, op. cit.,
I, p. 99 e ss.; CACCAMO, L’Italia e la “Nuova Europa”, cit., p. 237 e ss.; ALATRI, Nitti,
D’Annunzio, cit.; RODOLFO MOSCA, L’Austria e la politica estera italiana dal trattato di St.
Germain all’avvento del fascismo al potere (1919-1922), in ID., Le relazioni internazionali nell’età contemporanea, cit., p. 94 e ss.; ENRICO SERRA, Nitti e la Russia, Bari, 1975; PETRACCHI,
La Russia rivoluzionaria, cit., p. 126 e ss.; STEFAN MALFER, Wien und Rom nach dem Ersten
Weltkrieg. Österreichisch-italienische Beziehungen 1919-1923, Wien, 1978; KARL-EGON
LÖNNE, Problemi ed aspetti della politica italiana nei confronti della Germania del primo dopoguerra, in Diplomazia e storia delle relazioni internazionali. Studi in onore di Enrico Serra,
Milano, 1991, p. 281 e ss.; DDA, 3, dd. 436, 437, 438 con allegato, 439; DDF 1920, I, dd. 49,
178
LUCIANO MONZALI
con Austria, Germania e Ungheria168 e la creazione di normali relazioni economiche e politiche con la Russia sovietica. Consapevole dell’importanza di un successo nella questione adriatica per il suo futuro politico, Nitti cominciò a intervenire più direttamente nell’attività
diplomatica ed orientò la sua azione alla ricerca della chiusura del contenzioso italo-iugoslavo nei tempi più rapidi possibili, anche a costo
d’importanti rinunce territoriali. In tale direzione andavano pure le
pressioni americane e anglo-francesi, che erano culminate nella presentazione di una nota tripartita al governo di Roma nel dicembre
1919, al quale veniva offerto il seguente progetto territoriale: applicazione della linea Wilson in Istria, creazione di uno Stato libero di
Fiume; Zara sarebbe divenuta città autonoma sotto il controllo della
Società delle Nazioni, mentre l’Italia avrebbe annesso Pelagosa, Lissa,
Lussino, Valona e ricevuto un mandato sull’Albania169. Invitati nuovamente dal governo di Roma ad esprimere i propri desiderata in caso di creazione di uno Stato libero di Zara, alla fine di dicembre Ghiglianovich e Ziliotto inviarono due promemoria. Ormai rassegnati all’impostazione governativa, i politici zaratini delinearono una linea di
confine che avrebbe lasciato allo Stato libero la sola città di Zara. Al
fine di avere il controllo dell’ospedale, del cimitero, dei due acquedotti e in previsione di un possibile ampliamento del porto, era opportuno annettere allo Stato libero anche Boccagnazzo e Borgo Erizzo
con piccole rettifiche di confine170. Venivano chieste poi alcune garanzie economiche: l’assicurazione del diritto di allacciare Zara alla
ferrovia di Knin, il buon funzionamento di un’adeguata rete stradale
nel retroterra zaratino, l’impegno iugoslavo a non ostacolare l’importazione a Zara «della materia prima del maraschino, vale a dire le marasche»; altra garanzia poteva essere l’imposizione alla Iugoslavia dell’obbligo «di non emettere disposizioni che ledano o ristringano il diritto di proprietà di cittadini nostri in quanto uguali disposizioni non
vengano emanate per i cittadini di essa Jugoslavia»171.
113, 215. Interessanti i giudizi di Buchanan, successore di Rodd all’ambasciata britannica a
Roma, sulla politica estera di Nitti: BDFA, II, F, 4, Buchanan a Curzon, 20 marzo 1920, d. 142.
168 Al riguardo: PDH, 1, dd. 155, 169, 173, 175, 177, 192, 193; ADAP, A, 3, Bergen al
Ministero degli Esteri, 7 gennaio 1920, d. 5; ibidem, dd. 64, 74, 106.
169 LEDERER, op. cit., pp. 302-303.
170 ASMAE, Carte Salata, b. 206, [GHIGLIANOVICH e ZILIOTTO], Promemoria riguardo alla delimitazione territoriale di Zara, s.d. (ma consegnato a Salata il 30 dicembre 1919).
171 ASMAE, Carte Salata, b. 206, [GHIGLIANOVICH e ZILIOTTO], Promemoria riguardo le
garanzie economiche, s.d. (ma consegnato a Salata il 30 dicembre 1919).
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
179
Le pressioni degli anglo-franco-americani e l’azione del presidente del Consiglio produssero fra il dicembre 1919 e il gennaio 1920
un’accelerazione dei negoziati con il raggiungimento di un’intesa provvisoria fra Italia e Alleati su una proposta di compromesso territoriale (il cosiddetto “Compromesso Nitti”) che venne presentata agli iugoslavi il 13 gennaio 1920: Fiume, Lussino, Pelagosa e Lissa venivano concesse all’Italia insieme a Valona e a un mandato albanese, mentre la Iugoslavia otteneva l’Istria orientale e Susak. Zara sarebbe divenuta un libero Stato sotto il controllo della Società delle Nazioni e
con il diritto di scelta della propria rappresentanza diplomatica, mentre la minoranza italiana nella Dalmazia iugoslava avrebbe avuto la tutela internazionale di alcuni diritti economici e la possibilità di optare per la cittadinanza italiana senza lasciare la terra natia172. Nonostante
garantisse migliori condizioni rispetto al patto di Londra e a tutti i progetti d’accordo discussi nel corso del 1919, il governo di Belgrado rifiutò la proposta di compromesso: fra le ragioni del rifiuto vi fu la volontà di ottenere la sovranità assoluta su Zara173. Dopo il fallimento
dei negoziati a Parigi nel gennaio 1920, Nitti continuò a sperare di trovare un’intesa sulla questione adriatica. Recatosi alla Conferenza interalleata di Londra a metà febbraio, Nitti cercò di proseguire i contatti con gli iugoslavi per trovare una soluzione174. Egli desiderava a
tutti i costi un successo di prestigio da usare presso l’opinione pubblica interna: cruciale per lui era ottenere l’annessione di Fiume. In
cambio di ciò era pronto a molte concessioni: l’Istria orientale e il mandato sull’Albania. In Dalmazia il governo Nitti era disponibile a rinunciare a Lissa e ad accettare la proposta di Trumbic! di tenere un plebiscito sul futuro di Zara con l’alternativa fra l’indipendenza e l’annessione allo Stato iugoslavo. I colloqui che Nitti tenne con Trumbic!
e Pas#ic! a Londra e a Parigi fra febbraio e marzo non raggiunsero risultati, anche per le crescenti divisioni in seno al governo iugoslavo.
Se per Trumbic! e i dalmati croati le questioni di Fiume e Zara erano
di vitale importanza, ai serbi interessava molto più il futuro dell’Albania settentrionale, sulla quale vi erano velleità annessionistiche175. In
172 LEDERER, op. cit., p. 304 e ss.; MICHELETTA, op. cit., I, p. 107 e ss.; ALATRI, Nitti,
D’Annunzio, cit., p. 372 e ss.; PASTORELLI, L’Albania nella politica estera italiana, cit., p. 208
e ss.; RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 247 e ss.
173 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 398 e ss.; LEDERER, op. cit., p. 309 e ss.; Zapisnici,
p. 236 e ss.; DBFP, I, 13, dd. 59, 62, 64, 73, 92; DDF 1920, I, dd. 15, 37.
174 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 412 e ss.
175 LEDERER, op. cit., p. 325 e ss.; ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 416 e ss.
180
LUCIANO MONZALI
seno all’opinione pubblica italiana rimaneva presente uno schieramento politico favorevole alla richiesta di applicazione del patto di
Londra. Erano in particolare i nazionalisti a insistere affinché l’Italia
procedesse all’applicazione del patto di Londra e proclamasse l’annessione dei territori giuliani e dalmati occupati176. Nitti, però, continuò a sperare in un accordo fondato sulla sovranità italiana a Fiume
in cambio di rinunce in Dalmazia. Il 13 e 14 aprile Scialoja incontrò
due volte Trumbic! a Parigi, insistendo sulla necessità per l’Italia di ottenere Fiume. Ma il ministro degli Esteri iugoslavo rimase su posizioni
d’intransigenza rifiutando di fare concessioni177. In occasione della
Conferenza di San Remo nell’aprile 1920 Nitti sperò di riprendere i
colloqui con gli iugoslavi. Salata fu incaricato di preparare un progetto
d’accordo italo-iugoslavo. Questo progetto, datato 14 aprile178, prevedeva l’indipendenza di Zara e la cessione di tutto il resto della Dalmazia alla Iugoslavia. Erano confermate nel loro valore le clausole economiche e quelle a tutela dei diritti della minoranza italiana, già presentate nei precedenti negoziati. Iniziata la conferenza di San Remo,
il progetto Salata fu rielaborato e sviluppato. Fu presentata agli alleati una nuova proposta italiana per il regolamento della questione adriatica. Le parti seconda, terza e quarta del progetto erano dedicate alla
Dalmazia e alle isole. Veniva ribadita l’indipendenza di Zara sotto la
garanzia della Società delle Nazioni: la città avrebbe designato lo Stato
al quale affidare la propria rappresentanza diplomatica all’estero ed
avrebbe fatto parte dell’unione doganale iugoslava. L’Italia avrebbe annesso le isole di Pelagosa, Lissa e Lussino, garantendo alla popolazione locale croata una completa autonomia. Agli italiani che vivevano nel resto della Dalmazia destinata allo Stato iugoslavo, il governo
di Belgrado doveva riconoscere una serie di diritti: innanzitutto il diritto di optare per la cittadinanza italiana, conservando i propri beni,
senza alcun obbligo di lasciare il territorio; dovevano poi essere ga-
176 «L’Idea Nazionale», 4 febbraio 1920, Per l’applicazione del Patto di Londra. Il grande comizio di iersera; ivi, 17 febbraio 1920, LEONARDO VITETTI, Verso l’applicazione del Patto
di Londra?; LUIGI FEDERZONI, Il trattato di Rapallo, con un’appendice di documenti, Bologna,
1921, pp. 1-44; ROBERTO FORGES DAVANZATI, La restaurazione del patto di Londra e la difesa di Fiume, «La Vita Italiana», giugno 1920, riedito in FRATER, Roberto Forges Davanzati.
Lineamenti di vita, cit., pp. 116-128. Si veda anche la critica alla politica adriatica di Nitti
fatta dal nazionale-liberale Arrigo Solmi: ARRIGO SOLMI, L’Adriatico e il problema nazionale, Roma, 1920.
177 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 448 e ss.; LEDERER, op. cit., p. 330 e ss.
178 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., pp. 522-524.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
181
rantiti i diritti acquisiti da cittadini italiani in campo industriale.
A rappresentare gli italiani dalmati a San Remo fu il sindaco Ziliotto, che venne incaricato dal governo Nitti di preparare un progetto di
accordo specifico per l’istituzione di Zara città libera e con eventuali garanzie per gli italiani nella Dalmazia iugoslava. Ziliotto presentò
a Nitti un progetto d’accordo il 24 aprile179. La città libera di Zara
avrebbe dovuto comprendere le frazioni comunali di Zara, Borgo
Erizzo, Cerno, Boccagnazzo e parte della frazione di Diclo. La futura costituzione della città sarebbe stata fissata dal consiglio comunale di Zara in carica. L’Italia avrebbe negoziato i termini di una convenzione fra Zara indipendente e il Regno iugoslavo allo scopo:
a) Di assicurare la congiunzione ferroviaria con le ferrovie del retroterra,
attraverso lo Stato S.H.S.
b) Di assicurarle il libero uso delle altre strade di comunicazione.
c) Di assicurarle il diritto di pesca nel mare territoriale dello Stato S.H.S.
d) Di garantire ai cittadini della città libera il libero esercizio del diritto
di proprietà immobiliare nel territorio dello Stato S.H.S. ed in particolare che
riguardo a tale proprietà non verranno mortificati i diritti acquisiti dai cittadini di Zara se non d’accordo con il suo governo.
e) Di garantire il traffico di confine.
f) Di garantire che lo Stato S.H.S. non possa rifiutare a richiesta della città
libera di Zara di accoglierla nel suo nesso doganale. […]180.
Alla fine, nonostante gli inviti italiani, Trumbic! decise di non recarsi a San Remo. L’inizio dei negoziati italo-iugoslavi fu rinviato di
pochi giorni, per l’11 maggio a Pallanza181. In previsione della ripresa dei negoziati bilaterali a Pallanza, ai primi di maggio Ziliotto preparò un ulteriore memoriale su Zara ed un promemoria su possibili richieste concernenti gli italiani che sarebbero rimasti in Iugoslavia182.
Nel memoriale su Zara Ziliotto identificò possibili assetti territoriali
per la sua città. Il sindaco ribadì la necessità che la città conservasse
un suo adeguato retroterra anche in caso di passaggio all’Italia:
179 ACS,
Carte Nitti, b. 41, LUIGI ZILIOTTO, Zara città libera, 24 aprile 1920, minuta.
Ibidem.
181 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 460 e ss.
182 ASMAE, Carte Salata, b. 206, LUIGI ZILIOTTO, Zara, primi di maggio 1920; ibidem,
[LUIGI ZILIOTTO], Diritti degli Italiani che resteranno in Jugoslavia, senza data [ma primi di
maggio 1920].
180
182
LUCIANO MONZALI
Qualora il governo si determinasse a commettere il grave errore d’abbandonare una parte qualunque del territorio dalmato compreso nel patto di
Londra, anzi quello gravissimo di rinunziare a Sebenico e alle Isole, e si limitasse a voler salvare Zara, codesto salvare non può essere inteso che nel senso di conseguire la sovranità sulla città di Zara e su quel territorio che dà vita
alla città e ne riceve. Veramente, siccome Zara, per la negligenza del governo
austriaco e a titolo di punizione per la sua italianità, ebbe sviluppo soltanto come città burocratica, essa viene danneggiata per il distacco di qualunque parte della Dalmazia dal nesso amministrativo cui essa appartiene. In un senso
più ristretto però il territorio di Zara, quello cioè che nei riguardi della vita economica, amministrativa e culturale è ad essa connesso in modo che una disgiunzione riesce dannosa e alla città e al territorio, è il circondario politico
attuale (territorio del capitanato distrettuale) più il comune di Bencovaz183.
In caso di concessioni inevitabili, si poteva rinunciare al controllo
di Bencovaz, di Novegradi, di Selve e delle isole di Arbe e di Pago.
Limite irrinunciabile era il mantenimento sotto la sovranità italiana del
territorio dei comuni di Zara, di Nona e di Sale, abitato da una popolazione complessiva di 52.000 persone184. Sempre in quei giorni Ziliotto preparò un elenco di diritti per gli italiani della Dalmazia iugoslava il cui rispetto bisognava pretendere dal governo di Belgrado nel corso dei negoziati territoriali185.
In previsione dei negoziati di Pallanza, il governo di Belgrado delineò istruzioni di massima per la sua delegazione186. Occorreva che
la Iugoslavia ottenesse la linea Wilson in Venezia Giulia, nonché l’an183
ZILIOTTO, Zara, primi di maggio 1920, cit.
Ibidem.
185 «1) Optare per la cittadinanza italiana con la facoltà di conservare la residenza in
Iugoslavia.
2) Diritto elettorale attivo e passivo in tutte le amministrazioni pubbliche (consigli provinciali, comuni, camere di commercio). In ciò non è compreso il diritto elettorale politico.
3) Diritto di esercitare anche quelle professioni per le quali è richiesta la cittadinanza dello Stato.
Diritto d’istituire scuole italiane di qualunque grado.
Esenzione (in quanto si propongano d’istituire delle scuole) da tutte le imposte con le
quali si sostengano le spese scolastiche.
Facoltà d’inviare in italiano, in iscritto ed a voce, qualunque autorità pubblica tanto giudiziaria che amministrativa.
Diritto di riunione e d’associazione come collettività etniche.
8) Diritto per coloro che trasferissero la loro residenza all’estero di portar seco la propria sostanza mobile ed il ricavato di quella immobile, esente da qualsiasi tassa, trattenuta od
altra limitazione»: [LUIGI ZILIOTTO], Diritti degli Italiani che resteranno in Jugoslavia, s.d.
(ma primi di maggio 1920), cit.
186 LEDERER, op. cit., p. 332-334.
184
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
183
nessione del porto di Fiume, di Baros e Susak, lasciando la città del
Quarnero neutralizzata e smilitarizzata. Il destino di Cherso e di Lissa
si sarebbe deciso con un plebiscito, mentre tutto il resto della Dalmazia
doveva essere annesso al Regno iugoslavo, con Zara iugoslava ma in
possesso di «un’ampia autonomia interna, garantita internazionalmente»187. Bisognava ottenere il riconoscimento italiano dell’appartenenza del Montenegro al Regno SHS, mentre l’Albania doveva essere indipendente e smilitarizzata; però, in caso di mandato italiano sul territorio albanese o di conquiste greche e italiane nella regione, la
Iugoslavia avrebbe avuto diritto ad annettere tutta l’Albania settentrionale188. L’11 maggio ebbero inizio le trattative a Pallanza, condotte per il governo di Belgrado da Trumbic! e Pas#ic!, per l’Italia da
Scialoja189. Trumbic! presentò le tesi iugoslave stabilite dal governo di
Belgrado, facendo capire di essere pronto a un compromesso su Fiume.
Il ministro degli Esteri iugoslavo, poi, mostrò la sua riluttanza ad accettare l’idea di Zara italiana o indipendente.
Zara vive della Dalmazia, – dichiarò Trumbic! – forma con essa un tutto,
così fu sempre sotto la dominazione veneziana e sotto quella austriaca. Se
Zara viene staccata dalla Dalmazia corre verso la rovina, il suo avvenire economico sarà compromesso, gli uffici amministrativi emigreranno190.
Scialoja presentò le richieste italiane. Egli insistette per una frontiera giuliana sicura e per Fiume e Cherso italiane. Riguardo a Zara,
il ministro italiano affermò che vi era la possibilità di un’intesa, in
quanto fra la richiesta italiana di creare uno Stato di Zara indipendente
e l’autonomia in seno al Regno SHS offerta dagli iugoslavi non vi era
«un contrasto assoluto fra i due punti di vista»191.
I negoziati italo-iugoslavi furono interrotti dalla crisi di governo in
Italia, provocata dalla messa in minoranza del secondo ministero Nitti
alla Camera proprio l’11 maggio192. In una tale situazione Nitti preferì sospendere le trattative, che sarebbero state riprese solo dal governo Giolitti alcuni mesi dopo193.
187
Ibidem.
Ibidem.
189 LV, Scialoja e Nitti, 11 maggio 1920, dd. 1, 2, 3; LEDERER, op. cit., p. 534 e ss.; ALATRI,
Nitti, D’Annunzio, cit., p. 463 e ss.
190 LV, Scialoja a Nitti, 11 maggio 1920, d. 2.
191 Ibidem.
192 BDFA, II, F, 4, Buchanan a Curzon, 17 e 23 marzo 1920, dd. 155 e 157.
193 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 470 e ss.
188
184
LUCIANO MONZALI
La crescente debolezza politica di Nitti ebbe un’ennesima conferma alla fine di maggio. Il terzo ministero Nitti si era appena insediato quando, il 24 maggio, in occasione dell’anniversario dell’entrata
dell’Italia in guerra, ebbe luogo una sfilata studentesca nazionalista
per le strade del centro di Roma. La polizia, temendo che la dimostrazione avesse intenzioni violente, represse con la forza gli studenti: la polizia sparò e vi furono alcuni morti fra gli agenti e i civili194.
Preso dal panico e timoroso di possibili congiure dannunziane, il governo ordinò l’arresto di tutti i cittadini dalmati e fiumani, donne ed
anziani inclusi, presenti a Roma. Tale decisione, sproporzionata e priva di senso, suscitò polemiche durissime195. In Dalmazia furono organizzati comizi di protesta contro Nitti196.
2.7. La situazione politica a Spalato e nella Dalmazia iugoslava fra
il 1919 e il 1920
La presenza di navi alleate e americane e l’intervento del Comitato interalleato degli ammiragli avevano consentito un miglioramento delle
condizioni di vita degli italiani a Spalato nella primavera del 1919. Su
un piano politico più generale, però, la situazione nella Dalmazia iugoslava rimaneva tesa e difficile. Il malcontento croato verso il nuovo Stato
iugoslavo si era ormai apertamente manifestato197. Il movimento contadino di Radic! era progressivamente divenuto il principale partito croato
proprio per aver posto al centro della sua piattaforma politica la lotta per
la costituzione di una Croazia indipendente198. Consapevole della pericolosità di Radic!, il governo di Belgrado lo aveva fatto arrestare nel marzo 1919199. Se il movimento dei contadini era la forza politica maggio194 ALATRI, Nitti, D’Annunzio, cit., p. 472.
195 «L’Idea Nazionale», 26 maggio 1920, Nitti, responsabile dell’eccidio, inscena un com-
plotto e perseguita i patriotti adriatici. Si veda anche il resoconto della vicenda da parte dell’ambasciatore britannico a Roma, Buchanan: BDFA, II, F, 4, Buchanan a Curzon, 11 giugno
1920, d. 160.
196 «L’Idea Nazionale», 1° giugno 1920, La Dalmazia per il Re e per Millo.
197 BOSILJKA JANJATOVIC!, Politic#ki Teror u Krvatskoj 1918.-1935., Zagreb, 2002; BIONDICH,
Stjepan Radic!, the Croat Paesant Party, and the Politics of Mass Mobilization, 1904-1928,
cit.; PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit.
198 Un’analisi approfondita del movimento contadino croato in BIONDICH, Stjepan Radic!, the
Croat Paesant Party, and the Politics of Mass Mobilization, 1904-1928, cit. Si vedano anche:
BANAC, The National Question, cit.; JANJATOVIC!, Politic#ki Teror u Krvatskoj, cit., p. 145 e ss.
198 BANAC, The National Question, cit., p. 328 e ss.
199 CACCAMO, L’Italia e la “Nuova Europa”, cit., p. 162.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
185
ritaria nelle campagne croate e dalmate, specialmente in Croazia e
Slavonia, a Spalato, dopo la guerra, il partito socialista si era consolidato come principale gruppo d’opposizione al nuovo Stato. Il socialismo
spalatino, di tendenza filo-bolscevica, aveva la sua base sociale fra gli
agricoltori, i marinai e gli operai delle fabbriche di cemento, e, a causa
della popolazione multietnica della città, era un partito italo-slavo, anche se fedele alle direttive del partito socialista croato di Zagabria: fra i
suoi capi vi era un italiano, il sarto Giacomo Gabrich200. La forza del
partito socialista a Spalato si evidenziò pubblicamente con il grande sciopero organizzato il 1° maggio 1919. Così il comandante Menini, a capo della nave Puglia di stanza a Spalato, descrisse la manifestazione:
Questa mattina alle 8, sulla Riva Vecchia, si sono raccolte parecchie migliaia di lavoratori e di contadini organizzati. Capitanati dal capo socialista
Domazet, hanno formato un lungo corteo, di circa 4.000 persone; il corteo
ha sfilato per due volte in tutte le vie e le piazze della città, cantando
l’Internazionale, e alternando i cori con grida di: «Viva il bolscevismo! Viva
la Russia! Viva l’Internazionale operaia! Viva l’Austria!». Quest’ultimo, curiosissimo evviva, era emesso in segno di protesta verso il Governo locale, il
quale, secondo i socialisti, si dimostra molto meno liberale di quello austriaco. […] Durante tutta la giornata, la chiusura degli opifici, dei pubblici ritrovi, dei negozi, è stata assoluta. Hanno scioperato persino i tipografi, i ferrovieri ed i gazisti201.
Le proteste del 1° maggio crearono grande nervosismo nel governo
serbo, che mobilitò l’esercito in stato di guerra e procedette all’arresto
dei capi socialisti spalatini202. L’ascesa politica dei repubblicani contadini e dei socialisti era la dimostrazione che la guerra aveva sconvolto
200 Per alcune informazioni sul socialismo filocomunista in Dalmazia e le sue origini:
DINKO FORETIC!, Radnic#ki pokret u Dalmaciji od 1870. do Kongresa Ujedinjenja 1919., Split,
1970, estratto; ID., Pregled socijalistic#ke s#tampe u Dalmaciji, Istri i Rijeci do 1919, Zadar,
1972, estratto; ID., Dokumenti o radnic#kom pokretu u Dalmaciji izmedu¤ 1900.-1913., Zagreb,
1959; ENNIO MASERATI, Attività anarchica in Dalmazia nel primo Novecento, «Clio», 1982,
n. 1, pp. 108-121; JANJATOVIC!, Politic#ki Teror u Krvatskoj, cit., p. 179 e ss.; IVO BANAC, With
Tito against Stalin: Cominformist Splits in Yugoslav Communism, Ithaca-London, 1988.
201 AM, archivio di base, c. 1444, Menini a Millo, 1° maggio 1919. Fra il 1919 e il 1920
il comandante della nave Puglia inviò quotidianamente una relazione al governatore della
Dalmazia sulla situazione politica spalatina; questi rapporti sono una fonte interessante sulla storia di Spalato nel primo dopoguerra. Una raccolta quasi completa di queste relazioni è
conservata in AM, archivio di base, c. 1420, 1421, 1422.
202 AM, archivio di base, c. 1444, Menini a Millo, 2 maggio 1919. Si veda anche
JANJATOVIC!, Politic#ki Teror u Krvatskoj, cit., p. 181.
186
LUCIANO MONZALI
gli equilibri politici della Dalmazia, mettendo in crisi il vecchio nazionalismo croato iugoslavo dalmata capeggiato da Trumbic!, Tartaglia203 e
Smodlaka. I capi nazionalisti iugoslavi, appartenenti ai ceti borghesi ed
aristocratici cittadini, che avevano dominato la provincia in epoca asburgica ed avevano sostenuto con convinzione l’alleanza con i serbi e poi
la costituzione di uno Stato iugoslavo unitario, dopo la guerra persero
rapidamente peso politico e divennero un elemento secondario della politica dalmata, o alleati minori dei contadini e dei pravas#i antiserbi o collaborazionisti del governo serbo di Belgrado204. Da parte degli italiani
spalatini vi era la speranza che l’ascesa dei socialisti, gruppo politico
d’ispirazione internazionalista, favorisse la loro causa. Anche Menini,
che coltivò rapporti con alcuni esponenti socialisti locali205, vedeva con
favore la crescita della forza socialista. Commentando la manifestazione del 1° maggio, scrisse:
Notevolissimo il fatto che, in tutta la dimostrazione, non fu emesso un solo grido contro l’Italia, il che prova quanto è stato detto più volte circa la muta solidarietà dei socialisti con l’Italia. Il giorno in cui dovessimo occupare
la città potremmo in modo assoluto contare su di essi, o perlomeno sulla loro neutralità in fatto di questioni nazionali. Se poi queste masse fossero da
noi intelligentemente conquistate, dando loro lavoro e facendole guidare da
qualcuno dei capi del socialismo riformista italiano, troveremmo in esse una
grande forza per combattere il possibile irredentismo jugoslavo a Spalato206.
In realtà l’ufficiale italiano interpretava in modo superficiale gli
orientamenti del socialismo dalmata, caratterizzato da un’ideologia nazionale iugoslava e fortemente massimalista e filo-bolscevica. La composizione multietnica dei ceti popolari spalatini e l’esistenza di una
tradizione socialista di matrice autonomista e italofila, quindi, non
spingevano il socialismo filobolscevico locale ad assumere posizioni
politiche favorevoli ai dalmati italiani e all’Italia. È interessante notare che il governo iugoslavo invocò presunte collusioni con l’Italia per
giustificare la dura repressione anti-socialista, che portò nella primavera del 1920 a nuovi numerosi arresti di militanti e allo scioglimen203 Sulla figura di Ivo Tartaglia, sindaco di Spalato fra il 1918 e il 1928 si veda la biografia apologetica di NORKA MACHIEDO MLADINIC!, Životni put Ive Tartaglia, Split, 2001.
204 Al riguardo le analisi di BIONDICH, op. cit., p. 150 e ss. e di BANAC, The National
Question in Yugoslavia, cit., p. 141 e ss.
205 AM, archivio di base, c. 1422, Menini a Millo, 26 marzo 1919.
206 Menini a Millo, 1° maggio 1919, cit.
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
187
to delle organizzazioni socialiste207. Di fatto la crisi di consensi dello
Stato iugoslavo nella primavera e nell’estate 1919, motivata anche dalla dura recessione economica e dall’applicazione della leva obbligatoria che imponeva ai giovani dalmati di prestare servizio militare fuori dalla propria provincia, aumentò le simpatie di parte della popolazione della Dalmazia iugoslava verso l’Italia, considerato uno Stato
più evoluto e liberale rispetto alla Serbia. Pure i rapporti fra gli italiani locali e il resto della popolazione migliorarono. Il 10 settembre
1919, due giorni prima della spedizione di D’Annunzio a Fiume,
Menini descrisse la situazione a Spalato in termini ottimistici.
La situazione nostra a Spalato continua a migliorare con grande rapidità.
[…] Gli italiani e croati, con una tranquillità che sorprende, attendono, senza troppo orgasmo, le decisioni del Congresso di Parigi qualunque esse siano. Intanto scompare ogni giorno di più la barriera che divideva gli italiani
dai croati, tanto che ora i nostri cominciano a frequentare il famoso Caffè
Troccoli, ed alla sera, nell’affollato passeggio lungo la marina, non si sente
parlare che in italiano. […] I nostri connazionali, d’altra parte, vivono ora in
un ambiente di perfetta tranquillità, non vengono molestati né offesi, ricevono liberamente i permessi di viaggio per recarsi quando vogliono nei territori occupati o magari in Italia. Il numero dei soci della «Società Operaia» è in
continuo aumento e le iscrizioni alla «Cooperativa Italiana di Consumo» superano le più rosee aspettative208.
La spedizione dannunziana a Fiume e il conseguente tentativo di
occupare Traù rigettarono la regione di Spalato nell’agitazione e riacutizzarono le tensioni nazionali209. Abbandonando la prudenza seguita
nei riguardi dell’elemento italiano fino a quel momento, il governo serbo usò lo spauracchio di una possibile spedizione dannunziana a
Spalato per rinfocolare i sentimenti anti-italiani della popolazione, cercando soprattutto di strumentalizzare le comunità di profughi provenienti da Sebenico, Zara e dalle isole occupate. Come abbiamo già visto, le immediate conseguenze dell’occupazione di Traù furono una
dura repressione anti-italiana e la ripresa degli atti teppistici contro la
minoranza. Le violenze xenofobe e gli atti teppistici contro individui
e istituzioni italiane proseguirono per tutto l’autunno e l’inverno. Il 5
207 Al riguardo: «L’Idea Nazionale», 10 luglio 1920, Patriotti italiani e socialisti di
Spalato accomunati dagli jugoslavi nella feroce repressione.
208 AM, archivio di base, c. 1421, Menini a Millo, 10 settembre 1919.
209 AM, archivio di base, c. 1420, Menini a Millo, 21 settembre 1919.
188
LUCIANO MONZALI
ottobre gruppi di teppisti aggredirono Giacomo Marcocchia, uno dei
principali intellettuali italiani della città210. Sempre in quei giorni, per
timore d’incidenti, fu chiuso il Caffè Nani, centro di raduno degli italiani spalatini, e vennero danneggiate le sedi di alcune istituzioni italiane211. A fine novembre furono colpiti a bastonate due capi del Fascio
Nazionale Italiano, Leonardo Pezzoli e Ernesto Illich212. Il tutto veniva tollerato dalle autorità iugoslave: di fatto il governo di Belgrado, a
parere di Menini, aveva esautorato le autorità provinciali e municipali
guidate dai dalmati Krstelj e Tartaglia, e aveva instaurato a Spalato un
governo militare diretto dal generale serbo Milic!213. Le continue violenze contro l’elemento italiano indussero il Fascio Nazionale Italiano
spalatino e Ercolano Salvi a fare pressioni sul governo di Roma perché rafforzasse la propria presenza navale a Spalato. Ma il governo, timoroso di fare aumentare la tensione con Belgrado, già ostile alla permanenza della Puglia nel porto della città, preferì non accogliere le richieste degli italiani spalatini214. Culmine delle violenze anti-italiane a
Spalato furono gli incidenti del 27 gennaio 1920 215. Nel pieno dell’agitazione provocata dai negoziati adriatici a Parigi e dall’invio dell’ultimatum alleato a Belgrado circa l’assetto dei confini, venne organizzata nella principale piazza di Spalato una manifestazione nazionalista
iugoslava di protesta contro l’imperialismo italiano e la protervia delle grandi potenze. Alla fine della manifestazione in piazza, la folla,
composta in gran parte da profughi, si riversò per la città lanciandosi
in atti teppistici anti-italiani. Il Gabinetto di Lettura fu oggetto di una
sassaiola, mentre le sedi della Società Operaia e del Consorzio di consumo italiano «Unione Cooperativa» furono invase dai dimostranti, armati di rivoltelle, e distrutte. In seguito le ire dei dimostranti si rivolsero, come ormai consuetudine, contro i negozi italiani.
Oltre venti negozi vennero assaliti spezzandone ed asportandone le inse-
210 AM,
archivio di base, c. 1420, Menini a Millo, 6 ottobre 1919.
archivio di base, c. 1420, Menini a Millo, 8 ottobre 1919.
212 AM, archivio di base, c. 1420, Menini a Millo, 29 novembre 1919.
213 AM, archivio di base, c. 1421, Menini a Millo, 1° dicembre 1919.
214 AM, archivio di base, c. 1444, Sechi a Salvi, dicembre 1919; ibidem, Sechi a presidente del Consiglio, dicembre 1919; «L’Idea Nazionale», 7 febbraio 1920, Una nobile protesta dalmata.
215 Per una descrizione degli incidenti del 27 gennaio 1920: AM, archivio di base, c. 1536,
Menini a Millo, 31 gennaio 1920; AM, archivio di base, c. 1444, Millo a Presidenza del
Consiglio, Gabinetto del Ministero della Marina, Ufficio del capo di stato maggiore della
Marina, Ministero della Guerra e Ministero degli Esteri, 30 gennaio 1920.
211 AM,
TRA NITTI E D’ANNUNZIO
189
gne con scritte italiane, sfondandone le saracinesche, rompendone le vetrate
e penetrandovi nell’interno commettendovi atti vandalici e di distruzione216.
Millo riferì che gli incidenti erano stati premeditati e tollerati dal
governo serbo, con distribuzioni di armi, bastoni e piccozze per potere procedere alla distruzione delle insegne italiane dei negozi:
Da parte delle Autorità militari e politiche di Spalato nulla era stato predisposto per prevenire i disordini e nulla fu fatto per reprimerli, né durante
lo svolgersi della dimostrazione vennero usate repressioni da chi doveva tutelare l’ordine pubblico, né vennero praticati arresti. Le Società italiane, che,
ormai è noto, sono la meta di ogni dimostrazione di carattere politico, che
sono site nel centro della città, vennero lasciate senza alcuna tutela, e la forza pubblica compariva nei pressi delle Società stesse e dei negozi attaccati
soltanto dopo che gli eccessi di violenza erano stati consumati217.
Gli incidenti del gennaio 1920 confermavano che le popolazioni
italiane della Dalmazia iugoslava, in particolare quelle di Spalato dove vi era la comunità più numerosa ed organizzata, pagavano il prezzo più alto per l’esplodere della rivalità politica fra Italia e Stato iugoslavo: sostanzialmente indifese, erano le vittime predestinate dei periodici peggioramenti delle relazioni italo-iugoslave e delle manipolazioni politiche del governo di Belgrado, che amava periodicamente
alimentare la xenofobia anti-italiana per cercare di conquistare il consenso di parte dell’opinione pubblica dalmata croata. La tensione nazionale continuò a Spalato anche nei mesi successivi, per poi riesplodere nel luglio 1920. L’11 luglio, a causa di alcuni incidenti che coinvolsero marinai e ufficiali italiani e dimostranti nazionalisti iugoslavi,
il comandante Gulli, successore di Menini a capo della nave Puglia, si
recò verso la banchina del porto. Scoppiata una bomba a petardo sulla banchina occupata dai dimostranti, i soldati serbi e un marinaio italiano spararono. La sparatoria all’impazzata uccise il motorista Aldo
Rossi e ferì gravemente il sottocapo meccanico Pavone e lo stesso Gulli.
Questi morì nella mattinata del 12 dopo aver subito un’operazione chirurgica218. In Italia, in reazione agli incidenti di Spalato, furono orga216 Millo a Presidenza del Consiglio, Gabinetto del Ministero della Marina, Ufficio del
capo di stato maggiore della Marina, Ministero della Guerra e Ministero degli Esteri, 30 gennaio 1920, cit.
217 Ibidem.
218 Vi sono versioni contrastanti sugli incidenti di Spalato dell’11 luglio 1920. La ver-
190
LUCIANO MONZALI
nizzate dal movimento fascista manifestazioni di protesta, che a Trieste
provocarono gravi disordini. Prendendo ad esempio le azioni dei nazionalisti estremisti iugoslavi di Spalato e sfruttando lo scoppio di incidenti intorno all’Hotel Balkan, i fascisti triestini procedettero alla distruzione delle sedi di varie istituzioni culturali e politiche slovene,
croate e serbe, di una filiale della Banca Adriatica e di alcune abitazioni private di cittadini iugoslavi presenti nella città giuliana219. Atti
vandalici e distruzioni di scuole ed istituzioni culturali croate e serbe
ebbero luogo in quei giorni anche a Pola, Zara e Fiume220.
Gli eventi del luglio 1920 in Dalmazia e Venezia Giulia preannunciavano tempi difficili per le minoranze nazionali nell’Adriatico
orientale, prime vittime della lotta di potenza fra gli Stati e del diffondersi d’ideologie nazionaliste estremiste ed intolleranti fra le popolazioni di quelle terre. L’esasperazione dei nazionalismi era favorita dalle conseguenze di una crudele guerra mondiale e dalla recessione economica che, con brevi pause, sarebbe durata tutto il periodo fra le due
guerre mondiali; ma ad aggravare le lotte nazionali contribuì la volontà di alcune forze e istituzioni politiche e militari (il governo serbo, i nazionalisti iugoslavi estremisti, il fascismo italiano) di strumentalizzare e radicalizzare i sentimenti nazionali per trarne guadagni politici.
sione italiana in: AM, archivio di base, c. 1444, relazione del capitano di corvetta Pierallini;
ASMAE, AP 1919-30, Iugoslavia, b. 1305, Contarini a Legazione italiana a Belgrado, 17 luglio 1920. Una versione iugoslava degli eventi in «Novo Doba», 13 luglio 1920. Sul resoconto britannico degli incidenti di Spalato: BDFA, II, F, 4, Young a Curzon, 17 luglio 1920,
dd. 183, 184. Sugli eventi del luglio 1920 a Spalato: MENINI, op. cit., p. 201 e ss.; GUIDO
CALBIANI, Tommaso Gulli – Aldo Rossi Spalato 11 luglio 1920. Un cinquantennio, «La Rivista
Dalmatica», 1970, estratto; CLAUDIO SILVESTRI, Documenti americani sui “Fatti di Spalato”
del luglio 1920, «Il movimento di liberazione in Italia», 1969, n. 94, p. 62 e ss. Per la versione iugoslava: MILICA KACIN WOHINZ, L’incendio del Narodni dom a Trieste, in ID., Vivere
al confine. Sloveni e Italiani negli anni 1918-1941, Gorizia, 2004, p. 81.
219 Sugli incidenti di Trieste nel luglio 1920: ASMAE, AP 1919-1930, Iugoslavia, b. 1305,
Crispo Moncada al presidente del Consiglio, 14 luglio 1920; ibidem, Contarini alle Legazioni
italiane di Praga e Belgrado, 20 luglio 1920; ibidem, Direzione della Banca Adriatica a Salata,
20 luglio 1920; ibidem, Comunità serbo-orientale di Trieste all’Ufficio centrale per le Nuove
Provincie, 4 agosto 1920; CLAUDIO SILVESTRI, Storia del Fascio di Trieste dalle origini alla
conquista del potere (1919-1922), in AUTORI VARI, Fascismo-Guerra-Resistenza. Lotte politiche e sociali nel Friuli-Venezia Giulia 1918-1945, Trieste, 1969, p. 43 e ss.; DENNISON I.
RUSINOW, Italy’s Austrian Heritage 1919- 1946, Oxford, 1969, p. 101 e ss.; ELIO APIH, Italia,
Fascismo e Antifascismo nella Venezia Giulia 1918-1943, Bari, 1966.
220 ASMAE, AP 1919-1930, Iugoslavia, b. 1305, Millo a Presidenza del Consiglio, 16
luglio 1920; ibidem, Crispo Moncada a Presidenza del Consiglio e Ufficio centrale per le
Nuove Provincie, 16 luglio 1920.
III
IL TRATTATO DI RAPALLO
E IL PRIMO ESODO ITALIANO DALLA DALMAZIA
3.1. Giolitti, Sforza e la genesi del trattato di Rapallo
Il 15 giugno 1920 Giovanni Giolitti costituì un nuovo esecutivo, che
sancì il suo ritorno ai vertici governativi dopo gli anni difficili della
guerra mondiale, durante i quali l’essersi schierato contro l’intervento dell’Italia a fianco dell’Intesa gli era costato un sostanziale isolamento politico1. Terminata la guerra ed evidenziatasi la crisi diplomatica italiana alle trattative di Parigi, che aveva indebolito i suoi vecchi avversari Sonnino e Salandra, Giolitti era lentamente tornato a
svolgere un ruolo politico attivo. In occasione delle elezioni parlamentari del novembre 1919, il politico piemontese si ricandidò e presentò il suo programma politico con un discorso pronunziato a Dronero
il 12 ottobre2, nel quale, dopo aver difeso il suo operato negli anni
1914-15 ed attaccato il governo Orlando-Sonnino, enunciò le sue idee
sulla questione adriatica. A parere di Giolitti, era stato un grave errore non rivendicare nel patto di Londra l’unione di Fiume all’Italia.
Bisognava fare di tutto per garantire al Paese frontiere sicure: per lo
statista piemontese, ciò significava assicurare all’Italia confini naturali sulle Alpi, che avrebbero consentito allo Stato italiano di perseguire una politica militare di esclusiva difesa3. Per Giolitti, insomma,
obiettivi cruciali da raggiungere erano l’unione di Fiume all’Italia e il
raggiungimento di un confine forte strategicamente in Venezia Giulia. Verosimilmente egli concepiva il confine strategico esistente fra
1 Sul nuovo governo Giolitti nel 1920: NINO VALERI, Giovanni Giolitti, Torino, 1971, p.
287 e ss.; CARLO VALLAURI, Il ritorno al potere di Giolitti nel 1920, «Storia e Politica», 1963,
p. 78 e ss.; GABRIELLA FANELLO MARCUCCI, Luigi Sturzo. Vita e battaglie per la libertà del
fondatore del Partito Popolare italiano, Milano, 2004, p. 65 e ss.
2 GIOVANNI GIOLITTI, Discorsi extraparlamentari, Torino, 1952, p. 294 e ss.
3 Ivi, pp. 304-305, 316-317.
192
LUCIANO MONZALI
Italia e Francia, con il displuvio alpino quale frontiera prevalente, come modello da applicare in Venezia Giulia. La Dalmazia, invece, era
un elemento secondario, da sacrificare per ottenere importanti concessioni nella regione giulia. Fin dal 1918 il politico piemontese si era
dichiarato ostile all’annessione della Dalmazia:
[…] Io sono pure persuaso – dichiarò Giolitti al suo confidente Malagodi
– che l’annessione della Dalmazia sarebbe un errore, e ci darebbe le peggiori preoccupazioni per l’avvenire. Sarebbe un errore di politica estera, nel senso che non si può pretendere di escludere dal mare un continente occupandone l’orlo della costa; e che si ripercoterebbe anche nella politica interna.
Il popolo ha sostenuto i sacrifizi della guerra con la speranza che fosse l’ultima, o che almeno avesse l’effetto di disarmare il militarismo; e ci sarebbe
quindi una violenta reazione popolare contro condizioni di pace che ci obbligassero a stare in armi ed a fare guardia alle nostre frontiere peggio di prima4.
Il politico piemontese chiamò a guidare il Ministero degli Esteri
un giovane diplomatico, Carlo Sforza, che aveva avuto occasione di
conoscere ed apprezzare nei mesi precedenti mentre costui svolgeva
l’incarico di sottosegretario alla Consulta. Giolitti nominò Sforza perché constatò che il diplomatico toscano condivideva la sua visione della questione adriatica; inoltre desiderava porre alla guida della politica estera italiana un uomo che era stato un convinto interventista ed
era bene accetto alla Francia e alla Gran Bretagna. Molto abilmente
Sforza aveva sfruttato l’incarico di sottosegretario per farsi conoscere negli ambienti politici romani e costruirsi una base di potere al
Ministero, dove, grazie alle lunghe assenze dei ministri titolari, impegnati alla Conferenza della pace e nelle tante conferenze interalleate,
aveva svolto un importante ruolo di guida dell’apparato diplomatico
centrale5. Il diplomatico era entrato ben presto in stretti rapporti con
4
MALAGODI, Conversazioni della Guerra, cit., II, p. 457.
Sulla biografia di Sforza: CARLO SFORZA, L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi,
Roma, 1944; ID., Jugoslavia. Storia e ricordi, cit.; ID., Pensiero e azione di una politica estera italiana. Discorsi e scritti, Bari, 1924; ID., Dalle pagine del diario. Il periodo prefascista,
«Nuova Antologia», 1967 fasc. 2004 p. 447 e ss., 1968 fasc. 2005 p. 47 e ss.; LIVIO ZENO,
Carlo Sforza. Ritratto di un grande diplomatico, Firenze, 1999; MARIA GRAZIA MELCHIONNI,
La politica estera di Carlo Sforza nel 1920-21, «Rivista di Studi politici internazionali», 1969,
pp. 537-570; ID., La convenzione antiasburgica del 12 novembre 1920, «Storia e Politica»,
1972, pp. 224-264, 374-417; MICHELETTA, op. cit., I, p. 191 e ss.; GIANCARLO GIORDANO, Carlo
Sforza. I. La diplomazia 1896-1921, Milano, 1987; ID., Carlo Sforza. II. La politica 19225
IL TRATTATO DI RAPALLO
193
l’ambasciatore francese a Roma, Camille Barrère, per divenire il punto di riferimento politico di coloro che in seno al Ministero degli Affari
Esteri erano critici verso la germanofilia e l’anglofilia di Nitti e propugnavano un deciso miglioramento dei rapporti con la Francia. Nel
consolidamento della posizione di Sforza fu fondamentale la nomina
di Salvatore Contarini a segretario generale del Ministero degli Esteri
nel gennaio 19206.
Erede della tradizione diplomatica italiana anti-asburgica, nei decenni passati incarnata da Giuseppe Tornielli e Giulio Prinetti, e politicamente un nazionalista liberaldemocratico, Sforza era favorevole
alla creazione di Stati nazionali in Europa centrale e balcanica e nel
Mediterraneo orientale7. Egli vedeva nel sostegno italiano a questi nuovi Stati nazionali lo strumento per l’affermazione dell’egemonia politica ed economica dell’Italia nell’Europa centrale ed orientale. Era
questa un’idea che espresse con sincerità a Giolitti: «I Balcani debbono esser le nostre vere colonie, ma trattati da eguali»8. Sforza giudicava necessario un confine orientale coincidente con le frontiere naturali alpine e il controllo di alcune isole dalmate, e riteneva che su
queste basi un compromesso adriatico fosse raggiungibile. Buon conoscitore delle terre ex-asburgiche e dei Balcani (era stato diplomati1952, Milano, 1992; BARBARA BRACCO, Carlo Sforza e la questione adriatica. Politica estera e opinione pubblica nell’ultimo governo Giolitti, Milano, 1998; ALESSANDRO BROGI, Il trattato di Rapallo del 1920 e la politica danubiano-balcanica di Carlo Sforza, «Storia delle
Relazioni Internazionali», 1989, n. 1, p. 3 e ss.; PIETRO QUARONI, Il mondo di un ambasciatore, Milano, 1965, p. 315 e ss.
6 Barrère commentò la nomina di Contarini in termini entusiastici, notando che per la
prima volta da 25 anni gli uffici della Consulta sarebbero stati diretti da un uomo che era un
amico devoto della Francia e incline ad un’intesa stretta ed intima con Parigi piuttosto che
con Londra (AMAF, Afrique 1918-1940, Questions générales, vol. 185, Barrère al ministro
degli Esteri, 8 gennaio 1920). Per l’ambasciatore francese, Contarini desiderava un’intesa con
il Regno SHS e il miglioramento dei rapporti con Romania e Grecia; la sua elezione a segretario generale era stata dovuta allo stretto rapporto con Sforza, sottosegretario agli Esteri:
«Il s’entend parfaitement d’ailleurs avec le Comte Sforza dont les idées se confondent avec
les siennes, dont il est l’intime ami et qui a puissament contribuer à le porter au premier poste de la Consulta» (ibidem). Riguardo al ruolo di Barrère in quegli anni: ENRICO SERRA,
Camille Barrère e l’intesa italo-francese, Milano, 1950, p. 343 e ss. A proposito della vita e
carriera di Salvatore Contarini: LEGATUS [ROBERTO CANTALUPO], Vita diplomatica di Salvatore
Contarini (Italia tra Inghilterra e Russia), Roma, 1947; La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915). Repertorio bio-bibliografico dei funzionari del Ministero degli Affari
Esteri, Roma, 1987, pp. 207-208.
7 Sul favore di Sforza verso il movimento nazionalista turco kemalista: MICHELETTA, op.
cit., I; FABIO L. GRASSI, L’Italia e la questione turca (1919-1923). Opinione pubblica e politica estera, Torino, 1996.
8 SFORZA, Dalle pagine di diario. Il periodo prefascista, cit. p. 59.
194
LUCIANO MONZALI
co nell’Impero asburgico e presso il governo serbo in esilio a Corfù),
egli era consapevole delle divisioni esistenti in seno al nuovo Stato iugoslavo, e soprattutto della contrapposizione fra croati e serbi. Desiderava sfruttare politicamente queste divisioni e proprio per questo era
stato favorevole alle iniziative secessioniste anti-iugoslave dei dannunziani, al fine di intimidire il governo di Belgrado. Circondato da
Stati ostili e indebolito da forti lotte nazionali interne, il governo iugoslavo aveva interesse a migliorare i rapporti con Roma. A parere di
Sforza, un accordo territoriale sarebbe stato possibile sfruttando le divisioni interne agli iugoslavi, puntando, in particolare, a convincere i
serbi ad accettare il confine giuliano previsto dal patto di Londra e
Fiume indipendente in cambio della rinuncia italiana a rivendicare il
retroterra di Zara (abitato da una forte minoranza serba), il protettorato sull’Albania e la ricostituzione di un Montenegro indipendente.
Su un piano più generale, Sforza aveva ben percepito gli errori della
politica estera di Nitti, troppo ideologica ed astratta nel suo favore verso la Germania e nel suo fervore revisionista, ed era convinto della necessità di porre come base dell’azione internazionale dell’Italia un rapporto privilegiato con la Francia, l’unica grande potenza militare ed
economica nell’Europa continentale all’inizio degli anni Venti. Una
volta assicurata l’amicizia francese, l’Italia non aveva più nulla da temere dallo Stato iugoslavo, e il Regno SHS da potenziale minaccia diveniva uno strumento per la penetrazione italiana nell’Europa danubiana e balcanica. Molto più realista e uomo di governo di Nitti,
Giolitti condivideva le idee di Sforza. Seppur in fondo desideroso di
contrastare l’egemonia francese in Europa favorendo la ripresa politica ed economica della Germania9, il politico piemontese era consapevole dell’indispensabilità di buoni rapporti con Parigi. Presentando
il nuovo governo alla Camera, il presidente del Consiglio ribadì di volere mantenere i «rapporti più intimi e più cordiali coi Popoli che furono nostri alleati e nostri associati in guerra» e di desiderare relazioni
amichevoli con tutte le altre nazioni10. Riguardo alla Iugoslavia, Giolitti
espresse l’auspicio di creare un rapporto di amicizia «con quella Na9 Sui rapporti italo-tedeschi nei primi anni Venti: JOSEF MUHR, Die deutsch-italienischen
Beziehungen in der Ära des Ersten Weltkrieges (1914-1922), Göttingen, 1977; MARKUS DREIST,
Die deutsch-italienischen Beziehungen im Spannungsfeld der europäischen Politik 1918-1934,
Frankfurt, 2000; LÖNNE, Problemi ed aspetti della politica italiana nei confronti della Germania, cit.
10 GIOVANNI GIOLITTI, Discorsi parlamentari di Giovanni Giolitti, Roma, 1956, IV,
p. 1749, Camera dei deputati, tornata del 24 giugno 1920.
IL TRATTATO DI RAPALLO
195
zione», pur inviando una non troppo velata minaccia, che mostrava come il presidente del Consiglio fosse consapevole della difficile posizione iugoslava.
Credo che l’interesse della Jugoslavia alla pace sia per lo meno non inferiore all’interesse che ha l’Italia. Noi ci troviamo con questo vicino, il quale ha intorno a sé una quantità di popoli che non sono suoi amici, e non credo che esso abbia interesse, in nessun modo, e sotto qualunque forma, di mettersi in conflitto con l’Italia11.
Giolitti non si espresse in modo dettagliato sulle sue intenzioni circa il negoziato adriatico, a parte il convinto annuncio della volontà di
non inviare più truppe in Albania e di sostenere l’indipendenza albanese12.
Giolitti e Sforza, innanzitutto, si posero l’obiettivo di migliorare i
rapporti con Londra e Parigi13 (dopo la crisi politica di Wilson gli unici possibili sostenitori di Belgrado sul piano internazionale), al fine
di ottenere il consenso dei vecchi alleati circa le proprie idee sulla questione adriatica e di isolare diplomaticamente gli iugoslavi. Appena
formato il governo, Giolitti – visto da molti come il germanofilo per
antonomasia – ricevette gli ambasciatori francese e britannico presentandosi come desideroso di perseguire una politica di amicizia e
collaborazione con Parigi e Londra. A Barrère, per anni suo feroce avversario, il presidente del Consiglio dichiarò che bisognava ormai pensare al presente e al futuro, cercando «ce qui nous rapproche et non
ce qui nous diviserait»14. L’ambasciatore francese lo complimentò per
la scelta di Sforza al Ministero degli Esteri e il presidente del
Consiglio, che aveva voluto il diplomatico come ministro anche perché consapevole delle simpatie francesi per tale nomina, sottolineò che
il suo collaboratore avrebbe guidato la politica estera italiana con pienezza di poteri15. All’ambasciatore britannico Buchanan, Giolitti con11
Ivi, IV, p. 1755, Camera dei deputati, tornata del 9 luglio 1920.
Ibidem.
13 Sui primi contatti di Sforza con il governo di Parigi: DDF 1920, II, d. 109, Millerand
a Barrère, 14 giugno 1920.
14 AMAF, Afrique 1918-1940, Questions générales, vol. 185, Barrère al ministro degli
Esteri, 17 giugno 1920.
15 Ibidem. Sul favore francese alla nomina di Sforza: CHARLES-ROUX, Une grande
Ambassade, cit., p. 130; MICHELETTA, op. cit., I, p. 193; DDF 1920, II, d. 146. Barrère rimase molto favorevole all’azione di Sforza: AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 79, Barrère
al ministro degli Esteri, 9 agosto 1920.
12
196
LUCIANO MONZALI
fessò di essere stato ostile alla partecipazione italiana al conflitto mondiale, ma di essere ormai convinto della necessità di una stretta collaborazione ed amicizia con le potenze dell’Intesa16. Nei mesi successivi, consapevole del momento cruciale a cui era giunta la politica
estera italiana, lo statista s’impegnò per superare definitivamente i vecchi rancori con gli anglo-francesi. Giolitti decise d’incontrarsi personalmente con Lloyd George a Lucerna il 22 e il 23 agosto17. Oltre che
a chiarire le direttive generali della politica estera dei due Paesi, l’incontrò servì a Giolitti per chiedere il sostegno britannico alla chiusura della questione adriatica nei termini desiderati dall’Italia. Egli ribadì il bisogno di ottenere il confine italo-iugoslavo sulla cresta delle Alpi Giulie, sia per ragioni strategiche che per soddisfare l’opinione pubblica, insoddisfatta di quanto ottenuto dopo la guerra. La diplomazia britannica, come abbiamo visto, aveva ostacolato i tentativi
italiani di avere il confine del Monte Nevoso nel corso della Conferenza della Pace, ma Lloyd George, desideroso di mostrare la propria
benevolenza all’Italia, promise di fare pressioni su Belgrado per facilitare l’accordo. Il 12 e il 13 settembre Giolitti si recò a Aix-les-Bains
per incontrare il presidente del Consiglio francese, Millerand18. Anche
con i francesi il presidente del Consiglio insistette per ottenere il loro sostegno alla chiusura del contenzioso italo-iugoslavo in termini favorevoli all’Italia. Secondo Giolitti, la linea Wilson e quella Nitti erano inaccettabili ed insoddisfacenti: l’Italia doveva rivendicare il confine sul Monte Nevoso per ragioni strategiche. In Dalmazia era pronto a grandi concessioni, ma non poteva disinteressarsi della sorte degli italiani di Zara; irrinunciabili per l’Italia erano le isole di Cherso,
Unio, Lussin e Pelagosa19. Millerand si dimostrò disposto a sostenere
le tesi italiane. Ed in effetti nei giorni successivi il governo di Parigi
fece sapere a Belgrado di essere favorevole ad una sollecita conclusione della questione adriatica e al miglioramento dei rapporti italoiugoslavi20.
Nei primi mesi di vita del nuovo ministero, Giolitti, Sforza e Ivanoe
Bonomi (ministro della Guerra e personalità che svolse un ruolo atti16 DBFP, I, vol. 12, Buchanan a Curzon, 17 giugno 1920, d. 173; BDFA, II, F, 4, Buchanan
a Curzon, 18 giugno 1920, d. 165.
17 DBFP, I, 8, dd. 87, 88, 89; GIOLITTI, Memorie, cit., II, p. 572 e ss.; MICHELETTA, op.
cit., I, p. 230 e ss.
18 GIOLITTI, Memorie, cit., II, p. 576 e ss.; DDF 1920, II, dd. 212, 454.
19 DDF 1920, II, d. 454; GIOLITTI, Memorie, cit., II, p. 576.
20 LEDERER, op. cit., pp. 342-343; DDF 1920, II, d. 467.
IL TRATTATO DI RAPALLO
197
vo nella politica estera italiana del 1920-21) si concentrarono soprattutto sulla dimensione albanese della questione adriatica. Il 28 giugno
Giolitti e Sforza decisero d’inviare Aliotti, già rappresentante italiano
in Albania prima della guerra mondiale, per aprire un negoziato con
i capi albanesi in rivolta contro il corpo di occupazione italiano a
Valona21. I negoziati, nei quali ebbe una parte di rilievo Ahmed bey
Zogolli, produssero un protocollo d’intesa, il cosiddetto trattato di
Tirana22. Con questo accordo l’Italia riconobbe l’indipendenza albanese e s’impegnò a ritirare le sue truppe da Valona e dal resto dell’Albania; gli albanesi, a loro volta, riconobbero all’Italia il diritto di occupare militarmente l’isolotto di Saseno, posto di fronte a Valona. La
nuova politica albanese del governo Giolitti rafforzò la posizione internazionale dell’Italia ed inquietò non poco gli iugoslavi. L’11 agosto il principe reggente Alessandro non nascose al ministro plenipotenziario francese, Fontenay, la sua irritazione contro gli italiani. Per
Alessandro, Giolitti era un politico pericoloso ed imprevedibile, che
stava organizzando un vasto movimento nazionalista albanese contro
la Serbia ed aveva rinnegato le proposte confinarie che l’Italia aveva
presentato alla conferenza di Pallanza. Il timore iugoslavo era che il
governo di Roma, abbandonata l’Albania, procedesse unilateralmente all’annessione dei territori adriatici occupati23.
Realizzato il ritiro italiano dall’Albania, consapevole della crescente preoccupazione di Belgrado circa una possibile alleanza fra
l’Italia e il nazionalismo albanese, il governo di Roma intensificò i
contatti con gli iugoslavi. A metà agosto, uno stretto collaboratore di
Sforza, Carlo Emanuele a Prato, s’incontrò con Trumbic! a Parigi e comunicò al ministro degli Esteri iugoslavo la disponibilità dell’Italia a
riprendere in futuro i negoziati bilaterali sulla questione adriatica24.
21 Sulla politica albanese del governo Giolitti: PASTORELLI, L’Albania nella politica estera italiana, cit., p. 364 e ss.; VALLAURI, Il ritorno al potere di Giolitti, cit., pp. 78-81; ACS,
Carte Bonomi, b. 2, Badoglio a Bonomi, 6 luglio 1920. A proposito delle vicende politiche
dell’Albania in quegli anni: ANTONELLO BIAGINI, Storia dell’Albania, Milano, 1998; JOSEPH
SWIRE, Albania: The Rise of a Kingdom, London, 1929; BERND J. FISCHER, King Zog and the
Struggle for Stability in Albania, Boulder, 1984.
22 Sui negoziati che portarono all’accordo di Tirana: ACS, Carte Bonomi, b. 4, Aliotti a
Sforza, 12 e 17 luglio 1920; PASTORELLI, L’Albania nella politica estera italiana, cit., p. 395 e ss.
23 DDF 1920, II, d. 344. Circa i timori iugoslavi di un irrigidimento dell’atteggiamento
italiano nella questione adriatica: BDFA, II, F, 4, Young a Curzon, 10 giugno 1920 e 23 luglio 1920, dd. 162 e 187.
24 Sforza a Giolitti, 16 agosto 1920, in Dalle carte di Giovanni Giolitti. Quarant’anni di
politica italiana, Milano, 1962, III, d. 305.
198
LUCIANO MONZALI
Alla fine di agosto Sforza indicò agli iugoslavi quali erano le nuove
posizioni negoziali italiane. Egli diede istruzioni a Galanti, incaricato d’affari a Belgrado, di fare sapere a Trumbic! che l’Italia riteneva di
avere compiuto grandi concessioni politiche favorevoli alla Iugoslavia
ritirandosi da Valona ed accettando di non annettere Fiume; tutto ciò
dava al governo di Roma il diritto e il dovere «di non sacrificare delle garanzie militari quali il confine alpino ci assicura; per tutto il resto Trumbic! ci troverà conciliantissimi»25. La volontà italiana di migliorare i rapporti con Belgrado fu confermata dalla conclusione dell’accordo Trumbic!-Bertolini il 7 settembre 1920, che chiuse l’annosa
questione della destinazione del naviglio mercantile ex asburgico26.
Constatata la disponibilità iugoslava a riprendere i negoziati27, Sforza
decise d’inviare a Belgrado una missione ufficiosa per spiegare ulteriormente agli iugoslavi le intenzioni italiane. Che la diplomazia italiana puntasse su un’intesa privilegiata con i serbi fu chiaro dalla scelta dell’inviato: Giuseppe Volpi, già animatore di iniziative imprenditoriali in Montenegro e console onorario serbo a Venezia, era molto
conosciuto negli ambienti politici ed economici di Belgrado ed era noto per i suoi sentimenti amichevoli per la Serbia28. Giolitti e Sforza inviarono Volpi a Belgrado per spiegare le intenzioni italiane nella questione adriatica e per ottenere che, in occasione delle future trattative
bilaterali in Italia, insieme al dalmata croato Trumbic! venisse un altro
plenipotenziario «possibilmente un serbo e più precisamente Pasic»29.
Fra la fine di settembre e l’inizio di ottobre Volpi ebbe una serie di
colloqui con Trumbic! e Vesnic!, manifestando la volontà italiana di ottenere la frontiera strategica sul Monte Nevoso e l’indipendenza di Fiume e di Zara; in cambio l’Italia era pronta a chiudere definitivamente la questione montenegrina e a rispettare l’indipendenza dell’Albania30. Volpi ebbe la sensazione che il governo di Belgrado, in particolare i politici serbi, fosse desideroso di chiudere il contenzioso
adriatico, pur manifestando resistenze sulle rivendicazioni italiane in
Dalmazia.
25ACS,
Carte Giolitti, b. 3, Sforza alla Legazione italiana di Belgrado, 31 agosto 1920.
LEDERER, op. cit., pp. 340-341.
27 A proposito delle idee di Trumbic! sul negoziato con l’Italia: DDF 1920, II, d. 419.
28 ROMANO, Giuseppe Volpi, cit., p. 12 e ss.
29 LUCA RICCARDI (a cura di), Le trattative italo-jugoslave per il trattato di Rapallo nel
diario di Francesco Salata (20 settembre-5 novembre 1920), «Storia contemporanea», 1996,
n. 1, p. 129-149, citazione p. 139.
30 LEDERER, op. cit., pp. 343-344.
26
IL TRATTATO DI RAPALLO
199
Governo iugoslavo – Volpi riferì a Salata – ha interesse vivo regolare quistioni controverse con Italia: lo vuole tentare prima delle elezioni per la
Costituente indette per la fine di novembre. Conviene appoggiarsi su serbi
che danno a quistione adriatica peso molto minore. […] Per Dalmazia sembrano iugoslavi disposti a clausole favore per italiani e specialmente economiche, ma senza alcuna annessione né continentale né insulare. Ammetterebbero per Zara posizione autonomia ma fanno quistioni della conservazione
loro uffici ed istituti. Restano sorpresi della nostra insistenza su Cherso31.
In quei mesi Ziliotto, Ghiglianovich e i dirigenti dalmati si trovarono in una difficile posizione politica. A Zara e a Sebenico era forte
l’influenza dei dannunziani ostili a qualsiasi rinuncia territoriale in
Dalmazia e ad un negoziato con Belgrado: per i liberali nazionali era
difficile sfidare apertamente tale orientamento, perché rischiava di
metterli contro una parte rilevante della popolazione italiana. I capi liberali percepivano la pericolosità delle posizioni dannunziane che, rifiutando ogni negoziato e compromesso territoriale, rischiavano di
compromettere la possibilità di garantire almeno l’annessione di Zara
all’Italia. Ghiglianovich e Ziliotto avevano partecipato in prima persona ai lunghi negoziati italo-iugoslavi che si erano svolti nel corso
del 1919-20: consapevoli del rischio, corso con il governo Nitti, di vedere la città ceduta allo Stato iugoslavo, essi ritenevano giustamente
l’eventuale annessione di Zara all’Italia come un successo che avrebbe almeno salvato la città e il nucleo più importante dell’italianità dalmatica. La difficile situazione politica a Zara spiega l’ambiguità del
comportamento di Ziliotto e dei capi liberali nazionali fra l’ottobre e
il dicembre 1920. Pubblicamente Ziliotto, Krekich, Ghiglianovich e
lo stesso Salvi, assecondarono le posizioni intransigenti dei dannunziani e dei nazionalisti. Il 13 ottobre, il Consiglio comunale e la Camera di commercio di Zara, nonché i rappresentanti dei Fasci Nazionali
Italiani della Dalmazia inviarono al Senato e alla Camera un proclama che enunciò la loro indignazione «per le notizie che in rapporto
ad un imminente convegno italo-iugoslavo attribuiscono ai rappresentanti del Governo Italiano proposito rinunzie esiziali della Dalmazia
e delle isole occupate dalle truppe amministrate da funzionari di Italia
e nettamente assegnate all’Italia come condizione essenziale della sua
entrata in guerra»32. I Fasci Nazionali e l’amministrazione comunale
31 RICCARDI, Le trattative italo-jugoslave,
32 ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Colonna a
cit., p. 141.
Sforza, 16 ottobre 1920, allegato.
200
LUCIANO MONZALI
di Zara dichiararono di accettare esclusivamente l’applicazione immediata del Patto di Londra33. Contemporaneamente a queste plateali manifestazioni pubbliche i capi liberali nazionali, in maniera riservata, collaborarono con l’esecutivo nei negoziati italo-iugoslavi con
l’obiettivo di ottenere l’annessione di Zara all’Italia. In seno al governo
Francesco Salata era il punto di riferimento per i dalmati italiani. Il
politico di Cherso lavorò strettamente con Sforza nella preparazione
dei negoziati adriatici e si batté, d’intesa con Ziliotto, per convincere
il governo di Roma a chiedere l’annessione di Zara all’Italia34. Nel corso del mese di ottobre Salata s’incontrò più volte con Ziliotto, Ghiglianovich e Salvi a Roma per studiare le richieste dei dalmati e le eventuali clausole da inserire nel futuro accordo con Belgrado. Ziliotto e
Ghiglianovich chiesero che il governo insistesse per l’annessione italiana dell’intero capitanato distrettuale zaratino e, almeno, di alcune
isole vicine a Zara35. Dal diario di Salata, sappiamo che Sforza si convinse della necessità d’insistere per ottenere l’annessione di Zara e dell’opportunità di pensare al futuro dei dalmati italiani che, dentro e fuori i territori occupati, sarebbero rimasti sotto la sovranità iugoslava36.
A tal fine il governo riprese a riflettere su possibili forme di tutela della minoranza italiana. Problema importante da risolvere era la garanzia per i dalmati italiani di avere sia il diritto dell’opzione per la cittadinanza italiana sia quello di non mutare residenza. Il governo di
Roma, in ogni caso, desiderava ottenere garanzie per la minoranza italiana in Dalmazia senza concedere nulla sul piano internazionale a tutela delle popolazioni croate, slovene e serbe che avrebbero fatto parte del Regno d’Italia37. Alla fine di ottobre Ziliotto fece pervenire a
Sforza due promemoria, il primo dedicato alla tutela dei diritti degli
italiani che sarebbero rimasti nella Dalmazia iugoslava, il secondo che
trattava l’assetto territoriale di Zara in caso di annessione all’Italia38.
Per gli italiani che sarebbero restati nello Stato iugoslavo, Ziliotto chie-
33
34
Ibidem.
RICCARDI, Le trattative italo-iugoslave, cit., p. 145; ID., Francesco Salata, cit., p. 256
e ss.
35
RICCARDI, Le trattative italo-iugoslave, cit., p. 147.
RICCARDI, Le trattative italo-iugoslave, cit., p. 145.
37 ASMAE, Carte Sforza, b. 7, RICCI BUSATTI, Protezione delle minoranze, 9 ottobre 1920.
38 Questi due memoriali di Ziliotto, Diritti degl’italiani che resteranno in Jugoslavia, e
Zara, sono riprodotti in: KREKICH, L’opera amministrativa e politica di Luigi Ziliotto, cit.,
pp. 134-136; LUIGI ZILIOTTO, In difesa di Zara, prima e dopo Rapallo, «La Rivista dalmatica», 1982, n. 4, pp. 270-274.
36
IL TRATTATO DI RAPALLO
201
se il diritto di optare per la cittadinanza italiana con la facoltà di conservare la residenza in Iugoslavia, la possibilità di esercitare anche
quelle professioni per le quali era richiesta la cittadinanza dello Stato
e diritti elettorali attivi e passivi. Importanti, poi, erano i diritti d’istituire scuole italiane di qualunque grado, di essere esentati da tutte le
imposte con le quali si sarebbero sostenute le spese scolastiche e di
potere usare la lingua italiana presso qualunque autorità dello Stato
iugoslavo, sia giudiziaria che amministrativa. Lo Stato iugoslavo, infine, avrebbe dovuto rispettare il diritto di riunione e di associazione
delle collettività italiane e consentire agli italiani che si sarebbero trasferiti all’estero «di portar seco la propria sostanza mobile ed il ricavato di quella immobile esente da qualsiasi tassa, trattenute od altra
limitazione»39. Nel promemoria su Zara, in linea di principio Ziliotto
dichiarò di non concordare con la rinuncia ai confini dalmati previsti
dal patto di Londra. Accettò, però, di ipotizzare possibili confini per
il territorio di Zara italiana. Secondo il politico dalmata, la rinuncia a
qualunque parte del capitanato distrettuale di Zara (comprendente i comuni di Zara, Zaravecchia, Pago, Arbe, Nona, Novegradi, Sale, Selve)
avrebbe arrecato seri danni alla città. In caso di necessità si poteva considerare l’abbandono di Zaravecchia, Pago, Arbe, Novegradi e Selve;
ma un limite invalicabile doveva essere l’annessione italiana dei comuni di Zara, Nona e Sale, con una popolazione complessiva di 52.000
abitanti. Ziliotto concludeva la memoria ricordando l’importanza di
raggiungere intese per l’allacciamento di Zara alla linea ferroviaria
Spalato-Knin40.
Nel corso del mese di ottobre la posizione diplomatica iugoslava in campo internazionale peggiorò drammaticamente. Il 10 ottobre si tenne un plebiscito a Klagenfurt per decidere sulla futura appartenenza della città. Una chiara maggioranza votò a favore dell’appartenenza all’Austria, ma tale decisione non fu accettata dagli
sloveni e dallo Stato iugoslavo, che reagirono con la forza occupando militarmente la Carinzia meridionale. L’atto di forza iugoslavo irritò le grandi potenze alleate, che inviarono un ultimatum a Belgrado
intimando il ritiro e il rispetto dell’esito del plebiscito: per evitare un
conflitto armato il governo iugoslavo obbedì e si ritirò da Klagen39 LUIGI ZILIOTTO, Diritti degl’italiani che resteranno in Jugoslavia, edito in ZILIOTTO,
In difesa di Zara prima e dopo Rapallo, cit., pp. 271-272.
40 LUIGI ZILIOTTO, Zara, edito in ZILIOTTO, In difesa di Zara prima e dopo Rapallo, cit.,
pp. 272-273.
202
LUCIANO MONZALI
furt41. Quest’incidente sembrò confermare la tesi italiana circa il carattere massimalista ed estremista delle pretese territoriali iugoslave.
Ormai isolato in Europa, proprio in quelle settimane il governo iugoslavo perse il sostegno politico di quello che era stato il suo principale alleato fra il 1918 e il 1920, gli Stati Uniti. Nell’autunno 1920 l’indebolimento di Wilson divenne sempre più chiaro con la crisi del partito democratico e il potenziamento delle forze isolazioniste, ostili alla Società delle Nazioni e ad un attivo intervento americano nella politica europea. Non a caso l’esito delle elezioni presidenziali americane fu disastroso per i democratici, il cui candidato fu duramente
sconfitto dal repubblicano Harding all’inizio di novembre42. In tale
contesto internazionale e con una situazione interna sempre più difficile, il governo di Belgrado fu inevitabilmente costretto a considerare la possibilità di rinunce territoriali a favore dell’Italia. Da parte italiana, ci si rese conto che era giunto il momento per chiudere definitivamente il contenzioso con il Regno SHS. In ottobre Giolitti e Sforza
comunicarono a Belgrado la loro disponibilità ad un incontro bilaterale decisivo, e a tal fine fu deciso di organizzare la conferenza italoiugoslava nella località ligure di Santa Margherita, vicino Rapallo.
Come plenipotenziari italiani furono scelti Giolitti, Sforza e Bonomi.
Il ministro della Guerra, socialista riformista già vicino a Bissolati, si
mostrò riluttante a partecipare personalmente ai negoziati, temendo
che un mancato accordo o una soluzione insoddisfacente della questione adriatica potessero suscitare forti critiche da parte dell’opinione pubblica italiana; subordinò, quindi, la sua partecipazione all’accettazione di alcune condizioni da parte di Giolitti. Secondo Bonomi,
il programma territoriale italiano doveva consistere nel confine sul
Monte Nevoso, nell’indipendenza dello Stato di Fiume e nell’annessione di Cherso e Lussino, e di Lissa e Lagosta (o almeno di uno di
questi due sistemi insulari). Riguardo alla Dalmazia, il ministro della
Guerra chiedeva la cessione delle isole e della Dalmazia continentale
a favore della Iugoslavia, «rivendicando però l’indipendenza di Zara e
[il] diritto agli italiani di Dalmazia di optare per la cittadinanza italiana conservando il loro domicilio e i loro beni»43. Qualora un accordo
41
LEDERER, op. cit., p. 344.
42 Al riguardo: DUROSELLE, De Wilson
à Roosevelt, cit., p. 131 e ss.
ACS, Carte Bonomi, b. 4, [IVANOE BONOMI], Mie condizioni per accettare ufficio di
plenipotenziario, s.d. (ma verosimilmente 27 ottobre 1920). Al riguardo: RICCARDI, Francesco
Salata, cit., p. 263.
43
IL TRATTATO DI RAPALLO
203
con gli iugoslavi non fosse possibile, occorreva procedere all’annessione dei territori della Venezia Giulia compresi nel patto di Londra,
di Cherso e del gruppo di Lussino, riconoscere l’indipendenza di Fiume
e mantenere l’occupazione della Dalmazia già sotto controllo italiano,
con l’obiettivo di discuterne il futuro in connessione con Fiume. Le condizioni di Bonomi furono accettate e il ministro partecipò in prima persona ai negoziati in Liguria. Il 30 ottobre in una riunione alla Consulta,
alla quale parteciparono Sforza, Bonomi, il ministro della Marina Sechi,
il capo di stato maggiore dell’esercito Badoglio e quello della Marina,
Acton, furono definite le posizioni negoziali della delegazione italiana. Salata, presente alla riunione, le riassunse così nel suo diario:
Monte Nevoso, linea di confine verso nordovest (Idria tenere), contiguità
territoriale con Fiume esclusa Castua (schizzi preparerà Badoglio) regime porto e ferrovie; ferrovia event[ualmente] da costruire Gottschee Delnice;
Dalmazia, Sebenico, isole, concludendo con Zara e Nin od una isola (Lissa
o Lagosta)44.
Riguardo alla Dalmazia, quindi, il governo italiano pensava di iniziare il negoziato proponendo una linea confinaria massima, comprendente Zara, Sebenico e molte isole dalmate; nel corso delle trattative si era pronti a fare concessioni per arrivare almeno ad ottenere
l’annessione di Zara e Nin/Nona o di un’isola, Lagosta o Lissa.
I negoziati italo-iugoslavi ebbero inizio l’8 novembre 192045.
Trumbic!, Vesnic! e Kos#ta Stojanovic!, ministro delle Finanze, erano i
plenipotenziari della delegazione serbo-croato-slovena e condussero
le trattative per il governo di Belgrado. Nel primo giorno dei negoziati Sforza dichiarò agli iugoslavi che l’Italia desiderava sinceramente
raggiungere un accordo, che avrebbe apportato vantaggi politici ed
economici ad entrambe le parti. I punti fondamentali delle richieste
italiane erano il confine giuliano sul Monte Nevoso, la contiguità territoriale con Fiume e l’annessione di Zara46. Bonomi, a sua volta, sot-
44
RICCARDI, Le trattative italo-iugoslave, cit., p. 148; ID., Francesco Salata, cit., p. 264.
Sui negoziati di Rapallo: SFORZA, Jugoslavia. Storia e ricordi, cit., p. 154 e ss.;
MELCHIONNI, La politica estera di Carlo Sforza nel 1920-21, cit., p. 536 e ss.; LEDERER, op.
cit., p. 350 e ss.; RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 264 e ss.; MARIO DASSOVICH, I molti
problemi dell’Italia al confine orientale. I. Dall’armistizio di Cormons alla decadenza del
patto Mussolini-Pasic! (1866-1929), Udine, 1989, p. 197 e ss.; ATTILIO TAMARO, Venti anni di
storia, Roma, 1971, p. 96 e ss.
46 Sforza a Giolitti, 8 novembre 1920, in Dalle carte di Giovanni Giolitti, cit., III, d. 316.
45
204
LUCIANO MONZALI
tolineò il carattere puramente difensivo dei confini richiesti. Da parte iugoslava si propose un confine giuliano sulla base della linea
Wilson e si sottolineò l’importanza dell’intesa fra i due Paesi come
baluardo anti-asburgico e anti-bolscevico. Sforza fece capire alla controparte che in caso di fallimento del negoziato l’Italia sarebbe ricorsa ad atti unilaterali per risolvere la questione adriatica.
Da parte nostra sono state fatte allusioni chiare per quanto discrete a situazione interna ed estera che rendevaci non solo doverosa ma anche possibile soluzione problema con atti nostri, in caso di insuccesso trattative. Fu evidente impressione fatta su Yugoslavi da questo nostro atteggiamento47.
In serata, privatamente, Sforza ebbe un lungo colloquio con
Trumbic!, al quale intimò maggiore realismo e non troppo velate minacce, sfruttando la crescente fragilità interna dello Stato iugoslavo.
Gli mostrai – riferì il ministro degli Esteri a Giolitti – come la loro resistenza per il Nevoso comprometteva le trattative e con esse non solo il nostro programma di intima intesa politica futura, ma forse anche le sorti stesse della Jugoslavia che continuerebbe essere insidiata da Ungheria, da
Montenegro, ecc. Invece il trattato con noi sarebbe la consacrazione finale
della sua improvvisa creazione48.
Da parte sua Giolitti, ancora lontano da Rapallo, chiese alla delegazione d’insistere sulla linea della frontiera sul Monte Nevoso «come
condizione assoluta accordo»49. Il 9 novembre la delegazione italiana
specificò ulteriormente le sue proposte territoriali. L’Italia chiedeva il
Monte Nevoso e la contiguità territoriale con Fiume, ma era pronta a
rinunciare a Longatico e Castua a favore della Iugoslavia. Fiume doveva essere indipendente e Zara italiana; alle minoranze italiane dalmate doveva essere garantita un’adeguata protezione. Fra le isole adriatiche il governo di Roma chiedeva l’annessione di Cherso, Lussino e
Lagosta, nonché di Lissa se non fossero state offerte garanzie scritte
contro il carattere offensivo del porto di Sebenico. Come concessioni
al Regno serbo-croato-sloveno venivano promessi accordi commerciali e trattati politici aventi il fine di garantire la Iugoslavia contro la re-
47
Ibidem.
Carte Giolitti, b. 3, Sforza a Giolitti, 9 novembre 1920.
49 ASMAE, Carte Salata, b. 206, Giolitti a Sforza, 9 novembre 1920.
48 ACS,
IL TRATTATO DI RAPALLO
205
staurazione degli Asburgo50. La sera del 9 Trumbic! comunicò la risposta della delegazione iugoslava. Gli iugoslavi accettavano di lasciare
all’Italia il Monte Nevoso, ma chiedevano gran parte dell’Istria orientale e rifiutavano la contiguità fra Fiume e il territorio italiano. Trumbic!
si dichiarò disposto a riconoscere l’indipendenza di Fiume, purché
Porto Baros fosse annesso alla Iugoslavia. La delegazione SHS, invece, era intransigente circa la Dalmazia: gli iugoslavi chiedevano tutta
la Dalmazia continentale e tutte le isole eccetto Lussino51.
Giolitti confermò il suo disinteresse verso la Dalmazia, telegrafando, la mattina del 10, alla delegazione la direttiva di essere flessibili su Zara.
Parmi molto difficile insistere su annessione all’Italia di Zara che non ha
continuità con nostro territorio. Basterebbe sua indipendenza o autonomia.
Spero in conclusione accordo52.
In effetti la questione dalmatica si rivelò uno dei grandi nodi da
sciogliere nel corso del negoziato. Sforza preferì insistere sulla richiesta dell’annessione di Zara, ma la delegazione italiana incontrò
gravi resistenze nella definizione del territorio zaratino e delle garanzie per i dalmati italiani in Iugoslavia. Francesco Salata fu incaricato
da Sforza di trattare la questione dalmatica nel corso dei negoziati e
fu protagonista di serrati colloqui con lo spalatino Trumbic!. Salata
cercò di battersi per ottenere il riconoscimento delle richieste dei dalmati italiani, come definite dai suoi amici Ziliotto e Ghiglianovich.
Riguardo a Zara, fece pressioni perché venissero annessi all’Italia non
solo la città, ma anche tutto il comune di Zara e varie isole circostanti, come Ugliano, Selve, Premuda, Melada; circa la minoranza nella
Dalmazia iugoslava, si sforzò perché fosse riconosciuto il diritto degli italiani di optare per la cittadinanza italiana senza l’obbligo di cambiare la residenza e di abbandonare il territorio iugoslavo53. Trumbic!
insistette perché l’Italia annettesse solo la città di Zara, senza i vari
centri che costituivano il suo comune, ma per Salata il controllo dell’intero territorio comunale era irrinunciabile.
50 ACS,
Carte Giolitti, b. 3, Sforza a Giolitti, 9 novembre 1920, tel. n. 272/4.
Ibidem.
52 ASMAE, Carte Sforza, b. 7, Giolitti a Sforza, 10 novembre 1920.
53 ASMAE, Carte Sforza, b. 7, Intercettazione microfonica n. 4 (salotto jugoslavo), 9 novembre 1920.
51
206
LUCIANO MONZALI
Se Zara dovesse essere amputata da un territorio più o meno ristretto, essa non potrebbe vivere. Una città non può esistere senza acqua, senza cimitero [manca]. Noi non possiamo acconsentire alla cessione di Zara, occorre
che Zara italiana resti tale, perché a Zara non è possibile abbassare la nostra
bandiera una volta innalzata54.
In seno alla delegazione iugoslava la richiesta italiana di Zara suscitò irritazione, particolarmente nei dalmati croati e nei serbi. Per
Trumbic!, Zara era «una città di piccoli negozianti, macellai ed altra
gente minuta, che hanno tradito la loro lingua e nazionalità essendo
tutti di origine slava». Ma il politico dalmata era pronto ad accettare
l’ipotesi di Zara italiana: innanzitutto, perché con il tempo la Iugoslavia unitaria avrebbe potuto riconquistarla, essendo, a suo avviso,
l’Italia uno Stato in decadenza; poi perché era urgente stabilizzare lo
Stato unitario iugoslavo ed evitare pericolose avventure militari55. Il
10 novembre la delegazione italiana presentò un progetto di trattato
che venne discusso con gli iugoslavi nel pomeriggio. Gli iugoslavi si
erano ormai rassegnati al confine sul Monte Nevoso, ma insistettero
per ottenere Porto Baros e resistettero alle richieste italiane in Dalmazia. Trumbic! propose che l’Italia annettesse solo la città di Zara «dentro le mura», oppure che accettasse la formula della città libera. La
Iugoslavia non poteva accettare che il governo di Roma entrasse «nel
cuore vivo della Dalmazia».
L’Italia ha sempre sostenuto – rilevò il ministro dalmata – l’italianità di
Zara e l’italianità riguarda solamente la città, non il comune. Non è da credere che Zara abbia bisogno del comune per vivere. Per vivere ha bisogno
dell’intera Dalmazia. Colla nuova sistemazione Zara è destinata a perdere
l’importanza che aveva prima come capitale della Dalmazia56.
Sforza e Bonomi sostennero che Zara aveva bisogno di un piccolo hinterland per sopravvivere. Vi erano anche ragioni di politica interna che spingevano la delegazione italiana ad insistere su Zara.
La nostra richiesta – rilevò Sforza – esclude ogni idea politica, ogni intenzione di mettere il naso negli affari della Dalmazia. Con la soluzione pro54 ASMAE, Carte Sforza, b. 7, Intercettazione microfonica n. 5 (salotto jugoslavo), 10
novembre 1920. Al riguardo anche RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 266.
55 Intercettazione microfonica n. 5 (salotto jugoslavo), 10 novembre 1920, cit.
56 ASMAE, Carte Sforza, b. 7, Convegno di Rapallo. Seduta del 10 novembre 1920.
IL TRATTATO DI RAPALLO
207
posta da noi siamo sicuri che sapremo affrontare la campagna della stampa
italiana che attaccherà certamente la Delegazione per la sua rinuncia sulla
Dalmazia57.
Nel progetto di trattato, la delegazione italiana affrontò anche il tema della protezione degli italiani nella Dalmazia iugoslava. In uno specifico articolo (il quinto, che nella versione finale del trattato sarebbe diventato il settimo) veniva ricordato il valore delle disposizioni del
trattato di Saint Germain, a cui il governo di Belgrado aveva aderito
il 5 dicembre 1919, e in aggiunta ad esso si stabiliva «con particolare riguardo ai cittadini di nazionalità italiana e agli interessi italiani in
Dalmazia» una serie di garanzie58. Le concessioni di carattere economico in possesso di società o cittadini italiani sarebbero state riconosciute dal Regno SHS. I dalmati italiani avrebbero avuto il diritto di
«stabilire, dirigere o controllare a proprie spese istituzioni sociali, di
beneficienza e di culto, scuole o altri stabilimenti di educazione».
Inoltre avrebbero potuto optare per la cittadinanza italiana senza l’obbligo di trasferire il proprio domicilio fuori dal territorio del Regno
SHS, ed avrebbero goduto del diritto al libero uso della propria lingua e della propria religione. In un protocollo annesso al progetto si
ipotizzava di garantire ai cittadini italiani l’esenzione da restrizioni od
esclusioni circa l’esercizio delle arti, professioni, commerci e industrie
che non fossero applicabili egualmente a tutti gli stranieri, nonché la
protezione da tasse, oneri e imposte diverse da quelle applicate ai sudditi iugoslavi; infine si prevedeva la tutela di società di cui i cittadini
italiani fossero soci per almeno un terzo59. La delegazione italiana,
quindi, pensava ancora di assicurare forme di protezione sia per i dalmati italiani di cittadinanza iugoslava sia per i futuri optanti a favore
della cittadinanza italiana.
L’11 novembre Giolitti giunse a Santa Margherita e i negoziati entrarono nella loro fase finale. La questione dalmata rimase al centro
delle trattative. La delegazione iugoslava chiese che fosse riconsiderata la questione di Lagosta, isola abitata in grande prevalenza da dalmati croati, ma Giolitti fu intransigente.
57
Ibidem.
ACS, Carte Bonomi, b. 4, Testo non definitivo, s.d.: è una bozza del progetto di accordo presentato da Sforza e Bonomi alla delegazione iugoslava il 10 novembre 1920.
59 Ibidem.
58
208
LUCIANO MONZALI
In Italia – dichiarò il presidente del Consiglio – esiste un gran fanatismo
per la Dalmazia e per il Patto di Londra. Il Governo si agita tra grandi difficoltà: rinuncia alla parte della Dalmazia assegnataci, ma deve salvare tuttavia qualche cosa da non creare uno stato di animo tale che possa costituire
un ostacolo alla riappacificazione con il Regno S.C.S.60.
La delegazione iugoslava rifiutò anche di concedere un retroterra
alla città di Zara, in caso di sua annessione all’Italia. Nel pomeriggio
dell’11 Salata ribadì a Trumbic! che l’Italia chiedeva la sovranità su tutto il comune di Zara, comprese le isole di Selve, Premuda e Melada.
Il comune di Zara aveva una propria configurazione storica che andava preservata; inoltre era un’unità economica e fisica che, per essere autosufficiente, doveva essere mantenuta integra61. Trumbic! si dimostrò intransigente al riguardo. Solo il centro storico di Zara era italiano e poteva passare all’Italia; il retroterra e le isole erano croate e
lo Stato iugoslavo non poteva rinunciarvi. Il ministro spalatino vedeva nell’insistenza italiana su Zara una potenziale minaccia per il Regno
iugoslavo.
Io penso che l’Italia faccia un gioco con noi e che in Dalmazia voglia
crearsi una testa di ponte. Zara sia italiana ma non il territorio62.
Trumbic! si dichiarò pure ostile alla richiesta di garanzie giuridiche
specifiche per gli italiani della Dalmazia iugoslava e che questi potessero optare per la cittadinanza italiana: essi erano cittadini iugoslavi
di nazionalità italiana e avrebbero goduto dei diritti previsti per tutte
le altre minoranze in Iugoslavia63. Per la delegazione iugoslava la concessione di particolari diritti culturali, scolastici ed economici alla minoranza italiana in Dalmazia era un mezzo su cui puntava l’Italia per
sviluppare la sua influenza nella regione e affermare la propria egemonia. Il fatto, poi, che il Regno SHS assumesse formalmente impegni unilaterali verso la minoranza italiana senza che l’Italia facesse altrettanto per le popolazioni slovene, croate e serbe presenti nel proprio territorio, era considerato qualcosa di umiliante, che riduceva lo
60 ASMAE,
Carte Sforza, b. 7, Convegno di Rapallo. Seduta dell’11 novembre 1920.
ASMAE, Carte Sforza, b. 7, Intercettazione microfonica n. 8 (salotto jugoslavo), 11
ottobre 1920 (ma novembre 1920).
62 Ibidem.
63 Ibidem.
61
IL TRATTATO DI RAPALLO
209
Stato SHS «ad una specie di colonia»64. La mattina del 12 novembre
si ebbe la seduta finale dei negoziati. La questione di Zara venne finalmente risolta. Trumbic! affermò che la massima concessione a cui
la delegazione iugoslava poteva arrivare era «dare all’Italia intorno a
Zara un piccolo territorio perché possano funzionare servizi pubblici
(cimitero e acquedotto) che interessano l’Italia, e cioè oltre la città e
il comune censuario (frazione) di Zara, il comune censuario di Borgo
Erizzo e di Boccagnazzo»65.
Salata enunciò le nuove richieste italiane, ulteriormente ridotte rispetto al giorno prima.
È assolutamente necessario per l’Italia possedere la rada di Diclo sopra
Zara e Cerno che costituisce il deposito dell’acquedotto di Boccagnazzo. Si
tratta di avere un piccolo retroterra al sud come l’abbiamo a nord. Inoltre chiede l’isola di Ugliano, pilastro della porta di Zara. L’Italia, nell’intento di giungere ad un accordo completo, ha ridotto al minimo le sue richieste66.
Fu il delegato serbo, Vesnic!, a fare il primo passo per giungere al
compromesso su Zara. Egli accettò di fare le concessioni riguardo alla terraferma, ma non sulle isole di fronte a Zara. Desideroso di chiudere il negoziato, Giolitti accettò le proposte del delegato serbo, e rinunciò alla richiesta dell’isola di Ugliano. La delegazione iugoslava,
poi, sollevò obiezioni sull’articolo del progetto di trattato dedicato alla protezione della minoranza italiana in Dalmazia. Vesnic! osservò a
tale riguardo:
La delegazione jugoslava non può accettare l’articolo così redatto perché
mette lo Stato S.C.S. in evidenti condizioni di inferiorità. Con l’impegno di
un trattato l’Italia viene a creare delle scuole e altri instituti italiani nel territorio S.C.S. Ciò ricorda molto da vicino le capitolazioni. Si preoccupa altresì della costituzione di un precedente che domani può essere facilmente invocato da altri Stati che si trovano nelle stesse condizioni dell’Italia67.
Il governo accettò di modificare il progetto di articolo, rendendolo meno dettagliato nella specificazione dei diritti culturali e politici
64 ASMAE, Carte Sforza, b. 7, Intercettazione microfonica n. 9 (salotto jugoslavo), 12
novembre 1920.
65ASMAE, Carte Sforza, b. 7, Convegno di Rapallo. Seduta del 12 novembre 1920.
66 Ibidem.
67 Ibidem.
210
LUCIANO MONZALI
della minoranza italiana in Dalmazia68.
Finalmente il 12 novembre 1920 i due governi italiano e iugoslavo firmarono il trattato che chiudeva il contenzioso confinario fra i
due Paesi, e che sarebbe stato noto come accordo di Rapallo. L’Italia
ottenne il controllo di tutta la Venezia Giulia fino al Monte Maggiore
e al Nevoso69. Il problema di Fiume veniva temporaneamente risolto
con la costituzione dello Stato libero fiumano: soluzione però transitoria perché i serbi avevano accettato di fare alcune concessioni territoriali solo in cambio della promessa di assumere il controllo e l’uso
di Porto Baros, settore del porto di Fiume, promessa enunciata in uno
scambio di lettere segrete fra Sforza e Trumbic!70. Gli articoli II e III
definirono l’assetto territoriale in Dalmazia. Zara ed un piccolo territorio circostante (costituito dalla città e dal comune censuario di Zara,
dalle frazioni di Borgo Erizzo, Cerno, Boccagnazzo e da parte del comune censuario di Diclo) avrebbero fatto parte del Regno d’Italia. Era
prevista la futura conclusione di una convenzione per regolare le relazioni di Zara con quella parte del suo antico comune passata al
Regno SHS e con la provincia della Dalmazia iugoslava, e per risolvere il problema del riparto dei beni provinciali, comunali e degli archivi. L’Italia otteneva anche il possesso delle isole di Cherso, Lussino,
Lagosta e Pelagosa, mentre tutto il resto della Dalmazia veniva riconosciuto parte del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. I confini dei
rispettivi territori sarebbero stati tracciati sul terreno da Commissioni
di delimitazione composte per metà da delegati del Regno d’Italia e
per metà di delegati del Regno SHS. In caso di divergenze sarebbe stato sollecitato «l’arbitrato inappellabile» del presidente della Confederazione elvetica.
L’articolo VII prevedeva alcune garanzie a protezione degli italiani della Dalmazia iugoslava. Il Regno SHS dichiarava di riconoscere
a favore «dei cittadini italiani e degli interessi italiani in Dalmazia»:
1°) Le concessioni di carattere economico fatte dal Governo e da enti pubblici degli Stati ai quali è succeduto il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, a
68
Ibidem.
Il testo degli accordi di Rapallo (convenzione antiasburgica e accordo confinario) è
edito in AMEDEO GIANNINI, Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia,
Roma, 1934, p. 36 e ss.
70 Al riguardo: RUSINOW, Italy’s Austrian Heritage, cit., p. 147; DANILO L. MASSAGRANDE,
Italia e Fiume 1921-1924 dal “Natale di sangue” all’annessione, Milano, 1982, p. 177.
69
IL TRATTATO DI RAPALLO
211
società o cittadini italiani, o da questi possedute in virtù di titoli legali di cessione fino al 12 novembre 1920, sono pienamente rispettate, obbligandosi il
Governo dei Serbi, Croati e Sloveni a mantenere tutti gli impegni assunti dai
Governi anteriori.
2°) Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni conviene che gli Italiani pertinenti fino al 3 novembre 1918 al territorio della cessata Monarchia austroungarica il quale in virtù dei trattati di pace con l’Austria e con l’Ungheria e
del presente trattato è riconosciuto come facente parte del Regno dei Serbi,
Croati e Sloveni, avranno il diritto di optare per la cittadinanza italiana entro
un anno dalla entrata in vigore del presente trattato, e li esenta dall’obbligo
di trasferire il proprio domicilio fuori del territorio del Regno predetto. Essi
conserveranno il libero uso della propria lingua ed il libero uso della propria
religione, con tutte le facoltà inerenti a queste libertà.
3°) Le lauree o altri titoli universitari già conseguiti da cittadini del Regno
dei Serbi, Croati e Sloveni in università o in altri istituti di studi superiori del
Regno d’Italia saranno riconosciuti dal Governo dei Serbi, Croati e Sloveni
come validi nel suo territorio e conferiranno diritti professionali pari a quelli derivanti dalle lauree e dai titoli ottenuti presso le università e gli istituti di
studi superiori del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Formerà oggetto di ulteriori accordi quanto riguarda la validità degli studi superiori che vengano compiuti da sudditi italiani nel Regno dei Serbi,
Croati e Sloveni, e da sudditi italiani nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni,
e da sudditi italiani nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in Italia71.
Con quest’articolo il governo italiano otteneva un’importante concessione dal governo di Belgrado: gli italiani di Dalmazia avrebbero
avuto la possibilità di optare per la cittadinanza italiana, pur conservando il diritto alla residenza nello Stato iugoslavo, diritto alla residenza che i trattati per le minoranze conclusi nel settembre 1919 non
prevedevano. In cambio di questa concessione, però, l’Italia rinunciò
a chiedere una reale tutela per quei dalmati di nazionalità italiana che
avrebbero scelto la cittadinanza iugoslava: non a caso l’articolo non
faceva alcun richiamo al trattato di Saint Germain e agli accordi per
le minoranze ad esso collegati. Di fatto l’Italia s’impegnò a proteggere i diritti linguistici e culturali solo di quei dalmati che avrebbero
optato per la cittadinanza italiana, abbandonando al proprio destino gli
italiani di Dalmazia che, per svariate ragioni, avrebbero scelto la cittadinanza iugoslava. L’articolo VII nella sua versione finale, poi, era
71
e ss.
GIANNINI, Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, cit., p. 36
212
LUCIANO MONZALI
assai meno dettagliato del progetto iniziale nella definizione dei diritti dei cittadini italiani in Iugoslavia. Non a caso il contenuto poco
preciso dei capoversi avrebbe creato controversie nell’applicazione della clausola.
La conclusione del trattato di Rapallo rispondeva al disegno strategico di Sforza, condiviso da Giolitti, di creare una solida e forte collaborazione politica ed economica fra l’Italia e lo Stato iugoslavo, perno su cui costruire un ruolo importante per la politica estera italiana
in Europa centro-orientale e nei Balcani72. Al fine di rendere più intimi i rapporti italo-iugoslavi, l’articolo VI del trattato prevedeva la convocazione di una conferenza di tecnici entro due mesi dall’entrata in
vigore dell’accordo, al fine di sottoporre ai due governi precise proposte «su tutti gli argomenti atti a stabilire i più cordiali rapporti economici e finanziari fra i due Paesi». Con l’articolo VIII, invece, i due
governi s’impegnarono a stipulare quanto prima una convenzione
avente il fine d’intensificare lo sviluppo delle relazioni culturali fra
Italia e Regno SHS73. Vi era la speranza nel governo italiano che la
chiusura della controversia territoriale – che per Sforza e Giolitti era
definitiva – avrebbe consentito un’intensificazione delle relazioni economiche e culturali fra italiani e iugoslavi, nonché una pacificazione
degli animi, che avrebbero permesso un reciproco progresso civile ed
un miglioramento delle condizioni di vita delle rispettive minoranze
nazionali. Che la collaborazione italo-iugoslava fosse concepita dal governo di Roma come il fondamento di una politica verso l’Europa centrale orientata al riconoscimento dei nuovi Stati nazionali e ad impedire il risorgere dell’Impero asburgico, fu testimoniato dalla firma a
Rapallo, contemporaneamente al trattato sulle frontiere, della convenzione anti-asburgica. Con questa convenzione Italia e Regno SHS
s’impegnarono reciprocamente a vegliare sullo stretto rispetto dei trattati di pace firmati a Saint Germain e al Trianon e a prendere «di comune accordo tutte quelle misure politiche atte a prevenire la restaurazione della Casa di Absburgo sul trono di Austria e di Ungheria»74.
72 Al riguardo: SFORZA, L’Italia dal 1914 al 1944, cit., pp. 115-117; ID., Jugoslavia, cit.,
p. 170 e ss.
73 Sul tema delle relazioni culturali italo-iugoslave fra le due guerre mondiali: STEFANO
SANTORO, L’Italia e l’Europa Orientale. Diplomazia culturale e propaganda 1918-1943, Milano, 2005.
74 Il testo della convenzione anti-asburgica è riprodotto in SFORZA, Jugoslavia, cit.,
pp. 176-177. Sulla genesi e il significato della convenzione anti-asburgica rimane fondamentale MELCHIONNI, La convenzione antiasburgica del 12 novembre 1920, cit.
IL TRATTATO DI RAPALLO
213
I due governi si promisero reciprocamente appoggio diplomatico e collaborazione nella sorveglianza di ogni attività che potesse minacciare
la reciproca sicurezza. La Iugoslavia, poi, informò l’Italia dell’esistenza di un trattato d’alleanza difensiva anti-asburgica ceco-iugoslavo concluso nell’agosto 1920, primo nucleo della Piccola Intesa. La
convenzione anti-asburgica sancì il tentativo italiano di creare una collaborazione politica con la Piccola Intesa75, alleanza sorta fra Iugoslavia, Cecoslovacchia e Romania nell’estate 1920 per contrastare il
revisionismo magiaro e l’eventuale restaurazione degli Asburgo in un
territorio dell’ex-Austria-Ungheria76. Il trattato di Rapallo e la convenzione anti-asburgica erano gli strumenti concepiti dal governo
Giolitti per costituire un raggruppamento di Stati in Europa centroorientale, guidato dall’Italia, che avrebbero consentito al governo di
Roma di divenire una grande potenza regionale, impegnata nello sforzo della pacificazione e della ricostruzione europea attraverso un’opera di mediazione fra Nazioni vincitrici e Stati sconfitti. Non a caso
nei mesi successivi Sforza svolse un’azione mirante all’adesione della Cecoslovacchia alla convenzione anti-asburgica, che sostanzialmente si ottenne con l’intesa italo-cecoslovacca dell’8 febbraio 192177,
e allo sviluppo della cooperazione economica fra gli Stati dell’Europa
centrale, con la convocazione di una conferenza degli Stati successori dell’Austria-Ungheria a Roma nell’aprile 192178. Altro elemento della politica di Sforza fu il miglioramento dei rapporti con la Polonia,
ritenuta Paese cruciale per gli assetti dell’Europa centro-orientale79.
75 Si veda al riguardo l’interpretazione francese e iugoslava del significato di tale convenzione anti-asburgica: DDF 1920, III, dd. 384, 433.
76 Sulle origini della Piccola Intesa: MARIO TOSCANO, Le origini della Piccola Intesa secondo i documenti diplomatici ungheresi, in ID., Pagine di storia diplomatica contemporanea, Torino, 1963, p. 1 e ss.; PIOTR WANDYCZ, France and Her Eastern Allies 1919-1925.
French-Czechoslovak-Polish Relations from the Paris Peace Conference to Locarno,
Minneapolis, 1962, p. 186 e ss.; MAGDA ÁDÁM, Richtung Selbstvernichtung. Die Kleine
Entente 1920-1938, Budapest, 1988; NICOLAE IORDACHE, La Petite Entente et l’Europe,
Genève, 1977.
77 Al riguardo anche: DDF 1921, I, d. 83.
78 Sulla politica di Sforza verso i paesi dell’Europa centro-orientale fra il 1920 e il 1921:
SFORZA, Jugoslavia, cit., p. 178 e ss.; MELCHIONNI, La convenzione antiasburgica del 12 novembre 1920, cit.; CACCAMO, L’Italia e la “Nuova Europa”, cit., p. 295 e ss.; FRANCESCO
TOMMASINI, La risurrezione della Polonia, Milano, 1925, p. 156 e ss.; DDF 1921, I, dd. 77,
100, 290, 300.
79 Sui rapporti italo-polacchi: TOMMASINI, La risurrezione della Polonia, cit., p. 172 e ss.;
Documenti per la storia delle relazioni italo-polacche (1918-1940), Roma, 1998, Skirmunt a
Ministero degli Esteri, 24 luglio 1920, 24 settembre 1920 e 10 febbraio 1921, dd. 56, 59, 64.
214
LUCIANO MONZALI
Il governo italiano considerò la conclusione del trattato di Rapallo
un grande successo. La soddisfazione per il trattato di Rapallo fu ben
espressa da un telegramma di Sforza al re Vittorio Emanuele III, nel
quale, preannunciandogli l’11 novembre il contenuto del trattato che
sarebbe stato firmato il giorno successivo, il ministro dichiarava: «Oso
dire a Vostra Maestà che non speravamo migliore successo. Sono fiero che il coronamento completo dell’unità si sia compiuto sotto il Suo
Regno»80. Anche in campo internazionale, l’accordo di Rapallo fu ritenuto un’importante vittoria diplomatica per l’Italia. La diplomazia
britannica, che aveva con continuità sostenuto le rivendicazioni iugoslave, rimase sorpresa dall’ampiezza dei guadagni territoriali italiani81.
Anche la Santa Sede fu colpita dal successo politico e territoriale
dell’Italia. Parlando del trattato di Rapallo con il barone Monti,
Benedetto XV riconobbe «che si sono ottenuti risultati di gran lunga
superiori a quelli che si prevedevano, sia pei confini della Venezia
Giulia che sono quelli che si desideravano; le cose potevano andar meglio per la Dalmazia, ma le difficoltà da superare erano enormi»82.
L’accordo di Rapallo era stato conveniente anche per il Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni. In cambio di alcune rinunce il governo di
Belgrado chiudeva un pericoloso contenzioso territoriale, che aveva
non poco contribuito ad alimentare l’instabilità interna dello Stato, e
favoriva il processo di consolidamento interno, sottraendo alle forze
secessioniste anti-serbe ed anti-unitarie il loro principale alleato internazionale83. Giustamente Francesco Caccamo ha rilevato l’importanza per il governo di Belgrado del riconoscimento diplomatico italiano del Regno SHS:
Non si trattava di un semplice dettaglio di natura giuridica, ma di una decisione di grande rilievo politico, perché per suo tramite l’Italia accettava dopo un confronto di due anni il nuovo Stato venutosi a costituire al suo confine orientale e, implicitamente, si impegnava ad abbandonare il sostegno ai
movimenti separatisti anti-iugoslavi […]84.
80 ASMAE,
Carte Sforza, b. 7, Sforza a Vittorio Emanuele III, 11 novembre 1920.
MICHELETTA, op. cit., I, p. 250 e ss. Sull’atteggiamento britannico verso la conclusione dei negoziati sulla questione adriatica nel novembre 1920: ASMAE, Carte Imperiali, b. 3,
Imperiali a Sforza, 1°, 3 e 5 novembre 1920.
82 SCOTTÀ, La conciliazione ufficiosa, cit., II, p. 566.
83 Sul desiderio serbo di concludere il trattato di Rapallo come mezzo per soffocare il
separatismo croato: BDFA, II, F, 4, Young a Curzon, 3 dicembre 1920, d. 244.
84 CACCAMO, op. cit., p. 303.
81
IL TRATTATO DI RAPALLO
215
Non a caso dopo Rapallo, il governo italiano abbandonò il proprio
sostegno all’indipendentismo montenegrino e al separatismo croato.
Con la contemporanea firma della convenzione anti-asburgica, poi, il
governo iugoslavo otteneva un’ulteriore garanzia alla propria integrità
territoriale, ovvero l’appoggio dell’Italia contro ogni tentativo di restaurazione degli Asburgo, ancora popolari in vasti settori della popolazione slovena, croata e dalmata. Fra le nazionalità iugoslave chi
otteneva i maggiori vantaggi erano i serbi. L’Italia accettava l’assorbimento del Montenegro nel Regno SHS e rinunciava al controllo di
gran parte della Dalmazia: in questo modo tutta la nazione serba restava unita in seno allo Stato iugoslavo. Gli stessi interessi serbi in
Albania settentrionale sembravano essere tutelati dalla politica di amicizia con l’Italia. La questione albanese non fu affrontata nell’accordo di Rapallo, ma Sforza fece capire di volere seguire una politica di
collaborazione con Belgrado in tale regione e di essere pronto a tenere conto degli interessi serbi. Per croati e sloveni, invece, il trattato di
Rapallo segnò una grande sconfitta, con il passaggio di territori abitati da molti connazionali al dominio dell’Italia. Gran parte dell’opinione pubblica slovena e croata denunciò l’ingiustizia dei confini creati a Rapallo e auspicò una futura revisione territoriale85. Un giornale
croato, il «Novi List», commentò l’accordo con queste parole:
Siamo stati sconfitti e mai da che esiste il mondo è stato firmato un accordo più vile, più vergognoso e più brutale di questo. Abbiamo perduto i polmoni, e le braccia, le gambe e la testa e siamo rimasti invalidi, cadaveri senza
anima e senza cuore. […] I delegati della conferenza di Rapallo comunicano
che la questione è risolta, mentre il popolo jugoslavo dall’Isonzo al Vardar, quel
popolo che ha dato un milione di vittime alla guerra, comunica che non è ancora risolta. No, non è risolta, non può e non deve esserlo. Ci hanno uccisi nella nostra propria patria. Però sappia l’Italia sappiano l’Europa e tutto il mondo che anche i morti si vendicano, e che la vendetta dei morti è terribile86.
Il trattato di Rapallo raccolse vasti consensi in Italia, che si manifestarono chiaramente nel corso della sua ratifica parlamentare87. Alle
85 Sulla reazione slovena al trattato di Rapallo: MILICA KACIN WOHINZ, JOZ#E PIRJEVEC,
Storia degli sloveni in Italia 1866-1998, Venezia, 1998, p. 35 e ss.
86 «Novi List», 13 novembre 1920, edito in Il trattato di Rapallo nei commenti della stampa, Roma, 1921, p. 45.
87 Al riguardo: AMEDEO GIANNINI, (a cura di), Il trattato di Rapallo al Parlamento italiano, Roma, s. d. (ma 1921).
216
LUCIANO MONZALI
Camere Sforza presentò il trattato di Rapallo come una grande vittoria dell’Italia: l’accordo poneva il confine orientale sulle Alpi Giulie,
assicurando a Trieste un vasto retroterra e unendo tutta l’Istria all’Italia; annetteva, poi, Zara all’Italia ottenendo per i nuclei italiani del resto della Dalmazia «privilegi, quali nessuno dei recenti trattati europei era giunto a riconoscere per una minoranza etnica»88. L’indipendenza per Fiume era garanzia di tutela della sua italianità e della sua
prosperità. Negli auspici di Sforza, l’accordo con il Regno SHS sanciva l’inizio di una nuova epoca di collaborazione italo-iugoslava, che
avrebbe rafforzato l’influenza internazionale dell’Italia e facilitato la
convivenza fra le popolazioni italiane e iugoslave.
Nella nuova atmosfera che ne sorgerà, scompariranno poco a poco dai due
lati le amarezze ed i rancori che la lunga tempesta ha lasciato. Quello che doveva essere un astioso rivale, essendo convertito in un cordiale collaboratore economico e politico, l’Italia veglierà pel bene proprio e dello Stato vicino a che non si ricostituiscano gli innaturali conglomerati dinastici, che lasciarono sì amaro ricordo a Roma come a Belgrado. Niente più dividendo i
due paesi, non è soverchia illusione lo sperare un prossimo avvenire in cui
italiani e jugoslavi trovino nell’amicizia comune una forza preziosa e pel campo politico e pel morale89.
Il governo di Roma sperava che la chiusura del contenzioso territoriale e il consolidamento dei rapporti politici bilaterali avrebbero
consentito il miglioramento delle condizioni di vita delle minoranze
italiane in Dalmazia. Il suo ruolo nella genesi del trattato di Rapallo
e la difesa appassionata di questo attirarono su Sforza le inimicizie e
l’odio di molti nazionalisti, nonostante il diplomatico toscano fosse,
in fondo, ideologicamente un nazionalista realista e liberale. Forges
Davanzati commentò i discorsi di Sforza con parole di fuoco, definendolo «gendarme e apologeta della Jugoslavia»90 e completamente
«in mano di Albertini, Borgese, Borsa e simili gente»91.
Gaetano Salvemini, deputato dal 1919, elogiò l’operato del gover-
88 Il discorso di Sforza è riprodotto in CARLO SFORZA, Un anno di politica estera. Discorsi,
Roma, 1921, pp. 56-62, citazione p. 57.
89 Ivi, pp. 60-61.
90 FV, ARC GEN FIU, fasc. Roberto Forges Davanzati, Forges Davanzati a D’Annunzio,
17 dicembre 1920.
91 FV, ARC GEN FIU, fasc. Roberto Forges Davanzati, Forges Davanzati a Zoli, 17 dicembre 1920.
IL TRATTATO DI RAPALLO
217
no Giolitti. Il trattato di Rapallo creava un assetto territoriale liberamente discusso e accettato fra le parti in causa. Rinunciando alla
Dalmazia si creava la possibilità di una duratura alleanza italo-slava:
«Il trattato di Rapallo, insomma, prepara una collaborazione economica e politica, la quale potrà fare dell’Italia l’amica e la mediatrice
fra gli Stati tutti della regione danubiana e balcanica»92.
Pure nei settori liberali-nazionali dell’irredentismo giuliano e triestino vi fu grande entusiasmo per il trattato di Rapallo. Il 13 novembre, da Trieste, Camillo Ara, capo del vecchio partito liberale-nazionale italiano a Trieste, comunicò a Salata tutta la sua soddisfazione.
Ciò che si è conseguito era ed è per me, proprio in coscienza, non solamente quello che si doveva ottenere, ma anche il massimo a cui si poteva e
doveva aspirare, dato che per ora non era né è possibile l’annessione di Fiume.
Conoscevi il mio pensiero: i confini, l’Istria integrale, Fiume e Zara. Io sono felice, profondamente soddisfatto. È definitivamente chiuso, col successo più pieno, il ciclo di ciò che è stato l’ideale, la fede, l’azione della nostra
vita. Qui l’opinione pubblica è esultante: la città sente profondamente, con
gioia intima e profonda, l’importanza di quanto si è ottenuto ed anche il significato morale del successo per il Paese: e non si è affatto disposti a seguire quei quattro (non più di quattro) matti che possono dissentire93.
Fra i pochi critici dell’accordo italo-iugoslavo vi furono i dannunziani, alcuni gruppi del nazionalismo e del fascismo e qualche esponente della Marina94. In sede di discussione parlamentare Federzoni
cercò di svalutare il significato del trattato, pur non potendo astenersi dal rilevare che esso rappresentava un grande miglioramento rispetto
alle precedenti ipotesi di compromesso adriatico, perché garantiva
all’Italia «l’incontrastato possesso della sua frontiera orientale terrestre» e l’indipendenza di Fiume95. Federzoni criticò la rinuncia alla
Dalmazia, a suo avviso, «regalata» alla Iugoslavia. La rinuncia alla
Dalmazia danneggiava la minoranza italiana, che era stata illusa sulla futura annessione alla madrepatria, e indeboliva la posizione strategica dello Stato italiano nell’Adriatico. Zara era rimasta all’Italia, ma
92
SALVEMINI, Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., p. 650.
ASMAE, Carte Salata, b. 269, Ara a Salata, 13 novembre 1920. Sul rapporto SalataAra: RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 152 e ss., 270.
94 BDFA, II, F, 4, Buchanan a Curzon, 13 novembre 1920, d. 234.
95 LUIGI FEDERZONI, L’ora della Dalmazia, Bologna, 1941, p. 117 e ss. Sulle posizioni
dei nazionalisti verso il trattato di Rapallo: ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit.,
p. 450 e ss.
93
218
LUCIANO MONZALI
veniva privata di ogni retroterra; i nuclei italiani dalmati erano stati
lasciati sotto una dominazione straniera ostile, che le vaghe garanzie
previste dal patto di Rapallo non avrebbero potuto proteggere96. In
realtà, in seno allo stesso nazionalismo e al movimento fascista non
pochi erano i favorevoli all’accordo di Rapallo, il quale garantiva
all’Italia territori che all’epoca del governo Nitti sembravano irrimediabilmente persi. Maffeo Pantaleoni, ad esempio, uno dei principali
intellettuali nazionalisti, consigliò a D’Annunzio di accettare il trattato e di non opporsi alla sua applicazione in quanto «è trattato che, se
non soddisfa in tutto tutti, è accolto con gioia dal paese»97. I nazionalisti, in fondo, contestavano il trattato di Rapallo in maniera strumentale, per cercare di acquisire visibilità sul piano interno al fine di creare con l’opposizione a Rapallo la piattaforma con cui aumentare il proprio peso politico. Da una parte, essi si lanciarono in una campagna
d’opposizione sapendo benissimo di non avere possibilità d’impedire
l’approvazione parlamentare dell’accordo, puntando, piuttosto, a raccogliere simpatie e consensi in certi settori dell’opinione pubblica italiana98. Dall’altra, Federzoni, Forges Davanzati e Rocco alimentarono
e sostennero l’opposizione dannunziana a Rapallo evitando, però, di
giungere allo scontro totale con il governo, tentando piuttosto di fare
di D’Annunzio un grande leader nazionale e uno strumento capace di
trasformare il nazionalismo in movimento di massa con vasti consensi nell’opinione pubblica99: tentativo alla fine fallito per le resistenze
del poeta a farsi guidare dai nazionalisti100. Lo scontro con il governo
96
FEDERZONI, L’ora della Dalmazia, cit., p. 128 e ss.
DE FELICE, D’Annunzio politico, cit., pp. 90-91.
98 Al riguardo interessanti le lettere che Forges inviò a D’Annunzio e Zoli: Forges Davanzati
a D’Annunzio, 17 dicembre 1920, cit.; Forges Davanzati a Zoli, 17 dicembre 1920, cit.
99 Significativa è una lettera che Enrico Corradini, l’ideologo per eccellenza del nazionalismo italiano, scrisse a D’Annunzio il 20 dicembre 1920, al momento del possibile scontro fra dannunziani e esercito italiano:
«Io penso ora, come quando ti vidi l’ultima volta, che il trattato di Rapallo e la condotta dell’Italia politica in proposito siano orribili; ma che siano una manifestazione del male e
non il male. Questo è […] [a] Roma, nello Stato che continuamente brulica di nemici interni e abdicherà fino alla sua distruzione. La tua meta è quindi sempre la stessa ed è là. E perciò io sono uno di quegli italiani, non timorati e non pedagoghi di disciplina nazionale, i quali ti chiedono, non di tradire il tuo giuramento ai Dalmati, ma di duplicarlo all’Italia, e di considerare che il tuo sacrifizio può essere ai futuri italiani sublime incitamento, ma che oggi
l’Italia a te chiede piuttosto la tua, la Sua vittoria. Dopo la quale, da Roma, tu potrai redimere la Dalmazia e dare alla Patria i confini della sicurezza più alta»: (FV, ARC POL FIU,
fasc. Enrico Corradini, Corradini a D’Annunzio, 20 dicembre [senza anno, ma 1920]).
100 Sui tentativi di alcuni esponenti nazionalisti di creare una stretta collaborazione politica con D’Annunzio nei primi mesi del 1921: FV. ARC GEN, fasc. Roberto Forges
97
IL TRATTATO DI RAPALLO
219
sull’applicazione di Rapallo in Dalmazia puntava a trasformare l’opposizione all’accordo italo-iugoslavo in un movimento politico che
operasse all’interno dell’Italia: le finalità di politica interna, in fondo,
erano prioritarie rispetto alla questione dell’orientamento internazionale dell’Italia.
Altro oppositore del trattato di Rapallo fu l’ammiraglio e senatore Thaon di Revel, il quale, in sede di ratifica parlamentare dell’accordo, fece un duro intervento di critica. A parere di Thaon di Revel,
l’assetto adriatico creato dal patto di Rapallo indeboliva la posizione
strategica dell’Italia.
Mercè l’annessione dell’Istria, di Cherso e di Lussino noi avremo il completo dominio del golfo di Venezia con influenza decrescente verso il sud. Nel
medio Adriatico la nostra sicurezza sarà scarsa e nell’Adriatico inferiore saremo in condizioni peggiori che non durante l’ultima guerra101.
A parere dell’ammiraglio, la Grecia dominava ormai il canale di
Otranto e il possesso di Cattaro rafforzava le posizioni della Iugoslavia
poiché le Bocche non erano più attaccabili dal monte Lovcen: tutto
ciò rendeva l’Italia debole strategicamente nell’Adriatico102.
In quelle settimane il capo del fascismo, Benito Mussolini, seguì
una linea politica autonoma dai nazionalisti sulla questione adriatica.
Egli manifestò il suo consenso all’accordo concluso da Sforza, pur moderando tale sostegno con alcune critiche alle rinunce in Dalmazia103.
In un articolo pubblicato sul «Popolo d’Italia» il 13 novembre104,
Mussolini definì gli accordi di Rapallo «buoni […] per il confine
orientale e per Fiume», limitandosi a criticare in maniera molto moderata e blanda le rinunce in Dalmazia. Egli contestò il dogmatismo
e lo scarso realismo dei nazionalisti, ossessionati dalla questione adriatica. Per il capo del fascismo, quello che una generazione non era stata capace di fare sarebbe stato compiuto da quella successiva: la generazione della guerra aveva dato alla patria i confini del Brennero e
Davanzati, Forges Davanzati, Forges Davanzati a D’Annunzio, 24 e 26 gennaio, 16 aprile 1921.
101 L’intervento di Thaon di Revel al Senato il 15 dicembre 1920 è riprodotto in GIANNINI,
(a cura di), Il trattato di Rapallo al Parlamento italiano, cit., pp. 212-216, citazione p. 212.
102 Ibidem.
103 DI NOLFO, Mussolini e la politica estera italiana, cit.; DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit.; ID., D’Annunzio politico, cit., p. 159.
104 BENITO MUSSOLINI, Ciò che rimane e ciò che verrà, «Il Popolo d’Italia», 13 novembre 1920, edito in ID., Opera omnia, cit., vol. 16, pp. 5-8.
220
LUCIANO MONZALI
del Nevoso, Zara e aveva salvato Fiume; quella che sarebbe venuta dopo avrebbe fatto il resto. Senza la guerra la Dalmazia sarebbe stata per
sempre persa e slavizzata; nel 1920 e dopo il trattato di Rapallo la situazione era ben diversa:
Coll’Italia allo Judrio, la Dalmazia era in pericolo di vita; coll’Italia a
Zara, gli italiani da Sebenico a Cattaro vedono spuntare l’alba di giorni migliori. Non è ancora l’ideale, ma nessuno può contestare che un passo prodigioso – a malgrado di tante avverse circostanze, alcune superiori alla volontà degli uomini – è stato compiuto105.
Il trattato di Rapallo ricevette il consenso della grande maggioranza
dei parlamentari italiani. Il 28 novembre la Camera dei deputati votò
a favore del disegno di legge di ratifica con 253 voti favorevoli e 14
contrari106. L’accordo fu approvato anche al Senato con una grande
maggioranza di voti, 262 favorevoli contro 22 contrari.
Fra dicembre e gennaio i due governi si scambiarono i rispettivi
rappresentanti diplomatici. Sforza nominò ministro plenipotenziario
a Belgrado Gaetano Manzoni, per molti anni direttore degli Affari
Politici del Ministero degli Esteri, mentre il Regno dei Serbi, Croati e
Sloveni scelse come proprio rappresentante il diplomatico serbo
Vojislav Antonijevic!/Antonievich107.
Lo scambio delle ratifiche del trattato fra i due governi ebbe luogo il 2 febbraio 1921, stesso giorno della pubblicazione del decreto
reale di nomina dei membri italiani delle commissioni previste per l’esecuzione di alcuni articoli del trattato di Rapallo.
3.2. Una vittoria amara. Gli italiani di Dalmazia di fronte al
trattato di Rapallo
Nei mesi precedenti alla conclusione del trattato di Rapallo, una crescente agitazione s’impadronì della popolazione di Zara e della
Dalmazia occupata dall’esercito italiano. Il circolare di voci sulla ri-
105
Ibidem.
106 GIULIO BENEDETTI, La pace di Fiume. Dalla Conferenza di Parigi al trattato di Roma,
Bologna, 1929, p. 79.
107 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Manzoni a Sforza, 3 gennaio 1921;
ASMAE, GAB 1923-43, AF b. 23, Sforza a Manzoni, 21 gennaio 1921; ibidem, Manzoni a
Sforza, 7 febbraio 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
221
presa dei negoziati italo-iugoslavi e sulla volontà del governo Giolitti
di chiudere la questione adriatica puntando soprattutto a garantirsi un
sicuro confine sulle Alpi Giulie creò preoccupazione per il futuro.
Sotto la pressione di agitazioni di piazza guidate dai capi zaratini del
movimento dannunziano e nazionalista – Michelangelo Zimolo, Maurizio Mandel, Enrico Schönfeld ed altri –, a metà ottobre, come abbiamo visto, il Consiglio comunale di Zara, la locale Camera di
Commercio, i rappresentanti dei Fasci Nazionali Italiani di Dalmazia
e i deputati provinciali italiani votarono un appello alla Presidenza del
Consiglio protestando contro ogni ipotesi di rinuncia territoriale e chiedendo l’applicazione del patto di Londra108. In quelle settimane ebbero luogo a Zara continue manifestazioni di protesta contro ogni possibile rinuncia territoriale in Dalmazia109.
Per tenere sotto controllo la piazza e lo scontento di parte della popolazione, le autorità comunali zaratine, dominate dai liberali, assecondavano e partecipavano a queste manifestazioni di protesta, pur
stando attente a mantenere stretti rapporti con il governo di Roma e
collaborando alla preparazione di un accordo territoriale, quello stesso contro cui le piazze dalmate italiane inveivano.
La protesta anti-rinunciataria in Dalmazia era sostenuta ed in parte alimentata dal partito nazionalista italiano. Forges Davanzati e
Federzoni si recarono a Zara nell’agosto 1920 per manifestare il loro
sostegno all’applicazione del patto di Londra110, e nelle settimane successive «L’Idea Nazionale» scatenò una dura campagna di stampa contro Sforza e contro ogni proposito di accordo con gli iugoslavi sulla
base della rinuncia alla Dalmazia. Il 10 ottobre Attilio Tamaro, articolista principe del nazionalismo italiano sulla questione adriatica,
tuonò contro il tentativo di Sforza di concludere un’intesa bilaterale
con Belgrado111. Lasciare la Dalmazia e le Bocche di Cattaro ai serbi
e non difendere l’indipendenza del Montenegro significava rinunciare alla sicurezza dell’Italia nell’Adriatico. In ogni caso, i tentativi di
Sforza, a parere del giornalista triestino, erano votati al fallimento.
108
«L’Idea Nazionale», 16 ottobre 1920, La Dalmazia deliberata alla suprema difesa.
«L’Idea Nazionale», 19 ottobre 1920, Il giuramento degli zaratini. Un grandioso comizio; ivi, 31 ottobre 1920, I cittadini di Zara bruciano i giornali rinunciatari.
110 «L’Idea Nazionale», 24 agosto 1920, L’on. Federzoni e Forges-Davanzati accolti entusiasticamente a Zara.
111 «L’Idea Nazionale», 10 ottobre 1920, ATTILIO TAMARO, L’Albania, il Montenegro e i
negoziati con gli jugoslavi.
109
222
LUCIANO MONZALI
Le trattative falliranno sullo scoglio dell’intransigenza jugoslava. Ma se
l’on. Sforza abbandonasse anche quegli ultimi miseri pudori che ebbe l’on.
Nitti, allora non risolverebbe ancora nulla. Due grandi italiani, D’Annunzio
e Millo, proteggerebbero l’Italia contro gli inetti che vogliono lasciarla aperta agli stranieri. E tutta la miglior parte del Paese sarebbe con essi112.
Contrariamente alle previsioni di Tamaro, l’azione di Sforza ebbe
pieno successo e il contenzioso territoriale italo-iugoslavo venne chiuso con il trattato di Rapallo. L’accordo produsse grande delusione in
larga parte della popolazione italiana e italofila della Dalmazia. La minoranza italiana dalmata si sentì tradita dal governo di Roma: dopo
anni di promesse di annessione alla madrepatria, che avevano alimentato speranze e aperte scelte di campo, gli italiani dalmati si vedevano costretti a scegliere fra l’emigrazione a Zara o la permanenza
in uno Stato iugoslavo a loro ostile, assai più arretrato sul piano politico-sociale e per giunta molto meno rispettoso delle minoranze che
l’Impero asburgico. Pure in parte della popolazione croata della
Dalmazia l’eventualità di un passaggio sotto la sovranità di una
Iugoslavia egemonizzata dai serbi non sollevava grandi entusiasmi. Il
16 novembre Millo scriveva a tale riguardo: «Gli italiani e gli jugoslavi sono in alcuni punti tutti malcontenti. Nei paesi dei dintorni di
Zara non compresi nella annessione tutti [i] contadini sono malcontenti e così pure altre località sia continentali che insulari perché Serbi
non sono più desiderati da tempo»113.
Nei giorni successivi alla conclusione del trattato si tennero in
Dalmazia numerose manifestazioni di protesta114. A Sebenico, in un
comizio al Teatro Mazzoleni, il capo del Fascio Nazionale Italiano,
Luigi Pini, denunciò l’azione diplomatica dell’Italia a Rapallo che condannava «i più fedeli suoi figli a perpetua schiavitù»115. Ben rappresentativo della delusione degli italiani dalmati fu l’ordine del giorno
approvato dai capi politici della popolazione italiana e italofila di
Lesina il 19 novembre 1920.
Il giorno 19 novembre 1920, riunitisi i membri del Fascio Nazionale, i
membri del Comune ed i capi delle Società cittadine «Giovanni Francesco
112
Ibidem.
archivio di base, c. 1497, Millo a Ministero della Marina, 16 novembre 1920.
114 «L’Idea Nazionale», 13 novembre 1920, I dalmati protestano contro il nuovo servaggio; ivi, 17 novembre 1920, La religione italiana di Sebenico.
115 «L’Idea Nazionale», 18 novembre 1920, Il grido di dolore di Sebenico.
113 AM,
IL TRATTATO DI RAPALLO
223
Biondi», «Musica Cittadina Farense», «Lega Nazionale», «Teatro Nobile»,
«Società Igienica», «Nuova Dalmazia», «Biblioteca Popolare Italiana», a seduta solenne votarono il seguente ordine del giorno: i sottoscritti
protestano altamente con animo esacerbato contro la rinuncia che il
Governo del Regno ha fatto della Dalmazia intera che per oltre 50 anni sostenne col nemico secolare le più aspre lotte per il diritto e il decoro d’Italia;
rilevano che con il trattato iniquo per la Dalmazia il Governo del Regno
ha mancato al più grande dovere verso i suoi connazionali, abbandonandoli
nelle mani del perfido nemico;
ripudiano le garanzie soltanto atte a irridere il loro destino fatale, dopo
secoli di inesprimibili sofferenze che potranno dare soltanto quiete alle anime dei responsabili non così attenuare l’immenso dolore degli italiani d’essere ormai stranieri nella propria terra, presso le tombe dei loro morti;
riprovano l’abbandono – mai sognato – delle tre isole dalmate Lesina,
Lissa e Curzola, italiane per geografia, geologia, orografia, lingua, storia, arte e anima, appellate dagli ultimi parlamentari italiani che le visitarono «la
vera Italia»;
esprimono il voto ardente del loro cuore abbrunato dal lutto della terribile immeritata minaccia dell’abbassamento del tricolore della grande magnifica nazione; voto saggio e giusto, perché gli uomini d’Italia stornino la
consumazione del delitto contro il quale i morti di Lissa e gli avi nostri gridano disperati dai loro sepolcri che verrebbero oltraggiati116.
A Zara le reazioni al trattato di Rapallo furono più contrastate.
Certamente, rispetto ai programmi territoriali ipotizzati nel corso della guerra, che sognavano l’annessione italiana di tutta la Dalmazia centro-settentrionale, l’unione della sola Zara all’Italia era una forte sconfitta politica. Delusione e costernazione si sparsero nella cittadinanza
alla notizia del contenuto del trattato di Rapallo. Ma i vecchi capi liberali autonomisti, Ziliotto e Krekich, e i loro seguaci, si rendevano
anche conto che il trattato di Rapallo garantiva un evento che ancora
pochi mesi prima, durante il dicastero Nitti, sembrava impossibile,
l’annessione di Zara all’Italia. Rispetto al progettato «compromesso
Nitti» del gennaio 1920, il trattato di Rapallo anche in Dalmazia era
un successo per l’Italia e i dalmati italiani. Emblematica testimonianza dell’atteggiamento di parziale soddisfazione della vecchia guardia
del partito italiano-autonomo per il trattato di Rapallo, fu quanto scris116 ASMAE, Carte Salata, b. 201, Antonio Groscetta, Simeone Lucich, Florio Covacich,
Nicolò Marchi di Simeone, Francesco Boglich-Perasti, Luca Maricich, Prof. Luigi Machiedo,
Dr. Francesco Addobbati, Felice Baylon senior, Simeone Marchi, Gioacchino Boglich-Perasti,
Antonio Brazzanovich, Antonio Marchi di Andrea, ordine del giorno, 19 novembre 1920.
224
LUCIANO MONZALI
se Vitaliano Brunelli, principale storico dalmata italiano, a Francesco
Salata.
Non mi lamento del Trattato di Rapallo rispetto a Zara; se esso fu così,
penso che ragionevolmente non poteva essere altrimenti. Le persone, che
l’hanno combinato, sono italiani, certo avranno ottenuto le condizioni migliori
per la patria nostra, né scientemente avranno prescelto il peggio per il meglio. Anzi, c’è addirittura del meglio, confrontato col progetto qui studiato in
un nostro Consiglio ristretto, nel quale, per paura degli slavi, escludevamo
Borgo Erizzo, Cerno e Boccagnazzo, cioè i cimiteri e gli acquedotti! Ma questo gli estremisti – bel neologismo! – non lo sanno; che se lo sapessero, apriti cielo! Dissento quindi da loro, un’accolta di giovinastri […]117.
A Zara, comunque, si manifestò ben presto un’opposizione organizzata al trattato di Rapallo, composta dai simpatizzanti dannunziani e dai gruppi nazionalisti presenti nella città. A questi davano man
forte parte dei profughi italiani provenienti dal resto della Dalmazia e
quei gruppi armati di volontari dalmati e di legionari fiumani, attivi
in città fin dallo sbarco di D’Annunzio nel novembre 1919. Gli oppositori del trattato di Rapallo mobilitarono la piazza a Zara e Sebenico
per spingere la popolazione dalmata ad opporsi con la forza all’applicazione dell’accordo. Per alcune settimane Zara cadde in uno stato
di sostanziale anarchia. Nella città cominciarono a confluire molti italiani provenienti dal retroterra e dalle isole dalmate. La città rimase in
balia della piazza, con continue manifestazioni di protesta e scioperi,
che provocarono incidenti118. Per cercare di creare un punto di contatto fra contestatori e autorità legali venne costituito un Comitato di salute pubblica a cui parteciparono sia alcuni capi dannunziani (Calebich,
Schönfeld) che Krekich e Ziliotto. Le autorità civili e militari non sapevano come confrontarsi con la mobilitazione di parte della popolazione, infuriata contro il governo ed aizzata dai capi dannunziani e nazionalisti ad organizzare un’opposizione all’applicazione di Rapallo,
sperando in un eventuale arrivo di D’Annunzio in Dalmazia. Già il 16
novembre Alessandro Dudan scrisse a D’Annunzio comunicandogli la
volontà dei dalmati e dei nazionalisti di agire e di resistere all’applicazione del trattato di Rapallo, sperando che Millo e il Comandante si
ponessero a capo di tale movimento d’opposizione119. A rafforzare il
117 ASMAE,
Carte Salata, b. 201, Brunelli a Salata, 17 dicembre 1920.
UNP, b. 72, Alberti ad anonimo, 8 dicembre 1920.
119 FV, ARC GEN FIU, fasc. Alessandro Dudan, Dudan a D’Annunzio, 16 novembre 1920.
118 ACS,
IL TRATTATO DI RAPALLO
225
movimento dei contestatori contribuì pure l’arrivo di alcuni militanti
dannunziani e nazionalisti dalla Penisola, ad esempio, Attilio Tamaro,
inviato dell’«Idea Nazionale» a Zara, che in quelle settimane fu uno
degli animatori delle agitazioni anti-governative in Dalmazia. Tamaro
sperava che D’Annunzio si ponesse a capo dell’opposizione a Rapallo
guidando una spedizione che occupasse Sebenico. Il 29 novembre
scrisse al poeta per invitarlo all’azione, affermando che i dalmati erano pronti alla resistenza.
I sebenzani, ingannati da false notizie del comandante Bucci, avevano preparato un ordine del giorno con cui indirettamente scioglievano Millo dal vincolo del suo giuramento. Ho fatto rientrare l’ordine del giorno nelle tasche
dei proponenti, che erano dei pessimisti. Fuori di questi pochi […] gli italiani di Sebenico attendono l’atto liberatore con una passione commovente e invocano Lei con un fervore religioso. Essi, come Ella sa, non sono più di duemila, ma per la possente energia nazionale che li anima possono formare una
larga e sicura compagine di resistenza, anche armata120.
A parere di Tamaro, l’eventuale arrivo di una spedizione dannunziana in Dalmazia avrebbe potuto contare anche sul sostegno di parte della popolazione croata locale.
Le condizioni degli slavi, eccettuate poche centinaia, è di gente che aspetta una soluzione per decidere il suo atteggiamento. Il popolo minuto cattolico, anche nelle campagne circostanti, secondo testimonianze concordi, odia
l’ortodosso; vede quindi con gran dolore avvicinarsi l’occupazione serba. Se
Ella, Comandante, giungendo a Sebenico portasse con sé uno di quei croati
coi quali tratta la Reggenza per la lotta contro Belgrado e lo facesse parlare
in croato al popolo minuto della città e dei dintorni, caratterizzando la lotta
per la redenzione della Dalmazia come una lotta dei dalmati contro l’ortodossia e contro lo iugoslavismo, è opinione generale di quanti ho interrogati che il successo sarebbe assicurato. Se l’alleanza che ha la Reggenza coi
croati autonomisti e cattolici fosse comunicata da uno slavo agli slavi di qui,
già inclini a preferire il nostro dominio a quello serbo, produrrebbe un’impressione enorme su queste masse primitive. Qualcuno crede che così si potrebbe ottenere un numero non trascurabile di volontari slavi121.
In quei giorni Tamaro inviò a D’Annunzio un piano d’azione che
120
121
FV, ARC GEN FIU, fasc. Attilio Tamaro, Tamaro a D’Annunzio, 29 novembre 1920.
Ibidem.
226
LUCIANO MONZALI
era stato congegnato da alcuni esponenti dalmati intransigenti e dai capi dannunziani e nazionalisti presenti in Dalmazia, al fine d’impedire l’applicazione del trattato di Rapallo esautorando le autorità legali
italiane122. L’obiettivo fondamentale del piano era:
I Dalmati con le proprie forze si ribellano al Patto di Rapallo; assumono
il potere nei centri che dovrebbero essere abbandonati, ne organizzano la difesa anzitutto con legionari dalmati, armati quanto meglio possibile soltanto
in linea sussidiaria con legionari dannunziani. Le truppe regolari e la marina
non hanno ufficialmente altro compito che – dato il deciso atteggiamento dei
Dalmati, armati e pronti a tutto – restare ed anzi concentrarsi sulla linea d’armistizio e mantenere la pulizia del mare per evitare carneficine e mantenere
l’ordine123.
A capo dell’azione insurrezionale si sarebbe posto un fantomatico «Consiglio Nazionale dei Dalmati», con un comitato esecutivo come elemento guida; il comando supremo delle forze militari sarebbe
spettato a Gabriele D’Annunzio124.
Per qualche settimana, fra novembre e dicembre, l’eventualità di
un arrivo di D’Annunzio a Sebenico o a Zara sembrò plausibile. Come
abbiamo visto, la difesa dell’italianità della Dalmazia era un punto centrale del programma del movimento dannunziano e vi erano stati ripetuti impegni del poeta combattente ad accorrere in caso di bisogno
o di richiesta d’aiuto da parte dei dalmati italiani. Non fu quindi un
caso se, all’indomani di Rapallo, il 13 novembre, le truppe dannunziane occuparono le isole di Veglia e Arbe, peraltro senza incontrare
resistenza da parte dei soldati dell’esercito regolare125. Alcuni stretti
collaboratori di D’Annunzio, come Giovanni Giuriati, Corrado Zoli,
Guido Keller, ritenevano che il movimento dannunziano dovesse proseguire la sua azione spostandosi in Dalmazia, occupando i territori
abitati da popolazioni italiane. Il pilota aviatore Keller si fece propugnatore di una possibile spedizione a Spalato, con il chiaro intento di
provocare un conflitto militare con lo Stato iugoslavo, che potesse contribuire all’attuazione dei progetti insurrezionali croati, albanesi e mon-
122 FV, ARC GEN FIU, fasc. Attilio Tamaro, Piano d’azione dei dalmati, s.d. (ma verosimilmente novembre 1920), intestato genericamente ai Fasci Nazionali Dalmati, però senza
alcun firmatario.
123 Ibidem.
124 Ibidem.
125 GERRA, op. cit., p. 539 e ss.
IL TRATTATO DI RAPALLO
227
tenegrini126. Giuriati, invece, progettò il piano di occupare l’isola di
Curzola e di trasferirvi il grosso delle forze legionarie, al fine di sabotare l’abbandono italiano della Dalmazia centro-settentrionale127. Ma
tutti questi progetti rimasero privi di attuazione.
Fondamentale per il passato successo delle iniziative dannunziane
era stato il sostegno delle forze armate italiane, in primis di quelle presenti in Venezia Giulia e Dalmazia, che avevano fornito cibo e munizioni ai legionari dannunziani ed avevano tollerato o favorito le azioni
di D’Annunzio. Elemento cruciale, quindi, per la riuscita di un’eventuale spedizione o insurrezione dannunziana in Dalmazia sarebbe stato nuovamente l’atteggiamento di Millo, da sempre sostenitore dell’applicazione integrale del patto di Londra in Dalmazia, e delle truppe italiane presenti nei territori dalmati occupati. In realtà, dopo Rapallo
il sostegno dell’esercito verso D’Annunzio calò drasticamente. Se fra
alcuni gruppi di ufficiali e soldati rimaneva simpatia per gli obiettivi
dannunziani, nella gran parte dell’esercito, in particolare fra i vertici
militari – soddisfatti dei risultati ottenuti dal governo Giolitti-Sforza,
che aveva garantito all’Italia il formidabile confine orientale sulle Alpi
Giulie –, prevaleva il desiderio della tranquillità e della pace dopo un
lungo e travagliato dopoguerra adriatico. Consapevole dei rischi connessi all’atteggiamento di Millo, il 14 novembre Giolitti telegrafò al governatore della Dalmazia chiedendogli di adoperarsi per l’esecuzione
del trattato di Rapallo: «Lo Stato Maggiore dell’Esercito dichiara che
il confine raggiunto dà all’Italia piena sicurezza. Ho la convinzione che
D’Annunzio per consiglio dei più autorevoli suoi amici non turberà la
concordia del nostro paese che è necessaria per il nostro prestigio nel
mondo e per l’urgente opera di ricostruzione morale ed economica»128.
Millo decise di obbedire al governo. Avuta notizia dell’occupazione dannunziana di Veglia e di Arbe e dell’esistenza di progetti di spedizioni in Dalmazia, il 13 novembre il governatore telegrafò a
D’Annunzio chiedendogli di non fare nulla «per non peggiorare le sorti di queste popolazioni già così duramente provate»129.
D’Annunzio rispose al governatore proponendogli un incontro
chiarificatore, ma comunicandogli anche la sua intenzione di agire in
Dalmazia.
126
GERRA, op. cit., p. 567 e ss.
GIURIATI, Con D’Annunzio e Millo, cit., p. 170.
128 AM, archivio di base, c. 1497, Giolitti a Millo, 14 novembre 1920.
129 Millo a D’Annunzio, 13 novembre 1920, edito in DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 301.
127
228
LUCIANO MONZALI
Io ho il cuore in angoscia, ma è sempre un saldissimo cuore. Se nel nostro amore per la Dalmazia e nel nostro giuramento alla Dalmazia, fosse per
insinuarsi un’ombra, nessun dolore eguaglierebbe il mio dolore. Ma io so che
la tua fede è incrollabile, e che il basso vento dell’opinione non la tocca. […]
Non ho ben compreso il tuo telegramma di stamani. Il tenente Borgia mi portava l’ansia di Zara e di Sebenico. E i Dalmati qui singhiozzavano. Mi sembra che io dovessi, con un atto coraggioso, rassicurare i nostri fratelli martoriati. Sebenico mi chiama da gran tempo. È venuta l’ora di rispondere. Io non
farò nulla che non sia nel tuo consentimento. Bisogna tuttavia che tu rifletta
non potere io mancare alla mia promessa molto più antica della tua. «Non
fare nulla per la Dalmazia», come tu mi esprimi con qualche mio stupore,
m’è impossibile. Mancherei all’onore. Te medesimo mancheresti all’onore130.
Millo accettò l’incontro, che si tenne allo scoglio Dolfin, fra le isole di Arbe e di Pago, il 15 novembre. Da Zara il colonnello Vigevano,
responsabile dell’ufficio informazioni del governatorato, comunicò al
Ministero della Guerra che circolavano con insistenza voci di una prossima spedizione dannunziana a Spalato e di diserzioni di truppe italiane a favore di D’Annunzio nel Quarnero: ciò aveva eccitato ulteriormente le truppe e la popolazione in Dalmazia131. Riguardo all’atteggiamento di Millo, nonostante i dubbi sulla saldezza delle sue convinzioni, Vigevano rassicurò il governo di Roma: «Millo mi ha esplicitamente questa notte dichiarato che obbedirà governo e resisterà pressioni D’Annunzio. Lo accompagneranno onorevole Siciliani e comandante Bucci che lo sosterranno nelle tesi della legalità e dimostreranno assurdità impresa Sebenico Spalato»132.
Dubbioso sull’atteggiamento di Millo, appena saputa la notizia del
progetto d’incontro fra l’ammiraglio e D’Annunzio, Giolitti chiese a
Vittorio Emanuele III di telegrafare al governatore della Dalmazia per
ricordargli i suoi doveri di fedeltà alla Corona. Il re telegrafò a Millo
chiedendogli obbedienza.
Ella è soldato e sa che un soldato è legato da giuramento e cioè da quello che Ella prestò quale militare. Ogni suo impegno posteriore è nullo se lo
dovesse far mancare ai suoi impegni di soldato. So che posso contare sul giu130 D’Annunzio a Millo, 13 novembre 1920, edito in DI GIAMBERARDINO, op. cit.,
pp. 302-303.
131 ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Vigevano a Ministero della Guerra e al capo gabinetto
del ministro degli Esteri, 14 novembre 1920.
132 AM, archivio di base, c. 1497, Vigevano a Ministero della Guerra e al capo gabinetto del ministro della Marina, 14 novembre 1920.
IL TRATTATO DI RAPALLO
229
ramento e voglio anche pregarla di far comprendere a tutti i doveri verso
l’Italia133.
Il 15 novembre Millo incontrò il poeta abruzzese al largo di Arbe,
accompagnato dal comandante Bucci e dall’on. Siciliani. Il colloquio
durò due ore e Millo comunicò a D’Annunzio la sua volontà di non
opporsi all’applicazione del trattato di Rapallo e di obbedire al governo. Il colonnello Vigevano così riassunse il contenuto del colloquio
Millo-D’Annunzio:
Millo ha tenuto fede a quanto avevami ieri notte dichiarato. È riuscito indurre D’Annunzio soprassedere spedizione Sebenico dichiaratone danno inutilità. D’Annunzio ha affermato però avere a sua volta necessità di essere liberato parola impegnativa data dalmati e di essere in Fiume in tale triste situazione economica da essere spinto atti estremi134.
Appena tornato a Zara Millo trovò il messaggio del re e decise di
rispondere inviando prima un telegramma a Vittorio Emanuele e a
Giolitti, poi una lettera riservata al sovrano. Nel telegramma Millo ribadì la sua fedeltà al re e dichiarò di avere consigliato a D’Annunzio
di non prendere iniziative in Dalmazia; per tranquillizzare i dannunziani,
però, a suo avviso, bisognava soddisfare alcune loro richieste, specie
quelle di natura economica135. Nella lettera il governatore delineò una
più completa analisi della situazione in Dalmazia. Millo giustificò il suo
incontro con D’Annunzio con la necessità di chiarirgli la situazione dalmata, a lui falsamente rappresentata da alcuni dalmati estremisti. Millo
si dichiarò preoccupato per la situazione di Sebenico e Spalato:
[…] Gli italiani di Sebenico sono addirittura terrorizzati, perché conoscono i futuri dominatori. Lo stato degli italiani di Sebenico è impressionantissimo. Se nel territorio occupato avvenisse ora qualcosa agli slavi, gli italiani di Spalato sarebbero per rappresaglia massacrati, e le nostre unità navali colà, se non bombardate dai forti, potrebbero fare ben poco136.
133
Vittorio Emanuele III a Millo, senza data (ma 14 novembre 1920), edito in DI
GIAMBERARDINO, op. cit., pp. 194-195.
134 AM, archivio di base, c. 1497, Vigevano a Presidenza del Consiglio, Ministero della
Guerra e Ministero della Marina, 16 novembre 1920; DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 190 e
ss.; GERRA, op. cit., p. 570 e ss.
135 Millo a Vittorio Emanuele III e a Giolitti, senza data (ma probabilmente 15 novembre 1920), edito in DI GIAMBERARDINO, op. cit., pp. 195-196.
136 Millo a Vittorio Emanuele III, 20 novembre 1920, edito in DI GIAMBERARDINO, op.
cit., pp. 196-198.
230
LUCIANO MONZALI
Un’azione dannunziana in quelle località, quindi, poteva avere gravi e pericolose conseguenze. Per ovviare a questo pericolo occorreva
spingere l’elemento dalmata moderato a convincere i dannunziani a
non intraprendere nessuna azione di forza.
L’elemento dirigente dalmata, meno poche eccezioni, è per non opporre
resistenza all’occupazione serba, per non provocare reazioni violente da parte dei nuovi occupatori. La parte accesa invece si agita, fa capo a Fiume, e
non a d’Annunzio solo, e può provocare cose molto serie. Vedo la situazione sotto colori molto scuri, perché anche dopo finito Fiume, per d’Annunzio
e i suoi la questione di Dalmazia sussisterà ancora. Penso che una dichiarazione dei maggiori Dalmati, che non desiderano resistenza senza probabilità
grandi di successo, potrebbe facilitare una soluzione, se ci si dovrà venire.
Forse potrebbe ottenersi, e sto esaminando come137.
Pure il colonnello Vigevano si dichiarò convinto della necessità di
fare opera persuasiva sui dirigenti dalmati perché sciogliessero D’Annunzio dalle promesse d’intervento in precedenza fatte138. In effetti,
per facilitare una svolta moderata di D’Annunzio, appena tornato a
Zara Millo inviò il suo capo di Stato maggiore, Bucci, a Sebenico, al
fine di ottenere una dichiarazione dei capi italiani della città, Pini e
Miagostovich, che liberasse il poeta dall’impegno che aveva in precedenza preso di difendere l’italianità di Sebenico139. Pini e Miagostovich prepararono tale dichiarazione, ma il deteriorarsi della situazione politica in Dalmazia e l’opposizione di vari consiglieri di
D’Annunzio e di alcuni esponenti nazionalisti, ostili a rinunciare alla
spedizione in Dalmazia, ne impedirono la divulgazione140.
A Zara la scelta legalista di Millo e dei suoi collaboratori fece infuriare gli elementi estremisti. Il 16 novembre Vigevano riferì che parte della popolazione di Sebenico e Zara aveva insultato pubblicamente l’on. Siciliani e alcuni funzionari del Governo ritenuti «colpevoli di
fare opera contraria venuta D’Annunzio»141. Nei giorni successivi la
situazione si aggravò. Il 17 novembre alcuni volontari dalmati dirot137
Ibidem.
138 Vigevano a Presidenza del Consiglio, Ministero della Guerra e Ministero della Marina,
16 novembre 1920, cit.
139 DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 193.
140 ASMAE, Carte Salata, b. 269, Millo a Ministero della Guerra, 12 dicembre 1920;
Tamaro a D’Annunzio, 29 novembre 1920, cit.
141 Vigevano a Presidenza del Consiglio, Ministero della Guerra e Ministero della Marina,
16 novembre 1920, cit.
IL TRATTATO DI RAPALLO
231
tarono il piroscafo Istriano, partito da Zara per le isole della Dalmazia
centrale con a bordo i rappresentanti degli italiani delle isole Curzolane, e obbligarono l’equipaggio a fare rotta per Fiume, al fine d’invocare l’intervento di D’Annunzio in Dalmazia142. La sera del 18 Millo
fece arrestare alcuni degli autori del dirottamento e li inviò nel carcere militare di Ancona. Ma tale azione esasperò ancora di più gli oppositori dalmati di Millo e lo stesso D’Annunzio, che sembrò sconfessare la sua precedente disponibilità a venire incontro ai desideri governativi in Dalmazia inviando al governatore una lettera personale il
19 novembre. Il poeta comunicò all’ammiraglio che i dalmati giunti
a Fiume si erano dichiarati pronti a tutto al motto «Italia o morte».
Il mio posto con i Dalmati sembra dunque confermato. Le notizie che tu
mi dai contraddicono a questo. L’azione esercitata da ogni parte su te ha lo
scopo di isolarmi. È forte chi è solo. Intanto è necessario resistere, senza oscillazioni, fino al giorno delle sorti elettorali S.H.S. Qui la mia gente è con me.
Non ho nulla da temere. In ogni caso, c’è chi può sciogliermi di tutto: la buona morte143.
Era evidente che D’Annunzio e i suoi seguaci continuavano a sperare in una crisi interna iugoslava, prodotta da una vittoria delle forze anti-serbe alle elezioni in Iugoslavia o da una rivolta anti-governativa, come mezzo per impedire l’applicazione del patto di Rapallo. Nei
mesi di ottobre e novembre il governo dannunziano di Fiume aveva
continuato a coltivare rapporti con gruppi nazionalisti albanesi, croati, montenegrini e macedoni secessionisti, puntando ad organizzare una
grande rivolta contro il governo di Belgrado in occasione delle elezioni generali. Fu in particolare Giovanni Host Venturi a condurre questa politica anti-iugoslava. I dannunziani ebbero finanziamenti per realizzare tali disegni dall’industriale lombardo Borletti, che si offrì di fare da mediatore per ottenere altri soldi dal governo di Roma144. Host
Venturi, Odenigo e Zoli progettarono con i secessionisti macedoni, albanesi, montenegrini e croati una grande rivoluzione in Iugoslavia con
inizio il 21 novembre 1920145. Il forte successo elettorale del partito
142 AM,
archivio di base, c. 1497, Millo a Ministero della Marina, 17 novembre 1920.
143 D’Annunzio a Millo, 19 novembre 1920, edito in DI GIAMBERARDINO, op. cit., pp. 304-
305.
144 FV, ARC GEN FIU, fasc. Giovanni Host Venturi, Host Venturi a D’Annunzio, 21 ottobre 1920.
145 FV, ARC GEN FIU, fasc. Giovanni Host Venturi, Host Venturi a D’Annunzio, s.d.
232
LUCIANO MONZALI
repubblicano contadino croato e le agitazioni antigovernative sviluppatesi in Croazia fra la fine di novembre e dicembre alimentarono a
Fiume speranze in una grande sollevazione antiserba ed anti-iugoslava146, che impedisse ogni tentativo di applicazione del trattato di
Rapallo. Ma i progetti insurrezionali contro la Iugoslavia si rivelarono velleitari e utopistici; niente di quanto organizzato e sperato avvenne: il potere iugoslavo si dimostrò solido e forte. Il persistere di
tali velleità destabilizzava la situazione in Dalmazia, dove parte della
popolazione era ormai ostile a Millo, accusato di tradimento e di politica repressiva. Il 19 novembre Vigevano segnalò il peggioramento
della situazione a Zara. Molte fonti davano per sicura una spedizione
dannunziana a Zara, Sebenico e Curzola. Corrado Zoli, collaboratore
di D’Annunzio, aveva minacciato Millo di pubblicare il carteggio del
governatore con il poeta, con le sue numerose passate dichiarazioni di
sostegno al movimento dannunziano. L’arrivo di numerosi giornalisti
(Tamaro, Vettori, Cipolla) in città aveva aumentato la tensione politica147. Le agitazioni a Zara, in effetti, erano alimentate dalle campagne
di stampa di alcuni giornali italiani come «L’Idea Nazionale»148. Questa strumentalizzazione politica della situazione dalmata da parte di
alcuni partiti italiani rendeva difficile per i moderati avere il sopravvento sugli elementi estremisti. Che la possibilità di una dichiarazione pacificatrice da parte dei principali patrioti dalmati, capace di dissuadere D’Annunzio dal compiere atti di forza, fosse ormai politicamente improponibile fu chiaro con la pubblicazione di un appello firmato dalla maggior parte dei capi dei dalmati italiani su «L’Idea
Nazionale» il 23 novembre149. L’appello denunciò il trattato di Rapallo
come un «tradimento degli italiani ed anche degli slavi italofili di
Dalmazia» che venivano consegnati ad una potenza barbara, e mi-
(ma fine novembre, inizio dicembre 1920); ivi, fasc. Corrado Zoli, Zoli a D’Annunzio, 22
novembre e 9 dicembre 1920.
146 FV, ARC GEN FIU, fasc. Corrado Zoli, Zoli a D’Annunzio, 11 novembre e 11 dicembre 1920.
147 ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Vigevano al Ministero della Guerra e al Ministero degli
Affari Esteri, 19 novembre 1920.
148 «L’Idea Nazionale», 19 novembre 1920, ANTONIO CIPPICO, Dalmazia nostra; ivi, 21
novembre 1920, ANTONIO CIPPICO, Lettera ai dalmati; ibidem, ATTILIO TAMARO, La situazione in Dalmazia.
149 «L’Idea Nazionale», 23 novembre 1920, Appello dei Dalmati: l’appello, che sembra
compilato dalla penna di Alessandro Dudan, fu firmato da Luigi Pini, Luigi Ziliotto, Giovanni
Lubin, Alessandro Dudan, Lauro Galzigna, Gian Antonio Botteri, Giacomo Vinzi, Lorenzo
Dojmi di Delupis, Francesco de Marassovich, Michele Borovich, Pietro Uroda, ecc.
IL TRATTATO DI RAPALLO
233
nacciava una dura opposizione ad ogni tentativo di applicazione:
Italiani, orbene, tale misfatto noi lo impediremo. Le nostre città, baciate
ormai dalla redenzione italiana, non lasceranno partire le truppe redentrici,
non permetteranno la nuova invasione barbarica. Ogni sacrificio sarà compiuto. Nulla ci spaventa150.
Con il passare dei giorni, però, la realizzazione di una spedizione
dannunziana in Dalmazia divenne sempre più improbabile. Lo stesso
D’Annunzio si limitò ad appelli pubblici alla resistenza, ma quando
si trattò di passare alla concreta organizzazione della spedizione si dimostrò restio ad impegnarsi: il fallimento del tentativo di Giuriati di
organizzare l’occupazione dannunziana di Curzola alla fine di novembre, causato dal disinteresse del poeta abruzzese, ne fu la chiara
riprova151. Ma la mobilitazione politica dei gruppi dannunziani e nazionalisti a Zara continuò, alimentando una febbrile agitazione nella
popolazione locale.
Non è cosa semplice spiegare ed interpretare l’atteggiamento degli esponenti del liberalismo nazionale zaratino e dalmata di fronte agli
eventi di quelle settimane. Dalla documentazione disponibile appare
evidente una forte incertezza sul da farsi ed una netta spaccatura all’interno della classe dirigente italiana dalmata: da una parte, coloro
(Dudan, Cippico, Schönfeld) che sostenevano l’esigenza di impedire
anche con la forza l’applicazione del patto di Rapallo, dall’altra, quelli (Ziliotto, Krekich, Pini) che, temendo, in caso di conflitto armato
italo-iugoslavo in Dalmazia, violente ripercussioni sulle collettività italiane, svolsero una politica filo-governativa e si rassegnarono ad accettare l’applicazione dell’accordo. La documentazione conferma in
particolare una forte ambiguità ed oscillazione nelle posizioni della
vecchia guardia liberale-autonoma, Ziliotto, Ghiglianovich, Krekich.
Nel corso del 1919 e 1920 Ghiglianovich e Ziliotto avevano seguito
una politica sostanzialmente governativa, collaborando con tutti i governi italiani ed anche ai negoziati per il trattato di Rapallo, che aveva sancito anche per loro un’indiscussa vittoria: l’annessione di Zara
all’Italia. Per premiare i loro sacrifici e sforzi, nonché la loro collaborazione con lo Stato, dopo la firma del trattato di Rapallo il governo decise di nominare senatori del Regno i vecchi capi del partito au150
151
Ibidem.
GIURIATI, op. cit., p. 170 e ss.
234
LUCIANO MONZALI
tonomo italiano, Luigi Ziliotto152, Roberto Ghiglianovich153 e Ercolano
Salvi154. Dopo Rapallo, però, Ziliotto, Krekich e i loro più stretti seguaci, forse delusi per le eccessive rinunce nel circondario zaratino (la
mancata annessione all’Italia delle isole di fronte a Zara) decise da
Sforza e Giolitti e spaventati dalle agitazioni di piazza contro l’accordo, assecondarono per alcuni giorni le dimostrazioni di protesta
contro il contenuto del patto e la sua applicazione. L’11 novembre 1920
Ziliotto scrisse a D’Annunzio una lettera con la quale invocò l’intervento del poeta a difesa dei dalmati italiani.
Comandante,
Negli ultimi giorni, per la gravità eccezionale dei momenti, ho costituito
e adunato intorno a me un comitato d’azione col compito di disciplinare tutte le forze vive e fattive del paese: uomini a Voi devoti sino all’estremo e ognora prontissimi al Vostro cenno.
Le notizie di oggi sulla soluzione data dal governo alla questione adriatica – soluzione deludente con ignominia il diritto dei Dalmati – ha suscitato un senso diffuso di amarezza e di sdegno. E per questo, eletti dal comitato d’azione, vengono a Voi, Comandante, con animo di fedeli e di speranti,
delegati di Zara e di ogni parte della Dalmazia venduta: da Sebenico e dalle
Isole Curzolane. Vengono per essere da Voi ammaestrati e fortificati nello spirito che vince, in nome e per la dignità d’Italia. La Vostra parola di amore e
di volontà, mentre sarà legge per me, che sempre ho tenuto fisso e reverente lo sguardo a Voi come a nostro salvatore magnanimo, sarà legge per tutti.
E riuscirà pur balsamo alla cocente piaga aperta così sul corpo della nostra
pianta miseranda.
Con Voi e per l’Italia, tutti, e sempre, o Comandante155.
152 ASSR,
Segreteria, fascicoli personali dei senatori, b. 60, fascicolo Luigi Ziliotto, decreto di nomina di Luigi Ziliotto a senatore, 15 novembre 1920.
153 ASSR, Segreteria, fascicoli personali dei senatori, b. 27, fascicolo Roberto
Ghiglianovich, decreto di nomina di Roberto Ghiglianovich a senatore, 15 novembre 1920.
154 ASMAE, Carte Salata, b. 269, Salata a Ziliotto, 16 novembre 1920. Il 17 novembre,
però, Salvi morì per problemi cardiaci e di fatto la sua nomina a senatore non ebbe alcuna
concretizzazione. La stampa nazionalista strumentalizzò la morte di Salvi, dovuta a problemi di salute sorti già all’epoca della prima guerra mondiale, attribuendola falsamente al presunto dolore per la mancata annessione della Dalmazia del patto di Londra all’Italia: «L’Idea
Nazionale», 18 novembre 1920, La morte di Ercolano Salvi. Il dolore per la sua tradita
Dalmazia lo ha ucciso.
155 FV, ARC GEN FIU, fasc. Luigi Ziliotto, Ziliotto a D’Annunzio, 11 novembre 1920.
Nei giorni successivi, come abbiamo visto, si svilupparono vari contatti fra Zara e Fiume, finalizzati a preparare un possibile sbarco dannunziano in Dalmazia. Ziliotto e la vecchia guardia liberale-nazionale assecondarono tali progetti per un po’ di tempo. Lo conferma questa
lettera che Ziliotto inviò a D’Annunzio il 27 novembre: «Comandante,
Alle altre notizie aggiungiamo le seguenti importantissime apprese all’ultima ora, dalle
IL TRATTATO DI RAPALLO
235
Con il trascorrere dei giorni Ziliotto, Krekich, Pini e molti capi liberali zaratini e sebenzani si resero conto dei gravi rischi che un’eventuale opposizione armata al patto di Rapallo avrebbe comportato.
La radicalizzazione violenta del conflitto nazionale in Dalmazia rischiava di lasciare le popolazioni italiane nel Regno SHS alla mercé
di vendette e rappresaglie dei nazionalisti iugoslavi e dell’esercito serbo, portando alla distruzione delle collettività italiane. Una reazione
violenta dei dalmati italiani al trattato di Rapallo avrebbe potuto provocare la distruzione dell’italianità dalmatica. L’applicazione pacifica dell’accordo e un miglioramento delle relazioni fra Italia e Iugoslavia, invece, avrebbero consentito la sopravvivenza delle collettività italiane in tutta la Dalmazia e una loro successiva lenta riorganizzazione e ripresa culturale e nazionale. L’emergere di questa consapevolezza
circa l’inevitabilità del trattato di Rapallo e l’esigenza di non perdere
il sostegno del governo di Roma – alleato sempre più indispensabile
per la minoranza italiana in Dalmazia – spiegano la cautela e l’ambiguità dell’atteggiamento di Krekich e Ziliotto verso i progetti dei dannunziani e dei nazionalisti italiani a partire dalla fine di novembre. La
moderazione, conseguenza di una crescente rassegnazione, dei liberali dalmati italiani emerge in questa testimonianza del capitano Bucci,
capo di Stato maggiore di Millo:
quali potrà rilevare l’enorme gravità della situazione: i presidi militari di Kievo, Knin, Dernis
sono stati ridotti e contano pochissimi uomini. Il Capitano Ritelli di Kievo – magnifico soldato – si mostra preoccupatissimo disponendo di soli 65 uomini. Le popolazioni implorano
il nostro aiuto disperatamente. Nelle acque di Sebenico incrociano la R. N. Regina Elena e
due cacciatorpediniere. A Bencovaz si fanno i preparativi per la panificazione per un forte
contingente di truppe che ivi dovrebbe transitare, diretto a Zara. Per lo stesso motivo fu fatta – dalle autorità militari – una forte ordinazione di carne da macello. A Zara con il piroscafo Fram è giunta questa sera da Lissa una compagnia di soldati completamente equipaggiati. Domattina partiranno con il postale diretto ad Ancona, parecchi ufficiali e soldati avviati in licenza! Le reclute che dovevano giungere in questi giorni da i depositi sono state trattenute nella Penisola, quantunque ufficiali dei reggimenti dislocati in Dalmazia fossero stati
inviati a prenderle. Gli ufficiali e soldati che attualmente si trovano in licenza, hanno avuto
ordine di non rientrare. Dobbiamo inoltre informarLa che in questi ultimi giorni, elementi
stranieri, appartenenti a bande di comitagi serbi, eludendo la vigilanza delle nostre truppe,
sono penetrati armati nella nostra zona. Si hanno anche notizie di contrabbandi di armi a mezzo di velieri. Persino a Zara si trovano individui appartenenti alla Legija smrti (Legione della morte) con il mandato di creare incidenti. Risulta che i presidi jugoslavi sono stati ovunque rafforzati oltre la linea d’armistizio. Il morale delle nostre truppe è altissimo, potete esserne sicuro. Soltanto Voi potrete soffocare il tradimento e salvare la Dalmazia. Con Voi per
la vita e per la morte» (FV, ARC GEN FIU, fasc. Luigi Ziliotto, Ziliotto a D’Annunzio, 27
novembre 1920).
236
LUCIANO MONZALI
Verso i primi di dicembre 1920 a Zara fu tenuto un comizio, di Italiani
Dalmati. […] In questo comizio fu votato un ordine del giorno violentissimo, che fu presentato da Ziliotto ed altri; ma Ziliotto disse all’Ammiraglio,
me presente, che l’ordine del giorno era stato votato sotto la pressione popolare, mentre essi, i presentatori, non lo condividevano, perché convinti che
nulla si poteva fare per la causa dalmata156.
Che Ziliotto e i liberali zaratini volessero a tutti i costi scongiurare l’esplosione della violenza in Dalmazia e fossero pronti anche ad
accettare l’applicazione del trattato di Rapallo fu ben presto chiaro ai
nazionalisti più intransigenti. Il 1° dicembre, in una lettera a Ghiglianovich, Attilio Tamaro criticò duramente l’operato dei liberali zaratini, accusandoli di volersi dissociare da D’Annunzio nella lotta contro
il trattato di Rapallo; grave, secondo il nazionalista triestino, era il
comportamento di Ziliotto, che ondeggiava e tentennava sul da farsi,
dividendo i dalmati157. Nelle sue corrispondenze da Zara Tamaro descrisse più volte Krekich, Ziliotto e i liberali come troppo pronti ai
compromessi e «pacifisti», mentre esaltò la passione patriottica di fascisti e nazionalisti come Zimolo, Mandel e Calebich158.
Se fra novembre e dicembre la situazione a Zara divenne sempre
più tesa e difficile, a Sebenico la comunità italiana cadde ben presto
in uno stato di depressione cupa e disperata. In un rapporto dell’11 dicembre Millo analizzò l’atteggiamento delle varie componenti nazionali della città verso il prossimo ritiro dell’esercito italiano. A Sebenico
erano presenti, per il governatore, tre partiti, il croato, il serbo e l’italiano:
Il primo ed il secondo rappresentati da una gran maggioranza di contadini ed operai di basso ceto e da una minoranza di elementi colti; il terzo, invece, quasi esclusivamente da elementi evoluti ed intellettuali159.
Se negli ambienti serbi e nei gruppi croati filoiugoslavi vi era soddisfazione per il futuro passaggio sotto la sovranità dello Stato SHS,
molti erano i timori della popolazione croata cittadina e contadina.
156
DI GIAMBERARDINO, op. cit., pp. 193-194.
BS, Carte Ghiglianovich, b. B, Tamaro a Ghiglianovich, 1° dicembre 1920.
158 Ad esempio: «L’Idea Nazionale», 5 dicembre 1920, ATTILIO TAMARO, Zara rifiuta l’annessione all’Italia e proclama la sua unione alla Reggenza del Carnaro.
159 AM, archivio di base, c. 1497, Millo alla Presidenza del Consiglio, al Ministero della Marina e al Ministero della Guerra, 11 dicembre 1920.
157
IL TRATTATO DI RAPALLO
237
La classe agricola del Partito Croato, pur dimostrandosi apparentemente
indifferente, non seppe celare la sua grande preoccupazione per l’avvento del
futuro regime che essa prevede essenzialmente Serbo e come tale non spassionato, ma prepotente e capace di qualsiasi, anche ingiusto, sistema per assicurare il predominio alla razza ed alla religione serba. In un primo tempo
ebbero perfino luogo alcune adunanze o, per meglio dire conventicole, specie di abitanti della campagna nelle quali fu manifestatamente espressa la simpatia per la permanenza degli italiani. Non molto diverse furono le impressioni del ceto colto Croato. Esso, infatti, sebbene con maggiore prudente riserbo, ebbe a manifestare, specie in discorsi privati, il convincimento che migliori sarebbero state le sorti della Dalmazia, qualora fosse stato applicato integralmente, od anche in parte, il Patto di Londra160.
Divenuta sempre più improbabile una spedizione dannunziana a
Sebenico, nel partito italiano l’abbattimento aveva ormai invaso tutti
gli animi.
Nessuno ha fiducia nella garanzia contemplata nella convenzione di
Rapallo. Intimoriti dalle minacce dei serbo-croati dei quali temono ora le vendette per i dispetti e le angherie fatte contro questi ultimi durante la nostra
occupazione, non hanno che un solo partito, quello di mettersi in salvo con
le loro famiglie ed i loro beni realizzabili. Di questo stato di cose incolpano
le personalità politiche [che erano] state più favorevoli alla causa dalmata, i
propagandisti, tutti regnicoli, che si recarono in Dalmazia, affermando che i
Dalmati italiani furono prima illusi con vane parole e poi traditi161.
Il 2 dicembre a Zara l’imbarco per l’Italia di un primo contingente di soldati che doveva essere congedato fu l’occasione di incidenti.
Una folla eccitata si radunò al porto per impedire la partenza dei soldati e ciò provocò duri incidenti fra popolani, carabinieri e ufficiali
dell’esercito, accusati di tradire la causa dalmatica162. Come reazione
agli incidenti il governo fece espellere da Zara il prof. Jacchia, esponente del fascismo triestino. Nei giorni seguenti si ebbero nella città
dalmata continue manifestazioni di protesta contro Millo e venne proclamato uno sciopero di protesta contro le autorità militari italiane, accusate di tradimento. Il 4 dicembre il generale Taranto, capo delle trup-
160
Ibidem.
Ibidem.
162 GERRA, op. cit., pp. 575-576; DI GIAMBERARDINO, op. cit., p. 201; TACCONI, L’impresa
dannunziana in Dalmazia, cit., p. 56.
161
238
LUCIANO MONZALI
pe dell’esercito presenti a Zara, inviò a Roma una relazione sulla situazione in Dalmazia163. Dopo il trattato di Rapallo si era venuta a creare una pericolosa agitazione politica a Zara, soprattutto a causa della
crescente consapevolezza che il governo non avrebbe fatto causa comune con D’Annunzio ed, anzi, avrebbe impedito ogni spedizione dannunziana. Tutto ciò aveva fatto deteriorare la situazione nella città.
Poiché l’intera popolazione italiana della Dalmazia non era contenta delle clausole del Trattato di Rapallo, e gli elementi italiani di altre città accusavano Zara di aver pensato alle sole sue sorti, sorgeva qui in Zara l’idea di
dover fare qualche cosa che risultasse protesta contro il Trattato e solidarietà
con gli altri dalmati. Al di sopra della necessità di fare qualche gesto di protesta restava in alcuni elementi, pochi in principio, ma assai eccitabili ed eccitati, la speranza che un gesto dannunziano avrebbe potuto salvare ancora la
Dalmazia all’Italia. Ai pochi esaltati nessuno osava e nessuno osa sovrapporre
la voce del buon senso e delle supreme necessità della Patria, anzi i più, per
pavidità d’animo, per non essere tacciati di tradimento, si univano come si
uniscono, ad essi in un’opera di eccitazione continua, che trovava e trova facili simpatie per il suo spirito nazionale. La presenza di elementi estranei quali il pubblicista Tamaro, il prof. Jacchia ed altri, hanno contribuito ad eccitare gli animi, sicché oggi la situazione è resa gravissima, e si dirige tutta contro questo governo164.
Per resistere alle continue provocazioni e mantenere l’ordine,
Taranto fece richiesta di rinforzi, 150 carabinieri e 150 guardie regie,
oltre all’invio di una nave da guerra165. L’eco degli incidenti al porto
di Zara giunse anche a Fiume provocando l’ira di D’Annunzio. Il 5
dicembre, in un comizio ai fiumani e ai suoi legionari, il poeta accusò Millo di essere un traditore e di usare la violenza contro la popolazione zaratina, e promise di combattere fino alla morte per Fiume,
le isole e la Dalmazia166. Per incitare gli zaratini contro Millo, nei giorni successivi, nel corso di un avventuroso volo aereo, Guido Keller lanciò copie del testo del discorso del poeta su Zara167. L’agitazione politica continuò ad essere forte a Zara. Le autorità militari cercarono di
mantenere l’ordine evitando arresti e l’uso della forza e facendo ope163 AM, archivio di base, c. 1497, Taranto a Presidenza del Consiglio, Ministero della
Marina, Ministero della Guerra, 4 dicembre 1920.
164 Ibidem.
165 Ibidem.
166 D’ANNUNZIO, Scritti politici, cit., p. 245 e ss.; GERRA, op. cit., pp. 576-579.
167 GERRA, op. cit., pp. 576-579.
IL TRATTATO DI RAPALLO
239
ra di persuasione sugli elementi moderati. Ma, l’8 dicembre, Taranto
segnalò che il circolare di voci su una possibile spedizione dannunziana e le notizie che giungevano dagli altri centri della Dalmazia occupata acuivano la tensione. Il timore di rappresaglie croate e serbe
contro gli italiani, alimentato dall’invio di lettere anonime, aveva suscitato panico, specie a Sebenico. Gli attacchi della stampa croata di
Spalato avevano creato grande preoccupazione a Zara.
La stampa slava di Spalato continua ad essere violenta contro gli italiani
e discute largamente la ricerca di espedienti per ammazzare la vita economica
e civile di Zara per distruggere ogni residuo di italianità. È largamente discussa la proposta di costruire la nuova capitale in prossimità di Zara, per attirare quel piccolo movimento che certamente, mancando oggi altro centro,
rimarrà fra Zara ed il suo immediato retroterra […]. Tutto ciò non fa che indurre i dalmati nella convinzione di essere stati completamente abbandonati
e concorre a rendere la situazione più difficile168.
Sforza invitò a non drammatizzare la situazione e a non prendere
seriamente quanto scriveva la stampa croata.
Si tratta di voci di un momento di crisi. La minaccia stessa di creare una
nuova capitale nei pressi del confine di Zara indica quanto [siano] ridicole e
passeggere le minacce. Ciò infatti non accadrà mai; si tratta delle solite fantasie slave. La ripresa dei commerci farà presto sparire siffatta atmosfera169.
Da Roma il ministro della Guerra, Bonomi, reiterò l’ordine al comando militare di Zara d’impedire anche con la forza ogni tentativo
di sbarco in Dalmazia170.
Nel corso di dicembre il contrasto fra gli estremisti dannunziani e
i liberali moderati emerse con sempre maggiore evidenza. I dannunziani zaratini escogitarono lo stratagemma di tentare d’impedire l’applicazione del trattato di Rapallo attraverso la proclamazione dell’unione della città di Zara alla Reggenza del Carnaro171. Questa iniziativa fu contrastata sia dalle autorità di governo, che impedirono i contatti fra Fiume e Zara, che dai liberali zaratini, favorevoli all’annes-
168 AM, archivio di base, c. 1497, Taranto alla Presidenza del Consiglio, al Ministero della Marina e al Ministero della Guerra, 8 dicembre 1920.
169 AM, archivio di base, c. 1497, Sforza a Sechi, 11 dicembre 1920.
170 AM, archivio di base, c. 1497, Bonomi a Taranto, 8 dicembre 1920.
171 TAMARO, Zara rifiuta l’annessione all’Italia, cit.
240
LUCIANO MONZALI
sione all’Italia. Al riguardo abbastanza chiaro fu il significato legalista e moderato del messaggio che, dopo il voto di approvazione del
trattato di Rapallo da parte della Camera dei deputati, Ziliotto e
Ghiglianovich inviarono da Roma al Comitato di salute pubblica di
Zara il 6 dicembre 1920: «La Nazione, desiderosa di pace, accettò nella sua stragrande maggioranza il trattato di Rapallo. Il voto della
Camera lo dimostra. Il Senato darà pure, per la stessa ragione, una votazione favorevole al trattato e non avrà che un piccolo numero di voti contrari. Abbiamo inteso gli uomini più autorevoli della politica sostenere che qualsiasi azione contraria all’esecuzione del trattato costituirebbe un vero delitto di leso patriottismo e che per ciò era necessario rassegnarsi per ora e non intralciare comunque l’esecuzione
del trattato. I Dalmati – i Dalmati soli – non possono però e non devono rassegnarsi. […] I Dalmati devono però agire da soli e non coinvolgere comunque la Nazione in complicazioni internazionali. La
Dalmazia deve esser difesa dai soli Dalmati con la disperazione del
loro diritto. È necessario quindi che i Dalmati facciano uno sforzo supremo, inaudito, ma da soli, perché soltanto allora il loro sacrificio sarà
fecondo […]»172.
I liberali si opposero all’annessione di Zara alla Reggenza del
Carnaro. L’8 dicembre Krekich, vicepresidente del Comitato di salute pubblica, scrisse una lettera a «L’Idea Nazionale» smentendo le corrispondenze di Tamaro che annunciavano l’unione di Zara alla Reggenza di Fiume:
Il locale Comitato di Salute Pubblica non ha mai deciso […] di proporre
alla città di Zara di rifiutare popolarmente l’annessione all’Italia e di proclamare la sua unione alla Reggenza Italiana del Carnaro173.
Nei giorni successivi lo scontro politico a Zara si acuì ulteriormente. Il 10 dicembre Tamaro scrisse su «L’Idea Nazionale» che il
governo stava sottoponendo gli avversari del trattato di Rapallo ad una
dura repressione. Il generale Taranto, che aveva ormai assunto l’amministrazione della città, aveva impedito che alcuni esponenti nazionalisti zaratini si recassero a Fiume e aveva minacciato di licenziamento gli impiegati pubblici coinvolti in manifestazioni anti-gover172 LUIGI ZILIOTTO, ROBERTO GHIGLIANOVICH, Messaggio al Comitato di salute pubblica
di Zara, in «La Rivista Dalmatica», 1932, nn. 1-2, p. 137.
173 «L’Idea Nazionale», 8 dicembre 1920, Il Comitato di Salute Pubblica di Zara.
IL TRATTATO DI RAPALLO
241
native. Tamaro paragonò l’azione del governo italiano a quella dell’Impero asburgico.
Qui si domanda se non siano ritornati i tempi della servitù. Si espelle un
giovane triestino accusandolo di far propaganda italiana; si fanno pedinare
dalla polizia altri giovani sospettati ridicolmente di accendere una popolazione
che è accesa dalla sua antica e nuova passione. Si espelle da Zara il capitano
Mandel, zaratino, valoroso combattente, perché autorevole e efficace membro del Fascio di combattimento. Peggio ancora: si chiamano al Governatorato
tre cittadini di specchiatissimo patriottismo, il cavalier Schoenfeld, il prof.
Filippi e il dott. Inchiostri, e si dichiara ad essi che sono considerati come
ostaggi, direttamente responsabili di qualunque dimostrazione succedesse in
città174.
L’azione di Tamaro a Zara e il carattere anti-governativo delle sue
corrispondenze spinsero le autorità militari a decretare l’espulsione del
giornalista triestino dalla Dalmazia l’11 dicembre175. L’espulsione di
Tamaro sembrò aggravare la tensione nella città. Il colonnello Vigevano – insieme a Taranto a capo del governo di Zara in quei giorni,
mentre Millo, caduto in uno stato di grave prostrazione psicologica e
fisica, svolgeva un ruolo sempre più marginale176 – riteneva fondamentale per ristabilire l’ordine in città l’allontanamento del battaglione
dannunziano e degli elementi borghesi più estremisti, oltre allo scioglimento del battaglione Rismondo composto dai volontari dalmati; bisognava, poi, sostituire Millo e i suoi collaboratori, ormai malvisti dalla popolazione177. La mattina del 14 dicembre le autorità militari cercarono di procedere al disarmo del battaglione Rismondo, causa di continui disordini e manifestazioni antigovernative. Il tentativo di disarmo, però, provocò una reazione armata dei volontari e portò al leggero ferimento di cinque guardie regie178. La tensione si era talmente aggravata a Zara che Millo, depresso e malato, chiese al governo di essere sostituito.
174
«L’Idea Nazionale», 10 dicembre 1920, ATTILIO TAMARO, Il piccolo stato d’assedio
a Zara.
175 Millo a Ministero della Guerra, 12 dicembre 1920, cit.; «L’Idea Nazionale», 14 dicembre 1920, Attilio Tamaro espulso dalla Dalmazia.
176 ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Vigevano a Presidenza del Consiglio, 6 dicembre 1920.
177 ASMAE, Carte Salata, b. 269, Vigevano a Ministero della Guerra, 12 dicembre 1920.
178 AM, archivio di base, c. 1497, Millo a Presidenza del Consiglio, Ministero della
Marina e Ministero della Guerra, 14 dicembre 1920; ibidem, tenente colonnello Brizio al
Comando generale dell’Arma dei carabinieri, s.d. (ma data d’arrivo 21 dicembre 1920).
242
LUCIANO MONZALI
Situazione si è qui molto inasprita – il governatore scrisse a Giolitti il 14
dicembre – e popolazione zaratina si accanisce specialmente contro di me e
contro quanti mi coadiuvano nel mio Ufficio. Sono del parere che mia sostituzione oppure mio allontanamento dalla Dalmazia […] potrebbe giovare, nel
momento attuale, a migliorare la situazione, ora gravissima179.
Giolitti accettò la richiesta di Millo e scelse per successore il prefetto di Udine Bonfanti Linares, avente responsabilità, come commissario civile, solo degli affari politici e civili; il comando militare,
invece, fu assunto dal generale Taranto180.
Proprio in quei giorni ebbe luogo il dibattito al Senato italiano per
la ratifica del trattato di Rapallo. Influenzato dallo stato di agitazione
che viveva la popolazione di Zara e desideroso di non porsi in contrasto con i sentimenti di larga parte dei dalmati italiani, il 16 dicembre, Ziliotto, ormai senatore, decise di fare un discorso contrario alla
ratifica del trattato di Rapallo. Il sindaco di Zara dichiarò che il trattato di Rapallo era stato un errore e non andava ratificato perché disconosceva l’italianità della Dalmazia. Dopo avere ribadito che la
Dalmazia era qualcosa di diverso dai Balcani ed espresso solidarietà
politica ai dalmati italiani abbandonati al dominio iugoslavo, Ziliotto
esaltò l’operato di D’Annunzio e si dichiarò convinto che l’Italia non
poteva concludere la pace contro la volontà del poeta abruzzese e del
suo movimento181. Questo discorso al Senato attirò dure critiche a
Ziliotto da parte di alcuni giornali, che, riprendendo la propaganda iugoslava del 1918, accusarono il sindaco di Zara di essere stato a lungo austriacante e di essersi solo tardivamente trasformato in difensore dell’espansionismo dannunziano. «Il Corriere della Sera» ricordò
un discorso di Ziliotto alla Dieta Provinciale dalmata nel 1896 in cui
il politico zaratino aveva negato che esistessero velleità irredentistiche degli italiani di Dalmazia182, mentre il «Lavoratore della Sera» riprodusse documenti austriaci che segnalavano molti atti di lealismo
asburgico compiuti da Ziliotto fra il 1914 e il 1915183. Erano accuse
179 ASMAE,
Carte Salata, b. 201, Millo a Giolitti, 14 dicembre 1920.
Carte Salata, b. 201, Giolitti a Millo, 15 dicembre 1920.
181 AP, Senato del Regno, tornata del 16 dicembre 1920, discorso di Luigi Ziliotto, p. 2305
e ss.; ZILIOTTO, In difesa di Zara, prima e dopo Rapallo, cit., pp. 276-282.
182 Per un’interpretazione di quel discorso di Ziliotto: MONZALI, Italiani di Dalmazia,
cit., pp. 176-177.
183 «Il Lavoratore della Sera», 20 dicembre 1920, Come fu irredentista Ziliotto; ibidem,
Anche il “Corriere della Sera” dà dell’austriacante a Ziliotto.
180 ASMAE,
IL TRATTATO DI RAPALLO
243
polemiche che non tenevano conto della complessità della situazione
politica dalmata prima della guerra, e che pure non sembravano comprendere la difficile posizione dei vecchi capi del partito italiano a Zara
dopo il trattato di Rapallo. Tuttavia, alla luce del successivo comportamento di Ziliotto, appare evidente che il carattere ed il tono del discorso compiuto dal politico zaratino al Senato si spiegavano con l’esigenza di difendersi dalle critiche di coloro che lo accusavano di essere in fondo favorevole al trattato di Rapallo perché garantiva l’annessione di Zara all’Italia. Dopo l’approvazione del trattato di Rapallo
da parte del Senato, il 19 dicembre, su mandato dei principali esponenti del liberalismo dalmata, Ziliotto scrisse una lettera a D’Annunzio,
dal contenuto completamente opposto rispetto a quanto dichiarato tre
giorni prima al Senato. Con una scelta di parole molto abile ed attenta, Ziliotto consigliò a D’Annunzio di accettare il trattato di Rapallo e
la sua applicazione. L’Italia non doveva essere travolta dalla tragedia
dei dalmati, che dovevano sacrificarsi per l’interesse comune.
Che mi dice dunque il cuore? Mi dice: Rientriamo nella legalità. Un’azione fuori legge mi pareva particolarmente indicata quando si trattava d’indurre il governo a fare meno spropositi che fosse possibile. Anche fuori di
ciò pensavo opportuno di agire, supposta una certa probabilità di successo.
Adesso – parlo soltanto del problema dalmatico – ogni speranza di successo
mi sembra esclusa184.
Anche se il governo avesse consentito lo sbarco di una spedizione
di volontari in Dalmazia, le possibilità di successo erano nulle: mancavano le armi, le risorse finanziarie, gli uomini.
Io credo poi che, come moltissimi sarebbero pronti a rischiare la vita in
un’impresa in cui ci fosse speranza di successo, le file si assottiglierebbero
assai per un’impresa a priori condannata a fallire. Penso inoltre a quelle povere famiglie che non hanno nessuna persona atta alle armi, e dovrebbero esulare per il fatto dell’azione, perché questa renderebbe impossibile a qualunque italiano per molti anni la vita in luoghi che restassero in mano agli Slavi.
Penso che questo esodo forzato degl’Italiani darebbe il colpo mortale
all’Italianità dell’altra sponda, la quale altrimenti, per quanto con difficoltà
immense, è destinata a rinascere. Per questo, e tenuto conto del parere dei più
184 Ziliotto a D’Annunzio, 19 dicembre 1920, edita in ZILIOTTO, In difesa di Zara, prima e dopo Rapallo, cit., pp. 283-287.
244
LUCIANO MONZALI
fervidi italiani di Dalmazia, e perché dalle parole di un numero infinito di
persone, fra le quali dei più ferventi di fede, ho dedotto il convincimento che
l’Italia ha bisogno d’un momento di pace, io penso che noi in Dalmazia si
debba entrare nella legalità e avvisare, entro codesta cornice, ai mezzi di provvedere alla nostra causa. […] Io penso, Comandante, che in certi momenti
occorre maggior coraggio a vivere che a morire. Nessuno domanda a Lei «il
sacrificio dello spergiuro», perché non v’è persona al mondo che non conosca il Suo spirito eroico e non uno che creda ch’Ella non sia nello stesso sentimento di tutte le volte che promise di salvarci. Ma noi potremmo sacrificare la nostra vita, se fossimo sicuri di non fare inutili vittime; questa sicurezza non l’abbiamo, anzi abbiamo la sicurezza del contrario, e quindi dobbiamo chinarci185.
La lettera di Ziliotto mostrava che l’elemento dalmata liberale e
moderato, consapevole che non vi era alternativa ad una politica di collaborazione con il governo di Roma, era ormai deciso a riaffermare la
propria egemonia politica rispetto ai gruppi intransigenti ed estremisti che potevano provocare danni irreparabili per l’italianità dalmatica. Dopo la votazione al Senato sul trattato di Rapallo, la situazione
politica in Dalmazia si stabilizzò lentamente. Per alcuni giorni circolarono voci che a Fiume si stesse preparando una spedizione per Zara
alla quale avrebbero preso parte circa duemila volontari triestini186.
L’arrivo di Foscari, un difensore intransigente dell’annessione italiana
della Dalmazia, nella città dalmata sembrò confermare la plausibilità
di tali notizie. In effetti il 21 dicembre un gruppo di legionari dannunziani, appartenente in parte alla Legione dalmata, composto da una settantina di soldati e ufficiali, proveniente da Fiume, sbarcò a Castel
Venier, località a circa 25 chilomentri da Zara187. Loro obiettivo era occupare Zara e impedire ogni ritiro italiano dalla Dalmazia occupata. Il
commissario civile Bonfanti Linares, appena giunto a Zara, ordinò che
alcune truppe regolari andassero incontro ai legionari per bloccarli ed
eventualmente arrestarli. Gli ordini di Bonfanti, però, non furono eseguiti dai soldati, che fraternizzarono con i dannunziani e li fecero en-
185
Ibidem.
AM, archivio di base, c. 1497, Millo a Presidenza del Consiglio, Ministero della
Guerra e Ministero della Marina, 18 dicembre 1920.
187 TACCONI, L’impresa dannunziana in Dalmazia, cit., p. 57; ELIO RICCIARDI, I bersaglieri in Dalmazia e il battaglione bersaglieri “Zara”, Gorizia, 1999, p. 7; GUALTIERO SANTINI,
Fiamme dannunziane. Fiume Veglia Arbe Zara, Ancona, s.d., p. 230 e ss.; FV, ARC GEN FIU,
fasc. Fiume-Legione dalmata, La Legione dalmata in Fiume ed i fatti di Zara.
186
IL TRATTATO DI RAPALLO
245
trare a Zara. L’episodio era l’ennesima conferma dello stato di anarchia in cui era caduta Zara dopo il trattato di Rapallo. Comunque una
più rigorosa applicazione del blocco per terra e per mare intorno a
Fiume e alle isole occupate dai dannunziani, deciso dal generale Caviglia, per ordine del governo, rese definitivamente impossibile ogni ulteriore spedizione verso la Dalmazia188. Posteriormente Bonfanti descrisse la situazione a Zara in quei giorni in questi termini:
Colloqui con l’on. Ziliotto, con l’on. Foscari e con altri, mi confermano
nell’opinione che l’infatuazione della cittadinanza è artificialmente mantenuta dalla propaganda assidua di pochi spiriti esaltati e dal regime di violenza da tempo inaugurato, e per cui si è creata questa strana situazione: coesistono due Governi dei quali quello legale, più forte di numero, è in realtà dominato dall’altro che si impone con l’audacia, con gli attentati criminosi, con
le violente sopraffazioni, con le minaccie di rappresaglie: e questi elementi
irregolari costituiti dal battaglione di legionari fiumani (battaglione Carnaro)
e dei volontari dalmati (battaglione Rismondo) sono acquartierati in due caserme vicine fra loro e intercomunicanti per vie sotterranee […]; e sono mantenuti (ricevono paghe e viveri) dai Comandi delle nostre truppe regolari189.
La tensione fra le autorità civili e militari legali e i gruppi dannunziani, per settimane tenuta sotto relativo controllo grazie all’arrendevolezza e alla debolezza di Millo, esplose apertamente il 26 dicembre. Giunta la notizia che alcuni arditi si erano impadroniti del rimorchiatore Lilibeo e successivamente della nave Marsala, Bonfanti
decise di procedere allo scioglimento forzato dei volontari dannunziani. La nave Marsala fu circondata da tre rimorchiatori armati e carichi di carabinieri, che convinsero gli arditi alla resa. Alcuni reparti
di carabinieri e soldati regolari circondarono le caserme occupate dai
volontari dalmati e dai legionari, i quali preferirono evitare scontri armati: 120 legionari fiumani e 160 volontari dalmati si arresero e vennero immediatamente disarmati e imbarcati su una nave per Ancona.
Nonostante l’esito incruento del disarmo dei volontari dannunziani presenti nelle caserme, nella città fra il 26 e il 27 dicembre si ebbero vari incidenti e atti di violenza.
Dopo le intimazioni, e fino all’imbrunire (e quindi fin dopo la resa) la
188 GERRA, op. cit., p. 610.
189 ACS, UNP, b. 72, Bonfanti
dicembre 1920.
al presidente del Consiglio e al ministro della Guerra, 28
246
LUCIANO MONZALI
città rintronò di spari, di scoppi di bombe, di salve di fucileria: i volontari
dalmati, non accasermati, rinchiusi e bloccati nelle proprie abitazioni, ignari dello svolgersi degli avvenimenti, hanno creduto di prendere parte alla presunta azione, lanciando bombe e sparando dalle finestre; gli agenti dell’ordine ribattevano imperturbati. Varie manifestazioni furono tentate nelle piazze e nelle vie adiacenti alle caserme; ma il fermo contegno della forza pubblica impedì che la popolazione venisse travolta nelle operazioni contro i legionari190.
La resistenza cessò dappertutto appena il commissario civile fece «gridare» un bando per portare a conoscenza dei cittadini che legionari e volontari si erano arresi. L’operazione di scioglimento delle forze armate dannunziane a Zara provocò la morte di un soldato
regolare (Francesco Palumbo), ucciso da una fucilata sparata da una
caserma, e di una civile (la domestica croata Giovanna Miofrag), colpita da un’arma da fuoco mentre era affacciata ad una finestra, nonché sei feriti191.
Il 27 dicembre finì così il tentativo dei volontari e dei legionari dannunziani d’impedire a Zara e nella Dalmazia italiana l’esecuzione del
trattato di Rapallo. Peraltro, sempre in quei giorni, fra il 24 e il 31 dicembre, il governo legionario a Fiume si dissolse e D’Annunzio si ritirò in Italia. Terminava l’avventura del movimento legionario, anche
se a Zara molti seguaci dannunziani, spesso animatori e fondatori sia
dei gruppi nazionalisti e fascisti locali che del repubblicanesimo zaratino, sarebbero rimasti protagonisti delle lotte politiche nella Dalmazia italiana nei due anni successivi, ponendosi in alternativa alla
vecchia classe dirigente liberale, guidata da Ziliotto.
Sciolte le forze armate di volontari dalmati e di legionari dannunziani presenti a Zara, con il conseguente rimpatrio in Italia dei volontari non zaratini, soppressa la Reggenza del Carnaro a Fiume, il 5 gennaio si celebrò a Zara l’annessione della città all’Italia. Nella città si
svolsero celebrazioni festose e piene d’entusiasmo. Bonfanti così descrisse quella giornata:
Da ogni finestra sventola tricolore. Nella città animatissima regnano massimo entusiasmo ed ordine perfetto. Sindaco Senatore Ziliotto pubblicò no-
190
Ibidem.
Ibidem. Alcuni giorni dopo gli scontri morì pure il volontario spalatino Riccardo
Vucassovich, ferito a Zara il 26 dicembre 1920.
191
IL TRATTATO DI RAPALLO
247
bile patriottico manifesto e stamane Consiglio Comunale con altre rappresentanze istituti locali presentavansi forma solenne Commissariato Civile
esprimere Rappresentante del Governo devozione tutta città dinanzi alla Patria
finalmente riacquistata192.
Con l’annessione all’Italia si chiudeva una travagliata fase della storia degli italiani di Zara e della Dalmazia e sembrava finalmente realizzarsi la pluridecennale aspirazione di molti di loro all’emancipazione nazionale e all’unione con la madrepatria. Iniziava, però, una
nuova epoca che si sarebbe rivelata piena d’incognite e di pericoli.
3.3. Due Stati deboli e divisi. Le lotte politiche e nazionali nel
Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e in Italia negli anni Venti
Le relazioni diplomatiche fra Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni
negli anni Venti non possono essere adeguatamente spiegate e comprese senza tenere conto del fatto che i rapporti fra i due Stati, e in
particolare il problema dell’applicazione del trattato di Rapallo, non
furono solo un mero aspetto della politica internazionale italiana e iugoslava, ma anche un importante problema di politica interna in seno
a due società sconvolte da violente lotte intestine. All’inizio degli anni Venti Iugoslavia e Italia erano due Stati scossi da dure lotte politiche e sociali, nel primo provocate dal complesso processo di costituzione di una nuova entità statuale, nel secondo dalla difficoltà della
transizione da un sistema politico liberale oligarchico ad uno con una
più ampia partecipazione popolare.
Come abbiamo visto, già dopo pochi mesi di esistenza, il Regno
dei Serbi, Croati e Sloveni, sorto dall’alleanza fra la monarchia nazionale serba e alcuni gruppi politici croati e sloveni anti-asburgici e
favorevoli alla creazione di uno Stato iugoslavo, cominciò a conoscere una crescente conflittualità interna. Nel corso del 1919 emerse chiaramente che i capi politici croati filoiugoslavi, Trumbic!, Smodlaka,
Tres#ic! Pavic#ic!, espressione di un sistema politico come quello asburgico che favoriva le élites cittadine e aristocratico-borghesi, erano scarsamente rappresentativi della volontà delle grandi masse contadine e
popolari della Croazia e della Dalmazia. La crisi economica e lo shock
provocato dall’avvento dell’amministrazione serba nei territori ex-
192 ASMAE,
Carte Sforza, b. 6, Bonfanti a Sforza, 5 gennaio 1921.
248
LUCIANO MONZALI
asburgici, abituati a forme di governo più evolute ed avanzate, provocarono ben presto il sorgere in Croazia e in Bosnia di un’opposizione politica ostile al nuovo Stato ed all’egemonia serba in esso. Il partito dei contadini croato e il partito comunista iugoslavo furono le forze che maggiormente incarnarono questo sentimento d’opposizione
antisistema. Il partito contadino repubblicano croato, guidato da
Stjepan Radic!193, dopo la guerra divenne la principale forza politica
della Croazia raccogliendo il consenso della grande maggioranza della popolazione, in particolare dei ceti contadini. Esso chiedeva la creazione di una Repubblica croata indipendente, che poteva eventualmente fare parte di una confederazione iugoslava. Il partito comunista iugoslavo, sorto nel 1920 e diffuso fortemente in Dalmazia e nei
principali centri urbani, era un’organizzazione con forti divisioni al
proprio interno, che spesso riflettevano una spaccatura fra coloro che
erano vissuti in seno all’Austria-Ungheria e coloro che erano stati cittadini del vecchio Stato serbo. I comunisti erano favorevoli ad uno
Stato iugoslavo, ma erano critici verso il governo militare e autoritario serbo194. Le elezioni per l’Assemblea costituente, tenutesi il 28 novembre 1920, mostrarono chiaramente la spaccatura esistente in seno
allo Stato iugoslavo195. Se i radicali e il partito democratico, espressione dei serbi, raccolsero il consenso della gran parte dell’elettorato
serbo conquistando 91 e 92 deputati, in Croazia i contadini repubblicani conquistarono la netta maggioranza dei voti eleggendo 50 deputati. In Macedonia, Montenegro e Dalmazia il partito comunista ottenne un ottimo risultato elettorale, conquistando 58 seggi196. Dalle elezioni risultava chiaramente una profonda spaccatura politica nel Paese,
con le forze anti-sistema ed anti-serbe maggioritarie in tutti i territori non serbi. Il partito contadino repubblicano croato mostrò la sua ostilità allo Stato iugoslavo, decidendo di non partecipare ai lavori
dell’Assemblea costituente e rifiutando di riconoscere la legittimità di
193
BIONDICH, op. cit.; BANAC, The National Question, cit.
BANAC, The National Question, cit., p. 328 e ss.
195 Sulle lotte politiche in seno allo Stato iugoslavo nel corso degli anni Venti: JANJATOVIC!, Politic#ki Teror u Krvatskoj, cit.; ALEX N. DRAGNICH, The First Yugoslavia. Search for
a Viable Political System, Stanford, 1983; BANAC, The National Question, cit.; PIRJEVEC, Il
giorno di San Vito, cit., p. 35 e ss.; LAMPE, Yugoslavia as History, cit.; PAVLOWITCH,
Yugoslavia, cit.; ID., The Improbable Survivor. Yugoslavia and its Problems, London, 1988;
MATKOVIC!, Povijest Jugoslavije, cit.; JAKIR, op. cit.; BILANDZI# C, Hrvatska Moderna Povjiest,
cit., p. 68 e ss.
196 BIONDICH, op. cit., p. 172; ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1304, Galanti al
Ministero degli Esteri, 29 novembre 1920.
194
IL TRATTATO DI RAPALLO
249
questa. Per i deputati croati l’unione croato-serba decisa il 1° dicembre 1918 era un atto illegale e nullo: bisognava aprire un nuovo negoziato fra monarchia serba e deputati croati, su base paritaria, per ridiscutere radicalmente l’organizzazione dello Stato. Contemporaneamente, nel dicembre 1920, Radic! organizzò manifestazioni di massa
a Zagabria, che ebbero enorme successo197. Galanti, rappresentante italiano a Belgrado, riferì che una persona di fiducia gli aveva dichiarato che le manifestazioni di Zagabria «sono state imponentissime pel
grande numero di partecipanti e per ordine perfetto in cui si sono svolte. Mi ha confermato carattere di fanatismo religioso associato ad un
vivissimo nazionalismo croato. Può dirsi che tutti i partiti croati simpatizzano per Radich, se non per l’idea repubblicana, per ottenere una
larga autonomia croata. Si conferma ad ogni modo che movimento non
è separatista in modo assoluto: Radich ha dichiarato anche al mio
interlocutore di volere una Croazia autonoma nel quadro della Jugoslavia»198.
Nonostante la forza delle opposizioni, Pas#ic! riuscì a costituire un
governo, fondato sul sostegno parlamentare dei radicali, del partito democratico (guidato da Svetozar Pribicevic!), dei contadini serbi e del
partito dei musulmani199. Alternando metodi repressivi con blandizie
clientelari, il governo Pas#ic! riuscì a fare approvare la nuova Costituzione il 28 giugno 1921. Ma la Costituzione fu votata da una debole
maggioranza (223 voti a favore, 35 contrari, 161 assenti dal momento del voto): al voto non parteciparono il partito dei contadini croati,
i comunisti, i clericali sloveni, ritiratisi dai lavori della Costituente per
protesta. Trumbic! rifiutò di seguire la politica dell’astensionismo dai
lavori parlamentari, ma anche lui, il firmatario del patto di Corfù, votò
contro la Costituzione200. Il documento costituzionale era espressione
della cultura politica serba, fondato su un centralismo autoritario e antipluralista, votato contro la volontà della maggioranza dei partiti non
serbi. Per il ministro plenipotenziario italiano Manzoni, la Costituzione
era un grande successo di Pas#ic! e dei serbi:
197 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1304, Galanti al Ministero degli Esteri, 8 dicembre 1920.
198 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1304, Galanti al Ministero degli Esteri, 12 dicembre 1920.
199 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Manzoni a Sforza, 11 febbraio 1921.
200 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Manzoni al Ministero degli Esteri, 3 luglio 1921; PIRJEVEC, Il giorno di San Vito, cit., pp. 39-40; BIONDICH, op. cit., p. 178.
250
LUCIANO MONZALI
La votazione del 28 giugno rappresenta: la vittoria del panserbismo sul
pancroatismo: la vittoria del regime unitario su quello federale; la vittoria del
regime monarchico su quello repubblicano: la vittoria dell’elemento ortodosso
sull’elemento cattolico201.
Di fatto a partire dall’estate del 1920 la repressione del governo
contro le opposizioni si scatenò e la lotta politica divenne sempre più
violenta. Per reazione alle violenze serbe, alcuni militanti comunisti
uccisero l’ex ministro dell’Interno, Milorad Dras#kovic!, e organizzarono un attentato contro l’erede al trono e reggente Alessandro, che
però fallì202. Il 2 agosto il governo votò una legge speciale per la difesa della pubblica sicurezza e dell’ordine, che decretò la soppressione del partito comunista iugoslavo e l’arresto dei suoi capi203. Pure in
Croazia la repressione del governo fu molto dura e culminò in violenze
e ripetuti arresti di oppositori politici e nello scioglimento del Consiglio comunale di Zagabria, accusato di essere ostile alle istituzioni
monarchiche e statali204. Per contrastare il governo dominato dai serbi, i partiti croati si unirono in un fronte unitario, lo Hrvatski Blok,
un’alleanza fra i contadini radiciani, l’Unione croata e il partito del
diritto. Dominato dal partito contadino, lo Hrvatski Blok difendeva i
diritti nazionali croati205.
In questo contesto di conflittualità nazionale acuta e violenta, è evidente che i rapporti italo-iugoslavi e la questione dell’applicazione del
trattato di Rapallo erano problemi anche di politica interna. Per i partiti croati il trattato di Rapallo era stato un tradimento dei diritti nazionali croati compiuto dal governo serbo a favore dell’Italia. Dopo
la conclusione dell’accordo Radic! dichiarò di non ritenerlo valido e
vincolante206. Da una parte, il governo di Belgrado ebbe oggettive difficoltà a perseguire una politica di amicizia con l’Italia: si trovò continuamente sottoposto a critiche da parte dei partiti croati e sloveni,
che contestavano il trattato di Rapallo e accusavano i serbi di ecces201
Manzoni al Ministero degli Esteri, 3 luglio 1921, cit.
202 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Manzoni al Ministero degli Esteri, 30 giu-
gno 1921.
203 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Manzoni al Ministero degli Esteri, 2 agosto 1921; JANJATOVIC!, Politic#ki Teror u Krvatskoj, cit., p. 186 e ss.; BANAC, National Question,
cit., p. 332.
204 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Summonte al Ministero degli Esteri, 29
agosto 1921.
205 BIONDICH, op. cit., p. 180 e ss.
206 Galanti al Ministero degli Esteri, 12 dicembre 1920, cit.
IL TRATTATO DI RAPALLO
251
siva arrendevolezza verso l’Italia. Dall’altra, il governo iugoslavo sfruttava e alimentava le rivalità nazionali nell’Adriatico per aumentare il
proprio consenso interno e presentare lo Stato unitario SHS come unico possibile scudo di protezione di croati e sloveni contro l’imperialismo italiano. La stampa croata filogovernativa, ad esempio il «Novo
Doba» di Spalato, perseguiva ossessivamente un’azione di propaganda anti-italiana, avente il chiaro fine di legittimare lo Stato unitario agli
occhi di un’opinione pubblica nostalgica del dominio asburgico, impoverita dalla crisi economica e offesa dall’arroganza dei nuovi dominatori serbi. In questa ottica l’ostilità verso la minoranza italiana in
Dalmazia e il maltrattamento dei suoi diritti ed interessi rispondevano a due obiettivi precisi: cercare di conquistare maggiore consenso
interno fra i croati ed eliminare la presenza di una comunità ritenuta
potenziale strumento di penetrazione e possibile quinta colonna dell’imperialismo italiano.
In Italia, invece, nonostante la vittoria militare conseguita nella
guerra mondiale, la società italiana fu sconvolta da una profonda crisi sociale e politica fra il 1919 e il 1922207. La guerra aveva messo in
moto un processo di mobilitazione politica di vaste masse, che il sistema liberale si dimostrò incapace di organizzare. Il malcontento economico e politico alimentò agitazioni e scioperi che travagliarono la
società italiana nel primo dopoguerra. La classe dirigente liberale, priva di nuovi leader e di strutture organizzative adeguate, fu incapace
di esprimere e rappresentare i bisogni di tanti italiani. Le difficoltà economiche dovute al passaggio da un’economia di guerra ad una di pace, con i conseguenti problemi di disoccupazione, eccedenza di produzione industriale rispetto alla domanda, aggravarono la situazione
politica italiana. La classe politica liberale, pur recependo le esigenze e i bisogni delle masse, provate dalla guerra, sembrava incapace di
dare risposte rapide ed efficaci alle richieste del popolo italiano.
Maggiore successo fra le masse ebbero i socialisti e il partito popolare. I socialisti, però, dominati da correnti massimalistiche ed estremiste, cercarono di sfruttare le agitazioni sociali ed economiche per avan-
207 DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, cit., p. 419 e ss.; GAETANO
SALVEMINI, Lezioni di Harvard: l’Italia dal 1919 al 1929, in ID., Scritti sul fascismo, Milano,
Feltrinelli, 1963, p. 392 e ss.; PAOLO SPRIANO, Storia del Partito Comunista Italiano, Torino,
Einaudi, 1967, vol. I, p. 46 e ss.; ID., L’occupazione delle fabbriche (settembre 1920), Torino,
Einaudi, 1964; GIORGIO CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, Milano, Feltrinelli, 1978, vol.
VIII.
252
LUCIANO MONZALI
zare programmi rivoluzionari208. I popolari, invece, erano guidati da
una leadership politica ancora rancorosa e ideologicamente ostile verso lo Stato liberale. Da qui l’impossibilità di dare vita ad una forte e
convinta collaborazione politica fra popolari e liberali. Le elezioni nazionali del novembre 1919 fotografarono con precisione i mutamenti
degli equilibri politici italiani prodotti dalla guerra. I socialisti raccolsero il 32,4% dei voti ed elessero 156 deputati, il partito popolare
italiano ottenne il 20,6% dei voti e 100 deputati, mentre i vari gruppi
liberali ebbero solo 179 seggi. Nei mesi successivi alle elezioni l’aggravarsi delle agitazioni sociali e politiche, con le occupazioni spesso illegali e violente delle fabbriche e delle terre, e il protrarsi dell’occupazione dannunziana di Fiume, sembrarono mettere in discussione l’ordine sociale e l’esistenza di uno Stato legale. L’incapacità dei
gruppi liberali di garantire l’ordine interno e il rispetto della legge, di
assumere la difesa degli interessi e dei valori dei ceti borghesi e piccolo borghesi minacciati dalle iniziative socialiste, creò un vuoto di
rappresentanza politica che facilitò l’ascesa del movimento fascista.
Il fascismo strumentalizzò queste lotte sociali per affermarsi come forza politica di massa e riempire lo spazio lasciato libero dal liberalismo italiano, privo di forte radicamento nella piccola borghesia provinciale. Dalla seconda metà del 1920, presentandosi come fronte di
difesa delle forze borghesi lasciate alla mercé del sovversivismo socialista, il movimento fascista divenne un partito con una forte organizzazione in Emilia, Lombardia e Toscana. La Venezia Giulia fu
un’altra regione dove il fascismo riuscì a radicarsi e a svilupparsi.
Sfruttando la crisi del vecchio partito liberale-nazionale e l’acuirsi della rivalità nazionalistica italo-iugoslava, il fascismo giuliano si affermò
come il difensore intransigente dei diritti nazionali italiani nell’Adriatico orientale, pronto ad una lotta implacabile e violenta contro sloveni e croati209. Nel corso del 1921 il movimento fascista si sviluppò
progressivamente in tutta Italia e divenne una forza politica influen-
208
CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, cit., vol. VIII, pp. 298-299.
Circa la situazione politica in Venezia Giulia dopo la prima guerra mondiale: APIH,
Italia, fascismo e antifascismo, cit.; ALMERIGO APOLLONIO, Dagli Asburgo a Mussolini. Venezia
Giulia 1918-1922, Gorizia, 2001; ANGELO VISINTIN, L’Italia a Trieste. L’operato del governo
militare italiano nella Venezia Giulia 1918-1919, Gorizia, 2000; ANNA MILLO, L’élite del potere a Trieste. Una biografia collettiva 1891-1938, Milano, 1989. Sulla distruzione violenta
delle istituzioni politiche e culturali slovene, croate e serbe perseguita dal fascismo giuliano:
KACIN WOHINZ, PIRJEVEC, Storia degli sloveni, cit.; KACIN WOHINZ, Vivere al confine, cit.; LAVO
? ERMELJ, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre, Trieste, 1974.
209
IL TRATTATO DI RAPALLO
253
te. I governi Giolitti e Bonomi non furono ostili all’ascesa del fascismo, ritenuto utile reazione contro le tendenze estremiste dei socialisti. Le elezioni parlamentari del 1921 confermarono ciò, con l’inclusione di fascisti e nazionalisti in seno all’alleanza elettorale dominata dai liberali e denominata Blocco nazionale. I risultati delle elezioni mostrarono la forza politica dei fascisti, e lo spostamento a destra
dello schieramento liberale. La questione adriatica e le relazioni italo-iugoslave ebbero una rilevante importanza nella propaganda e nell’ideologia politica fascista e nazionalista210. Il fascismo e il nazionalismo strumentalizzarono le difficoltà di politica estera dell’Italia alla Conferenza della pace per accusare i governi liberali di debolezza
e incapacità e per diffondere il mito della presunta vittoria mutilata211.
Per i nazional-fascisti, l’Italia era stata incapace di ottenere il pieno
soddisfacimento del proprio programma di guerra, in parte per l’ostilità degli alleati, in parte per propria insipienza. La creazione dello
Stato iugoslavo era una delle presunte conseguenze della vittoria mutilata. Molti fascisti e nazionalisti condividevano l’avversione irriducibile verso lo Stato iugoslavo dimostrata dal movimento dannunziano, che aveva cercato di suscitare in seno al Regno SHS moti secessionisti intrecciando rapporti con i separatisti croati, montenegrini e
albanesi. Era un atteggiamento motivato anche da un’ostilità ideologica verso l’esistenza di uno Stato unitario iugoslavo, ritenuto creazione artificiale voluta dalle potenze occidentali, governo oppressore
di molti popoli e nemico degli interessi italiani212. Il Regno dei Serbi,
Croati e Sloveni, insomma, era l’incarnazione della presunta sconfitta politica italiana dopo la guerra mondiale ed in quanto tale entità da
contrastare e distruggere. Il fascismo fece proprie molte idee di politica estera del movimento dannunziano; d’altronde, molti seguaci dannunziani divennero esponenti fascisti: pensiamo a Giovanni Giuriati,
Giovanni Host Venturi, Corrado Zoli, ecc. Fortemente influenzato dal
movimento dannunziano fu anche uno dei principali scrittori nazionalfascisti sulla questione iugoslava, il triestino Attilio Tamaro, colla210 Per un’interpretazione più generale della genesi dell’ideologia fascista: EMILIO
GENTILE, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bologna, 1996; ID., Il mito dello Stato
nuovo, Bari-Roma, 1999.
211 Sull’uso politico del mito della vittoria mutilata da parte nazionalista: ROCCUCCI, Roma
capitale del nazionalismo, cit., p. 318 e ss.
212 Al riguardo: LUIGI FEDERZONI, Presagi alla nazione. Discorsi politici, Milano, 1925,
pp. 177-213; TAMARO, La lotta delle razze nell’Europa danubiana, cit., p. 157 e ss.; MONZALI,
Tra irredentismo e fascismo. Attilio Tamaro storico e politico, cit.
254
LUCIANO MONZALI
boratore de «L’Idea Nazionale», di «Politica» e di «Rassegna Italiana»213. All’inizio degli anni Venti, Tamaro espresse con i suoi scritti il
punto di vista di molti dannunziani e dei circoli nazionalisti romani
sulla questione adriatica e sui problemi dell’Europa centro-orientale.
Per il giornalista triestino lo Stato iugoslavo unitario era una costruzione artificiale, poiché serbi, croati e sloveni erano popoli con identità distinte e separate. Il suo unico fondamento era la necessità di fare fronte al nemico comune, l’Italia214. A causa delle finalità anti-italiane dello Stato iugoslavo, ogni politica di collaborazione con esso era
inutile: per Tamaro, nell’Adriatico era in corso uno scontro fra Slavismo
e Latinità, dove vi potevano essere solo un vincitore e un vinto; era inconcepibile qualsiasi coesistenza fra Italia e Stato iugoslavo215. Bisognava piuttosto assicurare in ogni modo l’egemonia dello Stato italiano nell’Adriatico, smantellando il trattato di Rapallo e favorendo la disintegrazione della Iugoslavia, sostenendo i separatismi croato e montenegrino216. L’egemonia dell’Italia nell’Adriatico, per Tamaro e molti
dannunziani, nazionalisti e fascisti italiani, poteva essere garantita solo con l’annessione della gran parte della Dalmazia, la creazione di uno
Stato croato e la restaurazione di un Montenegro indipendente, ritenuto contrappeso allo Stato serbo-iugoslavo217.
L’ostilità verso l’esistenza di uno Stato iugoslavo era la manifestazione più eclatante di un sentimento di critica verso gli assetti territoriali e politici prodotti dalla guerra assai diffuso nell’opinione pubblica italiana, e non limitato alle sole destre218. L’intenso sentimento
213 Al riguardo: MONZALI, Tra irredentismo e fascismo. Attilio Tamaro storico e politico,
cit., p. 286 e ss.; ANNALISA DI FANT, Attilio Tamaro in missione politica a Vienna,
«Qualestoria», 2003, n. 1, pp. 199-217.
214 ATTILIO TAMARO, Origini e crisi della Jugoslavia, riprodotto in ID., La lotta delle razze nell’Europa danubiana, cit., pp. 157-256.
215 ATTILIO TAMARO, L’esecuzione del Trattato di Rapallo, «Rassegna Italiana», 1922, fasc. XLIX, pp. 392-402.
216 ATTILIO TAMARO, L’On. Sforza vende la patria della Regina ai serbi. Si può sopprimere il Montenegro senza consultare la Camera?, «L’Idea Nazionale», 7 giugno 1921; ID.,
La questione croata, «Rassegna Italiana», 1922, fasc. XLVIII, pp. 326-337.
217 ATTILIO TAMARO, Il segreto del Trattato di Rapallo, «L’Idea Nazionale», 19 marzo
1921.
218 Uno dei più rumorosi critici dell’ordine territoriale creato a Parigi, e uno dei primi
teorici del revisionismo, fu Francesco Saverio Nitti, che a partire dal 1921 si dedicò ad un’attività pubblicistica il cui fulcro centrale era l’invocazione di una radicale modifica dei trattati di pace del 1919 e del 1920: FRANCESCO SAVERIO NITTI, L’Europa senza pace, (prima ediz.
1921), riprodotto in ID., Scritti politici, Roma-Bari, 1959, I, pp. 1-220; ID., La decadenza
dell’Europa. Le vie della ricostruzione, (prima ediz., 1922), riprodotto in ID., Scritti politici,
cit., I, pp. 224-461; ID., La tragedia dell’Europa, (prima ediz. 1924), riprodotto in ID., Scritti
IL TRATTATO DI RAPALLO
255
anti-iugoslavo presente nel fascismo e nel nazionalismo italiano era
un elemento non trascurabile dell’ideologia politica dei due movimenti. Gli stessi capi fascisti più pragmatici e realisti, Mussolini in primis, erano costretti a tenere conto di questo diffuso sentire e adattavano in modo opportunistico la propria retorica a tali sentimenti della propria base politica. Non a caso, già dalla fine del 1920 lo stesso
Mussolini, pur favorevole al trattato di Rapallo, di fronte al forte dissenso verso le sue posizioni presente in gran parte del movimento fascista, preferì adottare toni sempre più critici verso l’accordo italo-iugoslavo, sposando in sostanza le tesi di Federzoni e Tamaro219.
Nel corso dei primi anni Venti si assistette quindi in Italia allo scatenarsi di una continua polemica nazionalfascista contro il Regno SHS
e ogni politica di collaborazione italo-iugoslava. Ciò influì non poco
sulla politica estera italiana verso la Iugoslavia, condotta da governi
deboli politicamente, incapaci di contrastare efficacemente le tesi delle forze di opposizione di destra e spesso timorosi di favorire il miglioramento dei rapporti con Belgrado per non suscitare opposizioni
sul fronte interno.
3.4. L’inizio dell’applicazione del trattato di Rapallo: la consegna
della prima zona e l’esodo italiano dalle isole dalmate
Il processo di applicazione del trattato di Rapallo prese il suo avvio formale dopo lo scambio delle ratifiche fra i due governi il 2 febbraio 1921.
Quello stesso giorno venne promulgato un decreto regio con la nomipolitici, cit., I, pp. 467-694. Sull’ostilità francese al revisionismo di Nitti: AMAF, Europe 19181940, Italie, vol. 79, Barrère al ministro degli Esteri, 29 settembre 1920; AMAF, Europe 19181940, Italie, vol. 80, Charles-Roux al ministro degli Esteri, 13 marzo 1922.
Molte tesi revisioniste di Nitti erano condivise dal partito popolare. Al riguardo gli accenni di politica estera nei discorsi del capo del PPI, Sturzo: LUIGI STURZO, I discorsi politici, Roma, 1951, ad esempio, p. 42 e ss., 208 e ss. Si veda anche: AMAF, Europe 1918-1940,
Italie, vol. 80, Charles-Roux al ministro degli Esteri, 9 maggio 1922. Forte era l’ostilità verso i trattati di pace fra i socialisti. Per Filippo Turati il trattato di Versailles era un patto scellerato, espressione del capitalismo più crudo: esso andava completamente rifatto e sottoposto a revisione: FILIPPO TURATI, Discorso parlamentare, 26 giugno 1920, in ID., Socialismo e
riformismo nella Storia d’Italia. Scritti politici 1878-1932, Milano, 1979, pp. 365-379. Per
un giudizio della diplomazia francese sulle posizioni di politica estera dei socialisti italiani:
AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 79, Charles-Roux al ministro degli Esteri, 20 ottobre
1920.
219 Ad esempio: BENITO MUSSOLINI, Discorso alla Camera dei deputati, 21 giugno 1921,
edito in ID., Opera omnia, cit., 16, pp. 435-440.
256
LUCIANO MONZALI
na dei rappresentanti italiani nelle commissioni bilaterali che avrebbero operato per l’applicazione delle varie clausole del trattato italo-iugoslavo220. Tre commissioni erano previste per la delimitazione dei confini: la prima per la Venezia Giulia, la seconda per i confini italo-iugoslavi verso lo Stato libero di Fiume, la terza per la definizione delle frontiere in Dalmazia. Per la commissione dalmata vennero nominati da parte italiana Francesco Salata, il generale Eugenio Barbarich e Natale
Krekich. Il decreto, poi, prevedeva la nomina dei delegati italiani per le
future trattative economiche e commerciali con il Regno SHS e per i
negoziati in campo culturale. Il lavoro delle cinque commissioni sarebbe stato diretto e coordinato dal segretario generale del Ministero degli
Esteri, Salvatore Contarini221. L’8 febbraio il ministro della Guerra,
Bonomi, comunicò al commissario civile di Zara, Bonfanti, che il governo, desideroso di procedere al ritiro dalla Dalmazia occupata, pensava di realizzare l’evacuazione in tre fasi. La prima fase avrebbe comportato il ritiro dalla zona dalmata interna compresa fra la linea armistiziale e il limite dei distretti di Zara e Sebenico. La seconda fase sarebbe stata caratterizzata dall’evacuazione delle isole Curzolane e del
distretto di Sebenico, mentre la terza sarebbe consistita nel ritiro dal distretto di Zara non annesso all’Italia. Bonomi chiese un parere a Bonfanti
su questo piano e sui tempi per organizzare la consegna degli uffici e
dell’amministrazione al governo iugoslavo222. Consultato il generale
Taranto, Bonfanti rispose di non avere nulla da obiettare circa il piano
di evacuazione, salvo la richiesta di una piccola variante nella prima fase, nel senso di lasciare più a lungo in mani italiane il distretto di
Bencovaz al fine di mantenere sotto controllo le comunicazioni terrestri, telefoniche e telegrafiche fra Zara e Sebenico. Quello che Bonfanti
riteneva importante era non procedere all’evacuazione prima di avere
risolto tutte le questioni relative all’organizzazione del territorio.
Ritengo peraltro non doversi iniziare evacuazione militare prima aver risolto questioni inerenti alienazione materiali, trasferimento funzionari et nazionali che non intendono rimanere sotto i nuovi occupanti et nomina agenti consolari in alcuni importanti centri223.
220 Decreto di nomina dei delegati italiani per le commissioni previste dal trattato di
Rapallo, 2 febbraio 1921, edito in MASSAGRANDE, op. cit., pp. 178-179.
221 Ibidem.
222 ASMAE, Carte Salata, b. 247, Bonomi a Bonfanti, 8 febbraio 1921.
223 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Bonfanti alla Presidenza del Consiglio, all’Ufficio
per le Nuove Provincie e al Ministero degli Esteri, 10 febbraio 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
257
Un problema con cui il governo di Roma dovette ben presto confrontarsi fu quello del destino degli italiani della Dalmazia occupata
dal 1918 ed in procinto di essere ceduta al Regno SHS. Particolarmente
grave era la situazione a Sebenico ed in alcuni centri delle isole (Curzola, Veglia, Arbe, Cittavecchia e Lesina), dove era concentrata la grande maggioranza dei dalmati italiani appartenenti ai territori da consegnare alla Iugoslavia. Sebenico era un centro urbano di circa 14.000
abitanti, con una popolazione in maggioranza croata, ma con nuclei
serbi e italiani224. L’elemento italiano componeva una parte rilevante
dei ceti commerciali e intellettuali della città: a testimonianza di ciò
vi era la forte tradizione culturale italiana di Sebenico, città che aveva dato i natali a Nicolò Tommaseo. Nonostante fin dagli anni Settanta
del XIX secolo il Comune fosse sotto il controllo delle forze politiche croate, la minoranza italiana e italofila, organizzata in numerose
associazioni che facevano capo al partito autonomo, aveva mantenuto una propria compattezza e influenza nella società sebenzana, rimanendo un elemento importante della vita cittadina. L’occupazione
italiana di Sebenico entusiasmò la minoranza italiana che, trascinata
dalla propaganda di Millo e delle forze di occupazione, si convinse che
l’annessione all’Italia era certa e sicura. Il coinvolgimento degli italiani sebenzani nel governo della città e del suo distretto (ad esempio
Luigi Pini, capo del partito autonomo e del Fascio Nazionale Italiano
di Sebenico, venne nominato d’autorità sindaco della città) radicalizzò
la contrapposizione nazionalistica tra le varie componenti della società
locale. Come abbiamo già visto, dopo il trattato di Rapallo la prospettiva del ritiro dell’esercito italiano creò paura e sgomento negli italiani di Sebenico. L’11 gennaio il generale Taranto, comandante delle
forze di terra e di mare della Dalmazia occupata, constatò il crescere
della delusione, dello sconforto e del timore degli italiani di Sebenico
a proposito del proprio futuro. Il governo austriaco, a suo avviso, ave-
224 Secondo il censimento degli italiani di Sebenico fatto dall’amministrazione italiana
all’inizio del 1921, nel circondario sebenzano erano presenti 1708 italiani: di questi circa 900
vivevano nella città di Sebenico: ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 2, Prospetto delle persone
di nazionalità italiana residenti nel circondario del comune di Sebenico, s.d., ma 1921. Sulla
storia di Sebenico: VINCENZO MIAGOSTOVICH, La città di Sebenico. Guida storico-artistica,
«Atti e memorie della Società dalmata di storia patria», Roma, 1969, vol. VI, pp. 3-85; SANTE
GRACIOTTI, Sebenico nella prospettiva dell’Homo Adriaticus e dell’Homo Europaeus, «Atti
e memorie della Società dalmata di storia patria», Roma, 2003, n. 5, vol. XXV, pp. 55-67;
MANLIO CACE, I cento anni del Teatro Mazzoleni di Sebenico, «La Rivista Dalmatica», 1970,
n. 1, p. 35 e ss.
258
LUCIANO MONZALI
va creato una rivalità nazionale fra italiani e croati, che l’occupazione italiana alimentò ulteriormente.
Avvenuta l’occupazione italiana – sia per naturale reazione, sia perché le
circostanze politiche dell’epoca poterono lasciar credere definitiva una sistemazione ch’era solo provvisoria – non venne esplicata alcuna azione pacificatrice ed armonizzatrice tra i due elementi. Si può anzi affermare che –
per lo meno in apparenza – fu acuito il dissidio, in quanto che ai pubblici uffizi vennero chiamati quasi esclusivamente italiani, come tra gli italiani furono scelti i consiglieri e gli assistenti delle autorità occupanti. Infine, in dimostrazioni collettive ed altre pubbliche forme di adunanza, venne fomentata l’affermazione dell’italianità in contrapposto alla propaganda slava. Furono
per contro sciolti i Sokol e proibita agli slavi ogni dimostrazione che avesse
carattere di nazionalismo. Ne è scaturita per parte di questi ultimi la convinzione che tali procedimenti fossero esclusivamente dovuti ad opera di sobillazione degli italiani del posto verso le autorità occupanti, onde l’antico rancore ha messo – nei due anni di occupazione – radici sempre più profonde.
E poiché l’alterna vicenda delle sorti politiche della Dalmazia ha dato modo
– in detto periodo – sia agli slavi che agli italiani di potere sperare nel trionfo
della loro causa, si è sempre più radicato uno stato di palese ostilità, nel quale ciascuno dei due elementi è rimasto nell’attesa del momento buono per potersi affermare sull’altro. E data la mentalità degli slavi – per questi l’affermarsi si traduce in rappresaglie e persecuzioni con tutti i mezzi. Tali propositi non si sono fatti scrupolo di ostentare – per quanto in forma occulta –
quelli che rappresentano i maggiorenti del partito S.H.S. in Sebenico.
Ora è naturale che – dopo il trattato di Rapallo – gli italiani, i quali – per
antica esperienza – conoscono i loro avversari, siano presi da un senso di vivo sgomento nella previsione del domani. Tale sgomento è specialmente spiccato nelle autorità locali che – dopo esser passate alla nostra causa ed aver
prestato utile e fedele servizio – nulla di positivo conoscono ancora circa la
loro sorte futura225.
Le autorità di occupazione avevano dato assicurazioni che il governo di Roma avrebbe tutelato gli interessi della minoranza italiana
che sarebbe rimasta sotto il dominio iugoslavo.
Però la popolazione italiana – che si considera abbandonata dalla madrepatria – dimostra amaro sconforto e grande scetticismo. Ad avvalorare tali
sentimenti si è aggiunta la circostanza che – mentre nessun provvedimento è
225 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 2, Taranto al Commissario civile per Zara e la
Dalmazia occupata, 11 gennaio 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
259
stato sinora preannunziato dalla competente autorità in favore della popolazione anzidetta – sono per contro palesi i prodromi della evacuazione militare; sicché allo stato attuale delle cose molti degli italiani vivono sotto l’incubo che possano all’improvviso trovarsi abbandonati alla mercè degli slavi226.
A parere di Taranto, era urgente reagire a tale situazione dando
«prove tangibili» che le garanzie promesse stavano per essere concretizzate. In quelle settimane fra gli italiani di Sebenico si manifestarono due orientamenti. Da una parte, vi erano gli italiani desiderosi di abbandonare la città natia, timorosi di possibili rappresaglie serbo-croate e non disposti a vivere sotto il dominio iugoslavo. Dall’altra,
una componente della popolazione italiana, guidata da Luigi Pini, era
decisa a rimanere a Sebenico anche dopo l’arrivo delle truppe iugoslave. Il 10 gennaio alcuni capi degli italiani desiderosi di abbandonare Sebenico (Doimo Cace, Carlo Ruggeri, G. Dellich, Oreste Anelli)
inviarono alle autorità d’occupazione un memoriale in cui espressero
le loro richieste227. I firmatari ribadirono la loro fiducia nell’operato
del governo di Roma e la volontà di sacrificarsi in nome del più generale interesse nazionale. In previsione di una probabile partenza
chiedevano le seguenti concessioni:
1. Per i Dalmati – entro e fuori la zona occupata – che intendono trasferire nel Regno il loro domicilio, trasporto gratuito delle loro persone e cose
entro un anno dall’avvenuta opzione.
2. Agli stessi sia accordato un equo cambio delle Corone costituenti il loro peculio nella stessa misura che venne concessa alla Venezia Giulia.
3. Agli operai che vivono del loro guadagno giornaliero sia corrisposto
un sussidio adeguato per il tempo della loro disoccupazione e venga provvisto e facilitato il loro collocamento.
4. Alle persone e famiglie veramente bisognose che espatrieranno sia concesso un sussidio.
5. Tutti quelli che detengono concessioni industriali abbiano diritto di goderle anche nella loro nuova residenza.
6. Il governo garantisce infine agli italiani della Dalmazia il risarcimento di quei danni che in seguito a reazioni politiche potessero venire arrecati
alle loro proprietà228.
226
Ibidem.
227 ASMAE,
Sebenico, arc. ord., b. 2, Cace, Ruggeri, Dellich e Anelli al Comando delle truppe italiane in Dalmazia, 10 gennaio 1921.
228 Ibidem.
260
LUCIANO MONZALI
Gli italiani decisi a restare a Sebenico, invece, desideravano piuttosto che il governo di Roma agisse per salvaguardare la sopravvivenza
delle istituzioni italiane e per garantire la loro libertà linguistica e culturale. Fra le istituzioni più importanti della comunità italiana di
Sebenico vi erano il Casino dei Nobili e il Teatro Mazzoleni, società
la cui maggioranza dei soci era di sentimenti italiani. Il probabile esodo della maggioranza dei soci avrebbe messo a rischio la sopravvivenza
di tali istituzioni e il loro carattere italiano: da qui la richiesta dei capi della minoranza affinché il governo di Roma difendesse l’italianità
di queste società, fornendo mezzi finanziari alla comunità per potersi
riorganizzare, magari acquistando le quote dei soci in procinto di emigrare da Sebenico229. Altro tema molto sentito dagli italiani di Sebenico
era la difesa del libero esercizio del culto religioso nella propria lingua. Luigi Pini, capo della minoranza italiana, ribadì che era stato tradizionale diritto degli italiani «di avere ogni anno in Duomo, in lingua
italiana, la predicazione quaresimale, e tutte le altre pratiche religiose, pure in italiano»230. L’ostilità anti-italiana del clero croato e del vicario capitolare, Scarpa, aveva provocato la soppressione di questi diritti nel 1920, «privando così l’elemento italiano del conforto di sentire la parola di Dio nella propria lingua». A nome del Fascio Nazionale
Italiano, Pini chiese a favore degli italiani che sarebbero rimasti a
Sebenico una serie di garanzie in campo religioso.
Gli italiani di Sebenico, consci della influenza grande esercitata dalla religione sulle proprie famiglie e sui propri figli, intendono che tali diritti e consuetudini non vengano soppressi e per ciò invitano codesta Commissione perché interessi le autorità ecclesiastiche competenti (occorrendo anche la Santa
Sede) perché vengano ristabiliti anche sotto il nuovo Governo jugoslavo i medesimi diritti rispettati e conservati anche sotto lo stesso Governo austriaco,
impedendo al clero locale di abusare della propria influenza religiosa per
soffocare l’anima italiana del popolo. A tal scopo si domanda che uno dei
maestri sacerdoti già incaricato dell’insegnamento elementare nella scuola,
venga riconosciuto dalle locali autorità ecclesiastiche come cappellano degli
italiani in Sebenico con autorizzazione di esercitare in Duomo, in ore com-
229 ASMAE, Carte Salata, b. 247, Nicoletti e Miagostovich a Salata, s.d. (ma gennaiofebbraio 1921); ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 2, Fascio Nazionale Italiano di Sebenico a
Lega per gli Interessi Nazionali, s.d.; ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 16, Rocco a Sforza, 3
febbraio 1921.
230 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Pini al console italiano a Sebenico, s.d., allegato
a Rocco a Sforza, 11 marzo 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
261
patibili coll’orario capitolare come in passato, l’assistenza religiosa in lingua
propria agli italiani che rimarranno. Qualora fosse assolutamente impossibile conciliare tali diritti coll’opposizione del Capitolo, sia concesso almeno come minimum indispensabile, per sottrarre l’elemento italiano all’influenza politica del clero croato che in troppe occasioni non ebbe scrupolo di sacrificare l’interesse religioso degli Italiani per propri calcoli politici, l’uso di una
(e fra le più decenti) delle quattordici chiese di Sebenico che sia giuridicamente indipendente nelle sue mansioni di ministero dal locale clero croato
[…], dove ogni italiano possa trovare conforto nel suo isolamento e rispetto
al proprio sentimento nazionale231.
Era pure importante mantenere aperta la scuola elementare italiana esistente a Sebenico, fondata dalla Lega Nazionale nel 1900. La
scuola, chiusa dal governo austriaco nel 1915 e riaperta dall’autorità
d’occupazione italiana nel 1918, aveva 156 scolari, che si prevedeva
si sarebbero ridotti a circa 50 con il futuro esodo. Il Fascio Nazionale
Italiano chiese che il governo di Roma s’impegnasse a consentire la
sopravvivenza della scuola, fornendo mezzi di sostegno e garantendo
la presenza dei suoi insegnanti (don Michele Uccelli e don Giovanni
Bertone) anche dopo il ritiro dell’esercito italiano da Sebenico232.
Bisognava poi permettere agli italiani di Dalmazia, appartenenti in prevalenza alle classi colte, di continuare a frequentare le università del
Regno attraverso ogni possibile facilitazione, in primis accordando un
cambio di favore per le corone austriache a tutti gli studenti dalmati
iscritti alle Università italiane233.
Dopo la ratifica del trattato di Rapallo fu aperto un vice-consolato italiano a Sebenico, alla guida del quale venne scelto il diplomatico Guido Rocco, che giunse in Dalmazia nel gennaio 1921. Pochi giorni dopo essere arrivato a Sebenico, Rocco inviò un rapporto a Roma
constatando la difficile situazione degli italiani nella Dalmazia centrale234. Le forze d’occupazione si trovavano a presidiare un territorio
che era destinato a passare sotto il dominio iugoslavo. Vi era il problema di gestire questa fase di transizione, con le forze politiche serbe e croate impazienti ed insofferenti verso la presenza di truppe stra231 Ibidem. Al riguardo anche: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Le donne cattoliche
italiane di Sebenico al consolato italiano di Sebenico, gennaio 1921.
232 Pini al console italiano a Sebenico, cit., allegato a Rocco a Sforza, 11 marzo 1921,
cit.; ASMAE, Spalato, b. 15, Rocco a Sforza, 14 marzo 1921.
233 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 11, Doimo Cace e Ugo Fosco al console italiano di
Sebenico, s.d., allegato a Rocco a Sforza, 8 marzo 1921.
234 ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Rocco a Sforza, 28 gennaio 1921.
262
LUCIANO MONZALI
niere, mentre la minoranza italiana era sempre più sfiduciata e spaventata.
In tali condizioni si pone il seguente dilemma grave di conseguenze: l’esercito di occupazione, legato da un pesante passato di due anni di sfrenata
esaltazione delle aspirazioni all’italianità della Dalmazia e del proposito ardentemente proclamato di non ritirarsi mai da queste terre, non può, fino a
quando dovrà occuparle, consentire anticipate manifestazioni del nazionalismo serbo-croato; per fatale necessità di cose un siffatto consenso rappresenterebbe tale affronto alle nostre truppe da privarle immediatamente di qualsiasi prestigio ed autorità. D’altra parte, il mantenimento delle misure e dei
bandi, anche temperato dalla equanimità e da una ragionevole moderazione
del comando delle forze, rappresenta un anacronismo di carattere odioso e
vessatorio in presenza della notoria sistemazione del Trattato di Rapallo235.
A parere del console, era opportuno restringere la zona d’occupazione per potere meglio assicurare il controllo delle località più importanti in attesa dell’evacuazione finale; bisognava poi procedere all’organizzazione della minoranza italiana, al fine di garantirne la migliore tutela in un prossimo futuro236. In un lungo rapporto del febbraio 1921237 Rocco delineò un’approfondita analisi della situazione
degli italiani di Sebenico. Nella minoranza vi era grande scoraggiamento e molti italiani pensavano all’esodo. Varie erano le ragioni che
li spingevano a tale decisione:
Le apprensioni per la sicurezza personale non sono certamente infondate. Coloro che più ardentemente avevano favorito l’occupazione italiana sono naturalmente i più esposti; ma nella mentalità grossolana dei croati il rancore si esplica soprattutto in un desiderio di vendetta di coloro che, per aver
provocato col loro atteggiamento ostile il rigore dell’Autorità occupante, ne
attribuiscono le misure repressive subite (arresti, internamenti, multe) alle presunte delazioni degli elementi italiani che avevano subito stretto vincoli cordialissimi coi loro fratelli giunti come liberatori. […] Gli italiani di Sebenico
temono, più che il nuovo regime, le rappresaglie individuali contro le quali
non potrà difenderli la vigilanza delle nuove autorità locali238.
235
Ibidem.
Ibidem.
237 ASMAE, Carte Salata, b. 215, GUIDO ROCCO, Sguardo alla situazione generale degli
italiani nella Dalmazia occupata dal R° Esercito ed assegnata alla Jugoslavia, febbraio 1921.
238 Ibidem.
236
IL TRATTATO DI RAPALLO
263
Le promesse di protezione del governo iugoslavo non erano servite a rassicurare molti italiani che desideravano andarsene; a parere di
Rocco, non era «prudente né coscienzioso indurli a restare, ché
quand’anche l’Autorità consolare riuscisse a proteggerli in maniera efficace contro la prima reazione, sarebbe impossibile salvarli in seguito dal boicottaggio e dallo spirito vendicativo che in questi croati è tenacissimo»239. Il console prevedeva la partenza di circa 650 persone
dalla città di Sebenico, quelle maggiormente coinvolte nell’amministrazione italiana e potenziali vittime di ritorsioni; questi italiani desideravano soprattutto recarsi a Pola, Trieste, Zara e Lussinpiccolo. A parere di Rocco, l’esodo doveva essere facilitato dal governo italiano, organizzando il trasporto e l’accoglienza in Italia. Fra i problemi più importanti da risolvere vi erano la questione del cambio delle corone austriache, che andava fissato al più presto per accelerare le partenze, e
l’esodo dei funzionari pubblici, la cui assunzione nell’amministrazione pubblica italiana doveva essere rapida per consentire ai profughi di
avere mezzi di sussistenza e di lasciare Sebenico prima possibile.
In nessun caso i funzionari possono restare nei territori sgomberati in attesa della loro destinazione, poiché molti di essi, avendo esercitato le loro funzioni sotto il Governo della Dalmazia, per la loro opera di propaganda italiana e di repressione delle resistenze alla nostra occupazione, sarebbero esposti ai maggiori pericoli di vendetta da parte della popolazione240.
Molto difficile sarebbe stata la situazione degli italiani rimasti a
Sebenico i quali, dopo un periodo di due anni di occupazione italiana, passavano ad una dominazione straniera che prevedevano più dura e ostile di quella asburgica. Lo Stato iugoslavo aveva garantito alcuni diritti alla minoranza italiana; ma le concessioni di Rapallo «consacrando il principio dell’estraneità degli italiani in Dalmazia, li pongono in una condizione giuridicamente inferiore a quella che era fatta alla nazione italiana entro i limiti della Monarchia danubiana». Con
l’articolo VII del trattato di Rapallo l’Italia aveva conquistato un diritto d’ingerenza per la protezione dei gruppi italiani, ma tale protezione non poteva oltrepassare i limiti dei diritti riconosciuti a stranieri, «mentre prima gli Italiani della Monarchia avevano modo di appoggiarsi a garanzie costituzionali riconosciute alla loro nazionalità,
239
240
Ibidem.
Ibidem.
264
LUCIANO MONZALI
ed in questo è il regresso». Notava a questo riguardo Rocco:
Le clausole del trattato di Rapallo che costituiscono la loro difesa […]
realizzano un complesso di garanzie inferiore nel fatto a quelle che la costituzione della cessata monarchia assicurava a ciascun raggruppamento etnico
[…] [;] la monarchia danubiana, come Stato plurinazionale, aveva essa stessa l’obbligo di stabilire i limiti positivi della coesistenza delle nazionalità, ed
aveva, d’altra parte, l’interesse politico di creare un equilibrio di forze tale
da impedire a tutte ed a ciascuna nazionalità di svilupparsi a danno delle altre in proporzioni da poter conquistare una efficiente e minacciosa capacità
all’autonomia. Lo Stato S.H.S., invece, conglomerato etnico uninazionale anche se scisso da differenziazioni religiose e linguistiche (che del resto si propone di fare scomparire o attenuare con ogni sforzo) non riconosce nei raggruppamenti italiani una nazionalità ammessa a far parte dello Stato241.
Da ciò derivava una serie di conseguenze. Dato il loro carattere quasi interamente «intellettuale», in caso di assunzione della cittadinanza italiana molti italiani di Sebenico non avrebbero potuto continuare le loro professioni.
Gli italiani si dedicavano in massima parte agli impieghi di Stato, alla
Magistratura, alle professioni libere e specialmente all’esercizio dell’avvocatura. Questa cultura accademica e questa preparazione speciale precludono alla grande maggioranza degli italiani l’accesso al commercio ed alla attività di natura economica che è il solo ramo in cui potrà svolgersi quella collaborazione italo-jugoslava che è nell’intento e nell’interesse dei due Stati.
Tutti i funzionari dello Stato, di qualsiasi categoria devono naturalmente allontanarsi. E già nell’esodo dei funzionari la sopravvivenza di quella poca italianità superstite nella Dalmazia viene stroncata, poiché la burocrazia italiana al servizio della monarchia era stata la spina dorsale dell’irredentismo in
questo paese242.
L’emigrazione di molti funzionari, la probabile estromissione di avvocati, farmacisti e notai italiani da ogni attività professionale e la futura impossibilità per i possessori di cittadinanza italiana di praticare
tali professioni avrebbero inferto un colpo durissimo all’elemento italiano autoctono. Nella minoranza italiana sebenzana aveva scarso peso la classe operaia, che nella sua maggioranza si proponeva di parti-
241
242
Ibidem.
Ibidem.
IL TRATTATO DI RAPALLO
265
re per l’Italia. L’elemento commerciale e i proprietari, invece, a parere di Rocco, avrebbero risentito minori danni dal nuovo regime iugoslavo.
È pertanto in questa categoria che si annovera la maggior parte di coloro
che intendono restare a Sebenico, come le persone che hanno i maggiori interessi nel Paese. Non è anzi escluso che qualcuno di essi, pur essendo notoriamente di sentimenti italiani, rinunzi a valersi della facoltà di opzione per
godere dell’integrità dei diritti civili ed evitare ogni forma o ragione di boicottaggio243.
Per migliorare le future condizioni degli italiani di Sebenico era
fondamentale mutare l’atteggiamento del clero cattolico croato, in
grande maggioranza italofobo. Il clero croato di Sebenico si era dimostrato nettamente ostile all’occupazione italiana244. Per superare
questa forte ostilità era indispensabile che le maggiori autorità ecclesiastiche della Dalmazia fossero scelte dalla Santa Sede «con larghi
intenti di pacificazione degli animi». Rocco riteneva opportuna un’azione di pressione sul Vaticano affinché fosse nominato un nuovo vescovo di Sebenico capace di realizzare una politica di riconciliazione
fra italiani e croati: per tale carica consigliò i nomi di Vincenzo Pulis#ic!,
già vescovo di Zara – poco amato dagli zaratini italiani ma uomo moderato e accettabile sia agli italiani che ai croati di Sebenico, città dove era già stato vescovo fra il 1904 e il 1910 –, e di Raimondo
Maroevic!, «canonico del Capitolo di Spalato, che sembra essere fra
quei pochi sacerdoti di Spalato che, non accecati dalla passione politica, si prestano per assistere in lingua italiana quei nostri nuclei di fedeli»245.
Oltre a Sebenico, nella Dalmazia destinata a passare alla sovranità
iugoslava le principali collettività italiane erano concentrate nei centri urbani di alcune isole, Curzola, Veglia, Arbe, Lesina, Pago e Lissa.
Per assistere le popolazioni italiane delle isole, il governo di Roma inviò Antonio Bucevich, irredentista zaratino entrato nella carriera consolare italiana, come viceconsole a Curzola. Bucevich constatò lo stato di depressione e sconforto della popolazione italiana, che a Curzola
città e nel villaggio vicino di Petrara era l’elemento maggioritario,
243
Ibidem.
Rocco a Sforza, 11 marzo 1921, cit.
245 Ibidem.
244
266
LUCIANO MONZALI
mentre nel resto dell’isola era quasi inesistente. Fra il 1918 e il 1920
le autorità d’occupazione avevano trascinato e istigato parte degli italiani locali a manifestazioni politiche anti-iugoslave «imprudenti ed
intempestive», creando un’animosità politica fra croati ed italiani, che
faceva temere il rischio di rappresaglie al momento dell’avvento della sovranità serbo-croato-slovena. Secondo Bucevich, bisognava fare
di tutto per evitare l’esodo dell’elemento italiano da Curzola.
Dopo Zara, Curzola è il centro più importante della Dalmazia perché l’elemento italiano che vive compatto nella città e nel vicino villaggio di Petrara
è in prevalenza nel comune-città su quello croato, mentre diventa minoranza
nell’intero comune, che conta circa 7000 abitanti […]. Sarebbe oltremodo doloroso se un centro d’italianità come Curzola dovesse scomparire così dall’oggi al domani. Esclusi i regnicoli qui domiciliati e i funzionari del cessato regime entrati al nostro servizio, non calcolati neppure gli italiani di fresca data, dichiaratisi tali dopo la nostra occupazione, restano ancora fra
Curzola e il vicino villaggio di Petrara ben 189 famiglie con 835 membri. La
maggioranza di questi è composta di piccoli artigiani, specie taglia-pietre,
scalpellini e carpentieri, mestieri questi nei quali i Curzolani e quelli di Petrara
sono maestri e conosciuti ed apprezzati anche fuori dei confini della Dalmazia. Una minoranza è costituita da possidenti, commercianti ed esercenti.
I primi, cioè gli artigiani, formano la parte più patriottica della cittadinanza246.
Pure nelle altre isole della Dalmazia centrale vi era una situazione di grave crisi morale e politica, situazione alla quale Bucevich cercò
di far fronte con suoi frequenti viaggi nelle varie comunità.
A Cittavecchia – ricordò posteriormente Bucevich – riportai l’impressione più penosa. L’elemento italiano era disorganizzato e avvilito. La maggior
parte, specialmente i giovani, che durante la nostra occupazione erano stati
fanatizzati ed avevano tenuto un contegno intollerante verso gli slavi, volevano andarsene non potendo rimanere nel paese senza esporsi alle ire e alle
rappresaglie dei croati, particolarmente di quelli che si erano rifugiati a
Spalato per atteggiarsi, senza ragione, a martiri politici. Ma la maggior parte di quei giovani era priva di mezzi e bisognava aiutarli prima con sussidi e
poi procurando ad essi un’occupazione nella nuova residenza. Una situazione pressoché identica trovai nella lontana Comisa dove i rapporti fra italiani
e slavi erano giunti a tal punto che di oltre un centinaio di italiani, quasi nes-
246 ASMAE, Sebenico, arc ord, b. 8, Bucevich a Ministero degli Esteri, 14 febbraio 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
267
suno intendeva restarvi dopo la nostra partenza. Alquanto migliore era la situazione a Lissa dove, gli italiani, nucleo poco numeroso ma compatto e cosciente, si stringevano intorno alla più nobile figura d’italiano che conti la
Dalmazia, il comm. Dott. Lorenzo Doimi-Delupis. Molte cose però lasciavano prevedere che la vita degli italiani sarebbe stata ben difficile in quel luogo, dopo la nostra evacuazione. Lesina era il solo centro dove gl’italiani formassero un gruppo notevole – mezzo migliaio – essendo nello stesso tempo
bene organizzati, disciplinati e fiduciosi che il R. Governo li avrebbe aiutati
anche dopo lo sgombero. Mirabili italiani quelli di Lesina dove la maggioranza è formata da gente povera: marittimi, pescatori e contadini (Lesina è
l’unico luogo in Dalmazia dove esistano contadini italiani). Non è piccolo il
merito che per la causa nazionale si sono acquistati i patrioti lesignani
Francesco Boglich-Perasti, Felice Baylon e prof. Macchiedo, le benemerenze dei quali sono state finora del tutto dimenticate. Lesina, a mio avviso, doveva essere il luogo dove pochissimi sarebbero partiti oltre i funzionari. È stato certamente il luogo dove non si è mai udito un lagno contro l’Italia247.
La situazione a Curzola, nonostante gli sforzi di Bucevich, rimase
particolarmente difficile. Qui le lotte nazionali dei due anni precedenti
avevano lasciato un pesante retaggio di odio e di risentimenti. Già nel
febbraio nella sola Curzola si erano prenotate per la partenza 118 famiglie (circa 354 persone):
Tutte le volte che mi assentavo da Curzola – scrisse Bucevich – trovavo,
al mio ritorno, la situazione peggiorata. Vi era sempre qualcuno che durante
la mia assenza consigliava lo scioglimento di tutte le società italiane e predicava l’esodo in massa in segno di protesta contro l’abbandono dell’Italia.
Mi riusciva ogni volta di calmare gli animi e di riparare il male fatto da questa gente248.
Sotto lo stimolo delle richieste dei rappresentanti dalmati e dei consoli, il governo di Roma decise di concedere alcune agevolazioni che
facilitassero le eventuali partenze di nazionali italiani dalla Dalmazia
in procinto di essere consegnata agli iugoslavi. Il 5 marzo il Commissariato civile di Zara e della Dalmazia comunicò ai consolati e alle autorità militari che il sottosegretario per la Marina mercantile aveva dato disposizioni affinché sulle linee interne dell’Adriatico gestite
dall’Italia fosse concesso il trasporto gratuito agli italiani che abban-
247 ASMAE,
248
Ibidem.
Sebenico, arc. ord., b. 1, Bucevich a Rocco, 23 maggio 1921.
268
LUCIANO MONZALI
donavano le loro residenze in conseguenza dell’applicazione del trattato di Rapallo.
Tale facilitazione sarà concessa però soltanto su presentazione di appositi certificati da rilasciarsi dai nostri RR. Consoli e viceconsoli o da questo
Commissariato attestanti, insieme ad altre generalità proprie e della rispettiva famiglia, che il richiedente è di nazionalità italiana e che abbandona l’attuale sua residenza in conseguenza dell’applicazione del Trattato di Rapallo249.
Il governo concesse il trasporto marittimo gratuito per i profughi
e le loro masserizie, con un limite iniziale di venti quintali per famiglia, interpretato in maniera flessibile250. Sulle ferrovie statali vennero stabilite tariffe militari per i profughi, con il pagamento di eventuali tasse a carico del Commissariato civile251. La gran parte dei profughi dalmati pensava di trasferirsi a Zara e in Venezia Giulia, territori vicini ai luoghi d’origine. Ma la prospettiva dell’arrivo dei profughi dalmati non riempiva di gioia le autorità politiche ed amministrative di Zara e della Venezia Giulia. Il 5 marzo il Commissariato zaratino comunicò all’Ufficio per le Nuove Provincie che vi sarebbero state gravi difficoltà in caso di eventuale concentramento dei profughi a
Zara «a causa dell’attuale crisi delle abitazioni e della assoluta impossibilità di procurare ai profughi stessi una qualsiasi occupazione»252. Analoghe preoccupazioni manifestò il commissario civile di
Pola, dove molti esuli intendevano dirigersi anche per l’esistenza nella città istriana di un Comitato per i profughi dalmati253.
L’esigenza di assicurare agli italiani dalmati pronti all’esodo o decisi a restare in Dalmazia garanzie e facilitazioni economiche, politiche e giuridiche, però, si scontrava con l’interesse del governo di Roma
di accelerare l’applicazione del trattato di Rapallo per impedire un de-
249 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 12, Commissariato civile di Zara e della Dalmazia
al console di Sebenico, 5 marzo 1921.
250 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 12, Console di Sebenico al Sottosegretariato della
Marina mercantile, 18 aprile 1921; ibidem, Console di Sebenico al Commissariato civile di
Zara e della Dalmazia, 29 aprile 1921.
251 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 12, Commissariato civile di Zara e della Dalmazia
al console di Sebenico, 25 aprile 1921.
252 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 12, Commissariato civile di Zara e della Dalmazia
al console di Sebenico, 5 marzo 1921.
253 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 12, Commissariato civile di Pola al console di
Sebenico, 9 marzo 1921. Sull’attività di assistenza ai profughi dalmati a Pola: CLARA LANA,
L’associazione dalmatica a Pola, «L’Arena di Pola», n. 3260, aprile 2005.
IL TRATTATO DI RAPALLO
269
terioramento dei rapporti italo-iugoslavi. Problema cruciale era lo
sgombero dei territori occupati dall’esercito italiano, atto che il governo di Belgrado, anche per ragioni di prestigio interno, chiedeva con
insistenza. Sforza, consapevole delle forti ostilità presenti negli ambienti sloveni e croati verso l’accordo concluso a Rapallo, cercò di
creare un clima di fiducia con la controparte accelerando il ritiro italiano da alcuni territori occupati. A ciò lo spingevano anche le esortazioni di Manzoni da Belgrado, attento a rilevare che la fiducia serba nell’Italia era ancora alquanto debole e andava rafforzata con una
rapida applicazione del trattato. Il 25 febbraio Manzoni scrisse a Sforza
riferendo le impressioni di Antonijevic!, ministro iugoslavo a Roma,
in visita a Belgrado.
Il malcontento verso l’Italia, dice egli, non era andato molto in profondità: ma, aggiunge, bisogna andare avanti adagio, a gradi, perché vi sono ancora, una, due influenze che lavorano, come prima, contro il nostro comune
riavvicinamento, del quale sono gelose e sospettose. È poi particolarmente
soddisfatto delle disposizioni del Pasich il quale a lui, come già a me, ha detto che la Jugoslavia deve finire per andare d’accordo con l’Italia254.
Per Manzoni era importante attivare tutte le commissioni di applicazione del trattato di Rapallo, ma a Belgrado «i mestatori della questione adriatica continuano ad esercitare la loro influenza; e qui non
possono ancora trascurarla»255.
Per dare slancio al riavvicinamento alla Iugoslavia, Sforza insistette
per la rapida consegna di parte dei territori che spettavano al Regno
SHS. La commissione per il confine giuliano si riunì il 23 febbraio e
stabilì lo sgombero italiano dalla cittadina di Longatico fra il 26 e il
27 dello stesso mese e la successiva consegna delle isole di Arbe e
Veglia fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo. Il ritiro da Longatico
avvenne nelle date stabilite, ma fu contrassegnato da incidenti fra la
popolazione slovena e le truppe italiane: in reazione a ciò, il governo
di Roma sospese temporaneamente la consegna di Arbe e Veglia.
Nonostante la sospensione del ritiro italiano, i lavori delle commissioni
di delimitazione proseguirono. La commissione mista dalmata – alla
quale per l’Italia partecipavano Bonfanti, Krekich e Barbarich – si riunì
per la prima volta a Spalato il 3 marzo e, dopo alcuni giorni di lavo254 ASMAE,
255
Ibidem.
GAB 1923-43, AF, b. 23, Manzoni a Sforza, 25 febbraio 1921.
270
LUCIANO MONZALI
ri, concluse un accordo che stabiliva le modalità dello sgombero della Dalmazia destinata alla sovranità iugoslava (accordo di Spalato 8
marzo 1921)256. L’accordo prevedeva la consegna dei territori dalmati occupati al governo SHS in tre fasi successive. Nella prima fase, che
doveva iniziare il 1° aprile 1921, il governo di Roma avrebbe abbandonato i distretti giudiziari di Pago, Obrovazzo, Kistanje, Dernis e
Knin, nonché la parte occupata dei distretti giudiziari di Traù e Spalato;
era prevista anche la consegna delle isole Curzolane che, però, in caso di richiesta italiana, poteva slittare all’inizio della seconda fase. Nel
corso della seconda fase, che avrebbe avuto inizio il 20 aprile l’Italia
si sarebbe ritirata dai distretti giudiziari di Sebenico, Scardona e
Bencovaz. La terza fase sarebbe iniziata nella prima decade di maggio ed avrebbe compreso il ritiro italiano da tutto il rimanente territorio dalmata riservato alla sovranità iugoslava, cioè i territori del distretto giudiziario di Zara e Zaravecchia. Eventuali problemi nell’applicazione dell’accordo sarebbero stati risolti dal commissario civile
di Zara e dal presidente della delegazione SHS. Importante era l’articolo 14 nel quale la delegazione SHS garantiva «l’assoluta sicurezza
delle persone e degli averi di tutti gli amministrati senza alcune eccezione e fino alla definitiva sistemazione dei loro interessi»257.
In effetti la delegazione italiana riscontrò un forte spirito collaborativo da parte degli iugoslavi, desiderosi di ottenere al più presto il
controllo dei territori della Dalmazia e di evitare ogni incidente che
potesse ostacolare lo sgombero258. Esistevano, però, numerose potenziali minacce ad un pacifico sgombero italiano dalla Dalmazia.
L’esplosione dello squadrismo in Italia, con il suo rivolgersi a Trieste
e in Istria contro istituzioni e organizzazioni slovene, croate e serbe,
creava irritazione in Iugoslavia e alimentava reazioni rabbiose e violente nelle frange più estremiste dei nazionalismi iugoslavo, sloveno
e croato. L’8 marzo, rilevando l’attenzione dei giornali sloveni verso
le violenze fasciste a Trieste, Manzoni scriveva preoccupato:
Queste notizie producono eccitazione circoli nazionalisti jugoslavi in un
256 Testo dell’accordo di Spalato 8 marzo 1921 in ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9.
Insieme al trattato generale venne concluso un accordo sulla gestione provvisoria e futura delle linee ferroviarie: ibidem.
257 Ibidem.
258 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, BONFANTI, KREKICH, BARBARICH, Relazione sull’opera svolta dalla delegazione italiana nella prima fase dei negoziati per la delimitazione
dei confini della Dalmazia, 10 marzo 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
271
momento nel quale è invece necessaria dalle due parti la maggior calma.
Raccomando se possibile far intendere fascisti Venezia Giulia interessi superiori politici per astenersi da violenze nelle contrade popolate da sloveni
giacché queste dimostrazioni vengono qui sfruttate sempre a scopo puramente
nazionalista259.
Altro elemento di complicazione nella consegna dei territori dalmati era il fatto che il governo italiano desiderava usare lo sgombero
dalla Dalmazia come pedina di scambio in un successivo negoziato
con Belgrado, che portasse alla definitiva soluzione della questione
fiumana, ad una più precisa tutela dei diritti della minoranza italiana
e alla conclusione di trattati commerciali ed economici bilaterali. Tale
impostazione, però, era contestata dalla diplomazia iugoslava che riteneva lo sgombero un impegno che il governo di Roma aveva già assunto e non più materia di negoziato: se l’Italia voleva risolvere le altre questioni esistenti nei rapporti bilaterali, doveva innanzitutto ritirarsi dalla Dalmazia occupata. Per Belgrado, anzi, bisognava affrettare il più possibile la consegna dei territori sotto il controllo italiano260.
Il 18 marzo Manzoni inviò a Sforza un rapporto dedicato all’analisi
delle relazioni italo-iugoslave. Secondo Manzoni, si era giunti ad un
momento decisivo dei rapporti fra Italia e Regno iugoslavo. Firmando
il trattato di Rapallo l’Italia aveva puntato a creare una stretta amicizia con il Regno serbo-croato-sloveno.
A Rapallo […] si decise allora per una politica di amicizia intima col
Governo di Belgrado, per arrivare ad una amicizia vera e sincera tra i due popoli, che assicurasse all’Italia di sentirsi sicura sul lato orientale, di non avere in casa propria un irredentismo slavo, di non avere nella Jugoslavia una
barriera ma un ponte aperto alla nostra espansione politica, economica e culturale nei Balcani ed al di là, di sottrarre, a poco a poco, la Jugoslavia ad influenze a noi contrarie ed, infine, di concordare colla Jugoslavia una azione
di combinato sfruttamento dell’Adriatico che assicurasse ai due popoli rivieraschi la gran massa dei benefici materiali che da esso possono trarsi e
per quanto possibile ne escludesse i terzi non rivieraschi261.
Questa linea politica, a parere di Manzoni, era giusta e saggia, ed
259 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 23, Manzoni a Sforza, 8 marzo 1921.
Ad esempio: GAB 1923-43, AF, b. 9, Nota verbale della Legazione del Regno SHS
al governo di Roma, 11 marzo 1921.
261 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Manzoni a Sforza, 18 marzo 1921.
260
272
LUCIANO MONZALI
era condivisa dal governo di Belgrado. Ma nelle ultime settimane nei
circoli politici serbi erano sorti dubbi circa la reale volontà dell’Italia
di perseverare in una politica di amicizia italo-iugoslava.
L’azione dei fascisti nella Venezia Giulia è una delle cause del sorgere di
questo dubbio. L’azione di parlamentari pel Montenegro e dello stesso
Governo circa i montenegrini di Gaeta e circa la propaganda ufficiale montenegrina dall’Italia, il contegno delle autorità militari e civili al confine Giulio
dove si lascia gridare e scrivere, sui giornali e sui muri, contro gli Slavi, dove si tiene atteggiamento come se si fosse davanti al nemico, sono tutti fatti
che scuotono la fiducia verso di noi e fanno credere che, malgrado la sua migliore e più sincera volontà, il Governo di Roma o non ha la forza, o non sa,
o non vuole farsi seguire dal Paese nella linea adottata a Rapallo, lasciando
in realtà le cose andare come, per forza di piazza e di stampa, le indirizza una
minoranza appassionata ed estremista262.
Secondo il ministro plenipotenziario a Belgrado, il governo di
Roma doveva reagire a questa crisi prendendo una serie di iniziative
chiare e determinate. Innanzitutto, bisognava spoliticizzare le questioni
relative alla sistemazione adriatica, impostandole, invece, su un piano di cooperazione economica, al fine di cancellare ogni dubbio circa le intenzioni dell’Italia. Bisognava poi frenare le violenze fasciste
in Venezia Giulia.
I dirigenti dei fascisti dovrebbero venir persuasi delle ragioni superiori di
politica necessaria per la stessa difesa degli italiani e dell’influenza italiana
in Jugoslavia, che impongono una immediata e completa cessazione di ogni
dimostrazione antislava o contro Slavi e contro istituzioni slave nella Venezia
Giulia ed in tutte le terre che per trattato vanno consegnate alla Jugoslavia.
Il Fascismo nella Venezia Giulia è un problema di politica estera e non di politica interna263.
Pure le autorità militari e civili in Venezia Giulia e la stampa nazionale dovevano essere convinti ad abbandonare ogni manifestazione anti-slava ed a entrare in una logica di cooperazione con Belgrado.
A tal fine bisognava fare cessare la propaganda indipendentista montenegrina in Italia, sciogliere rapidamente la legione montenegrina presente a Gaeta ed obbligare gli esuli montenegrini a non svolgere atti262
263
Ibidem.
Ibidem.
IL TRATTATO DI RAPALLO
273
vità politica. Pure gli italiani in Dalmazia dovevano cessare di svolgere attività politica.
La loro tranquillità [in] avvenire, la loro difesa da parte dell’autorità italiana, il loro sviluppo economico e morale saranno agevolmente conseguiti
se essi ora si adatteranno allo stato di cose stabilito a Rapallo e rinuncieranno completamente a qualsiasi azione politica. Guadagnando così la fiducia
dell’elemento slavo col quale devono convivere essi potranno in seguito acquistare quella influenza nel campo economico, culturale ed anche politico
che la loro superiorità intellettuale e morale loro assicura. Se invece continueranno l’agitazione, la lotta politica, saranno trattati da avversari, saranno
sopraffatti dalla grande maggioranza slava e saranno causa dello spegnarsi
della luce italiana in Dalmazia264.
Di fronte alla crisi nei rapporti con Belgrado, nonostante le resistenze degli italiani di Dalmazia, il governo Giolitti-Sforza, al fine di
superare la diffidenza esistente verso l’Italia, decise di procedere alla consegna di alcuni territori dalmati. In seguito a consultazioni svoltesi fra esperti e funzionari (Salata, Bonfanti, Manzoni, il generale
Vacchelli, Rocco) alla Consulta il 22 marzo 1921, il governo italiano
stabilì di sgomberare immediatamente tutte le località della Venezia
Giulia oltre il confine tracciato dal patto di Rapallo per le quali non
vi era possibilità di contestazione265. Si decise poi di offrire a Belgrado
lo sgombero immediato di Arbe, Veglia, Pago e del distretto di Obrovazzo: anche le isole Curzolane andavano consegnate nella prima fase, ma con la garanzia della presenza di un commissario speciale civile italiano per assicurare un’adeguata applicazione del trattato di
Rapallo. I lavori delle Commissioni di delimitazione sarebbero proseguiti; ma per quanto riguardava la terza zona dalmata, prima della
consegna dovevano essere risolte tutte le problematiche connesse ai
rapporti fra Zara e territori iugoslavi circostanti266. Il 30 marzo Sforza
comunicò formalmente a Manzoni le decisioni prese: il governo di
Roma era disposto ad affrettare la consegna dei territori dalmati compresi nella seconda e terza zona in tempi anche più brevi di quanto
chiedeva Belgrado, ma era indispensabile che fosse assicurata la tempestiva soluzione di quei problemi direttamente connessi con la siste-
264
Ibidem.
265 ASMAE,
266
Ibidem.
GAB 1923-43, AF, b. 7, Riunione del 22 marzo 1921 alla Consulta.
274
LUCIANO MONZALI
mazione del territorio di Zara267. Il modo migliore, secondo Sforza,
per risolvere queste problematiche era un incontro tra delegati dei due
governi appositamente scelti268. Nei giorni successivi fu raggiunta
un’intesa fra Roma e Belgrado, che aprì la strada alla consegna della
prima zona. L’accelerazione della consegna dei territori dalmati avvenne senza la consultazione dei capi dei dalmati italiani, i quali si dimostrarono preoccupati dalla fretta del governo di ritirarsi dalla Dalmazia. Il 2 aprile alcuni dei principali esponenti dei Fasci Nazionali
Italiani di Spalato e Sebenico (Pezzoli, Tacconi, Miagostovich e Nicoletti), riuniti a Zara, inviarono un telegramma al governo di Roma chiedendo che la definizione e la sistemazione delle garanzie giuridiche
ed economiche a favore dell’elemento italiano autoctono precedessero qualsiasi ulteriore sgombero «poiché l’angosciosa incertezza propri destini accresce stato disperazione italiani paesi abbandonati»269.
Ma nonostante le proteste dei dalmati italiani, la consegna della prima zona fu effettuata. Il 1° e il 2 aprile il governo italiano consegnò
alle autorità iugoslave i comuni di Knin, Much, Lecevizza; fra il 3 e
il 6 aprile si effettuò il passaggio di consegne a Promina, Dernis,
Kistanje, Obrovazzo e nell’isola di Pago. Tutto si svolse senza incidenti270. La consegna della prima zona alla Iugoslavia creò preoccupazione nei dalmati italiani. La questione degli avvocati italiani in
Dalmazia, scoppiata nella primavera del 1921, poi, contribuì non poco ad alimentare la diffidenza dei capi dalmati. Un’ordinanza del
Ministero della Giustizia iugoslavo pretese il giuramento di fedeltà a
Re Pietro e alla Costituzione iugoslava da parte di giudici, avvocati e
notai praticanti nel Regno SHS. Alcuni avvocati italiani spalatini
(Antonio Tacconi, Leonardo Pezzoli, Stefano Selem, Giovanni Savo,
Giuseppe Illich), che erano anche fra i principali capi della minoranza nella Dalmazia iugoslava, rifiutarono di prestare il giuramento, ritenendosi non obbligati ad esso mentre era ancora vigente il periodo
per l’opzione previsto dall’articolo VII del trattato di Rapallo. L’11
aprile la Camera degli avvocati di Spalato, dominata da elementi nazionalisti iugoslavi, decise di votare la cancellazione dall’albo dei le-
267 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 9, Sforza a Manzoni, 30 marzo 1921.
Ibidem.
269 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Pezzoli, Tacconi, Miagostovich e Nicoletti al
Ministero degli Esteri, 2 aprile 1921.
270 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Bonfanti alla Presidenza del Consiglio, 9 aprile
1921.
268
IL TRATTATO DI RAPALLO
275
gali italiani per il loro rifiuto di giurare. Tale decisione segnò l’inizio
di una dura controversia legale fra gli avvocati italiani e le autorità iugoslave, che assunse anche forti ripercussioni politiche e diplomatiche nei rapporti fra Roma e Belgrado. Gli avvocati italiani vedevano
in questa espulsione una vendetta del governo iugoslavo nei loro confronti e la volontà di obbligarli ad abbandonare la Dalmazia. I nazionalisti iugoslavi e il governo di Belgrado consideravano il rifiuto di
Tacconi e degli altri avvocati la dimostrazione della loro ostilità contro lo Stato SHS271. La vicenda contribuì non poco a peggiorare i rapporti fra la leadership dalmata italiana e il governo Giolitti-Sforza, poiché Tacconi e Pezzoli giudicarono deludente il sostegno della diplomazia italiana in questa controversia legale e politica in cui erano in
gioco i loro destini personali, ma della quale a Roma si sarebbe preferito una rapida ed indolore conclusione. In una lettera del 12 aprile
rivolta al senatore Salata, Pezzoli e Tacconi si lamentarono del carente sostegno loro fornito dal ministro Manzoni a Belgrado e dalla diplomazia italiana e denunciarono la freddezza e il disinteresse del governo di Roma verso la sorte degli italiani di Dalmazia272.
271 ASMAE, Carte Salata, b. 215, Pezzoli, Illich, Tacconi, Selem, Savo alla Giunta della Camera degli avvocati di Spalato, 17 marzo 1921; ASMAE, Carte Salata, b. 264, Pezzoli,
Illich, Tacconi, Selem a Denti di Pirajno, 12 aprile 1921; ibidem, Bonfanti a Salata, 13 aprile 1921; ibidem, Giunta della Camera degli avvocati di Spalato a Pezzoli, Illich, Tacconi e
Selem, 11 aprile 1921.
272 «Lo svolgimento e l’esito di tale incidente caratterizza tutto il contegno che il Governo
italiano tiene di fronte agli italiani della Dalmazia in nesso alla situazione che si connette per
gli stessi a questo malaugurato periodo di sgombero che ora sta compiendosi, in modo tale
che per l’esclusiva colpa del Governo italiano le inevitabili dannose conseguenze che ne derivano ai nostri conscienzienti assumono sempre maggiori e più irreparabili proporzioni. Come
già le deve constare sino al 21 di questo mese sarà avvenuto lo sgombero in genere di tutta
la Dalmazia fatta eccezione di un insignificante tratto, abitato esclusivamente da slavi intorno a Zara. Sebenico, le isole ove si trovano tutti i nuclei italiani i quali abbisognano di sostegno e protezione saranno state già consegnate ai jugoslavi. Il tempo dello sgombero prende così un decorso ancora più rapido di quello che dalla prima Commissione era stato stabilito. Di fronte a ciò non apparisce il menomo sintomo che da parte italiana si trovi il modo
di compensare tale straordinaria fretta di abbandono con almeno contemporanea trattazione
di quelle garanzie, già promesse agli italiani della Dalmazia e che in qualche modo doveva
assicurar loro la possibilità di restare sotto il nuovo dominio o quanto meno di essere in chiaro riguardo la situazione che sarebbe loro creata, per poter prendere le necessarie deliberazioni riguardo al proprio destino. Viene con ciò lasciato pienamente libero ai jugoslavi di approfittare di questo periodo intermedio per creare fatti compiuti, quale quello p.e. dell’eliminazione degli avvocati italiani qui a Spalato, dando vita ad uno stato di cose non più reparabile in esito a eventuali future trattative in questioni già anticipatamente compromesse.
[…] Non possiamo però nascondere l’amarezza e lo sconforto che ci deriva da tutto ciò, indipendentemente anche da ogni riflesso alla nostra personale situazione che per alcuni si risolve in una vera catastrofe» (ASMAE, Carte Salata, b. 264, Pezzoli e Tacconi ad anonimo
276
LUCIANO MONZALI
Restava da regolare la sorte della seconda e della terza zona. Il governo di Belgrado chiese un’evacuazione in tempi rapidi273. Sforza si
dichiarò disponibile ad accogliere le richieste iugoslave ma domandò
nuovamente la contemporanea soluzione dei problemi amministrativi
ed economici connessi al nuovo assetto della Dalmazia. Il ministro degli Esteri scrisse a Manzoni a tale riguardo il 12 aprile:
[…] Siamo disposti ad accogliere indistintamente i desideri espressi da
codesto Governo per tramite V. S. circa evacuazione territori Dalmazia, ma
essere indispensabile anche pei dovuti riguardi da usare all’opinione pubblica italiana non procedere all’evacuazione della seconda e della terza zona senza concordare soluzione di quei problemi giuridici economici e doganali che
direttamente si connettono colla nuova sistemazione territoriale dalmata.
Poiché Governo jugoslavo insiste nel voler limitato compito commissione delimitazione Dalmazia ad esecuzione sgomberi e a delimitazioni territoriali e
da altra parte propone risolvere problemi connessi in altra sede ed anche a
Roma con conferenza speciale, R° Governo pur di arrivare alla rapida soluzione aderirebbe a tale proposta trattando con quei delegati che Governo jugoslavo crederebbe indicare274.
Il governo iugoslavo accettò la proposta italiana di aprire un negoziato bilaterale fra esperti: per regolare le questioni connesse al nuovo assetto di Zara, si stabilì che venissero aperte trattative bilaterali al
riguardo a Roma contemporaneamente ai lavori della Conferenza economica fra gli Stati successori dell’ex Impero asburgico275. Nel frattempo sarebbero proseguiti i lavori delle Commissioni di delimitazione
per Fiume e la Dalmazia. In cambio di queste concessioni il governo
di Belgrado ottenne la consegna immediata delle isole di Veglia, Arbe
e delle Curzolane, ultima parte della prima zona ancora in mani italiane. Per rassicurare gli italiani locali, venne accettata la presenza di
commissari speciali per l’evacuazione delle isole (De Angelis a Veglia
e Arbe, Bucevich nelle Curzolane). Le trattative circa le modalità di
sgombero delle isole Curzolane vennero delegate alla commissione
dalmata che s’incontrò a Sebenico e l’11 aprile raggiunse un accordo
[ma Salata], 12 aprile 1921. Copia della lettera in ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 13).
273 ASMAE, GAB 1923-43, AF b. 9, Bonfanti a Sforza, 8 aprile 1921.
274 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Sforza a Manzoni, 12 aprile 1921.
275 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 7, Manzoni a Sforza, 31 marzo e 3 aprile 1921.
Riguardo al progetto di una conferenza fra gli Stati successori dell’Impero asburgico: GIORGIO
MARSICO, L’Italia e la conferenza economica di Portorose 24 ottobre-23 novembre 1921,
Milano, 1979.
IL TRATTATO DI RAPALLO
277
per lo sgombero di queste isole. Il 19 aprile si trovò un’intesa sulle
modalità per l’abbandono di Arbe e Veglia276: fu stabilito che la consegna militare di Arbe all’esercito iugoslavo sarebbe avvenuta il 23
aprile, mentre quella di Veglia doveva accadere il 25. Il 18 aprile l’esercito serbo prese possesso di Lissa e di Lesina277, il giorno successivo di Meleda e di Curzola, dove ebbero luogo successivamente alcune dimostrazioni anti-italiane, organizzate dagli abitanti dei villaggi croati vicini, senza però produrre gravi incidenti278. Il 23 e il 25 aprile Arbe e Veglia passarono sotto il controllo iugoslavo279. Nelle settimane successive si ebbero dimostrazioni ed atti anti-italiani a Lesina,
Lissa, Veglia e Arbe. Il 23 aprile Bucevich riferì che a Curzola tutti i
giorni si ripetevano manifestazioni ostili all’Italia e agli italiani, con
continui banchetti e cortei, durante i quali si proferivano minacce anti-italiane; nei centri urbani venivano minacciati gli esponenti e i militanti italiani280. Furono lanciate poi iniziative di boicottaggio contro
i commercianti provenienti dalla Penisola e organizzate contestazioni
contro la presenza di navi italiane nei porti dalmati281. La partenza degli italiani più compromessi con l’amministrazione d’occupazione
evitò comunque il sorgere di gravi incidenti. A parere di Bucevich, la
partenza dei profughi prima dell’evacuazione dell’esercito italiano si
svolse senza grandi problemi, con un numero di partenti più limitato
del previsto282.
Le partenze dei profughi avvengono in ordine e quelli che partono in gruppo, come quelli di Curzola, acclamano alla partenza all’Italia, al Re e
all’Esercito. Assisto all’imbarco dei partenti raccomandandoli ai comandi dei
piroscafi, dopo averli forniti dei mezzi di viaggio, di sussidi e dei documenti necessari, li provvedo perfino di raccomandazioni private, in una parola,
do loro tutta l’assistenza che mi è possibile. A Comisa, dove il contegno provocante dei croati fa per poco succedere l’unico incidente, intervengo in tem-
276 Il testo dell’accordo per la consegna di Arbe e Veglia è conservato in ASMAE, GAB
1923-43, AF, b. 8.
277 GRGA NOVAK, Hvar kroz stoljec!a, Hvar-Zagreb, 1960 (prima edizione 1924), p. 211.
278 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 1, Bucevich a Rocco, 21 aprile 1921. Un ricordo dell’esodo italiano dalla città di Curzola in ANTONIO TASSO, Cose minime sacre e profane,
Macerata, 1967, pp. 14-15.
279 MASSAGRANDE, op. cit., p. 9.
280 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 1, Bucevich a Rocco, 23 aprile 1921.
281 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 1, Rocco al Ministero degli Esteri, 11 maggio 1921;
ASMAE, Sebenico, b. 4, Bucevich al Consolato italiano di Sebenico, 3 luglio 1921.
282 Bucevich a Rocco, 23 maggio 1921, cit.
278
LUCIANO MONZALI
po e con calma ma anche con energia, riesco a pacificare gli animi. Il contegno dei profughi è veramente esemplare: nessuno si lamenta ma tutti ringraziano di quanto si fa per essi. Da Lesina non partono che un paio di famiglie. Ho cura di far partire da Cittavecchia e Curzola, in prima linea, gli
elementi più vivaci e che da informazioni raccolte sarebbero designati ad essere oggetto di violenze e di persecuzioni sotto il nuovo regime.
Si arriva così all’occupazione iugoslava. Il numero dei profughi di tutte
le isole non è che di 352, poca cosa, se si considera che dalla sola Curzola
avrebbero dovuto partire, come ho detto sopra, ben 354 persone283.
Il nuovo clima politico nelle isole, con l’avvento della sovranità iugoslava e l’egemonia politica dei nazionalisti croati, rese però ben presto vane le speranze del console di avere bloccato ulteriori partenze.
Le nuove condizioni create dall’occupazione iugoslava – notò Bucevich
– sono tali che per molti italiani la vita non è possibile, né sopportabile in
questi luoghi. Il boicottaggio, gl’insulti e le minaccie continue contro gl’italiani che hanno manifestato nel passato la loro italianità sono cose di ogni
giorno. E allora molti di essi se ne vanno e si riprende l’evacuazione a Curzola,
Lissa e questa volta anche a Lesina, dove molti erano rimasti in seguito alle
mie assicurazioni. Le cordiali relazioni che ho potuto stringere col capo dell’autorità politica iugoslava, il Capitano Distrettuale Ferri, funzionario egregio e imparziale, rendono più facile la mia opera per quelli che partono ed
hanno per effetto di calmare molti italiani e di persuaderli a rimanere perché
hanno spesso la prova dell’efficacia del mio intervento presso le autorità e
della giustizia ed imparzialità del capo dell’autorità politica, che farebbe ancora di più e meglio in favore dei nostri connazionali se la sua opera non fosse sabotata specialmente da alcuni organi subalterni, come la polizia di stato e da una piccola cricca di politicanti fegatosi ed italofobi a capo della quale stanno i due fratelli Arneri, abituati ancora sotto l’Austria a farla da pascià
in Curzola. Ricominciano, come ho detto, le partenze e se ne vanno da Curzola
e da Lesina molte famiglie di onesti operai ed artigiani. […] Se i profughi
subiscono vessazioni e molestie è sempre da parte delle guardie della polizia di stato o da qualche altro organo subalterno, ma non dalle autorità superiori che, come quella politica di Curzola, hanno un contegno correttissimo ed imparziale verso di essi. Non posso dire la stessa cosa dell’elemento
croato del paese che spesso accompagna con provocazioni ed insulti i poveri profughi284.
283
284
Ibidem.
Ibidem.
IL TRATTATO DI RAPALLO
279
Alla fine del maggio 1921 il numero dei profughi dalle isole
Curzolane – esclusi dal calcolo i funzionari dell’ex regime austro-ungarico, assunti al servizio dell’Italia, e le loro famiglie – era di 566
persone.
Di queste 352 sono partite nella prima fase, vale a dire prima della venuta delle autorità iugoslave, e 214 nella seconda fase. Devo però rilevare che
quelle dei funzionari erano in massima parte famiglie del paese e pertanto
deve essere tenuto conto di esse nel valutare lo spopolamento di Curzola dove, senza di esse, sono partiti 264 italiani. 147 profughi si sono trasferiti a
Zara, gli altri nel Regno e nelle nuove provincie, specialmente a Trieste e a
Pola285.
Il quadro finale che Bucevich delineò delle cause dell’esodo e delle future prospettive per gli italiani rimasti era abbastanza desolante.
Le cause che hanno dato origine a questo esodo considerevole sono la poca protezione accordata dalle nuove autorità agli italiani in alcuni centri delle isole, le dimostrazioni offensive e talora violente contro gl’italiani, il boicottaggio organizzato contro molti di essi, la mancanza assoluta di lavoro, il
contegno ostile dei funzionari subalterni della polizia dello stato, la credenza che gli uffici consolari di Spalato e Ragusa sono troppo distanti per poter
dare a questi italiani una valida protezione, ed infine le minacce iugoslave
per il futuro. Infatti da Curzola a Lesina, da Lissa a Cittavecchia si leva contro gl’italiani rimasti il grido minaccioso: «Platit c!e te, kad ispraznite ?ibenik (La pagherete quando avrete evacuato Sebenico)»286.
I profughi dalmati provenienti dalle isole della Dalmazia centrosettentrionale si diressero verso Zara, la Venezia Giulia, Fiume e il
Veneto, verso le grandi città della Penisola, Milano e Roma, e i porti
dell’Adriatico Ancona e Bari. Lo Stato italiano si assunse il dovere dell’assistenza ai profughi, aiutato dall’opera spontanea di alcune associazioni (l’Associazione Nazionale Dalmazia a Roma, l’Associazione
Adriatici Irredenti a Fiume, l’Associazione Dalmatica a Trieste). Particolarmente attivo nell’assistenza ai profughi fu l’Ufficio per le Nuove
Provincie, presieduto da Francesco Salata, che guidò e coordinò l’azione della Presidenza del Consiglio relativamente a tale questione. In
una relazione del 24 giugno 1921, il Commissariato generale civile per
285
286
Ibidem.
Ibidem.
280
LUCIANO MONZALI
la Venezia Giulia così descrisse l’assistenza ricevuta dai profughi dalmati a Trieste:
Appena qui arrivati, se poveri, ricevono alloggio gratuito e per gli altri si
provvede a trovar loro una corrispondente abitazione. Si provvede pure gratuitamente per il trasporto delle masserizie dai piroscafi nelle abitazioni. Le
masserizie di quei profughi, che arrivati a Trieste non possono, data la crisi
attuale d’alloggi, aver subito un’abitazione vuota, vengono provvisoriamente collocate in magazzini. […] Ai profughi indigenti e senza lavoro vengono
elargiti sussidi giornalieri ed in casi degni di speciale considerazione anche
dei sussidi straordinari. Una seria difficoltà, che si presenta nella sistemazione
dei profughi, è quella di poter trovar loro un corrispondente collocamento e
metterli quindi in grado di mantener da soli e con le proprie forze se stessi e
le proprie famiglie. Anche in questo riguardo non omisi di fare tutte le pratiche possibili presso Società commerciali, industriali e marittime, nonché
presso altri enti, per trovar loro un’adatta occupazione, e di fatti molti profughi furono già collocati, parte a Trieste e parte nella regione287.
Nella realtà concreta dell’esodo molti profughi si scontrarono inevitabilmente con gravi difficoltà nell’integrazione sociale, culturale ed
economica in Italia, Paese che molti dalmati italiani conoscevano ben
poco. In alcune località d’arrivo vi furono negligenze e disorganizzazione nell’opera di assistenza e accoglienza. La lentezza e gli ostacoli nel cambio delle corone austriache in moneta italiana costituirono
un grave problema, che si evidenziò già nelle prime settimane dell’esodo dalla Dalmazia288.
287 ACS, UNP, b. 73, Commissariato generale civile per la Venezia Giulia all’Ufficio
Centrale per le Nuove Provincie, 24 giugno 1921.
288 Angelo Bertolini, professore barese d’origine dalmata e animatore dell’assistenza ai
profughi in Puglia, descrisse in questo modo le difficoltà del primo arrivo dei profughi e i ritardi delle autorità italiane: «Dalle terre della Dalmazia che vengono gradatamente sgombrate
dalle truppe italiane – dopo più di due anni di occupazione e di governo, che servirono soltanto a trarre nel più duro inganno quelle povere popolazioni – la gente fugge spaventata. I
ricchi vendono terre e case; i poveri raccolgono le cose loro e tutti fuggono verso l’Italia. I
nostri agenti consolari muniscono gli esuli di un documento nel quale è raccomandato alle
autorità del Regno di essere larghe di protezione verso i derelitti. Per ora questi fuggiaschi
sono centinaia: molti sono venuti già qui a Bari, moltissimi hanno invaso Pola, Trieste ed altri porti. Ma, come il solito, le autorità governative non sono pronte, non hanno istruzioni,
non hanno mezzi e rimandano i Dalmati da Erode a Pilato, senza pensare che hanno mille
bisogni, mille sofferenze morali e materiali, ed invece di soccorsi trovano delusioni e amarezze. Bisogna provvedere. […] Intanto, fra gli altri, un urgente provvedimento di governo
[…]. Ognuno di questi profughi può dire come Orazio “omnia bona mea mecum porto”, almeno per quei pochi beni che poterono trasportare. E allora sorge il quesito: come tradurre
in valori italiani le corone austriache che ciascuno ha per sé? Per lo più nel documento con-
IL TRATTATO DI RAPALLO
281
Il ritiro dalla prima zona e le difficoltà dei profughi in Italia irritarono fortemente le collettività italiane dalmate, le quali si sentirono
abbandonate al loro destino senza adeguato sostegno da parte del governo. All’inizio di maggio i Fasci Nazionali Italiani dalmati inviarono un nuovo memoriale all’esecutivo, lamentandosi in particolare per
le carenze e gli errori compiuti nel corso dell’abbandono delle isole
della Dalmazia e nell’assistenza ai profughi289. Andavano abolite le limitazioni alle franchigie di viaggio e di trasporto per i profughi giunti in Italia, i quali dovevano ricevere migliore assistenza materiale e
morale.
Alcuni di Sebenico, recatisi a Pola dal febbraio anno corr. ed anche più
tardi, si trovano colà privi di mezzi, di lavoro, senza che alcuno si curi delle
loro sorti. Del pari i profughi delle isole trasferitisi a Bari e da lì a Roma rimasero privi di ogni assistenza […]. È quindi necessario che le Autorità consolari della Dalmazia segnalino a determinati organi da destinarsi, l’arrivo dei
singoli profughi e che sia disposto che questi trovino, giungendo in Italia, chi
si interessi di loro fino a che siano in grado di provvedere da sé al proprio
destino290.
Il governo di Roma, poi, doveva garantire agli impiegati e ai professionisti esuli un’adeguata collocazione lavorativa in Italia, nonché
assumersi in carico le eventuali pensioni dei profughi, nonché il loro
diritto a portare con sé i propri beni291.
L’Ufficio per le Nuove Provincie difese il proprio operato dalle critiche. In un commento riservato, l’Ufficio sottolineò che lo Stato italiano aveva concesso ai profughi il viaggio gratuito sino alla nuova sede prescelta292. Il porre dei limiti al peso delle masserizie da traspor-
solare è indicata la somma che il profugo porta seco, e questo potrà essere un punto di partenza. Ma se il Governo si disinteressa e ripete gli spropositi commessi in Dalmazia, i poveri perderanno tutto e gli imbroglioni riusciranno a far credere di aver portato seco milioni di
corone. Bisogna avvertire il Governo che questo problema va esaminato e risolto subito senza perdere tempo. Non ci mancherebbe altro che questa povera gente dovesse sentirsi dire che
quei piccoli gruzzoli non hanno più alcun valore» (ACS, UNP, b. 73, Bertolini a Roncagli,
22 aprile 1921).
289 ACS, UNP, b. 73, PER I FASCI NAZIONALI ITALIANI DELLA DALMAZIA, Postulati riguardo ai provvedimenti più urgenti imposti dall’esperienza fatta dopo la presentazione del memoriale di data 28 gennaio 1921, 3 maggio 1921.
290 Ibidem.
291 Ibidem.
292 ACS, UNP, b. 73, UFFICIO PER LE NUOVE PROVINCIE, Risposta ai singoli punti dell’unito memoriale, senza data, ma maggio 1921.
282
LUCIANO MONZALI
tare era un’esigenza ineludibile, a cui il governo aveva cercato di rispondere in modo ragionevole e flessibile. Non era stato possibile
provvedere al cambio della valuta al momento della partenza, ma si
stava studiando d’urgenza la possibilità di sussidi. Le questioni delle
pensioni e delle opzioni erano in esame e si sarebbero risolte al più
presto. Circa l’assistenza e il collocamento dei profughi, l’Ufficio per
le Nuove Provincie riteneva le critiche dei Fasci Nazionali Italiani in
parte ingiustificate.
Per i profughi sbarcati a Pola si è interessato il Ministero della Marina a
farli occupare, nei limiti del possibile, quali operai dell’Arsenale. Si è sollecitato il detto Ministero a dare disposizioni al riguardo. Per quelli sbarcati nel
Regno si è gia pensato ad interessare l’Ufficio Nazionale per il collocamento e la disoccupazione in Roma perché li occupi con preferente sollecitudine a mezzo delle sezioni che ha nei principali centri italiani. […] Per gli impiegati che lasciano le zone che si vanno evacuando è stato provveduto nel
miglior modo possibile, sia riguardo ad anticipazioni sulle spese di viaggio
e trasporto mobili (spese che saranno intieramente rimborsate) sia riguardo
alle nuove residenze293.
Il difficile passaggio per gli esuli dalla Dalmazia alla vita in Italia,
la sensazione di essere stati usati e strumentalizzati dallo Stato italiano e di avere ricevuto dopo l’esodo una carente assistenza, il traumatico peggioramento della situazione politica ed economica per gli italiani in Iugoslavia, impressionarono e segnarono fortemente i profughi dalmati e gli italiani rimasti, creando sentimenti di delusione, risentimento e amarezza, che avrebbero profondamente condizionato la
loro vita e la loro identità nei decenni successivi. Alcuni reagirono alla crisi che colpì le collettività italiane dalmate nel 1921 esasperando
ulteriormente il proprio sentimento nazionale e puntando su un nazionalismo italiano intransigente, sempre più ideologico e fondato sulla contrapposizione con il nemico «slavo». Altri divennero scettici e
disincantati sul futuro dell’italianità dalmatica e sulla volontà
dell’Italia di realmente aiutare la minoranza, con il rimpianto dei bei
tempi andati dell’epoca asburgica. Su un piano più specifico, l’esodo
del 1921 inflisse un duro colpo alle collettività italiane nelle isole della Dalmazia, le quali in pochi mesi, con l’eccezione di Veglia, videro
ridurre fortemente la loro consistenza numerica. E tale indebolimen293
Ibidem.
IL TRATTATO DI RAPALLO
283
to continuò nel corso degli anni fra le due guerre, a causa di un processo di emigrazione provocato dalle difficili condizioni politiche di
esistenza per l’elemento italiano e dalla crisi economica che colpì duramente le popolazioni isolane della Dalmazia.
3.5. La difficile ricostruzione. I problemi economici e politici di
Zara italiana
L’annessione di Zara all’Italia e la sua separazione dal retroterra e dalle isole circostanti, passate allo Stato iugoslavo, mutarono inevitabilmente i caratteri della vita sociale, economica e nazionale della Dalmazia settentrionale. Il territorio zaratino annesso all’Italia misurava
circa 52 chilometri quadrati, avendo uno sviluppo costiero che non superava i 10 chilometri in linea aerea. La mancata annessione delle isole di fronte a Zara chiudeva la città anche sul fronte marino294. Come
rilevò Attilio Tamaro, il territorio di Zara italiana «forma una minuscola e sterile oasi circondata in ogni parte dagli Jugoslavi. Sul mare
gli sta dinanzi la formidabile triplice muraglia dei tre ordini di isole
che separano la costa dal mare aperto. Giace così in uno stretto canale, sbarrato completamente, anche al nord e al sud, da fitti gruppi di
isole e di scogli. Non ha insomma libero un solo accesso, né marittimo, né terrestre […]»295. La popolazione dell’enclave zaratina, esclusa Lagosta, comprendeva circa 17.000 abitanti nel 1921296. L’annessione all’Italia provocò un declassamento politico ed amministrativo
di Zara, per secoli capitale di tutta la Dalmazia, prima veneziana, poi
asburgica297. Larga parte della cittadinanza era vissuta lavorando per
le amministrazioni statali e pubbliche presenti nella città, capitale della Dalmazia e sede delle principali autorità politiche e giurisdiziona294 FEDERICO WILDAUER, I problemi economici di Zara dopo il Trattato di Rapallo,
«Quaderno mensile dell’Istituto federale di credito per il Risorgimento delle Venezie», settembre 1924, n. 9; ODDONE TALPO, Dalmazia. Una cronaca per la storia (1941), Roma, 1995,
p. 4.
295 «L’Idea Nazionale», 11 dicembre 1920, ATTILIO TAMARO, “Uno sputo tricolore nel
gran mare jugoslavo”.
296 PERSELLI, I censimenti, cit., p. 451.
297 Per un’analisi dei problemi economici e sociali del territorio di Zara dopo l’annessione all’Italia rimane utile WILDAUER, I problemi economici, cit., p. 11 e ss.; RITA TOLOMEO,
Dal Governatorato al Portofranco. Gli anni difficili dell’economia zaratina, «Atti e Memorie
della Società dalmata di storia patria», Roma, 2002, n. 4, vol. XXIV, pp. 141-156; GASTONE
COEN, Zara tra le due guerre, ivi, pp. 127-139.
284
LUCIANO MONZALI
li della provincia: il distacco dal resto della Dalmazia privò la città di
questo importante ruolo. La separazione della città dal contado, poi,
comportò pesanti conseguenze economiche. Le attività economiche
private presenti nella città (industrie di liquori, compagnie di navigazione, gestione delle proprietà agrarie del retroterra) erano fortemente legate al contado, che sarebbe restato parte del Regno SHS. Molti
italiani di Zara avevano proprietà nelle campagne circostanti e nelle
isole, proprietà il cui libero uso e sfruttamento divennero più difficili con l’avvento della sovranità iugoslava. L’esplodere della questione
agraria in tutta la Dalmazia aggravò ulteriormente la condizione economica degli zaratini. Il 25 febbraio 1919, al fine di aumentare il consenso popolare per il nuovo Stato e di indebolire l’influenza delle popolazioni tedesca, magiara e italiana, il governo di Belgrado emanò
un decreto che mutò i rapporti fra proprietari e contadini e concesse
a quest’ultimi la proprietà dei fondi colonici senza alcun obbligo e vincolo verso gli ex proprietari, che avrebbero dovuto ricevere un indennizzo dallo Stato298. Di fatto dal 1919 la maggioranza dei contadini dalmati – fino a quel momento legati da un rapporto di colonato (che vincolava i coloni a versare una parte del proprio raccolto al proprietario
del fondo) –, smise di versare ogni forma di contributo ai vecchi proprietari, senza che questi ricevessero alcun indennizzo statale, la cui
concessione fu rinviata per vari anni. I proprietari terrieri zaratini furono particolarmente danneggiati: molti di essi, in particolare quelli
piccoli, quando la Dalmazia settentrionale passò sotto il controllo iugoslavo, si trovarono ben presto ridotti nella più completa miseria a
causa del rifiuto dei contadini di pagare alcun contributo.
Profondi furono anche i mutamenti nella composizione della popolazione della città. Nel periodo asburgico Zara era stata una città a
netta prevalenza italiana, ma con la presenza di consistenti nuclei serbi e croati, alimentati dalla presenza delle principali istituzioni politiche, amministrative, culturali e religiose della Dalmazia e dall’afflusso di persone dal contado e dalle isole; a Borgo Erizzo vi era pure una
298 Al riguardo: ASMAE, CP, b. 20, Pezzoli e Tacconi al Comando della R. N. Puglia,
15 ottobre 1919, allegato a Millo a Ministero degli Esteri, 30 ottobre 1919; ASMAE, Spalato,
b. 14, Pezzoli e Tacconi al Comando della R. N. Puglia, 29 agosto 1920; FELICE BAYLON, Lo
sviluppo economico della Dalmazia in relazione a quello dell’Italia e sua conseguente importanza nei futuri rapporti italo-jugoslavi, «Quaderno mensile dell’Istituto federale di credito per il Risorgimento delle Venezie», giugno 1924, n. 6, pp. 52-53; WILDAUER, I problemi
economici, cit., p. 59.
IL TRATTATO DI RAPALLO
285
vivace ed organizzata comunità albanese299. Dopo il trattato di Rapallo
in tutta la Dalmazia vi fu una crescente accentuazione dell’omogeneità
nazionale della popolazione: aumentò la predominanza dell’elemento
croato e serbo nella Dalmazia iugoslava, mentre contemporaneamente si rafforzò il carattere italiano della popolazione zaratina. Tanti italiani della Dalmazia iugoslava preferirono trasferirsi a Zara e nell’Italia
peninsulare; per fuggire dalla crisi economica pure molti zaratini italiani, in particolare gli ex funzionari dello Stato asburgico, emigrarono in Italia. A loro volta, per ragioni politiche ed economiche molti serbi e croati abbandonarono Zara e decisero di emigrare nel Regno iugoslavo. La guerra, la dissoluzione dell’Impero asburgico e l’annessione all’Italia provocarono una profonda crisi economica e sociale nella città, che perse abitanti e vitalità300. La composizione della popolazione confermò come la divisione politica della Dalmazia avesse favorito una maggiore accentuazione nazionale italiana del Comune di
Zara, con una diminuzione dell’elemento iugoslavo locale: come ha rilevato Diego De Castro, una parte degli zaratini iugoslavi emigrò in
Iugoslavia, un’altra assunse la cittadinanza iugoslava pur rimanendo a
vivere a Zara301. Molti zaratini italiani emigrarono per ragioni economiche in Italia o all’estero, esodo solo in parte compensato dall’afflusso
di numerosi dalmati italiani provenienti dalla Iugoslavia. La perdita della posizione di capitale della Dalmazia comportò per molti impiegati
e le loro famiglie l’esigenza di emigrare in Italia alla ricerca di una nuova posizione in seno all’amministrazione italiana302. Nel marzo 1922
un censimento locale dichiarò la presenza a Zara di una popolazione
di sole 11.143 persone303.
Se il trattato di Rapallo aveva sancito una vittoria per il liberalismo nazionale italiano dalmata, la salvezza di una parte degli italiani
di Dalmazia attraverso l’annessione di Zara all’Italia, difficili sfide politiche ed economiche si prospettavano per i capi dell’ex partito auto-
299 Per un quadro della società zaratina nei primi decenni del Novecento: GASTONE COEN,
Zara che fu, Fiume-Trieste, 2001; DE BENVENUTI, Storia di Zara dal 1797 al 1918, cit.;
LUCIANO MONZALI, Oscar Randi scrittore di storia dalmata, «Clio», 2000, n. 4, p. 648 e ss.
300 DE CASTRO, Cenno storico sul rapporto etnico tra italiani e slavi nella Dalmazia, cit.,
p. 301 e ss.
301 Ibidem. Si vedano anche i dati riportati da PERSELLI, I censimenti, cit., p. 451: secondo
il censimento del 1921 erano presenti a Zara 12.075 italiani, 1.255 croato-serbi e 3.735 stranieri (in stragrande maggioranza sudditi SHS).
302 WILDAUER, I problemi economici, cit. p. 42.
303 Ivi, pp. 43 e 120.
286
LUCIANO MONZALI
nomo-italiano e dei Fasci Nazionali Italiani. Dopo Rapallo vi era la
necessità di ripensare in modo pragmatico e realista la città di Zara e
le sue prospettive future; bisognava poi trovare forme adeguate di protezione e tutela per gli interessi politici e culturali delle minoranze italiane nella Dalmazia iugoslava. Nel corso dei primi mesi del 1921 il
sindaco della città Luigi Ziliotto, Natale Krekich e i loro seguaci, si
impegnarono in una frenetica azione di studio e proposta politica ed
economica, proprio al fine di organizzare in modo nuovo la vita della città. Naturalmente fondamentale per il futuro di Zara era l’interessamento dello Stato italiano alle sorti della città. Dopo la proclamazione dell’annessione, la vecchia classe dirigente liberale zaratina
decise di unirsi ai gruppi liberali della Penisola. I liberali zaratini, che
avevano sempre perseguito, anche nei momenti più difficili, una politica di collaborazione con il governo di Roma, sapevano di potere
contare su un interlocutore a loro amico e favorevole. Fin dalla fine
dell’Ottocento esisteva una solida alleanza fra l’Italia liberale e il liberalismo italiano dalmata, fondata sulla condivisione degli stessi valori ideali, favorevoli ad una società imperniata sulle libertà politiche
ed economiche, e di una medesima strategia, il rafforzamento dell’italianità adriatica. Oltre che a ragioni ideologiche, la fusione fra liberali zaratini e liberalismo italiano derivava dal pragmatismo: il benessere di Zara e degli italiani dalmati dipendeva sempre più dalla benevolenza del governo di Roma, in possesso delle risorse economiche
necessarie per aiutare la città dalmata e potenza protettrice della minoranza italiana in Dalmazia; i politici dalmati italiani, se desideravano perseguire la difesa degli interessi dei propri elettori e seguaci,
avevano il dovere di essere una forza politica filo-governativa e ben
disposti a collaborare con le autorità costituite. Nel 1921 collaborare
con il governo di Roma significava soprattutto accettare il trattato di
Rapallo. Accettare l’applicazione di Rapallo era politicamente necessario al fine di potere influenzare le posizioni della diplomazia italiana nelle trattative con Belgrado, per difendere al meglio i diritti e gli
interessi degli zaratini e dei dalmati italiani. Il miglioramento dei rapporti con lo Stato iugoslavo, d’altronde, era pure nell’interesse degli
italiani dalmati e della città di Zara: solo con un atteggiamento non
ostile dello Stato iugoslavo si poteva sperare in un’applicazione reale
delle garanzie per la protezione della minoranza italiana in Dalmazia
e nel concreto rispetto dei rilevanti interessi economici degli zaratini
in Iugoslavia. Tutto ciò spiega l’atteggiamento collaborativo che Ziliotto e Krekich, così come i principali capi degli italiani della Dalmazia
IL TRATTATO DI RAPALLO
287
iugoslava (Antonio Tacconi, Leonardo Pezzoli, Luigi Pini, Tullio Nicoletti) assunsero nel corso dei numerosi negoziati italo-iugoslavi miranti all’applicazione delle varie clausole del trattato di Rapallo nel
1921 e nel 1922. Il 17 gennaio 1921, pochi giorni dopo la proclamazione dell’annessione di Zara all’Italia, Ziliotto, Krekich e i principali esponenti liberali italiani residenti in città (Amato Talpo, Remigio
Trigari, Arturo e Ascanio Persicalli, Giovanni Lubin, Ildebrando Tacconi, Bruno Illich, Angelo de Benvenuti, Spiridione Artale, Giovanni
Salghetti, Giuseppe e Marco Perlini) decisero di fondare una nuova formazione politica, l’Unione Nazionale. Fra i punti qualificanti del programma del nuovo gruppo politico vi era la volontà di dare espressione
«in tutte le manifestazioni della vita pubblica al carattere prettamente italiano della città di Zara»304. L’Unione Nazionale, poi, desiderava
«spiegare un’azione atta a conseguire che gli Slavi della regione dalmata annessa diventino buoni cittadini d’Italia». Altri obiettivi dovevano essere la promozione dello sviluppo culturale, economico e sociale della Dalmazia annessa e la tutela degli interessi materiali e morali degli italiani della Dalmazia non annessa all’Italia. Dall’analisi del
programma emergeva chiaramente il tentativo di Ziliotto e dei suoi seguaci di riproporre una forma d’organizzazione politica che s’ispirava al vecchio partito autonomo-italiano esistente prima del 1914.
L’Unione Nazionale si poneva l’obiettivo di unificare al suo interno
tutti gli italiani della Dalmazia, nelle loro varie tendenze politiche. Vi
era poi la volontà di rimanere fedeli alla propria tradizione di pluralismo politico e culturale: indicativo era l’accenno agli Slavi dalmati e
l’invito a che questi accettassero l’appartenenza al Regno d’Italia. Non
a caso all’Unione aderirono anche notabili albanesi e slavi viventi nel
territorio zaratino.
All’Unione Nazionale parteciparono inizialmente pure alcuni capi dei gruppi dannunziani e nazionalisti locali (Maurizio Mandel,
Enrico de Schönfeld). Ciò avvenne soprattutto per effetto delle pressioni del commissario civile di Zara, Bonfanti, favorevole a che si ricreasse armonia fra gli italiani di Zara e che questi non si dividessero in gruppi politici concorrenti305. Bonfanti si adoperò per convincere gli esponenti locali dei gruppi dannunziani, del nazionalismo e del
fascismo ad adottare un atteggiamento moderato e pronto alla colla304 ACS, UNP, b. 57, Manifesto dell’Unione Nazionale allegato a Bonfanti a Salata, 26
gennaio 1921.
305 Bonfanti a Sforza, 5 gennaio 1921, cit.
288
LUCIANO MONZALI
borazione con Ziliotto e Krekich. Il 5 gennaio 1921 il commissario civile riferì a Roma di avere incontrato personalmente alcuni esponenti dei gruppi nazionalisti e dannunziani più estremisti (Cippico, Nani,
Botteri e Candia, presidente della Camera del Lavoro) per convincerli a perseguire una politica di pacificazione e a superare i contrasti con
la vecchia guardia liberale nazionale.
È inteso che essi costituiranno anziché una associazione politica come era
loro proposito una associazione puramente economica pro Dalmazia avente
cioè per iscopo tutela economica interessi Dalmazia in Zara e oltre nuovo confine. Ho promesso che in questa nuova via avranno tutte agevolazioni Governo306.
I capi nazionalisti e dannunziani accettarono per il momento l’egemonia dei liberali e aderirono all’Unione Nazionale, limitandosi a
fondare un’associazione con finalità apparentemente non politiche,
l’Associazione per la tutela degli interessi economici degli Italiani della Dalmazia, avente come presidente Enrico de Schönfeld307. In realtà,
nonostante l’apparente unità ed armonia, una profonda rivalità e una
forte ostilità dividevano i liberali dai nazionalisti dannunziani. A questo riguardo è significativa una lettera di Krekich del gennaio 1921,
nella quale il politico zaratino usò toni aspri e critici nel descrivere la
venuta di Antonio Cippico a Zara.
Avemmo fra noi il prof. A. Cippico, ripartito giovedì. Durante il suo breve soggiorno a Zara ebbe pochi contatti con Ziliotto e con me. Come sempre lo attrasse la ganga fedele di Schönfeld, ecc., ecc., ai quali questa volta
si aggiunse il giornalista U. Nani. […] Il prof. Cippico con lo Schönfeld, col
Nani, col Candia ecc., vuole promuovere l’istituzione a Zara di una società
per promuovere gl’interessi economici della Dalmazia. La società è il pretesto per fondare un giornale quotidiano a Zara che ne dovrebbe essere l’organo. […] All’adunanza per trattare sull’opportunità di costituire questa società
Ziliotto ed io non fummo invitati. Si riservarono di farlo posteriormente dopo di esserne stati rimproverati dal prof. Tacconi. Cippico si è sentito leso –
e se la prese specialmente con me – perché qui si disse ch’egli era venuto a
Zara per prepararsi il terreno per la sua candidatura. Egli racconta un certo
episodio pietoso del povero Salvi, che morente, alla presenza di Uros, Pezzoli,
306 ASMAE,
Carte Sforza, b. 6, Bonfanti a Sforza, 5 gennaio 1921.
riguardo: ASMAE, Carte Salata, Associazione per la tutela degli interessi economici degli Italiani della Dalmazia a Salata, 28 febbraio 1921.
307 Al
IL TRATTATO DI RAPALLO
289
Pervan e Ghiglianovich, avrebbe raccomandato, coll’assentimento dello stesso Ghiglianovich, la sua candidatura. Egli conchiude il suo racconto così: [«]
Io non ho intenzione di candidare perché a Londra copro una posizione altissima e vantaggiosissima sicché col cambio percepisco lire 100.000 all’anno. Ma se tutta Zara mi volesse io accetterei l’imposizione sacrificandomi
pel bene della patria e procurerei di sbarcare il lunario con l’indennità di deputato e scrivendo articoli nei giornali [»]. Cippico esalta tutta la sua azione
specialmente dopo il trattato di Rapallo. Si fa forte dei sette articoli scritti
nell’Idea, proclamandosi il solo che abbia avuto il coraggio di interpretare
l’animo dei dalmati. Credo che la ganga Schönfeld lo tenga in petto come
candidato308.
Nei primi mesi del 1921 Ziliotto e gli esponenti dell’Unione Nazionale s’impegnarono in una frenetica azione di riorganizzazione politica ed amministrativa di Zara, cercando di ottenere dal governo di
Roma un adeguato sostegno per consentire la sopravvivenza della
città. Punto di riferimento obbligato per i liberali zaratini fu l’Ufficio
per le Nuove Provincie, presieduto da Francesco Salata, che s’impegnò per sostenere i progetti di Ziliotto e dei suoi seguaci309. Ziliotto
e i liberali zaratini, innanzitutto, cercarono di ottenere la creazione di
un’unità amministrativa provinciale che raggruppasse Zara, Lagosta,
Cherso e Lussino310. Tale progetto, però, ebbe una parziale realizzazione, in quanto la costituenda provincia di Zara si limitò a comprendere solo la città dalmata e Lagosta, isola nel centro dell’Adriatico,
abitata in grande maggioranza da dalmati croati311. Problema cruciale da risolvere era gestire la trasformazione di Zara da capitale politica ed amministrativa di tutta la Dalmazia a centro urbano isolato e ristretto ad un piccolissimo territorio. Larga parte della popolazione era
vissuta per secoli lavorando nelle numerose istituzioni amministrative, giudiziarie, militari, politiche presenti a Zara, molte delle quali dopo il trattato di Rapallo avrebbero cessato di esistere o si sarebbero
trasferite. Era una priorità politica per il Comune di Zara garantire la
sopravvivenza di istituzioni quali il Tribunale provinciale e quello d’appello, la Procura di finanza dalmata, la Procura di Stato, le Carceri,
308 ASMAE, Carte Salata, b. 201, Krekich a Mitre [verosimilmente Demetrio Medovich],
8 gennaio 1921.
309 A tale proposito RICCARDI, Francesco Salata, cit., p. 288 e ss.
310 ASMAE, Carte Salata, b. 247, Amministrazione Postale –Telegrafica, memoriale anonimo e senza data, ma conservato in fascicolo On. Ziliotto e databile inizio 1921.
311 Sulla vita politica di Lagosta negli anni fra le due guerre qualche cenno in ANTUN
JURICA, Lastovo kroz stoljec!a, Lastovo, 2001, p. 185 e ss.
290
LUCIANO MONZALI
gli Uffici di controllo della Finanza, ecc.312 Per compensare la perdita di posti di lavoro occorreva creare nuove attività, come ad esempio
una manifattura tabacchi, o potenziare determinate istituzioni e infrastrutture, come il porto di Zara e l’ospedale di Borgo Erizzo313. Altre
richieste della Camera di Commercio di Zara e dell’amministrazione
comunale furono un possibile accordo con la Iugoslavia per la costruzione di una linea ferroviaria che collegasse Zara a Knin, e l’istituzione di nuove tratte di navigazione marittima che mettessero in contatto Zara con Trieste, Fiume, Ancona, Venezia e Bari314. Sul piano economico Ziliotto, Krekich e i liberali zaratini chiesero la concessione
di franchigie ed esenzioni doganali per il territorio di Zara315. Bisognava che i beni alimentari, i medicinali, le materie prime (cereali,
olive, marasche, ecc.) per l’attività industriale fossero esentati da ogni
dazio nel commercio di confine fra Zara e la Iugoslavia. Era necessario mantenere in vita stretti rapporti economici fra Zara e il resto della Dalmazia iugoslava, soprattutto tenendo conto delle ingenti proprietà che molti zaratini possedevano nei territori passati al Regno iugoslavo: da qui la richiesta dell’esenzione dai dazi d’importazione e
di esportazione, e del libero passaggio, al di fuori delle strade doganali, per il bestiame da lavoro, gli strumenti agricoli e per gli effetti
che i contadini avrebbero importato ed esportato attraverso la linea doganale; allo stesso modo, ai possidenti del territorio di Zara, in possesso di fondi nel territorio iugoslavo, doveva essere concesso di poter importare per sé e per i loro lavoranti, in franchigia di dazio, commestibili e bevande in una quantità corrispondente ai loro bisogni. I
prodotti naturali raccolti nelle proprietà che si trovavano separate, a
causa della linea di confine, dalle abitazioni e masserie, dovevano essere esenti dai dazi doganali316. Altra necessità per la popolazione zaratina era il rifornimento di pesce. La Camera di Commercio di Zara
segnalò che con l’annessione l’esercizio della pesca sarebbe stato im312 ASMAE, Carte Salata, b. 247, Sistemazione della procura di finanza dalmata
(Avvocatura erariale), memoriale anonimo e senza data, ma conservato in fascicolo intitolato On. Ziliotto e databile inizio 1921; ivi, b. 214, Amministrazione giudiziaria, memoriale anonimo e senza data, ma attribuibile a Luigi Ziliotto e databile inizio 1921.
313 ASMAE, Carte Salata, b. 214, Sanità pubblica, memoriale anonimo e senza data, ma
attribuibile a Luigi Ziliotto e databile inizio 1921.
314 ASMAE, Carte Salata, b. 247, appello della Camera di Commercio di Zara, 3 gennaio 1921.
315 ASMAE, Carte Salata, b. 247, memoriale anonimo e senza data, ma conservato in fascicolo intitolato On. Ziliotto e databile inizio 1921.
316 Ibidem.
IL TRATTATO DI RAPALLO
291
possibile. A Zara non vi erano pescatori, il fondo del mare nella zona
annessa non era adatto alla pesca e il distacco politico delle isole di
Ugliano, Pasman, Sale, Eso, Pago, ecc., faceva temere che i pescatori isolani avrebbero smesso di vendere il loro prodotto sul mercato zaratino. Molto grave era soprattutto la separazione di Ugliano da Zara,
poiché i sette villaggi di quell’isola, che dista pochi chilometri dalla
città, fornivano giornalmente agli zaratini pesce, verdura, olio, vino e
legname da ardere. Il governo italiano doveva impedire che Belgrado
ostacolasse il libero commercio e il transito del pesce, degli animali
da macello e delle altre derrate alimentari fra Zara e il suo circondario317.
Un delicato problema politico era costituito dall’esistenza di numerose istituzioni scolastiche e religiose a Zara, italiane, croate e serbe, cattoliche e ortodosse. Nell’epoca asburgica le principali istituzioni
culturali e religiose della Dalmazia erano concentrate nella capitale
provinciale. Dopo Rapallo sorse il problema del futuro di queste istituzioni. Da parte dei capi liberali italiani, consapevoli della fragilità
dell’assetto politico creato in Dalmazia con il trattato di Rapallo, vi
era il timore che la sopravvivenza di troppe istituzioni scolastiche e
religiose croate e serbe in un piccolo centro come Zara servisse da strumento di penetrazione politica e culturale dello Stato iugoslavo318. Da
qui le pressioni perché molte di queste fossero trasferite in Iugoslavia
o soppresse. Il Liceo-Ginnasio croato di Zara andava soppresso, così
come la scuola per la formazione degli insegnanti esistente a Borgo
Erizzo. Andavano piuttosto potenziate le istituzioni scolastiche italiane, il Ginnasio Liceo, il Convitto Tommaseo, per fare di Zara un centro di propulsione dell’italianità in tutta la Dalmazia319. I liberali zaratini volevano anche che fosse conservato a Zara il seminario teologico e il seminario puerorum, purché fossero affidati a sacerdoti italiani e il corpo insegnante iugoslavo fosse sostituito. I seminari andavano preservati per le seguenti ragioni:
1) Per creare un clero indigeno educato nazionalmente, capace di assu-
317 ACS, UNP, b. 175, Artale, presidente della Camera di Commercio di Zara, a Bonfanti,
7 gennaio 1921.
318 Al riguardo: Krekich a Medovich, 8 gennaio 1921, cit.
319 ASMAE, Carte Salata, b. 214, Istituti scolastici da mantenere, eventualmente da ampliare e riorganizzare, memoriale anonimo e senza data, ma attribuibile a Luigi Ziliotto e databile inizio 1921.
292
LUCIANO MONZALI
mere la cura d’anime nelle città italiane e nei paesi slavi della diocesi.
2) Per attirare a Zara giovani chierici dall’Istria, e possibilmente dalla
Dalmazia, in modo che Zara diventi un centro di coltura ecclesiastica per italiani e slavi.
3) Per impedire che la curia di Zara sia costretta a ricorrere a clero estero jugoslavo per provvedere in avvenire alla cura d’anime in quei villaggi slavi, che saranno sottoposti alla sua giurisdizione, ciò che costituirebbe un pericolo, anzi una sciagura nazionale per queste terre320.
Bisognava comunque modificare i confini della diocesi di Zara, che
andava adattata al nuovo assetto territoriale, inserendo al suo interno
non solo Zara e Lagosta, ma anche Lussino e Cherso321. E negli ambienti italiani di Zara si chiese anche la sostituzione dell’arcivescovo
Pulis#ic!, croato ed ostile alla sovranità italiana, con un prelato italiano322.
Grave problema economico e finanziario per i dalmati italiani a
Zara e in Iugoslavia era la questione della valuta. Il governatore Millo,
per aumentare il consenso verso l’amministrazione italiana e per favorire la ripresa dei commerci, aveva mantenuto in vigore quale moneta della Dalmazia occupata la vecchia corona asburgica, nel resto
dei territori dell’ex Impero asburgico ormai priva di valore. Ciò aveva favorito l’afflusso d’ingenti quantitativi di corone nella Dalmazia
italiana a fini speculativi. Ma mentre nella Venezia Giulia e Tridentina
si procedette alla conversione della moneta asburgica in lire già nel
1919, nella Dalmazia occupata dall’Italia ciò non avvenne, e si lasciarono circolare le corone, favorendo un’incredibile importazione di
queste, poiché il loro valore a Zara era sempre superiore di quello che
tale moneta aveva altrove:
Dalle indagini – rilevò Wildauer – compiute dalle autorità italiane e da
enti locali risultava che l’ammontare complessivo delle corone esistenti nella Dalmazia occupata sarebbe stato da 600 a 800 milioni. Questa somma è
320 ASMAE, Carte Salata, b. 247, Il problema ecclesiastico di Zara dal punto di vista
nazionale, anonimo e senza data, ma attribuibile a Natale Krekich (al riguardo Krekich a
Medovich, 8 gennaio 1921, cit.).
321 Ibidem. I vescovi dalmati croati, riunitisi a convegno a Spalato nel marzo 1921, decisero di trasportare il seminario teologico centrale da Zara a Spalato e di trasformare il ginnasio del seminario di Spalato in un ginnasio comune per tutti i vescovati della Dalmazia
(ASMAE, Carte Salata, b. 264, Bonfanti a Ministero degli Affari Esteri, 12 marzo 1921).
322 Al riguardo, ad esempio: ASMAE, Carte Salata, b. 264, Lettera del sacerdote Ernesto
Perich al cardinale De Rey, 4 aprile 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
293
enorme se si pensa che tutta la regione è sempre stata priva di capitali e che
specialmente i contadini sono poverissimi. Tutta questa importazione veniva
alimentata enormemente dalla speranza che il Governo italiano estenderà,
senz’altro, anche a questa regione, i provvedimenti adottati pel cambio delle
corone nella Venezia Giulia e Tridentina323.
Dopo il trattato di Rapallo e l’annessione italiana di Zara, il governo di Roma si trovò ad affrontare il delicato problema della conversione della valuta austro-ungarica. Luigi Ziliotto presentò le richieste degli zaratini sulla questione della valuta inviando un promemoria a Francesco Salata324. Secondo il sindaco di Zara, il cambio della valuta austro-ungarica sarebbe dovuto avvenire a condizioni non
peggiori di quelle fatte alla Venezia Giulia e Tridentina.
Ma non si potrebbe, a mio credere, considerare come cambio a condizioni
uguali quello che venisse fatto in ragione di 60 centesimi di lira per corona,
perché il valore della lira nell’aprile 1919 era molto superiore a quello di adesso. Si obietta che la svalutazione della lira colpì anche i fratelli delle due
Venezie. Ma tale svalutazione non fu risentita da tutti coloro che in tempo
non lungo scambiarono la moneta con altri oggetti, e d’altronde il ritardato
cambio produsse in Dalmazia altri danni maggiori fra i quali basti accennare all’aver costretto coloro che dovevano vivere sul passato a consumare a
prezzi irrisori i loro risparmi. Dunque per parlare di un trattamento uguale a
quello della Venezia Giulia e Tridentina conviene che il cambio sia fatto per
lo meno alla pari. Ciò è tanto più indicato anche per lenire almeno parzialmente il danno derivante alla Dalmazia annessa dalla infelice soluzione del
problema adriatico325.
A parere di Ziliotto, la grande introduzione di corone in Dalmazia
non era responsabilità dei possessori del denaro, ma del governo che
nulla aveva fatto per impedire ciò. Il cambio, quindi, doveva essere fatto a tutti; ma per non premiare gli speculatori e i delinquenti poteva
essere nominata una commissione speciale avente il diritto di escludere dal cambio di favore tali persone e gli importi di origine illegale. Nel caso il Ministero del Tesoro non volesse procedere alla conversione integrale delle corone esistenti a Zara e desiderasse imporre
323
WILDAUER, I problemi economici, cit., p. 34.
ASMAE, Carte Salata, b. 215, LUIGI ZILIOTTO, promemoria senza titolo, senza data
(ma primi mesi del 1921).
325 Ibidem.
324
294
LUCIANO MONZALI
la legittimità del possesso del denaro come condizione per la conversione delle corone, Ziliotto propose la concessione del cambio di favore ad ogni possessore di denaro per un importo minimo, per il quale chiunque avrebbe avuto diritto al cambio senza l’obbligo di fornire alcuna prova: l’importo minimo era da fissarsi a cinquemila corone per capo-famiglia. Andava poi concesso il cambio di favore per tutto il denaro di cui si poteva dimostrare l’origine anteriormente ad una
data da stabilirsi fra il 4 novembre 1918 e il 15 aprile 1919; la dimostrazione era da prodursi con libretti di denaro e altri documenti. Il
cambio di favore, per Ziliotto, doveva essere effettuato subito per gli
importi minimi e per le somme la cui esistenza nel tempo critico era
provata con documentazione; per il resto andava effettuato dopo l’accertamento della commissione326. Altra richiesta che i dalmati italiani
avanzarono a tale riguardo fu quella della possibilità che alla conversione della valuta partecipassero anche i profughi italiani provenienti
dai territori della Dalmazia in passato occupata o facente parte del
Regno dei Serbi, Croati e Sloveni327. A questo riguardo, il console italiano a Sebenico, Rocco, a nome di molti italiani locali, chiese che venisse concesso un cambio di favore per i dalmati italiani che si accingevano ad abbandonare la Dalmazia non annessa e da cui si stava
ritirando l’esercito regio, e in particolare per gli impiegati del passato regime.
[…] Il cambio (che non è invocato e non si potrebbe accordare agli Italiani
anche optanti che restano nei territori dalmati passati alla S.C.S.) non deve
sembrare, come è stato affacciato, quasi un premio all’esodo, ma una necessità vitale ed un equo provvedimento a favore di coloro che lasciano la
Dalmazia in seguito al Trattato di Rapallo. Non è da temere che la concessione possa incoraggiare l’esodo perché il danno materiale di questo è per le
famiglie italiane così rilevante che mai esse vi si indurebbero attratte dal solo vantaggio del cambio, se altre necessità ben più gravi non ve le costringessero328.
Il governo italiano decise di accogliere alcune richieste dei liberali zaratini e dalmati. La più importante concessione fu la creazione della zona franca a Zara il 13 marzo 1921: i territori della Dalmazia an-
326
Ibidem.
327 ASMAE,
328 ASMAE,
GAB 1923-1943, AF, b. 9, Salata a Bonfanti, 8 giugno 1921.
Sebenico, arc. ord., b. 1, Rocco al Ministero degli Esteri, 5 aprile 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
295
nessa all’Italia vennero considerati fuori dalla linea doganale italiana.
I prodotti locali provenienti dai territori iugoslavi vicini potevano essere introdotti a Zara in esenzione dei diritti di confine329. Dato il momento delicato dei rapporti italo-iugoslavi, in attesa del consenso di
Belgrado verso la creazione della zona franca, si decise una solo parziale immediata applicazione del provvedimento: continuarono ad esservi dazi sulle importazioni provenienti dall’estero verso Zara, mentre il decreto venne applicato per quanto riguardava le esportazioni da
Zara per l’Italia. L’esecutivo Giolitti, poi, s’impegnò ad assumere nelle proprie amministrazioni la gran parte degli impiegati dalmati italiani o italofili già al servizio dello Stato asburgico. Tale atto si spiegava con ragioni di riconoscenza politica e nazionale verso questi impiegati che sotto il regime asburgico erano stati «i più strenui difensori dell’italianità contro l’invasione serbo-croata: e non pochi di essi hanno rischiato la loro carriera e la loro sicurezza, quando non l’hanno addirittura compromessa»330. Vi furono, però, lentezze nei tempi dei
trasferimenti per questi funzionari, che spesso erano destinati a funzioni di grado nettamente inferiore ai loro ruoli precedenti: il che suscitò in molti amarezze e recriminazioni, poiché ebbero talvolta la sensazione di essere trattati con ingratitudine e freddezza dallo Stato italiano331.
Molto difficile e controversa si dimostrò la soluzione della questione del cambio della valuta. Il Ministero del Tesoro decise di rifiutare la conversione di tutta la valuta austro-ungarica presente nella
Dalmazia italiana. Con il regio decreto del 10 giugno 1921 si stabilì
che fosse assegnato un fondo di 60 milioni di lire per la conversione
della valuta austro-ungarica in lire italiane nel territorio della Dalmazia
annesso all’Italia332. Le valute austro-ungariche avrebbero cessato di
avere corso legale alla mezzanotte del 19 giugno 1921. La conversione della valute austro-ungariche in quelle italiane sarebbe stata fatta
dal giorno 20 giugno a tutto il 4 luglio 1921, mentre a Lagosta il periodo di conversione sarebbe stato ridotto ai giorni dal 30 giugno al 4
329 «La Nazione», 29 marzo 1921, La zona franca a Zara; WILDAUER, I problemi economici, cit., pp. 57-58.
330 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 6, Rocco al Ministero degli Esteri, 29 gennaio 1921.
331 A titolo di esempio si veda il caso di Francesco Madirazza: ASMAE, Sebenico, arc.
ord., b. 6, Salata a Roddolo, 16 aprile 1921; ibidem, Madirazza a Rocco, 13 e 20 aprile 1921.
332 Il testo del decreto del 10 giugno 1921, n. 739, pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale»
del 17 giugno 1921, è riprodotto in WILDAUER, I problemi economici, cit., pp. 79-85.
296
LUCIANO MONZALI
luglio 1921. La conversione in valuta italiana delle corone costituite
da biglietti della Banca austro-ungarica non stampigliati da altri Stati
sarebbe stata eseguita a favore dei possessori della tessera annonaria
permanente di data anteriore al 15 maggio 1921, che avessero la dimora nella Dalmazia annessa. Fino alla somma massima di 3.000 corone per ogni possessore di tessera annonaria la conversione avrebbe
avuto luogo ai tassi di 40 centesimi per corona fino ai 2/5 della somma prestata al cambio, di 20 centesimi per il quinto successivo e di
centesimi 10 per la rimanenza. Sul primo quinto veniva concesso un
supplemento di 20 centesimi stabilito dal decreto regio del 27 novembre 1919. Il diritto di conversione al cambio delle corone venne
concesso anche ai profughi italiani provenienti dalla Dalmazia iugoslava333. In caso di richiesta di conversione di una somma superiore a
3.000 corone, occorreva presentare una dichiarazione firmata che attestasse, sotto giuramento, che le valute di cui si chiedevano la conversione erano di esclusiva proprietà dei richiedenti, e un certificato
dell’Ufficio delle Imposte indicante il reddito accertato per l’anno
1920 (i profughi dovevano presentare un certificato equipollente). La
conversione sarebbe stata effettuata fino al limite di un decimo della
somma risultante dalla capitalizzazione al 5 per cento del reddito suddetto. Oltre che per le somme liquide dei commercianti e dei privati,
il decreto stabiliva le condizioni per la conversione delle corone in possesso degli enti morali, delle società commerciali e delle banche.
Importanti, in particolare, erano le condizioni per la conversione dei
depositi bancari334. L’applicazione del decreto del giugno 1921 fu estre333 Il decreto prevedeva al riguardo: «I profughi dai territori dalmati non assegnati
all’Italia dal trattato di Rapallo, potranno in luogo della tessera annonaria produrre un certificato della competente autorità consolare o politica italiana attestante la loro qualità, la loro dimora nel Regno, ivi compreso il territorio di cui all’articolo 1, e lo stato della loro famiglia. In base a tale certificato e previ eventuali opportuni accertamenti, l’Ufficio provvisorio del Tesoro in Zara autorizzerà l’importazione nel territorio annesso delle valute austroungariche agli effetti della conversione stabilita dal presente articolo e dall’articolo seguente» (WILDAUER, I problemi economici, cit., pp. 79-85).
334 Al riguardo notò Wildauer: «I depositi bancari esistenti alla sera del 9 aprile e costituiti anteriormente venivano convertiti direttamente dagli istituti di credito con le somme necessarie messe a loro disposizione dall’Ufficio provvisorio del Tesoro in Zara fino alla concorrenza del saldo esistente alla data sopra accennata, e cioè al tasso del 60% il saldo eventuale al 3 novembre 1918 ed al tasso del 40% la differenza tra il saldo suddetto a quello del
9 aprile 1919. I depositi a risparmio invece venivano convertiti direttamente dagli istituti di
credito senza tener conto della data della loro creazione, quando non superassero le 8.000
corone. I tassi erano i medesimi come quelli per i depositi bancari, però con questa aggiunta che la differenza tra il saldo del 9 aprile e 30 settembre 1919 al tasso del 20% ed il resto
IL TRATTATO DI RAPALLO
297
mamente problematica e suscitò fortissime critiche a Zara335. La percentuale più bassa del tasso di conversione delle corone applicata in
Dalmazia rispetto a quella accordata agli altri territori ex asburgici annessi nel 1919 irritò molti dalmati italiani. I tempi ristretti della conversione resero difficile per molti profughi di procurarsi la necessaria
documentazione. Rimase poi non convertita in lire un’enorme quantità di corone austro-ungariche. Secondo un critico zaratino del sistema di conversione l’errore fondamentale fu il trattare allo stesso modo sia gli onesti che gli speculatori delle corone:
Ai primi competeva indubbiamente un trattamento eguale a quello fatto
nella Venezia Giulia e nella Venezia Tridentina; agli altri, per giustizia, un trattamento diverso, più sfavorevole. Il decreto del cambio in sostanza eguagliò
tutti, senza distinzione alcuna e per evitare degli scandali, se fosse stata fatta luce piena e completa sull’origine delle somme accumulate, favorì indirettamente gli speculatori. Esso preferì ricorrere a basi inadatte, come quella della dichiarazione del reddito, che, come è facile a comprendersi, certo
non corrispose alla reale situazione economica dei cittadini, e per una gran
parte delle somme convertite ricorse inoltre a percentuali di cambio inferiori al valore medio locale della corona rispetto alla lira336.
Naturalmente la difficoltà nell’esaudire molte richieste degli esponenti zaratini stava nel fatto che era necessaria a tal fine la collaborazione del governo di Belgrado. Quindi il problema della ripresa economica di Zara era fortemente dipendente dal corso delle relazioni
commerciali e politiche fra Italia e Regno SHS. Su incarico del governo italiano, il 1° luglio 1921 il deputato Fulco Tosti di Valminuta,
delegato nella commissione che avrebbe dovuto negoziare accordi miranti al miglioramento dei rapporti commerciali e finanziari con il
Regno SHS, e il generale Eugenio Barbarich, membro della commissione per la delimitazione dei confini in Dalmazia, presentarono al
al tasso del 10%. Per quanto riguarda i depositi bancari costituiti dopo il 9 aprile 1919, essi
non venivano convertiti dagl’istituti di credito, ma invece dall’Ufficio provvisorio del Tesoro
in Zara, qualora il titolare fosse un contribuente per l’imposta sull’industria e le partite accreditate dipendessero da vendite di merci e di derrate effettuate nella Dalmazia già occupata dal R. Esercito. Anche gli aumenti posteriori di depositi già esistenti prima del 9 aprile 1919
venivano convertiti dal suddetto Ufficio in caso che si verificassero le condizioni sopra esposte» (WILDAUER, I problemi economici, cit., p. 46).
335 Al riguardo: «La Nazione», Trieste, 18 agosto 1921, Il problema della valuta a Zara.
336 WILDAUER, I problemi economici, cit., p. 44.
298
LUCIANO MONZALI
Ministero degli Esteri una relazione sulla situazione di Zara337, proponendo una serie di misure da attuare a favore del territorio zaratino
e da porre al centro dei negoziati bilaterali con Belgrado. Erano proposte che in gran parte riprendevano i progetti delineati dai capi liberali zaratini nei mesi precedenti. Cruciale era, a parere di Barbarich e
Tosti di Valminuta, la creazione di una zona franca nel territorio iugoslavo circostante Zara, al fine di mantenere vivi i rapporti fra la città
e il suo retroterra. A tal fine essi proponevano di negoziare con
Belgrado lo stabilimento di una zona franca per terra e per mare in
territorio iugoslavo che comprendesse le isole poste di fronte a Zara
(Puntadura/Vir, Sestruni/Sestrunj, Rivani/Rivanj, Ugliano e Pasman/
Pas#man), mentre sul continente includesse la regione posta fra il canale di Povliana, quello di Morlacca (Velebitski Kanal), il mare di
Novegradi/Novigrad, Bencovaz, le rive settentrionali del lago di Vrana
e il mare338. Era poi urgente la costruzione di una linea ferroviaria attraverso la Dalmazia settentrionale, lungo il tracciato Zara-BencovazKistanje-Knin, che collegasse la città italiana con le ferrovie dalmate
e facilitasse la ripresa economica della zona339. Per proteggere il rifornimento dell’acqua a Zara, consentito da un acquedotto che traeva origine dalle acque dello stagno di Boccagnazzo, in territorio iugoslavo,
bisognava negoziare con Belgrado, «ammessa l’esclusione di ritocchi
territoriali», una convenzione che assicurasse «la purezza delle fonti,
la loro integrità e purezza, la libertà di lavoro nella presa di acqua e
nelle condotture, in modo da garantire, in modo assoluto e sotto ogni
rispetto, il rifornimento di acqua attuale ed avvenire della città di Zara
e del suo immediato retroterra»340. Altro tema cruciale era quello della tutela della proprietà privata italiana nella Dalmazia iugoslava. A
parere di Barbarich e Tosti di Valminuta, doveva essere assicurato ai
cittadini di Zara il pieno godimento dei diritti di proprietà, dei beni
mobili ed immobili che essi possedevano nei territori sotto la sovranità iugoslava. Se nei riguardi delle imposizioni di tributi, del godimento delle proprietà e dei beni, agli italiani zaratini andava garanti337 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 9, BARBARICH e TOSTI DI VALMINUTA, Relazione circa la sistemazione di Zara, 1° luglio 1921, con 6 allegati.
338 Promemoria n. 1: Zona franca zaratina, allegato a BARBARICH, TOSTI DI VALMINUTA,
Relazione circa la sistemazione di Zara, 1° luglio 1921, cit.
339 Promemoria n. 2: Raccordo ferroviario Zara-Knin, allegato a BARBARICH, TOSTI DI
VALMINUTA, Relazione circa la sistemazione di Zara, 1° luglio 1921, cit.
340 Promemoria n. 3: Acquedotto di Boccagnazzo, allegato a BARBARICH, TOSTI DI
VALMINUTA, Relazione circa la sistemazione di Zara, 1° luglio 1921, cit.
IL TRATTATO DI RAPALLO
299
to il trattamento riservato ai cittadini iugoslavi, ciò non era sufficiente nel caso di espropriazione.
In fatto, l’applicazione della progettata legge agraria con l’espropriazione forzata di talune categorie di proprietà agrarie ecc. comporterebbe la pratica confisca di questi beni per i nostri nazionali, sia in rapporto ai criteri adottati, […] sia in rapporto alla traduzione in atto dei principi fissati. Va tenuto
presente che nella Dalmazia i beni fondiari colpiti da espropriazione secondo la progettata riforma agraria appartengono nella maggior parte a elementi di nazionalità italiana, e quindi, nessuna garanzia d’imparzialità sarebbe garantita dalle commissioni locali di aggiudicazione e di stima dei terreni dei
nostri cittadini. Un primo esempio a nostro danno è fornito dall’ordinanza del
Governo S.H.S. che dichiara risolti a favore dei coloni i rapporti di colonato. In Dalmazia i coloni si sono rifiutati di pagare, in seguito a questa, alcun
canone ai proprietari e rimasero sul fondo341.
Per tutelare i cittadini zaratini, quindi, era indispensabile, in caso
d’espropriazione, assicurare per i loro beni un’indennità equivalente
al valore commerciale di questi, e che la valutazione dei beni da espropriare fosse eseguita in modo serio ed imparziale342. Al fine di consentire la sopravvivenza commerciale di Zara bisognava mantenere in
funzione tutte le comunicazioni marittime locali, che in epoca asburgica collegavano la città con le isole e i porti vicini (i collegamenti di
Zara con Stretto, Pago, Arbe, Sale/Sali, Ulbo/Olib, ecc.): tali linee dovevano essere esercitate in regime di libertà doganale, con facoltà di
trasporto delle merci da un porto all’altro343. Per garantire l’attività della pesca zaratina e un’autonoma fonte di rifornimenti alimentari, bisognava che il governo di Belgrado concedesse ai pescatori italiani di
Zara «la facoltà di esercitare la pesca lungo il canale di Zara fino ai
confini meridionale e settentrionale della zona franca zaratina ed attorno alle antistanti isole»344.
In questa relazione venivano delineati i principali problemi economici di Zara, che i governi Bonomi, Facta e Mussolini avrebbero
cercato di affrontare nel corso delle lunghe trattative italo-iugoslave
341 Promemoria n. 4: Tutela della proprietà privata, allegato a BARBARICH, TOSTI DI
VALMINUTA, Relazione circa la sistemazione di Zara, 1° luglio 1921, cit.
342 Ibidem.
343 Promemoria n. 5: Comunicazioni marittime locali di Zara, allegato a BARBARICH,
TOSTI DI VALMINUTA, Relazione circa la sistemazione di Zara, 1° luglio 1921, cit.
344 Promemoria n. 6: Pesca, allegato a BARBARICH, TOSTI DI VALMINUTA, Relazione circa la sistemazione di Zara, 1° luglio 1921, cit.
300
LUCIANO MONZALI
sull’applicazione del trattato di Rapallo nella prima metà degli anni
Venti.
3.6. Liberali contro nazionalisti e fascisti: le elezioni parlamentari a
Zara nel maggio 1921
Le perduranti difficoltà economiche e finanziarie che travagliavano la
vita di Zara e della sua popolazione facilitarono il risorgere di una forte conflittualità politica nella città. L’irritazione e la rabbia di parte della popolazione di Zara per le difficili condizioni di vita dopo l’annessione si tradussero spesso in un malcontento verso il governo di
Roma e i vecchi capi liberali-nazionali, additati come corresponsabili e colpevoli per la pessima situazione politica ed economica. L’insoddisfazione di molti dalmati italiani per i confini decisi a Rapallo e
la sensazione di essere stati traditi dal governo di Roma, favorirono lo
sviluppo e il consolidamento di forti gruppi nazionalisti e fascisti a
Zara. I primi nuclei nazionalisti e fascisti zaratini si erano formati sull’onda della spedizione dannunziana nell’autunno 1919. Il trattato di
Rapallo alimentò il malcontento fra la popolazione zaratina e favorì
un’ulteriore diffusione del nazionalismo e del fascismo, operanti a Zara
in una stretta simbiosi ed entrambi in opposizione alla classe dirigente liberale autonomista, accusata d’egoismo, debolezza e complicità
con il governo. Il convergere a Zara di molti esuli e profughi italiani
provenienti dal resto della Dalmazia, amareggiati ed esasperati per avere lasciato le proprie case e proprietà, fornì un ulteriore nucleo di simpatizzanti nazionalisti e fascisti. L’Associazione nazionalista zaratina
ebbe come propri dirigenti Egidio Rovaro Brizzi, Maurizio Mandel,
iscritto anche al movimento fascista, Luigi Macchiedo e l’avvocato
Arnerich345; il Fascio di Zara, invece, era guidato a livello locale da
Michelangelo Zimolo, giornalista direttore dell’«Azione Nazionale»,
e da Troiani, ma aveva come punti di riferimento in Italia Alessandro
Dudan e Antonio Cippico346. In una posizione di parziale distacco e
dissenso dai suoi vecchi amici liberali, Roberto Ghiglianovich, ormai
trasferitosi a Roma in quanto consigliere della Corte di Cassazione e
345 «L’Idea Nazionale», 25 dicembre 1921, Il rapido e brillante sviluppo della Sezione
nazionalista di Zara.
346 «L’Idea Nazionale», 10 aprile 1921, Nel collegio di Zara; ivi, 26 agosto 1921, I fasci
della Dalmazia solidali con Mussolini.
IL TRATTATO DI RAPALLO
301
a partire dal 1921 gravemente malato, si avvicinò sempre più al nazionalismo e al fascismo, sostenendo con tutti i mezzi la carriera politica di Alessandro Dudan. In questa scelta filofascista di Ghiglianovich pesava non tanto un’affinità ideologica, quanto il condizionamento che su di lui l’ambiente politico romano esercitava e una scelta pragmatica; in fondo, mentre il liberalismo peninsulare si mostrava sempre più debole e diviso, nazionalisti e fascisti erano forze politiche in grande ascesa e, a differenza di altri partiti, manifestavano
l’apparente volontà di porre al centro dell’azione di governo la difesa dei diritti economici e nazionali dei dalmati italiani: l’affermazione delle destre faceva sperare Ghiglianovich in una futura maggiore
attenzione dell’Italia ai bisogni di Zara.
In quei mesi un ruolo non piccolo nella vita politica zaratina lo
svolsero pure i repubblicani, che avevano in Dalmazia una forte impostazione nazionalista italiana: essi erano la derivazione di alcuni
nuclei della sinistra autonomista e raggruppavano numerosi seguaci
di D’Annunzio, già membri del battaglione di volontari dalmati «Rismondo». Dopo aver inizialmente aderito all’Unione Nazionale, nazionalisti, fascisti e repubblicani ne uscirono progressivamente e iniziarono a porsi in aperta opposizione a Ziliotto e Krekich. In un rapporto del 15 marzo il commissario civile Bonfanti constatò che l’Unione Nazionale, espressione delle forze dell’ordine ligie alle istituzioni,
era travagliata da dissensi interni, «provocati dall’elemento giovanile,
che mal tollera la prevalenza dei vecchi conservatori»347. L’avvicinarsi
della elezioni parlamentari nazionali, previste per il maggio 1921, e
la necessità di scegliere un candidato per il seggio di deputato di Zara
avevano aggravato i dissidi: gli anziani, guidati da Ziliotto ed espressione dell’amministrazione comunale e delle classi commerciali, volevano candidare Krekich, ma tale candidatura era contrastata dai giovani e dai repubblicani che desideravano l’elezione di Vittorio Vettori
o Alessandro Dudan. Bonfanti comunicò poi che in quelle settimane
si era costituito a Zara un Fascio di combattimento, con alcune centinaia di simpatizzanti:
Senonché, mancando qui il pretesto della reazione alle violenze degli elementi bolscevichi, fortunatamente ancora ignoti a Zara, il Fascio locale si è
proposto chiaramente altri scopi diversi e cioè: 1) quello di frenare le even-
347 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti all’Ufficio centrale per le Nuove Provincie, 15 marzo 1921.
302
LUCIANO MONZALI
tuali escandescenze del manipolo dei repubblicani. 2) Di esercitare rappresaglie contro l’elemento croato alla minima violenza o minaccia che si usasse contro gli italiani del territorio della Dalmazia soggetto allo sgombero348.
Nel corso di aprile e maggio il contrasto fra “vecchi” liberali di
estrazione autonomista e “giovani” nazionalisti, dannunziani e fascisti esplose apertamente. In previsione delle elezioni parlamentari i liberali zaratini proposero la candidatura di Natale Krekich. Inizialmente
i gruppi nazionalfascisti (il Fascio di combattimento, l’Associazione
dei combattenti e l’Associazione nazionalista) presentarono come proprio candidato per il collegio di Zara Alessandro Dudan, dirigente fascista, descritto dall’«Idea Nazionale» come un vero «apostolo della
causa dalmatica»349. Tale candidatura era sostenuta dalle direzioni centrali del nazionalismo e del fascismo, da importanti giornali come «Il
Messaggero», diretto dal giolittiano con simpatie nazionaliste Virginio
Gayda, e da Roberto Ghiglianovich. Il 9 aprile Gayda scrisse a Krekich
per spiegare il sostegno alla candidatura Dudan, vista negativamente
dai liberali zaratini, affermando che il giornalista spalatino era molto
popolare in Italia e a Roma e che il governo vi era favorevole350. Ma
ben presto, su iniziativa dell’Associazione repubblicana zaratina fu
proposta l’idea della candidatura di D’Annunzio nel collegio di Zara
quale dimostrazione anti-governativa e segnale dell’opposizione dei
dalmati al trattato di Rapallo. Il governo di Roma era ostile all’ipotesi di una candidatura di D’Annunzio, feroce oppositore della politica
estera di Sforza, anche per il significato anti-iugoslavo che l’elezione
del poeta a Zara avrebbe avuto. Pure i liberali zaratini, desiderosi di
inviare alla Camera dei deputati un politico locale e di evitare provocazioni contro il governo di Roma e il Regno SHS, si schierarono contro la candidatura di D’Annunzio351. Il commissario Bonfanti segnalò
che l’idea della candidatura di D’Annunzio era la conseguenza degli
intrighi dei capi dannunziani zaratini, lo Schönfeld, il dottor Inchiostri,
il prof. Filippi, Edoardo Calebich e Vittorio Verban, che si erano recati a Trieste per organizzare l’iniziativa ed avevano l’appoggio di Host
348
Ibidem.
«L’Idea Nazionale», 8 aprile 1921, Blocco antislavo e antisocialista a Trieste; ivi, 10
aprile 1921, Nel collegio di Zara.
350 ACS, UNP, b. 71, Gayda a Krekich, 9 aprile 1921, allegato a Bonfanti a Salata, 11
aprile 1921.
351 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti all’Ufficio per le Nuove Provincie, 11 aprile 1921.
349
IL TRATTATO DI RAPALLO
303
Venturi, stretto collaboratore di D’Annunzio a Fiume352. In effetti, gli
zaratini Roberto Petricioli e Alfredo Toniatti si recarono dal poeta
abruzzese e gli consegnarono una lettera, con data dell’8 aprile, che
conteneva l’offerta a D’Annunzio, da parte dei principali capi nazionalisti e dannunziani zaratini (Schönfeld, Mandel, Rigatti, Nani,
Alacevich, ecc.), di presentarsi candidato nel collegio di Zara per le
elezioni parlamentari353. Bonfanti fece pressioni su Ziliotto affinché i
liberali zaratini si decidessero ad ufficializzare la candidatura di
Krekich, appoggiata dal governo, al fine di bloccare D’Annunzio354.
Il 12 aprile l’Unione Nazionale pubblicò un manifesto che proclamò
la candidatura di Krekich355. In reazione a ciò i repubblicani e i fascisti invitarono pubblicamente a votare D’Annunzio. La direzione centrale del movimento nazionalista attaccò duramente la candidatura
Krekich con un articolo dell’«Idea Nazionale» il 14 aprile 1921356. I
nazionalisti accusarono il governo di sostenere l’elezione di Krekich
facendo circolare voci secondo le quali in caso di vittoria di un deputato moderato a Zara, bene accetto al governo e a Salata, si sarebbe
potuto ottenere un migliore cambio delle corone. I nazionalisti ribadirono il loro appoggio alla candidatura Dudan contro Krekich; ma si
proclamarono pronti a sostenere una soluzione unitaria italiana, quale sarebbe stata, a loro avviso, la candidatura D’Annunzio. In una posizione differenziata rispetto alla grande maggioranza della vecchia
guardia liberale e irredentista Roberto Ghiglianovich caldeggiò la candidatura di Dudan a Zara e sostenne l’azione di quest’ultimo mirante
alla creazione di un fronte unitario nazionalfascista dalmata ostile al
governo. Il 13 aprile Ghiglianovich scrisse a Ziliotto insistendo affinché i liberali zaratini accettassero la candidatura Dudan:
Dudan, fuori del Giornale d’Italia, ha per sé quasi tutta la stampa romana. C’è poi un altro enorme guaio e cioè che se non si proclama la candidatura di Dudan, acquisterà sempre maggiore consistenza a Zara la candidatura di D’Annunzio. E – io mi chiedo – come farebbe Lei ad opporsi alla candidatura di D’Annunzio! Che figura farebbero i Zaratini contrastando ed op352
Bonfanti a Salata, 11 aprile 1921, cit.
353 FV, ARC GEN, fascicolo Zara, Schönfeld, Nani, Rigatti, Alacevich, Battara, Mandel,
ed altri, a Gabriele D’Annunzio, 8 aprile 1921.
354 Bonfanti a Salata, 11 aprile 1921, cit.
355 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti alla Presidenza del Consiglio e all’Ufficio per le Nuove
Provincie, 12 aprile 1921.
356 «L’Idea Nazionale», 14 aprile 1921, Un ricatto elettorale contro Zara? La rovina della città annunciata dal Governo.
304
LUCIANO MONZALI
ponendosi a questa candidatura? L’unico modo per far sì che D’Annunzio non
accetti la candidatura è la candidatura Dudan […]. Krekich non aveva mai
gran voglia di candidare, e mi stupisce anzi che abbia accettata la candidatura. Si vede che lo fece per gran spirito di abnegazione e soprattutto per allontanare il pericolo di una candidatura di un non Dalmato. Ma Krekich comprenderà la suprema difficoltà del momento e se, come credo, si ritirerà, spontaneamente, avrà avuto lo stesso una bella soddisfazione357.
Nei giorni successivi la stampa nazionalista e fascista rinunciò a
sostenere Dudan e lanciò una grande campagna a favore della candidatura di D’Annunzio a Zara. Tale candidatura raccoglieva vasti consensi, a destra e a sinistra. Il suo significato sarebbe stato quello di compiere un gesto di sfida al trattato di Rapallo e alla cosiddetta «minaccia slava»358; ma era evidente anche che si lanciava il nome di D’Annunzio per bloccare la candidatura Krekich e umiliare i liberali dalmati.
I nazionalisti minacciarono i liberali zaratini a tale proposito.
Nessuno può ammettere che di fronte al nome del Comandante, di colui
che può aver voce per tutti gli italiani sofferenti in Adriatico, l’Unione osi
mantenere la candidatura Krekich359.
In quelle settimane, come hanno ben mostrato Renzo De Felice e
Francesco Perfetti360, intorno al possibile ruolo politico di D’Annunzio
si giocò un duro scontro fra, da una parte, nazionalisti e fascisti, dall’altra, legionari e reduci vicini a Alceste De Ambris361. Entrambi gli
schieramenti desideravano strumentalizzare sul piano elettorale la popolarità di D’Annunzio in nome di due progetti politici alternativi e
competitivi. In particolare, dalla fine del 1920 i nazionalisti volevano
fare del poeta l’uomo simbolo di un grande schieramento anti-sovversivo ed anti-rinunciatario da loro guidato; ma l’indisponibilità di
D’Annunzio ad assecondare i loro piani rese ben presto l’azione politica del poeta potenzialmente pericolosa per i partiti della destra.
Mussolini e i capi nazionalisti, pure pubblicamente favorevoli alla can357
BS, Carte Ghiglianovich, b. B., Ghiglianovich a Ziliotto, 13 aprile 1921, minuta.
358 «L’Idea Nazionale», 15 aprile 1921, Il rifiuto di d’Annunzio e il collegio di Zara; «La
Nazione» (Trieste), 5 aprile 1921, D’Annunzio candidato a Zara.
359 «L’Idea Nazionale», 16 aprile 1921, Zara proclama candidato d’Annunzio.
360 DE FELICE, D’Annunzio politico, cit., p. 160 e ss.; PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, cit., p. 37 e ss.
361 Sulla figura di De Ambris e i suoi rapporti con D’Annunzio: DE FELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D’Annunzio, cit.
IL TRATTATO DI RAPALLO
305
didatura di D’Annunzio, temevano che il comandante, ponendosi a capo di un movimento di combattenti e reduci, potesse danneggiarli sul
piano elettorale: da qui in fondo la convenienza di spingere D’Annunzio a candidarsi a Zara, a capo di una grande coalizione che evitasse
una precisa identificazione partitica del poeta. Interessante a questo
proposito è la lettera che Forges Davanzati scrisse a D’Annunzio il 16
aprile362. L’esponente nazionalista cercò di convincere D’Annunzio a
candidarsi a Zara. Forges condivideva il disgusto del poeta per le candidature parlamentari.
Tuttavia io credo che la candidatura offertale da Zara sia un’eccezione.
Anzitutto è un’eccezione nella procedura, perché a Zara il candidato è solo,
senza compagni. Poi perché, dovesse valere la sola elezione, e dovesse anche
Ella rifiutare di entrare in Parlamento, la voce adriatica non può dare all’Italia
e al mondo altro nome che il Suo. Pensi al bene nazionale di questa protesta
dalmatica e non dica di no363.
Il giornalista, però, ripeté al poeta il dissenso dei nazionalisti verso ogni tentativo di creare liste autonome ed indipendenti di legionari dannunziani.
Io penso che l’unione dei legionari debba essere una sodalità militare e
nazionale, non una scelta politica e tanto meno elettorale364.
Se i legionari agivano insieme ai nazionalisti e ai fascisti andava
bene; «ma che essi facciano un’azione politica a sé, che soprattutto
mettano propri candidati, […] questo non mi pare rispondente allo spirito dei legionari»365.
Nonostante le minacce nazionaliste e fasciste, il 14 aprile 1921
l’Unione Nazionale tenne un’assemblea che proclamò, con l’appoggio del governo, la candidatura di Krekich contro la volontà dei nazionalisti e dei fascisti locali, che tentarono con azioni di piazza di impedire tale scelta. Riferì a questo riguardo Bonfanti il 15 aprile:
Ieri fascisti e repubblicani tentarono, con tutti i mezzi, [di] impedire convocazione assemblea generale Unione Nazionale, o sminuirne importanza.
362
Forges Davanzati a D’Annunzio, 16 aprile 1921, cit.
Ibidem.
364 Ibidem.
365 Ibidem.
363
306
LUCIANO MONZALI
[…] Qualche ora prima convocazione assemblea, forti gruppi fascisti e repubblicani tentarono bloccare adiacenze teatro per ostacolare adunanza ma
furono allontanati [da] forza pubblica senza notevoli incidenti. Assemblea ebbe luogo così [con] massima calma e riuscì affollatissima. Parlarono prod’Annunzio Vettori, Mandel e Petricioli efficacemente ribattuti. Candidatura
Krekich fu proclamata unanimità, meno 3 aut 4 dissidenti, tra grande entusiasmo intervenuti, tra cui più note personalità cittadine366.
La riluttanza dei liberali zaratini ad accettare la candidatura di
D’Annunzio irritò i nazionalisti e i fascisti italiani. Dudan, Pantaleoni,
Foscari, Roncagli (presidente dell’associazione «Dalmazia» di Roma)
e Preziosi inviarono un telegramma congiunto a Ziliotto chiedendo la
candidatura del poeta abruzzese a Zara367. Altre missive di contenuto
simile, e con minacce di ritorsioni politiche, furono inviate da Dudan
a Lubin e da Roncagli a Ziliotto368. Ziliotto decise di rispondere a
Roncagli con una lettera personale. Egli ribadì di essere contrario alla candidatura di D’Annunzio a Zara. In quel momento politico bisognava essere cauti nella scelta dei mezzi per realizzare l’ideale della
Dalmazia italiana:
Occorre spiare – scrisse Ziliotto – con grande cautela i rapporti che si stabiliranno fra l’Italia e la Jugoslavia, onde mi sembrerebbe assai inconsulto di
spiegare fin dal primo momento, proprio da Zara, la bandiera dell’irredentismo. Credo, d’altra parte, che Zara non farebbe un’opera saggia col mettersi, fin d’ora, in conflitto aperto col nostro Governo, perché basta un contegno tiepido da parte del medesimo, perché Zara si riduca ad un villaggio, perdendo così tutta la sua funzione nazionale369.
L’azione del governo e dell’Unione Nazionale zaratina, nonché la
candidatura di Krekich, vennero duramente criticate da Antonio
Cippico sull’«Idea Nazionale» il 20 aprile370. Secondo Cippico, Zara
366 ACS, MIN INT, d.g. pubblica sicurezza 1921, b. 87, Bonfanti a Ufficio per Nuove
Provincie e a Direzione generale della Pubblica Sicurezza, 15 aprile 1921; ACS, UNP, b. 71,
Bonfanti a Salata e al Gabinetto del Ministero degli Interni, 15 aprile 1921; «La Dalmazia.
La voce dalmatica», 14 aprile 1921, R. D. [RAIMONDO DESANTI], Il deputato di Zara.
367 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti a Salata, 18 aprile 1921.
368 ACS, UNP, b. 71, Dudan a Lubin, 20 aprile 1921; ibidem, Roncagli a Ziliotto, 19 aprile 1921; ASMAE, Carte Sforza, b. 6, Bonfanti a Salata, 22 aprile 1921.
369 ACS, UNP, b. 71, Ziliotto a Roncagli, s.d., copia allegata a Bonfanti a Salata, 19 aprile 1921.
370 «L’Idea Nazionale», 20 aprile 1921, ANTONIO CIPPICO, Tradimento, ricatto e bavaglio per Zara.
IL TRATTATO DI RAPALLO
307
era stata abbandonata e tradita. Ziliotto e il governo erano ostili alla
candidatura di D’Annunzio ed avevano imposto l’organizzazione di
un’assemblea che aveva proclamato Krekich candidato alle elezioni
politiche. Certo, Krekich era stato un valoroso «patrocinatore della
causa italiana nella dura battaglia contro la politica snazionalizzatrice dell’Austria», ma ora, a parere di Cippico, non era «persona a pieno alla grande maggioranza dei nostri concittadini, dopo la sua partecipazione, in Spalato, alla ratifica dei disgraziatissimi e ridevoli confini della Dalmazia italiana di Rapallo». La candidatura di Krekich era
stata imposta in un’assemblea in assenza della grande maggioranza degli elettori di Zara, «ai più giovani e animosi dei quali era stato impedito con brutalità e armata manu dai carabinieri del Bonfanti Linares
pure l’approccio al luogo del convegno»371. Nei giorni successivi la
campagna pro-D’Annunzio da parte dei nazionalisti e dei fascisti continuò incessante a Zara e sulla stampa italiana372. Sotto la crescente
pressione della piazza e dei gruppi estremisti, i liberali decisero di ritirare la candidatura Krekich: il 22 aprile Lubin, vicepresidente
dell’Unione Nazionale, inviò a D’Annunzio l’offerta di una candidatura a Zara373. Ma la tardiva e poco entusiasta proposta dell’Unione
Nazionale venne rifiutata dal poeta. Secondo quanto posteriormente
riferì un dannunziano zaratino a Bonfanti, per alcuni giorni D’Annunzio era stato pronto ad accettare la candidatura a Zara, pur ponendo
varie condizioni: il ritiro della candidatura Krekich, un’esplicita offerta dell’Unione Nazionale firmata da Ziliotto, l’impegno dei deputati nazionalisti e fascisti a votare una serie di provvedimenti economici e finanziari a favore di Zara. Ma offeso dalla freddezza dei liberali zaratini e sotto le pressioni del governo, che desiderava che non
si presentasse alle elezioni, nonostante le implorazioni dei nazionalisti e fascisti374 il poeta decise di non accettare la candidatura e scris371 Ibidem. Altri duri attacchi fascisti e nazionalisti a Luigi Ziliotto e alla vecchia guardia liberale zaratina in «Popolo di Trieste», 21 aprile 1921, REMO PAPPUCIA, Il deputato di
Zara.
372 «L’Idea Nazionale», 21 aprile 1921, Zara invoca Gabriele d’Annunzio.
373 Nell’archivio di D’Annunzio è conservata la copia del seguente telegramma firmato
da Giovanni Lubin: «Direttorio Unione Nazionale offre voi strenuo difensore diritto adriatico candidatura coll. Zara e dichiara di ritirare propria candidatura in caso Vostra accettazione» (FV, ARC GEN, fasc. Zara, Giovanni Lubin a D’Annunzio, s.d., ma aprile 1921). Si veda anche: ACS, UNP, b. 71, Bonfanti a Salata, 22 e 23 aprile 1921; «L’Idea Nazionale», 26
aprile 1921, Un colpo di scena a Zara. L’Unione Nazionale si rivolge a d’Annunzio.
374 FV, ARC GEN, fasc. Zara, Mandel, Battara, Petricioli, Rigatti, Toniatti a D’Annunzio,
22 aprile 1921: «Disperatamente imploriamo da Lei la suprema prova d’amore verso questa
308
LUCIANO MONZALI
se all’«Idea Nazionale» comunicando la propria definitiva decisione
di non presentarsi alle elezioni parlamentari, né a Zara né altrove375.
Di fronte all’ostilità di gran parte dell’establishment liberale nazionale zaratino e all’incertezza del voto, pure Dudan rinunciò a presentarsi a Zara e preferì candidarsi a Roma come esponente fascista
all’interno dei Blocchi Nazionali376. Dopo il rifiuto di D’Annunzio e
il ritiro di Dudan, i nazionalfascisti decisero di non presentare proprie
candidature: rimasero in piedi quindi le sole candidature di Krekich,
per l’Unione Nazionale, e di Alfonso de Borelli, per il partito croatoserbo zaratino. La minaccia di una vittoria croato-serba a Zara con l’elezione a deputato di Borelli, definito dai nazionalisti italiani «un rinnegato di nobiltà veneta», convinse fascisti e nazionalisti ad accettare il male minore rappresentato da Krekich: certamente – notava l’«Idea Nazionale» – «la mancata candidatura di d’Annunzio e di Dudan
ha esasperato la parte migliore della popolazione, che minaccia di astenersi dalle urne»377; ma il rischio di un deputato croato a Zara doveva convincere tutti gli elettori italiani a recarsi alle urne e a votare. In
realtà Borelli – discendente di una famiglia aristocratica originaria di
Bologna – decise ben presto di ritirare la propria candidatura. La candidatura di Borelli era stata decisa dal Consiglio Nazionale Croato di
Zara, guidato dal dott. Machiedo, dal dott. Fülaus e dal prof. Jezina,
senza però il consenso di Belgrado. Il governo iugoslavo e, in particolare, il vicepresidente del governo provinciale della Dalmazia, il dalmata serbo Desnica/Desniza, fecero pressioni sui nazionalisti iugoslavi
di Zara invitandoli alla moderazione e a non fare una politica particolaristica e campanilistica che danneggiasse i rapporti fra Italia e
Iugoslavia378. Timoroso che un candidato croato a Zara potesse essere fonte d’incidenti nella difficile situazione politica dalmata, Borelli
decise di ritirarsi dalla gara per l’elezione a Montecitorio379. Dopo il
povera Zara, verso questa nostra infelice Dalmazia, che per colpa di pochi uomini gretti, idioti e prezzolati, deve trascinarsi ancora nel pianto e nel dolore. Lei solo può salvarci, Lei solo può raccogliere intorno a Sé tutte le nostre forze valorizzando l’energia che altri – per loschi fini – cerca di strozzare. Ci salvi, per carità, nell’ora decisiva del nostro doloroso martirio; Zara Le innalzerà un inno di benedizione e di gloria».
375 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti a Salata, 25 aprile 1921.
376 «L’Idea Nazionale», 21 aprile 1921, I candidati fascisti. Alessandro Dudan.
377 «L’Idea Nazionale», 1° maggio 1921, La situazione elettorale a Zara.
378 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti a Salata, 4 maggio 1921; ibidem, Bonfanti all’Ufficio per
le Nuove Provincie e al Ministero dell’Interno, 9 maggio 1921.
379 ASMAE, Carte Salata, b. 201, Borelli a Bonfanti, 3 maggio 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
309
ritiro di Borelli, quella di Krekich rimase l’unica candidatura nel collegio di Zara e Lagosta. Il commissario civile Bonfanti informò il governo di Roma che nazionalisti, fascisti e repubblicani facevano propaganda a favore dell’astensionismo per diminuire i voti per Krekich
al fine di dimostrare come lui non rappresentasse la maggioranza degli zaratini380. Irritò poi i nazionalisti e i fascisti il fatto che il capo del
Partito Popolare Italiano, Sturzo, avesse inviato a Krekich l’adesione
sua e del suo partito alla candidatura del politico liberale di forti sentimenti cattolici, augurandogli un netto successo381. Alle elezioni della metà di maggio, nonostante l’astensionismo predicato dai nazionalisti e dai fascisti, Krekich vinse le elezioni conquistando un buon successo personale: ottenendo 1.594 voti egli raccolse il consenso del 99%
dei votanti e del 60% degli iscritti al voto nella sola città di Zara382.
Eletto deputato, Krekich aderì al gruppo parlamentare «liberale democratico»383. Continuò a svolgere una politica di collaborazione con
il governo, in particolare partecipando ai lavori delle commissioni italo-iugoslave per l’applicazione del trattato di Rapallo e sostenendo i
progetti del capo dell’Ufficio per le Nuove Provincie, Salata, miranti
a garantire agli ex territori austriaci una certa autonomia, in continuità
con le tradizioni amministrative esistenti da secoli in quelle regioni384.
Nonostante le sue posizioni filogovernative, Krekich criticò la volontà di Sforza di procedere ad un rapido sgombero della seconda zona della Dalmazia occupata, senza avere prima ottenuto precisi impegni da Belgrado riguardo alla vita economica di Zara e circa i diritti
politici e culturali degli italiani nella Dalmazia iugoslava385. Ma la sua
380 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti a Salata, 6 e 12 maggio 1921. Il 3 maggio 1921 il «Popolo
di Trieste» attaccò duramente la propaganda del governo a favore di Krekich: «Popolo di
Trieste», 3 maggio 1921, Quel che succede a Zara.
381 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti a Salata, 11 maggio 1921.
382 ACS, UNP, b. 71, Bonfanti a Salata, 16 maggio 1921; «La Nazione» (Trieste), 17 e
18 maggio 1921.
383 «L’Idea Nazionale», 20 maggio 1921.
384 ASMAE, Carte Salata, b. 276, NATALE KREKICH, Promemoria, 4 luglio 1921. Sul problema dell’autonomia amministrativa nelle nuove province: RICCARDI, Francesco Salata, cit.,
p. 291 e ss.; ESTER CAPUZZO, Dall’Austria all’Italia. Aspetti istituzionali e problemi normativi nella storia di una frontiera, Roma, 1996, p. 97 e ss.; ARDUINO AGNELLI, Gli autonomisti giuliani e l’avvento del fascismo, in AUTORI VARI, Il fascismo e le autonomie locali, Bologna,
1973, p. 171 e ss.
385 «L’Idea Nazionale», 15 giugno 1921, Un’interrogazione dell’on. Krekich. Più in generale si veda l’intervista di Krekich alla «Nazione» di Trieste: «La Nazione», 24 dicembre
1921, La sorte di Zara e lo sgombero della III zona dalmata.
310
LUCIANO MONZALI
vicinanza al governo e la sua partecipazione alla commissione incaricata di organizzare la consegna della seconda zona agli iugoslavi gli
procurarono duri attacchi da parte dei nazionalisti. L’11 giugno «L’Idea
Nazionale», ostile all’applicazione del trattato di Rapallo, attaccò personalmente Krekich, accusandolo d’ambiguità e falsità, per essere
membro della commissione incaricata di organizzare il ritiro italiano
dalla seconda zona e, allo stesso tempo, di non essere andato in prima persona a Sebenico ad assistere alla consegna della città agli iugoslavi.
È sintomatica l’assenza del delegato Krekich, neo-eletto deputato di Zara,
che vuol rifarsi la verginità politica prima di andare a Montecitorio evitando
di assistere all’atto infame di vendita di questi territori. Egli rappresentante
di Zara assediata, ha la preoccupazione di accontentare il Governo, e, soddisfatto del fallace successo della zona doganale […] attorno a Zara, dimentica che il suo campo d’azione è anzi tutto la Dalmazia irredenta386.
3.7. I colloqui italo-iugoslavi di Roma e Belgrado (aprile-giugno
1921)
Nonostante la consegna della prima zona in aprile e il consenso a proseguire i negoziati per l’applicazione delle varie clausole di Rapallo,
i rapporti fra Italia e Iugoslavia rimasero difficili. La lentezza italiana nell’evacuazione di tutto il territorio dalmata suscitò diffidenze a
Belgrado. Il 16 aprile Manzoni riferì a Roma di un suo teso colloquio
con Popovic!, vice ministro degli Esteri, durante il quale questo si lamentò dell’atteggiamento dell’Italia: «Qui si è pressati – commentava Manzoni – da elementi nazionalisti e parlamentari e da rifugiati dalmati croati sloveni per una immediata e completa consegna territori
assegnati alla Jugoslavia; e la situazione interna e quella parlamentare sono tali che non si può trascurare tali pressioni e che gioverebbe
molto avere modo mostrare che il Governo ha dal Governo italiano
soddisfatti suoi desideri»387.
Lo sgombero di tutta la Dalmazia occupata avrebbe facilitato eventuali concessioni iugoslave alle richieste italiane. A parere di Popovic!,
386 «L’Idea Nazionale», 11 giugno 1921, Sebenico sarà consegnata ai Balcanici il giorno 23 giugno.
387 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17 Manzoni a Sforza, 16 aprile 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
311
nessuno più di Pas#ic! desiderava una piena e completa applicazione del
trattato di Rapallo e una politica di pacificazione italo-iugoslava, ma
l’Italia doveva dargli il modo «di giustificare coi politicanti e coi parlamentari sua condotta»388.
Per il governo di Roma, però, era importante la contemporaneità
fra il ritiro dalla Dalmazia e l’applicazione delle clausole di Rapallo
attraverso specifiche convenzioni a tutela degli interessi dell’Italia in
generale e pure di Zara e della minoranza italiana. Sullo sfondo vi era
poi la questione di Fiume, il cui assetto politico era per Sforza e Giolitti
un problema cruciale. Per facilitare una soluzione delle controversie
relative a Fiume e ai rapporti economici fra i due paesi, nel mese di
aprile il governo di Roma inviò a Belgrado una missione commerciale guidata da Ferdinando Quartieri e da Ludovico Luciolli, che iniziò
a trattare segretamente anche la questione fiumana. Sforza era pronto a soluzioni di compromesso, ma ricordò a Manzoni che l’opinione
pubblica non avrebbe tollerato un insuccesso nella questione di Fiume
e lo sgombero incondizionato dalla Dalmazia senza avere almeno ottenuto alcune garanzie a tutela degli interessi italiani nella regione389.
Manzoni, da parte sua, indicò con chiarezza la posizione iugoslava.
Nell’interesse supremo dei negoziati in corso e per potere mantenere fiducia cordialità ristabilitasi in questi giorni devo nuovamente insistere perché Regio Governo tenga massimo conto della dichiarazione ripetutamente
fattami e fatta pure Quartieri da Popovich, che un ritardo nella evacuazione
della seconda terza zona Dalmazia […] produrrebbe inconveniente gravissimo perché qui hanno potuto calmare opinione pubblica eccitatissima soltanto garantendo che questa evacuazione sarebbe avvenuta alle date fissate.
Questo Governo verrebbe trovarsi in tale imbarazzo da rendere difficilissime
trattative ulteriori390.
Sforza fece pressioni a Belgrado perché i negoziati per l’applicazione di Rapallo fossero continuati al più presto. Si colse l’occasione
della Conferenza fra gli Stati successori dell’Impero asburgico tenutasi a Roma nell’aprile 1921 per riprendere i contatti italo-iugoslavi
sull’applicazione del trattato di Rapallo. Il governo iugoslavo accettò
di affrontare a Roma trattative riguardo la tutela della minoranza ita-
388
Ibidem.
389 ASMAE,
390 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 9, Sforza a Manzoni, 18 aprile 1921.
GAB 1923-43, AF, b. 9, Manzoni a Sforza, 22 aprile 1921.
312
LUCIANO MONZALI
liana in Dalmazia e lo status di Zara, iniziate informalmente il 21 aprile e durate circa due settimane391. La delegazione serbo-croata-slovena era guidata dal politico sloveno Rybar/Ribarz# e dal ministro a Roma
Antonijevic!.
Per preparare i negoziati, la delegazione italiana, presieduta da
Francesco Salata392, consultò i capi dei dalmati italiani393. Il 22 aprile
1921 il commissario civile di Zara, Bonfanti, trasmise a Salata i desiderata ritenuti fondamentali da Ziliotto, malato, e Krekich, impegnato nella campagna elettorale, per il futuro degli italiani di Dalmazia.
Punti ritenuti più importanti e indifferibili sono:
1°) Accordi tutela nuclei italiani sulla base appunti concretati Roma con
delegato Spalato Sebenico.
2°) Sistemazione rapporti possidenti Zara aventi beni rurali nei limitrofi
tre distretti giudiziari.
3°) Riconoscimento diritti pesca a favore cittadini italiani acque distretto Zara.
4°) Accordi relativi facilitazioni necessarie per introduzione Zara dal territorio jugoslavo bestiame prodotti agricoli e marasca.
5°) Accordi sulla sostanza mobiliare e immobiliare provincia e Comune
Zara e rispettiva devoluzione medesima al territorio dalmatico annesso394.
I rappresentanti degli italiani nella Dalmazia iugoslava presentarono al governo una serie di richieste incentrate sulla tutela dei diritti economici e culturali dei futuri optanti per l’Italia e di coloro che,
invece, avrebbero mantenuto la cittadinanza del Regno SHS395.
391 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 9, Salata a Bonfanti, 22 aprile 1921.
Sul ruolo di Salata in quei mesi: RICCARDI, Salata, cit., p. 289 e ss.
393 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Bonfanti a Salata, 24 aprile 1921; ibidem, Salata
a Bonfanti, 26 aprile 1921.
394 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Bonfanti a Salata, 22 aprile 1921.
395 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 7, Riassunto del Memoriale dei Dalmati (avv. Tacconi
e Pezzoli) a S.E. il Ministro, s.d., ma verosimilmente aprile 1921:
«1) Che sia stabilito il rapporto fra l’art. VII n. 2 del Trattato di Rapallo e il trattato sulla garanzia delle minoranze nello Stato S.H.S., nel senso che le agevolezze nazionali e linguistiche contemplate da tale trattato competono anche agli optanti per l’Italia.
2) Regolazione del procedimento relativo alla opzione e determinazione delle persone
cui spetta il diritto di opzione.
3) Garanzie per la conservazione del possesso di beni immobili per gli optanti, di fronte alle leggi agrarie, all’atteggiamento dei coltivatori dei terreni e al contegno dell’autorità
dello Stato S.H.S.
4) Condizione degli optanti che intendessero abbandonare il paese nei riguardi dell’asporto della sostanza mobile e del percepimento delle rendite della sostanza immobile.
392
IL TRATTATO DI RAPALLO
313
Dopo alcuni informali scambi di punti di vista, il 25 aprile le delegazioni italiana e iugoslava s’incontrarono per discutere la possibile conclusione di uno scambio di note relativo all’applicazione dell’articolo 7 del trattato di Rapallo a favore dei cittadini italiani in Dalmazia. Rybar e Antonijevic! dichiararono di essere pronti ad applicare la convenzione sulle minoranze ai cittadini italiani, mentre cercarono di contestare i tentativi di Salata di rendere l’articolo VII di
Rapallo valido anche per gli italiani di Veglia, isola appartenente amministrativamente all’Istria fino al 1918.
I delegati jugoslavi dichiarano di non essere autorizzati ad applicare le norme dell’art. 7 anche all’isola di Veglia. […] Rilevano però che l’articolo 7 ha
sollevato aspre critiche in Jugoslavia e l’applicazione chiesta per Veglia potrebbe ribadire l’opinione che l’art. 7 sancisca per gli italiani dei veri e propri privilegi. S.E. Salata fa tuttavia osservare che, ove a Rapallo si fosse esplicitamente richiesto di estendere anche agli italiani di Veglia il trattamento deciso per tutti gli altri italiani della Dalmazia, nulla vi si poteva opporre; trattasi in sostanza di una casuale omissione ad ovviare alla quale basterebbe tener conto che il nucleo italiano di Veglia è di gran lunga maggiore di numero di altri sparsi per la Dalmazia396.
In generale i delegati iugoslavi mostrarono buona volontà e disponibilità verso le richieste di Salata, miranti a tutelare adeguatamente
i diritti linguistici e culturali dei dalmati italiani, pur dichiarandosi
5) Esercizio di professioni arti ed industrie da parte degli optanti.
6) Uso della lingua italiana negli uffici e nella pubblica vita.
7) Riconoscimento della legale esistenza di istituzioni italiane disciolte o soppresse
dall’Austria dopo lo scoppio della guerra.
8) Scuole italiane in Dalmazia, possibilmente nella forma di scuole di Stato italiane. La
relativa pratica dovrebbe essere pertrattata dalla commissione che si occuperà delle garanzie
a favore delle minoranze italiane, e non già dalla Commissione culturale, che parte da criteri di reciprocità che qui non cadono in considerazione.
9) Garanzie per la libertà del culto cattolico a rito latino e per le pratiche religiose nella
propria lingua per gli italiani della Dalmazia.
10) Compartecipazione alla protezione italiana in Dalmazia di tutti gli italiani indigeni
per la durata del periodo di opzione e, dopo decorso tale periodo, anche degli italiani cittadini dello Stato S.H.S. in quanto trattisi di far rispettato il trattato sulle garanzie delle minoranze accettato dallo Stato S.H.S. con dichiarazione di Parigi 5 dicembre 1919 di fronte le
grandi potenze, tra cui l’Italia.
11) Non riuscendo di definire tutte le suesposte questioni fino alla imminente decorrenza del termine di opzione (due febbraio 1922) necessità di accordarsi collo Stato S.H.S. per
stabilire un prolungamento di questo termine».
396 ASMAE, Carte Salata, b. 206, Verbali riunione 25 aprile 1921.
314
LUCIANO MONZALI
spesso privi delle necessarie autorizzazioni per prendere impegni vincolanti. Rybar cercò di collegare e far dipendere il trattamento della
minoranza italiana in Dalmazia a quello delle popolazioni croate, slovene e serbe in Venezia Giulia e Dalmazia, scontrandosi con l’opposizione di Salata ad una discussione su tali premesse397. Nella riunione del 26 aprile le due delegazioni affrontarono il problema dell’esecuzione dell’articolo II del trattato di Rapallo, relativo alla conclusione
di una convenzione circa Zara e ai rapporti fra il territorio dalmata annesso all’Italia e il resto della Dalmazia398. Salata avanzò varie rivendicazioni (dalla richiesta di una piccola modifica confinaria, alla libertà di circolazione dei proprietari zaratini e alla loro tutela di fronte alla riforma agraria iugoslava, alla domanda di una ridefinizione dei
confini delle diocesi dalmate in concordanza con i nuovi assetti politici) senza però ottenere niente di definitivo, stante la resistenza iugoslava. La riunione, quindi, si concluse con la decisione di attendere l’arrivo a Roma di un esperto dalmata iugoslavo e «la risposta del
Governo di Belgrado alle proposte telegraficamente già trasmessegli
dopo la seduta di ieri e da trasmettergli dopo quella odierna»399.
Nei giorni successivi, l’attenzione della stampa italiana, in piena
campagna elettorale, a vari incidenti e questioni esistenti nelle relazioni italo-iugoslave (problema degli avvocati italiani a Spalato, la
chiamata alla leva militare iugoslava per gli italiani dalmati in attesa
dell’opzione, difficoltà nei traffici fra Zara e il circondario) aumentò
la tensione politica. La Consulta chiese a Manzoni di fare pressioni
sul governo di Belgrado perché questo desse d’urgenza le istruzioni e
le autorizzazioni ai suoi delegati per poter concludere positivamente
i negoziati sulle questioni dalmatiche. Il ritardo nella soluzione di questi problemi poteva arrecare gravi danni alle relazioni fra i due Paesi400.
Dopo le sollecitazioni italiane, i negoziati sulla Dalmazia ripresero a
Roma il 6 maggio. Rybar condusse la delegazione iugoslava con l’assistenza del politico dalmata croato Metlic#ic!, mentre Salata fu coadiuvato da Krekich. All’inizio della riunione, però, Rybar comunicò
di aver ricevuto da Belgrado l’autorizzazione a trattare solo le questioni
relative al passato stato di cose (la ripartizione dei beni amministrativi e pubblici del Comune di Zara e della Provincia, ecc.), ma di non
397
Ibidem.
398 ASMAE,
Carte Salata, b. 206, Verbali riunione 26 aprile 1921.
Ibidem.
400 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Saluzzo a Manzoni, 2 maggio 1921.
399
IL TRATTATO DI RAPALLO
315
potere affrontare l’applicazione del trattato di Rapallo401. Chiaramente
il governo di Belgrado, prima di fare nuove concessioni all’Italia, voleva il completo sgombero della Dalmazia occupata. La decisione del
governo iugoslavo sembrò bloccare ogni negoziato e provocò l’irritazione di Contarini, segretario generale della Consulta, che seguiva in
prima persona le relazioni italo-iugoslave. Lo stesso 6 maggio Contarini inviò un telegramma a Manzoni dandogli l’istruzione di convincere Belgrado a trattare urgentemente le questioni politiche ed economiche concernenti Zara e gli italiani della Dalmazia:
[…] Dobbiamo rinnovare nostra insistenza per immediata risoluzione questioni che hanno ripercussione politica e dalle quali soltanto può dipendere
miglioramento atmosfera politica per ripresa sgombero. V.S. vorrà perciò ottenere che siano date a questi Delegati jugoslavi sollecite precise istruzioni
raccomandando in modo particolare accettazione nostre proposte circa tutela minoranze, circa correzione linea confine Zara, circa zona franca doganale Commissione studi per congiunzione ferroviaria nonché per mantenimento statu quo riguardo rapporti economici cabotaggio pesca sino a conclusione trattato commercio navigazione. Ogni ritardo viene ormai in questi ambienti politici interpretato come segno di malvolere che solo un positivo accordo può eliminare con vantaggio comune402.
Manzoni condusse lunghe conversazioni con i vertici del Ministero
degli Esteri iugoslavo, insistendo sulla necessità di risolvere rapidamente ed in modo congiunto le questioni relative a Fiume – che venivano trattate da Quartieri e dalla Commissione di delimitazione confinaria fiumana – e alla Dalmazia. La risposta iugoslava fu interlocutoria. Riguardo a Fiume, il governo di Belgrado riteneva opportuno ritardare una soluzione a dopo le elezioni italiane. Circa le richieste italiane su Zara e sulla Dalmazia (garanzie per le minoranze, rettifica del
confine zaratino, creazione di una zona franca intorno a Zara, studio
di un collegamento ferroviario Zara-Knin), esse sarebbero state esaminate dal Consiglio dei ministri iugoslavo. L’impressione di Manzoni
fu che a Belgrado si volesse «trascinare le cose»403. Intanto a Roma
proseguirono le trattative fra Salata e Rybar, con il raggiungimento di
401 ASMAE,
Carte Salata, b. 206, Verbali riunione 6 maggio 1921.
ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Contarini a Manzoni, 6 maggio 1921. La minuta
di questo telegramma di Contarini in ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306.
403 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Manzoni a Ministero degli Esteri, 7 maggio 1921,
tel. n. 250 e 251.
402
316
LUCIANO MONZALI
un provvisorio accordo sulle questioni amministrative concernenti
Zara (riparto del debito pubblico della Giunta provinciale dalmata,
suddivisione dei beni immobili, ecc.) il 7 maggio404. Il giorno successivo Salata e Rybar trovarono un’intesa sulle norme che avrebbero regolato l’esercizio del diritto di opzione degli italiani in Dalmazia
e degli iugoslavi in Venezia Giulia405. Dalla delegazione iugoslava venne sostanzialmente accettata la proposta di Salata, secondo il quale,
in Dalmazia «chi voglia esercitare il diritto d’opzione presenterà la
dichiarazione all’Ufficio Consolare italiano competente per territorio,
il quale, raccolte le necessarie informazioni, farà le opportune proposte al Ministero degli Affari Esteri; la dichiarazione di accettazione emessa dal Ministero dell’Interno, di concerto con quello degli
Esteri, equivarrà al definitivo conferimento della cittadinanza italiana e sarà comunicata in via diplomatica al Governo S.H.S., che dovrà prenderne atto e darvi esecuzione per quanto gli spetti»406. Non
fu possibile invece proseguire le trattative sulle questioni politiche ed
economiche relative a Zara e alla Dalmazia. Nonostante le insistenze
di Manzoni, il governo di Belgrado si rifiutò d’inviare istruzioni ad
Antonijevic! a tale riguardo, invocando vari pretesti per procrastinare
tale atto407. L’11 maggio Manzoni parlò con un membro del governo
iugoslavo408 (il ministro degli Interni Dras#kovic!)409 definito simpatizzante per l’Italia.
Mi ha detto – Manzoni riferì a Roma – loro grandi difficoltà vengono dai
croati. Croati sono estremamente diffidenti ostili Italia. Dicono Italia sleale
insincera […] ed accusano Belgrado di debolezza. […] Le difficoltà che questa grande minoranza crea al Governo jugoslavo, egli mi disse, sono immensamente maggiori di quelle che piccola minoranza nazionalista crea
Governo italiano. Egli ha concluso dichiarando che il Governo di Belgrado
potrà sormontare difficoltà croate soltanto provando ai croati coi fatti compiuti che sono nell’errore. Mi ha lasciato capire che qui si è nell’impossibilità di cedere410.
404 ASMAE, Carte Salata, b. 206, Verbali riunione 7 maggio 1921; ibidem, Contarini a
Manzoni, 7 maggio 1921.
405 ASMAE, AP 1919-1930 Jugoslavia, b. 1306, Sforza a Manzoni, 8 maggio 1921;
ASMAE, Carte Salata, b. 206, Verbali riunione 8 maggio 1921.
406 Verbali riunione 8 maggio 1921, cit.
407 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Manzoni a Ministero degli Esteri, 10 maggio 1921.
408 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Manzoni a Ministero degli Esteri, 11 maggio 1921.
409 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Manzoni a Ministero degli Esteri, 22 maggio 1921.
410 Manzoni a Ministero degli Esteri, 11 maggio 1921, cit.
IL TRATTATO DI RAPALLO
317
In quei giorni, in una lettera personale a Contarini, Manzoni si mostrò molto critico verso l’azione della Consulta, a suo avviso, troppo
timorosa e debole. Per il ministro plenipotenziario a Belgrado il governo italiano non aveva applicato in maniera del tutto corretta il trattato di Rapallo.
Avrete avuto le migliori ragioni di agire come avete fatto: ma, oggi, il
Trattato di Rapallo va verso la via non dei buoni ma dei cattivi rapporti. Chi
vuole il fine deve volere i mezzi: se per far trionfare lo spirito del Trattato
era necessario rischiare le modalità di esecuzione, affidandosi alle parole di
questi qui che volevano prima l’evacuazione completa, assicurando che dopo avrebbero regolato tutto, bisognava farlo; aver pazienza se pochi italiani
(forse non i più da prender in considerazione) soffrivano. Era la via da seguire: quella che avrebbe salvata l’italianità passata e futura nella Dalmazia;
quella che avrebbe completata la parola del Trattato, ed era da seguirsi salvando il salvabile ed aiutando i nostri il più possibile, per mostrar loro che
non erano abbandonati411.
I negoziati italo-iugoslavi si sbloccarono solo dopo lo svolgimento delle elezioni parlamentari italiane. Per rafforzare la fiducia della
controparte iugoslava, le trattative su Fiume e sulla Dalmazia vennero spostate a Belgrado. Grazie all’intervento di Momchilo Nincich/
Nincic!, uomo di fiducia di Pas#ic!, il governo di Belgrado accettò la ripresa delle conversazioni, incentrate sull’idea di uno scambio fra la
soluzione della questione del porto e dei confini di Fiume e la promessa italiana di ritirarsi dalla seconda zona dalmata412. La delegazione
italiana fu guidata da Manzoni e Quartieri, quella iugoslava da Tihomir
Popovic!. Il negoziato a Belgrado ebbe un esito positivo. Alla fine di
maggio venne raggiunto un accordo secondo il quale, una volta costituitosi un esecutivo legale fiumano, sarebbero iniziate conversazioni
fra i governi di Belgrado, Roma e Fiume per la conclusione di un’intesa sullo sfruttamento e uso dei porti di Fiume, Susak/Sus#ak e delle
loro dipendenze, il cui contenuto, però, era già stato concordato fra
italiani e iugoslavi. Si prevedeva la costituzione di un consorzio italo-iugoslavo-fiumano per lo sfruttamento comune delle strutture portuali e ferroviarie di Fiume e Porto Baros. Ma l’entrata in vigore dell’accordo sul consorzio era condizionata dalla richiesta che l’Italia
411 ASMAE,
412
GAB 1923-43, AF, b. 9, Manzoni a Contarini, 9 maggio 1921.
Manzoni a Ministero degli Esteri, 22 maggio 1921, cit.
318
LUCIANO MONZALI
adempisse pienamente al trattato di Rapallo: «era […] stabilito che se
a un mese dalla firma dell’accordo non si fosse costituito il governo
legale a Fiume, e non si fosse provveduto alla consegna dei territori
di spettanza allo Stato di Fiume ed alla Jugoslavia (ciò che voleva dire l’evacuazione della seconda e della terza zona dalmata, e dell’intero settore di Fiume), esso non avrebbe più avuto alcun valore»413.
Avvicinandosi la conclusione delle trattative, Sforza cercò di convincere gli iugoslavi a concedere qualcosa riguardo alla tutela degli
italiani di Dalmazia. Il 28 maggio il ministro scrisse a Manzoni chiedendo che fossero risolte alcune questioni relative ai dalmati italiani:
il riconoscimento del valore del trattato per le minoranze anche per
gli italiani di Dalmazia, la validità dell’articolo VII per gli italiani di
Veglia, la tutela della libertà scolastica per le collettività italiane e la
possibilità di svolgere certe professioni per alcuni esponenti della minoranza414. Sforza, poi, chiese concessioni economiche per Zara.
Riguardo esecuzione art. 2 Trattato di Rapallo concernente Zara devesi
insistere su ritocchi frontiere secondo schizzi topografici che Rybar dichiarò
di aver trasmesso a Belgrado. Trattasi di lievi correzioni per Zara essenziali
ma senza neppur un solo abitante. Anche più devesi insistere su zona franca
attorno Zara parallela a quella già decretata da noi per nostro territorio zaratino. […] Importanza essenziale come impressione politica avrebbe per noi
richiesta adesione studi e progetti per congiunzione ferroviaria Zara-Knin con
nomina immediata commissione studi interstatale415.
Quartieri e Manzoni presentarono le richieste di Sforza ai negoziatori di Belgrado ma si scontrarono con la resistenza del governo iugoslavo, ostile ad ogni proposta di nuova modifica territoriale in
Dalmazia. Gli iugoslavi accettarono l’idea d’istituire una zona franca
per circa 15 chilometri limitatamente a merci, vettovaglie e a condizione di reciprocità anche per altri tratti di frontiera. Circa i problemi
del cabotaggio, della pesca e del congiungimento ferroviario si preferiva rinviare ogni decisione alla Conferenza economica italo-iugoslava416. Il 1° giugno Quartieri e Manzoni scrissero a Sforza che il lavoro di redazione del processo verbale che avrebbe contenuto gli ac413
MASSAGRANDE, op. cit., pp. 38-39.
414 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Sforza
a Manzoni, 28 maggio 1921.
Ibidem.
416 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Quartieri e Manzoni a Sforza, 29 e 31 maggio 1921,
tel. nn. 293, 304, 305.
415
IL TRATTATO DI RAPALLO
319
cordi presi su Fiume era in corso. Il governo iugoslavo, però, contava
di ricevere prima della firma «almeno annunzio inizio evacuazione seconda zona Dalmazia»417. Il 2 il processo verbale contenente l’accordo sul consorzio di Fiume fu sottoscritto da Manzoni e Quartieri, il
quale si recò a Roma per sottoporlo alla firma di Sforza e Giolitti. In
una lettera a Sforza, Manzoni spiegò che l’accordo sarebbe diventato
valido «il giorno in cui sarà cominciata l’evacuazione della seconda
zona dalmata». Il governo di Belgrado si era rifiutato di firmare nuovi accordi sulla Dalmazia prima dell’evacuazione italiana, ma aveva
fatto alcune promesse verbali.
Nelle conversazioni avute non ci fu parlato della Venezia Giulia; e noi trovammo opportuno lasciar da parte quel settore. Spero approverai. Fu parlato
invece della Dalmazia e di Zara prendendo accordi verbali per la soluzione
di alcune questioni (per es.: la zona franca, gli avvocati di Spalato, la possibile tolleranza dello stato di fatto circa la pesca e la navigazione a Zara in attesa decisioni d’ordine generale) che iniziandosi l’evacuazione della seconda zona, e completandosi poi con il rimanente territorio, io mi affido di poter far praticamente eseguire sempre che abbia la tua guida e quella di S.E.
il Presidente. Il Popovich, che anche in questa faccenda si è mostrato l’uomo
di fiducia del Pasich, non ha voluto, sempre per le esigenze della situazione
coi Croati, assumere impegni scritti ma ha dato a me alla presenza di Quartieri
ampi affidamenti verbali specificando cosa gli era indispensabile per dare ad
essi valore pratico. Quartieri te lo dirà. Tu e S.E. il Presidente deciderete418.
Ricevute le comunicazioni da Belgrado, dopo probabili consultazioni con Quartieri e Giolitti, Sforza avvisò Salata di dare l’ordine per
lo sgombero immediato per la seconda zona dalmata419. La sera del 3
giugno Sforza scrisse alla Legazione italiana a Belgrado: «È stato tosto telegrafato Zara per sgombero seconda zona Dalmazia»420.
Al fine di facilitare la soluzione circa l’assetto dello Stato libero
di Fiume e di porto Baros, quindi, il governo italiano decise di fare un
gesto amichevole e di distensione verso Belgrado, accelerando l’evacuazione dalla seconda zona della Dalmazia. È quanto spiegò Contarini al console Rocco il 7 giugno: il governo aveva dovuto «per ragioni
417 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 12, Quartieri e Manzoni a Sforza, 1° giugno 1921.
GAB 1923-43, AF, b. 9, Manzoni a Sforza, 2 giugno 1921.
419 Appunto su tel. Quartieri e Manzoni a Sforza, 1° giugno 1921, cit.
420 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Sforza a Legazione italiana a Belgrado, 3 giugno
1921.
418 ASMAE,
320
LUCIANO MONZALI
patriottiche» subordinare i problemi dalmatici alla «soluzione problema Fiume che altrimenti sarebbe stata irreparabilmente perduta»421.
L’accordo sul consorzio portuale di Fiume fu poi firmato formalmente, dopo l’evacuazione della seconda zona dalmata, il 15 giugno. Per
Sforza la creazione di un’intima e stretta collaborazione politica fra
Italia e Iugoslavia era un elemento fondamentale per l’affermazione
dell’influenza italiana nei Balcani. Da qui l’urgenza di dare una rapida applicazione al trattato di Rapallo per rafforzare la fiducia degli ambienti politici iugoslavi nell’amicizia dell’Italia. Nell’ottica di Sforza,
il problema della tutela dei diritti degli italiani rimasti nella Dalmazia
iugoslava era un elemento secondario dell’azione internazionale
dell’Italia. Il ministro degli Esteri, in fondo, era convinto che la creazione di rapporti amichevoli fra Roma e Belgrado avrebbe portato ad
un miglioramento delle condizioni di vita delle minoranze, senza il bisogno di nuovi accordi specifici al riguardo. Egli, poi, credeva che l’appartenenza di Zara all’Italia, in ogni caso, garantisse la sopravvivenza dell’italianità dalmatica.
3.8. L’evacuazione della seconda zona dalmata e l’esodo italiano da
Sebenico
Per eseguire le direttive del governo, il 5 giugno la delegazione italiana per la delimitazione dei confini della Dalmazia, composta dal generale Barbarich, da Bonfanti e da Krekich, si riunì a Zara422. Essa concordò con la delegazione iugoslava un incontro bilaterale a Sebenico
il 7, al quale Krekich si sottrasse, per probabile dissenso con la decisione dello sgombero, recandosi a Roma. Nell’incontro a Sebenico con
la delegazione iugoslava – guidata dal generale Milojevic! e accompagnata da un gruppo di funzionari alla cui testa vi era Desnica, presidente del governo provinciale dalmata – Bonfanti e Barbarich presentarono il piano di sgombero della zona di Sebenico, quale preparato dal comando militare italiano: in esso si prospettava di iniziare le
operazioni di sgombero il 13 giugno e di condurle a termine non prima del 25. Di fronte alle pressioni iugoslave miranti ad accelerare i
421 ASMAE,
Sebenico, arc. ord., b. 5, Contarini a Rocco, 7 giugno 1921.
422 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, DELEGAZIONE ITALIANA PER LA DELIMITAZIONE DEI
CONFINI DELLA DALMAZIA, Relazione riservata sulle effettive operazioni di sgombro della seconda zona della Dalmazia (Sebenico), 13 giugno 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
321
tempi del ritiro, le due delegazioni concordarono di anticipare la data dello sgombero completo della seconda zona al 23 giugno. Il giorno 8 proseguirono i colloqui; ma nelle prime ore del 9 giugno giunse
alla delegazione italiana un telegramma di Sforza che comunicava la
volontà del capo del governo di sgomberare la seconda zona «per l’11
corr. ed al massimo per il 12»423. La delegazione italiana propose una
modifica dell’intesa concordata con gli iugoslavi. L’accordo definitivo per il ritiro dalla seconda zona della Dalmazia occupata venne stipulato la mattina del 9 giugno424. Subito dopo le due delegazioni passarono alle disposizioni esecutive del ritiro. Si stabilì di organizzare
lo sgombero di Sebenico entro il 12 giugno. Il 9 giugno, alle ore 15 e
15, Sforza telegrafò anche alle autorità militari e consolari italiane presenti in Dalmazia l’ordine di anticipare la consegna dei restanti territori della seconda zona all’11 giugno, facendo partire i profughi e gli
impiegati italiani successivamente425. Rocco si dimostrò sorpreso e
sconcertato dall’ordine ricevuto.
Per parte mia – rispose il console a Sforza – mi adopro del mio meglio
per riuscita programma che produrrà inevitabilmente panico spaventoso fra
profughi e funzionari che si daranno pazza fuga abbandonando masserizie
come davanti invasione nemica. Cronaca della fuga sarà raccapricciante: naturalmente non posso più garantire esclusione incidenti […] mentre profughi già gridano essere stati traditi terza volta. Io resterò al mio posto cercando di riparare alla meno peggio malgrado l’assoluta perdita di prestigio
per l’Italia che produce fuga precipitosa. Evacuazione profughi non potrà avvenire che parzialmente e gettandoli brutalmente sui piroscafi. Tutti i capi
servizio obbediamo ordine catastrofico stretti da angoscia sulle conseguen-
423
Ibidem. Al riguardo anche MASSAGRANDE, op. cit., p. 39.
L’accordo consisteva di tre semplici e brevi articoli:
«Articolo 1°. Per maggiore celerità delle operazioni la cessione dei Presidi avrà luogo
senza scambio di consegne. I gendarmi S.H.S. occuperanno una data località solo dopo che
si saranno assicurati che essa è sgombrata dai CC.RR. italiani. Per Sebenico si stabiliranno
apposite modalità.
Articolo 2°. Il giorno 10, CC.RR. italiani dovranno avere sgombrato le seguenti località
per l’ora per ciascuno in seguito indicata:
Capocesto ore 12
Perkovic ore 17.30
Vrpolje ore 18.
Articolo 3°. Si confermano gli articoli 7 e 10 della convenzione di Traù in data 20 marzo 1921» (ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 5, Accordo stipulato in Sebenico la mattina del 9
giugno 1921).
425 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 5, Sforza a Rocco, 9 giugno 1921.
424
322
LUCIANO MONZALI
ze della fuga e sul modo odioso con cui si devono abbandonare questi disgraziati fratelli426.
Al successivo invito del ministro degli Esteri di impegnarsi al massimo per impedire lo scoppio di incidenti, Rocco rispose affermando
che gli incidenti potevano essere evitati solo se le autorità iugoslave
avessero usato la massima energia nel mantenimento dell’ordine. A tal
fine il console aveva deciso di evacuare prima possibile i profughi italiani più compromessi politicamente.
In quanto a presunta possibilità convivenza italiani e slavi essa potrà anche essere pretesa per fini politici se ciò occorre ma non durerà che qualche
giorno e sarà del tutto fittizia. Fra gli elementi di attenuazione va contata la
commiserazione che desta perfino nei croati più fanatici la fuga disastrosa
cui essi assistono427.
La decisione di anticipare la data dello sgombero creò panico e disorientamento nella popolazione italiana di Sebenico, ancora impreparata all’esodo perché «cullatasi fino all’ultimo in vane speranze e
non attendendosi un esodo così affrettato, non aveva provveduto all’imballo completo dei mobili»428. Manlio Cace, appartenente ad una
famiglia italiana di Sebenico e partecipante all’esodo degli italiani dalla città, così ha ricordato posteriormente quei momenti:
[…] Improvvisamente la mattina del 9 viene reso noto alla popolazione
in tutta urgenza, a mezzo di squadre di Carabinieri, che avevano il compito
di girare la città, che l’evacuazione avrebbe avuto luogo entro due giorni, anziché il 23 come era stato preannunciato. In seguito a questa notizia la città
si fa allarmatissima, anche perché, le truppe stesse venivano obbligate così
ad uno sgombero umiliante e precipitoso. In 24 ore si dovettero imbarcare
enormi quantità di materiale e contemporaneamente dovevano evacuare tutti quelli italiani ancora disposti all’esodo. La città era come fosse stata colpita da un improvviso cataclisma. Squadre di marinai della R. N. Napoli, girando per la città con numerosi autocarri fregiati di tricolori e manovrando
per le strette calli, sostano davanti ai portoni prendono i colli, che [in] molte case, nella fretta vengono passati perfino dalle finestre. Tutte le masseri-
426 ASMAE,
Sebenico, arc. ord., b. 5, Rocco a Sforza, 9 giugno 1921.
Sebenico, arc. ord., b. 5, Rocco a Sforza, 9 giugno 1921.
428 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 5, Il capo ufficio Imbarchi e Sbarchi del R. Esercito,
Blanda, al Comando forze di terra e di mare della Dalmazia, 17 giugno 1921.
427 ASMAE,
IL TRATTATO DI RAPALLO
323
zie portate alla banchina vengono ammucchiate intorno a pali portanti la scritta di destinazione429.
La notte del 9 giugno iniziarono le operazioni d’imbarco che durarono per tre giorni. Vennero fatti confluire a Sebenico 4 piroscafi:
il Liburnia, il Fram e il Trieste caricarono le persone e le masserizie
destinate a Lussino, Fiume, Abbazia, Pola, Zara e Trieste, mentre il
Bengasi imbarcò gli esuli destinati a recarsi ad Ancona.
Il totale delle persone imbarcate – riferì il maggiore Blanda – risultò di
663 persone, quello dei colli di 3014. Le partenze avvennero il giorno 12 nelle ore sotto indicate:
«Trieste» alle ore 8,30 con 298 persone, 1949 colli;
«Liburnia» alle ore 9 con 156 persone, 193 colli;
«Fram» alle ore 12 con 35 persone, 491 colli;
«Bengasi» alle ore 18 con 153 persone, 391 colli430.
Lo sgombero delle truppe e la partenza di gran parte della popolazione italiana di Sebenico avvenne senza incidenti. La delegazione
per la delimitazione dei confini della Dalmazia così descrisse lo sgombero italiano da Sebenico e l’atteggiamento delle autorità iugoslave:
Al tramonto dell’11 venne ammainata, con gli onori militari, la bandiera
presso il Comando delle Forze di Terra e di Mare di Sebenico. Il 12 salpavano, successivamente con 5 piroscafi la popolazione civile, il convoglio dei
trasporti militari, il Comando delle Forze di Terra e di Mare della Dalmazia,
e dopo avere assistito alla consegna della città alle autorità militari S.H.S. anche la Delegazione italiana, a bordo dello Zara, alle ore 19, 45, il porto di
Sebenico per trasferirsi a Zara, là dove giungeva nella notte sul 13. […] Le
operazioni tutte dello sgombro, iniziatesi da prima in un ambiente locale di
rigidezza dovuto ad ordini precedentemente impartiti […] trovarono da ultimo prestazione volenterosa e continua da parte di tutte le autorità locali. […]
Quanto poi alla Delegazione S.H.S. è pure doveroso segnalare l’incondizionato appoggio da essa dato ai nostri lavori; il desiderio di accelerarli nella persuasione di corrispondere a comunanza di interessi, ed identità di buone intese, fondate sulla leale comprensione di esse431.
429 MANLIO CACE, Pagine ignorate della storia di Sebenico, «La Rivista Dalmatica», 1964,
estratto.
430 Ibidem. Un preciso elenco dei nominativi delle persone che lasciarono Sebenico nel
giugno 1921 è conservato in ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 5.
431 DELEGAZIONE ITALIANA PER LA DELIMITAZIONE DEI CONFINI DELLA DALMAZIA, Relazione,
13 giugno 1921, cit.
324
LUCIANO MONZALI
L’affrettata consegna della seconda zona dalmata al governo iugoslavo e la conseguente drammatica partenza della grande maggioranza
degli italiani autoctoni inflissero un colpo durissimo alla comunità italiana di Sebenico, che nel giro di pochi giorni si ridusse da oltre un migliaio di persone a circa duecento, in gran parte anziani e pensionati432.
432
A parere di De Angelis, successore di Rocco al consolato di Sebenico, l’esodo italiano da Sebenico era stato un evento sbagliato ed inopportuno, al quale lo stesso governo di
Roma aveva contribuito con alcune scelte erronee: «Nella regione di Sebenico, e, in genere
nella zona occupata dopo l’armistizio dal R° Esercito, il Trattato di Rapallo ha troncato, più
crudemente che nelle altre regioni della Dalmazia, le aspirazioni e, forse, le illusioni dei dalmati italiani. Due anni di convivenza con l’Italia, dopo decenni di lotte nazionali, avevano
dato a questi la sensazione che le aspirazioni aderivano ormai alla realtà. Il disinganno ha
portato lo scompiglio morale; e la crisi morale ha favorito il propagarsi, per rapidissimo contagio, di un panico a cui quasi nessuno si è sottratto. All’indomani di Rapallo lo stato d’animo favorevole all’esodo in massa dalla Dalmazia si era già prodotto, era completo, nella formula “non potremo essere servi in casa nostra”. Alle delegazioni dalmate che rifecero subito la via di Roma per chiedere l’impegno concreto e specifico delle garanzie che il Trattato
conteneva in germe, il R° Governo non potè, già da quel momento, definire i limiti, il contenuto e la forza di quelle garanzie. I delegati tornarono, allora, più che mai inclini all’esodo, nonostante la fiera ammonizione di qualche illustre uomo politico che avrebbe voluto “legare con le catene gli Italiani alla Dalmazia”. Tale fu, dirò così, il precedente psicologico.
Nonostante l’enorme importanza del fattore psicologico, l’esodo non sarebbe stato tuttavia
così largo, e forse l’emigrazione di parecchi non avrebbe nemmeno assunto la fisionomia di
esodo, se altre cause di ordine materiale non fossero sopraggiunte. Il senso di pietà verso i
fratelli lasciati fuori della famiglia italiana, e il proposito di alleviarne almeno i disagi materiali, indusse il R° Governo a concedere e a promettere ai profughi facilitazioni larghissime,
soprattutto: 1) la gratuità più completa ed assoluta per il trasporto delle persone e delle mobilie, 2) il cambio delle corone austriache. Queste due concessioni hanno, di fatto, operato
come un vero e proprio “premio all’esodo”, e, si può ben dire, furono esse a vuotare le regioni dalmate dell’elemento italiano. Da Sebenico, su circa quattrocento famiglie, forse 380
hanno emigrato; dalle Curzolane l’esodo ha toccato il 60% della popolazione italiana. È inutile ora recriminare. È inutile dire che la crisi morale che portò all’esodo avrebbe dovuta essere contenuta invece che secondata; inutile considerare che i molti milioni spesi nelle anzidette facilitazioni ai profughi avrebbero potuto essere impiegati a rafforzare la possibilità di
vita degli italiani in questa zona della Dalmazia, ed a servire, quindi, unitamente col vero interesse dei singoli, un superiore interesse nazionale. Oggi i più dei profughi fanno nel Regno
“i profughi”, sono cioè spostati; moltissimi vivono col sussidio delle pubbliche amministrazioni. Mentre le posizioni economiche abbandonate qui non avrebbero mai potuto esser distrutte d’un colpo, per l’intervento della sovranità S.C.S, come a torto si temé, soprattutto a
Sebenico, dove la collettività italiana rappresentava l’élite cittadina, da cui nessun governo
avrebbe potuto prescindere, e decine di famiglie emigrate avevano anche con la popolazione
croata saldi vincoli di tradizione e di riconoscenza. L’esodo in massa stupì anche questi dirigenti croati, i quali finirono col sospettare che fosse il Governo d’Italia a provocarlo intenzionalmente, allo scopo d’impressionare il mondo, con la dimostrazione di una fuga collettiva che avrebbe dovuto avere del tragico! L’esodo, dunque non fu un fatto necessario: fu un
errore e un fenomeno artifizioso» (ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 2, DE ANGELIS, Per una
ricostruzione dell’italianità nel Distretto di Sebenico, 5 ottobre 1921, allegato De Angelis al
Ministero degli Affari Esteri, 8 ottobre 1921).
IL TRATTATO DI RAPALLO
325
Nelle settimane successive all’esodo da Sebenico continuarono le
partenze di molti italiani dalla Dalmazia settentrionale e dalla regione di Spalato. A parere del console a Spalato, Amadori, le partenze
d’italiani dal distretto spalatino non erano dovute alla situazione politica, ma alla disoccupazione esistente nella regione e al desiderio di
miglioramento economico: queste ragioni spingevano a partire anche
elementi slavi, mescolati agli italiani e «difficilmente individualizzabili da questo Consolato». Questi profughi «economici» si dirigevano soprattutto a Trieste e in Venezia Giulia, andando ad aggravare i
problemi dell’accoglienza per i profughi politici, molti dei quali senza alloggio e senza lavoro. Per bloccare questo afflusso di persone da
Spalato il console invocò la sospensione provvisoria delle agevolazioni
di viaggio e trasporto per i profughi433.
Tranne casi speciali questi operai partenti non possono essere considerati profughi ma emigranti. Alcuni approfittando gratuità viaggio partono a titolo tentativo. Risultami che alcuni nazionali già partiti hanno fatto ritorno.
Sospensione facilitazioni viaggio è suggerita non solo nello interesse singole persone ma anche nello interesse Italianità che domanda permanenza
Italiani in Dalmazia434.
Il flusso di profughi da Spalato, Sebenico e dalle isole continuò per
alcuni mesi. Pure a parere del successore di Amadori, Umiltà, molte
partenze di nazionali italiani dalla zona di Spalato non erano giustificate «da ragioni politiche né da persecuzioni da parte elementi croati ma da crisi lavoro che colpisce italiani et croati»435. La concessione
di sussidi per il viaggio e il trasporto di mobili aveva invogliato molta gente ad espatriare.
Nel corso del 1921, quindi, per ragioni politiche ed economiche le
comunità italiane della Dalmazia centrale conobbero un indebolimento
numerico, quantificabile in varie centinaia di persone, che decisero di
abbandonare la Dalmazia e di trasferirsi in Italia, in fuga da un regime iugoslavo ostile agli italiani autoctoni e dalla crisi economica che
colpiva duramente la regione436.
433 ASMAE,
Spalato, b. 18, Amadori a Ministero degli Esteri, 24 giugno 1921.
Spalato, b. 18, Amadori a Ministero degli Esteri, 25 giugno 1921.
435 ASMAE, Spalato, b. 18, Umiltà al Commissariato civile di Zara e a quello di Trieste,
12 agosto 1921.
436 Queste sono le stime che il console italiano a Spalato, Umiltà, fece riguardo le partenze di dalmati italiani e italofili dalla Dalmazia fra il 1919 e il 1923: «Sono partite dalla
434 ASMAE,
326
LUCIANO MONZALI
3.9. Le polemiche sulla Dalmazia e la caduta del governo GiolittiSforza
L’evacuazione della prima e della seconda zona, decisa dal governo
Giolitti senza aver ottenuto nuove garanzie per i diritti della minoranza italiana, e l’esodo di una parte rilevante degli italiani dalla Dalmazia
settentrionale e centrale, diffusero sgomento e preoccupazione fra i
dalmati italiani. In molti sorse una forte diffidenza verso l’azione e le
promesse del governo di Roma, accusato di sacrificare gli interessi della minoranza alla ragione di Stato. Già in una lettera dell’aprile 1921
Tacconi, Pezzoli, Illich e Selem denunciarono che, mentre il governo
di Roma aveva molta fretta di ritirarsi dalla Dalmazia occupata, «non
apparisce il menomo sintomo che da parte italiana si trovi il modo di
compensare tale straordinaria fretta di abbandono con almeno contemporanea trattazione di quelle garanzie, già promesse agli italiani
della Dalmazia e che in qualche modo doveva assicurar loro la possibilità di restare sotto il nuovo dominio o quanto meno di essere in chiaro riguardo la situazione che sarebbe loro creata per poter prendere le
necessarie deliberazioni riguardo al proprio destino»437. La stessa questione degli avvocati italiani in Dalmazia, che metteva in gioco i destini dei principali capi dalmati italiani, in gran parte avvocati residenti
in Iugoslavia, con la sensazione di questi di ricevere scarso sostegno
a tale riguardo da parte di Roma, contribuì ad esacerbare i rapporti con
il governo Giolitti-Sforza nella primavera del 1921. Sforza e Giolitti,
che ritenevano il rafforzamento dei rapporti con Belgrado un elemento
primario della politica estera italiana e consideravano il problema di
Fiume più importante di quello dalmata nel 1921, cominciarono a rivolgere meno attenzione alle posizioni dei capi dalmati italiani, giudicati troppo intransigenti, non attenti all’interesse generale dello Stato
e, in fondo, anche dopo Rapallo, ostili all’esistenza di uno Stato iugoslavo. Manifestazione di questa crescente tensione fra i capi della
città di Spalato, dal 1919 ad oggi, 450 famiglie, con circa 1700 persone; da Cittavecchia 30
famiglie per circa 115 persone; da Traù famiglie 35 per oltre 130 persone; da Lissa 37 famiglie per 140 persone; da Lesina 80 famiglie per circa 300 persone. Dalla isola di Brazza, dalla città di Sign, da Macarsca e da qualche altra cittadina o villaggio compresi nella giurisdizione di questo Consolato, sono partite circa altre 50 famiglie per oltre 200 persone» (ASMAE,
AP 1919-30, b. 1310, Umiltà a Legazione italiana a Belgrado e al Ministero degli Esteri, 5
giugno 1923).
437 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 13, Pezzoli e Tacconi a anonimo (probabilmente
Salata), 12 aprile 1921.
IL TRATTATO DI RAPALLO
327
minoranza italiana e il governo Giolitti fu il forte scontro politico che
sorse a Spalato fra il console Giovanni Amadori, fedele esecutore delle direttive di Sforza, e i leader degli italiani spalatini, che lo accusarono d’insensibilità verso gli interessi dell’italianità autoctona e di eccessiva accondiscendenza verso il potere iugoslavo, accuse che furono rivolte anche a Manzoni in quei mesi438. Abbastanza indicativo di
come parte della diplomazia italiana vedesse la classe dirigente dalmata fu un lungo rapporto di Amadori del giugno 1921439. Il console
delineò un duro ritratto dei capi del partito italiano spalatino, a suo
avviso favorevoli ad una politica di scontro intransigente con lo Stato
iugoslavo perché troppo legati al retaggio delle lotte nazionali locali
e per interessi di potere personale. A parere di Amadori, per comprendere la situazione politica a Spalato occorreva percepire alcune
specificità della società dalmata.
Nella Dalmazia delle città vi erano e vi sono ancora poderosi elementi
per formare una nazionalità italiana, come ve ne sono per formare una nazionalità slava. Ma più che veri e propri gruppi nazionali noi abbiamo partiti politici. Così si spiega come nelle famiglie vi sia un figlio del partito italiano ed uno del partito croato. Così si spiega come la famiglia Tartaglia sia
diventata del partito croato perché Bajamonti, quale Podestà italiano, aveva
fatto costruire di fronte alla casa Tartaglia un’altra casa togliendo alla prima
parte del suo specchio di luce. La Dalmazia delle città e del mare non ha mai
subìto un vero processo storico di nazionalizzazione; non è mai storicamente stata legata ad uno Stato-Nazione. Perciò la psicologia nazionale dalmatica è allo stadio, direi, levantino. Da ciò, più partito che nazionalità. Da ciò il
fatto che un ebreo ed un armeno sono dei capi italiani di Spalato. Da ciò anche tutta la psicologia di partito. Intransigenza, acrimonia, irreducibilità, inadattabilità, intolleranza440.
Secondo il console, il partito italiano dalmata aveva visto nella
guerra e nell’occupazione italiana della Dalmazia l’occasione per riconquistare l’egemonia politica nella regione. Da qui una crescente intransigenza politica verso gli iugoslavi, sostenuta dai vertici militari e
politici italiani presenti nella regione, con l’obiettivo della futura annessione della Dalmazia all’Italia. Svanita tale possibilità a Rapallo,
438 Si veda ad esempio: ANTONIO CIPPICO, Documenti inediti, «Politica», 1921, vol. IX,
f. 25, pp. 61-66.
439 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Amadori a Ministero degli Esteri, 2 giugno 1921.
440 Ibidem.
328
LUCIANO MONZALI
i capi italiani continuavano in una politica di scontro totale con serbi
e croati, che, però, non aveva più senso.
Il partito italiano dalmata invece di ispirarsi agli interessi superiori italiani, continua a lasciarsi guidare dal suo stato d’animo e dalla sua intransigenza egoistica di partito. Quindi mette in essere ogni sforzo per ritardare ed
impedire possibilmente l’esecuzione del Trattato di Rapallo. Esagerando le
difficoltà inevitabili in cui l’elemento italiano viene a trovarsi, ma difficoltà
che si potrebbero in gran parte superare con una politica di attenuazione, prendendo a pretesto e servendosi di situazioni interne nostre e della situazione
internazionale tra Belgrado e Roma, esso cerca sempre di rigiuocare la partita definitiva non volendo riconoscere definitivo il Trattato di Rapallo441.
Amadori riteneva fondamentale favorire il mutamento d’orientamento del partito italiano attraverso un’azione del consolato che facilitasse l’ascesa politica di elementi moderati, maggiormente disposti a
tenere conto delle direttive del governo di Roma. Il console, poi, desiderava rendere i rapporti con le autorità iugoslave molto cordiali, convincendoli che l’Italia non aveva più mire espansionistiche in Dalmazia. Da qui, ad esempio, il suo sostegno alla richiesta iugoslava di ritiro della nave Puglia dal porto di Spalato, gesto che serviva a chiudere la fase dello scontro politico e nazionale nell’Adriatico orientale.
Insoddisfatti del comportamento di Amadori, di Manzoni e della diplomazia italiana, gli italiani della Dalmazia iugoslava cominciarono
a usare la stampa ostile al governo Giolitti per fare sentire le proprie
ragioni a Roma. Il 1° giugno sull’«Idea Nazionale» comparve un duro attacco contro Amadori, chiaramente ispirato da ambienti italiani
spalatini. Il giornale nazionalista protestò contro la partenza della
Puglia da Spalato, di cui accusavano come ispiratore Amadori, definito «noto rinunciatore, noto per i suoi solinquamenti jugoslavofili»442.
La tensione fra Amadori e i capi italiani di Spalato esplose in modo
ancora più violento quando il console decise di esporre sul consolato
la bandiera iugoslava insieme a quella italiana in occasione di una festività locale. Tale atto fu interpretato dai capi del Fascio Nazionale
Italiano di Spalato come segno di servilismo verso lo Stato iugoslavo.
Il fatto – ricordò Carlo Umiltà – addirittura nuovo di un Consolato este-
441
442
Ibidem.
«L’Idea Nazionale», 1° giugno 1921, La “Puglia” ha lasciato Spalato.
IL TRATTATO DI RAPALLO
329
ro che mette anche la bandiera dello Stato dove risiede, diede ai nervi agli
italiani di Spalato; le loro proteste arrivarono fino a Roma; alla Camera ci
furono due o tre interpellanze al riguardo. Il Ministro Sforza e lo stesso Presidente del Consiglio, Giolitti, cercarono di spiegare la cosa come un eccesso
di zelo del Console Generale; ma i deputati interpellanti non si chetarono443.
Nel corso del mese di giugno le critiche dei capi dalmati al governo Giolitti divennero una delle armi polemiche che le forze di opposizione di destra usarono in una durissima polemica contro l’esecutivo. Dall’inizio del 1921 i nazionalisti avevano condotto una dura critica contro la politica adriatica di Sforza. Due erano soprattutto i punti di critica. I nazionalisti accusarono Sforza di eccessiva fretta nel ritiro dalla Dalmazia occupata: a loro avviso, l’applicazione del trattato di Rapallo doveva essere l’occasione per la negoziazione di migliori
e più precise tutele a favore della minoranza italiana in Dalmazia, e
preservare gran parte del territorio occupato era una forte arma negoziale per obbligare Belgrado a cedere alle richieste italiane; in alcuni esponenti più estremisti vi era poi la speranza non troppo nascosta che il blocco dell’applicazione del trattato di Rapallo potesse essere il primo passo per una ridiscussione delle sue clausole territoriali in Dalmazia. In quei mesi altro elemento di critica nazionalista a
Giolitti e Sforza fu il cosiddetto abbandono del Montenegro. I nazionalisti dichiararono che a Rapallo Sforza aveva tradito i montenegrini, rinunciando a difendere la loro indipendenza444. Il governo Giolitti
aveva violato gli impegni presi al momento della creazione della legione montenegrina in Italia nel 1919445. Dopo lo sgombero di Sebenico, pure i liberali zaratini, fino a quel momento filogovernativi, si
schierarono apertamente contro l’esecutivo. Il 20 giugno Krekich presentò un’interpellanza alla Camera chiedendo al governo di conoscere le ragioni che lo avevano indotto ad effettuare lo sgombero dalla
seconda zona dalmata prima che fossero state concretate le garanzie
in discussione fra Italia e Regno SHS circa la tutela dei nuclei italiani in Dalmazia; il deputato zaratino, poi, desiderava sapere «se il
443 CARLO UMILTÀ, Jugoslavia e Albania. Memorie di un diplomatico, Milano, 1947, p. 4.
444
ATTILIO TAMARO, L’on. Sforza vende la patria della Regina ai serbi. Si può sopprimere il Montenegro senza consultare la Camera?, «L’Idea Nazionale», 7 giugno 1921.
445 ATTILIO TAMARO, La convenzione Caviglia-Ramadanovich, «L’Idea Nazionale», 14
giugno 1921. Sulla legione montenegrina: ANTONIO MADAFFARI, Italia e Montenegro (19181925): la legione montenegrina, «Studi Storico-Militari», 1996, pp. 85-127. Dopo la conclusione del trattato di Rapallo la legione montenegrina fu sciolta dal governo italiano.
330
LUCIANO MONZALI
Governo sia disposto a non procedere almeno all’evacuazione della terza zona prima che non siano stabilite le dette garanzie»446. Sulla critica alla politica adriatica del governo Giolitti si verificò in sostanza
il ricompattamento dei dalmati italiani e un avvicinamento di questi
alle posizioni del partito nazionalista. La crisi nei rapporti con i dalmati italiani, l’annuncio di un accordo sul consorzio per Porto Baros
e il ritiro anticipato e disorganizzato da Sebenico indebolirono il governo Giolitti-Sforza. I nazionalisti denunciarono lo sgombero da
Sebenico come indecoroso e criticarono la mancanza di garanzie giuridiche e politiche a tutela degli italiani dalmati447. Anche l’accordo
sul consorzio per la gestione di Porto Baros era sbagliato: a parere di
Attilio Tamaro, poteva togliere traffico da Trieste a vantaggio di Fiume
e attirare immigrazione iugoslava nel Quarnero448. Secondo l’«Idea
Nazionale», Sforza conduceva una politica anti-nazionale e rinunciataria e con il suo console Amadori mirava a sopprimere l’italianità spalatina ritenuta un ostacolo ai rapporti fra Italia e Iugoslavia449. La virulenta campagna di stampa nazionalista e fascista contro la politica
adriatica di Sforza cominciò a raccogliere un consenso sempre più vasto anche all’interno della classe dirigente liberale, alcuni esponenti
della quale, ad esempio Salandra, ritenevano sbagliate le strategie e
alcune direttive di Sforza450. Il ministro degli Esteri e Giolitti sottovalutarono il pessimo effetto politico che il concentrarsi in un ristrettissimo arco temporale di vari eventi controversi come l’accordo sul consorzio e il ritiro da Sebenico avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica italiana. Il governo era uscito indebolito dalle elezioni parlamentari del maggio, che avevano sostanzialmente confermato la consistenza dei popolari e dei socialisti ed avevano rafforzato le destre nazionalista e fascista. Uno dei punti di debolezza dell’esecutivo Giolitti
era la politica estera: come constatò l’ambasciatore britannico
446 Il testo dell’interrogazione di Krekich è riprodotta in AP, Camera dei deputati,
Discussioni, tornata del 20 giugno 1921, p. 65. Si veda anche «L’Idea Nazionale», 15 giugno
1921, Un’interrogazione dell’on. Krekich. Sull’ostilità di Krekich al ritiro affrettato da
Sebenico: «L’Idea Nazionale», 15 giugno 1921, L’ultimo (?) tradimento di Sforza.
447 «L’Idea Nazionale», 14 giugno 1921, Il clandestino sgombero di Sebenico. Le garanzie
per gli italiani non ancora ottenute.
448 ATTILIO TAMARO, Bisogna salvare Trieste dalla rovina che le prepara il nuovo accordo
italo-serbo. Porto Baross e il Delta sono assegnati alla Jugoslavia, 9 giugno 1921. Sull’ostilità
degli ambienti politici triestini all’accordo sul consorzio di Fiume: SFORZA, Dalle pagine del
diario. Il periodo prefascista, cit., f. 2005, p. 65.
449 «L’Idea Nazionale», 14 giugno 1921, Bisogna discutere la politica di Sforza.
450 ALBERTINI, Epistolario, cit., III, Salandra a Albertini, 30 giugno 1921, d. 1260.
IL TRATTATO DI RAPALLO
331
Buchanan nel giugno 1921, l’azione di Sforza era sempre più sotto attacco da parte di vari settori politici451. Il ministro degli Esteri, privo
di un’adeguata esperienza parlamentare, si dimostrò poco abile nei rapporti con i deputati. L’apertura della nuova Camera e il discorso della Corona furono l’occasione per le forze di opposizione di destra e
di sinistra per criticare la politica estera di Sforza452. Il 20 e 21 giugno
Federzoni e Mussolini attaccarono duramente la politica estera del governo, vincolando il loro sostegno all’esecutivo in carica alla sostituzione di Sforza. Federzoni, in un lungo discorso, cercò di svalutare tutte le iniziative di Sforza sia in campo europeo che in Anatolia e
nell’Adriatico, riprendendo tutti i motivi polemici (tradimento del
Montenegro, politica troppo francofila, azione rinunciataria in Anatolia, ecc.) che i nazionalisti usavano da mesi contro il governo. Particolarmente virulenta fu la denuncia della politica dalmatica del governo, che il deputato bolognese accusò di tradimento verso gli italiani di Dalmazia453. Mussolini, riprendendo la polemica nazionalista, criticò il disinteresse governativo verso Zara e il tradimento dell’indipendenza montenegrina454. Le discussioni parlamentari di quei giorni
mostrarono anche con chiarezza che la politica di amicizia italo-iugoslava si scontrava con i sentimenti e gli umori profondi delle popolazioni italiane e iugoslave nell’Adriatico, dominate dal risentimento e
dall’esasperazione nazionalista. Prova di ciò si ebbe con il discorso del
deputato sloveno triestino Wilfan e le reazioni che questo provocò.
Wilfan, in maniera rigida e poco intelligente, enunciò l’opposizione
delle popolazioni slovene e croate della Venezia Giulia all’appartenenza
allo Stato italiano e al trattato di Rapallo455. Il deputato sloveno dichiarò
alla Camera dei deputati che, se era vero che la maggioranza della popolazione della Venezia Giulia era slava, allora «quella regione doveva appartenere allo Stato nazionale slavo e non allo Stato nazionale italiano»; la sovranità italiana si era estesa su quei territori grazie al trat451
BDFA, II, F, 4, Buchanan a Curzon, 22 giugno 1921, d. 326.
Una ricostruzione del dibattito parlamentare sulla politica estera in quei giorni in:
SFORZA, Pensiero e azione di una politica estera italiana, cit., p. 251 e ss. Si veda anche
MELCHIONNI, La politica estera di Carlo Sforza, cit., p. 567 e ss.
453 AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 20 giugno 1921, intervento di
Federzoni, pp. 51-61; FEDERZONI, Presagi alla Nazione, cit., pp. 245-271.
454 AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 21 giugno 1921, intervento di
Mussolini, pp. 89-98; BENITO MUSSOLINI, Il primo discorso alla Camera dei deputati, edito
in Opera omnia di Benito Mussolini, cit., vol. XVI, pp. 430-446.
455 AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 21 giugno 1921, intervento del deputato Wilfan, pp. 117-120.
452
332
LUCIANO MONZALI
tato di Rapallo, ma «ciò è avvenuto senza il libero e regolare consenso, contrariamente al carattere nazionale della popolazione», e per questa ragione Wilfan proclamò una forte protesta456. Il carattere intransigente del discorso, con dure accuse all’amministrazione e all’esercito
italiano, suscitò virulente reazioni in tutta la Camera457 e alimentò una
violenta polemica fra nazionalisti e fascisti italiani e nazionalisti sloveni e croati. La politica estera di Sforza fu attaccata non solo dai nazionalisti e dai fascisti, ma anche dai socialisti, dai liberali salandrini
e dai democratico-sociali di Colonna di Cesarò. I socialisti, riprendendo
vari temi del revisionismo nittiano, criticarono duramente la politica
anti-germanica e francofila del governo italiano, in particolare denunciando il sostegno di Sforza alla politica francese nel campo delle
riparazioni e nella questione dell’Alta Slesia: Turati criticò il vassallaggio dell’Italia verso l’Intesa e definì il trattato di Versailles un patto scellerato, espressione del più crudo capitalismo458.
Il 25 giugno Krekich compì il suo primo discorso alla Camera italiana459. Il deputato dalmata, innanzitutto, esaltò l’annessione di Zara
all’Italia, pur sottolineando l’errore compiuto nel rinunciare al resto
della Dalmazia. Egli si proclamò in ogni caso convinto dei grandi destini della Nazione italiana nell’Adriatico.
Ma a che serve l’acerba rampogna, a che serve l’inutile e lo sterile rimpianto? Disperare non conviene, ma conviene attendere con fede inconcussa
che il fulgido destino della nostra Patria abbia a compiersi e si compirà, perché nessuna forza umana potrà arrestarne l’ascesa. Perché il diritto che Roma
e Venezia ci hanno trasmesso in sacro retaggio sulle terre dell’Adriatico orientale, che per ben due millenni hanno costituito il complemento essenziale
d’Italia ed il suo naturale confine, con un tratto di penna non si sono né prescritti né cancellati. E dovranno affermarsi più vivi e più forti giacché nessuno, e neppure le Nazioni, possono sottrarsi alle leggi immutabili del destino460.
Dopo queste dichiarazioni di natura ideologica, Krekich si con-
456
Ibidem.
457 AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 21 giugno 1921, interventi di Suvich,
pp. 121-122; ivi, tornata del 23 giugno 1921, intervento di Giunta, pp. 182-186.
458 AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 24 giugno 1921, intervento di Turati,
pp. 212-225; TURATI, Socialismo e riformismo, cit., pp. 362-406.
459 AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 25 giugno 1921, intervento di
Krekich, pp. 264-266.
460 Ibidem.
IL TRATTATO DI RAPALLO
333
centrò sul problema che gli stava più a cuore, la tutela degli italiani
nella Dalmazia iugoslava. Egli sostenne l’urgenza che l’Italia garantisse l’applicazione dell’articolo VII dell’accordo italo-iugoslavo e
quindi la realizzazione di una seria tutela dei nuclei italiani nel Regno
SHS.
Noi dobbiamo esigere quindi, in applicazione del Trattato di Rapallo, che
prima ancora che siano concretate e definite queste garanzie a difesa dei nostri fratelli fra il nostro Governo e il Governo jugoslavo, non debba avvenire
lo sgombero della terza zona occupata dal Regio esercito, perché soltanto tenendo quel pegno in mano, arriveremo ad indurre il Governo jugoslavo, ben
poco propizio per le sorti dei nostri fratelli, a concedere quelle garanzie che
in base al Trattato di Rapallo si è obbligato di prestare. Non si sgomberi la
terza zona, si tenga questo pegno prezioso di un’esistenza migliore pei nostri fratelli! Non si sgombri!461.
Il 25 giugno Sforza difese la sua azione diplomatica con un discorso brillante e lucido sul piano dei contenuti, che mostrava la sua
intelligenza nel cercare di modernizzare le direttive della politica estera dello Stato pur rimanendo nel solco della tradizione diplomatica italiana; ma la difesa fu compiuta con eccessivo orgoglio ed alterigia, in
un modo che indispettì molti deputati. Come è possibile notare dal tono del suo diario e della sua corrispondenza462, il ministro aveva reagito con aggressività e disdegno ai duri attacchi personali e politici ricevuti negli ultimi mesi, rifiutandosi di compiere atti e gesti che gli
servissero per accattivarsi le simpatie parlamentari e giornalistiche.
Sforza rivendicò di fronte alla Camera gli innegabili successi della sua
azione diplomatica: il miglioramento dei rapporti con la Francia, la
crescita dell’influenza italiana in Europa centrale, la sua abile politica in Vicino Oriente, fondata sul pragmatico e lungimirante riconoscimento della forza del sentimento nazionale turco espresso dal movimento kemalista463. Nella questione adriatica, negò di aver tradito il
Montenegro e difese la saggezza di una politica di collaborazione con
il Regno SHS a Fiume e in Dalmazia, unico modo, a suo avviso, per
461
Ibidem.
462 SFORZA, Dalle pagine del diario. Il periodo prefascista, cit., f. 2005, p. 62 e ss.; Sforza
a Giolitti, 29 aprile e 13 giugno 1921, in Quarant’anni di politica italiana, cit., III, dd. 338,
344.
463 AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 25 giugno 1921, intervento di Sforza,
pp. 267-274. Il discorso è riprodotto in SFORZA, Un anno di politica estera, cit., p. 131 e ss.
334
LUCIANO MONZALI
consolidare gli interessi italiani in quelle regioni. Sforza, poi, giustificò l’operato di Amadori, rivendicando al riguardo ogni responsabilità politica, e ribadì il valore del progetto alla base della sua politica
in Dalmazia:
Noi faremo quanto è in poter nostro per tutelare e proteggere i gruppi italiani in Dalmazia. Ma dobbiamo dire che una politica che non sia di composizione con dignità oggi e di collaborazione economica e culturale domani,
e cioè una politica dalmatica di intransigenza e combattività porterebbe danno irreparabile alla causa italiana in Dalmazia. Giacché ecciterebbe ancor più
pericolosa intransigenza in una massa slava di fronte alla quale gli italiani sono una infima minoranza. Il Governo non solo pei suoi interessi generali, ma
proprio anche per la sicura difesa dell’italianità dalmatica segue il programma della conciliazione ed il proposito dell’attenuazione dei contrasti residuali;
poiché soltanto così si tutela l’italianità culturale ed economica che deve restare sull’altra sponda, anello di congiunzione fra le due razze vicine464.
Il ministro degli Esteri rivendicò il valore storico del patto di
Rapallo, che aveva dato all’Italia i suoi confini naturali e con essi forza e sicurezza strategica allo Stato, e ribadì la sua visione dell’Italia
come potenza che doveva conquistare una sua influenza in Europa e
nel Mediterraneo difendendo gli «ideali italiani», ovvero i princìpi di
libertà nazionale e indipendenza.
Perché di qui non si esce. O l’Italia, divenendo amica dei popoli minori,
facendo propri i loro legittimi interessi di vita, aprendosi così un sicuro respiro verso l’Oriente, assumerà un superbo compito di Grande Potenza – oppure di Grande Potenza non avrà che il vano nome465.
In effetti molti attacchi alla politica estera di Sforza erano eccessivi ed ingiusti. Il ruolo di Sforza era stato fondamentale nella genesi del patto di Rapallo, che aveva sostanzialmente garantito all’Italia
il confine giuliano previsto dal trattato di Londra, così come cruciale
era stata la sua azione nel raggiungimento dell’annessione italiana di
Zara, cosa alla quale, come abbiamo visto, Giolitti aveva attribuito
scarsa importanza. La politica internazionale di Sforza, poi, si era caratterizzata per un realismo politico che aveva portato l’Italia a ridi-
464
465
SFORZA, Un anno di politica estera, cit., p. 155
Ivi, p. 158.
IL TRATTATO DI RAPALLO
335
mensionare certe ambizioni politico-territoriali ormai irraggiungibili
(il mandato sull’Albania, la creazione di un possedimento italiano in
Anatolia)466.
Particolarmente dannoso per il governo fu l’intervento critico di
Salandra, già negoziatore del patto di Londra, che, il 26 giugno, dichiarò di vedere nella politica adriatica di Sforza una sorta di tradimento del trattato del 1915467. A parere di Salandra, le risposte del ministro degli Esteri sulle questioni relative all’Adriatico erano state assolutamente insufficienti. Il deputato pugliese criticò l’abbandono del
Montenegro e la sostanziale rinunzia a Porto Baros, e denunciò il rischio della snazionalizzazione della minoranza italiana in Dalmazia.
Io dirò soltanto che il pericolo della italianità – italianità che certamente
il ministro degli Esteri non vuole spenta sull’altra costa dell’Adriatico – questo pericolo è maggiore adesso di quello che non fosse quando vigeva la monarchia austro-ungarica. E ciò per questo (io non dirò nulla che spiaccia ai
nostri amici dello Stato serbo-croato-sloveno), perché, mentre la monarchia
austro-ungarica era uno Stato federativo che in parte reggeva sulle rivalità fra
le diverse nazionalità, non avendo perciò interesse a spegnerle, lo Stato serbo-croato-sloveno è uno Stato nazionale di vivace (lo dico a suo onore), di
crescente impulso nazionale, che tende a spegnere tutte le lingue e le nazionalità allogene468.
L’ex presidente del Consiglio accusò il governo di non aver ottenuto garanzie a tutela degli italiani di Dalmazia nel corso dell’applicazione del trattato di Rapallo.
Tutti sanno onorevole Sforza, che Ella aveva proposto ai rappresentanti della Dalmazia a Roma l’abbinamento dello sgombero della seconda zona dalmata, quella di Sebenico, con le trattative per le garanzie. Uomini rispettabili
mi hanno assicurato che l’abbinamento era stato promesso da lei e dal senatore Salata. Dopo è avvenuto quello che è avvenuto: Sebenico è stata sgombrata precipitosamente prima che avessero modo di partire coloro i quali desideravano sottrarsi al dominio straniero. Ai dalmati aveva detto che ciò è avvenuto in omaggio a interessi superiori. Quali sono questi interessi superiori?469.
466 Al
riguardo l’analisi della politica estera di Sforza in MICHELETTA, op. cit., I.
AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 26 giugno 1921, intervento di
Salandra; ANTONIO SALANDRA, Discorsi parlamentari di Antonio Salandra, Roma, 1969, vol.
III, pp. 1154-1157.
468 Ibidem.
469 Ibidem.
467
336
LUCIANO MONZALI
Per Salandra la politica adriatica di Sforza era troppo rinunciataria e andava condannata:
Ella ha avuto, forse non per colpa sua, onorevole Sforza, una sorte troppo dura. Ella ha dovuto abbassare la nostra bandiera a Valona coma ad Adalia,
a Castua come a Sebenico. Il paese dice che basta. Il paese vuole la pace, ma
non la pace dei vinti. Questa è la ragione fondamentale per la quale noi voteremo qualunque ordine del giorno esprima sfiducia nella direzione della nostra politica estera470.
Nel seguito della discussione, Sforza, manifestando irritazione e
scarso rispetto personale per l’ex presidente del Consiglio, attaccò duramente Salandra sulla questione fiumana, rivendicando a sé il merito di non avere rispettato il patto di Londra, che aveva dato Fiume alla Croazia471. L’azione parlamentare di Sforza si rivelò inabile e controproducente472 e creò contro di lui una coalizione di scontenti che,
oltre all’Estrema Sinistra e all’Estrema Destra, raccolse molti liberali, radicali e democratici. Non a caso il voto alla Camera sulla politica estera del governo espresse una debole maggioranza a favore di
Sforza. Turati presentò un ordine del giorno che nella prima parte proclamò la contrarietà dei firmatari alla politica estera del governo Giolitti-Sforza. Nazionalisti, fascisti e liberali salandrini aderirono a questo
ordine del giorno e votarono contro il governo. Il deputato Girardini,
al momento del voto, dichiarò a nome dei democratico-sociali e radicali, che il suo gruppo avrebbe votato per il governo solo perché era
favorevole alla politica interna di Giolitti, ma avanzava forti riserve
verso l’azione internazionale di Sforza473. Già deluso per i risultati delle elezioni del maggio, dopo le discussioni parlamentari sulla politica estera Giolitti constatò la crescente fragilità del suo esecutivo e decise di presentare le dimissioni del suo governo il 27 giugno474.
470
Ibidem.
SFORZA, Pensiero e azione di una politica estera italiana, cit., p. 279.
472 Al riguardo l’analisi di Buchanan, che criticò l’inabilità di Sforza nei rapporti con i
deputati: «It is said, and I believe with reason, that he treated the members of the Foreign
Affairs Committee with a supercilious aloofness that has given him a bad name in the
Chamber, and it is as much a feeling of personal dislike as disapproval of his policy that have prompted the attacks levied against him» (BDFA, II, F, 5, Buchanan a Curzon, 30 giugno
1921, d. 2).
473 SFORZA, Pensiero e azione di una politica estera italiana, cit., p. 280.
474 Sulla crisi del governo Giolitti: GIOLITTI, Memorie, cit., II, p. 611; DE FELICE,
Mussolini il fascista, cit., I, p. 101; SALVATORELLI, MIRA, Storia d’Italia, cit., I, pp. 191-192;
471
IL TRATTATO DI RAPALLO
337
I rappresentanti politici degli italiani di Dalmazia salutarono positivamente la caduta del governo Giolitti-Sforza. All’inizio di luglio,
Leonardo Pezzoli, Antonio Tacconi e Doimo Cace, presenti a Roma,
rilasciarono alcune dichiarazioni molto critiche su Sforza all’«Idea
Nazionale»475. Innanzitutto, essi contestarono le dichiarazioni di Sforza sugli italiani dalmati quale «infima minoranza» che provocava le
persecuzioni anti-italiane. Tacconi, Pezzoli e Cace affermarono che in
Dalmazia, «in onta alle leggi austriache ancora sempre vigenti nel
Paese, che garantirebbero l’equiparazione linguistica, la lingua italiana è di fatto completamente bandita negli Uffici, che essa venne bandita anche dalla Chiesa, che non si tollera la più piccola scritta od insegna italiana, e che si vietano persino lapidi italiane nei cimiteri»476.
Per i rappresentanti dalmati, non vi era stato alcun miglioramento della condizione della minoranza italiana nella Dalmazia iugoslava dopo
Rapallo, anzi questa era peggiorata con l’esodo di molti italiani. Essi
attaccarono duramente Amadori Virgili, accusandolo di aver suscitato dissidi fra gli italiani spalatini, di aver male rappresentato al governo
di Roma la situazione di Spalato e di aver chiesto il ritiro della nave
Puglia. Sforza, invece, si era dimostrato incapace di «pretendere e di
ottenere la concretazione ed attuazione delle garanzie prospettate dal
trattato di Rapallo»477.
NICOLA TRANFAGLIA, La prima guerra mondiale e il fascismo, Torino, 1995, p. 262 e ss.; EMILIO
GENTILE, Storia del partito fascista 1919-1922. Movimento e milizia, Bari-Roma, 1989, p. 208
e ss. Sull’importanza dei problemi della politica estera nella crisi del governo Giolitti: BDFA, II, F, 4, Buchanan a Curzon, 27 giugno 1921, d. 327.
475 «L’Idea Nazionale», 1° luglio 1921, L’ultimo servigio di Sforza alla Jugoslavia. Una
nobile protesta dei Delegati dalmati.
476 Ibidem.
477 Ibidem.
IV
GLI ITALIANI DI DALMAZIA DI FRONTE ALLA CRISI
DELL’ITALIA LIBERALE E ALL’AVVENTO DEL FASCISMO
4.1. Il governo Bonomi-Della Torretta e gli italiani della Dalmazia
iugoslava di fronte alla questione delle opzioni
Il 4 luglio 1921, Ivanoe Bonomi, socialista riformista, già ministro della Guerra nell’esecutivo Giolitti, costituì un nuovo gabinetto, fondato
su una coalizione fra liberali giolittiani, socialisti riformisti, democratico-sociali e popolari1. Dietro indicazione di Sforza e Contarini,
Bonomi nominò ministro degli Esteri Pietro Tomasi Della Torretta2,
diplomatico di carriera legato al segretario generale della Consulta. A
causa della fragilità della sua maggioranza parlamentare, il governo
Bonomi cercò di raccogliere i consensi delle destre nazionalista e liberale e del fascismo, ormai forza politica di primaria importanza, favorendo pure una svolta moderata ed una «legalizzazione» del movimento guidato da Mussolini. Questa direttiva filo-fascista, che culminò
nel progetto di «pacificazione» fra fascisti e socialisti, sostenuto dal
governo ma poi fallito, convinse Bonomi a fare proprie alcune posizioni nazionalfasciste e della destra vicina a Salandra nella questione
1
RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Torino,
1966, p. 101 e ss.; DANILO VENERUSO, La vigilia del fascismo. Il primo ministero Facta nella crisi dello Stato liberale in Italia, Bologna, 1968, p. 18 e ss.; SALVATORELLI, MIRA, Storia
dell’Italia, cit., I, p. 193 e ss.; BDFA, II, F, 5, Buchanan a Curzon, 4 luglio 1921, d. 7.
2 Sulla biografia di Della Torretta: MICHELETTA, op. cit., II, pp. 405-407; PETRACCHI, Da
San Pietroburgo, cit., p. 170 e ss. Sull’influenza di Contarini e di Sforza nella nomina di Della
Torretta alla Consulta: Rolandi Ricci a Giolitti, 28 agosto 1921, in Quarant’anni di vita politica, cit., III, d. 346; Sforza a Giolitti, 18 novembre 1921, ivi, d. 353. Sforza dichiarò a
Buchanan la sua soddisfazione per la nomina di Della Torretta: BDFA, II, F, 5, Buchanan a
Curzon, 6 luglio 1921, d. 9; si veda anche: ALBERTINI, Epistolario, cit., III, Sforza a Albertini,
19 settembre 1921, d. 1275. Sul successivo atteggiamento critico di Sforza e del suo entourage verso Della Torretta: GIORDANO, Carlo Sforza: La politica 1922-1952, cit., p. 14 e ss.;
INSMLI, Carte a Prato, b. 1, a Prato a De Martino, 17 gennaio 1922; ibidem, a Prato a Della
Torre, 12 marzo [1922].
340
LUCIANO MONZALI
dell’applicazione di Rapallo, in discontinuità con la politica di Sforza
e Giolitti. Fra le prime iniziative del governo Bonomi, infatti, vi fu la
temporanea cessazione dei lavori di delimitazione dei confini dello
Stato di Fiume, decisione che, come ha notato Danilo Massagrande,
comportò, con il rinvio della consegna dei territori iugoslavi ancora
occupati dall’Italia, la sostanziale sconfessione dell’accordo sul consorzio portuale3. Di fronte alle Camere, Bonomi confermò di volere
rispettare ed applicare il trattato di Rapallo, ma sostanzialmente mise
in dubbio la validità dello scambio di lettere Sforza-Trumbic! su Porto
Baros, dichiarando che il governo si sentiva impegnato solo dall’accordo di Rapallo, firmato dai tre plenipotenziari italiani e approvato
dal Parlamento4. Il nuovo governo, poi, decise di assumere una linea
di maggiore durezza negoziale verso Belgrado nella questione dalmatica, subordinando di fatto il ritiro dalla terza zona (il retroterra di
Zara e le isole vicine) a concessioni da parte iugoslava sul piano dei
rapporti commerciali ed economici, nella questione di Fiume e riguardo a nuove garanzie formali sui diritti della minoranza italiana in
Dalmazia. Il mutamento dell’atteggiamento verso la Iugoslavia fu uno
dei primi segnali di una nuova direzione della politica estera italiana,
non più fondata su un’intesa privilegiata con la Francia e su una forte collaborazione con i nuovi Stati nazionali dell’Europa centrale
(Cecoslovacchia, Polonia, Iugoslavia). Della Torretta, anglofilo e conservatore, desiderava tornare alla strategia di Nitti, incentrata sull’alleanza con Londra e sulla creazione di una nuova costellazione politica in Europa centrale, egemonizzata da Roma, imperniata sulla stretta amicizia fra Austria, Ungheria e Italia5. Della Torretta progressivamente abbandonò le direttive politiche di Sforza, che avevano portato alla vicinanza italiana alla Piccola Intesa. Segnali di questa svolta
politica furono il raffreddamento dei rapporti con la Cecoslovacchia
3
MASSAGRANDE, op. cit., p. 47.
4«L’Idea Nazionale», 2 agosto
1921, La politica italiana in Adriatico e in Oriente;
MASSAGRANDE, op. cit., p. 47.
5 MICHELETTA, op. cit., II; SFORZA, Il diario prefascista, cit., 1968, p. 67 e ss.; RODOLFO
MOSCA, L’Italia e la questione dell’Ungheria occidentale, in ID., Le relazioni internazionali
nell’età contemporanea, cit., in particolare p. 143 e ss.; TOMMASINI, La risurrezione della
Polonia, cit., p. 331 e ss.; AMAF, Europe 1918-1929, Italie, vol. 79, Charles-Roux al ministro degli Esteri, 28 agosto 1921; BDFA, II, F, 5, d. 54, Buchanan a Curzon, 9 novembre 1921,
d. 54. Una dura critica alla politica estera di Della Torretta in Sforza a Giolitti, 19 novembre
1921, cit. Si veda anche l’interessante lettera di Carlo Emanuele a Prato, stretto collaboratore di Sforza: INMLI, Carte a Prato, b. 3, A Prato a Nesti, 13 gennaio 1922.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
341
e la Iugoslavia, dovuto anche all’intervento italiano a favore dell’Ungheria nella questione del Burgenland6, e il disinteresse del russofilo
Della Torretta per la conclusione di un accordo di collaborazione politica con la Polonia, propugnato dal ministro italiano a Varsavia,
Tommasini7. Piuttosto il ministro siciliano tentò di dare vita ad un raggruppamento italo-austro-ungherese in funzione anti-iugoslava, progetto che non ebbe grande fortuna8. Altro elemento che mostrò un
orientamento della politica estera del governo Bonomi non più incentrato sulla collaborazione con Belgrado, fu il tentativo della diplomazia italiana di ottenere il riconoscimento del primato dell’Italia
in un’eventuale azione di difesa dell’indipendenza albanese, che culminò nella dichiarazione della Conferenza degli Ambasciatori del novembre 19219. Il peggioramento delle relazioni italo-iugoslave ebbe
come risultato il sostanziale interrompersi di tutta la febbrile applicazione del trattato di Rapallo attraverso la conclusione di nuove convenzioni che aveva caratterizzato la politica di Sforza nei primi sei mesi del 1921. Il progetto di accordo sul consorzio di Fiume saltò, così
come non ebbe conferma definitiva l’accordo Salata-Rybar sulla procedura d’applicazione delle opzioni. Il governo italiano decise pure di
bloccare ogni evacuazione dalla terza zona dalmata. Dopo alcune settimane di sterili negoziati, all’inizio di agosto l’attività delle Commissioni culturali ed economiche italo-iugoslave aventi il compito di
definire l’esecuzione del trattato di Rapallo s’interruppe, rifiutandosi il governo di Belgrado di procedere ulteriormente nell’applicazione se prima non fossero stati sgombrati Porto Baros e la terza zona
dalmata10. Unica eccezione in questa stasi generalizzata fu l’azione del
deputato Tosti di Valminuta, che riuscì a condurre a termine difficili
negoziati che portarono alla conclusione della convenzione italo-iugoslava sulla pesca nell’Adriatico (accordo di Brioni del 14 settembre 1921)11.
6 MOSCA, L’Italia e la questione dell’Ungheria occidentale, cit.; MARTA PETRICIOLI, La questione dell’Ungheria occidentale nei documenti diplomatici italiani, in FRANCESCO GUIDA, RITA
TOLOMEO, Italia e Ungheria (1920-1960). Storia, politica, società, letteratura, fonti, Cosenza,
1991, pp. 1-30; FLORIN CODRESCO, La Petite Entente, Paris, s.d. (1930?), I, pp. 201-208.
7 TOMMASINI, La resurrezione della Polonia, cit., pp. 250-251.
8 Al riguardo vi è interessante documentazione ungherese ed austriaca edita: PDH, 3, dd.
887, 896, 932, 947, 1055, 1057, 1058; DDA, 4, dd. 581, 582, 584, 585, 649, 650, 652.
9 MICHELETTA, op. cit., II, p. 465 e ss.; BDFA, II, F, 5, d. 51.
10 Al riguardo: ASMAE, Carte Salata, b. 267, Moscheni a Salata, 8 luglio 1921.
11A proposito dei negoziati che portarono all’accordo sulla pesca: ASMAE, GAB 1923-
342
LUCIANO MONZALI
Il rafforzarsi di movimenti come il fascismo e il nazionalismo, che,
spesso per motivi ideologici o di propaganda, consideravano la questione dalmatica un problema cruciale della politica estera italiana, aumentò il peso politico degli italiani di Dalmazia in Italia. Il nuovo governo, per ragioni di politica interna, assunse un atteggiamento più attento verso le esigenze dei dalmati italiani, in particolare verso la minoranza italiana nella Dalmazia iugoslava. Nella prima metà di luglio
Krekich, Pezzoli e Tacconi vennero a Roma ed ebbero colloqui con
rappresentanti della Presidenza del Consiglio e del Ministero degli
Esteri12. In occasione di questi colloqui i capi della minoranza italiana spalatina, Antonio Tacconi e Leonardo Pezzoli, a nome dei Fasci
Nazionali Italiani di tutta la costa dalmata, presentarono a Bonomi e
a Della Torretta due lunghi memoriali. Con il memoriale presentato
al ministro degli Esteri, intitolato Postulati riguardo ai provvedimenti da prendersi a tutela degli italiani della Dalmazia assegnata col
Trattato di Rapallo allo Stato S.C.S. intesi a completare o chiarire le
disposizioni del Trattato di Rapallo e ad assicurarne la pratica attuazione13, Tacconi e Pezzoli chiesero al governo di Roma di soddisfare
una serie di richieste a tutela degli interessi della minoranza italiana
in Dalmazia, con l’implicita minaccia di non optare per la cittadinanza italiana in caso di mancata soddisfazione delle domande avanzate.
Gli italiani della Dalmazia iugoslava, innanzitutto, domandarono che
fosse stabilito con chiarezza se le disposizioni dell’accordo sulle minoranze stipulato dalle grandi potenze con il Regno SHS e accettato
da questo il 5 dicembre 1919 erano valide quanto quelle del trattato
di Rapallo a favore dei cittadini italiani in Dalmazia: in tal modo si
sarebbe potuto garantire il libero uso della propria lingua sia agli italiani in possesso della cittadinanza iugoslava che agli optanti per
l’Italia. Venivano poi pretese garanzie circa i tempi e i modi dell’op43, AF, b. 9, Tosti a Ministero degli Esteri, 21 agosto 1921; ivi, b. 14, Tosti a Ministero degli
Esteri, 26 agosto e 5 settembre 1921. Il testo dell’accordo sulla pesca del 14 settembre 1921
è riprodotto in GIANNINI, Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, cit.,
p. 46 e ss.
12 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 23, Comitato interministeriale per lo studio delle questioni relative agli accordi economici, commerciali, ecc., da stipularsi con la Jugoslavia, seduta del 2 luglio 1921; ACS, UNP, b. 73, Pezzoli e Tacconi a Salata, 31 luglio 1921: in questa lettera si accenna ad incontri svoltisi a Roma il 13 luglio 1921.
13 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, LEONARDO PEZZOLI e ANTONIO TACCONI, Postulati
riguardo ai provvedimenti da prendersi a tutela degli italiani della Dalmazia assegnata col
Trattato di Rapallo allo Stato S.C.S. intesi a completare o chiarire le disposizioni del Trattato
di Rapallo e ad assicurarne la pratica attuazione, 7 luglio 1921.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
343
zione, e riguardo alla tutela del diritto dei proprietari terrieri italiani,
optanti e non, di ottenere giusti risarcimenti in caso di applicazione
forzata della riforma agraria. Tema su cui i capi italiani si dimostrarono molto sensibili era la difesa del diritto degli optanti per l’Italia
ad esercitare professioni, arti e industrie nello Stato iugoslavo.
Un’interpretazione logica – notarono Tacconi e Pezzoli – della disposizione dell’art. VII del trattato di Rapallo, che consente agli italiani della
Dalmazia che optino per la cittadinanza italiana, di continuare a dimorare in
paese deve indurre alla conseguenza che i medesimi possano mantenere anche l’intero ambito dei diritti conseguiti prima del crollo della monarchia austro-ungarica e quindi anche la facoltà di continuare ad esercitare quelle arti, mestieri e professioni per le quali giuste le leggi austriache tuttora vigenti in Dalmazia, è richiesta la cittadinanza dello Stato (avvocatura, medicina,
ingegneria, farmacia, determinate licenze industriali, ecc.). Gli iugoslavi tentano sottrarsi a tale interpretazione e tendono a creare già ora uno stato di fatto a ciò contrario, come lo dimostra il noto incidente degli avvocati italiani
di Spalato che vennero cancellati dalla lista per essersi rifiutati di prestare un
giuramento di fedeltà al Sovrano e alla costituzione dello Stato S.C.S.14.
Da ciò l’esigenza di garantire agli optanti il diritto ad esercitare tali professioni ed attività, «perlomeno in quanto trattisi di diritti acquisiti
anteriormente all’entrata in vigore del trattato di Rapallo». Bisognava,
poi, mantenere un uso della lingua italiana negli uffici e nella vita pubblica pari perlomeno a quello assicurato dal governo asburgico prima
dello scoppio della guerra. Dal crollo dell’Austria nelle regioni passate alla Iugoslavia era stato eliminato ogni uso della lingua italiana
nelle amministrazioni pubbliche.
Le autorità trattano esclusivamente tutti gli affari in lingua slava, assumono
esclusivamente in questa lingua anche parti e testimoni italiani ed emettono
esclusivamente in questa lingua le loro decisioni. […] In Dalmazia del pari
in via di fatto è impedito ogni uso della lingua italiana in qualsiasi manifestazione della vita, mentre ai negozianti italiani non è più concesso di usare
alcuna scritta italiana, viene vietata la lingua italiana nelle chiese e persino
nelle lapidi dei cimiteri15.
Urgente era anche la ricostituzione delle istituzioni italiane che era-
14
15
Ibidem.
Ibidem.
344
LUCIANO MONZALI
no state soppresse dall’Austria-Ungheria e non ricostituite dal governo iugoslavo, nonché l’apertura di scuole italiane. Per le scuole, soluzione ottimale, a parere di Tacconi e Pezzoli, sarebbe stata la creazione di scuole di Stato, mantenute direttamente dal governo di Roma,
delle quali avrebbero potuto fruire «non soltanto i cittadini italiani, tali per origine o per opzione, ma anche i cittadini dello Stato S.C.S. che
aspirassero ad avere l’istruzione in lingua italiana»16. I rappresentanti degli italiani della Dalmazia iugoslava criticarono duramente la decisione del governo Giolitti di procedere allo sgombero della seconda zona dalmata, comprendente Sebenico, senza che prima fossero state concordate con Belgrado garanzie a tutela dei diritti della minoranza. Chiesero, in particolare, che i futuri negoziati italo-iugoslavi a
tale riguardo fossero condotti per l’Italia dal senatore Salata, manifestando diffidenza e critica verso l’operato del ministro plenipotenziario Manzoni e del console Amadori.
Onde condurre le relative trattative a buon parte è però indispensabile che
il Governo italiano, abbandonando il sistema di deplorevole debolezza del
Governo precedente, […] si renda conto dell’assoluta necessità di non sgombrare almeno la 3ª zona dalmata fino a che non vengano concretate le suesposte garanzie a favore degli italiani della Dalmazia17.
Per una migliore tutela della minoranza Tacconi e Pezzoli chiesero una più capillare presenza di consolati nelle città dalmate e lo stazionamento di navi da guerra italiane nei porti iugoslavi.
Nel secondo memoriale, presentato a Bonomi, Tacconi e Pezzoli
sottoposero al governo ulteriori richieste18. In campo scolastico sottolinearono l’importanza di facilitare l’afflusso di studenti italiani della Dalmazia iugoslava alle scuole secondarie di Zara e del Regno potenziando le istituzioni d’accoglienza a questi riservate (Convitto
Nicolò Tommaseo, Educandato di S. Demetrio), concedendo borse di
studio e dando un cambio favorevole alle famiglie pronte a inviare i
propri figli a studiare in Italia. Importante era anche concedere cambi di valute favorevoli ad istituzioni italiane o a profughi dalmati, nonché giusti indennizzi a politici italiani in passato perseguitati dal go-
16
Ibidem.
Ibidem.
18 Per i Fasci nazionali italiani della Dalmazia, Leonardo Pezzoli e Antonio Tacconi a
Ivanoe Bonomi, luglio 1921, GAB 1923-43, AF b. 12. Altra copia in Carte Salata, b. 267.
17
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
345
verno iugoslavo. Per rafforzare la minoranza sarebbe stato utile che
gli istituti bancari e assicurativi e le imprese italiane operanti in Dalmazia assumessero prioritariamente gli italiani locali e sviluppassero
attività di collaborazione con le banche dalmate italiane. Cruciale era
la questione dei provvedimenti a vantaggio dei profughi dalmati.
Tacconi e Pezzoli prevedevano che l’esodo italiano dalla Dalmazia sarebbe continuato anche nei mesi successivi.
Purtroppo il modo nel quale venne effettuato lo sgombero della massima
parte della Dalmazia occupata, senza aver ottenuto prima alcuna garanzia a
vantaggio dell’elemento italiano, ebbe per conseguenza un largo esodo di italiani dal paese natale, ed è inevitabile che anche altre persone della Dalmazia
occupata e non occupata prendano fra breve la via dell’esilio, anche indipendentemente dal pericolo di violenze materiali, per ragioni di dignità e di
impossibilità di ulteriore sussistenza economica19.
Il governo italiano doveva prendere a cuore la sorte di questi connazionali, garantendo maggiormente il diritto dei profughi, provenienti
dalla Dalmazia occupata e non, di usufruire di un cambio di favore rispetto sia alla vecchia corona austriaca che alla corona dinaro, in un
arco di tempo prolungato. Bisognava facilitare l’inserimento dei profughi nelle nuove sedi, garantendo loro agevolazioni nelle assunzioni
negli impieghi pubblici, nella concessione di licenze professionali e
di temporanei sussidi di disoccupazione. Sul piano simbolico Tacconi
e Pezzoli ritenevano importante che il governo di Roma concedesse
una rappresentanza parlamentare anche alla minoranza italiana della
Dalmazia iugoslava, nominando prossimamente senatore del Regno
«un patriota della Dalmazia non annessa»20.
Le richieste avanzate dai Fasci Nazionali Italiani della Dalmazia
toccavano molti problemi, non tutti risolvibili unilateralmente dal governo di Roma. Con il pretesto della reciprocità, ad esempio, il governo iugoslavo poteva facilmente escludere i dalmati che avessero assunto la cittadinanza italiana da gran parte delle attività professionali. Alcune richieste dei dalmati italiani avrebbero poi comportato ingenti impegni finanziari da parte del governo. Il governo di Roma, comunque, desiderava esaudire il più possibile le richieste di Tacconi e
Pezzoli per ragioni di politica interna (soddisfare le tesi dei naziona19
20
Ibidem.
Ibidem.
346
LUCIANO MONZALI
listi e dei fascisti) e al fine di convincerli a sostenere presso i loro seguaci la difficile scelta a favore delle opzioni per l’Italia. Nell’ambito
di un atteggiamento di maggiore disponibilità del governo verso le esigenze dei dalmati italiani vi fu, il 20 agosto 1921, l’emanazione di un
nuovo decreto sulla conversione delle corone austro-ungariche in lire
in Dalmazia, che modificò alcune clausole del decreto del giugno
192121. Il nuovo decreto assicurava la conversione delle corone anche
a quei dalmati del territorio annesso che avessero importi superiori ai
limiti stabiliti per legge, al tasso di 7 centesimi per corona. Vi era poi
la possibilità per il Ministero del Tesoro di provvedere alla concessione
di speciali sussidi per i dalmati del territorio annesso e per i profughi
delle regioni sgombrate. Fu poi aumentato il fondo previsto per la conversione delle corone da sessanta a ottanta milioni di lire22. L’esecutivo
Bonomi concesse anche alcune agevolazioni economiche agli impiegati, agli insegnanti e agli studenti dalmati23. Un chiaro segnale della
volontà del governo di Roma di assecondare in parte i desideri dei dalmati fu la conferma della decisione, già presa da Sforza, di sostituire
al consolato di Spalato Amadori, inviso agli italiani locali e attaccato
dalla stampa, con Carlo Umiltà. Il nuovo console creò un rapporto di
amichevole collaborazione con i capi del partito italiano locale, in particolare con Antonio Tacconi, dimostrandosi maggiormente capace di
svolgere una funzione di mediazione fra il governo e la minoranza.
Nelle sue memorie, Umiltà ci ha lasciato una descrizione della Dalmazia all’inizio degli anni Venti, nella quale, a suo parere, nonostante le lotte nazionali e le strumentalizzazioni di alcuni gruppi estremisti e pur tra vari dissidi politici, le differenti componenti nazionali della società dalmata riuscivano a convivere e a coesistere in maniera abbastanza pacifica.
Effettivamente le secolari diatribe tra italiani e croati in Dalmazia non avevano mai impedito loro di vivere, collaborando al benessere e al progresso
della regione; avevano in comune la religione e, in un certo senso, anche le
due lingue, parlate promiscuamente e intese tutte e due da tutti e, specialmente, nelle città della costa, numerosissime famiglie si dicevano italiane o
21 Testo del regio decreto-legge del 20 agosto 1921, n. 1125, riprodotto in WILDAUER, I
problemi economici, cit., pp. 85-86.
22 Ibidem.
23 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Ministero della Pubblica Istruzione alla Presidenza
del Consiglio dei Ministri e al Ministero degli Esteri, 29 agosto 1921; ivi, b. 20, Salata al console italiano a Spalato, 20 agosto 1921.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
347
croate senza una decisa convinzione, in quanto che gente dai nomi italianissimi professava sentimenti croati e viceversa e in non poche famiglie alcuni
membri si dicevano italiani, altri croati e, infine, non erano rari i matrimoni
che univano famiglie e nomi di persone di sentimenti contrari24.
Umiltà cercò di conquistarsi la fiducia dei notabili italiani di
Spalato e di mediare fra il governo di Roma e i capi della minoranza,
puntando a convincere questi ultimi a favorire le opzioni in cambio
dell’impegno dell’Italia a ottenere da Belgrado alcune garanzie a loro vantaggio. Il 4 agosto il console scrisse al Ministero degli Esteri
consigliando di affrettare la definizione degli accordi italo-iugoslavi
circa il problema delle opzioni e la questione delle scuole: ciò al fine
di evitare il riesplodere delle lotte nazionali in Dalmazia. Chiarire le
condizioni, la forma e le conseguenze giuridiche delle opzioni avrebbe avuto «l’effetto immediato di tranquillizzare l’elemento italiano e
di porlo in grado di provvedere stabilmente al proprio avvenire»25.
Consentire l’apertura di scuole italiane prima dell’inizio del nuovo anno scolastico avrebbe contribuito non poco a salvare la lingua italiana in Dalmazia «poiché […] qualora, non essendovi scuole italiane,
tutti i bambini fossero costretti a frequentare le scuole croate, sarebbe poi quasi impossibile fare loro abbandonare, ad anno incominciato, quest’insegnamento, per attirarli nelle scuole italiane che eventualmente si aprissero»26. Fondamentale, a parere di Umiltà, era la specificazione del contenuto dell’articolo VII del trattato di Rapallo attraverso nuovi accordi specifici con il governo di Belgrado27. Risultato
dei suoi contatti con i capi della minoranza fu un progetto di schema di
convenzione che Umiltà inviò alla Legazione italiana a Belgrado e al
Ministero degli Esteri a Roma il 12 sett. 192128. Questo progetto di con24 UMILTÀ, op. cit., p. 26.
25 ASMAE, GAB 1923-43, AF,
b. 17, Umiltà al Ministero degli Esteri, 4 agosto 1921.
Ibidem.
27 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Umiltà al Ministero degli Esteri, 3 settembre 1921.
28 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Umiltà a Legazione italiana a Belgrado e a
Ministero degli Esteri, 12 settembre 1921, con allegato. Questo era il progetto: «1) L’opzione
per la cittadinanza italiana prevista dall’art. VII n. 2 del Trattato di Rapallo verrà esercitata
davanti all’autorità politica e consolare italiana del luogo ove risiede l’optante e communicata allo Stato S.H.S. dal quale verrà presa notizia. 2) Le persone le quali entro il termine
contemplato dal suddetto art. opteranno per la cittadinanza italiana, continuando a rimanere
in paese, non decaderanno perciò dal diritto di esercitarvi quelle arti, mestieri, professioni ed
industrie di cui fruivano al momento del crollo della Monarchia a.u., in base a titoli acquisiti sotto il regime di questa o a titoli ritenuti equipollenti a sensi dell’art. VII n. 3 del Trattato
di Rapallo, quand’anche a tale scopo sia di regola richiesta la cittadinanza del paese. 3) Il li26
348
LUCIANO MONZALI
venzione mirava a specificare, a vantaggio della minoranza, l’applicazione dell’articolo VII del trattato di Rapallo e rispondeva al «minimo
di aspirazioni» dei dirigenti degli italiani dalmati. Pur presentando questo progetto, Umiltà si dimostrò scettico circa la possibile applicazione
di parti di esso. Difficilmente il governo iugoslavo avrebbe accettato l’articolo II, che prevedeva il riconoscimento di diritti professionali, quali,
ad esempio, l’avvocatura, per gli optanti. L’uso della lingua italiana negli uffici pubblici era, secondo il console, ormai impossibile.
Il continuo esodo degli elementi italiani e la continua assunzione da parte del nostro Governo d’impiegati dalmati di lingua italiana, hanno completamente spopolato questi Uffici pubblici di personale italiano. I posti vacanti sono stati coperti da croati e serbi che ignorano la nostra lingua, mentre i pochi
italiani rimasti non desiderano che andarsene dall’ambiente abituale divenuto per loro completamente estraneo, se non ostile. L’uso quindi della lingua
italiana negli Uffici e nella vita pubblica qui è già praticamente ormai impossibile per fatto, se non per colpa, degli italiani di qui e del nostro Governo29.
In realtà il Ministero degli Esteri italiano non mostrò grande fretta nell’aprire e nel condurre negoziati con la controparte iugoslava sul-
bero uso della propria lingua ed il libero esercizio della propria religione, di cui all’art. VII
n. 2 del Trattato di Rapallo, avranno per coloro che opteranno per la cittadinanza un contenuto in nessun caso inferiore a quello contemplato dal Trattato accettato dallo Stato S.H.S.
con dichiarazione di Parigi 5 dicembre 1919 a favore delle minoranze etniche nel proprio territorio. In particolare, in basi ad entrambi le suddette disposizioni: a) L’uso della lingua italiana negli uffici e nella vita pubblica in Dalmazia sarà consentito nella misura prevista dalle leggi e dalle ordinanze austriache che erano in vigore in questa provincia al momento del
crollo della Monarchia a.u. b) Nelle città e borgate maggiori della Dalmazia potranno venir
istituite scuole elementari italiane di Stato, alle quali potranno indistintamente accedere cittadini italiani e cittadini dello Stato S.H.S. con esonero dall’obbligo di frequentare le pubbliche scuole del paese; tanto in queste scuole, quanto nelle eventuali scuole private italiane
da istituirsi in Dalmazia saranno ammessi docenti abilitati nelle scuole normali del Regno
d’Italia. 4) La facoltà di conservare il possesso di beni immobili prevista dall’articolo 3 del
Trattato accettato dallo Stato S.H.S. con dichiarazione di Parigi 5 dicembre 1919, competerà
indistintamente tanto a quelli che, optando per la cittadinanza italiana, abbandonino il paese,
quanto a quelli che continuino a rimanervi valendosi della facoltà prevista dall’art. VII n. 2
del Trattato di Rapallo, ed implicherà la conseguenza che essi non potranno venir privati e limitati nel relativo possesso, come fruito al momento del crollo della Monarchia a.u., per disposizione della legislazione interna dello Stato S.H.S., senza che sia loro prestato un pieno
indennizzo. 5) Coloro che optando per la cittadinanza italiana intendano abbandonare il paese potranno, senza limitazione di tempo, asportar la propria sostanza mobile, libera da ogni
diritto d’uscita e percepire pure senza alcuna limitazione all’estero le rendite della propria
sostanza immobile».
29 Ibidem.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
349
le opzioni e su eventuali garanzie a favore della minoranza italiana dalmata. Fra la fine di luglio e l’inizio dell’agosto 1921 il governo di
Roma si limitò ad emanare alcune istruzioni circa i documenti richiesti
al fine di ottenere l’opzione per la cittadinanza italiana30; si stabilì poi
che sarebbe stata riservata al Commissariato civile di Zara la competenza a decidere sulle dichiarazioni di opzione per la cittadinanza italiana dei dalmati di nazionalità italiana residenti nella Dalmazia non
annessa o altrove all’estero, mentre le richieste d’opzione sarebbero
state raccolte dalle varie rappresentanze diplomatiche e consolari31.
Ma, nonostante le sollecitazioni provenienti dai consolati in Dalmazia32, per vari mesi Della Torretta non aprì una discussione con Belgrado sul concreto svolgimento delle opzioni nel Regno SHS. Il ministro
uscì dal suo torpore solo alla fine di ottobre. Il 22 ottobre 192133
Umiltà riferì che a Zara il Commissariato civile aveva cominciato a
pubblicare liste di connazionali dalmati ai quali era stata riconosciuta la cittadinanza italiana in seguito ad opzione; questo fatto gli era
stato fatto notare dal governatore della Dalmazia iugoslava.
Questo Governatore mi ha fatto osservare che nella questione opzione i
30
Questi erano i documenti richiesti per l’opzione:
«1. atto di nascita dell’optante, se questi è celibe (nubile);
2. se invece è ammogliato, stato di famiglia dal quale risultino la data e il luogo di nascita dell’optante, dell’altro coniuge e dei discendenti;
3. certificato, dal quale risulti l’attuale pertinenza con la data e il modo di acquisto e quella anteriore o degli ascendenti;
4. l’abitazione dell’optante e se questi non risiede entro i confini del Regno, l’indicazione
di una persona, domiciliata in un Comune delle nuove Provincie, alla quale possano venir fatte le eventuali notifiche;
5. per coloro che hanno servito nel R. Esercito o loro discendenti un certificato di congedo o di benservito;
6. per coloro che non hanno il domicilio entro i confini del Regno, un atto di notorietà
esteso presso la nostra autorità consolare del territorio in cui l’optante ha il domicilio e firmato da quattro testimoni, i quali attestino che il richiedente è di nazionalità italiana per discendenza, origine e lingua d’uso; (per coloro che hanno trasferito il domicilio in un Comune
del Regno, tale atto va esteso presso un Ufficio municipale).
Si fa presente che possono agire indipendentemente nell’opzione soltanto le persone che
il giorno 18 gennaio 1921 abbiano raggiunto il 18° anno d’età. L’opzione del marito implica
quella della moglie e quella dei genitori l’opzione dei discendenti minori di 18 anni»:
(ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 47, Commissariato civile di Zara al console italiano a
Sebenico, 5 agosto 1921).
31 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Salata al Ministero degli Esteri, 9 agosto 1921.
32 Ad esempio: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Consolato italiano in Ragusa al
Ministero degli Esteri, 30 agosto 1921.
33 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Umiltà a Della Torretta, 22 ottobre 1921.
350
LUCIANO MONZALI
due Governi non sono ancora d’accordo. Pertanto se nessun inconveniente potrà nascere per gli optanti che sono partiti dalla Dalmazia, le contestazioni
saranno infallibili per gli optanti di nazionalità contestata specialmente per
quelli che rimangono in Dalmazia34.
Per evitare inconvenienti Umiltà ribadì l’urgenza di iniziare trattative su questo argomento con il governo di Belgrado. Sempre in quei
giorni si svolse la Conferenza economica di Porto Rose35. In questa
occasione, Rybar, capo della delegazione iugoslava, chiese al funzionario italiano Righetti, già membro della Commissione economica italo-iugoslava, se fosse possibile riprendere le trattative bilaterali su Zara
e sulla Dalmazia separatamente dagli altri problemi del contenzioso
fra i due Paesi36. Sotto la pressione degli eventi, il Ministero degli
Esteri italiano diede istruzioni al ministro plenipotenziario a Belgrado,
Manzoni, di affrontare il problema della ripresa dei negoziati sulla
Dalmazia e dell’applicazione delle opzioni con le autorità iugoslave.
L’8 novembre Manzoni rilevò di avere chiesto più volte al Ministero
istruzioni specifiche e la documentazione necessaria per aprire negoziati su tale problema nei mesi passati, senza però ottenere risposta da
Roma37. Nei giorni successivi il diplomatico italiano ebbe numerosi
colloqui con Popovic!, vice ministro degli Affari Esteri e uomo di fiducia di Pas#ic!. Popovic! ribadì il punto di vista del governo di Belgrado
sull’applicazione del trattato di Rapallo.
Il signor Popovich – riferì Manzoni – iniziò il primo colloquio col suo solito ritornello che il Trattato di Rapallo è un «Trattato di evacuazioni e di
Commissioni», un Trattato cioè in cui le obbligazioni sono essenzialmente per
una delle parti contraenti, e le evacuazioni stabilite immediatamente ed incondizionatamente esecutive, mentre tutte le altre decisioni previste dal Trattato
(le quali sono quelle che più particolarmente interessano noi) verranno dopo.
Poi, ha chiesto l’immediata evacuazione della città di Susak. La avvenuta regolarizzazione delle cose a Fiume, egli ha detto, toglie ogni giustificazione alla continuazione dell’occupazione da parte delle truppe italiane di quella città:
non potete più rimanervi: evacuate dunque: questo vostro atto ristabilirà la fiducia tra i due Paesi e permetterà tutte le altre esecuzioni del Trattato38.
34
Ibidem.
riguardo: MARSICO, op. cit.
36 ASMAE, Carte Salata, b. 206, Righetti a Salata, 27 ottobre 1921.
37 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Manzoni al Ministero degli Esteri, 8 novembre 1921.
38 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Manzoni al Ministero degli Esteri, 14 novembre
1921.
35 Al
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
351
Manzoni ribadì la volontà del governo di Roma di procedere all’applicazione complessiva del trattato, compresa la regolazione dei
diritti della minoranza italiana in Dalmazia. Alla richiesta di evacuazione della terza zona dalmata egli oppose la necessità di regolare previamente i rapporti economici e giuridici fra Zara e il suo retroterra.
Alla fine dei colloqui, Manzoni riassunse la posizione del governo di
Belgrado circa la ripresa dell’esecuzione di Rapallo in tre punti:
1°) le Commissioni di delimitazioni riprendano i loro lavori;
2°) si cominci colle evacuazioni dovute e da quella della città di Sussak;
3°) si riprendano i lavori delle Commissioni Economica e Culturale.
Aggiungo che è ben inteso che contemporaneamente si discuteranno e risolveranno tutte le questioni relative alla esecuzione dell’art. 2 e dell’art. 7
n. 2 del Trattato di Rapallo39.
In una lettera personale a Della Torretta, Manzoni sottolineò l’urgenza di ricreare fiducia verso l’Italia a Belgrado.
In tutte le conversazioni avute con uomini politici, anche notoriamente nelle disposizioni dello spirito del Trattato di Rapallo, […] sento ripetere che
noi non diamo la sensazione di voler risolutamente eseguire quel Trattato e
che ciò ha fatto nascere un senso di diffidenza a riguardo nostro. Il quale tanto più facilmente si è manifestato quando sono intervenuti altri avvenimenti
pei quali si è avuta qui la sensazione che l’Italia mutasse la sua politica andando verso atteggiamenti non concordanti cogli interessi di questo paese. Il
signor Popovich mi ha detto che il prezzo del chiarimento è l’evacuazione di
Susak. Se lo fate subito, ha detto, la fiducia rinascerà. […] Qui, colla situazione interna e parlamentare assai complicatesi in questi ultimi tempi; col consequente bisogno di attenuare l’opposizione croata in materia di politica interna e politica estera ed anche di una parte dei Serbi in punto di politica estera, si dice di aver bisogno di un atto nostro per poter arrivare a tutti gli accordi a cui il Trattato di Rapallo dovrebbe condurre. Ed io credo che in ciò
vi è del vero, e che è nostro interesse aiutare, in quanto gli interessi nostri lo
consentono, il Pasich nella sua opera, perché è essenzialmente con lui, l’uomo più autorevole di questo paese, che possiamo intenderci40.
Di fatto le richieste iugoslave mettevano in grave difficoltà Bonomi
39
40
1921.
Ibidem.
ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Manzoni al Ministero degli Esteri, 14 novembre
352
LUCIANO MONZALI
e Della Torretta, il cui governo era troppo debole sul piano interno e
di fronte alle destre fascista e nazionalista per permettersi di procedere con le evacuazioni adriatiche. Della Torretta, poi, aveva abbandonato la politica di Sforza, per cercare di affermare l’influenza
dell’Italia in Ungheria, in Austria e in Albania. Le idee di Della Torretta
e l’interesse di Bonomi a soddisfare i gruppi fascisti e nazionalisti con
concessioni in politica estera, provocarono un’evoluzione della politica estera italiana in senso anti-iugoslavo. La politica italiana in
Albania – proprio in novembre l’Italia otteneva con la firma della dichiarazione della Conferenza degli ambasciatori sugli interessi italiani in Albania la conferma internazionale del proprio ruolo in quella
regione41 –, a Fiume e circa la controversia del Burgenland, erano elementi che ponevano Roma e Belgrado in una posizione di contrasto.
Un’inevitabile conseguenza di tutto ciò fu una sostanziale stasi nei rapporti bilaterali fra i due Paesi fra la fine del 1921 e l’inizio del 1922,
con nessun progresso nell’applicazione del trattato di Rapallo42. Riguardo alla gestione dei rapporti con la Iugoslavia, il diplomatico francese Charles-Roux riferì al suo governo dell’esistenza di un forte contrasto fra Della Torretta e Contarini, con quest’ultimo, favorevole a
buoni rapporti con Belgrado, pronto alle dimissioni perché contrario
all’indirizzo politico seguito dal ministro degli Esteri43. Le difficoltà
nei rapporti italo-iugoslavi, l’ambiguità dell’atteggiamento dell’esecutivo Bonomi-Della Torretta verso la minoranza italiana dalmata, e
l’azione incoerente della Consulta verso il problema delle opzioni, provocarono una crescente tensione fra il governo di Roma e i capi politici degli italiani della Dalmazia iugoslava. Della Torretta era desideroso di ottenere il massimo numero possibile di opzioni a favore
dell’Italia a qualunque costo per ragioni di prestigio, mentre i capi del-
41 Al riguardo: MICHELETTA, op. cit., II, pp. 483-493; AMEDEO GIANNINI, L’Albania dall’indipendenza all’unione con l’Italia (1913-1939), Milano, 1940; PIETRO PASTORELLI, Italia
e Albania 1924-1927. Origini diplomatiche del Trattato di Tirana del 22 novembre 1927,
Firenze, 1967, pp. 14-18.
42 All’inizio di dicembre Manzoni, in collaborazione con i consoli italiani di Spalato e
di Sebenico, redasse un elenco delle questioni da risolvere per l’applicazione degli articoli 2
e 7 del trattato di Rapallo e un progetto di convenzione per definire l’equa ripartizione dei
beni provinciali e comunali di Zara e del circostante territorio. L’iniziativa, però, rimase priva di applicazione concreta: ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Manzoni a Della
Torretta, 9 dicembre 1921, con allegati.
43 AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 80, Charles-Roux al ministro degli Esteri, 16
febbraio 1922.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
353
la minoranza italiana in Dalmazia, consapevoli dei rischi che l’opzione per l’Italia comportava, chiedevano garanzie a proprio vantaggio,
minacciando in caso contrario la rinuncia all’opzione per la cittadinanza italiana. Di fronte all’impossibilità o alla scarsa volontà del governo di Roma di offrire risposte concrete a molte richieste dei dalmati, i capi della minoranza rimasero a lungo dubbiosi sull’opportunità di optare per la cittadinanza italiana. Per gli italiani dalmati la scelta fra la cittadinanza italiana e quella iugoslava era difficile: assumere la cittadinanza italiana significava separarsi giuridicamente e politicamente dal resto della società dalmata; si andava poi incontro a innumerevoli problemi sul piano giuridico e professionale, come dimostrò il grave problema della libera attività professionale degli avvocati italiani. Una parte significativa degli italiani dalmati preferiva la cittadinanza iugoslava al fine di non subire intralci e discriminazioni nella propria vita professionale e sociale: ma facendo ciò perdeva la possibilità di un’effettiva tutela dei propri diritti linguistici e nazionali, e
accettava implicitamente la futura assimilazione da parte croata. Il 21
novembre Umiltà informò Roma del crescere dell’ostilità della stampa dalmata iugoslava verso le opzioni44. Il diffondersi fra la comunità
italiana di Spalato di timori circa le conseguenze giuridiche dell’opzione per la cittadinanza italiana creava confusione. Il console chiese
al governo di Roma di poter assicurare agli italiani spalatini che gli
optanti sarebbero rimasti liberi di esercitare qualunque professione e
commercio: tali assicurazioni erano necessarie per tranquillizzare coloro che avevano già optato e per incoraggiare quelli che avevano intenzione di optare45. La stampa iugoslava sfruttò non poco questi timori che angosciavano gli italiani dalmati. Il «Novo Doba», il principale giornale di Spalato, pubblicò il 15 dicembre 1921 un articolo, minaccioso ma realistico nelle previsioni, sulla questione delle opzioni46.
L’anonimo articolista riconosceva l’esistenza di una popolazione italiana a Spalato e l’invitava a scegliere la cittadinanza iugoslava e a diventare a tutti gli effetti talijani domac!i e non talijani strani. La scelta della cittadinanza italiana avrebbe fortemente aggravato la posizione
dei dalmati di lingua italiana, privandoli di diritti elettorali passivi e
attivi, rendendo impossibile l’accesso agli impieghi pubblici, impe44 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Umiltà a Ministero degli Esteri, 21 novembre 1921.
45
Ibidem.
«Novo Doba», 15 novembre 1921, Posljedice prava opcije. (“talijiani domac!i”, “talijiani strani”).
46
354
LUCIANO MONZALI
dendo loro di svolgere certe professioni private come ingegneri, medici, ecc., e ostacolando ogni loro attività industriale. Più conveniente, invece, era scegliere la cittadinanza iugoslava, che avrebbe garantito l’eguaglianza di diritti con il resto della popolazione e la possibilità di tutelare in ogni caso la cultura italiana. L’ostilità iugoslava a un
ampio numero di opzioni per l’Italia era uno degli elementi di una nuova situazione politica in Dalmazia e nei rapporti fra Roma e Belgrado.
Dopo il trattato di Rapallo, come abbiamo visto, per molti mesi si era
avuto un miglioramento dei rapporti politici italo-iugoslavi e pure la
tensione nazionale in Dalmazia si era in parte affievolita. Rappresentante di una politica di distensione verso l’elemento italiano in
Dalmazia era stato il dalmata serbo Uros Desnica, vicepresidente del
governo provinciale. Desnica, però, era stato sostituito ed era ricominciato un periodo di tensioni nazionali. Il suo successore, Stevo
Metlic#ic!, zaratino, abituato a vivere in mezzo all’elemento italiano, era
ritenuto dai dalmati italiani un potenziale continuatore della politica
benevola e conciliante di Desnica; ma pochi giorni prima della sua venuta a Spalato fu aggredito e malmenato da un gruppo di fascisti italiani, a pochi passi dalla sua casa a Zara. Di fatto il suo arrivo al governatorato a Spalato coincise con la ripresa delle ostilità contro gli
italiani47. Il peggioramento della situazione in Dalmazia era motivato
anche dall’involuzione dei rapporti fra l’Italia e il governo di Belgrado.
A partire dall’autunno le autorità governative dalmate diventarono più
restie a facilitare la soluzione di piccole controversie, presentandosi
zelanti nell’applicazione della legge anche quando ciò rendeva meno
facili le relazioni fra italiani e croati. Nell’ottobre 1921 Umiltà constatò pessimisticamente a questo riguardo:
In questo poco tempo sono sorte le questioni dell’apertura della scuola
italiana a Spalato, dell’istituzione di una parrocchia italiana […] e dell’uso
della lingua italiana da parte di questi connazionali, sia nei tribunali, che nelle pratiche d’ordine amministrativo. Tale uso viene da qualche settimana sempre più ristretto nelle cause giudiziarie e addirittura negato nelle trattazioni
amministrative, mentre la stampa ha iniziato e continua sempre aggravandola, una campagna contro l’uso della lingua italiana, che fino ad ora era adoperata anche dalla maggior parte della popolazione croata, campagna che è
arrivata perfino a questo estremo di vietare alle musiche e ai concerti e nei
47 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Umiltà a Ministero degli Esteri e Legazione italiana a Belgrado, 24 ottobre 1921.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
355
caffè e nei cinematografi, e nei pubblici ritrovi di suonare brani di autore italiano. Tale stato di cose porta come conseguenza che fino a tanto che gli italiani si limitano a non dar segno di vita, a optare e a partire come profughi,
tutto è relativamente tranquillo. Ma non appena o i connazionali o il Consolato
o le circostanze portano a sfiorare una qualunque questione che anche da lontano accenni ad una sia pur modesta affermazione o tentativo di affermazione di italianità, allora governo, stampa, clero ed elemento croato, capeggiati
dai fascisti locali – che non hanno niente da invidiare ai loro colleghi d’Italia
– sono concordi e uniti a intralciare, impedire, soffocare sia coi pretesti, che
con le tergiversazioni, le intimidazioni e la violenza, qualunque continuazione o nuovo tentativo d’italianità48.
In questo contesto di crescente difficoltà, era arduo per i capi italiani consigliare a cuor leggero ai propri connazionali di optare per la
cittadinanza italiana. Le diffidenze e i dubbi di molti dalmati italiani
resero incerto il numero delle opzioni a favore dell’Italia per vari mesi. Il 24 novembre Umiltà ricordò l’interesse dell’Italia a spingere gli
italiani spalatini, che avevano nelle loro mani il controllo di una parte importante delle attività industriali e commerciali della Dalmazia
centrale, ad optare per la cittadinanza italiana:
Il ritardo nell’opzione di questi elementi, che tanto peso hanno nella vita economica del paese e che tanto vantaggio darebbero all’Italia se divenissero nostri cittadini, deve attribuirsi alla ancora non definita situazione di questi italiani che, dopo l’opzione, rimarranno in Dalmazia. Finora hanno approfittato di tale diritto quelli che sono partiti e molti operai, contadini e piccoli negozianti, che non hanno gran che da temere nelle eventuali rappresaglie delle autorità jugoslave. Mentre i grossi proprietari di terreni e di case,
i grandi commercianti e i grandi industriali sono ancora titubanti se optare o
meno49.
Il console rilevò che, nel novembre 1921, i capi italiani di Spalato
avevano ancora molte remore sulla scelta dell’opzione a favore dell’Italia e non si ritenevano pienamente tutelati e compresi dal governo di Roma. Tacconi e Pezzoli si sarebbero prossimamente recati a
Roma per negoziare e ottenere maggiori concessioni e tutele a favore
della minoranza. Umiltà ricordò al governo che senza l’invito dei ca-
48
Ibidem.
ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Umiltà a Ministero degli Esteri e Legazione italiana a Belgrado, 24 novembre 1921.
49
356
LUCIANO MONZALI
pi del Fascio Nazionale la maggior parte degli italiani spalatini non
avrebbe scelto la cittadinanza italiana.
I due avvocati, Pezzoli e Tacconi, hanno si può dire in mano tutta la massa degli italiani di questa regione, i quali, seguendo le direttive date loro dai
due predetti Signori, si riservano di optare solo al loro ritorno, quando cioè,
come sperano, avranno la sicurezza che le loro proposte saranno definitivamente accolte50.
Umiltà mise in guardia il governo di Roma dal sottovalutare l’importanza dei futuri negoziati con Pezzoli e Tacconi.
Allo scopo perciò di non far cadere proprio l’ultimo giorno tutta la massa degli optanti, mi permetto di raccomandare a Vostra Eccellenza che nelle
conversazioni coi Signori Pezzoli e Tacconi, vengano dati loro possibilmente pochi ma sicuri affidamenti, in maniera da non ripetere la già dolorosa storia di ampie promesse, che non si sono poi mai potute mantenere e che hanno prodotto in questi dirigenti una impressione sfavorevole sui provvedimenti
del nostro Governo, impressione che ha poi avuto il suo contraccolpo nel farci perdere qui molte simpatie e non poche possibili opzioni51.
Alla fine di novembre i Fasci Nazionali Italiani della Dalmazia prepararono due ulteriori memoriali, elencando nuovamente le loro richieste52. Essi erano preoccupati per le possibili conseguenze economiche e giuridiche delle opzioni, col rischio di perdere il possesso delle proprietà o il diritto di svolgere certe professioni (ingegneri, geometri, avvocati, medici, farmacisti) o determinate attività nel campo
del commercio e dell’industria. Desideravano che il governo di Roma
garantisse la sopravvivenza giuridica delle associazioni e delle istituzioni italiane, nonché il libero uso della lingua italiana53. I Fasci
Nazionali Italiani, poi, chiedevano sostegno economico governativo
per i dalmati che si recavano a studiare in Italia e per i profughi. Per
questi ultimi, il governo doveva continuare a garantire un forte sostegno economico. Tacconi e Pezzoli, in particolare, contestarono la re-
50 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Umiltà a Ministero degli Esteri, 14 novembre 1921.
51
Ibidem.
UNP, b. 73, I FASCI NAZIONALI ITALIANI DELLA DALMAZIA, Osservazioni ed aggiunte al Memoriale prodotto dai Fasci Nazionali Italiani della Dalmazia nel luglio 1921 a
S.E. il ministro degli Affari Esteri, 26 novembre 1921.
53 Ibidem.
52 ACS,
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
357
cente decisione governativa di limitare le agevolazioni economiche soltanto a quei profughi dalmati «che sarebbero stati costretti ad abbandonare le loro sedi in seguito a persecuzione»54. Tale atteggiamento
del governo italiano, per Tacconi e Pezzoli, era del tutto ingiustificato poiché «gli esodi per lo più avvengono non già in seguito ad avvenimenti particolari a danno dei singoli, ma in seguito alla situazione
generale sorta nella Dalmazia assegnata allo Stato SHS, per cui molti degli italiani si trovano per ragioni economiche e morali indotti ad
abbandonare le proprie sedi»55.
Nella prima metà di dicembre si svolsero a Roma alcuni colloqui
fra Tacconi, Pezzoli, Krekich, Contarini, Manzoni, Umiltà, e De
Angelis. Da un successivo rapporto di Manzoni56, sappiamo che
Tacconi e Pezzoli chiesero al governo italiano chiarimenti su vari
aspetti concernenti le opzioni e la situazione degli italiani optanti e di
quelli che non avrebbero optato, senza essere pienamente soddisfatti
dai chiarimenti ricevuti.
Ma la natura degli Italiani dalmati – rilevò Manzoni – è forse stata resa
troppo sensibile, troppo diffidente, dalla lunga, astiosa lotta sostenuta contro
tutti gli avversari che l’Austria avventava contro di loro. Non mi meravigliò
quindi che l’Avv. Tacconi, che più dell’Avvocato Pezzoli dimostrò di aver subito l’influenza dell’ambiente dalmata, pur riconoscendo la giustezza di quasi tutte le vedute da me espostegli sui problemi esaminati in comune, terminasse dicendo che la conoscenza che egli aveva dell’anima croata jugoslava
del litorale e dei politicanti jugoslavi del centro e della periferia, era tale che
egli doveva continuare a vivere nella diffidenza circa la futura sorte degli italiani optanti che rimanevano in territorio jugoslavo, e non poteva perciò consigliarli ad optare57.
Il governo Bonomi continuò a studiare le richieste dei dalmati italiani. Ma l’applicazione di eventuali garanzie per la minoranza italiana nel campo professionale e riguardo alle proprietà dipendeva dal consenso del governo iugoslavo ed un negoziato con questo a tale proposito venne intrapreso solo nella primavera del 1922, nelle conversa-
54 ACS, UNP, b. 73, I FASCI NAZIONALI ITALIANI DELLA DALMAZIA, Osservazioni ed aggiunte
al Memoriale prodotto dai Fasci Nazionali Italiani della Dalmazia nel luglio 1921 a S.E. il
presidente del Consiglio dei Ministri, 28 novembre 1921.
55 Ibidem.
56 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, Manzoni al Ministero degli Esteri, 3 gennaio 1922.
57 Ibidem.
358
LUCIANO MONZALI
zioni italo-iugoslave di Santa Margherita. Il governo italiano scelse di
procedere unilateralmente nella raccolta delle domande di opzioni in
Dalmazia58, ponendo gli italiani di Dalmazia di fronte ad una scelta
radicale: l’opzione per la cittadinanza italiana o il possesso di quella
iugoslava. Infatti il 13 dicembre Della Torretta inviò una circolare ai
consoli in Dalmazia che ribadì che il termine utile per optare scadeva la sera del 1° febbraio 1922 e riassumeva i criteri per stabilire la
«qualità d’“Italiano”» secondo l’articolo VII del trattato di Rapallo59.
Dalla corrispondenza consolare sappiamo che ancora poche settimane prima della scadenza del termine delle opzioni tanti erano i dubbi e le incertezze nelle collettività italiane dalmate sul da farsi. Il 31
dicembre 1921 il consolato a Ragusa segnalò che in Dalmazia meridionale il numero di domande di opzione per la cittadinanza italiana
era alquanto inferiore ad ogni previsione:
Ciò è dovuto, superfluo il dirlo, alla situazione stagnante dei nostri rapporti con la Jugoslavia: tuttora mancata precisione della portata dell’art. VII
del Trattato di Rapallo, conseguente stato di animo di questa popolazione italiana, portata, in base anche a certi inattesi indizi e a voci tendenziose qui
diffuse (diniego delle patenti industriali, probabile mancanza di garanzie circa la facoltà di mantenere la pristina pertinenza, con conseguente possibilità
di sfratto, ecc.) a ravvisare l’avvenire con occhio pessimistico60.
A Ragusa molti italiani, che in precedenza avevano manifestato intenzione di optare, erano ormai decisi a rimanere cittadini iugoslavi,
58 Al riguardo: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Umiltà al Ministero degli Esteri, 10
gennaio 1922.
59 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Della Torretta ai consoli in Spalato, Sebenico,
Ragusa e agli agenti consolari in Veglia e Curzola, 13 dicembre 1921, con allegato, in minuta, intitolato Criterii per stabilire la qualità di “Italiano” per l’art. VII del trattato di Rapallo:
Questi erano i criteri: «1°) La nazionalità sarà essenzialmente determinata dalla lingua d’uso, dalla notoria e costante manifestazione della persona optante, dalla sua volontà liberamente
manifestata. 2°) Le modalità per l’opzione sono: 1. La domanda dell’optante, da rivolgersi
alla competente autorità consolare, debitamente documentata (certificato di pertinenza, atto
di nascita e stato di famiglia se trattasi di coniugato). 2. La redazione di un atto di notorietà,
alla presenza e colla firma di 4 testimoni i quali attesteranno che l’optante è italiano in base
ai criteri di cui al n.1. 3°) La trasmissione della domanda e dell’atto di notorietà al Commissario Civile di Zara per la sua decisione sulla richiesta di cittadinanza italiana. 4°)
L’iscrizione sui registri dei nazionali del competente Consolato, delle opzioni accolte dal
Commissario Civile di Zara, colla precisazione del Comune del Regno nel quale resta fissato il domicilio legale dell’optante».
60 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Consolato italiano in Ragusa al Ministero degli
Esteri, 31 dicembre 1921.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
359
«specie coloro che hanno interessi rilevanti da tutelare, per non esporsi a persecuzioni ed angherie»61.
Sintomatico dei dubbi che continuavano a serpeggiare nelle comunità italiane della Dalmazia iugoslava fu il messaggio che Pezzoli
e Tacconi inviarono a Della Torretta il 23 gennaio chiedendo ulteriori assicurazioni sul futuro degli optanti per l’Italia. Il governo iugoslavo e la stampa locale conducevano un’intensa campagna contro la
scelta per l’Italia prospettando condizioni di vita difficilissime per gli
optanti italiani: «Sottoscritti e numerosi migliori connazionali esercitarono già opzione. Altri molti perplessi affrontare incertezza situazione e intimidazioni avversari. Avendo anche recentemente avvenimenti riacutizzato situazione […] interessiamo vivamente V. E. adoperarsi con tutto impegno per conseguire prolungamento termine opzione»62.
Nonostante le richieste della minoranza e le insistenze dello stesso Umiltà63 il termine dell’opzione non venne per il momento prolungato e prorogato. Della Torretta cercò di rassicurare Tacconi e
Pezzoli comunicando loro che «efficaci pratiche per prolungamento
termine opzione sono già in corso»64. Ma ciò non era vero poiché
Manzoni da Belgrado, ricevuta copia della comunicazione del ministro, scrisse sbalordito a Della Torretta il 26 gennaio, pochi giorni prima della scadenza per le opzioni, che «nessuna istruzione mi era finora giunta per la proroga termine opzione. Eseguirò subito suoi ordini circa applicazione rimanente art. 7 attendendo istruzioni richieste ed intanto agisco a titolo personale»65.
Alla fine, nonostante tanti dubbi e incertezze, Tacconi e Pezzoli si
trovarono senza molte alternative: la scelta dell’opzione per la cittadinanza italiana era ormai inevitabile per quegli italiani che desideravano preservare un’autonoma identità culturale e nazionale. Per una
minoranza fortemente indebolita dalla divisione della Dalmazia e dalla grave crisi economica che aveva colpito la regione dopo lo smembramento dell’Impero asburgico, la protezione dello Stato italiano era
61 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Consolato italiano in Ragusa al Ministero degli
Esteri, 12 gennaio 1922.
62 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Pezzoli, Tacconi a Della Torretta, contenuto in
Umiltà a Ministero degli Esteri, 23 gennaio 1922.
63 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Umiltà a Ministero degli Esteri, 21 gennaio 1922.
64 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Ministro degli Esteri a Consolato italiano a Spalato,
25 gennaio 1922.
65 ASMAE, GAB 1922-43, AF, b. 22, Manzoni a Ministero degli Esteri, 26 gennaio 1922.
360
LUCIANO MONZALI
una risorsa ormai irrinunciabile, anche se i politici spalatini erano ben
consapevoli che l’opzione era un ulteriore fattore d’indebolimento della comunità italiana, poiché la divideva fra cittadini iugoslavi ed optanti, con i primi privi di quella tutela politica, giuridica e culturale
che il governo di Roma avrebbe potuto garantire. Tacconi e Pezzoli
cedettero quindi alle richieste del governo di Roma e consigliarono agli
italiani di Spalato di fare domanda per la cittadinanza italiana.
Il 3 febbraio 1922 il console italiano a Spalato commentò così lo
scadere del termine per le opzioni e il risultato di tale procedura:
Fino a ieri 2 corrente ultimo termine secondo Trattato Rapallo per presentare domanda di opzione hanno presentato domanda in questo consolato
oltre 900 famiglie. […] Nonostante campagna intimidatoria della stampa locale ed incidenti degli ultimi mesi gli italiani migliori per ricchezza e professione hanno optato mentre sono rimasti titubanti e finora non hanno optato in generale i piccoli negozianti. Malgrado ciò e comprendendo i regnicoli delle vecchie e nuove provincie abbiamo finora qui e nelle isole comprese nella giurisdizione di questo consolato un complesso di oltre cinquemila cittadini italiani che abbracciano i migliori proprietari di terre e di stabili, i più importanti commercianti coll’Italia e le più grandi industrie; se a
ciò si aggiungono alcuni professionisti, due Banche importanti e la nostra linea regolare di navigazione [fra l’] Italia, la Grecia, l’Egitto, l’Asia Minore,
il Mar Nero e l’Estremo Oriente nonché molti vapori e velieri straordinari, si
può dire di essere in mano italiana quanto di meglio e di più importante vi è
in questa parte della Dalmazia66.
Secondo Umiltà era ora necessario raggiungere intese con il governo di Belgrado tali da permettere la sopravvivenza degli interessi
italiani e la libertà di esercizio commerciale, industriale e professionale per questi nuovi cittadini italiani. Bisognava poi favorire una pacificazione politica e nazionale fra italiani e croati in modo da creare
le condizioni per una proficua collaborazione culturale ed economica e per il potenziamento del commercio italo-iugoslavo: di tale avviso erano anche gli italiani spalatini più intransigenti, ormai persuasi a mutare la linea politica finora condotta67. In realtà, anche dopo la
scelta dell’opzione, Tacconi e Pezzoli si mostrarono assai pessimisti
sul futuro dei dalmati italiani in Iugoslavia. Il 5 febbraio inviarono un
66 ASMAE,
67
Ibidem.
GAB 1923-43, AF, b. 22, Umiltà a Ministero degli Esteri, 3 febbraio 1922.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
361
messaggio a Della Torretta68 in cui rivendicarono ed esaltarono lo spirito patriottico che li aveva spinti a compiere la difficile scelta della
cittadinanza italiana, chiedendo in cambio che il governo di Roma
s’impegnasse maggiormente a difesa dei diritti della minoranza italiana in Dalmazia.
Nostri connazionali di fronte necessità decidere fino 2 Febbraio riguardo
proprio destino si risolsero tuttavia prevalentemente per l’opzione che venne
esercitata da tutti elementi migliori e più consci. In seguito a tale passo compiuto per irrefrenabile slancio patriottico la situazione di molti nostri ragguardevoli connazionali e nostri vitali interessi sta per divenire oltremodo precaria. A professionisti e industriali si minaccia divieto continuare esercizio e
possibilità ottenere crediti. Società anonime e consorzi sono messe di fronte
pericolo non poter funzionare se tutti gli optanti venissero esclusi dai Consigli
d’Amministrazione. Onde evitare che patriottismo italiano locale sia punito
con rovina economica molte famiglie e cessazione istituti frutto di lunghe intelligenti attività e risparmio e che sia riaperta via a numerosi esodi e cancellata ultima traccia millenaria latinità questa sponda, sottoscritti interessano vivamente V.E. sollecitare e risolvere con la massima energia questioni invocate garanzie conseguendo frattanto che fino definitiva soluzioni questioni pendenti si soprassieda attuazione a danno optanti qualsiasi menomazione diritti loro finora in vari campi mantenuti69.
Che giudizio dare sulle conseguenze delle opzioni nella storia degli italiani di Dalmazia? Scrivendo nel 1924, lo scrittore dalmata italiano Felice Baylon, nativo di Lesina, espresse un giudizio molto negativo sull’istituto delle opzioni:
[…] La sistemazione che si è data alla latinità della Dalmazia col «diritto di opzione», è pessima: il diritto di opzione significa semplicemente questo: che agli italiani della Dalmazia è riconosciuta la facoltà, se essi vogliano, di diventare stranieri nel proprio paese; significa adunque un danno per
essi e un danno per l’Italia. Danno per essi, perché se anche si permette loro in deroga a precedenti analoghe stipulazioni, il sommo privilegio di non
essere costretti ad abbandonare dopo l’opzione il luogo ove sono nati e vissuti e hanno lavorato fino a oggi, essi perdono non di meno il mezzo di pesare con la loro attività civica sulla vita e sugli ordinamenti politici ed am-
68 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Pezzoli e Tacconi a Della Torretta, contenuto in
Umiltà a Ministero degli Esteri, 5 febbraio 1922.
69 Ibidem.
362
LUCIANO MONZALI
ministrativi del paese in cui, comunque ritenuti stranieri, conservano tutti i
loro interessi e tutte le loro relazioni di affari e di affetti. Danno per l’Italia
inquantoché questa si preclude la possibilità di potere esplicare, attraverso l’azione anche perfettamente legalitaria e lealistica dei figli suoi, una benefica
influenza sulle sorti e sullo spirito della Dalmazia. L’opzione portò poi altri
danni all’italianità della Dalmazia. Difatti moltissimi italiani, qualche migliaio, dopo aver optato, vendettero tutti i loro averi e si trasferirono a Zara,
nell’Istria o nel Regno. L’opzione fu anche causa di una divisione fra italiani, poiché molti optarono, altri invece che non vollero diventare stranieri nella propria terra, non optarono70.
In effetti, una conseguenza spesso dimenticata delle opzioni fu il
prodursi di una lacerazione all’interno delle collettività italiane della
Dalmazia: le opzioni indebolirono le comunità italiane dalmate dividendole al proprio interno fra optanti italiani e cittadini iugoslavi.
Inoltre, dato il carattere prevalentemente politico-culturale delle ideologie nazionali diffuse nelle società urbane dalmate, la scelta dell’opzione portò alla divisione di molte famiglie. A Spalato, città caratterizzata da una forte mescolanza italo-slava, molte famiglie si spaccarono su questa scelta. Questo fenomeno fu assai diffuso; ci limitiamo
a ricordare solo alcuni casi. Interessante è il caso dei Morpurgo, famiglia ebrea di lingua e cultura italiana, imprenditori e commercianti spalatini. Alcuni membri della famiglia, il commerciante Elio e il
fotografo ed editore Luciano, optarono per l’Italia, altri, come ad esempio Vittorio, presidente della Comunità ebraica spalatina, e Eugenio,
scelsero la cittadinanza iugoslava71. I Bettiza, importanti industriali italiani del cemento, si divisero pure al proprio interno: Marino Bettiza
assunse la cittadinanza iugoslava, mentre i fratelli minori Vincenzo e
Giovanni optarono per l’Italia72. Le opzioni divisero anche alcune delle famiglie spalatine a capo del nazionalismo iugoslavo e croato locale: Renato Tartaglia, fratello del sindaco di Spalato, Ivo, optò per la
cittadinanza italiana ed emigrò poi a Trieste73. Altra importante fami70
BAYLON, Lo sviluppo economico della Dalmazia, cit., p. 98.
71 MARIANTONIETTA LANZILOTTI, I Morpurgo di Spalato, in Palestina 1927 nelle fotografie
di Luciano Morpurgo, Roma, 2001, p. 75; LUCIANO MORPURGO, Caccia all’uomo! Vita sofferenze e beffe. Pagine di diario 1938-1944, Roma, 1946; ANNA MORPURGO, Ricordo di Vito
Morpurgo, «Atti e memorie della società dalmata di storia patria», Roma, 2004, n. 6, pp. 253256.
72 Al riguardo: ENZO BETTIZA, La cavalcata del secolo. Dall’attentato di Sarajevo alla
caduta del muro, Milano, 2000, p. 23; ID., Esilio, Milano, 1996, p. 30 e ss.
73 Una comunicazione del Ministero degli Interni italiano del 1930 (riprodotta in ASMAE,
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
363
glia nazionalista iugoslava erano i Grisogono: anche al loro interno
vi furono alcuni, ad esempio l’ingegnere Armando Grisogono, che optarono per la cittadinanza italiana74. In generale, quindi, non tutti i dalmati italiani optarono per la cittadinanza italiana, ma una parte rilevante di essi scelse quella iugoslava. Circa il numero di dalmati che
optarono per la cittadinanza italiana una fonte abbastanza attendibile
è il censimento degli italiani all’estero nel 1927. Secondo questo censimento nel 1927 vi erano nella Dalmazia iugoslava 6.802 cittadini
italiani. Le principali collettività italiane erano a Spalato (3.337),
Veglia (1.062), Ragusa-Gravosa (660), Lesina (509), le Bocche di
Cattaro (240), Sebenico (200) e Curzola (180)75. Riguardo all’entità
numerica degli italiani dalmati che preferirono mantenere la cittadinanza iugoslava mancano dati precisi. Ma sulla base della documentazione diplomatica possiamo fare alcune stime. Nel 1929, nella città
di Veglia, il vice console italiano affermava l’esistenza di 1.200 italiani: fra questi 900 circa erano optanti italiani, 300 cittadini iugoslavi76. Nella città di Spalato, dopo la guerra, il Fascio Nazionale Italiano
locale dichiarò che vi erano circa 7.000 italiani madrelingua. Se nel
1927 erano presenti a Spalato 3.337 cittadini italiani – ai quali vanno aggiunti gli oltre mille spalatini italiani emigrati negli anni precedenti77 – ci pare di poter dire che gli italiani cittadini iugoslavi fossero fra i 2.000 e 3.000.
La scelta della cittadinanza italiana provocò l’espulsione dei dalmati optanti da settori nevralgici della vita sociale e politica della
Dalmazia, isolandoli e rendendoli più deboli economicamente, fortemente dipendenti dal governo di Roma. Nel 1929 Carlo Galli, miniAP 1919-30, Jugoslavia, b. 1370, Ministero degli Esteri al Consolato italiano di Spalato, 13
gennaio 1930) così descrive la personalità di Renato Tartaglia: «È cittadino italiano per opzione, in base al decreto prefettizio n. 13-B 15562 del 20 novembre 1923 e risulta di buona
condotta morale e politica. Egli, a quanto consta, è in corrispondenza soltanto con la madre,
residente a Spalato, ed usa per detta corrispondenza la lingua italiana. Dopo la guerra ha sempre professato idee d’italianità, pur non mostrandosi favorevole al Partito Nazionale Fascista».
74 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1322, Consolato italiano a Spalato al Ministero
degli Esteri, 7 agosto 1925; testimonianza di Petar Grisogono all’autore, 5 gennaio 2005,
Split/Spalato.
75 MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, Censimento degli italiani all’estero alla metà dell’anno
1927, cit., p. 199 e ss. Questi dati sono usati anche da IVO RUBIC!, Les Italiens sur le Littoral
du Royaume de Yougoslavie, Split, 1931.
76 ASMAE, Spalato, b. 257, Bonoldi alla Legazione italiana a Belgrado, 5 ottobre 1929.
77 A parere del console italiano a Spalato, Umiltà, fra il 1919 e il 1923 erano partite dalla città di Spalato 450 famiglie italiane e italofile, circa 1700 persone: Umiltà a Legazione
italiana a Belgrado, 5 giugno 1923, cit.
364
LUCIANO MONZALI
stro plenipotenziario a Belgrado, così descriveva le conseguenze dell’opzione per i dalmati italiani:
[…] L’istituto delle «opzioni» e la formazione della classe degli «optanti» ha dato luogo alla formazione di una nostra definitiva minoranza in
Dalmazia, […] ma ha creato in pari tempo un gruppo sociale chiuso che come tutti i gruppi sociali chiusi è condannato ad emigrare o spegnersi lentamente78.
In effetti, l’espulsione dei dalmati italiani optanti dalle più importanti strutture politiche e sociali della società dalmata e l’azione ostile del governo di Belgrado verso l’esistenza di questa minoranza indebolirono progressivamente le collettività italiane negli anni fra le due
guerre. Il vantaggio dell’opzione consistette nella possibilità di usufruire della protezione giuridica che l’articolo VII del patto di Rapallo
offriva, base sulla quale la minoranza italiana riorganizzò le proprie
istituzioni culturali e politiche. Ma l’esistenza di un atteggiamento quasi costante di ostilità da parte delle autorità iugoslave costò agli italiani di Dalmazia un prezzo assai alto in termini di qualità delle condizioni di vita.
4.2. La minoranza italiana a Sebenico dopo l’esodo del 1921
La drammatica partenza della grande maggioranza degli italiani da
Sebenico nel giugno 1921 inflisse un colpo durissimo alla comunità
italiana locale, che si ridusse da mille persone a circa duecento. Quello
che rimaneva dell’italianità sebenzana si strinse attorno al suo vecchio
leader, l’avvocato Luigi Pini, già deputato alla Dieta provinciale dalmata prima del 1914, che rifiutò di abbandonare la sua città natia ed
accettò l’avvento della sovranità iugoslava. Altre personalità che svolsero un ruolo politico in seno alla comunità italiana a Sebenico dopo
il 1921 e fino alla seconda guerra mondiale furono Tullio Nicoletti,
avvocato e possidente, Martino Caleb e Guglielmo Albl. Pini, Nicoletti e il viceconsole italiano a Sebenico, Mariano De Angelis, successore di Rocco79, furono i promotori della riorganizzazione della co-
78
DDI, VII, 7, d. 266, Galli a Mussolini, 19 febbraio 1929.
Sebenico, arc. ord., b. 4, ROCCO, DE ANGELIS, Verbale di cessazione e di assunzione di servizio, 10 luglio 1921.
79 ASMAE,
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
365
munità dopo l’esodo. Lo sforzo primario dei dirigenti italiani sebenzani e del diplomatico, innanzitutto, fu rivolto a consentire la sopravvivenza della scuola italiana. Nel settembre 1920 la scuola privata italiana era stata trasformata in scuola pubblica statale promiscua, avente quattro classi e quattro insegnanti con 156 scolari80. Con la fine dell’occupazione italiana e l’esodo della grande maggioranza degli italiani sorse il problema di come riorganizzare la scuola e quale status
giuridico darle. Nel luglio 1921 De Angelis informò il Ministero degli Esteri che l’anno scolastico della scuola si era chiuso con un drammatico calo di scolari, passati in pochi mesi da 162 a 29. Su un piano
concreto, a parere di De Angelis e dei notabili italiani di Sebenico, la
soluzione ottimale era mantenere funzionante la vecchia scuola, ancora esistente nei locali della Lega Nazionale, risolvendo successivamente il problema del suo status giuridico. Consigliabile era pure conservare i vecchi insegnanti della scuola.
È opinione mia e dei notabili di questa nostra collettività, che, nella scelta degli insegnanti sia sempre preferibile far capo a sacerdoti, i quali, per la
mentalità e l’educazione di questa popolazione, godrebbero anche fuori della scuola, di maggior prestigio e di più sicuro rispetto. Né, credesi, essi potrebbero venire osteggiati dal clero croato, che ormai non ha più quella forza che aveva sotto l’Austria; mentre, al contrario, la qualità di religiosi, potrebbe, occorrendo, anche porli sotto una qualche protezione dell’autorità ecclesiastica locale81.
Secondo De Angelis, era necessario assumere un atteggiamento
realistico sul futuro della scuola italiana a Sebenico. Sarebbe stato auspicabile che la scuola fosse proprietà dello Stato italiano, al fine di
darle solide basi giuridiche ed organizzative. Bisognava poi rassegnarsi
al fatto che alla scuola sarebbero andati solo i figli dei regnicoli e degli optanti rimasti, non certo quelli degli italiani con la cittadinanza
iugoslava.
Coloro che non hanno optato, si sono regolati così solamente sotto la prevalente pressione di ragioni di opportunità economiche, ragioni che persistono
con tutto il loro peso anche nella questione della scuola. Dato il deciso atteggiamento anti italiano dell’elemento croato di Sebenico è certo che colo80 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 8, Appunto anonimo del Gabinetto del ministro dedicato al problema delle scuole italiane in Dalmazia, s.d. (ma primi mesi del 1921).
81 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 8, De Angelis a Ministero degli Esteri, 22 agosto 1921.
366
LUCIANO MONZALI
ro che manderanno i figli alla scuola italiana saranno esposti a guerra senza
quartiere: come è presumibile allora che accetti di sostenere questa guerra chi,
appunto per evitarla non ha optato?82.
Per ovviare al possibile ostruzionismo del governo di Belgrado, il
Ministero degli Esteri preferì dare alle scuole italiane un carattere privato, giustificandone l’esistenza in quanto istituzioni già attive nell’epoca asburgica83. Fra la fine del 1921 e l’inizio del 1922, con il sostegno finanziario dell’Italia, ripresero la loro attività le scuole italiane di
Sebenico, Lesina e Curzola84. A Sebenico la scuola fu organizzata in 4
classi, con un numero totale di 27 scolari, 8 maschi e 19 femmine. I
due insegnanti, don Giovanni Bertone e Amedea Brelich, si dimostrarono soddisfatti dell’andamento dell’anno scolastico, pur rilevando le
gravi difficoltà economiche che travagliavano la comunità italiana di
Sebenico, problemi che costrinsero la scuola a fornire di vestiario alcuni studenti e alla concessione di sussidi in denaro ad alcune famiglie85. Oltre alla scuola, l’altro cardine fondamentale della comunità
italiana a Sebenico era l’associazionismo. All’inizio del 1921 a Sebenico vi erano numerose associazioni italiane86, alcune delle quali esistevano da molti decenni. Fra queste vanno ricordate la «Società del
Casino», frequentata dai ceti aristocratici e borghesi sebenzani, luogo
di lettura di libri e giornali e d’intrattenimento e tradizionale roccaforte
del partito autonomista, con 200 soci, e la «Società Operaia» avente
finalità di mutuo soccorso per le classi lavoratrici, con oltre un migliaio
di soci. Importanti erano pure la «Lega Nazionale», la «Società Italiana
di Beneficienza», la «Biblioteca Popolare» e l’«Unione Donne Cattoliche d’Italia». Istituzione prevalentemente italiana era il «Teatro Mazzoleni», costruito su iniziativa dalle principali famiglie italiane ed autonomiste di Sebenico (Frari, Galvani, Marassovich, Mazzoleni, Difnico, Miagostovich, Nicoletti, Fenzi) negli anni Sessanta dell’Ottocento
e società i cui azionisti erano ancora dopo la guerra in maggioranza
82
Ibidem.
ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 8, Contarini a De Angelis, 11 agosto 1921; ibidem,
De Angelis a Ministero degli Affari Esteri, 28 settembre 1921.
84 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 8, De Angelis a Ministero degli Esteri, 1° ottobre 1921;
«?ivot» (Spalato), 16 novembre 1921, Otvaranjie talijanske s#kole.
85 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 8, GIOVANNI BERTONE, AMEDEA BRELICH, Relazione
che presentano gl’insegnanti della Scuola elementare italiana in Sebenico per l’anno 19211922, 7 luglio 1922.
86 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 2, De Angelis alla Legazione italiana a Belgrado, 29
settembre 1921.
83
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
367
italiani87. Il grave problema da risolvere era come mantenere vive queste associazioni ed istituzioni una volta che la maggior parte dei soci
aveva abbandonato la Dalmazia con l’esodo del 1921. I capi della comunità italiana e il consolato s’impegnarono per garantire la sopravvivenza delle principali istituzioni, la «Società del Casino», la «Società
Italiana di Beneficienza» e la locale «Lega Nazionale», che a metà degli anni Venti fu rifondata nella nuova denominazione di «Lega
Culturale Italiana»88. L’elemento italiano riuscì a conservare una forte presenza nell’azionariato del Teatro Mazzoleni attraverso l’acquisizione da parte della Società del Casino di diversi palchi già appartenuti a italiani sebenzani emigrati in Italia89. Una caratteristica della
comunità italiana di Sebenico era la sua forte fede religiosa cattolica.
Dopo il 1921 divenne urgente garantire la libera pratica religiosa della minoranza attraverso la destinazione di una chiesa all’esercizio del
culto nel rito liturgico latino e in lingua italiana. Nella collettività italiana sorsero speranze che il nuovo vescovo cattolico di Sebenico,
monsignor Mileta, che era vissuto a Padova e a Roma per molti anni,
instaurasse un rapporto equilibrato con l’elemento italiano, moderando il forte nazionalismo croato di gran parte del clero locale. In un colloquio del marzo 1922 a Roma con il direttore generale del Fondo per
il culto, Monti, Mileta assicurò il governo italiano di voler essere «il
padre di tutti» e che in lui gli italiani di Sebenico avrebbero trovato
un appoggio e una difesa contro chi volesse misconoscere il loro giusto diritto90. Giunto però a Sebenico, Mileta, nonostante la sua buona
volontà, si trovò costretto ad assecondare gli orientamenti del clero locale. Il console De Angelis notò a questo riguardo:
Ma se Monsignor Mileta è spirito sereno ed anche uomo abile, non potrei ancora dire se disponga di sufficiente forza di volontà per temperare la
passionalità ostinata del suo clero, e per tradurre in opera la propria sentita
equanimità. Certo è che il suo primo atto, col quale ha abolita la residuale liturgia latina in queste chiese (conformemente, dicesi, a direttive emanate dalla Santa Sede per neutralizzare la propaganda ortodossa) ha deluso profondamente questi Italiani; e più penosa impressione ha fatta in essi il suggeri-
87 ASMAE, Spalato, b. 37, Barbarich a Bartolucci Godolini, 11 agosto 1926. Sulla storia del teatro Mazzoleni: IVO LIVAKOVIC!, Kazalis#ni z#ivot Šibenika, ?ibenik, 1984.
88 ASMAE, Spalato, b. 113, Archi ad Ambrosetti, 27 marzo 1934.
89 ASMAE, Spalato, b. 113, Lanzetta a Castagnetti, 27 aprile 1928.
90 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Monti a Schanzer, 22 marzo 1922.
368
LUCIANO MONZALI
mento loro fatto pervenire, pel tramite di un sacerdote regnicolo insegnante
in questa scuola elementare, di procurarsi cioè una sala nell’edificio consolare per le proprie pratiche religiose, onde esercitare il proprio culto in sede
di extraterritorialità!!91.
Di fatto negli anni successivi l’autorità ecclesiastica di Sebenico
si rifiutò di assegnare una chiesa per i riti religiosi riservati ai fedeli
di lingua italiana che, quindi, si ritrovarono senza un proprio luogo di
culto92. Nella seconda metà del 1921 De Angelis s’impegnò attivamente per creare le condizioni politiche affinché sopravvivesse un nucleo italiano a Sebenico. Naturalmente era importante ottenere una larga e piena applicazione dell’articolo VII del trattato di Rapallo. Per
De Angelis, bisognava cercare di tutelare il diritto degli italiani optanti
di poter continuare la propria attività professionale e di valersi della
loro lingua in tutte le manifestazioni della vita privata e nei rapporti
con gli uffici pubblici di qualsiasi natura, così come avveniva all’epoca dell’Austria-Ungheria. Importante era poi la sopravvivenza di una
scuola italiana93. Nei mesi successivi al ritiro delle truppe italiane dalla seconda zona si era creata una situazione difficile per la minoranza a Sebenico. Molto grave era la questione del cambio della valuta.
La decisione improvvisa di imporre il cambio della valuta austro-ungarica in lire anche ai profughi dalmati, ad un tasso favorevole ma con
un brevissimo termine di scadenza per inoltrare le domande di cambio, suscitò sgomento e preoccupazione nella collettività italiana. Molti
speravano che i profughi dal Regno SHS avrebbero ottenuto alcuni mesi supplementari per espletare tale pratica; il non avere ottenuto ciò
creò smarrimento fra gli italiani rimasti e spinse molti a considerare
di abbandonare pure loro Sebenico. Secondo De Angelis, tale decisione poteva costituire il colpo finale all’esistenza di una minoranza
italiana autoctona a Sebenico.
Ora – notava il console nel settembre 1921 –, di fronte alla quasi totale
rovina dell’italianità a Sebenico (da oltre 400 famiglie italiane dell’anteguerra
non ne sono rimaste neppure una ventina), si sente l’improrogabile dovere nazionale di evitare che pur quest’ultimo nucleo si estirpi. In coloro che sono
rimasti, intorno ai quali gli emigrati hanno lasciato un vuoto enorme che ne
91 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, De Angelis a Ministero degli Esteri, 21 aprile 1922.
92 «Il Piccolo», Trieste, 4 maggio 1927, M. NORDIO, La strenua resistenza degli italiani
di Sebenico.
93 De Angelis a Legazione italiana a Belgrado, 29 settembre 1921, cit.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
369
aggrava il disagio morale, esiste già il proposito o la tendenza all’esodo.
Occorre, dunque, intervenire a distoglierli dal proposito o a vincere la tendenza onde essi rimangano definitivamente, e adoperare all’inverso quei mezzi che prima hanno costituito il «premio all’esodo». Non arrivo a chiedere un
«premio di permanenza», chiedo bensì che il R° Governo non neghi un tratto di benevolenza a coloro che, avendo optato per la cittadinanza italiana, rimangono a Sebenico, assumendo una posizione netta di fronte a tutti, coraggiosa di fronte al prevalente elemento croato ed alla sovranità S.C.S. Di costoro noi abbiamo bisogno come del nucleo intorno al quale tentare la ricostruzione dell’italianità in questa regione. Sul fondamento di queste sommarie considerazioni chiedo, dunque, alla Signoria Vostra di voler invocare dal
Ministero del Tesoro l’adozione di un provvedimento eccezionale, per cui venga concesso il cambio delle corone a.u. a coloro che, avendo fatto domanda
di opzione per la cittadinanza, sono rimasti ai loro posti, nel distretto di questo consolato. Applicando tale provvedimento, con accorgimento e con prudenza, io mi propongo di trattenere alcune famiglie che già hanno deciso di
emigrare, e quelle altre che, incoraggiate dal vantaggio del cambio, sembrano decidersi partire questo mese94.
Pessimista sulle prospettive di sopravvivenza della minoranza italiana a Sebenico e nella regione circostante, nell’autunno 1921 De
Angelis preparò un lungo promemoria, intitolato Per una ricostruzione dell’italianità nel Distretto di Sebenico95, che presentò al Ministero
degli Esteri come stimolo per una più efficace tutela degli italiani sebenzani. Secondo De Angelis, il governo doveva favorire la sopravvivenza di un nucleo italiano a Sebenico. Cruciale era la concreta applicazione delle garanzie previste dal trattato di Rapallo a favore degli italiani rimasti nella Dalmazia iugoslava, soprattutto per quanto riguardava l’esercizio delle professioni liberali, l’uso della lingua italiana e la tutela generale della minoranza. Fra le misure più specifiche, il viceconsole, innanzitutto, ricordò il possibile consiglio agli esuli, «non sistematisi nel Regno» e in gravi ristrettezze economiche, di
ritornare a Sebenico, il sostegno ai pensionati desiderosi di restare in
Dalmazia, la concessione di sussidi a quegli italiani in momentanee
difficoltà economiche e il riconoscimento di un cambio favorevole delle corone austro-ungariche in possesso di coloro che erano rimasti nel
94 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 16, De Angelis al Ministero degli Esteri, 8 settembre
1921.
95 DE ANGELIS, Per una ricostruzione dell’italianità nel Distretto di Sebenico, 5 ottobre
1921, cit.
370
LUCIANO MONZALI
Regno SHS. Su un piano più generale De Angelis riteneva necessario
che il governo di Roma sostenesse finanziariamente i proprietari terrieri italiani che erano stati privati delle proprie proprietà e rendite dalla riforma agraria iugoslava proclamata nel 1919.
Ora è successo praticamente questo: che i proprietari sono stati già completamente spogliati delle loro terre; non hanno ancora a loro vantaggio alcuna disposizione circa l’indenizzo capitale; sanno, d’altronde, che per l’indenizzo provvisorio di rendita (paragrafo 5) è stato stanziato un fondo di
800.000 (ottocentomila) dinari per tutta la Dalmazia: una cosa irrisoria!
Perciò molti proprietari, che vivono esclusivamente del prodotto delle terre,
sono passati d’un tratto, e per tempo indefinito, dall’agiatezza all’indigenza
assoluta. In tale condizione si trovano parecchie famiglie di italiani optanti.
Questi, nell’impossibilità di trovare un’occupazione sul posto, per mancanza di ogni risorsa, dovrebbero ineluttabilmente decidersi ad un esodo immediato. Andrebbero nel Regno a «fare i profughi», cadendo subito a carico della pubblica amministrazione. Ora, poiché gli indennizzi devono venir, quando che sia, pur corrisposti, sarebbe opportuno che il R° Governo intervenisse, nell’interesse dei singoli e nell’interesse nazionale, evitando l’esodo dalla Dalmazia di questi ultimi residui d’italianità. Si potrebbe provocare l’interessamento di una Banca italiana, per es. della «Banca Dalmata di Sconto»
(filiazione della «Banca Italiana di Sconto»), nel senso di fare anticipazioni
di denaro a ciascun proprietario, con garanzia sugli indennizzi da corrispondersi dallo Stato S.C.S., e nei limiti delle somme necessarie al personale mantenimento; ciò, mediante una apposita formula di contratto96.
Andavano aiutate anche le aziende italiane presenti nella regione,
alcune delle quali in difficoltà economiche. Il console elencò fra queste: la SUFID (Società anonima per l’utilizzazione delle forze idrauliche della Dalmazia), società con sede a Trieste, che a Sebenico aveva una grande fabbrica di carburo di calcio, la società carbonifera
«Monte Promina», in possesso di una miniera a Siverich e di un’agenzia di spedizioni a Sebenico, e la casa di spedizioni «Otto Steinbeis», proprietaria di una vasta penisola nel bacino marittimo di
Sebenico (penisola di Klobusak) e di una propria ferrovia, azienda che
deteneva il monopolio di fatto nell’esportazione del legname proveniente dalle foreste di Drvar. La sopravvivenza di queste imprese e la
creazione di nuove aziende nella regione potevano consentire la permanenza di italiani a Sebenico e attrarre italiani dal Regno, fonda96
Ibidem.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
371
mentali per rafforzare la minoranza italiana97.
I progetti di De Angelis avevano un loro realismo e avrebbero potuto contribuire a rafforzare le comunità italiane, soprattutto tenendo
conto del fatto che la situazione economica e politica della regione di
Sebenico era di grande disagio. L’avvento della sovranità SHS aveva
creato molta insoddisfazione nella popolazione. Il cambio della valuta austro-ungarica a tassi bassissimi, la scarsità di prodotti disponibili, la crescita dei prezzi e delle imposte governative avevano diffuso
un forte malcontento verso il governo di Belgrado. La stessa confusa
applicazione della riforma agraria, con la concessione di fatto ma non
di diritto della terra alla classe contadina, aveva prodotto incertezza e
disagio. Sul piano politico la crisi della collaborazione serbo-croata,
provocata dall’affermarsi dell’egemonia dell’elemento serbo – fondata su un centralismo autoritario visto con sfavore da croati e dalmati
– aveva avuto forti ripercussioni a Sebenico, alimentando una crescente
serbofobia, una forte nostalgia per il dominio asburgico e una rivalutazione del periodo d’occupazione italiana. Notava a questo riguardo
De Angelis nel novembre 1921:
In questa condizione di generale disagio si rivelano le crepe dell’unione
serbo-croata; più manifesta si fa l’attuale inconciliabilità dei due elementi, i
quali si dimostrano in conflitto in tutti i campi, in quello religioso soprattutto. […] I croati troppo notoriamente ligi a Belgrado sono guardati di mal’occhio: la villa del dott. Krstelj (il presidente della Commissione S.C.S. per la
pesca) è stata minacciata di devastazione. Gli stessi dalmati di nazionalità serba respingono ogni vincolo coi serbi «di là». Sfondo a tutto questo è la continua impressionante discesa della corona jugoslava, che oggi vale meno di
ciò che valeva la corona austriaca al momento del nostro sgombero! I politicanti, pur non osando negare la gravità della situazione e l’antagonismo delle due nazionalità, ostentano un immutato sentimento unitario, e dicono che,
in ogni caso, davanti alla minaccia straniera (leggasi italiana), serbi e croati
si troveranno sempre strettamente uniti. La grande massa della popolazione,
che qui è rurale, e che non conosce le sottigliezze di certe distinzioni, sente
che questo stato di cose è precario, ed aspira inconsapevolmente ad un assetto politico-economico (soprattutto economico!) stabile. Questa popolazione
rurale, quanto mai conservatrice e tradizionalista, si è commossa in modo particolare al recente tentativo dell’ex imperatore Carlo, la cui rapida soluzione
ha troncato più d’una non disinteressata nostalgia dinastica, improvvisamente rinverdita. E ormai non è più raro né occasionale sentir dire a Sebenico:
97
Ibidem.
372
LUCIANO MONZALI
«Vorremmo il ritorno di Carlo, ma se questo non può essere venga
Vittorio»98.
Il fallimento politico del progetto di creare un grande Stato nazionale iugoslavo fondato sull’adesione convinta di serbi, croati e sloveni, aumentò il malcontento della popolazione dalmata, che aveva anche forti ragioni economiche. Nel marzo 1922 De Angelis notò l’aggravarsi della crisi economica in Dalmazia, con l’incapacità del governo di Belgrado di garantire ai dalmati quel livello di benessere di
cui avevano goduto sotto il dominio asburgico e l’occupazione italiana. Il forte carico fiscale, l’eccessivo controllo del governo centrale
sulla vita economica locale, la mancata ripresa dei commerci, e il
diffondersi della fame avevano creato uno stato di grave malessere in
Dalmazia.
Le popolazioni, specialmente quelle dei centri minori e delle isole, risentono gravemente delle enormi deficienze dell’approvvigionamento. In alcune località della costa ed in alcune isole esse si nutrono anche di ghiande
e di bacche di ginepro. Qualche giornale dalmata, non dei meno seri, si fa
eco di queste sofferenze e si pone la domanda […]: «Che cosa succederà
quando anche le bacche di ginepro saranno esaurite?». «Nella Jugoslavia –
scrivono – ricca di grano, la nostra Dalmazia è condannata a seguire la sorte della Russia che muore di fame […]. Sulla fame e della miseria in Dalmazia
è colpevole il regime centralistico del governo».
Nella generale carestia, impressionanti sono le condizioni degli impiegati pubblici. Un magistrato di grado superiore, residente a Sebenico, confermava giorni addietro, che egli nutre da quattro mesi i propri figli con sola
polenta!99.
La crisi economica e la fame favorirono l’intensificarsi di un massiccio fenomeno emigratorio da tutta la Dalmazia in direzione del continente americano, dell’Australia e dei paesi europei100. La crisi dello
Stato unitario provocò un forte discredito della classe dirigente borghese-aristocratico dalmata di orientamento nazionalista iugoslavo,
98
ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 12, De Angelis a Ministero degli Esteri, 6 novembre
1921.
99 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 5, De Angelis a Ministero degli Esteri, 9 marzo 1922,
minuta.
100 Un’analisi della situazione economica in Dalmazia negli anni Venti in JAKIR,
Dalmatien zwischen den Weltkriegen, cit., p. 130 e ss. Alcune informazioni anche in BOZE#
MIMICA, Dalmacija u 20 stoljec!u, Rijeka, 2004, p. 43 e ss.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
373
che aveva favorito la costituzione del Regno SHS, e il rafforzamento
politico delle forze anti-governative, il partito dei contadini, i pravas#i
antiserbi, il movimento comunista. Sia nei dalmati croati che in quelli italiani sorse una forte nostalgia per la dominazione asburgica, epoca di relativo benessere economico e di tranquillità sociale e politica.
A parere di De Angelis questo stato di cose poteva favorire una crescita dell’influenza dell’Italia in tutta la Dalmazia, la cui occupazione aveva garantito alle popolazioni locali buone condizioni di vita101.
Ma, in realtà, negli anni successivi l’influenza dell’Italia e della minoranza italiana non aumentò. Il governo di Roma non fu in grado di
accattivarsi le simpatie della popolazione dalmata croata. Lo scarso
consenso della popolazione verso il governo di Belgrado convinse le
autorità iugoslave ad alimentare le rivalità nazionali in Dalmazia al fine di legittimare la propria esistenza come scudo protettivo contro
l’imperialismo italiano. Attraverso associazioni nazionaliste come la
Orjuna (l’organizzazione dei nazionalisti iugoslavi) e la Jadranska
Straz#a (la Lega Adriatica)102, il governo iugoslavo alimentò l’ostilità
anti-italiana103. Ovviamente le collettività italiane dalmate furono le
prime vittime di tutto ciò, sottoposte a continue angherie amministrative ed economiche e a frequenti incidenti e violenze, tollerati dal governo iugoslavo. Tutto ciò favorì un progressivo indebolimento della
presenza italiana autoctona in Dalmazia, con una continuazione dell’emigrazione italiana avente ragioni politiche ed economiche. Fino alla seconda guerra mondiale, comunque, fra mille difficoltà sopravvisse
una comunità italiana a Sebenico, ma alquanto indebolita numericamente. Nel 1927 risultavano residenti nella città di Sebenico 200 cittadini italiani104; cifra alla quale andavano aggiunte alcune decine di
italiani con cittadinanza iugoslava. Tale cifra però diminuì alquanto negli anni successivi: secondo i dati del Ministero degli Esteri italiano105,
nel 1937, nell’insieme del distretto consolare di Sebenico (comprendente oltre alla città, una parte rilevante della Dalmazia settentrionale, inclusi i centri di Knin, Scardona, Bencovaz, Dernis) erano residenti 200 cittadini italiani optanti, 130 cittadini per pieno diritto e cir101
De Angelis a Ministero degli Esteri, 9 marzo 1922, cit.
102 Al riguardo: NORKA MACHIEDO MLADINIC!, Jadranska Straz#a 1922-1941, Zagreb, 2005.
103 Per informazioni sull’ORJUNA e i suoi legami con il governo di Belgrado: ASMAE,
AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1306, Umiltà a Mussolini, 15 gennaio, 1° agosto, 6 dicembre 1923.
104 MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, Censimento degli italiani all’estero alla metà del 1927,
cit., p. 202.
105 ASMAE, AP 1931-45, Jugoslavia, b. 99, Antinori a Ciano, 13 marzo 1937.
374
LUCIANO MONZALI
ca 50 cittadini iugoslavi di nazionalità italiana; ciò in un distretto consolare la cui popolazione era stimata approssimativamente di 100.000
persone. Le difficili condizioni politiche esistenti e la forte crisi economica che colpì duramente anche la Dalmazia indebolirono la comunità italiana di Sebenico, che negli anni precedenti alla seconda
guerra mondiale si era ridotta a poche decine di persone.
4.3. Il Municipio contro la Nazione? Le lotte politiche a Zara fra il
1921 e il 1922
Nonostante la netta vittoria liberale alle elezioni parlamentari, la situazione politica a Zara nel corso dell’estate e dell’autunno del 1921
rimase tesa e conflittuale. Il ritiro dell’esercito italiano dalla prima e
dalla seconda zona, il conseguente esodo della gran parte degli italiani dalla regione di Sebenico e dalle isole della Dalmazia settentrionale e centrale, il peggioramento delle relazioni italo-iugoslave, accrebbero il malumore nella popolazione zaratina. Del resto pure la situazione economica locale rimaneva difficile. La soluzione trovata dal governo di Roma al problema del cambio delle corone asburgiche, con
un tasso di cambio basso e molte esclusioni, aveva creato insoddisfazione a Zara. A partire dall’estate 1921 il deterioramento delle relazioni fra Roma e Belgrado produsse immediatamente un atteggiamento
ostile delle autorità politiche e amministrative periferiche iugoslave
verso gli interessi economici degli zaratini in Iugoslavia. Nell’estate
del 1921 i fabbricanti di maraschino di Zara (Salghetti Drioli, Luxardo)
denunciarono il comportamento delle autorità dalmate miranti a scoraggiare e a impedire la vendita e l’esportazione delle marasche da
Sebenico, Spalato e dalle isole a Zara106. A settembre i possidenti italiani di Zara aventi terreni nel Regno SHS si lamentarono dell’improvviso divieto iugoslavo di esportare in Italia i mosti prodotti dalla
vendemmia, il che arrecava loro un grave danno economico107. In effetti, nella Dalmazia iugoslava persisteva una forte ostilità contro Zara.
106 Ad esempio: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 15, Francesco Salghetti Drioli a Roddolo,
24 giugno 1921; ibidem, FRANCESCO SALGHETTI DRIOLI, La Jugoslavia ha proibito l’esportazione delle marasche per Zara. Inutilità dell’azione consolare. Prove del boicottaggio economico contro Zara, 3 luglio 1921. Per una descrizione della realtà di una fabbrica zaratina di maraschino dopo la guerra: LUXARDO DE FRANCHI, I Luxardo del Maraschino, cit., p. 107 e ss.
107 ASMAE, GAB 1923-1943, AF, b. 12, Marco Perlini a Salata, 21 settembre 1921.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
375
In alcuni circoli politici iugoslavi l’annessione di Zara all’Italia era
considerata un’occasione per fare definitivamente di Spalato il grande centro economico e politico di tutta la Dalmazia. Il bisogno dei produttori di liquore zaratini (Luxardo, Drioli, Calligarich, Millicich,
Vlahov) di procurarsi le marasche nella Dalmazia iugoslava spingeva
il «Novo Doba» a consigliare un sostanziale boicottaggio delle fabbriche zaratine al fine di favorire lo sviluppo di un’industria del maraschino a Spalato108. Allo stesso modo, i progetti di Ziliotto, Krekich
e degli ambienti imprenditoriali zaratini di intensificare i rapporti commerciali fra Zara e il retroterra, ad esempio favorendo la costruzione
di una ferrovia che collegasse la città italiana con la rete ferroviaria
iugoslava (il cosiddetto progetto Zara-Knin), si scontravano con la forte ostilità del governo di Belgrado e dei dalmati iugoslavi, che rifiutavano che fossero gli italiani a dettare le direttive dello sviluppo delle comunicazioni nel Regno SHS109. Peraltro le rivalità nazionali e regionali presenti in Iugoslavia si evidenziavano anche nella questione
ferroviaria, con determinati gruppi serbi desiderosi di costruire una ferrovia fra Belgrado e le Bocche di Cattaro, mentre politici e economisti croati spalatini auspicavano piuttosto l’apertura di grandi linee ferroviarie che collegassero Spalato con Belgrado e Zagabria110.
L’aggravarsi delle tensioni e delle rivalità nazionali, il persistere di
forti difficoltà economiche per la gran parte della popolazione zaratina, facilitarono il rafforzarsi del nazionalismo e del fascismo nella
Dalmazia italiana, movimenti sempre più ostili alla politica moderata e pragmatica perseguita dalla vecchia classe dirigente liberale. A
Zara nazionalisti e fascisti erano caratterizzati da una sostanziale unione politica111, confermata dal fatto che molti dirigenti nazionalisti locali (Mandel, Zimolo) erano anche a capo del Fascio zaratino. Sul piano dell’opinione pubblica, voce dell’alleanza nazional-fascista zaratina, avente una forte connotazione dannunziana, fu il periodico «L’Adriatico», diretto da Michelangelo Zimolo. Come nel resto d’Italia, anche nella città dalmata il fascismo puntò ad affermarsi organizzando
108 «Novo Doba», 8 luglio 1921, Zadar nas traz#i! Zadranin treba nas#ih vis#nja; ivi, 23 luglio 1921, Jedna vrlo vaz#ne Industrija.
109 «Novo Doba», 21 gennaio 1921, Jedan talijanski zahtiev. Željeznica Zadar-Knin; ivi,
4 aprile 1921, Izmedju nas i Italije. Al riguardo anche WILDAUER, I problemi economici, cit.
110 «Novo Doba», 27 agosto 1921, SENJANOVIC!, Željeznic#ka veza i splitska luka; ivi, 28
settembre 1921, Beograd-Jadransko more.
111 Alcune informazioni sul fascismo zaratino in: ELIO IARABEK, Note sulle origini del
Fascismo Zaratino, «La Rivista Dalmatica», 2005, n. 1, p. 12 e ss.
376
LUCIANO MONZALI
azioni violente contro gli oppositori politici e le istituzioni avversarie.
Obiettivo privilegiato dei fascisti zaratini erano le istituzioni e le organizzazioni croate e serbe, di cui contestavano il diritto ad esistere,
nonostante la secolare tradizione di tolleranza nazionale e religiosa di
Zara. Erano azioni che naturalmente miravano ad impedire il miglioramento dei rapporti fra Italia e Iugoslavia: le violenze squadristiche
contro croati e serbi dovevano ostacolare la collaborazione italo-iugoslava e l’applicazione di Rapallo, rendendo impossibile la futura
consegna della terza zona dalmata ancora occupata dall’Italia e la creazione di uno Stato di Fiume indipendente. Particolare accanimento fu
dimostrato dalle squadre fasciste, a Zara come a Trieste, contro le associazioni religiose, politiche e culturali serbe, ciò probabilmente a
causa del ruolo guida svolto dall’elemento serbo nello Stato iugoslavo unitario112. Questo anti-serbismo del fascismo zaratino rinnegava
la tradizionale serbofilia dell’elemento italiano locale, che aveva considerato tradizionalmente la minoranza serba un alleato contro l’egemonia dei croati; erano poi azioni violente che colpivano i ceti borghesi serbi di Zara e diffondevano in Serbia una forte ostilità contro
l’elemento dalmata italiano. Nei dirigenti nazionalisti e fascisti zaratini vi era anche la velleità di perseguire una strategia sovversiva d’ispirazione dannunziana, mirante ad organizzare una spedizione di volontari che occupasse la terza zona dalmata per impedirne lo sgombero e a favorire la disgregazione della Iugoslavia unitaria attraverso
l’alleanza con elementi separatisti anti-serbi: il tutto con il fine di rendere caduco il trattato di Rapallo e di annettere all’Italia una parte più
vasta della Dalmazia. A partire dal luglio 1921 cominciarono a circolare voci di contatti fra legionari fiumani e fascisti zaratini, triestini e
milanesi per organizzare un colpo di mano mirante ad occupare la terza zona per impedire il ritiro italiano e l’arrivo dell’esercito iugoslavo113. Il 27 agosto il commissario civile di Zara, Moroni, comunicò
all’Ufficio per le Nuove Provincie che alcuni capi nazionalisti e fascisti zaratini (Rigatti, Inchiostri, Buglian) si erano recati in Nord Italia
ed avevano avuto un colloquio con D’Annunzio al fine di organizzare un’azione anti-serba in Dalmazia. A parere di Moroni, D’Annunzio
era ancora in contatto con gruppi separatisti croati attraverso alcuni
italiani dalmati a lui vicini. A Zara si era costituito un comitato d’a-
112
«Novo Doba», 5 settembre 1921, Sudbina Zadra.
GAB 1923-43, AF, b. 9, Salata al Ministero degli Esteri, 24 luglio 1921.
113 ASMAE,
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
377
zione per organizzare la sommossa alla fine del 1921, comitato composto da Inchiostri, Calebich, Verban, Petricioli, Filippi, Buglian,
Mandel, Schönfeld, Zimolo, Fattovich e Troiani114. Molti di questi dirigenti fascisti, dannunziani e nazionalisti erano impiegati pubblici: per
impedire loro di nuocere il commissario civile propose più volte di trasferirli lontano da Zara115. Ma di fatto, questi progetti anti-iugoslavi
erano troppo ambiziosi per il debole fascismo dannunziano zaratino
e non conobbero alcuna realizzazione. I fascisti e i nazionalisti zaratini si limitarono ad un più semplice violento squadrismo contro i nemici locali iugoslavi e i concorrenti repubblicani. Apice di questa campagna squadrista fu l’aggressione al croato Metlic#ic!, zaratino e neogovernatore della Dalmazia iugoslava, mentre girava per Zara insieme a due politici croati locali, il prof. Jezina e l’ing. Gasperini, il 9
agosto 1921. Il commissario civile Moroni comunicò a Roma che
Metlic#ic!, Jezina e Gasperini erano stati aggrediti da cinque fascisti per
ordine del direttorio del Fascio zaratino: il governatore riportò lesioni guaribili in 15 giorni116. I colpevoli furono arrestati e l’impegno delle autorità italiane e iugoslave scongiurò drammatiche rappresaglie
contro gli italiani in Iugoslavia. Ma naturalmente gli atti di violenza
contro serbi, croati e sloveni in Italia avevano una vasta eco in Iugoslavia e prestavano facili argomenti agli avversari dei buoni rapporti
italo-iugoslavi, rendendo sempre più ardue le condizioni di vita della
minoranza italiana in Dalmazia. Riguardo all’aggressione a Metlic#ic!,
il console italiano a Spalato, Umiltà, rilevò il 10 agosto che, in caso
di ripetersi di altri incidenti a Zara, sarebbe stato difficile frenare gli
elementi xenofobi ed anti-italiani nel resto della Dalmazia «che regoleranno loro condotta a seconda atteggiamento nostre autorità Zara
contro colpevoli ed eventuali sobillatori aggressione»117.
Nell’autunno del 1921, invece, Zara fu agitata da ripetuti scontri violenti fra alcuni gruppi fascisti e i militanti del circolo Mazzini. I repubblicani zaratini erano un gruppo ben organizzato e dotato di un certo consenso in città118. La loro sede in Calle Larga era un importante
centro della vita sociale zaratina. Terminata l’alleanza con i fascisti e
114 ACS,
UNP, b. 72, Moroni all’Ufficio per le Nuove Provincie, 27 agosto 1921.
UNP, b. 72, Moroni all’Ufficio per le Nuove Provincie, 27 agosto 1921.
116 ACS, MIN INTERNO, d.g. pubblica sicurezza, 1921, b. 113, Moroni a Direzione generale Pubblica Sicurezza, 9 agosto 1921. Si veda anche:«Novo Doba»10 agosto 1921, Napadaj
na nas#eg namjesnika u Zadru.
117 ASMAE, Carte Salata, b. 267, Umiltà a Ministero degli Esteri, 10 agosto 1921.
118 COEN, Zara tra le due guerre, cit., p. 131 e ss.
115 ACS,
378
LUCIANO MONZALI
i nazionalisti mirante a fare eleggere D’Annunzio a Zara, esplose una
forte conflittualità fra repubblicani e fascisti. Nel novembre 1921, in
seguito a risse fra ufficiali dell’esercito e militanti mazziniani, una squadra fascista attaccò il circolo repubblicano, distruggendolo e picchiando i soci presenti. Il commissario Moroni, per ragioni di ordine pubblico, decise di sopprimere il circolo repubblicano, ma, funzionario di
simpatie fasciste, si limitò alla semplice sospensione temporanea del
Fascio zaratino, in quanto parte di organizzazione nazionale119.
Lo scontro politico fra liberali zaratini e blocco nazionalfascista diventò molto duro in occasione della campagna per le elezioni amministrative a Zara nel gennaio 1922. L’Unione Nazionale decise di ricandidare alla carica di sindaco Luigi Ziliotto, capo dell’amministrazione comunale uscente e leader storico del liberalismo nazionale dalmata. I nazionalisti e i fascisti, desiderosi di sferrare un colpo decisivo all’egemonia della vecchia classe dirigente liberale-autonomista,
contestarono tale scelta e presentarono la candidatura di Mandel, vicepresidente dell’Associazione nazionalista zaratina e militante fascista. La scelta di sfidare il capo storico dell’irredentismo italiano in
Dalmazia fu sostenuta dai vertici fascisti e nazionalisti della Penisola
che inviarono a Zara esponenti politici di rilievo per sostenere la campagna elettorale di Mandel. Il deputato fascista De Stefani si recò in
Dalmazia nel dicembre 1921 e in una sua intervista all’«Idea Nazionale» descrisse in questi termini lo scontro politico fra liberali e nazionalfascisti in atto a Zara:
La situazione dei partiti in Zara è molto semplice; ci sono dei giovani che
desiderano di ereditare e dei vecchi che desiderano di conservare l’autorità.
Esiste a Zara, come altrove, un gruppo di persone che fanno una politica governativa, un altro gruppo che intende fare una politica dalmatica senza soverchia fiducia nell’azione governativa120.
Con il trascorrere delle settimane la campagna elettorale a Zara divenne sempre più combattuta. I nazionalisti accusarono i seguaci di
Ziliotto di condurre una campagna elettorale municipalista, «eccitando una propaganda campanilistica fino all’esasperazione sì da assu119 ACS, UNP, b. 57, Moroni al Ministero dell’Interno e all’Ufficio per le Nuove
Provincie, 13 novembre 1921; ibidem, Giuseppe Pesavento, maggiore dei carabinieri, a Moroni, 7 novembre 1921.
120 «L’Idea Nazionale», 7 dicembre 1921, La situazione e l’avvenire della Dalmazia. (Nostra intervista con l’on. De Stefani).
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
379
mere la forma di una vera xenofobia contro tutti i non zaratini»121. In
risposta ad un comizio dei liberali zaratini ostile ai nazionalfascisti e
a Alessandro Dudan, a metà gennaio il blocco nazionalista-fascista organizzò un’assemblea pubblica dove, nel corso di un suo discorso, De
Stefani «reagì fieramente contro lo spirito campanilistico dei vecchi
detentori del comune di Zara che offesero questa sera un grande figlio di Spalato [Dudan]»122. In quei giorni Zimolo e Mandel inviarono ai membri del gruppo parlamentare della Destra liberale il seguente
telegramma di protesta contro i liberali locali: «I partigiani dell’on.
Krekich, consenziente Krekich, impostano la lotta amministrativa cittadina tentando un vero movimento di xenofobia contro gli italiani della rimanente Dalmazia e della Penisola»123.
In effetti molti seguaci del blocco nazionalista-fascista non erano
zaratini e il loro volere affermare la propria egemonia politica in città
irritava l’orgoglio municipale di numerosi abitanti di Zara, fornendo
una forte arma politica ai liberali, eredi della tradizione dell’autonomismo. Ma in realtà fra i capi del liberalismo zaratino vi erano anche
italiani provenienti dalla Dalmazia iugoslava, come ad esempio
Ildebrando Tacconi, professore al Ginnasio di Zara, ma originario di
Spalato e fratello di Antonio, uno dei capi della minoranza italiana spalatina. Il 19 gennaio proprio Ildebrando Tacconi sfidò a duello Zimolo,
che lo aveva offeso in un articolo di giornale accusandolo di slealtà
nella sua azione di opposizione antifascista ed antinazionalista124.
I risultati elettorali sancirono il trionfo dei liberali e di Ziliotto. A
Zara la lista dell’Unione Nazionale conquistò la maggioranza con
1.072 voti, mentre il blocco fascista-nazionalista ebbe solo 462 suffragi, e 349 voti si suddivisero fra socialisti e repubblicani125. Fra i 29
consiglieri liberali furono eletti Pietro Domiacussich, e gli spalatini
Ildebrando Tacconi e Bruno Illich. I repubblicani ebbero un consigliere, Simeone Drazevich, mentre i nazional-fascisti elessero 6
consiglieri: Rodolfo Battara, Maurizio Mandel, Antonio Arnerich,
121 «L’Idea Nazionale», 20 gennaio 1922, La fervida battaglia del partito nazionale a Zara.
122
Ibidem.
123 Ibidem. Mandel e Zimolo inviarono tale telegramma di protesta a Salandra: BL, Carte
Salandra, C-I-31, Mandel e Zimolo a Salandra, 19 gennaio 1922. In un telegramma del 19
gennaio Krekich dichiarò a Salandra che tali accuse erano assurde: i suoi sostenitori, in segno di sviscerato amore per Spalato, avevano deciso la candidatura dello spalatino Ildebrando Tacconi al Consiglio comunale di Zara: ibidem, Krekich a Salandra, 19 gennaio 1922.
124 «L’Idea Nazionale», 20 gennaio 1922, Un duello di Michelangelo Zimolo.
125 «L’Idea Nazionale», 26 gennaio 1922, Le elezioni amministrative nelle nuove Provincie. Qualche cenno anche in APOLLONIO, Dagli Asburgo a Mussolini, cit. p. 481.
380
LUCIANO MONZALI
Giovanni Marsan, Egidio Rovaro-Brizzi, Vittorio Verban126.
La sconfitta elettorale dei nazionalfascisti in Dalmazia fu umiliante
per i capi del nazionalismo e del fascismo, che rivendicavano di essere i veri e più autentici rappresentanti della minoranza italiana dalmata: tale pretesa al monopolio della rappresentanza dei dalmati italiani era stata sconfessata dal voto degli elettori zaratini. Il deputato
fascista Ezio Maria Gray, che era stato inviato da Mussolini a partecipare alla campagna per le municipali a Zara, rilasciò un’intervista
dopo le elezioni, attaccando duramente i liberali seguaci di Ziliotto e
Krekich. Secondo Gray, a Zara si era combattuta una battaglia «tra il
Municipio e la Nazione, tra lo spirito gretto di amministrazione e lo
spirito ampio e fervido di rappresentanza dell’Italia»127. La vittoria dei
municipalisti guidati da Krekich – accusati da Gray di accogliere fascisti e nazionalisti «come foresti» – era stata solo numerica. Krekich
fu accusato di essere solo a parole contro il trattato di Rapallo, mentre di fatto aveva collaborato con Bonfanti ed era legato a Salata e
Sforza128. I risultati delle elezioni politiche del maggio 1921 e di quelle amministrative del gennaio 1922 indicarono che, nonostante le difficilissime condizioni politiche ed economiche, il liberalismo dalmata era stato capace di respingere l’offensiva del nazionalismo e del fascismo e di preservare l’egemonia politica. L’abilità politica di Ziliotto
e Krekich, la capacità dei vecchi capi del partito italiano-autonomo di
rappresentare adeguatamente gli interessi concreti della popolazione
italiana zaratina, la corrispondenza dei valori del liberalismo dalmata con quelli della maggioranza degli italiani di Dalmazia, spiegavano questi successi. Ma la supremazia liberale in Dalmazia contrastava con un quadro politico italiano alquanto diverso, dove il fascismo
cresceva in forza e consensi di fronte alla crisi del liberalismo. Nella
stessa Venezia Giulia i liberali nazionali erano stati incapaci di resistere all’ascesa del movimento fascista con quella determinazione e
quel vigore dimostrati dall’Unione Nazionale zaratina. Nonostante
quindi le ripetute vittorie elettorali liberali, nel corso del 1922 il blocco nazional-fascista si rafforzò progressivamente anche a Zara, sfruttando i crescenti successi del fascismo nel resto d’Italia. Oltre al declino del liberalismo della Penisola, contribuì all’indebolimento dei li126
«Novo Doba», 31 gennaio 1922, Izbori u Zadru.
«L’Idea Nazionale», 5 febbraio 1922, I risultati delle elezioni amministrative a Zara
in una intervista con l’on. E. M. Gray.
128 Ibidem.
127
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
381
berali zaratini quale forza politica autonoma l’improvvisa morte di
Luigi Ziliotto nel febbraio 1922129. Con Ziliotto scompariva il leader
indiscusso del liberalismo nazionale italiano in Dalmazia da oltre due
decenni, un capo che univa brillanti doti intellettuali e una forte carica ideale a grandi capacità politiche ed amministrative. I liberali zaratini perdevano il loro dirigente più abile e spregiudicato in un momento di grave difficoltà politica. Dopo la morte di Ziliotto la guida
del movimento liberale zaratino venne assunta da Krekich, che si trovò
ad operare in una situazione di crescente difficoltà. Nel corso del 1922
le condizioni economiche di Zara non cessarono di peggiorare130. Le
difficoltà nei rapporti italo-iugoslavi e l’incertezza giuridica delle relazioni fra la città italiana e il suo retroterra provocarono una grave
crisi commerciale. Il ritardo nell’applicazione del decreto sulla zona
franca doganale di Zara impedì alla città di compensare e reagire alla riduzione del traffico con i territori iugoslavi. La crisi economica
favorì la continuazione di un forte esodo di zaratini verso la Penisola
e all’estero. L’impoverimento e la depressione economica provocarono una sempre maggiore dipendenza della collettività locale dal governo di Roma. Inoltre ogni oscillazione nei rapporti politici fra Italia
e Regno SHS aveva le sue immediate ripercussioni proprio su Zara e
la sua popolazione. Vi era poi una crescente insoddisfazione di parte
della popolazione zaratina verso l’amministrazione italiana, il cui funzionamento e il modo di gestire i rapporti con la società erano sconosciuti ed estranei alla Dalmazia131.
4.4. Facta, Schanzer e gli accordi di Santa Margherita
Nel corso del 1922 proseguì l’indebolimento delle forze politiche e
delle istituzioni liberali sotto la spinta di un movimento fascista sempre più dinamico ed aggressivo. Il governo Bonomi, indebolito dall’esplodere della guerra civile fra fascisti e socialisti in gran parte del129 «La Nazione» (Trieste), 7 febbraio 1922, La morte del senatore Ziliotto a Zara; LUIGI
ZILIOTTO, Lettera ad Enzo Bettiza. La risposta di un dalmata di Zara all’“Esilio”, Roma, 2004,
pp. 11-14.
130 Al riguardo: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 14, EDOARDO CALEBICH, Memoriale, 28
febbraio 1922, allegato a Associazione fra commercianti in Zara ad anonimo, 6 marzo 1922.
131 Al riguardo le dure critiche di Krekich al commissario civile Moroni e al funzionario di polizia Gaetano Sporti, «il quale col suo contegno rende antipatica ed invisa l’amministrazione italiana»: ASMAE, Carte Salata, b. 258, Krekich a Salata, 18 ottobre 1922.
382
LUCIANO MONZALI
la Penisola e dallo scandalo provocato dal fallimento della Banca
Italiana di Sconto, si dimise il 22 gennaio 1922132. Falliti i tentativi di
Nitti e Giolitti di formare un nuovo esecutivo, il 26 febbraio si costituì un governo guidato dal piemontese Facta133, fedelissimo di Giolitti, che si appoggiava su un’eterogenea coalizione formata da liberali,
popolari e destra salandrina. Per la carica di ministro degli Esteri, svanite le speranze di Tittoni di tornare alla Consulta, fu nominato Carlo
Schanzer, che aveva ottenuto un grande successo diplomatico come
delegato alla Conferenza di Washington garantendo all’Italia la parità
navale con la Francia nel trattato delle cinque potenze134. Schanzer135,
desideroso di usare la politica estera per rilanciare il prestigio di un
esecutivo molto debole, cercò di rafforzare il peso internazionale dell’Italia puntando alla creazione di stretti rapporti con Londra136. Tentò,
in particolare, di sfruttare l’organizzazione di un’importante conferenza internazionale a Genova, dedicata alla discussione sul modo di
favorire la ripresa economica europea e la distensione dei rapporti con
l’Unione Sovietica, per fare crescere il prestigio dell’Italia137. Schanzer
e il suo sottosegretario, Tosti di Valminuta, già negoziatore dell’accordo italo-iugoslavo sulla pesca, dedicarono anche molta attenzione
ai rapporti con la Iugoslavia. Desiderosi di togliere argomenti alla propaganda fascista, puntarono a garantire una forte tutela della mino-
132
BDFA, II, F, 5, Graham a Curzon, 3 febbraio 1922, d. 73.
133 BDFA, II, F, 5, Graham a Curzon, 24 febbraio e 2 marzo 1922, dd. 86 e 87; VENERUSO,
La vigilia del fascismo. Il primo ministero Facta nella crisi dello Stato liberale in Italia, cit.;
FANELLO MARCUCCI, op. cit., p. 104 e ss.
134 Sulla partecipazione italiana alla Conferenza di Washington: MATTEO PIZZIGALLO,
L’Italia alla Conferenza di Washington, in ID., Disarmo navale e Turchia nella politica italiana 1921-1922, Napoli, 2004, pp. 11-84; ALBERTINI, I giorni di un liberale, cit., p. 265 e ss.
135 Per un’analisi della figura di Schanzer: MICHELETTA, op. cit., II, p. 595 e ss.
136 MICHELETTA, op. cit., II; DBFP, I, 24, dd. 3, 4, 5, 6, 7. La diplomazia francese fu molto ostile alla politica estera di Schanzer: AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 80, Barthou
al Ministero degli Esteri, 9 maggio 1922; ibidem, Saint-Aulaire al ministro degli Esteri, 5 e
7 luglio 1922; ibidem, Barrère a ministro degli Esteri, 9 e 19 luglio 1922.
137 Sulla Conferenza di Genova nella politica europea: CAROLE FINK, The Genoa
Conference. European Diplomacy, 1921-1922, Chapel Hill-London, 1984; STEPHEN WHITE,
The Origins of Détente. The Genoa Conference and Soviet-Western Relations 1921-1922,
Cambridge, 1985; CAROLE FINK, AXEL FROHN, JURGEN HEIDEKING (a cura di), Genoa, Rapallo
and European Reconstruction in 1922, Washington-Cambridge, 1991; PETER KRÜGER, Die
Aussenpolitik der Republik von Weimar, Darmstadt, 1993, p. 155 e ss.; AUTORI VARI, La conferenza di Genova e il trattato di Rapallo (1922), Roma, 1974; PETRACCHI, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana, cit., p. 214 e ss.; CODRESCO, op. cit., I, p. 253 e ss.; MATTEO
PIZZIGALLO, Alle origini della politica petrolifera italiana (1920-1925), Milano, 1981, p. 94
e ss.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
383
ranza italiana in Dalmazia e a risolvere i problemi dello status di Fiume
e Zara accelerando l’applicazione dell’accordo di Rapallo. Nelle dichiarazioni di presentazione del nuovo governo alla Camera, Facta sottolineò la volontà dell’esecutivo di stabilire buone relazioni di vicinato e stretti rapporti commerciali con il Regno SHS.
A tal uopo – dichiarò il presidente del Consiglio – è nostro fermo proposito condurre rapidamente innanzi e portare a prossima conclusione i negoziati intesi a risolvere le questioni ancora pendenti per l’esecuzione del trattato di Rapallo, affinché le due Nazioni possano amichevolmente ed efficacemente collaborare nel campo economico138.
Proprio nel mese di marzo i rapporti italo-iugoslavi conobbero una
svolta a causa degli eventi politici di Fiume. Il 3 marzo il governo autonomista fiumano, formatosi in conseguenza delle elezioni del 24
aprile 1921 e guidato da Riccardo Zanella, fu rovesciato da un colpo
di Stato organizzato dai nazionalisti e dai fascisti italiani con il non
troppo nascosto sostegno dell’Italia, in cattivi rapporti con gli autonomisti139. Zanella fuggì in esilio, sperando di raccogliere un sostegno
internazionale a favore della restaurazione del suo governo. L’azione
compiuta dai fascisti e dai nazionalisti italiani a Fiume ebbe tra i suoi
organizzatori e capi alcuni reduci del movimento dannunziano, ad
esempio Giovanni Giuriati, che non avevano rinunciato all’antico progetto di sobillare le nazionalità oppresse del Regno SHS contro il potere centrale serbo. Il 16 marzo 1922 Giuriati scrisse a D’Annunzio
che i politici croati, già alleati con il governo dannunziano di Fiume,
erano pronti a costituire la repubblica croata indipendente e sollevarsi contro lo Stato iugoslavo: «La Croazia è sempre pronta ad intendersi con noi sulle basi della convenzione del luglio 1920 che io firmai per te»140. Ma il governo pavido ed imbelle di Facta e Schanzer
era «pauroso in favore degli altri e coraggioso contro l’Italia»141, e non
assecondava tali direttive politiche. Il colpo di Stato fiumano ebbe varie conseguenze. Innanzitutto fu la sostanziale fine dell’indipendenza
dello Stato libero di Fiume, entità in fondo osteggiata sia dall’Italia
138
«L’Idea Nazionale», 16 marzo 1922, Le dichiarazioni dell’on. Facta.
139 Al riguardo: MASSAGRANDE, op. cit., p. 73; ATTILIO DEPOLI, Fiume XXX ottobre 1918.
Scritti scelti, San Giovanni in Persiceto, 1982, p. 270 e ss.; AMLETO BALLARINI, L’antidannunzio a Fiume. Riccardo Zanella, Trieste, 1995.
140 FV, ARC GEN, fasc. Giovanni Giuriati, Giuriati a D’Annunzio, 16 marzo 1922.
141 Ibidem.
384
LUCIANO MONZALI
che dal Regno iugoslavo. L’azione fascista – che rafforzava la posizione dell’Italia, che occupava lo Stato fiumano e la terza zona dalmata, di fronte a Belgrado – ebbe poi l’effetto di spingere gli iugoslavi a riprendere i negoziati con l’Italia al fine di potere ottenere lo
sgombero dai territori spettanti alla Iugoslavia. Grande sostenitore della ripresa del dialogo diplomatico con l’Italia fu Ninc#ic!, nominato ministro degli Esteri iugoslavo nel gennaio 1922. Da tempo in contatto
con la rappresentanza italiana a Belgrado, Ninc#ic! era un nazionalista
serbo, legato a Pas#ic!, che riteneva non vi fossero fondamentali contrasti d’interessi fra nazione serba e Italia. Appena divenuto ministro,
Ninc#ic! dichiarò a Manzoni la sua volontà di proseguire e completare
l’applicazione del trattato di Rapallo, pur sottolineando l’indisponibilità del suo governo a certe richieste italiane, quali, ad esempio, la proposta di allacciamento ferroviario fra Zara e Knin142. Dopo il colpo di
Stato fiumano, il ministro italiano a Belgrado riferì che il governo iugoslavo sperava che prima della Conferenza di Genova Italia e Iugoslavia raggiungessero un’intesa circa l’«esaurimento trattato di
Rapallo»; a Genova vi sarebbe stata, poi, la possibilità di concretare
diplomaticamente tale intesa143. Il governo di Roma decise di accogliere l’offerta di Belgrado. Fra marzo e aprile si svolsero a Roma i
lavori della commissione economica italo-iugoslava, caratterizzata da
una serie di lunghe conversazioni su tematiche finanziarie miranti alla preparazione di alcune convenzioni relative all’applicazione del trattato di Rapallo in campo amministrativo, economico e finanziario144.
In occasione della Conferenza di Genova si ebbe una ripresa dei negoziati politici italo-iugoslavi riguardo all’applicazione del trattato di
Rapallo e circa la situazione di Fiume. Nel corso dei mesi di aprile e
maggio, contemporaneamente ai lavori della Conferenza internazionale di Genova, a Santa Margherita, nell’Hôtel Guglielmina, si svolsero lunghi negoziati fra italiani e iugoslavi per la preparazione di intese che definissero l’applicazione completa dell’accordo di Rapallo145.
La delegazione italiana fu guidata dal sottosegretario Tosti di Val142 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 12, Manzoni a Della Torretta, 16 gennaio 1922.
GAB 1923-43, AF, b. 24, Manzoni a Schanzer, 12 marzo 1922.
144 Al riguardo i verbali delle conversazioni condotte da parte italiana da Luciolli e
Brocchi, da parte iugoslava da Rybar e Hacin, in ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 26.
145 «L’Idea Nazionale», 11 aprile 1922, GUIDO MILELLI, Le trattative italo-jugoslave per
il trattato di Rapallo; ALBERTINI, Epistolario, cit., III, Albertini a Sforza, 27 aprile 1922, d.
1312; ivi, Sforza a Albertini, 2 maggio 1922, d. 1313; ALBERTINI, I giorni di un liberale, cit.,
p. 387 e ss.
143 ASMAE,
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
385
minuta e dal segretario generale Contarini, mentre quella iugoslava fu
presieduta da Ninc#ic!, Antonijevic! e dal ministro dalmata Krstelj. Le
trattative furono lunghe e difficili, anche per la complessità tecnica dei
problemi da affrontare146. Al lavoro della delegazione italiana collaborarono alcuni dalmati italiani, Krekich, Lubin, Smirich, Tacconi e
Pezzoli147. Proprio per evitare il rischio del sorgere di una forte opposizione dei dalmati italiani alle possibili intese con Belgrado, il governo Schanzer fu molto attento ed assiduo nella consultazione dei rappresentanti di Zara e delle comunità italiane della Dalmazia iugoslava148. Riguardo al problema dell’assetto di Zara, Natale Krekich ribadì
la richiesta di fare creare nel territorio iugoslavo una zona franca circostante la città; l’ipotesi di includere Zara nel territorio doganale della Iugoslavia al fine di garantirne la sopravvivenza economica era, invece, inaccettabile: tutti gli abitanti di Zara vi sarebbero stati ostili e
pure l’opinione pubblica italiana avrebbe avuto difficoltà ad accettare tale soluzione149. A parere di Giovanni Lubin, l’unione doganale
avrebbe significato la morte dell’italianità di Zara:
[…] L’unione doganale è un pericolo nazionale; combinata con l’allacciamento ferroviario promuoverebbe l’assorbimento degli italiani; del resto
è noto che l’unione doganale precede ordinariamente quella politica. È quindi contrario per ragioni politiche: tutti i suoi concittadini vedrebbero in ciò il
primo passo alla rinunzia di Zara da parte dell’Italia150.
146 Nei negoziati di Santa Margherita fu dato largo spazio ai problemi economici e amministrativi: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Pro-memoria Moscheni sulle questioni economiche alla Conferenza di Genova (Trieste e trattative italo-jugoslave), aprile 1922.
147 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Viola ad Umiltà, 26 aprile 1922; ivi, Viola a
Moroni, 26 aprile 1924.
148 Ad esempio: ASMAE, Carte Salata, b. 267, Righetti a Salata, 13 e 18 maggio 1922;
ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 26, Verbale della seduta tenuta a Santa Margherita Ligure l’11
maggio 1922, presenti Tosti di Valminuta, Luciolli, Jacini, Krekich, Moroni, Righetti, Lubin,
Smirich, Bartoli, Scaduto.
149ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 26, Verbale della seduta tenuta nella Sala Gialla del
Ministero degli Esteri il 1° maggio 1922, presenti Fulco Tosti di Valminuta, Salata, Krekich,
Brocchi, Barbarich, Righi, Contarini, Ciancarelli; ASMAE, Carte Salata, b. 267, Brocchi a
Salata, 4 maggio 1922.
150 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 26, Verbale della seduta tenuta a Santa Margherita
Ligure il 3 maggio 1922, presenti Tosti di Valminuta, Luciolli, Brocchi, Krekich, Moroni,
Lubin, Smirich, Buscevich [Bucevich]. Peraltro la posizione di rifiuto dell’unione doganale
non era condivisa da tutti i dalmati italiani. Il funzionario dalmata Bucevich, presente alle discussioni del 3 maggio, si dichiarò a favore: «[…] dichiara di non sentirsi meno italiano dei
suoi concittadini pure essendo favorevole alla soluzione dell’unione doganale, la sola che assicurerebbe l’avvenire economico di Zara e metterebbe Zara in condizioni di adempiere alla
sua missione sull’altra sponda. Nega che tale soluzione possa costituire un pericolo per la na-
386
LUCIANO MONZALI
Nel corso dei negoziati il governo di Roma cercò di ottenere anche il consenso iugoslavo ad un altro progetto caro ai liberali zaratini, la costruzione della ferrovia Zara-Knin, scontrandosi con la decisa opposizione della delegazione SHS. Riguardo agli italiani della
Dalmazia iugoslava, la delegazione italiana s’impegnò per ottenere una
specificazione del contenuto dell’articolo 7 del trattato di Rapallo, con
il riconoscimento formale della sua applicazione anche a Veglia, non
citata esplicitamente dal trattato del novembre 1920. La posizione italiana, però, era influenzata dalla preoccupazione di non dovere eventualmente concedere garanzie formali alla minoranza sloveno-croataserba in Venezia Giulia. Notò a questo riguardo Francesco Salata il 1°
maggio 1922:
Non devesi dimenticare attualmente che nel condurre le trattative noi ci
troviamo in posizione molto delicata perché facilmente quanto noi richiediamo al Governo S.H.S. potrebbe essere da lui, anche senza il diritto formale a noi assicurato dai trattati, a sua volta richiesto per le minoranze slave
della Venezia Giulia. D’altra parte noi dobbiamo ottenere che lo Stato S.H.S.
garantisca ai nostri dalmati quanto noi di fatto concediamo agli slavi della
Venezia Giulia151.
La difficoltà delle trattative italo-iugoslave, concomitanti con i lavori della Conferenza di Genova, convinse la stessa diplomazia britannica, interessata al miglioramento dei rapporti fra Italia e Regno
SHS al fine di favorire il consolidamento dello Stato iugoslavo, ad intervenire nei negoziati di Santa Margherita. L’8 maggio vi fu un incontro fra il primo ministro britannico Lloyd George, Schanzer e
Ninc#ic! a Genova, durante il quale il governo di Londra fece capire il
proprio interesse a che le trattative italo-iugoslave avessero un esito
positivo. Schanzer ribadì l’importanza di concludere un trattato riguardo l’assetto del territorio di Zara. La città di Zara non poteva sopravvivere senza un accordo che le garantisse i rifornimenti di cibo e
di acqua. Raggiunta una tale intesa egli era pronto ad ordinare l’eva-
zionalità di Zara ora che essa trovasi sotto la sovranità dell’Italia, se essa ha saputo lottare
con successo nel campo nazionale quando era soggetta al dominio austriaco. Esorta i suoi
concittadini a guardare più lontano e a non giudicare la situazione con meschini concetti municipali» (ibidem). Ma le dichiarazioni di Bucevich non convinsero Lubin e Krekich a mutare posizioni al riguardo.
151 Verbale della seduta tenuta nella Sala Gialla del Ministero degli Esteri il 1° maggio
1922, cit.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
387
cuazione della terza zona ancora occupata dall’esercito italiano. Ninc#ic!
ribadì il punto di vista iugoslavo che la conclusione di un accordo su
Zara non era possibile finché l’Italia non avesse proceduto all’evacuazione dei territori ancora occupati152. Il 18 maggio Lloyd George,
desideroso di contribuire al superamento della controversia italo-iugoslava, s’incontrò nuovamente con Schanzer e Ninc#ic!. Il ministro italiano constatò i progressi nella trattativa, ma chiese che la delegazione iugoslava compisse alcune concessioni che facilitassero l’esportazione delle marasche a Zara e consentissero la futura costruzione di
comunicazioni ferroviarie fra Zara e la Iugoslavia. Ninc#ic! dichiarò di
non potere accettare di includere nella convenzione alcuna clausola riguardo al commercio delle marasche poiché lo scopo dell’accordo doveva essere solamente quello di assicurare il «ravitaillement» di Zara
riguardo i prodotti di prima necessità; l’ipotesi di una ferrovia fra Zara
e il territorio iugoslavo era inconcepibile: l’opinione pubblica iugoslava non avrebbe accettato tale iniziativa che sarebbe stata considerata una gratuita estensione dell’influenza italiana in Dalmazia153. A
parere del ministro degli Esteri iugoslavo, era necessaria l’evacuazione della terza zona prima che la convenzione di Zara entrasse in vigore. Schanzer si dichiarò pronto a procedere all’evacuazione preventiva della terza zona purché Ninc#ic! assumesse l’impegno che la
convenzione su Zara sarebbe entrata in vigore appena lo sgombero
avesse avuto luogo, ma il ministro iugoslavo non poté garantire il consenso del proprio governo a tale compromesso, auspicato pure dai britannici. Altri problemi non ancora risolti erano poi la protezione della minoranza italiana in Dalmazia e l’amministrazione dei porti di
Fiume e Susak154. I negoziati italo-iugoslavi proseguirono e il 20 maggio le due delegazioni raggiunsero un’intesa provvisoria su un accordo generale155. Nei giorni successivi si svolsero a Roma intense ne152 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Note of a conversation on the terrace of the Villa
d’Albertis, Genoa, on Monday May 8, 1922, at 10.30 a.m., presenti Lloyd George, Hankey,
Grigg, Gregory, Schanzer, Visconti Venosta, Giannini, Ninc#ic!, Antonijevic!.
153 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Note of a conversation on the terrace of the Villa
d’Albertis, Genoa, on Thursday, May 18th, 1922, at 6.15 p.m., presenti Lloyd George, Wigram,
Grigg, Gregory, Facta, Schanzer, Visconti Venosta, Giannini, Tosti di Valminuta, Contarini,
Gullini, Ninc#ic!, Antonijevic!, Krstelj.
154 Ibidem.
155 Il testo del progetto d’accordo per l’esecuzione del trattato di Rapallo, parafato da
Tosti di Valminuta e Krstelj il 20 maggio 1922, è conservato in ASMAE, GAB 1923-43, AF,
b. 24, allegato a Tosti di Valminuta a Schanzer, 24 giugno 1922. Al riguardo: «L’Idea
Nazionale», 23 maggio 1922, GUIDO MILELLI, Il protocollo di Santa Margherita.
388
LUCIANO MONZALI
goziazioni che portarono alla parafatura di tre convenzioni relative a
problemi di carattere amministrativo, economico e finanziario concernenti Zara, Fiume e la minoranza italiana nella Dalmazia iugoslava156. Sia l’accordo generale che le convenzioni tecniche non avevano ancora un carattere vincolante ed erano da sottomettersi all’approvazione dei rispettivi governi. Circa Zara veniva stabilito il diritto della città di svolgere il suo commercio d’esportazione per una certa
quantità di prodotti in assoluta franchigia entro una striscia del retroterra iugoslavo fra i 10 e i 15 chilometri, mentre le importazioni dalla Iugoslavia avrebbero avuto libera entrata. Venivano concluse convenzioni speciali circa l’acquedotto, le proprietà e i vari problemi amministrativi di Zara ed era prevista la creazione di una commissione
congiunta che avrebbe studiato il problema delle comunicazioni per
Zara. Per Fiume veniva nominata una commissione paritetica per procedere alla delimitazione confinaria, all’organizzazione del porto e alla sistemazione dello Stato fiumano. Erano poi previste disposizioni
preliminari circa la protezione di alcuni diritti della minoranza italiana in Dalmazia (professioni, scuole), che avrebbero poi avuto una migliore definizione in occasione della successiva futura conclusione del
trattato di commercio italo-iugoslavo.
La conclusione di un’intesa provvisoria fra Italia e Iugoslavia suscitò le proteste dei nazionalisti e dei fascisti italiani. Forges Davanzati denunciò la debolezza e l’incertezza del governo Facta nei rapporti con la Iugoslavia157. Il presidente dell’associazione Dalmazia,
Roncagli, chiese che il Parlamento italiano non ratificasse i futuri accordi, a suo avviso, dannosi per gli interessi dell’Italia158. Tornati a
Belgrado alla fine di maggio, Ninc#ic! e Krstelj presentarono al governo iugoslavo i testi delle convenzioni concordate con la delegazione
italiana. Timoroso delle critiche e degli attacchi degli ambienti politici dalmati e croati, capitanati da Trumbic!159, Pas#ic! avanzò la richiesta
di alcune modifiche agli accordi. Il governo di Belgrado rifiutò l’idea
di scuole statali italiane in Dalmazia e domandò che gli insegnanti nel156 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 26, Verbali delle sedute tenute alla Consulta i giorni
23, 24, 25, 26 e 27 maggio 1922. I negoziati furono condotti da Krstelj, Rybar, Hacin per il
governo iugoslavo, da Tosti di Valminuta, Brocchi, Luciolli e Righetti per il governo di Roma.
157 «L’Idea Nazionale», 23 maggio 1922, ROBERTO FORGES DAVANZATI, L’accordo italojugoslavo è firmato. La pessima politica.
158 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Roncagli a Orlando, 30 maggio 1922, allegato a
Castelli a Schanzer, 8 agosto 1922.
159 Al riguardo: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Manzoni a Schanzer, 20 giugno 1922.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
389
le scuole italiane fossero in possesso della cittadinanza iugoslava. Si
pretendeva poi la riduzione dell’ampiezza della zona franca iugoslava, una migliore ripartizione dei beni archivistici di Zara, una differente ripartizione dei beni ecclesiastici zaratini e il rinvio dell’entrata
in vigore delle convenzioni relative alle comunicazioni commerciali
in Dalmazia160. Le richieste iugoslave riaprirono sostanzialmente i negoziati fra le due diplomazie, che si protrassero per alcuni mesi. Il fatto che il governo di Roma accettasse di riprendere la discussione su
quanto già stabilito a Santa Margherita e Roma, suscitò l’irritazione
delle destre nazionalista e fascista italiane. I nazionalisti denunciarono come inaccettabili le nuove pretese iugoslave161. Esponenti fascisti come Giuriati e Dudan attaccarono con durezza la politica estera
di Schanzer162. A parere di Dudan gli accordi di Santa Margherita garantivano una peggiore protezione dei diritti degli italiani dalmati anche a confronto del trattato di Rapallo, che dava dei privilegi alla minoranza italiana rispetto alle altre popolazioni allogene nello Stato iugoslavo. Gli accordi di Santa Margherita erano inaccettabili poiché
concedevano alla Iugoslavia il porto di Fiume e la terza zona dalmata dando all’Italia nulla in più di quanto già aveva163. In realtà la speranza di Dudan e dell’ala nazionalista e dannunziana del movimento
fascista era che, boicottando le convenzioni di Santa Margherita, si potesse poi procedere ad una rinegoziazione di quanto previsto dal trattato di Rapallo, garantendo all’Italia l’annessione di parte della terza
zona dalmata e dello Stato fiumano. Per mettere in difficoltà il governo, Giuriati e Dudan, con l’appoggio del radicale Colonna di Cesarò, chiesero l’approvazione parlamentare delle convenzioni di Santa
Margherita prima della loro eventuale esecuzione164. Dudan, poi, cominciò ad attaccare violentemente il governo Facta, attraverso una
campagna di stampa e la presentazione di interrogazioni parlamenta160 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Manzoni a Schanzer, 4 giugno 1922; ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 26, Verbale della seduta tenuta nella Sala Gialla del Ministero degli Affari
Esteri il 6 giugno 1922, presenti Tosti di Valminuta, Brocchi, Sciti, Antonijevic!; Tosti di
Valminuta a Schanzer, 24 giugno 1922, cit.
161 «L’Idea Nazionale», 24 giugno 1922, Inaccettabile tattica jugoslava per gli accordi
di Santa Margherita.
162 GIORGIO RUMI, Alle origini della politica estera fascista (1918-1923), Bari-Roma,
1968, p. 219 e ss.
163 ACS, Carte Schanzer, b. 16, Dudan a Schanzer, 14 luglio 1922; AP, Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 14 giugno 1922, discorso di Alessandro Dudan, p. 6158 e ss.
164 ACS, Carte Schanzer, b. 16, Giuriati a Orlando, 30 luglio 1922, allegato a Orlando a
Tosti di Valminuta, 5 agosto 1922.
390
LUCIANO MONZALI
ri165. Anche all’interno della diplomazia italiana si levarono voci critiche rispetto alla politica di collaborazione con la Iugoslavia perseguita dal governo Facta. Nel corso del mese di giugno la situazione in
Dalmazia si aggravò a causa della decisione del Consiglio locale dell’ordine degli avvocati di procedere immediatamente alla cancellazione
dall’ordine di tutti gli avvocati italiani che avevano rifiutato il giuramento al sovrano iugoslavo, ciò nonostante passate promesse delle autorità amministrative dalmate di sospendere tale iniziativa fino al raggiungimento di un’intesa fra i due governi al riguardo166. Il 22 giugno,
da Spalato, il console Umiltà chiese al governo italiano maggiore fermezza nei confronti della controparte iugoslava. A suo avviso, il governo iugoslavo riteneva che tutto era lecito ai nostri danni poiché
l’Italia era sempre pronta a recedere nella difesa dei propri diritti. La
questione delle scuole e quella degli avvocati italiani in Dalmazia erano problemi della massima importanza.
Le scuole hanno la massima importanza per questi italiani e per il nostro
paese, se esso non ha deliberato – ciò che non si può credere – di rinunciare
e per sempre a quel minimo d’italianità di questa parte della Dalmazia jugoslava che sola può alimentare la vita economica morale e culturale di Zara.
La questione degli avvocati è anche di grandissima importanza a questi fini,
non già per i singoli individui interessati, ma per il fatto che col loro mezzo
si sarebbe mantenuta una certa tradizione italiana nei Tribunali e negli uffici locali, e per il fatto ancora più importante che centinaia e centinaia di milioni, che a tanto ammontano le industrie, le fabbriche, i commerci, le proprietà urbane e campestre e minerarie dei cittadini italiani ancora qui residenti,
[…] una volta che saranno eliminati gli avvocati nostri, non avranno altra difesa che il patrocinio legale di professionisti jugoslavi. I quali, per odio di
parte, di razza e per lo spirito che ora ha invaso questa regione di impedire,
eliminare, distruggere con ogni mezzo, ogni influenza economica e culturale italiana, non sono certo i più indicati a difendere contro le loro convinzioni, contro le loro leggi, contro le loro autorità, gli interessi dei loro nemici167.
A parere di Umiltà, la ricerca dell’amicizia iugoslava aveva un’enorme importanza nella strategia complessiva della politica estera ita-
165 «L’Idea Nazionale», 27 luglio 1922, Una lettera dell’on. Dudan per le scuole italiane in Dalmazia; ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Presidenza del Consiglio dei Ministri a
Tosti di Valminuta, 12 settembre 1922.
166 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Umiltà a Schanzer, 21 giugno 1922.
167 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Umiltà a Schanzer, 22 giugno 1922.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
391
liana, ma era da dubitarsi che i mezzi usati per ottenerla fossero stati
finora quelli giusti:
[…] È dubbio che i mezzi che abbiamo adoperati, cioè la continua e completa longanimità nostra di fronte alle prepotenze, alle pretese, alle cattiverie, di questa gente, siano proprio quelli adatti per raggiungere lo scopo. Si
è dato loro isole, territori, si è ceduto sulla questione del cabotaggio, in quella della pesca, si è quasi sgombrato dagli italiani la Dalmazia jugoslava; si
stanno ora tentando accordi nei quali cediamo ancora qualche cosa, e il tono
della stampa, le prepotenze delle autorità, i continui incidenti creati dalla canaglia locale mostrano quanto purtroppo siamo lontani non dico dall’amicizia, ma dal diminuire un poco dell’odio e del disprezzo verso di noi. Questi
risultati così sconfortanti mi pare diano materia a lunghe ponderate meditazioni da parte nostra prima di affrettarsi a sacrificare del tutto e forse per sempre, alla speranza dell’amicizia jugoslava, gli ultimi e pur sempre grandissimi interessi economici, morali e culturali italiani di questa parte della Dalmazia168.
Di fronte alle crescenti critiche, il governo Facta-Schanzer ritenne
necessario un maggiore coinvolgimento dei politici dalmati italiani nei
negoziati con la Iugoslavia. Già all’inizio di giugno, in vista dell’eventuale approvazione degli accordi di Santa Margherita, Pezzoli,
Tacconi e Nicoletti avevano presentato al governo di Roma una serie
di richieste a favore delle comunità italiane della Dalmazia iugoslava169. I rappresentanti dalmati chiesero la riorganizzazione delle scuole italiane esistenti a Sebenico, Curzola, Lesina e Cittavecchia e la riapertura di quella di Spalato, la tutela del diritto al culto e alla pratica
religiosa in lingua italiana, provvedimenti speciali a tutela dei professionisti italiani costretti a lasciare la Dalmazia, dei pensionati optanti e degli studenti dalmati in Italia, e la nomina di un senatore del
Regno in rappresentanza degli italiani della Dalmazia non annessa.
Domandarono, poi, la partecipazione di delegati dalmati ad eventuali negoziati per la conclusione di un accordo circa l’indennizzo per le
eventuali restrizioni dei diritti di proprietà dei cittadini italiani, nonché il sostegno del governo alla costruzione di una nuova sede delle
istituzioni italiane ed alla fondazione di una Camera di commercio italiana a Spalato. Invitati dal governo, Tacconi e Selem si recarono a
168
Ibidem.
169 ACS, UNP, b. 62, LEONARDO PEZZOLI, ANTONIO TACCONI, TULLIO NICOLETTI, Postulati,
1° giugno 1922.
392
LUCIANO MONZALI
Roma ed ebbero prolungate consultazioni con i diplomatici italiani al
Ministero degli Esteri il 1° e il 2 luglio. I politici dalmati prepararono alcune note sulle questioni degli avvocati, delle scuole e delle professioni in Dalmazia. Pur favorevoli alle scuole di Stato, in quanto ritenute il miglior mezzo per impedire interferenze iugoslave nella loro attività, Tacconi e Selem si dichiararono disposti ad accettare la creazione di scuole private italiane purché fossero previste garanzie giuridiche contro eventuali ostruzionismi delle autorità SHS: l’apertura
e il funzionamento delle scuole dovevano essere sottratti ad ogni controllo delle autorità scolastiche iugoslave, mentre il corpo insegnanti
avrebbe potuto essere composto anche da maestri e catechisti cittadini italiani o abilitati in Italia170. In cambio della rinuncia alle scuole
statali, Tacconi e Selem chiesero che l’avvocatura fosse riconosciuta
come una delle professioni consentite anche ai cittadini optanti italiani171. In quelle settimane Tacconi, in particolare, fu coinvolto attivamente nei negoziati italo-iugoslavi in quanto esperto dalmata e partecipò alla preparazione dei testi degli articoli delle convenzioni di
Santa Margherita ancora in discussione172. Nonostante la partecipazione di politici dalmati ai negoziati, a Zara nel corso del mese di luglio si diffuse una crescente preoccupazione circa eventuali modifiche alle progettate convenzioni di Santa Margherita. All’inizio di agosto, la Giunta provinciale di Zara, presieduta da Lubin, il Consiglio
comunale, la Camera di Commercio di Zara e tutte le associazioni cittadine, scrissero un allarmato telegramma di protesta al presidente del
Consiglio173 e lo divulgarono alla stampa174. I politici zaratini denunciarono che il governo si stava piegando alle pretese iugoslave sacrificando i vitali interessi italiani in Dalmazia:
[…] Il Governo già caduto cedendo ad imposizioni straniere si piega ogni
giorno a concessioni a danno degli interessi nazionali decurtando e svuotan-
170 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Verbale della seduta del giorno 1° luglio 1922 alla Sala Gialla del Ministero degli Esteri, presenti Tacconi, Selem, Trabalza, Sciti, minuta.
171 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, ANTONIO TACCONI, Professioni. Appunti in merito alla continuazione dell’esercizio dell’Avvocatura, 3 luglio 1922, minuta.
172 Al riguardo: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Tacconi ad anonimo, 15 luglio 1922;
ibidem, appunto di Tacconi sulla redazione degli articoli 75, 76, 77, s.d. (ma luglio 1922).
173 Il testo del messaggio è riprodotto in ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Il segretario capo della Presidenza del Consiglio al Ministero degli Esteri, 3 agosto 1922.
174 «L’Idea Nazionale», 5 agosto 1922, Una protesta di Zara contro le concessioni alle
pretese jugoslave.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
393
do di ogni contenuto gli accordi di Santa Margherita e peggiorando il tragico errore di Rapallo con la rinuncia ad ogni seria garanzia di tutela delle minoranze della Dalmazia, con rinvio ad epoca indeterminata della questione
vitalissima delle comunicazioni terrestri e marittime di Zara e con la promessa
divisione degli Archivi e del materiale archeologico ed artistico della città175.
I politici zaratini chiesero l’aiuto dei gruppi parlamentari affinché
fossero impedite rinunce «che danneggiano e tradiscono il diritto nazionale abbandonando a morte sicura i nostri infelici fratelli lasciati
in balia del dominio straniero e facendo scempio dell’onore stesso
d’Italia», minacciando d’impedire concretamente la consegna agli iugoslavi del patrimonio archeologico e artistico di Zara, «il più prezioso
e sacro retaggio degli avi»176.
Per far fronte agli attacchi provenienti dalla destra nazional-fascista e dai politici zaratini, in un momento nel quale l’accordo definitivo con Belgrado sul testo delle convenzioni di Santa Margherita era
ormai vicino177, il governo Facta consultò molti esponenti politici. Il
4 e il 5 agosto alla Consulta si tennero alcune riunioni, presiedute da
Tosti di Valminuta, dedicate al problema dell’accordo italo-iugoslavo
di Santa Margherita, alle quali parteciparono i deputati fascisti Dudan
e Gray, il nazionalista Suvich, il radicale Di Cesarò, il commissario di
Zara Moroni, Krekich, Tacconi e Lubin. Tosti chiarì di volere spiegare informalmente ad alcuni uomini politici il carattere dei nuovi accordi e di chiedere pareri e consigli su come definire alcuni articoli
necessari per la tutela di interessi reali ora che ci si avvicinava alla conclusione dei negoziati con la Iugoslavia178. Il sottosegretario agli Esteri,
innanzitutto, cercò di rassicurare gli zaratini circa il futuro degli archivi presenti a Zara. Sul problema delle scuole Tacconi, Krekich e
Lubin si dichiararono a favore di quelle statali; se ciò non era ottenibile bisognava proteggere l’autonomia delle scuole private: a tal fine
era meglio rinunciare anche all’equipollenza dei titoli d’insegnamento che le scuole private avrebbero rilasciato, al fine di non consentire
un controllo intollerabile da parte delle autorità iugoslave. Suvich rilevò i pericoli di non avere l’equipollenza dei titoli d’insegnamento.
175
Ibidem.
Ibidem.
177 Al riguardo: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Summonte a Schanzer, 25 luglio 1922.
178 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 26, Verbale della seduta del giorno 4 agosto 1922 nella Sala Gialla del Ministero degli Esteri, presenti Tosti di Valminuta, Di Cesarò, Dudan, Suvich,
Moroni, Krekich, Gray, Lubin, Tacconi, Sciti.
176
394
LUCIANO MONZALI
Secondo il deputato triestino, fondamentali per la sopravvivenza dell’italianità dalmatica erano gli italiani in possesso della cittadinanza
iugoslava.
Ma senza l’equipollenza dei certificati di studio, le scuole serviranno solo per gli optanti. Egli, viceversa, annette molta importanza agli italiani non
optanti, giacché c’è una massa fluttuante che non si sa se sia propriamente
italiana o no, ma che per mezzo di una propaganda oculata verrebbe attratta
a noi. Siccome non si faranno probabilmente altre scuole italiane noi dovremo fare in modo che quella massa non frequentasse scuole slave179.
Tacconi si mostrò in dissenso con le tesi di Suvich; egli, piuttosto,
era convinto che, data la situazione esistente in Dalmazia e «l’enorme pressione dello Stato sciovinista jugoslavo è necessaria per la conservazione dell’italianità l’esistenza di un forte nucleo di cittadini italiani»: a tal fine era meglio ottenere scuole italiane autonome dall’interferenza iugoslava, nelle quali vi fossero maestri, testi, programmi
e regolamenti italiani, anche a costo di farne scuole per i soli optanti180. L’avvocato spalatino si proclamò a favore delle convenzioni di
Santa Margherita: se fosse stato possibile ottenere quanto previsto dagli accordi ciò avrebbe prodotto un indubbio rafforzamento delle posizioni italiane in Dalmazia. Dudan, invece, confermò la sua ostilità
a tutto ciò che avrebbe portato allo sgombero dalla terza zona dalmata, ed avrebbe quindi combattuto tali convenzioni, «con la speranza
che le tergiversazioni impediscano tale sgombero»181.
Nel corso di agosto e settembre i negoziati fra Roma e Belgrado
continuarono, condotti da Antonijevic! e da Tosti di Valminuta. Le due
parti si avvicinarono attraverso reciproche concessioni. Il governo italiano rinunciò alle scuole statali in Dalmazia ed accettò che le questioni relative alla viabilità di Zara e alla zona circostante retta a regime speciale fossero risolte in occasione del prossimo trattato di commercio italo-iugoslavo. Alla fine di settembre si raggiunse un sostanziale accordo fra le due parti, con ancora da risolvere solo la contro-
179 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 26, Verbale della seduta del giorno 5 agosto 1922 nella Sala Gialla del Ministero degli Esteri, presenti Tosti di Valminuta, Dudan, Suvich, Moroni,
Krekich, Lubin, Tacconi, Cippico, Sciti.
180 Ibidem.
181 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 26, Verbale della seduta del giorno 9 agosto 1922 nella Sala Gialla del Ministero degli Esteri, presenti Tosti di Valminuta, Dudan, Krekich,
Vidossich, Lubin, Tacconi, Sciti.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
395
versia circa l’insegnamento nelle scuole private: il governo iugoslavo
chiedeva che potessero insegnare nelle scuole in Dalmazia solo maestri optanti italiani, richiesta rifiutata dall’Italia182. Alla fine la diplomazia iugoslava rinunciò alle proprie tesi ed accettò che insegnanti
provenienti dall’Italia potessero insegnare nelle scuole private in
Dalmazia. Con le convenzioni di Santa Margherita ormai definite, il
ministro degli Esteri Schanzer affrontò il problema del modo di far approvare gli accordi italo-iugoslavi di fronte all’opposizione di fascisti
e nazionalisti183. Inizialmente Schanzer pensò di fare approvare e ratificare gli accordi con un decreto legge immediatamente esecutivo che
evitasse il passaggio parlamentare per le convenzioni. In una lettera a
Vittorio Emanuele Orlando dell’11 settembre 1922184, con la quale
cercò di convincere il presidente della Commissione Esteri della Camera a resistere alle pressioni dei deputati fascisti185, Schanzer spiegò
con larghezza di argomentazioni il suo pensiero sulle convenzioni di
Santa Margherita. A parere del ministro degli Esteri, la ratifica degli
accordi di Santa Margherita corrispondeva ai massimi interessi
dell’Italia:
La nostra situazione nell’Europa, dopo la guerra, presenta gravi incognite. Ci troviamo tra la Francia, spesso ostile e armata fino ai denti, e gli Stati
della Piccola Intesa, anche essi formidabilmente armati e che subiscono l’influenza della Francia. L’Italia invece ha ridotto il suo esercito ai minimi termini. L’Inghilterra è lontana e tende sempre più a ritirarsi dalla politica continentale. Ne segue che è necessario per la nostra sicurezza fare verso la
Jugoslavia, legata da un trattato militare alla Cecoslovacchia, una politica di
avvicinamento e di pacifici accordi. L’altro corno del dilemma è una politica che potrebbe presto portarci ad un conflitto armato il quale nella attuale
situazione diplomatica e militare dell’Europa e finanziaria nostra potrebbe
avere per noi disastrose conseguenze186.
Era poi urgente salvare Fiume facendo riaprire al più presto il traffico con la Iugoslavia, poiché i sussidi italiani non bastavano a farla
sopravvivere. L’urgenza della situazione internazionale dell’Italia e di
182 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Tosti di Valminuta a Legazione italiana a Belgrado,
29 settembre 1922; ibidem, Varé a Tosti di Valminuta, 24 settembre 1922.
183 Al riguardo: ACS, Carte Schanzer, b. 16, Dudan a Schanzer, 8 settembre 1922.
184 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Schanzer a Orlando, 11 settembre 1922, copia.
185 ACS, Carte Schanzer, b. 16, Orlando a Schanzer, 7 settembre 1922.
186 Ibidem.
396
LUCIANO MONZALI
Fiume imponeva, a parere di Schanzer, di fare approvare le convenzioni di Santa Margherita con un atto esecutivo che ne assicurasse la
ratifica prima dell’approvazione parlamentare. Ogni ritardo nella ratifica degli accordi avrebbe creato una situazione diplomatica difficile e tesa, con possibili conseguenze pericolose per la pace europea.
L’opposizione dei fascisti alle convenzioni di Santa Margherita era
miope e controproducente.
Specialmente il Dudan combatte questi accordi con una visione, secondo me, molto ristretta della situazione. Io non credo che mai accordi siano
stati studiati con maggiore cura e pazienza, tenendo conto nella più larga misura possibile dei desideri degli interessati. E parmi di poter dire che, attraverso a mesi e mesi di trattative, si è ottenuto il massimo che si poteva ottenere per la garanzia dell’elemento italiano in Dalmazia, a tal punto che i
Dalmati ragionevoli pienamente ne convengono. Il Dudan invece continua ad
agitarsi per questioni minuscole e perde di vista le considerazioni politiche
più ampie, vale a dire la necessità assoluta per noi di venire a un accordo con
la Jugoslavia, se vogliamo che i nostri italiani siano trattati bene in quel paese. Ritardando la ratifica noi non salveremo più Fiume e Dio sa quali colpi
di mano, quali rivolgimenti e quali dolorosi fatti ancora potranno funestare
la città sventurata, esponendo anche l’Italia a gravi pericoli, persino di conflitti armati, e paralizzandola nel campo internazionale187.
Da parte sua, il governo di Belgrado compì pressioni su quello italiano perché si giungesse alla firma delle convenzioni di Santa
Margherita: rifiutò di affrontare ogni altra trattativa o negoziato con
l’Italia, ad esempio quella della libertà di traffico ferroviario attraverso
il territorio iugoslavo, vitale per il futuro economico di Trieste, fino a
che non fosse stata risolta tale questione188.
La situazione politica in Italia era sempre più dominata e condizionata dal fascismo. Le autorità governative e militari erano passive
o assecondavano ogni iniziativa del movimento guidato da Mussolini.
Il movimento fascista dimostrò di possedere una forza organizzativa
e militare impressionante. All’inizio di ottobre le spedizioni fasciste
a Trento e Bolzano – che occuparono le due città e destituirono il sindaco di lingua tedesca di Bolzano Perathoner e il commissario civile
della Venezia Tridentina Credaro senza alcuna reazione delle autorità
187
Ibidem.
Carte Schanzer, b. 16, Paratore a Schanzer, 23 ottobre 1922.
188 ACS,
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
397
statali – mostrarono la debolezza politica del governo Facta di fronte
allo squadrismo189. Il partito fascista rimaneva ufficialmente ostile alle convenzioni di Santa Margherita, ritenute dannosissime per gli interessi degli italiani di Fiume e della Dalmazia, nonché ingiusto premio al governo iugoslavo inadempiente verso l’Italia190. I fascisti, in
ogni caso, chiedevano l’approvazione parlamentare delle convenzioni prima della loro entrata in vigore191. In realtà all’interno del partito fascista le posizioni sulla questione non erano omogenee ed uniformi; contattato dal governo Mussolini aveva dichiarato di dissentire dall’azione di Dudan contro l’applicazione del trattato di Rapallo192. Pubblicamente, tuttavia, Mussolini, timoroso di suscitare malumori nel
partito, sostenne Dudan e Giuriati nella campagna anti-iugoslava e
contro le convenzioni di Santa Margherita. Pur condizionato dalla difficile situazione politica interna, Schanzer rimase convinto che fosse
necessario procedere alla firma delle convenzioni di Santa Margherita,
ma ritenne più opportuno sottomettere gli accordi all’approvazione
parlamentare e rinviarne la ratifica, anche per timore che l’eventuale
immediata ratifica per atto esecutivo fosse l’occasione per azioni violente fasciste: la ratifica per decreto legge avrebbe offerto «cercato pretesto per scatenare gravissimi movimenti in Dalmazia e Fiume e in
Italia e obbligare Ministero a ritirarsi»193. Schanzer e Facta, quindi, decisero di procedere alla firma delle convenzioni di Santa Margherita
dopo aver ottenuto che il governo di Belgrado accettasse di far decorrere il termine per l’evacuazione della terza zona dalmata dal momento della ratifica degli accordi, da farsi dopo l’approvazione parlamentare194. Di fronte al rischio di un radicale deterioramento nei rapporti con la Iugoslavia, il governo di Roma decise di procedere alla
189 Sulle spedizioni fasciste a Bolzano e Trento: DE FELICE, Mussolini il fascista. La con-
quista del potere, cit., pp. 318-319; SALVATORELLI, MIRA, op. cit., I, p. 232.
190 «Il Popolo d’Italia», 22 settembre 1922, NINO FATTOVICH, Il fascismo di fronte agli
accordi di Santa Margherita in una conversazione con l’on. Dudan.
191 ACS, Carte Schanzer, b. 16, Dudan a Schanzer, 3 ottobre 1922.
192 Al riguardo Lusignoli a Giolitti, 14 settembre 1922, in MASSAGRANDE, Italia e Fiume,
cit., p. 203. Sulla base di queste informazioni confidenziali Schanzer dichiarava «di credere
che Capo partito fascisti non farà effettivamente opposizione attuazione accordi di Santa
Margherita» (ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 24, Schanzer a Pagliano, 21 agosto 1922). Anche
la diplomazia francese era convinta che Mussolini avrebbe perseguito una politica moderata
verso la Iugoslavia: AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 81, Charles-Roux al ministro degli Esteri, 29 ottobre 1922.
193 ACS, Carte Schanzer, b. 16, Schanzer a Facta, 14 ottobre 1922.
194 Ibidem.
398
LUCIANO MONZALI
firma degli accordi di Santa Margherita, atto compiuto a Roma il 23
ottobre195. Le convenzioni regolavano tutta una serie di questioni relative all’assetto amministrativo, politico ed economico della Dalmazia
e di Fiume, in applicazione di quanto previsto dal trattato di Rapallo.
Per Zara si veniva a creare una zona speciale comprendente la città, il
suo retroterra italiano e iugoslavo e le isole fronteggianti, all’interno
della quale si costituiva una zona franca che avrebbe posto Zara al di
fuori delle barriere doganali italiane e facilitato quindi i commerci fra
il centro dalmata e lo Stato SHS. Veniva poi garantito a Zara l’approvigionamento idrico, assicurando all’Italia la custodia e l’integrità delle fonti dell’acquedotto (lo stagno di Boccagnazzo) situate in territorio iugoslavo. Si procedeva poi alla valutazione e alla ripartizione dei
beni del Comune politico di Zara (ormai diviso fra Italia e Regno
SHS). Molte disposizioni riguardavano anche la minoranza italiana
nella Dalmazia iugoslava. Le convenzioni, innanzitutto, previdero una
proroga della data entro la quale era possibile chiedere l’opzione per
la cittadinanza italiana, rinviata al giorno dell’entrata in vigore degli
accordi di Santa Margherita; coloro che dimoravano nei territori ancora occupati dall’Italia avrebbero avuto la possibilità di optare entro
il termine di sei mesi a partire dal giorno dello sgombero da parte dell’esercito italiano. Riguardo all’esercizio delle professioni per gli optanti, le convenzioni di Santa Margherita affermavano il diritto dei cittadini italiani di svolgere attività e professioni non aventi carattere
d’ufficio pubblico o fiduciario. Rimanevano, però, escluse quattro professioni (notaio, geometra, ingegnere civile e avvocato) alle quali la
legislazione iugoslava annetteva carattere di funzione statale; per risolvere il problema dell’esclusione degli avvocati italiani, si prevedeva però la possibilità di ridiscutere la questione della possibilità di
riammettere all’esercizio professionale questi cittadini italiani in occasione delle prossime trattative per il trattato di commercio. Veniva
garantito agli optanti il rispetto delle concessioni ad essi accordate
dall’Austria-Ungheria prima del 3 novembre 1918 e la ricostituzione
delle società e degli istituti di beneficenza esistenti prima della guerra. Si prevedeva poi il diritto di costituire scuole private in lingua italiana per gli optanti italiani, che avrebbero goduto dell’equiparazione
con le scuole ufficiali esistenti, con insegnanti e catechisti, anche di
195 Il testo completo delle convenzioni di Santa Margherita in GIANNINI, Documenti per
la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, cit., pp. 76-123.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
399
cittadinanza italiana, scelti dai sudditi italiani concessionari e graditi
alle autorità competenti iugoslave. In materia di protezione dei diritti
di proprietà, minacciati, in particolare, dalla riforma agraria iugoslava, gli accordi di Santa Margherita assicuravano agli optanti un trattamento eguale a quello fatto ai sudditi SHS ed il diritto ad un’eventuale indennità in caso di diminuzione o restrizione di tali diritti; le
modalità per la determinazione ed il pagamento dell’indennità sarebbero state stabilite con uno specifico accordo nel corso delle future
trattative commerciali. Riguardo a Fiume, le convenzioni stabilivano
che non appena fossero stati dati gli ordini per l’evacuazione di Susak,
una commissione mista italo-iugoslava avrebbe sorvegliato le operazioni di evacuazione, delimitato la frontiera di Fiume ed organizzato
il funzionamento dei servizi portuali e dello Stato fiumano. Si prevedeva, infine, l’entrata in vigore dell’accordo sulla pesca firmato nel
settembre 1921.
Le convenzioni di Santa Margherita stabilivano un insieme di garanzie per le popolazioni italiane di Zara e della Dalmazia, previste in
principio dal trattato di Rapallo, che potevano assicurare migliori condizioni di vita per la minoranza. Ma sussisteva il dubbio sulla loro reale applicazione da parte delle autorità iugoslave. E naturalmente il valore di queste convenzioni dipendeva in massima parte dall’evoluzione delle relazioni politiche fra Italia e Regno SHS: solo la creazione
di un rapporto di forte amicizia e collaborazione fra i due Stati, nel rispetto della reciproca integrità territoriale, poteva convincere le autorità di Belgrado che gli italiani di Dalmazia non costituissero una minaccia allo Stato iugoslavo. Al momento della firma, comunque, il futuro delle convenzioni di Santa Margherita sembrava alquanto incerto a causa degli sviluppi della politica interna italiana. Alla fine di ottobre le dimissioni del governo Facta e l’avvento al potere di Benito
Mussolini, capo del fascismo, in seguito alla marcia su Roma, facevano prevedere a molti una rapida decadenza delle convenzioni di
Santa Margherita: giungeva infatti al governo dell’Italia il movimento politico che per mesi aveva condotto un’aspra battaglia contro la
conclusione degli accordi italo-iugoslavi e che sul piano propagandistico aveva con foga sostenuto il disegno dannunziano di disgregare
lo Stato unitario iugoslavo.
400
LUCIANO MONZALI
4.5. Gli italiani di Dalmazia e l’Italia fascista: alcune proposte
interpretative
L’avvento di Benito Mussolini, capo del movimento fascista, alla
Presidenza del Consiglio alla fine dell’ottobre 1922, alla guida di un
governo di coalizione dominato dai fascisti196, ebbe il paradossale effetto di produrre un progressivo miglioramento delle relazioni politiche fra l’Italia e il Regno SHS. Come abbiamo visto, nel corso della
sua carriera politica il leader romagnolo si era confrontato più volte
con la questione adriatica manifestando una varietà di posizioni, talvolta non poco contraddittorie e spregiudicate197. Durante la guerra
Mussolini aveva sostenuto tesi favorevoli all’amicizia italo-iugoslava,
accettando l’eventuale creazione di uno Stato iugoslavo unitario e criticando gli eccessi del programma nazionalista di rivendicazioni adriatiche. A partire dal 1918 egli si era spostato politicamente a destra e
aveva fatto proprio il programma nazionalista e dannunziano di conquista della Dalmazia e di disgregazione dello Stato iugoslavo. Che
queste posizioni anti-iugoslave fossero in parte mosse opportunistiche
emerse al momento della firma del trattato di Rapallo, accordo che il
politico romagnolo condivise, anche se sul piano ufficiale continuò a
cavalcare il mito della vittoria mutilata al fine di mantenere un ruolo
di capo dell’opposizione nazionale e d’indebolire i governi liberali. Nel
corso del 1921 e 1922 il capo del fascismo si presentò opportunisticamente all’opinione pubblica come il difensore dei diritti dei dalmati italiani e il sostenitore di una politica di scontro con la Iugoslavia,
facendo della questione adriatica uno dei cavalli di battaglia della polemica fascista contro i governi Bonomi e Facta. Una volta conquistato
il potere, Mussolini, desideroso di successi internazionali per consolidare il suo prestigio interno, adottò una politica adriatica moderata
e pragmatica e mirò a ristabilire rapporti di amicizia e collaborazione
con i nuovi Stati nazionali dell’Europa centrale. In questa ottica si spiega il suo progetto iniziale, poi fallito, di nominare ministro degli Esteri
Carlo Sforza, e la conferma alla segreteria generale del Ministero di
196 Al riguardo: DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit.; ADRIAN
LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo dal 1918 al 1929, Bari-Roma, 1974, p. 123
e ss.; SALVEMINI, Lezioni di Harvard: l’Italia dal 1919 al 1929, cit., p. 392 e ss.; SALVATORELLI,
MIRA, Storia d’Italia nel periodo fascista, cit.
197 Sull’atteggiamento di Mussolini verso la questione adriatica prima del 1922: DE
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit.; VIVARELLI, op. cit., I, p. 259 e ss.; DI NOLFO, Mussolini
e la politica estera italiana, cit.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
401
Salvatore Contarini, favorevole a buoni rapporti con la Francia e il Regno SHS198. Il politico romagnolo sostanzialmente fece proprie le posizioni sulla questione adriatica sostenute da Contarini e da Sforza, forti sostenitori della conclusione del trattato di Rapallo e di stretti rapporti con lo Stato SHS199. Su ispirazione di Contarini, Mussolini rassicurò Belgrado e optò per la distensione nelle relazioni italo-iugoslave200: inviò segnali tranquillizzanti a Belgrado circa la sua volontà
di creare una reale amicizia italo-iugoslava201 e impose ai gruppi nazionalisti e fascisti italiani di non suscitare incidenti anti-iugoslavi a
Fiume202. Il problema della ratifica degli accordi di Santa Margherita
fu una delle prime gravi questioni internazionali che il governo Mussolini si trovò ad affrontare. Per alcune settimane Mussolini pensò di
sfruttare l’esigenza della ratifica parlamentare degli accordi di Santa
Margherita per ottenere ulteriori concessioni politiche e territoriali a
Fiume e in Dalmazia203. Il 3 dicembre Mussolini decise di chiarire al
198 Riguardo al rapporto fra Mussolini e Contarini e circa i primi anni della politica estera fascista: RUGGERO MOSCATI, La politica estera del fascismo. L’esordio del primo ministero Mussolini, «Studi politici», settembre 1953-febbraio 1954; ID., Gli esordi della politica
estera fascista. Il periodo Contarini-Corfù, in AUTORI VARI, La politica estera italiana dal 1914
al 1943, Torino, 1963, p. 39 e ss.; ETTORE ANCHIERI, L’esordio della politica estera fascista
nei documenti diplomatici italiani, in ID., Il sistema diplomatico europeo: 1814-1939, Milano,
1977, p. 197 e ss.; ID., L’affare di Corfù alla luce dei documenti diplomatici italiani, in ID.,
Il sistema diplomatico europeo, cit., p. 217 e ss.; RAFFAELE GUARIGLIA, Ricordi 1922-1945,
Napoli, 1949; LEGATUS (CANTALUPO), Vita diplomatica di Salvatore Contarini, cit.; ALAN
CASSELS, Mussolini’s Early Diplomacy, Princeton, 1970; MATTEO PIZZIGALLO, Mediterraneo
e Russia nella politica italiana (1922-1924), Milano, 1983; PIETRO PASTORELLI, La storiografia
italiana del dopoguerra sulla politica estera fascista, «Storia e politica», 1971, p. 575 e ss.;
DI NOLFO, Mussolini e la politica estera italiana, cit.; VLASTIMIL KYBAL, Czechoslovakia and
Italy: My Negotiations with Mussolini. Part I: 1922-1923, «Journal of Central European
Affairs», 1954, n. 4, pp. 354-355.
199 A tale proposito: AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 81, Charles-Roux al ministro
degli Esteri, 1° novembre 1922; ibidem, Barrère al ministro degli Esteri, 13 novembre 1922.
200 Sulle relazioni italo-iugoslave nel corso degli anni Venti: MASSIMO BUCARELLI, La
Jugoslavia nella politica estera di Mussolini (1924-1937), Roma, 2004; FRANCESCO LEFEBVRE
D’OVIDIO, L’Intesa italo-francese del 1935 nella politica estera di Mussolini, Roma, 1984;
CASSELS, Mussolini’s Early Diplomacy, cit.; GIAMPIERO CAROCCI, La politica estera dell’Italia
fascista (1925-1928), Bari, 1969; DI NOLFO, Mussolini e la politica estera italiana, cit.;
PASTORELLI, Italia e Albania, cit.; DASSOVICH, I molti problemi dell’Italia al confine orientale. I, cit., p. 202 e ss.; H. JAMES BURGWYN, Italian Foreign Policy in the Interwar Period 19181940, London-Westport, 1997, p. 24 e ss.
201 DDI, VII, 1, dd. 62, 72; LEFEBVRE D’OVIDIO, op. cit., pp. 52-55.
202 DDI, VII, 1, d. 6.
203 L’idea di chiedere ulteriori concessioni prima dello sgombero della terza zona dalmata era condivisa anche da alcuni diplomatici italiani. Il 23 ottobre il console italiano a
Spalato, Umiltà, inviò a Schanzer a questo proposito un promemoria sulla situazione in
402
LUCIANO MONZALI
governo iugoslavo la propria visione della questione adriatica in una
lettera personale inviata al ministro degli Esteri Ninc#ic!204, che aveva
incontrato alcuni giorni prima a Losanna. Il capo del fascismo ribadì
l’importanza che lui dava alle relazioni italo-iugoslave e la volontà di
tenere fede ai trattati conclusi. Ma per dare forza e solidità alla collaborazione fra Italia e Regno SHS era necessario che la politica dei buoni rapporti con Belgrado potesse essere «accettata e praticata dai partiti nazionali italiani». Al fine di convincere gli elementi italiani più
nazionalisti e di potere procedere allo sgombero dei territori ancora
occupati, il presidente del Consiglio chiese concessioni territoriali a
vantaggio dell’Italia a Fiume e a Zara.
Le mie richieste riguardano Fiume e Zara. Quanto alla prima città chiedo il formale impegno che attraverso i lavori della Commissione paritetica si
possa giungere ad una sistemazione dello Stato che, pur concedendo agli interessi economici iugoslavi la necessaria durevole garanzia, assicuri quella italianità di Fiume che è stata causa di tante dolorose vicende e di tante dure
controversie. […] Quanto alla città di Zara chiedo che le sia concesso a titolo di respiro l’isola di Ugliano205.
La lettera segnò l’inizio di un lungo negoziato fra Roma e Belgrado
per la definitiva soluzione della questione adriatica. Da parte iugoslava
si manifestò immediatamente la volontà di accettare i negoziati con
Mussolini ma anche il rifiuto di ulteriori concessioni territoriali in
Dalmazia che modificassero quanto previsto dal trattato di Rapallo206.
Dalmazia. A parere di Umiltà, le autorità iugoslave avevano negato ogni riconoscimento ai
capoversi primo e secondo dell’articolo VII del trattato di Rapallo. Di fronte a tali inadempienze e ai continui atti di ostilità verso le persone e gli interessi italiani, sarebbe stato giusto ed equo, prima della ratifica delle convenzioni di Santa Margherita e di Roma e della completa applicazione dell’accordo di Rapallo, «prima cioè che da parte nostra con lo sgombero della terza zona dalmata si perda ogni pegno per la leale esecuzione del trattato e delle
Convenzioni», esigere alcune concessioni dal governo di Belgrado:
«1°) cercare che sia eseguita la riapertura della Chiesa italiana in Spalato;
2°) cercar di ottenere la derequisizione dei locali della scuola della Lega Nazionale a
Spalato;
3°) cercar di ottenere il cambio o per lo meno l’inizio delle operazioni di cambio a favore dei cittadini italiani, sia regnicoli che optati;
4°) ottenere il cambio dei funzionari S.C.S. a noi così ostili;
5°) ottenere un equo regolamento delle tasse portuali per la bandiera italiana». ACS, Carte
Schanzer, b. 16, CARLO UMILTÀ, Promemoria, 23 ottobre 1922.
204 DDI, VII, 1, d. 197, Mussolini a Ninc#ic!, 3 dicembre 1922.
205 Ibidem.
206 Ninc#ic! a Mussolini, 12 gennaio 1923, citato in LEFEBVRE D’OVIDIO, op. cit., p. 54.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
403
Per convincere della propria buonafede la controparte iugoslava,
Mussolini decise di presentare gli accordi di Santa Margherita al
Parlamento il 6 febbraio e di procedere poi alla consegna della terza
zona dalmata. Mussolini giustificò la ratifica degli accordi di Santa
Margherita207, in precedenza criticati dai nazionalisti e dai fascisti in
quanto segno di debolezza dei governi liberali verso gli iugoslavi, come passo indispensabile per creare una nuova base nelle relazioni con
Belgrado, impegnandosi a modificarne i contenuti dopo la ratifica. Era
necessario migliorare le relazioni con lo Stato iugoslavo, perché l’efficacia delle convenzioni sarebbe dipesa dallo spirito con cui sarebbero state applicate. Inoltre bisognava porre fine alle incertezze esistenti circa la politica adriatica dell’Italia, poiché non era possibile effettuare una politica estera forte «senza avere verso gli altri Stati degli atteggiamenti decisi e chiari»208. La nuova politica iugoslava di
Mussolini suscitò sconcerto all’interno del movimento fascista, i cui
capi, però, accettarono supinamente le direttive del duce, nonostante
le proteste di alcuni gruppi dalmati dannunziani e nazionalisti o appartenenti all’intransigentismo fascista. Malgrado le pressioni di Mussolini sul prefetto di Zara affinché la cittadinanza zaratina fosse preparata politicamente alla decisione di una prossima consegna della terza zona209, il segretario del Fascio di Zara, Radovani, chiese a Dudan
di opporsi alla ratifica degli accordi di Santa Margherita210. La federazione dalmata dell’Associazione nazionalista italiana, capitanata da
Mandel, inviò un duro messaggio di protesta a Mussolini l’8 febbraio.
L’Associazione Nazionalista Italiana, Gruppo Dalmazia, riunita d’urgenza addì 8 febbraio 1923 di fronte alla dolorosa notizia della presentazione alla Camera Italiana degli accordi di St. Margherita Ligure e della sicura loro
approvazione, considerato che tale atto è destinato a mettere il definitivo suggello a quel trattato di Rapallo che è stato dichiarato assurdo dallo stesso
Presidente del Consiglio e che supera per iniquità il mercato di Campoformio
207 Al riguardo i discorsi di Mussolini alla Camera e al Senato nel febbraio 1923 riprodotti in AMEDEO GIANNINI, (a cura di), La questione di Porto Baros e gli accordi di Santa
Margherita al Parlamento italiano, Roma, 1923, pp. 33-35, 103-105. Sulla ratifica degli accordi di Santa Margherita anche ODDONE TALPO, Da Rapallo in poi. Conseguenze nella situazione della Dalmazia, «La Rivista Dalmatica», 1998, n. 2, p. 102 e ss.
208 GIANNINI, La questione di Porto Baros, cit., discorso di Mussolini il 6 febbraio 1923,
p. 34.
209 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 25, Mussolini al prefetto di Zara, 5 febbraio 1923.
210 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 25, Maggioni a Mussolini, 7 febbraio 1923.
404
LUCIANO MONZALI
[…], protesta con l’energia della disperazione contro la minacciata ratifica
degli infausti accordi richiamando ancora una volta i rappresentanti della
Nazione alla realtà tragica della situazione prima di compiere un atto irreparabile di cui ogni Italiano cosciente non può nascondersi le dolorose conseguenze211.
Il prefetto di Zara, Maggioni, fece pressioni sui capi dei principali partiti zaratini (fascisti, nazionalisti, dannunziani e liberali) perché
accettassero le decisioni del capo del governo, ottenendo solo un parziale successo. Il diffondersi della notizia della prossima ratifica degli accordi di Santa Margherita e del conseguente sgombero della terza zona dalmata aveva profondamente colpito la popolazione di Zara.
Si è diffuso – comunicò Maggioni a Mussolini – tutta cittadinanza stato
profonda dolorosa depressione morale. Anche cittadini più equilibrati sono
pervasi oscuro pessimismo persuasi che piccolo territorio Zara isolato e osteggiato Jugoslavia sia destinato irremovibilmente languire. Con qualsiasi altro
Governo che non fosse Governo Nazionale presieduto V.E. sarebbero già avvenute dimostrazioni di piazza212.
La nuova politica iugoslava di Mussolini mise in profondo imbarazzo tutti quei fascisti e nazionalisti che per molti mesi avevano combattuto senza sosta contro l’applicazione del trattato di Rapallo e gli
accordi di Santa Margherita. Quest’imbarazzo comparve con chiarezza
nel corso della discussione parlamentare sulle convenzioni italo-iugoslave. Di fronte ai rilievi di alcuni deputati dell’opposizione, che notavano la stranezza di questa urgenza nella ratifica delle convenzioni
dopo che per molti mesi fascisti e nazionalisti avevano predicato l’impossibilità di accettare questi accordi e di abbandonare la terza zona
dalmata senza avere prima garanzie per la tutela dell’italianità dalmatica213, il fascista Giunta preferì non rispondere limitandosi ad inveire contro le presunte malefatte dei negoziatori dell’accordo di
Rapallo, Giolitti, Sforza e Salata214. Dudan, invece, comunque rimar-
211 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 25, Mandel alla Presidenza del Consiglio, 8 febbraio
1923.
212 ASMAE,
GAB 1923-43, AF, b. 25, Maggioni a Mussolini, 8 febbraio 1923.
Ad esempio gli interventi di Chiesa e di Lucci il 10 febbraio 1923, riprodotti in
GIANNINI, La questione di Porto Baros, cit., pp. 39-56.
214 GIANNINI, La questione di Porto Baros, cit., intervento di Giunta, 10 febbraio 1923,
pp. 56-62.
213
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
405
cando la sua fedeltà al fascismo e a Mussolini, si dichiarò contrario
agli accordi di Santa Margherita e alla loro ratifica, pur relativizzandola dandole un valore eminemente simbolico.
La mia opposizione e il voto contrario che darò anche oggi alla Convenzione di Santa Margherita dovrà significare la protesta contro queste violazioni dei diritti italiani in Dalmazia e il desiderio che si tentasse, se era ancora possibile, con ulteriori trattative, o l’emendamento delle disposizioni lesive dei diritti italiani in Dalmazia, o, se questo non era possibile, per lo meno di guadagnare il tempo necessario, perché il momento critico che passa
oggi l’Europa fosse da noi superato avendo ancora in mani quell’arcipelago
zaratino che indubbiamente […] ancora oggi ci dà il dominio del medio
Adriatico, e che domani, dato in mani di stranieri significherà per l’Italia la
perdita, certamente più o meno duratura, del dominio, della padronanza
nell’Adriatico da parte dell’Italia215.
A parere di Dudan, il possesso della terza zona era necessario alla sopravvivenza di Zara che in un solo anno e mezzo dalla ratifica di
Rapallo aveva perso il 40 per cento della popolazione, emigrato per
fame e disoccupazione. Inoltre varie clausole delle convenzioni di
Santa Margherita comportavano l’annullamento di fondamentali diritti
degli italiani nella Dalmazia iugoslava: secondo il deputato fascista,
«la convenzione di Santa Margherita ancor più che il Trattato di Rapallo, ha mutato i vincitori in vinti: gli italiani, ed i vinti in vincitori:
i croato-austriaci!»216.
Gli accordi di Santa Margherita furono approvati a grande maggioranza dalla Camera il 10 febbraio e dal Senato il 16. Dopo la ratifica italiana e quella iugoslava, si procedette allo scambio delle ratifiche il 26 febbraio 1923 a Roma. L’evacuazione della terza zona dalmata procedette senza intralci e problemi. Fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo la commissione italiana (presieduta dal generale Barbarich) e quella iugoslava, incaricate di tracciare sul terreno il nuovo
confine e di organizzare il passaggio dei territori dall’Italia al Regno
SHS, svolsero i loro lavori stabilendo i tempi dello sgombero217. Il 3
marzo 1923 con l’abbandono di Zaravecchia e Novegradi ebbe inizio
215 GIANNINI, La questione di Porto Baros, cit., intervento di Dudan, 10 febbraio 1923,
pp. 65-74.
216 Ibidem.
217 Al riguardo: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Maggioni al Ministero degli Esteri, 9
marzo 1923.
406
LUCIANO MONZALI
il ritiro italiano dalla terza zona dalmata, che proseguì nei giorni seguenti con la cessione delle isole intorno a Zara e la definizione del
tracciato della frontiera italo-iugoslava intorno all’enclave di Zara218.
Dopo la ratifica degli accordi di Santa Margherita, Mussolini si pose l’obiettivo di conquistare il consenso dei dalmati italiani – ancora
spaccati fra la vecchia guardia liberale guidata da Krekich e i gruppi
fascisti capeggiati da Dudan e Cippico – verso il nuovo governo e la
sua politica di amicizia con la Iugoslavia. Oltre ad una serie di provvedimenti economici favorevoli alla città di Zara, Mussolini compì due
atti di distensione verso la vecchia guardia liberale: innanzitutto destituì il segretario del Fascio di Zara, Trifone Radovani219, nemico di
Krekich, e commissariò il partito220. Nell’aprile 1923, poi, decise di
nominare due nuovi senatori dalmati, Cippico, esponente fascista, in
rappresentanza di Zara, e Antonio Tacconi, politico legato alla famiglia Ziliotto e a Krekich, come rappresentante degli italiani della
Dalmazia iugoslava221.
L’ascesa al potere del fascismo e la nomina di Mussolini alla presidenza del Consiglio imposero ai dalmati italiani di tendenze liberali e autonomiste una scelta obbligata: dialogare e collaborare con il fascismo, che ormai sembrava identificarsi con lo Stato italiano. Il progressivo tracollo dei liberali e la conquista fascista dello Stato indebolirono la forza politica autonoma dei liberali zaratini e dalmati di
fronte al fascismo. I concorrenti locali nazionalisti e fascisti potevano oramai rivendicare la loro vicinanza al potere e porsi come mediatori fra le popolazioni dalmate e il governo centrale, ed essere quindi fonte e procacciatori di aiuti, favori e iniziative a vantaggio degli
218 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Maggioni a Mussolini, 3 e 4 marzo 1923;
MASSAGRANDE, op. cit., p. 118.
219 Notizie su Trifone Radovani, originario di Scardona, ma domiciliato a Zara, insegnante
di materie letterarie alla scuola media di Zara, segretario del Fascio di Zara e della Federazione
fascista provinciale zaratina, poi presidente del circolo italiano di Scardona in: ASMAE,
Spalato, b. 187, Ministero degli Esteri, appunto interno, 9 dicembre 1933; ibidem, il viceconsole di Sebenico al Ministero degli Esteri, 20 e 23 luglio 1930.
220 Informazioni a tale riguardo in: «L’Aquila del Dìnara», 24 aprile 1923, Dopo la ricostituzione del Fascio di Zara; ACS, MIN INT, d.g. pubblica sicurezza, 1921, b. 87, Buratti
a Mussolini, 17 dicembre 1923; IARABEK, Note sulle origini del Fascismo Zaratino, cit., p.
12 e ss.
221 ASSR, segreteria, fascicoli personali dei senatori, b. 54, fascicolo personale Antonio
Tacconi, decreto di nomina a senatore 19 aprile 1923; ASSR, segreteria, fascicoli personali
dei senatori, b. 14, fascicolo personale Antonio Cippico, decreto di nomina a senatore 19 aprile 1923. Riguardo alla nomina di Tacconi e al ruolo di Contarini in tale scelta: ASMAE,
Sebenico, arc. ord., b. 8, Contarini al viceconsole di Sebenico, 30 aprile 1923.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
407
italiani in Dalmazia. Per una minoranza come quella dalmata italiana,
minacciata dall’espansionismo economico e politico dello Stato iugoslavo e dalle spinte snazionalizzatrici di croati e serbi, il mantenimento della benevolenza del governo di Roma significava garantirsi
la sopravvivenza nazionale. Con il fascismo al potere in Italia l’antifascismo era un lusso che la maggioranza dei dalmati italiani, in particolare gli zaratini, non poteva permettersi. La minoranza italiana dalmata era obbligata ad essere forza filogovernativa, pena il tracollo e
la scomparsa. Vi era anche la speranza che l’instaurarsi di un governo forte ed autorevole facilitasse la tutela dei diritti delle popolazioni
italiane dalmate di fronte al Regno iugoslavo: la fine dell’instabilità
interna con la formazione del governo Mussolini poteva fare presagire un rafforzamento internazionale dell’Italia222. Dalla fine del 1922,
insomma, i liberali zaratini abbandonarono la politica di scontro con
il fascismo e iniziarono a dialogare con esso. Da parte sua, Mussolini,
desideroso di presentarsi come grande leader nazionale, cercò ed accettò la collaborazione dei vecchi liberali zaratini e dalmati, puntando al loro progressivo inserimento nel fascismo. Insoddisfatto dell’estremismo dei capi fascisti zaratini, critici verso la sua politica di ratifica degli accordi di Santa Margherita e di dialogo con Belgrado, nonché non rappresentativi della maggioranza della popolazione dalmata italiana, Mussolini procedette alla riorganizzazione della federazione
fascista di Zara in nome della pacificazione degli animi e della riconciliazione nazionale223. Nel corso del 1924, quindi, ebbe luogo una
ridefinizione degli schieramenti politici a Zara e nella Dalmazia iugoslava. La grande maggioranza dei vecchi liberali, guidata da
Krekich224, aderì al rinnovato partito fascista zaratino225, riconciliandosi con alcuni ex nemici quali Cippico e Dudan; in cambio, però, es-
222 Circa la speranza che il governo Mussolini potesse garantire migliori condizioni di
vita alla minoranza nella Dalmazia iugoslava si vedano le lettere dell’avvocato spalatino
Stefano Selem: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 16, Selem a Mussolini, 23 dicembre 1922;
ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1309, Selem a Mussolini, 20 febbraio 1923.
223ACS, MIN INT, d.g. pubblica sicurezza, 1921, b. 87, Bellini a Ministero degli Interni,
21 agosto 1924.
224 In cambio della sua iscrizione al Fascio di Zara nel 1924, Krekich fu nominato presidente della Reale Commissione straordinaria per la Provincia di Zara, carica che tenne fino al 1929; nel 1933 fu poi nominato senatore del Regno: ASSR, segreteria, fascicoli personali dei senatori, b. 30, fascicolo Krekich, Nota biografica dell’avvocato Krekich, senza data; «Il Mare Nostro», 1938, n. 9, MARIO RUSSO, Natale Krekich, pp. 8-9.
225 ACS, MIN INT, d.g. pubblica sicurezza, 1921, b. 87, Basile a Ministero degli Interni,
24 ottobre 1924 e 17 novembre 1924.
408
LUCIANO MONZALI
si ottennero di conservare sostanzialmente la guida del comune di
Zara, affidata ad Ascanio Persicalli, già stretto collaboratore di Ziliotto,
e, poi, a Giovanni Salghetti, esponente di una famiglia di proprietari
terrieri e imprenditori appartenente all’establishment liberale-autonomista226. Fra il 1924 e il 1925 i principali esponenti politici della minoranza italiana nella Dalmazia iugoslava aderirono pure al regime fascista: ad esempio, Antonio Tacconi s’iscrisse al partito nazionale fascista, presso il Fascio di Zara, nel luglio 1925227. Con l’adesione di
Krekich, Tacconi e di molti sostenitori del liberalismo dalmata al Fascio zaratino, il fascismo perdeva il suo carattere minoritario e faceva un’operazione politica di rilievo nazionale, potendo finalmente rivendicare, con qualche fondamento, di essere il punto di riferimento
della maggior parte dei dalmati italiani228 e appropriandosi della tradizione dell’irredentismo liberale italiano dalmata. In cambio Mussolini accettò di riconoscere come interlocutore primario nei problemi dalmatici il vecchio establishment liberale-autonomista, guidato da
Krekich, Tacconi e Pezzoli, uomini a lungo estranei al fascismo.
Tuttavia questa scelta filofascista di molti liberali dalmati, imposta
pragmaticamente da Krekich e che imitava quanto era avvenuto nei
circoli liberali giuliani229, provocò una spaccatura nella vecchia «Unione Nazionale», erede del partito autonomo-italiano. A Zara, Giuseppe
Ziliotto, figlio di Luigi, Gustavo Talpo, Pompeo Allacevich ed altri giovani liberali contestarono la nuova strategia di Krekich e videro in essa un tradimento dei valori liberali nazionali dell’italianità dalmatica230.
Pure il capo degli italiani di Sebenico, Luigi Pini, non condivise il riposizionamento dei liberali e rifiutò di aderire al partito fascista231. E
sulle posizioni di Pini si schierarono non pochi italiani della Dalmazia
iugoslava. Di fatto però la scelta filo-fascista consentì ai politici dal-
226 Al riguardo: FRANCESCA (DIDI) SALGHETTI DRIOLI, Profilo genealogico della famiglia,
in GIORGETTA BONFIGLIO-DOSIO, FRANCESCA (DIDI) SALGHETTI DRIOLI, RITA TOLOMEO, La fabbrica di maraschino Francesco Drioli di Zara (1759-1943), Cittadella, 1996, pp. XXII-XXIII.
227 ASSR, segreteria, fascicoli personali dei senatori, b. 54, fascicolo Tacconi, Unione nazionale fascista del Senato, scheda personale di Antonio Tacconi. Nel 1930, il console di
Spalato, Segre, constatò che fra il centinaio di aderenti spalatini al PNF, solo tre erano iscritti
prima della Marcia su Roma, mentre la «quasi totalità dei fascisti di Spalato è tesserata degli
anni 1925-1926»: ASMAE, GAB b. 423, Segre a Ministero degli Affari Esteri, 12 marzo 1930.
228 Ad esempio: «Il Littorio Dalmatico», 4 ottobre 1924, Ordine e disciplina.
229 Al riguardo: MILLO, L’elite del potere a Trieste, cit., p. 245 e ss.
230 COEN, Zara tra le due guerre, cit., pp. 133-134; ZILIOTTO, Lettera ad Enzo Bettiza,
cit., p. 37.
231 DDI, VII, 10, nota 2 a d. 400.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
409
mati di contare maggiormente presso il governo di Roma e di porre
le basi per la ripresa economica che Zara conobbe nel corso degli anni Venti e Trenta, trasformandosi da città burocratica in prospero centro commerciale e industriale.
Dopo la ratifica degli accordi di Santa Margherita e lo sgombero
della terza zona dalmata si comprese ben presto che l’obiettivo della
nuova politica adriatica di Mussolini era convincere gli iugoslavi a procedere alla spartizione dello Stato libero di Fiume, al fine di annettere la città del Quarnero all’Italia e di ottenere così un grande successo di politica estera utilizzabile anche sul piano interno. Le armi sulle quali il capo fascista puntò per convincere gli iugoslavi ad accettare questo disegno erano la promessa di una futura cessione di parte
del territorio fiumano (Porto Baros e il Delta) e il progetto di creare
un’alleanza e una collaborazione politica fra Roma e Belgrado. Per il
governo di Belgrado, guidato da Nikola Pas#ic! e ormai dominato dalla classe dirigente serba, accettare la spartizione dello Stato di Fiume
significava, però, affrontare le ire dell’opinione pubblica croata che
avrebbe visto in tale atto l’ennesimo sacrificio di terra croata a vantaggio dell’Italia. Da qui le inevitabili resistenze del governo iugoslavo, che per vari mesi rifiutò le proposte di Mussolini232. Gli elementi
che sbloccarono il negoziato italo-iugoslavo furono le pressioni del
principale alleato dello Stato iugoslavo, la Francia, su Belgrado: la diplomazia francese, desiderosa di migliorare le relazioni con Roma e
alla quale Contarini promise la futura conclusione di un’intesa tripartita italo-franco-iugoslava233, insistette sul governo serbo per convincerlo della saggezza dell’accordo adriatico con l’Italia. Determinante
fu poi la volontà di Re Alessandro Karadjorgevic! di chiudere il contenzioso territoriale con l’Italia nell’Alto Adriatico e di consolidare lo
Stato iugoslavo, già minato da dure lotte nazionali interne, con un trattato che sancisse l’amicizia con Roma234. Il 27 gennaio 1924 si giunse alla firma a Roma dei trattati italo-iugoslavi che determinarono la
chiusura del contenzioso confinario fra i due Stati235. Nell’accordo
232
Sulla genesi dei trattati di Roma del 1924: LEFEBVRE D’OVIDIO, op. cit., p. 55 e ss.;
MASSAGRANDE, Italia e Fiume, cit., p. 115 e ss.
233 AMAF, Europe 1918-1940, Italie, vol. 93, Barrère a Poincaré, 6 novembre 1923;
GRUMEL-JACQUIGNON, op. cit., p. 195 e ss.; WILLIAM. I. SHORROCK, From Ally to Enemy: the
Enigma of Fascist Italy in French Diplomacy 1920-1940, Kent, 1988; LEFEBVRE, op. cit., p. 62
e ss.
234 BUCARELLI, La Jugoslavia nella politica estera di Mussolini, cit., p. 12
235 I testi di questi accordi sono riprodotti in BENEDETTI, op. cit., p. 287 e ss., e in GIANNINI,
410
LUCIANO MONZALI
concernente Fiume fu sancita la spartizione dello Stato libero: l’Italia
annetteva la città e il porto di Fiume mentre il Regno SHS otteneva la
sovranità su Porto Baros, sul Delta e su alcuni territori già appartenuti
allo Stato fiumano. Contropartita all’accettazione iugoslava della dissoluzione dello Stato di Fiume fu la firma di un patto di amicizia e di
collaborazione fra l’Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Con
questo patto l’Italia di Mussolini sosteneva e accettava l’esistenza di
uno Stato iugoslavo unitario. Nell’articolo primo, infatti, le due parti
contraenti s’impegnavano a prestarsi reciproco appoggio e a collaborare allo scopo di «mantenere l’ordine stabilito dai Trattati di pace conclusi al Trianon, a S. Germano e a Neuilly e a rispettare ed eseguire
le obbligazioni stipulate in questi trattati». Nell’articolo secondo, dopo essersi promesse reciproca neutralità in caso di attacco subìto e non
provocato da parte di una delle due parti contraenti, vi era l’impegno
italiano a non alimentare forze secessioniste anti-iugoslave: «Parimenti
nel caso in cui la sicurezza e gli interessi di una delle Alte Parti contraenti fossero minacciati in seguito a violente incursioni provenienti
dall’estero, l’altra parte si impegna a prestarle col suo concorso benevolo il suo appoggio politico e diplomatico allo scopo di contribuire a far scomparire le cause esteriori di questo pericolo». Con gli accordi di Roma Mussolini sconfessava la politica anti-iugoslava che per
anni era stata perseguita dai nazionalisti, dai dannunziani e dallo stesso fascismo. Paradossalmente l’Italia fascista inaugurava una politica
di collaborazione con il Regno SHS, quella stessa politica che i nazionalfascisti italiani avevano a lungo boicottato dopo Rapallo. Va detto che questa svolta filo-iugoslava imposta da Mussolini alla politica
estera italiana fu accettata malvolentieri da vasti settori del partito e
del regime fascista, partecipi dell’ideologia anti-iugoslava di matrice
dannunziana e nazionalista, e simpatizzanti con le forze separatiste
croate, albanesi e montenegrine. Testimonianza del permanere di tendenze anti-iugoslave nei settori del fascismo di origine nazionalista fu
la lettera che Roncagli, capo dell’associazione romana «Dalmazia»,
inviò a Mussolini il 26 settembre 1924, invitandolo a creare un comitato segreto balcanico-danubiano avente la funzione di essere il cenDocumenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, cit. p. 124 e ss. Per una loro interpretazione: PASTORELLI, Italia e Albania, cit.; BUCARELLI, La Jugoslavia nella politica estera di Mussolini, cit., p. 4 e ss.; LUCIANO MONZALI, La questione jugoslava nella politica estera italiana dalla prima guerra mondiale ai trattati di Osimo (1914-1975), in FRANCO
BOTTA, ITALO GARZIA, (a cura di), Europa adriatica. Storia, relazioni, economia, Roma-Bari,
2004.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
411
tro propulsore di tutte le organizzazioni separatiste anti-serbe; a parere di Roncagli, attraverso il sostegno dei movimenti nazionali non bolscevichi ed anti-serbi, l’Italia avrebbe potuto riconquistare la Dalmazia
ed affermare la propria egemonia adriatica236.
Le buone relazioni politiche fra Roma e Belgrado fra il 1923 e il
1924 favorirono un temporaneo miglioramento delle condizioni di vita della minoranza italiana in Dalmazia. Le autorità iugoslave allentarono la pressione contro le comunità italiane, permettendo la ricostituzione di varie scuole e associazioni della minoranza237. La volontà
dei due governi di intensificare i rapporti economici e commerciali bilaterali, che portò alla conclusione del trattato di commercio italo-iugoslavo il 14 luglio 1924, agli accordi di Belgrado il 12 agosto 1924
e alle convenzioni di Nettuno il 20 luglio 1925238, consentì alla classe dirigente dalmata italiana di conquistare una serie di nuove guarentigie a protezione degli interessi di Zara e della minoranza nella
Dalmazia serbo-croata. Grazie ai buoni rapporti con il governo, alcuni rappresentanti zaratini (Ascanio Persicalli e Giovanni Salghetti)239
e spalatini (Leonardo Pezzoli e Antonio Tacconi)240 parteciparono ai
negoziati che nel corso del 1924 e del 1925 portarono alla conclusione degli accordi sopracitati. Furono, in particolare, le convenzioni di
Nettuno a dedicare largo spazio alla tutela degli interessi degli italiani di Zara e della Dalmazia iugoslava241: il governo di Roma, in particolare, ottenne la possibilità per gli avvocati optanti di continuare a
236 DDI, VII, 3, d. 517, Roncagli a Mussolini, 26 settembre 1924; BUCARELLI, La Jugoslavia nella politica estera di Mussolini, cit., p. 141.
237 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1309, Umiltà al Ministero degli Esteri e alla
Legazione italiana a Belgrado, 8 maggio 1923.
238 Alcune informazioni su questi accordi in GABRIELE PARESCE, Italia e Jugoslavia dal
1915 al 1929, Firenze, 1935, p. 269 e ss.; DASSOVICH, I molti problemi dell’Italia al confine
orientale. I, cit., p. 212 e ss.; UMBERTO NANI, Italia e Jugoslavia (1918-1928), Milano, 1928,
p. 94 e ss.
239 La partecipazione di Persicalli e Salghetti ai negoziati che portarono alla conclusione dell’accordo di commercio a Belgrado fu caratterizzata da forti dissensi fra questi e
Ludovico Luciolli, capo della delegazione italiana, accusato di scarsa attenzione agli interessi
zaratini: ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1315, Luciolli e Bodrero al Ministero degli
Esteri, 11 maggio 1924; ivi, b. 1313, Tamajo al Ministero degli Esteri, 15 aprile 1924.
240 Al riguardo si vedano i memoriali che Tacconi presentò al Ministero degli Esteri:
ASMAE, Spalato, b. 84, [ANTONIO TACCONI], Postulati degli italiani della Dalmazia S.H.S.
da considerarsi in occasione della stipulazione degli accordi commerciali, s.d. (ma inizio
1924). Si veda anche: ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1315, BROCCHI, Appunto per il
signor Marchese Soragna, 24 giugno 1924; ibidem, Tacconi a Luciolli, 19 aprile 1924.
241 Il testo delle convenzioni di Nettuno del 20 luglio 1925 è pubblicato in GIANNINI,
Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, cit., p. 308 e ss.
412
LUCIANO MONZALI
praticare la propria professione nel Regno SHS242, la non applicazione della legge iugoslava concernente i limiti alla facoltà di acquistare e possedere beni immobili in una zona di 50 chilometri dalla frontiera per ragioni di sicurezza dello Stato243, il temporaneo rinvio dell’applicazione della legge di riforma agraria e il diritto ad un risarcimento per i cittadini italiani dalmati244. Vennero poi conclusi vari scambi di note destinati a facilitare le relazioni commerciali ed economiche fra Zara e lo Stato iugoslavo245.
Le speranze che gli accordi di Roma del 1924, creando stretti e amichevoli rapporti fra Italia e Regno SHS, aprissero una stagione di pacificazione nazionale in Dalmazia e consentissero un duraturo miglioramento delle condizioni di vita della minoranza italiana nella regione, ebbero un’effimera durata. L’amicizia italo-iugoslava entrò progressivamente in crisi a causa del risorgere del dissidio fra i due Stati
sul futuro dell’Albania. Il tentativo iugoslavo di affermare la propria
egemonia in Albania sostenendo il progetto di Ahmed Bey Zogolli/
Zogu di riconquistare con la forza il potere alla fine del 1924246, fu la
miccia che favorì il progressivo riesplodere della rivalità fra i due Stati
nell’Adriatico e nei Balcani. L’atteggiamento iugoslavo irritò non poco Mussolini, che cominciò ad essere diffidente verso la classe dirigente serba e a perseguire una politica di supremazia solitaria in Albania. Il mutamento di politica italiana fu favorito dallo stesso Zogu,
il quale, desideroso di preservare la propria autonomia da Belgrado,
appena riconquistato il potere fece alcune aperture politiche all’Italia.
242 Accord concernant les avocats, 20 luglio 1925, riprodotto in GIANNINI, Documenti
per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, cit., pp. 377-378.
243 Accord sur les propriétés à la frontière, 20 luglio 1925, riprodotto in GIANNINI,
Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, cit., p. 379.
244 Accord provisoire sur les expropriations, 20 luglio 1925, edito in GIANNINI, Documenti
per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, cit., pp. 379-381.
245 Ad esempio gli scambi di note riguardanti i servizi pubblici automobilistici da crearsi fra Zara e i territori limitrofi e quelli relativi alla migliore applicazione di certi articoli della convenzione sul regime doganale e il traffico di frontiera tra Zara e i territori limitrofi del
23 ottobre 1922, in GIANNINI, Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia,
cit., pp. 426-430.
246 Sulle lotte politiche nell’Albania fra le due guerre mondiali: BIAGINI, Storia
dell’Albania, cit.; ROBERTO MOROZZO DELLA ROCCA, Nazione e religione in Albania, Lecce,
2002; MARCO DOGO, Kosovo. Albanesi e Serbi: le radici del conflitto, Lungro di Cosenza,
1992, p. 147 e ss.; ID., I discutibili privilegi dell’arretratezza: Zog e il caso albanese, in
FRANCESCO GUIDA (a cura di), L’altra metà del continente: L’Europa centro-orientale dalla
formazione degli Stati nazionali all’integrazione europea, Padova-Roma, 2003, p. 77 e ss.;
FISCHER, King Zog and the Struggle for Stability in Albania, cit.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
413
Fra il 1925 e il 1928 vennero conclusi fra il governo di Zogu e l’Italia
fascista una serie di accordi247 che crearono una collaborazione fra i
due Paesi e affermarono l’egemonia politica ed economica italiana in
Albania. La nuova politica albanese di Mussolini provocò un radicale deterioramento dei rapporti bilaterali con Belgrado. In seno alla stessa diplomazia italiana l’influenza degli elementi favorevoli ad una politica di collaborazione con la Iugoslavia diminuì drasticamente con
l’allontanamento di Contarini dalla segreteria generale nel 1926. Con
il declino politico di Contarini crebbe al Ministero degli Esteri il peso del partito fascista (che con Dino Grandi, sottosegretario dal 1925
e poi ministro degli Esteri fra il 1929 e il 1932, organizzò l’immissione di numerosi politici fascisti e nazionalisti in diplomazia), con la
sua ostilità ideologica allo Stato serbo-croato e la sua simpatia verso
i movimenti secessionisti anti-serbi ed anti-iugoslavi. La reazione politica del governo di Belgrado allo scontro con l’Italia fu l’ulteriore
avvicinamento alla Francia, che culminò nel patto d’amicizia francoiugoslavo del 1927 e in una crescente collaborazione economica e militare fra i due Paesi248. Tale iniziativa irritò la classe dirigente italiana e fece risorgere la psicosi della Iugoslavia quale possibile braccio
armato della Francia, ossessione diffusa in numerosi esponenti politici italiani249. Lo scontro italo-iugoslavo divenne sempre più generalizzato e influenzò totalmente la politica balcanica di Mussolini ed anche alcuni aspetti della politica interna del fascismo, quali la dura italianizzazione che il regime fascista perseguì in Venezia Giulia dal 1926
e la strumentalizzazione politica del tema della difesa dei diritti della
minoranza italiana in Dalmazia. A partire dal 1926 il regime fascista
procedette alla chiusura delle scuole croate e slovene, allo scioglimento
delle associazioni e istituzioni culturali, economiche e sportive delle
minoranze e all’applicazione di una politica d’italianizzazione forzata delle popolazioni allogene. Fra gli anni Venti e Trenta la politica ostile dell’Italia fascista favorì l’emigrazione di alcune decine di migliaia
di croati e sloveni verso la Iugoslavia, che andarono ad alimentare un
irredentismo anti-italiano che rimase sempre vivo a Lubiana e a Zaga247 A proposito della politica albanese dell’Italia nel corso degli anni Venti e Trenta:
PASTORELLI, Italia e Albania, cit.; CAROCCI, La politica estera, cit.; MOROZZO DELLA ROCCA,
Nazione e religione in Albania, cit.; ALESSANDRO ROSELLI, Italia e Albania: relazioni finanziarie nel ventennio fascista, Bologna, 1986.
248 GRUMEL-JACQUIGNON, op. cit., p. 207 e ss.
249 LEFEBVRE D’OVIDIO, op. cit., p. 147 e ss.; SHORROCK, op. cit.; CAROCCI, La politica
estera, cit., p. 94 e ss.
414
LUCIANO MONZALI
bria250. Naturalmente l’ostilità verso i croati e gli sloveni della Venezia
Giulia ebbe come conseguenza un trattamento sempre più duro della
minoranza italiana in Dalmazia da parte delle autorità iugoslave. La
politica italiana nei Balcani perseguì l’obiettivo dell’accerchiamento
dello Stato iugoslavo. Fallito il disegno originale di Mussolini di fare
dell’Italia lo Stato protettore della Piccola Intesa, a partire dal 1927
la diplomazia italiana rafforzò i legami politici con l’Ungheria e la
Bulgaria, potenze ostili alla Iugoslavia251. Meno felici, invece, furono
i tentativi di Mussolini di attrarre Grecia e Turchia nella sfera d’influenza italiana, che portarono alla conclusione di accordi bilaterali nel
1928, senza però ulteriori importanti sviluppi politici. Contemporaneamente all’accerchiamento diplomatico della Iugoslavia, l’Italia mussoliniana cercò di favorire la disgregazione dello Stato SHS. Ben consapevole della grave crisi interna iugoslava – che vedeva la maggioranza della popolazione croata, musulmana, macedone e albanese ostile all’appartenenza ad uno Stato unitario dominato dall’elemento serbo e che obbligò Re Alessandro ad un colpo di Stato nel gennaio 1929
e alla creazione di un governo puramente autoritario –, l’Italia fascista riprese la vecchia strategia dannunziana e cominciò a sostenere attivamente alcuni movimenti secessionisti anti-iugoslavi: l’Organizzazione rivoluzionaria macedone interna, che lottava contro le persecuzioni serbe nei confronti delle popolazioni bulgaro-macedoni della
Macedonia, alcuni gruppi albanesi del Kosovo252 e numerosi elementi nazionalisti croati, espressione dell’ala estremista del partito del diritto, molti dei quali, guidati da Ante Pavelic!, si rifugiarono in esilio
in Italia a partire dal 1929253. Molto forte divenne pure il sostegno propagandistico, chiaramente strumentale, alle lamentele dei governi ungherese, bulgaro e albanese, che denunciavano il maltrattamento dei
250 APIH, Italia, Fascismo e Antifascismo, cit., p. 231 e ss.; RAOUL PUPO, Il lungo esodo.
Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, 2005, p. 42 e ss.; RUSINOW, Italy’s Austrian
Heritage 1919-1946, cit., p. 163 e ss.; ? ERMELJ, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre,
cit.; KACIN WOHINZ, PIRJEVEC, Storia degli sloveni in Italia 1866-1998, cit.
251 ALFREDO BRECCIA, La politica estera italiana e l’Ungheria (1922-1933), «Rivista di
studi politici internazionali», 1980, n. 1, p. 93 e ss.; BURGWYN, Italian Foreign Policy, cit.;
CAROCCI, La politica estera, cit., p. 78 e ss.; DI NOLFO, Mussolini e la politica estera, cit.
252 DOGO, Kosovo, cit., p. 161 e ss.
253 A proposito della politica italiana di sostegno ai movimenti secessionisti croati negli
anni Venti e Trenta: BOGDAN KRIZMAN, Pavelic! i Ustas#e, Zagreb, 1978; IVO PETRINOVIC!, Mile
Budak. Portret jednog politic#ara, Split, 2002; JAMES J. SADKOVICH, Italian Support for
Croatian Separatism 1927-1937, New York, 1987; PASQUALE JUSO, Il fascismo e gli Ustascia
1929-1941. Il separatismo croato in Italia, Roma, 1998; CAROCCI, La politica estera, cit., p.
168 e ss.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
415
propri connazionali in Iugoslavia. La pubblicistica italiana fu sempre
più favorevole al revisionismo, ovvero al mutamento dei trattati di pace del 1919-1920 in Europa centro-orientale a vantaggio delle potenze sconfitte nella prima guerra mondiale, con l’idea che sarebbe stata la Iugoslavia (nuovo nome ufficiale del Regno SHS dal 1929) la
principale vittima di queste modifiche254. Non a caso, alla fine degli
anni Venti, il patto politico del 1924 non fu rinnovato dall’Italia255. Il
grave deterioramento delle relazioni italo-iugoslave proseguì per tutta la prima metà degli anni Trenta. Le dure e feroci polemiche di stampo nazionalistico fra i giornali italiani e iugoslavi, i numerosi incidenti
concernenti le rispettive minoranze nazionali nei due Paesi (condanne a morte di allogeni sloveni responsabili di attentati in Italia256, aggressioni a cittadini italiani in Dalmazia, distruzioni di monumenti veneziani a Traù)257 e il sostegno italiano al separatismo croato avvelenarono i rapporti fra Italia e Iugoslavia per vari anni. Il tema del trattamento delle minoranze italiane in Dalmazia divenne un argomento
controverso non solo delle relazioni fra Roma e Belgrado, ma anche
della politica interna iugoslava. I partiti croati scatenarono fra il 1927
e il 1928 una violentissima opposizione alla ratifica parlamentare degli accordi di Nettuno258. Anche se poi ratificati, l’applicazione concreta delle convenzioni fu quanto mai limitata e problematica, così come, in generale, quella di tutte le altre garanzie a tutela della condizione degli italiani di Dalmazia. Il peggioramento delle condizioni di
vita della minoranza italiana in Dalmazia, la crescente oppressione iugoslava, il deterioramento della situazione economica in Europa e in
Iugoslavia all’inizio degli anni Trenta indebolirono ulteriormente le
collettività italiane dalmate rendendole sempre più dipendenti dall’Italia fascista. Ma il governo fascista svolse verso gli italiani di
Dalmazia una politica strumentale e contraddittoria259. Da una parte,
254 Sulla pubblicistica revisionista anti-iugoslava in Italia fra le due guerre mondiali:
STEFANO BIANCHINI, L’idea fascista dell’Impero nell’area danubiano-balcanica, in AUTORI VARI, L’Italia e la politica di potenza in Europa (1938-40), Milano, 1985, p. 173 e ss.; FRANCESCO
CASELLA, L’immagine fascista dell’Impero: quale ruolo all’Adriatico, ivi, p. 187 e ss.
255 DASSOVICH, I molti problemi dell’Italia al confine orientale. I, cit., pp. 273-275.
256 APIH, Italia, Fascismo e Antifascismo, cit., 314 e ss.
257 DDI, VII, 12, d. 190; MARIO DASSOVICH, I molti problemi dell’Italia al confine orientale. II. Dal mancato rinnovo del patto Mussolini-Pasic! alla ratifica degli accordi di Osimo
(1929-1977), Udine, 1990, p. 40 e ss.
258 DDI, VII, 5, dd. 209, 444, 447, 686; DDI, VII, 6, dd. 290, 302, 554; BUCARELLI, La
Jugoslavia nella politica estera di Mussolini, cit., p. 131.
259 Al riguardo: ADRIANO ANDRI, Gli italiani in Dalmazia tra le due guerre, «Clio», 1988,
416
LUCIANO MONZALI
spese notevoli somme di denaro per sostenere finanziariamente la minoranza e consentirne la sopravvivenza; ma, dall’altra, perseguendo
una politica di scontro con lo Stato iugoslavo e fomentando le mire
irredentistiche ed imperialistiche di certi settori dell’opinione pubblica
italiana verso l’Adriatico orientale, non fece che aggravare le lotte nazionali in Dalmazia, dove Belgrado e il nazionalismo croato percepivano gli italiani dalmati come una potenziale quinta colonna dell’espansionismo dell’Italia fascista. Quindi, paradossalmente, gli anni in
cui fu al potere un movimento politico, quale quello fascista, che affermava retoricamente di porre al centro della politica estera dell’Italia
la difesa degli italiani dalmati, fu anche l’epoca del più grave declino sociale e demografico delle collettività italiane in Dalmazia. Questa
difficile e contraddittoria situazione spiega perché, nonostante l’adesione e la simpatia di molti dalmati italiani per il governo di Mussolini,
ritenuto strumento per creare una più forte Italia nel mondo, i rapporti
fra le comunità italiane dalmate e l’Italia fascista si rivelarono spesso contrastati e conflittuali. Il regime aveva l’ambizione di controllare totalmente la vita e l’organizzazione interna delle comunità italiane in Dalmazia e di fascistizzarle attraverso i rappresentanti consolari e la Federazione fascista di Zara, che aveva suoi fiduciari nelle principali città dalmate iugoslave. Ma questi tentativi d’interferenza si
scontrarono spesso con la volontà di molti dalmati di difendere e di
preservare una propria almeno parziale autonomia politica.
L’impossibilità per il fascismo di operare liberamente ed autonomamente nella Dalmazia iugoslava e l’obbligo, previsto dai trattati italo-iugoslavi, di elezione delle cariche direttive per le associazioni e
le istituzioni italiane permisero la sopravvivenza di un pluralismo politico fra le comunità dalmate, non più esistente in Italia. In seno alle istituzioni italiane conservarono un forte peso e ruolo politico anche personalità non fasciste o antifasciste. A Sebenico Luigi Pini continuò a svolgere un ruolo guida poiché in lui gli italiani locali vedevano il loro autentico capo politico. A Spalato non fascisti continuarono a detenere ruoli direttivi nelle varie istituzioni italiane locali260.
Pure a Zara, anche se progressivamente fascistizzata ed inserita nello Stato autoritario mussoliniano, negli anni fra le due guerre la vecn. 1, p. 83 e ss.; PIERRE JAQUIN, La question des minorités entre l’Italie et la Yougoslavie, Paris,
1929, p. 158 e ss.
260 Nel 1930 nella Dalmazia iugoslava gli iscritti fascisti erano poco più di duecento: DDI,
VII, 9, d. 332, Marincovich a Giuriati, 22 ottobre 1930.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
417
chia tradizione liberale-autonomista continuò ad esistere, anche se costretta ad esprimersi in forme prevalentemente culturali. Alcuni militanti e simpatizzanti liberali – allineati e non al regime, ma comunque desiderosi di preservare la specificità culturale degli italiani dalmati – si raccolsero intorno alla redazione della zaratina «Rivista
Dalmatica», diretta da Ildebrando Tacconi261. Il carattere fortemente
regionale e locale della pubblicazione, il suo tono quasi apolitico e il
contenuto di molti suoi articoli, dedicati all’esaltazione delle passate
lotte e delle specifiche tradizioni italiane dalmatiche, erano indizi di
una certa eterodossia rispetto alle direttive del regime fascista: non a
caso la rivista fu criticata da alcuni esponenti fascisti zaratini per il
poco spazio dedicato al fascismo sulle sue pagine262. Nella città dalmata altra forma di velata critica verso il regime fascista furono le manifestazioni e le dichiarazioni di rimpianto e nostalgia per le vecchie
istituzioni asburgiche e per l’epoca precedente alla prima guerra mondiale: non a caso le autorità statali italiane interpretarono ogni forma
di sentimento filoasburgico come espressione di tendenze antifasciste263.
I tentativi del regime fascista di ridurre il pluralismo politico e culturale esistente in seno alla minoranza italiana dalmata e di assicurarsi un totale monopolio politico provocarono vari incidenti e scontri nel
corso degli anni Venti e Trenta. Significative, a questo riguardo, furono le forti tensioni politiche a Sebenico fra la fine degli anni Venti
e l’inizio degli anni Trenta. Nel giugno 1931, con il consenso del
Fascio di Zara, Tullio Nicoletti, fiduciario fascista a Sebenico, cercò
di provocare l’estromissione di Pini, non iscritto al partito, dai verti261
Sulla figura di Ildebrando Tacconi: VANNI TACCONI, Il ritorno alle radici. Scritti e discorsi sulla Dalmazia, Udine, 2005, p. 120 e ss.; ILDEBRANDO TACCONI, Dalla Dalmazia, cit.;
ZILIOTTO, Lettera ad Enzo Bettiza, cit., pp. 39-40. Circa l’estraneità politica di Ildebrando
Tacconi al regime fascista: ASS, Governo della Dalmazia/Talijanska Vlast u Dalmaciji 19411943, b. 1, Alberto degli Alberti al Ministero della Cultura popolare, 1° settembre 1943.
262 COEN, Zara tra le due guerre, cit., p. 135. Sulla «Rivista Dalmatica» si consultino gli
indici pubblicati a cura di NICOLÒ LUXARDO DE FRANCHI e ODDONE TALPO: «La Rivista
Dalmatica», 1998, n. 4. Sulla persistenza della cultura autonomista dalmata negli scritti pubblicati su questa rivista: MONZALI, Oscar Randi scrittore di storia dalmata, cit.
263 Si veda ad esempio: ASS, Governo della Dalmazia/Talijanska Vlast u Dalmaciji 19411943, b. 1, Nota del prefetto di Zara, Vaccari, s.d., sul funzionario statale Alberto degli Alberti,
discendente di una antica famiglia italiana di Spalato, non iscritto al partito nazionale fascista ed accusato di nostalgie asburgiche. Sulla diffusione di una nostalgia per l’epoca asburgica e l’influenza della cultura austriaca anche in dalmati di forte identità nazionale italiana
si vedano i ricordi di Enzo Bettiza relativi a suo padre, importante esponente della minoranza italiana spalatina: BETTIZA, La Cavalcata del Secolo, cit.; ID., Esilio, cit., p. 30 e ss.
418
LUCIANO MONZALI
ci delle associazioni italiane locali. L’iniziativa suscitò una dura resistenza nella collettività italiana di Sebenico, che decise di mobilitarsi per mantenere il vecchio deputato alla guida delle istituzioni italiane votando contro Nicoletti e le direttive della Federazione fascista zaratina264. Nel corso degli anni Venti e Trenta oggetto di molti attacchi e critiche da parte di alcuni esponenti fascisti fu anche il senatore Antonio Tacconi, principale dirigente degli italiani di Spalato.
Tacconi, pur fiduciario del partito fascista per la Dalmazia iugoslava,
continuò ad agire a Spalato in maniera tradizionale e conservatrice,
da vecchio notabile liberale dalmata. Desideroso di mantenere unita
la collettività italiana, spoliticizzò la vita comunitaria, dando secondaria importanza all’eventuale adesione al regime fascista da parte dei
membri e dirigenti della comunità. Quest’azione politica – personalistica, localista e in continuità con il modus operandi della tradizione politica dalmata – suscitò l’ostilità di alcuni fascisti spalatini e di
determinati consoli operanti a Spalato265. Alcuni esponenti fascisti locali (ad esempio, Giandomenico Carstulovich, capo della Società
Operaia, e Aurelio Bonavia, fiduciario fascista a Spalato) accusarono Tacconi di essere politicamente troppo legato al passato, di rappresentare esclusivamente gli interessi di alcune vecchie famiglie italiane e di clientelismo266. Bonavia e Carstulovich contestarono pure
il permanere di non fascisti ai vertici delle istituzioni della comunità
italiana spalatina267. Fra il 1933 e il 1934 il console italiano di Spalato,
Meriano, ex deputato fascista entrato in diplomazia per meriti politici, attaccò duramente la gestione della comunità italiana da parte di
Tacconi, tentando di accentrare maggiormente nel consolato la direzione politica della minoranza. Meriano accusò Tacconi di essere
espressione di un’oligarchia borghese spalatina, estranea ai bisogni
delle masse italiane, e di gestire in modo troppo tradizionalista e personale le risorse economiche della collettività italiana268. In generale
Meriano non mostrò di avere grande stima degli italiani spalatini, dei
264
DDI, VII, 10, d. 400.
esempio: ACS, PNF-DN, Senatori e Consiglieri Nazionali, fascicoli personali, b.
27, Antonio Tacconi, Bartolucci a segretario del Partito Nazionale Fascista, 12 febbraio 1939.
266 Al riguardo: ASMAE, AP 1931-45, Jugoslavia, b. 40, [probabile autore GIANDOMENICO
CARSTULOVICH], Promemoria per S.E. il ministro, 12 settembre 1929; DDI, VII, 9, d. 288, Galli
a Grandi, 4 ottobre 1930.
267 ASMAE, GAB 1923-43, GAB, b. 423, Segre a Grandi e Galli, 18 febbraio 1930 con
allegati.
268 ASMAE, AP 1931-45, Jugoslavia, b. 40, Meriano a Galli, 31 luglio 1933.
265 Ad
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
419
quali criticava l’eccessiva mescolanza con l’elemento iugoslavo269 e
il conservatorismo culturale e politico270. Questo desiderio di Meriano
di «modernizzare» la comunità italiana di Spalato – il che, nel suo pensiero, significava fascistizzarla – era, come abbiamo già rilevato, parte di una tendenza più generale del governo di Roma di assumere un
controllo diretto e pervasivo sulla vita delle collettività italiane nella
Dalmazia iugoslava, ad esempio, selezionandone i dirigenti271. L’Italia
fascista, poi, desiderava una sempre maggiore similitudine fra l’ideologia politica del regime e i valori della minoranza italiana. A tale riguardo, è possibile affermare che a partire dal 1935 il controllo
dello Stato e del partito fascista sulla vita delle comunità italiane nella Dalmazia iugoslava crebbe sempre più, limitando l’autonomia delle vecchie classi dirigenti di estrazione e matrice liberale-nazionale e
autonomista.
269 Meriano così descriveva i maestri della scuola italiana di Spalato: «Oggi, i maestri
sono nella gran maggioranza dalmati optanti, etnicamente croati: adunque avulsi dalla vita
viva della Nazione Italiana, e partecipi degli stessi difetti e vittime delle stesse difficoltà ambientali di cui soffrono gli alunni e le loro famiglie; non leggono giornali italiani, che non
giungono; parlano il gergo locale quanto e più dell’italiano; né la buona volontà basta a far
miracoli, tanto che la Direzione Generale Italiani all’estero ha dovuto talvolta fare dei rilievi sulla correttezza linguistica e grammaticale della prosa usata da questi insegnanti nelle loro relazioni. Sono avvenuto ad apprendere per caso che una delle insegnanti nella scuola di
Spalato, Signorina Savo, è cittadina jugoslava: qualunque considerazione si possa fare non
varrà a giustificare la presenza di una straniera, e particolarmente di una jugoslava, in una
scuola italiana in Dalmazia» (Meriano a Galli, 31 luglio 1933, cit.).
270 Così il console descriveva il Gabinetto di Lettura, principale istituzione politica e culturale italiana a Spalato: «Il Gabinetto di Lettura, istituzione analoga alle “citaonize” croate,
ha anch’esso un’insigne tradizione, che va da Bajamonti ad Ercolano Salvi; ma a giorno d’oggi raccoglie pochissimi frequentatori attorno ai pochi giornali e riviste italiani che varcano la
frontiera, e dà l’impressione, non soltanto estetica, di un organismo invecchiato, che vive di
ricordi. Raccoglieva in passato la aristocrazia spalatina, quella parte eletta della cittadinanza
cui risale il merito di aver serbato nelle peggiori traversie politiche una signorile dignità di
ottimati, e la colpa di non aver compreso e avvicinato le masse, lasciando preda alla demagogia croata prima, jugoslava poi, quella maggioranza che era chiamata a dominare educare
assimilare. Scomparsa questa aristocrazia, o per l’esodo nel Regno o per scemata volontà di
organizzazione e di lotta, oggi la classe dirigente, che frequenta abitualmente il Gabinetto di
Lettura, si riduce ad una diecina di famiglie; ed è raro ascoltarvi l’espressione di un’idea nuova, di un atteggiamento spirituale moderno» (Meriano a Galli, 31 luglio 1933, cit.).
271 Circa i tentativi del console di Ragusa di scegliere i dirigenti della comunità italiana
di Ragusa: ASMAE, AP 1931-1945, Jugoslavia, b. 57, Staffetti a Cosmelli, 16 ottobre e 19
dicembre 1935; ASMAE, AP 1931-1945, Jugoslavia, b. 84, Staffetti al Ministero degli Esteri
e alla Legazione italiana di Belgrado, 18 marzo 1936.
420
LUCIANO MONZALI
4.6. La comunità italiana di Veglia
Dopo il 25 aprile 1921, giorno dell’evacuazione da parte dell’esercito italiano dopo due anni e mezzo di occupazione, l’isola di Veglia passò sotto la sovranità iugoslava. Uno dei primi atti del nuovo governo
fu lo scioglimento della giunta comunale della città di Veglia, capoluogo dell’isola e centro a grande maggioranza italiana272. Il comune
di Veglia venne commissariato, furono disconosciuti i contratti intervenuti fra il governo italiano e numerosi privati e venne occupato con
la forza l’edificio destinato alla scuola italiana. L’amministrazione iugoslava stabilì restrizioni all’esportazione di tutte le merci per l’Italia
e per Fiume ed adottò la lingua croata nell’emanazione degli atti d’ufficio del comune di Veglia. Nei mesi successivi gli italiani di Veglia
furono sottoposti a minacce e provocazioni da parte di alcuni nazionalisti iugoslavi e soldati dell’esercito serbo, talvolta culminate in violenze e arresti. Ma nonostante le difficili condizioni di vita, a differenza di Sebenico, Curzola, Arbe e della gran parte della Dalmazia settentrionale, dove la fine dell’occupazione italiana comportò il traumatico esodo di molti dalmati italiani, nella città di Veglia anche dopo il 1921 sopravvisse una forte e compatta comunità italiana.
Come abbiamo già detto, l’isola di Veglia era prevalentemente croata, ma il capoluogo, Veglia, con circa 1.500 abitanti (dati del censimento del 1910)273, aveva una netta maggioranza italiana (1.200 italiani, 300 croati). Con la fine dell’occupazione italiana, gli italiani di
Veglia decisero in grande maggioranza di optare per la cittadinanza
italiana: già nel maggio 1921 1.123 cittadini di Veglia fecero richiesta di ottenere la cittadinanza italiana274. Il censimento degli italiani
all’estero del 1927 confermò l’esistenza di ben 1.162 italiani optanti
a Veglia città275. Alcuni di questi italiani scelsero di emigrare nel
Regno, ma la larga parte decise di restare a Veglia anche sotto il dominio iugoslavo, la quale rimase a maggioranza italiana fino all’esodo dopo la seconda guerra mondiale. Varie sono le ragioni che possono spiegare il differente comportamento degli italiani di Veglia ri272 Per una descrizione dei primi mesi di occupazione iugoslava a Veglia: ASMAE, GAB
1923-43, AF, b. 17, Bonoldi a Ministero degli Esteri, 2 giugno 1921. Sulla storia della città
di Veglia rimandiamo a: FIORENTIN, op. cit.
273 RUBIC!, Les Italiens, cit., p. 56.
274 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 2, Appunto anonimo dell’Agenzia consolare di Veglia,
7 maggio 1921.
275 RUBIC!, Les Italiens, cit., p. 6.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
421
spetto, ad esempio, a quelli di Sebenico e di altre isole dalmate. Innanzitutto, va rilevata la diversità sociale fra gli italiani di Sebenico e quelli di Veglia. Gli italiani sebenzani abitavano in una città mista a preponderanza croata (pur con una piccola presenza serba) ed erano in
maggioranza appartenenti alla cosiddetta “classe intellettuale”, cioè
aristocratici e borghesi impiegati dello Stato, possidenti, commercianti
e imprenditori: con l’assunzione della cittadinanza italiana diveniva
impossibile il mantenimento della loro posizione sociale e professionale all’interno della Iugoslavia. A Veglia città, invece, l’elemento italiano era nettamente maggioritario.
Si noti – scrisse l’agente consolare Bonoldi nel 1929 – che i croati a Veglia
sono di recente importazione. Essi non raggiungono il n. di 400, sono funzionari dello Stato o studenti del ginnasio recentemente istituito e non posseggono generalmente immobili, mentre gli italiani, siano questi nostri cittadini o dello Stato S.H.S., raggiungono il numero di 1.200 e sono i proprietari della terra e degli stabili276.
Inoltre gli italiani di Veglia erano quasi esclusivamente pescatori,
agricoltori e artigiani; queste attività professionali rendevano possibile la loro permanenza in Iugoslavia, permanenza facilitata anche dalla vicinanza all’Istria e a Fiume. Di fatto dopo il 1921 gli italiani veglioti costituirono, dopo quella di Spalato, la collettività italiana più
numerosa e vitale esistente nella Dalmazia iugoslava negli anni fra le
due guerre. Così Antonio Tacconi ne descriveva le caratteristiche nel
1934:
[…] La nostra collettività di Veglia, che rappresenta in paese una notevole maggioranza formata da cittadini italiani è costituita esclusivamente di
elemento popolare, agricoltori, pescatori ed artigiani, con ciò che vi manca
una classe borghese […]. Nello stesso tempo questa collettività è meritevole di venir presa nella massima considerazione. Il suo senso morale ed il suo
fervore patriottico si trovano ad un livello indubbiamente superiore. Anche
le sue condizioni economiche, patrimoniali, per le risorse che le derivano dalla pesca, dall’agricoltura e per avere ogni famiglia la sua casa ed il suo podere, si possono dire, malgrado la crisi imperversante, soddisfacenti277.
276
277
1934.
Bonoldi a Legazione italiana di Belgrado, 5 ottobre 1929, cit.
ASMAE, AP 1931-1945, b. 45, Tacconi al Consolato italiano a Spalato, 24 giugno
422
LUCIANO MONZALI
La consistenza e la forza della comunità italiana di Veglia fecero
sì che il governo di Roma le riservasse una certa attenzione negli anni fra le due guerre. Proprio per aiutare e proteggere questa comunità
la diplomazia italiana si batté per ottenere il diritto ad avere un proprio agente consolare a Veglia. A tal fine, dopo l’evacuazione dell’esercito italiano nell’aprile 1921, rimase a Veglia un agente consolare,
Pietro Bonoldi, originario dell’isola278. Questa agenzia consolare non
venne riconosciuta ufficialmente dal governo di Belgrado, ma fu consentito al Bonoldi, a titolo personale, d’intervenire a protezione della
collettività italiana279. Bonoldi, con il sostegno diplomatico del governo
di Roma, s’impegnò per garantire alla comunità italiana le condizioni per una dignitosa vita economica. Di fronte ai tentativi delle autorità locali di impedire ai pescatori italiani optanti di potere praticare
la propria professione280, Bonoldi e la diplomazia italiana riuscirono
ad ottenere dalle autorità di Belgrado il formale riconoscimento della libertà di pesca a Veglia nel 1922281. Il console agì ripetutamente
per difendere i diritti di proprietà degli italiani optanti e le loro licenze d’industria, spesso contestate ed invalidate dalle autorità amministrative iugoslave282. Numerose controversie creò a Veglia l’applicazione della legge iugoslava che prescriveva che tutti i contratti di compravendita fra cittadini stranieri o fra nazionali e stranieri riguardanti
proprietà situate entro la zona confinaria di 50 chilometri avessero
l’approvazione del Ministero della Guerra a Belgrado283.
La principale associazione italiana a Veglia era il «Circolo Italiano
di Cultura», con una settantina di soci, fra i quali vi erano le principali famiglia italiane del luogo (Braut, Maracich, Depicolzuane, Ostrogovich, Udina, Morich, Giurina e Fiorentin)284. Altra istituzione comunitaria era la Chiesa di San Quirino, riservata all’elemento italiano di
Veglia285. Per la sopravvivenza della collettività italiana di Veglia era
278 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Bonoldi al Ministero degli Esteri, 15 settembre
1921. Su Bonoldi si veda il suo fascicolo personale conservato in ASMAE, Spalato, b. 242.
279 ASMAE, AP 1931-45, b. 84, Viola a Mussolini, 12 novembre 1935.
280 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 14, Manzoni al Ministero degli Esteri, 3 e 25 gennaio 1922.
281 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 14, Manzoni al Ministero degli Esteri, 2 marzo 1922.
282 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 14, Bonoldi al Ministero degli Esteri, 4 dicembre 1922
e 27 luglio 1923.
283 ASMAE, Sebenico, arc. ord., b. 2, Bonoldi al Consolato italiano di Spalato, 8 dicembre
1923.
284 ASMAE, Spalato, b. 114, Bonoldi al Consolato italiano di Spalato, 4 marzo 1940.
285 ASMAE, Spalato, b. 257, Bonoldi al Consolato italiano di Spalato, 18 novembre 1927.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
423
ovviamente cruciale il mantenimento di una scuola italiana nella cittadina adriatica. Dopo l’occupazione iugoslava, l’esistente scuola popolare italiana, con l’annesso giardino d’infanzia, continuò a funzionare come scuola privata per alcune settimane286, per poi essere chiusa nell’estate del 1921 a causa della mancanza di autorizzazione governativa iugoslava287. Per molti mesi il governo di Belgrado e le autorità amministrative periferiche boicottarono la riapertura della scuola288. Fu solo nel marzo 1923, dopo il miglioramento dei rapporti italo-iugoslavi a causa della ratifica dei trattati di Santa Margherita da
parte del Parlamento di Roma e il ritiro italiano dalla terza zona dalmata, che il governo di Belgrado diede l’autorizzazione alla riapertura della scuola289. La scuola italiana di Veglia, che rimase in funzione
fino agli anni della seconda guerra mondiale, assunse il carattere di
scuola privata, gestita dalla Lega Culturale Italiana, ma di fatto finanziata dal governo di Roma. Essa fu strutturata in una scuola elementare pareggiata mista, con annesso un giardino d’infanzia e un corso integrativo per «lavori donneschi». Secondo i dati relativi all’anno
scolastico 1929-1930, la scuola italiana di Veglia aveva 6 insegnanti,
94 alunni iscritti alla scuola elementare, 51 al giardino d’infanzia, e
37 al corso per lavori donneschi290. Che la comunità italiana di Veglia
fosse alquanto vitale negli anni fra le due guerre è confermato dalle
statistiche della scuola locale per l’anno accademico 1940-1941, che
mostrano una crescita del numero degli alunni, passati complessivamente a 210291.
In contrasto con molte altre comunità italiane nella Dalmazia iugoslava, che negli anni fra le due guerre mondiali videro spesso ridurre
notevolmente la propria forza numerica, la collettività di Veglia si mantenne compatta e forte fino alla seconda guerra mondiale, per essere
poi distrutta solo dalla politica oppressiva del comunismo iugoslavo.
Ciò nonostante anche Veglia fu duramente colpita dalla grave crisi economica che sconvolse la Dalmazia in particolar modo nel corso degli
anni Trenta. La solidità dell’elemento italiano di Veglia, dovuta al suo
286 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Bonoldi al Ministero degli Esteri, 9 maggio 1921.
287 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Bonoldi al Ministero degli Esteri, 5 e 15 gennaio
1922, con allegato.
288 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Bonoldi al Ministero degli Esteri, 28 ottobre 1922.
289 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Negrotto al Ministero degli Esteri, 26 marzo 1923.
290 ASMAE, Spalato, b. 255, Appunto del console italiano a Spalato, 12 agosto 1930.
291 ASMAE, Spalato, b. 259, NICOLÒ SCIORTINO, Scuola elementare mista di Veglia. Prima
relazione trimestrale anno scolastico 1940-1941, 6 dicembre 1940.
424
LUCIANO MONZALI
legame con la terra, poteva in parte spiegarne la forza. Mentre nel resto delle isole dalmate era assai diffusa la grande proprietà fondiaria,
a Veglia, sul piano amministrativo parte dell’Istria per più di un secolo, era prevalente il sistema della piccola proprietà:
Nell’isola di Veglia […] – notò Bonoldi – i proprietari sono i lavoratori
della terra. Vi è assenza quasi completa di una casta di operai agricoltori non
proprietari. Ha notevole importanza la famiglia e lo sviluppo di questa in relazione al sistema della distribuzione della proprietà. Quindi, famiglie numerose dedite totalmente al lavoro della terra e trapasso della piccola proprietà attraverso combinazioni matrimoniali. L’eccedenza del materiale umano emigra di solito nelle Americhe292.
Il governo italiano si adoperò per aiutare economicamente la comunità italiana, in particolare durante la difficile crisi degli anni Trenta,
attraverso sussidi ai più poveri e mutui ad alcuni connazionali293. Di
fatto, la collettività italiana di Veglia fu quella che meglio resse il peso delle difficili condizioni di vita che si trovò ad affrontare fra le due
guerre mondiali.
4.7. Il declino. Gli italiani di Spalato dopo il trattato di Rapallo
Nella Dalmazia iugoslava la più numerosa comunità italiana era concentrata nella città di Spalato. La conclusione del trattato di Rapallo,
con la risoluzione della controversia confinaria in Dalmazia, pose fine ad una fase concitata e difficile della storia della città, spaccata al
proprio interno fra favorevoli all’Italia e filoiugoslavi. La mancata
unione all’Italia fu indubbiamente una dura sconfitta per i leader italiani spalatini (Antonio Tacconi, Leonardo Pezzoli, Ernesto Illich,
Stefano Selem, Alfredo Riboli, Giorgio de Chmielewski, Doimo
Caraman, Giuseppe Voltolini, Doimo Savo), che avevano puntato tutto sulla scelta dell’irredentismo politico. Gli stessi uomini, dopo
Rapallo, dovettero ripensare completamente la propria strategia politica, alla ricerca del miglior modo di garantire alla numerosa collettività italiana una dignitosa sopravvivenza nazionale ed economica. La
292 ASMAE, Spalato, b. 84, Bonoldi alla Legazione italiana di Belgrado, 2 febbraio 1931.
293 ASMAE, AP 1931-45, Jugoslavia, b. 80, Romizi al Ministero degli Esteri, 3 dicembre 1934.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
425
ricostruzione del negoziato sulle opzioni ha indicato come, dopo le delusioni degli anni 1918-1919, fra gli italiani spalatini grande fosse la
diffidenza verso il governo di Roma, ritenuto insensibile alle esigenze specifiche della minoranza italiana in Dalmazia e poco sincero nelle sue promesse. Ma nonostante i dubbi e le diffidenze, alla fine i capi del Fascio Nazionale Italiano spalatino decisero di puntare sul consolidamento del rapporto con il governo di Roma quale mezzo migliore per tutelare gli interessi degli italiani di Spalato: da qui il consiglio ai propri aderenti di optare per la cittadinanza italiana. Come
abbiamo già notato, non tutti gli italiani di Spalato seguirono il consiglio dei capi del Fascio Nazionale, e una parte della collettività italiana preferì mantenere la cittadinanza iugoslava, al fine di evitare persecuzioni e discriminazioni e di preservare le proprie posizioni economiche e professionali. Va detto che l’esistenza di alcune migliaia di
cittadini iugoslavi di nazionalità italiana consentiva agli optanti di mantenere una connessione con il resto della società spalatina, evitando
di chiudersi in un pericoloso totale isolamento. Non a caso i capi della comunità italiana spalatina s’impegnarono fortemente perché le associazioni e le istituzioni italiane continuassero ad essere aperte agli
italiani di cittadinanza iugoslava294; azione questa contrastata duramente dalle autorità iugoslave, che definivano «italiani» solo gli optanti e desideravano chiudere l’elemento italiano in un ghetto giuridico al fine di eliminarne il peso politico ed economico in città.
Comunque la divisione degli italiani spalatini fra optanti e cittadini iugoslavi indebolì la minoranza. Le autorità locali e il governo di
Belgrado sfruttarono questa divisione per limitare al massimo l’influenza dell’elemento italiano nella città e potenziare la iugoslavizzazione della società spalatina.
Nonostante l’ostilità e l’ostruzionismo del governo di Belgrado e
dei gruppi nazionalisti croati e iugoslavi locali, nel corso della prima
metà degli anni Venti la comunità italiana di Spalato, con l’aiuto
dell’Italia, riuscì a preservare un proprio spazio politico e culturale e
a mantenere una qualche influenza all’interno della società spalatina.
Fra il 1921 e il 1922 la comunità italiana di Spalato procedette ad una
sua riorganizzazione politica ed istituzionale. Il Fascio Nazionale
Italiano spalatino si sciolse, ma i suoi capi, in particolare Tacconi,
294 ASMAE, Spalato, b. 250, Consolato italiano a Spalato al Ministero degli Esteri e alla Legazione italiana di Belgrado, 15 dicembre 1925; ibidem, Pezzoli al Consolato italiano a
Spalato, 22 ottobre 1925.
426
LUCIANO MONZALI
Pezzoli, Selem, Riboli e Savo, espressione della vecchia borghesia autonomista e bajamontiana, rimasero alla guida della comunità italiana; anche se nel corso degli anni Venti e Trenta la loro egemonia politica venne contestata da alcuni esponenti, Aurelio Bonavia e Giandomenico Carstulovich, vicini al fascismo più estremista e con un certo radicamento nei ceti popolari spalatini295. Tacconi, Pezzoli e Savo
erano figli della complessa realtà dell’italianità spalatina, bilingue,
multietnica e fortemente mescolata con l’elemento croato e slavo della città, nella quale l’identità nazionale era soprattutto un’individuale
scelta ideologica e culturale. Segnati dalle lotte dei primi due decenni del Novecento questi politici italiani furono assertori di un nazionalismo difensivo, fondato sulla tutela e sulla conservazione di una tradizione linguistica, culturale e nazionale in contrapposizione con i più
forti nazionalismi iugoslavi. Erano notabili profondamente conservatori e tradizionalisti, radicati nella società spalatina in tutte le sue componenti nazionali, ma estranei alla politica di massa e alle nuove idee
di riorganizzazione autoritaria della società che il fascismo italiano teorizzava. Testimonianza del profondo conservatorismo dei capi italiani spalatini fu il modo con cui, negli anni Venti, essi procedettero all’organizzazione della collettività italiana, puntando alla semplice ricostituzione delle vecchie associazioni ed istituzioni italiane ed autonomiste, esistenti a Spalato fino al 1915. Di fatto anche a Spalato le
antiche istituzioni associative autonomiste furono il fulcro della vita
della minoranza negli anni fra le due guerre. Accanto al Gabinetto di
Lettura, fra il 1918 e il 1920 sede del Fascio Nazionale Italiano e spesso campo di battaglia fra italiani e nazionalisti iugoslavi, vennero progressivamente ricostituite o riorganizzate la Società Operaia, la Cassa
di mutuo soccorso, la Società Corale Spalatina, la Biblioteca Popolare
Italiana, l’Unione Cooperativa. La Società Operaia, fondata nel 1872,
aveva 1.130 soci nel 1921: raccoglieva l’elemento popolare ed operaio con finalità di mutuo soccorso; forniva ai soci anche cure mediche e medicinali296. La Lega Nazionale spalatina, che gestiva le istituzioni scolastiche italiane esistenti a Spalato prima del 1915, venne
rifondata ed assunse il nome di Lega Culturale Italiana nel 1925: presieduta da Antonio Tacconi, ebbe il compito di gestire tutte le scuole
295 Al riguardo: ASMAE, AP 1931-45, b. 70, Ambrosetti a Mussolini e a Galli, 30 dicembre 1934; ANDRI, Gli italiani in Dalmazia tra le due guerre mondiali, cit., p. 105 e ss.
296 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 14, Umiltà al Ministero degli Esteri e alla Legazione
italiana di Belgrado, 11 settembre 1921.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
427
italiane presenti nella Dalmazia iugoslava attraverso le sue diramazioni
locali297. Le varie associazioni erano guidate da consigli direttivi, eletti dalle assemblee dei soci. L’attività di queste associazioni venne coordinata attraverso la creazione di un Comitato intersociale, del quale
facevano parte i presidenti o vice-presidenti delle associazioni e presieduto dal console generale d’Italia a Spalato298. Il carattere elettivo
di queste associazioni, il permanere della tradizione politica liberaleautonomista nella collettività italiana, la specificità culturale degli italiani locali, suscitarono le critiche di alcuni funzionari dell’Italia fascista nel corso degli anni Venti e Trenta. Nel 1934, ad esempio, il console Ambrosetti denunciò la persistenza di una mentalità «demo-liberale» nella comunità italiana di Spalato.
Come è noto, tutta la vecchia tradizione irredentistica dalmata si basava
su una mentalità tra demo-liberale e massonica, che disconosceva il principio di autorità, perché questo principio di autorità era rappresentato dalla vecchia Austria, e a tale principio contrapponeva la teoria messianico-mazziniana del diritto dei popoli di decidere delle loro sorti, all’assolutismo contrapponeva la piena libertà di coscienza e di pensiero, alla volontà dello Stato la
volontà del popolo. Nonostante il fascismo, nonostante tutto, la situazione della collettività italiana di Spalato risente tuttora di tale peccato di origine, ed
è tuttora organizzata secondo sistemi che sono assolutamente in contrasto coi
tempi. La distribuzione e la coordinazione delle varie forme di assistenza […]
vengono affidate a una specie di alto parlamento che – come tutti i parlamenti
di questo mondo – non riesce nella maggior parte dei casi che ad essere un
centro di pettegolezzi e di malcontento299.
Allo stesso modo, il tentativo dei capi italiani spalatini di tenere
vivi i contatti fra gli optanti, gli italiani cittadini iugoslavi e il resto
della società spalatina, così come le peculiarità locali della comunità
(l’eterogeneità etnica dell’elemento italiano, la sua mescolanza con gli
slavi, l’uso continuo del dialetto veneto spalatino) suscitarono dubbi
297 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1318, Consolato italiano a Spalato alla Legazione
italiana di Belgrado e al Ministero degli Esteri, 9 marzo 1925; ibidem, [ANTONIO TACCONI],
Riconoscimento della legale esistenza delle Società italiane in Dalmazia, più in particolare
della Società “Lega Nazionale”, s.d.; ibidem, Pravilnici “Lega Culturale Italiana” /Statuti
della “Lega Culturale Italiana”, Split, s.d.
298 Meriano a Galli, 31 luglio 1933, cit..
299 ASMAE, AP 1931-45, Jugoslavia, b. 70, Ambrosetti al Ministero degli Esteri e alla
Legazione italiana di Belgrado, 30 dicembre 1934.
428
LUCIANO MONZALI
e irritazione in alcuni consoli e dirigenti fascisti della Penisola300. Ma
nonostante le diversità culturali e ideologiche, la collaborazione fra la
collettività italiana e il governo di Roma era una scelta obbligata per
i capi italiani spalatini, tenuto conto dell’ostilità iugoslava verso la minoranza. E fu proprio sfruttando le pressioni politiche e i finanziamenti
dell’Italia liberale e fascista, che la minoranza riuscì a raggiungere alcuni non piccoli successi politici. Anche a Spalato preoccupazione
prioritaria della minoranza fu la ricostituzione delle scuole italiane.
Prima della guerra esistevano nella città una scuola elementare italiana, divisa in due sezioni, maschile e femminile, gestita dalla Lega
Nazionale301, e un collegio religioso italiano, la scuola delle «Ancelle
di Carità», comprendente l’insegnamento elementare e un corso di
compimento302. Dopo l’intervento dell’Italia in guerra contro l’AustriaUngheria le istituzioni scolastiche della Lega Nazionale erano state
chiuse dalle autorità governative, decisione mantenuta dal potere iugoslavo. Dopo il trattato di Rapallo, la comunità italiana s’impegnò
strenuamente, con il sostegno della diplomazia di Roma, per ottenere
la ricostituzione della scuola, il che avvenne nel 1923303. Dopo due anni di apertura, la scuola raggiunse il numero di 168 alunni, fra i quali 147 cittadini italiani e 21 cittadini iugoslavi. I tentativi dei dirigenti italiani di consentire anche ai cittadini iugoslavi di nazionalità italiana di frequentare tale scuola incontrarono ben presto l’opposizione
del governo di Belgrado e delle autorità locali, che affermavano strumentalmente che le garanzie culturali previste dall’accordo di Rapallo
erano valide solo per i cittadini italiani e non per i cittadini iugoslavi
di nazionalità italiana304. L’ostruzionismo di Belgrado provocò la progressiva esclusione dei cittadini iugoslavi dalla scuola: nell’anno scolastico 1935-1936, gli alunni iscritti alla scuola italiana di Spalato furono 182, tutti in possesso della cittadinanza italiana305. All’inizio de-
300 Ad
esempio: Meriano a Galli, 31 luglio 1933, cit.
Sulla scuola italiana di Spalato: GASTONE COEN, Un requiem per la mia scuola centenaria, in http://www.edit.hr/panorama/pan02101.htm
302 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Umiltà al Ministero degli Esteri, 11 ottobre 1921.
303 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 9, Amadori al Ministero degli Esteri, 2 luglio 1921;
ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Umiltà al Ministero degli Esteri, 4 agosto e 19 ottobre
1921, 3 marzo 1922, 14 giugno 1923.
304 Pezzoli al Consolato italiano a Spalato, 22 ottobre 1925, cit.
305 ASMAE, Spalato, b. 259, UMBERTO RUZZIER, Relazione sul funzionamento della
Scuola della Lega Culturale Italiana di Spalato nel I trimestre dell’anno scolastico 1935-1936.
XIV°, 3 dicembre 1935.
301
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
429
gli anni Venti altra battaglia che impegnò gli italiani di Spalato fu la
lotta per il riconoscimento del diritto alla pratica religiosa in italiano.
Fino alla prima guerra mondiale gli italiani di Spalato, in grande maggioranza cattolici praticanti, esercitarono le loro pratiche religiose nella chiesa cattedrale di San Doimo, situata al Peristilio, dove la predicazione veniva compiuta in italiano, gli atti liturgici in latino, quelli
extra-liturgici nella massima parte in italiano: ciò era dovuto al fatto
che gli italiani erano fortemente concentrati nella città vecchia, dove
costituivano l’elemento maggioritario. Dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, per ingiunzione governativa fu eliminato l’uso dell’italiano nella chiesa di San Doimo e «da singoli sacerdoti addetti alla stessa Cattedrale e contro le vigenti disposizioni ritualistiche della Chiesa, si incominciò perfino nelle funzioni ed atti strettamente liturgici a introdurre la lingua volgare croata, con pregiudizio
della lingua latina, ostacolando così agl’italiani di Spalato l’esercizio
del loro culto cattolico nella Chiesa madre»306. Di fronte all’impossibilità di reintrodurre l’uso dell’italiano nella cattedrale, i cattolici italiani, con il consenso delle autorità ecclesiastiche spalatine, scelsero
di esercitare gli atti del culto in lingua italiana nella chiesa succursale di Santo Spirito, posta nel centro storico della città. Nel corso dei
primi anni Venti si ottenne il definitivo riconoscimento del carattere
italiano della chiesa di Santo Spirito, guidata prima da monsignor
Raimondo Maroevich, poi da don Eugenio Merlo. L’amministrazione
e la gestione finanziaria della chiesa e della parrocchia vennero affidate alla «Confraternita del Santo Spirito e dei devoti di San
Giuseppe», avente una trentina di soci, fra i quali vi erano alcune delle principali famiglie italiane di Spalato (Tacconi, Savo, Bonavia,
Bettiza, Reich, Foretich, ecc.)307.
Dopo la prima guerra mondiale l’elemento italiano continuò a svolgere un ruolo non marginale nella vita culturale ed economica di
Spalato. La cultura e la lingua italiana permeavano ancora vasti settori dei ceti borghesi e popolari spalatini: le iniziative culturali e d’intrattenimento organizzate dalle associazioni italiane attiravano l’attenzione e la partecipazione anche di molti croati; le biblioteche ita-
306 ASMAE, Carte Salata, b. 264, Maroevich al Fascio Nazionale Italiano di Spalato, 24
aprile 1921, allegato a Pezzoli, Tacconi, Miagostovich all’Ufficio centrale per le Nuove
Provincie, 4 maggio 1921.
307 Cfr. ASMAE, Spalato, b. 114, Presidenza della Confraternita del Santo Spirito e dei
devoti di San Giuseppe a Arduini, 3 febbraio 1939.
430
LUCIANO MONZALI
liane erano frequentate da molti non italiani, così come una qualche
diffusione avevano la stampa e la produzione libraria proveniente dalla Penisola308. Ciò si spiegava con l’ancora forte uso del dialetto veneziano e della lingua italiana in parte della popolazione slava, in particolare nei nati prima della guerra mondiale (mentre progressivamente
le nuove generazioni dopo il 1918 abbandonarono l’uso del dialetto
veneto a favore del croato)309 e con la forte mescolanza nazionale ed
etnica esistente a Spalato310. Pure sul piano economico la presenza italiana non era indifferente. Anche se la maggioranza degli italiani spalatini apparteneva alle classi popolari e meno abbienti311, non pochi
italiani erano possidenti di case e terreni, negozianti e imprenditori.
Ancora all’inizio degli anni Venti la maggior parte dei cementifici spalatini, principale industria locale, era proprietà di italiani312. Molto forte era pure la componente italiana nel ceto commerciale e nella proprietà terriera della regione. Più debole ma non trascurabile l’influenza
italiana nel settore bancario: vi era una banca locale con un assetto proprietario prevalentemente italiano, la Banca Commerciale Spalatina,
i cui principali azionisti erano le famiglie italiane Savo, Karaman,
Bettiza, Guina, Illich, de Michieli Vitturi, Foretich313; nel corso degli
anni Venti ne venne aperta un’altra, la Banca Dalmata di Sconto, di
proprietà dello Stato italiano, con sede sociale a Zara e filiali a Sebenico e Spalato, nel cui consiglio di amministrazione avevano un ruolo cruciale gli spalatini Antonio Tacconi e Giuseppe Savo e lo zaratino Amato Talpo314.
308 ASMAE, AP 1919-30, Jugoslavia, b. 1322, Consolato italiano a Spalato al Ministero
degli Esteri, 31 agosto 1925.
309 Al riguardo la testimonianza di IVAN MOSETTIG, Obmane. Splitska videnja zapoc#eta
¤
1941, Split, 1995, pp. 16-19.
310 Interessante evocazione romanzesca di una famiglia italo-slava spalatina e del bilinguismo esistente a Spalato negli anni fra le due guerre mondiali in IVAN/IVO MOSETTIG,
Radiona Šior Frane, Prijatelji, Split, 2004.
311 ASMAE, Spalato, b. 37, Carstulovich al Consolato italiano a Spalato, 24 gennaio 1935;
RUBIC!, Les italiens, cit., p. 24 e ss.; ANDRI, Gli italiani in Dalmazia, cit., p. 101-102.
312 Per informazioni sulla vita economica di Spalato fra le due guerre: JOSO LAKATOS#,
Industrija Dalmacije, Zagreb, 1923; MIRA KOLAR DIMITRIJEVIC!, Privredne prilike i struktura stanovnis#tva pred drugi svjetski rat, in Split u narodnooslobodilac#koj borbi i socijalistick# oj
Revoluciji, Split, 1981, pp. 39-61.
313 ASMAE, Spalato, b. 37, Umiltà a Mussolini, 3 maggio e 5 giugno 1923; ibidem, Protocollo dell’Assemblea generale annuale degli azionisti della Banca Commerciale Spalatina S.
A. Spalato, 23 marzo 1929; ibidem, BANCA COMMERCIALE SPALATINA, Bilancio al 31 dicembre 1930, esercizio XLVIII, Split, 1931.
314 ASMAE, Spalato, b. 37, BANCA DALMATA DI SCONTO, Relazione e Bilancio dell’esercizio 1932 presentati all’Assemblea del 23 marzo 1933 a. XI, Zara, 1933.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
431
Gli anni fra le due guerre, comunque, furono contrassegnati da un
progressivo indebolimento economico e numerico della comunità italiana a Spalato. Alcune iniziative del governo di Belgrado, l’andamento
dei rapporti italo-iugoslavi e l’evoluzione sociale ed economica della
società spalatina e della Dalmazia iugoslava inflissero duri colpi alla
collettività italiana. La riforma agraria votata dal Parlamento di Belgrado e la sua lenta e travagliata applicazione impoverirono molti proprietari terrieri italiani e croati. La volontà di gran parte dei coloni di
non pagare più i proprietari, il ritardo e la scarsa consistenza degli indennizzi privarono di rilevanti risorse molti italiani, rendendo sempre
più ardua la loro sopravvivenza economica in Iugoslavia315. La grave
recessione che colpì l’economia mondiale alla fine degli anni Venti
ebbe pure dure conseguenze in Dalmazia e sugli italiani spalatini, impoverendoli ulteriormente. Altra ragione fondamentale dell’indebolimento dell’italianità spalatina fu l’ostilità del governo di Belgrado verso di essa. La minoranza italiana a Spalato era considerata sia dai nazionalisti croati che dal potere serbo-iugoslavo un potenziale cavallo
di Troia per le mire di conquista dell’Italia fascista316. Da qui lo svilupparsi di una continua azione di ostruzionismo e danneggiamento
degli interessi economici della collettività italiana, con brevi pause in
coincidenza con temporanei miglioramenti dei rapporti fra Stato iugoslavo e Italia. Fu un’azione che ebbe inizio nel 1922 dopo l’esito
delle opzioni. Il consistente numero di optanti per l’Italia nel distretto di Spalato provocò irritazione nel governo iugoslavo, ostile a che
cittadini stranieri mantenessero un’importante influenza economica in
Dalmazia. A partire dai primi mesi del 1922 si delineò una politica
del governo iugoslavo ostile verso gli optanti, consistente in tante piccole e grandi angherie, aventi come obiettivo il peggioramento delle
condizioni di vita dell’elemento italiano locale. Un’applicazione rigida ed ostile delle convenzioni internazionali portò all’esclusione degli optanti da molte professioni, quali quelle di medici, avvocati, ingegneri, ecc. Cominciarono ad essere imposte tasse di soggiorno ai cittadini italiani, anche se questi erano nativi della Dalmazia. Operai italiani venivano licenziati da aziende iugoslave solo per la loro qualità
d’optanti; a molti pensionati non vennero più pagate le pensioni per-
315 ASMAE, Spalato, b. 83, Consolato italiano di Spalato a Legazione italiana a Belgrado,
23 giugno 1927. Si veda anche DDI, VII, 10, d. 11 e nota 2.
316 Al riguardo, ad esempio: DDI, VII, 8, dd. 6, 76.
432
LUCIANO MONZALI
ché avevano optato per l’Italia317.
Il chiaro obiettivo del governo iugoslavo era di rendere sempre più
difficili le condizioni di vita degli optanti italiani per favorirne la progressiva emigrazione o l’assimilazione attraverso l’assunzione della
cittadinanza iugoslava. Il federale fascista di Zara, Piero Marincovich,
denunciò nel 1930 il fenomeno dell’abbandono della cittadinanza italiana da parte di molti optanti dalmati.
Nel corso di questi ultimi anni l’elemento italiano è andato giornalmente scomparendo e nella sola Spalato gli italiani da più di 10.000, nell’immediato dopoguerra, sono ora ridotti a forse 2.000. Molti hanno chiesto ed ottenuto la cittadinanza jugoslava per poter trovare lavoro che altrimenti non
avrebbero potuto sperare di ottenere e moltissimi invece sono quelli che emigrarono in Italia od in altri paesi. Oggi le riopzioni cominciano a diminuire
sia perché i più bisognosi e di fede meno sicura hanno già optato, sia perché
i Comuni non concedono il nulla osta se non sono sicuri che gli optanti non
rappresenteranno soltanto dei disoccupati a carico dei bilanci comunali.
Questa restrizione è la miglior dimostrazione che moltissimi, se non addirittura tutti i nostri che optavano per la cittadinanza jugoslava erano spinti a ciò
dalla necessità di assicurarsi il pane318.
In determinati momenti, magari di particolare tensione interna o
nei rapporti con l’Italia, le autorità locali non esitavano a mobilitare
le associazioni nazionaliste filo-governative, l’Orjuna e la Jadranska
Straz#a, per organizzare manifestazioni di piazza anti-italiane che spesso sfociavano in violenze contro le proprietà italiane o contro cittadini italiani. Le manifestazioni anti-italiane in Dalmazia e a Spalato erano un fenomeno abbastanza frequente, ma ebbero particolare ampiezza
e violenza nel maggio 1928. Per protestare contro l’approvazione parlamentare degli accordi italo-iugoslavi di Nettuno da parte della
Camera di Belgrado, le associazioni nazionaliste organizzarono dimostrazioni di piazza contro l’Italia, che portarono a disordini antiitaliani in tutte le principali città dalmate319. Particolarmente virulen-
317 Ad esempio: ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 22, Umiltà al Ministero degli Esteri e
alla Legazione italiana a Belgrado, 15 novembre 1922; ivi, b. 16, Umiltà al Ministero degli
Esteri e alla Legazione italiana a Belgrado, 3 agosto 1922, 12 aprile 1923; ivi, Summonte al
Ministero degli Esteri, 5 dicembre 1922.
318 DDI, VII, 9, d. 322, Marincovich a Giuriati, 22 ottobre 1930.
319 ASMAE, Spalato, b. 46, Vice Consolato di Sebenico al Ministero degli Esteri, alla
Legazione italiana di Belgrado e al Consolato italiano di Spalato, 26 maggio e 5 giugno 1928.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
433
te furono le manifestazioni a Spalato il 26 maggio320. Dopo aver svolto una dimostrazione di protesta contro il governo di Roma in Piazza
dei Signori, circa trecento manifestanti (militanti nazionalisti, studenti,
facchini e teppisti) cominciarono a percorrere le strade della città per
alcune ore al fine di danneggiare i negozi e le istituzioni italiane spalatine, senza alcun intervento della polizia locale:
[…] I dimostranti – riferì il consolato italiano al Ministero degli Esteri –
cominciarono le devastazioni alla marina, cominciando dal caffè Nani, abituale obbiettivo di tutte le dimostrazioni, dove infransero specchi, tavolini ed
il resto; invasero e saccheggiarono sfondando le saracinesche con pali di ferro, grosse pietre e scuri l’Agenzia del Lloyd Sabaudo e della Puglia, l’agenzia Carstulovich […]. Dopo aver coscienziosamente distrutto i vetri di tutte
le case italiane prospicienti alla marina e aver tentato di sfondare la porta del
palazzo di Piazza della Frutta per poter «far la festa» al senatore Tacconi, alla sua famiglia, all’avvocato Savo e famiglia, […] i dimostranti iniziarono le
devastazioni dalla parte del Gabinetto di Lettura, danneggiando tutti i vetri
del Gabinetto, del cinema Eden e per tre volte tentando lo sfondamento321.
Dopo aver danneggiato vari negozi, i manifestanti si diressero verso la scuola italiana:
scavalcando il muro posteriore i dimostranti devastarono completamente
diverse classi e con un fiasco di spirito cosparsero il pavimento di legname
che avvampò in un attimo. Mentre i gendarmi accorsi al fumo, sedavano con
non poche difficoltà l’incendio, già manifestatosi, i dimostranti distruggendo impannate e vetri rapivano i ritratti di S.M. il Re e di S.E. Mussolini e per
sbaglio quello del Re SHS, preso per sbaglio per principe ereditario d’Italia,
e dopo mille vituperii li bruciarono322.
Le difficili condizioni di vita politica ed economica degli italiani
a Spalato favorirono l’emigrazione di molti, che vendettero i propri
beni ed abbandonarono la costa dalmata nel corso degli anni Venti e
Trenta. Questo fenomeno preoccupò non poco i capi politici della minoranza e il governo di Roma, che cercarono di frenare questo esodo
320 Al riguardo alcune notizie in MLADEN ? ULIC! DALBELLO, ANTONELLO RAZZA, Per una
storia delle Comunità italiane della Dalmazia, Trieste, 2004, p. 135 e ss.
321 ASMAE, Spalato, b. 46, Descrizione degli incidenti del 26 maggio 1928 a Spalato,
senza autore e s.d., ma 1928.
322 Ibidem.
434
LUCIANO MONZALI
con aiuti economici e finanziari, quali la concessione di mutui agevolati ai proprietari terrieri, di piccoli prestiti per connazionali in difficoltà economiche e di sussidi contro la disoccupazione323. Ma nonostante gli aiuti governativi, la posizione e la forza della collettività italiana spalatina s’indebolirono nel corso degli anni Trenta. I dati esistenti sulla consistenza della collettività italiana a Spalato mostrano
un progressivo ridimensionamento numerico dell’elemento italiano in
città. Bisogna qui ricordare che, pur in un contesto di difficile adattamento alla fine dell’Impero asburgico e di quasi costante crisi economica generale, Spalato conobbe un processo di forte crescita demografica e commerciale negli anni fra le due guerre. Il passaggio di Zara
all’Italia trasformò definitivamente la città nel principale centro politico-amministrativo ed economico della Dalmazia iugoslava324. I notabili spalatini schierati con il nazionalismo iugoslavo, Ivo Tartaglia,
Prslav Grisogono, Josip Smodlaka, Ivo Rubic!, puntarono a sfruttare
la costituzione dello Stato SHS per fare della città, con il consenso serbo, il principale centro commerciale e marittimo della Iugoslavia, la
cosiddetta «Grande Spalato» (Veliki Split). Ivo Tartaglia, sindaco di
Spalato dal 1918 al 1928 e bano della «Primorska Banovina» dal 1929
al 1932, s’impegnò in un’opera di modernizzazione urbanistica ed economica della città, che in non pochi punti s’ispirava ai vecchi progetti di Antonio Bajamonti, ultimo podestà autonomista di Spalato. Le
grandi ambizioni della classe dirigente spalatina ebbero solo una parziale realizzazione. Il governo serbo si dimostrò talvolta reticente nel
sostenere i progetti spalatini di costruzione di nuove infrastrutture a
vantaggio dell’economia cittadina. Inoltre la grande crisi economica
degli anni Trenta frenò in parte lo sviluppo della città, rendendo le condizioni di vita a Spalato e nella Dalmazia estremamente precarie per
la maggior parte della popolazione. Nonostante ciò, negli anni fra le
due guerre Spalato potenziò la propria struttura economica, attraverso lo sviluppo dei cantieri navali e il consolidamento della sua vocazione commerciale. La città, poi, conobbe un impressionante aumen323 Al riguardo, ad esempio: DDI, VII, 9, d. 458, [ANTONIO TACCONI], Inasprimento della situazione degli italiani in Dalmazia. Provvedimenti atti a fronteggiarla, 12 dicembre 1930,
allegato a Federzoni a Mussolini, 15 dicembre 1930, d. 458; Marincovich a Giuriati, 22 ottobre 1930, cit.; DDI, VII, 10, Appunto del ministro degli Esteri, Grandi, per il capo del governo, Mussolini, 5 gennaio 1931, d. 3.
324 Sulla vita politica ed economica di Spalato negli anni fra le due guerre: KUDRAVCEV,
Ša je pusta Londra…, cit.; MACHIEDO MLADINIC!, Životni put, cit. p. 60 e ss.; DUSK
# O KECK
# EMET, Pros#lost Splita, Split, 2002, p. 211 e ss.; IVO RUBIC!, Split und Umgebung, Split, 1930;
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
435
to demografico, in gran parte prodotto dell’immigrazione dalle campagne dalmate, erzegovesi e bosniache. Dai circa 25.000 abitanti del
1921 la popolazione di Spalato passò a 35.000 nel 1931 per oltrepassare i 50.000 nel 1941 al momento della disgregazione della Jugoslavia325. Il numero degli spalatini con cittadinanza italiana, invece, diminuì progressivamente. Nel 1927 risultavano residenti nella città di
Spalato 3.337 cittadini italiani326. In dieci anni si verificò un drastico
e drammatico calo. Nel 1937 il console Cuneo dichiarava che nell’intero distretto consolare di Spalato (comprendente la città, il suo retroterra e varie isole della Dalmazia centrale) vi erano intorno ai 2.400
cittadini italiani, di cui circa 1.800 optanti e 600 per pieno diritto: ad
avviso del console, più complessa era la quantificazione del numero
di italiani in possesso di cittadinanza iugoslava.
Circa cittadini jugoslavi di nazionalità italiana, numero subisce fortissima oscillazione se si considerano o meno tutti gli elementi relativi criterio
nazionalità; cosicché persone da considerare sotto ogni aspetto di nazionalità
italiana risultano qui ora circa 300; per uso costante lingua e tradizioni circa
4.000; per conoscenza e uso intermittente lingua numero molto superiore327.
In una città che nel giro di venti anni raddoppiò la propria popolazione, l’elemento italiano regredì numericamente: se possiamo presumere che l’elemento italiano con cittadinanza iugoslava mantenne
una certa stabilità, il numero degli italiani che avevano optato calò in
maniera drastica.
Lo sviluppo economico della città avrebbe potuto aprire possibilità d’intensificazione dei rapporti con l’Italia, naturale sbocco commerciale soprattutto dopo la fine dell’Impero asburgico e la perdita
d’importanti mercati in Europa centrale e orientale, e quindi rafforzare il ruolo della minoranza italiana spalatina, tradizionale tramite nei
rapporti fra la Penisola e la Dalmazia. In effetti negli anni Venti il commercio fra Italia e Iugoslavia conobbe una forte crescita328, ma i dif325 KEC#KEMET, Pros#lost, cit., p. 217. Rubic! dà cifre in parte diverse: RUBIC, Split und
Umgebung, cit., p. 29.
326 MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, Censimento degli italiani, cit., p. 202.
327 ASMAE, AP 1931-45, Jugoslavia, b. 99, Cuneo a Ciano, 13 marzo 1937. Sul commercio e l’economia dello Stato iugoslavo durante gli anni Venti e Trenta: LAMPE, Yugoslavia
as History, cit., p. 181 e ss.; FRED SINGLETON, BERNARD CARTER, The Economy of Yugoslavia,
London-New York, 1982, p. 60 e ss.
328 MONZALI, La questione jugoslava nella politica estera italiana dalla prima guerra
mondiale ai trattati di Osimo, cit., p. 28.
436
LUCIANO MONZALI
ficili rapporti politici fra i due Paesi ne limitarono fortemente le ricadute positive sulla minoranza. Sia i nazionalisti iugoslavi vicini a
Tartaglia che la classe dirigente serba pensarono ad un progetto di sviluppo economico di forte impronta xenofoba, tutto endogeno all’interno della Iugoslavia, cercando di eliminare l’influenza dei capitali
stranieri, in particolare di quelli italiani, e favorendo l’assimilazione
o l’espulsione delle popolazioni allogene. Da qui i costanti tentativi
d’impedire la crescita dell’influenza economica italiana a Spalato, ritenuta possibile strumento per future rivendicazioni territoriali.
4.8. Le comunità italiane nella Dalmazia centro-meridionale
Dopo la costituzione del Regno SHS, oltre che a Spalato e a Veglia,
dove erano presenti le comunità italiane più numerose ed organizzate, sopravvissero nuclei italiani in tutti i principali centri urbani della
costa dalmata fino alla seconda guerra mondiale. Come abbiamo visto, secondo i dati del censimento degli italiani all’estero del 1927, nella circoscrizione consolare di Ragusa (comprendente i territori dalmati
meridionali dal fiume Narenta ad Antivari) vivevano 1.080 cittadini
italiani; di questi 660 residevano a Ragusa-Gravosa, 240 nelle Bocche
di Cattaro, 180 a Curzola329. Nella circoscrizione consolare di Spalato,
che inglobava tutta la Dalmazia centro-settentrionale fino all’isola di
Veglia, oltre alle collettività presenti a Spalato, Sebenico e Veglia, vi
erano 100 cittadini italiani ad Arbe, 509 sull’isola di Lesina, 177 a
Lissa, 169 sull’isola della Brazza, 20 a Pago, 26 a Scardona330. In gran
parte questi cittadini italiani erano nati in Dalmazia e optanti per
l’Italia. Ma va detto che queste cifre includevano anche italiani originari di quei territori ma emigrati, nel frattempo, lontano dalla Dalmazia
iugoslava: nel 1930 il console italiano a Spalato, Segre, dichiarava che
le collettività italiane sulle isole erano ridotte a poche persone, 50 circa a Lissa, 80 a Lesina, 60 a Cittavecchia331.
Negli anni successivi al trattato di Rapallo pure nella Dalmazia meridionale si assistette ad un progressivo indebolimento numerico, politico ed economico delle comunità italiane. A Curzola città il numero d’italiani, come abbiamo già notato, calò drasticamente. Il conso329 MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI,
Censimento degli italiani, cit., p. 199.
Ivi, p. 202.
331 ASMAE, AP 1919-1930, Jugoslavia, b. 1388, Segre a Galli, 1° luglio 1930.
330
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
437
le italiano di Ragusa constatò nel 1923 che il numero di optanti italiani effettivamente residenti nella città di Curzola si era ridotto a 46.
Più numerosi degli optanti erano gli italiani che avevano preferito mantenere la cittadinanza iugoslava: tra di questi vi erano commercianti e
possidenti che «temevano con l’opzione di veder compromesso per
sempre l’esercizio della loro industria o del loro commercio»332. In precarie condizioni economiche, nel corso degli anni Venti molti italiani
isolani optanti emigrarono in Italia o decisero di assumere la cittadinanza iugoslava.
I ricchi, infatti, o meglio – notò il console Segre a proposito degli italiani di Lesina e Lissa nel 1930 – quelli che una volta erano i ricchi per vastità
di possessi fondiari ed immobiliari, ora stentano a trovare un po’ di credito
per campare, rovinati dal mancato pagamento delle domenicali, vessati d’imposte, premuti da censi usurari, minacciati ad ogni momento dall’applicazione
della riforma agraria, cosicché quelli tra essi, che poterono abbandonare queste terre, l’hanno fatto, o vendendo le loro proprietà o lasciandone l’amministrazione a parenti o amici qui ancora rimasti. Parecchi pensionati, poi, già
qui residenti, hanno preferito trasferirsi a Zara, dove la vita è più facile e a
buon mercato. In quanto, infine, all’elemento operaio che vive alla giornata,
esso si dibatte tra le strette delle angherie continue che loro fanno autorità e
popolazioni locali, nell’intento di rendere loro la vita impossibile ed obbligarli o a riparare in Italia o a farsi jugoslavi333.
Queste collettività italiane, molto indebolite numericamente rispetto all’epoca asburgica, riuscirono comunque a sopravvivere e a
mantenere una propria organizzazione comunitaria attraverso la costituzione di circoli e scuole. Per i capi della minoranza l’esistenza di
scuole italiane era ritenuta vitale per la sopravvivenza di un’italianità
autoctona in Dalmazia. Dopo Rapallo ed il ritiro delle truppe italiane
dalla Dalmazia occupata vennero mantenute in vita scuole elementari italiane a Curzola e Lesina334, mentre nel corso degli anni Venti fu-
332 ASMAE, AP 1919-1930, Jugoslavia, b. 1309, Il console italiano di Ragusa al Ministero
degli Esteri, 6 novembre 1923.
333 Segre a Galli, 1° luglio 1930, cit.
334 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Sforza a Rocco, 25 marzo 1921; ibidem, Moroni
all’Ufficio per le Nuove Provincie, 20 ottobre 1921; ibidem, De Angelis a Ministero degli
Esteri, 21 settembre 1921, con allegato; ibidem, Umiltà alla Legazione italiana a Belgrado, 7
gennaio 1922. Sulle scuole italiane in Dalmazia alcuni accenni in ANDRI, Gli italiani in
Dalmazia, cit., p. 92 e ss.
438
LUCIANO MONZALI
rono aperte scuole elementari a Traù e Ragusa335. Dalla documentazione disponibile sappiamo che nel 1933 esistevano nella Dalmazia
iugoslava scuole elementari miste italiane a Veglia, Traù, Spalato,
Sebenico, Lesina, Curzola e Ragusa. La scuola elementare mista di
Traù comprendeva circa 26 scolari, quella di Curzola ne aveva una quarantina. La scuola di Lesina raccoglieva 34 alunni, mentre quella di
Ragusa, con annesso un giardino infantile, era frequentata da circa 130
scolari336. Tutte queste scuole erano gestite dalle sezioni locali della
Lega Culturale Italiana, guidata da Antonio Tacconi, ma venivano finanziate dal governo di Roma337. Rimase attivo poi un associazionismo italiano in tutta la Dalmazia centro-meridionale, erede della fitta rete di associazioni ed istituzioni del partito autonomo-italiano dell’epoca asburgica. Fino all’inizio degli anni Quaranta a Scardona vi
fu una «Società del Casino», avente 15 soci338, che appartenevano a
tre famiglie italiane locali, de Marassovich, Filippi e Ostoja. A Traù
sopravvisse il «Gabinetto di Lettura», diretto da Giovanni Pavcovich,
avente 32 soci, comprendente le famiglie Abazza, Belava, Benci,
Colludrovich, Fanfogna, Marich, Marini, Novach, Sore, Tramontana
e Vosilia339. A Curzola vi era la «Unione Italiana» presieduta da
Michele Smerchinich, con 41 soci, membri delle principali famiglie
italiane rimaste (Benussi, Damianovich, Depolo, Perucich, Radizza,
Smerchinich, Vinzi, Zanettich)340.
La comunità italiana a Ragusa mantenne una discreta vivacità. Nella
Dalmazia meridionale341, esclusa dalle rivendicazioni territoriali del governo di Roma, lo scontro nazionale italo-iugoslavo non aveva raggiunto l’asprezza esistente a Zara, Sebenico e Spalato, e all’inizio degli anni Venti si ricreò ben presto una situazione di tranquillità342. A ciò
335
Al riguardo: ASMAE, Spalato, b. 255, Il console italiano a Spalato a Galli, 31 dicembre 1928.
336 ASMAE, Spalato, b. 255, Tacconi al Consolato italiano di Spalato, 18 marzo e 21
aprile 1933.
337 ANDRI, Gli italiani in Dalmazia, cit., p. 98 e ss.
338 ASMAE, Spalato, b. 114, Società del Casino Scardona elenco dei soci anno 1940.
339 ASMAE, Spalato, b. 114, Gabinetto di Lettura Traù. Elenco dei soci al 1° gennaio
1940-XVIII.
340 ASMAE, Spalato, b. 114, Elenco nominativo dei soci dell’Associazione “Unione
Italiana” di Curzola, 7 marzo 1940.
341 Per un’analisi della situazione politica nella Dalmazia meridionale negli anni Venti:
FRANKO MIROSE# VIC!, Poc#elo je 1918. …Juz#na Dalmacija 1918-1929., Zagreb, 1992.
342 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 11, Il console italiano a Ragusa al Ministero degli
Esteri, 15 novembre 1921.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA
439
contribuì anche la peculiarità culturale dei ragusei, nei quali sopravviveva un radicato particolarismo municipale che attenuava lo scontro nazionalista italo-iugoslavo. La debolezza numerica dell’elemento italiano nella Dalmazia meridionale, poi, rendeva la sua sopravvivenza non pericolosa politicamente ed accettabile per i dalmati croati e serbi343. Un elemento di forza della comunità italiana a Ragusa erano le forti relazioni economiche e commerciali con la Puglia, il che
aveva tradizionalmente comportato l’esistenza di un flusso migratorio pugliese verso la Dalmazia meridionale. Ma la povertà degli immigrati pugliesi spingeva talvolta questi ad accettare una rapida slavizzazione.
Gl’italiani regnicoli, quasi tutti di origine pugliese, venivano in Dalmazia
portati da una necessità economica. Non avevano né mezzi, né cuori per essere pionieri di nazionalismo. Non avendo nell’infanzia l’istruzione italiana,
divenivano a maggior età degli indifferenti nazionali, e premuti dalle minaccie, perseguitati dai croati e dalla polizia, cominciavano a nascondere la loro italianità. I più non si piegavano, ma qualcuno, orribile a dirlo, si dichiarava slavo, passava nelle file nemiche, sconfessava la patria344.
Per mantenere viva l’identità e la cultura nazionale degli italiani
autoctoni e di quelli provenienti dalla Puglia, era urgente l’apertura di
una scuola italiana a Ragusa. Nel corso degli anni Venti la comunità
italiana ragusea riuscì a costituire una scuola elementare mista e un
giardino d’infanzia, grazie alla donazione immobiliare ricevuta da
Giovanni Avoscani, capo del partito autonomo-italiano raguseo fra la
fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale345, e ai finanziamenti
dell’Italia. La scuola e l’asilo, con oltre un centinaio di iscritti, mostrarono di essere istituzioni vivaci ed attive346, segnale di una certa
vitalità della comunità italiana locale. La collettività italiana, divisa da
contrasti personali e dissensi politici, era organizzata in due associazioni, l’«Unione Italiana» e la «Società Operaia Italiana». Fra i prin-
343 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 11, Il console italiano a Ragusa al Ministero degli
Esteri, 10 giugno 1921.
344 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Sagrestano e Storelli (Associazione italiana di
Beneficienza, Ragusa) al console italiano di Ragusa, 2 settembre 1921.
345 ASMAE, GAB 1923-43, AF, b. 17, Il console italiano di Ragusa al Ministero degli
Esteri, 3 settembre 1921.
346 Ad esempio: ASMAE, Spalato, b. 259, Relazione sul funzionamento della scuola di
Ragusa (Dalmazia), 6 dicembre 1940.
440
LUCIANO MONZALI
cipali esponenti della comunità vi erano Giovanni Jelich ed Edmondo
Weiss, commerciante, direttore del gruppo locale della Lega Culturale
Italiana e dell’Unione Italiana negli anni Venti347; Arnaldo Vladovich
e Natale Bongi erano a capo della Società Operaia Italiana.
La conflittualità interna alla collettività ragusea, il suo pluralismo
politico e l’estraneità di alcuni suoi esponenti al fascismo provocarono le ire dei rappresentanti consolari dell’Italia fascista, che desideravano controllare in modo autoritario l’attività delle comunità italiane ed erano ostili alla tradizione liberale ed alla natura elettiva dell’associazionismo italiano in Dalmazia. Alla metà degli anni Trenta il
console Carlo Staffetti decise d’imporre una «bonifica» fascista alla
collettività di Ragusa, imponendo lo scioglimento della Società Operaia, il concentramento di tutti gli italiani ragusei nell’Unione Italiana, l’eliminazione della vecchia direzione dell’Unione e la nomina ai
suoi vertici di elementi fedeli al fascismo e graditi al consolato, non
per elezione ma per acclamazione imposta dal console348. Erano vicende queste che confermavano il carattere spesso dialettico e contrastato dei rapporti fra gli italiani di Dalmazia e l’Italia fascista.
347 Su Weiss: ASMAE, Spalato, b. 48, Cuneo a Segre, 4 novembre e 5 dicembre 1929.
Dopo la seconda guerra mondiale Edmondo Weiss venne condannato dal tribunale iugoslavo per la difesa dell’onore nazionale a vari anni di lavori forzati.
348 Staffetti a Cosmelli, 16 ottobre 1935, 19 dicembre 1935 e 18 marzo 1936, cit.
APPENDICE 1
Cartine
442
La Dalmazia amministrativa secondo l’ultimo censimento austriaco del 1910.
Linea del trattato di Londra, 1915.
443
Linea dell’occupazione italiana, 1918.
444
Quadro delle occupazioni.
445
Iugoslavia.
Il territorio di Zara annesso all’Italia nel 1920.
446
3 progetti ferroviari in Iugoslavia all’inizio degli anni Venti.
APPENDICE 2
Fotografie
448
Roberto Ghiglianovich.
Luigi Ziliotto.
Natale Krekich.
449
Politici dalmati italiani:
(in piedi da sinistra) avv. Stefano Smerchinich - Curzola, avv. Luigi Ziliotto Zara, avv. Giovanni Lubin - Traù, avv. Roberto Ghiglianovich - Zara
(seduti) conte Marino Bonda - Ragusa, cav. Nicolò Trigari - podestà di Zara,
avv. Ercolano Salvi - Spalato.
Sidney Sonnino,
il negoziatore del Patto di Londra.
Vittorio Emanuele Orlando,
il presidente della vittoria.
450
Leonardo Pezzoli.
Enrico Millo.
Alessandro Dudan.
451
Ercolano Salvi.
Antonio Tacconi
Ildebrando Tacconi.
Antonio Cippico.
452
Zara - 4/11/1918, la torpediniera “55” entra in porto...
... mentre la folla saluta esultante dalla riva.
453
Pranzo al governatorato in onore di D’Annunzio: sono riconoscibili oltre il
comandante, l’amm. Millo, il sindaco Ziliotto, il magg. Giuriati,
il comandante Rizzo.
Zara: la popolazione con le bandiere acclama le truppe che sbarcano.
454
Cartolina irredentista commemorativa di Arturo Colautti.
L’abbraccio fra D’Annunzio e Millo al termine dell’incontro di Dolfin,
15 novembre 1920.
INDICE DEI NOMI
Abazza famiglia, 438
Acton Alfredo, 203
Ádám Magda, 213n
Addobbati Francesco, 223n
Agnelli Arduino, 309n
Alacevich, 303 e n
Alatri Paolo, 114n, 133n, 136n, 138n,
143n, 144n, 148n, 149n, 161n,
167n, 169n, 170n, 177n, 179n,
180n, 181n, 183n, 184n
Alberti, 224n
Albertini Luigi, 12 e n, 18n, 29n, 32n,
41, 42 e n, 43 e n, 44 e n, 45 e n, 47,
48, 85 e n, 88n, 89n, 91n, 92n, 93n,
216, 330n, 339n, 382n, 384n
Albl Guglielmo, 364
Albrecht-Carrié René, 92n, 93n, 103n,
111n, 112n, 113n
Aldrovandi Marescotti Luigi, 70n,
104n, 108n, 111n, 112n, 114n
Alessandro Karadjordjevic!, principe e
re SHS, 197, 250, 409, 414
Alessioni G., 76
Aliotti Carlo Alberto, 197 e n
Allacevich Pompeo, 408
Amadori Virgili Giovanni, 325 e n, 327
e n, 328, 334, 337, 344, 346, 428n
Ambrosetti Gino, 367n, 426n, 427 e n
Amendola Giovanni, 11, 46n, 88n
Anchieri Ettore, 401n
Andri Adriano, 415n, 426n, 430n, 437n
Andriola Fabio, 148n
Anelli, 259 e n
Antinori Orazio, 373n
Antoni Gino, 109
Antonijevic!/Antonievich Vojislav, 220,
269, 312, 313, 316, 384, 387n,
389n, 394
Apih Elio, 12n, 45n, 190n, 414n, 415n
Apollonio Almerigo, 252n, 379n
A Prato Carlo Emanuele, 112n, 197,
339n, 340n
Ara Angelo, 57n
Ara Camillo, 217 e n
Archi, 367n
Arduini Luigi, 429n
Arnerich Antonio, 300, 379
Artale Spiridione, 287, 291n
Avoscani Giovanni, 439
Badoglio Pietro, 161, 197n, 203
Bajamonti Antonio, 4 e n, 77, 327, 434
Balfour Arthur James, 91, 93n
Ballarini Amleto, 383n
Banac Ivo, 3n, 97n, 184n, 185n, 186n,
248n, 250n
Barbagallo Francesco, 125n
Barbarich Alberto, 367n
Barbarich Eugenio, 256, 269, 270n,
297, 298 e n, 299n, 320, 385n, 405n
Barbieri Domenico, 84 e n, 99n, 100,
109n, 110n, 111n, 114n, 115n,
126n, 127n, 128n, 129n, 130n,
131n, 134n, 135n, 136n, 139n,
153n, 154n, 155n, 166n, 167n, 169
en
Barié Ottavio, 12n, 42n, 85n
Bariety Jacques, 31n
Barrère Camille, 29n, 87 e n, 90 e n,
94n, 95 e n, 96, 107, 193 e n, 195 e
n, 255n, 382n, 401n, 409n
Barthou Louis, 382n
Bartoli, 385n
Bartolucci Godolini Giovanni Battista,
367n
Barzilai Salvatore, 94, 95 e n, 96, 97 e
n, 99, 100
Basile, 407n
458
INDICE DEI NOMI
Battara Rodolfo, 303n, 307n, 379
Baylon Felice, 284n, 361, 362n
Baylon Felice senior, 223n, 267
Belava famiglia, 438
Bellini, 407n
Benci famiglia, 438
Benedetti Giulio, 220n
Benedetto XV, 214
Benussi famiglia, 438
Bernardy Amy A., 40n
Berthelot Philippe, 91n, 92n, 122
Bertolini Angelo, 15, 280n, 281n
Bertolini Pietro, 198
Bertone Giovanni, 261, 366 e n
Bervaldi Pietro Gelineo, 134, 136
Bettiza famiglia, 362, 429, 430
Bettiza Enzo, 362n, 417n
Bettiza Giovanni, 69n, 83
Bettiza Marino, 362
Bettiza Vincenzo, 362
Biagini Antonello, 197n
Bianchini Stefano, 415n
Biankini Juraj, 65n
Bilandz#ic! Dus#an, 51n, 248n
Biondich Mark, 24n, 50n, 97n, 184n,
186n, 248n, 249n, 250n
Bissolati Leonida, 12, 13 e n, 14n, 45,
47, 48, 85, 86 e n, 87, 88 e n, 89,
115, 202
Blanda, 322n
Blasina Paolo, 57n
Blatt Joel, 90n, 96n
Blumenthal Henry, 96n
Bodrero Alessandro, 411n
Boemeke Manfred F., 116n
Boglich-Perasti Francesco, 223n, 267
Boglich-Perasti Gioacchino, 223n
Bonavia famiglia, 429
Bonavia Aurelio, 418, 426
Bonfanti Linares, 242, 244, 245 e n,
246, 247n, 256 e n, 269, 270n, 273,
274n, 275n, 276n, 287 e n, 288n,
291n, 294n, 301 e n, 302 e n, 303 e
n, 305, 306n, 307 e n, 308n, 309 e
n, 312 e n, 320
Bonfiglio Dosio Giorgetta, 408n
Bongi Natale, 440
Bonin Longare Lelio, 37n, 39n, 41n
Bonoldi Pietro, 363n, 420n, 421 e n,
422 e n, 423n, 424 e n
Bonomi Ivanoe, 14n, 88n, 149n, 196,
197n, 202 e n, 203, 206, 207n, 239
e n, 253, 256 e n, 299, 339, 340, 341,
342, 344 e n, 351, 352, 357, 381, 400
Boppe Jules Auguste, 30n
Borelli Alfonso, 308 e n, 309
Borghese Giuseppe Antonio, 216
Borghese Livio, 36n
Borletti, 231
Borovich Michele, 232n
Borsa Mario, 216
Borsarelli Luigi, 70n
Boselli Paolo, 11, 12n, 13, 80
Botta Franco, 410n
Botteri, 288
Botteri Gian Antonio, 134, 136, 232n
Boxich Girolamo Italo, 66
Bracco Barbara, 193n
Braut famiglia, 422
Brazzanovich Antonio, 223n
Breccia Alfredo, 414n
Brelich Amedea, 366 e n
Brizio, 241n
Brocchi Iginio, 384n, 385n, 388n, 389n,
411n
Brogi Alessandro, 193n
Brunelli Vitaliano, 224 e n
Bruni Francesco, 1n
Bucarelli Massimo, VII, 159n, 161n,
172n, 401n, 409n, 411n, 415n
Bucci Umberto, 150n, 158 e n, 228,
229, 230, 235
Buccianti Giovanni, 112n
Bucevich Antonio, 9, 265, 266 e n, 267
e n, 276, 277 e n, 278, 279, 385n,
386n
Buchanan George William, 178n, 183n,
184n, 195, 196n, 217n, 330, 331n,
336n, 337n, 339n, 340n
Buehrig Edward H., 112n
Buglian, 376, 377
Bulat Gajo, 67
Bulat Gajo/Gaetano, 2, 3
Buratti, 406n
Burgwyn H. James, 10n, 29n, 401n,
414n
INDICE DEI NOMI
Buscevich vedi Bucevich
Caccamo Domenico, 30n
Caccamo Francesco, VII, 91n, 116n,
117 e n, 145 e n, 159n, 161n, 172n,
177n, 184n, 213n, 214 e n
Cace Doimo, 128 e n, 162 e n, 259 e n,
261n, 337
Cace Manlio, 15n, 257n, 322, 323n
Cagni Umberto, 56, 57
Calbiani Guido 80n, 148n, 151n, 155n,
160n, 190n
Calder Kenneth J., 30n, 31n, 32n, 38n
Caleb Martino, 364
Calebich Edoardo, 224, 236, 302, 377,
381n
Calebotta Ildegardo, 152
Calligarich famiglia, 375
Cambon Paul, 96 e n
Camizzi Corrado, 4n
Candeloro Giorgio, 251n, 252n
Candia, 288
Cantalupo Roberto, 193n, 401n
Capuzzo Ester, 309n
Cardona Giovanni Battista, 57n
Carlo d’Asburgo, imperatore d’AustriaUngheria, 45, 50, 51, 371, 372
Carlotti di Riparbella Andrea, 28n, 29n,
36n
Carocci Giampiero, 401n, 413n, 414n
Carstulovich Giandomenico, 418 e n,
426, 430n
Carter Bernard, 435n
Casella Francesco, 415n
Cassels Alan, 401n
Castagnetti Augusto, 367n
Castoldi Fortunato, 117, 145n
Cavallero Ugo, 168, 169n
Cella Sergio, 15n
ermelj Lavo, 252n, 414n
Cervani Giulio, 16n
Charles-Roux François, 90n, 195n,
255n, 340n, 352 e n, 397n, 401n
Chiesa Eugenio, 404n
Ciancarelli Bonifacio Francesco, 385n
Ciano Galeazzo, 373n, 435n
Ciaric/ aric!, 75n
ingrija Pero, 69n, 85 e n
459
Cipolla Arnaldo, 232
Cippico Antonio, 9, 15 e n, 16 e n, 17,
18, 19, 79, 232n, 233, 288, 300, 306
e n, 307, 327n, 394n, 406 e n, 407
Cippico/ ipiko Ivo, 15n
Cipriani Carlo Cetteo, 15n
Clemenceau Georges, 91n, 95 e n, 96 e
n, 106, 107, 113, 114, 138, 150n
Coccia Benedetto, 79n
Codresco Florin, 341n, 382n
Coen Gastone, 283n, 285n, 377n, 408n,
417n, 428n
Colapietra Raffaele, 14n, 88n, 89n
Colludrovich famiglia, 438
Colonna, 199
Colonna di Cesarò Giovanni Antonio,
11, 47 e n, 80, 332, 389, 393 e n
Contarini Salvatore, 190n, 193 e n, 256,
315 e n, 317 e n, 319, 320n, 339 e
n, 352, 357, 366n, 385 e n, 387n,
401 e n, 406n, 409, 413
Coolidge Calvin, 64n
Coppola Francesco, 111, 127
Cordova Ferdinando, 148n
Corradini Enrico, 11, 218n
Cortellazzo Giuseppe, 65
Cosmelli Giuseppe, 419n, 440n
Covacich Florio, 223n
Credaro Luigi, 396
Crespi Silvio, 89n, 111n
Crispo Moncada, 190n
ulic!-Dalbello Mladen, 433n
Cuneo Giovanni Battista, 435 e n, 440n
Curato Federico, 98n
Curzon di Kedleston George Nathaniel,
183n, 184n, 190n, 196n, 197n, 214n,
217n, 331n, 336n, 337n, 339n, 340n,
382n
Cusani Visconti Lorenzo, 57n, 150n
Cuznanich Costantino, 152
Czernin Ottokar, 45
Dainelli Giotto, 6n
D’Alia Antonino, 1n, 8n, 9n, 51n
Dalmas Umberto, 152
Dal Molin Cornelio, 63n
D’Amelio Mariano, 122 e n, 140
Damianovich famiglia, 438
460
INDICE DEI NOMI
D’Annunzio Gabriele, 80 e n, 81 e n,
82, 85n, 89n, 110 e n, 125, 148,
149, 150 e n, 153, 154, 155 e n, 157,
158, 159 e n, 160, 161 e n, 162 e n,
163 e n, 164, 172 e n, 173 e n, 175
e n, 187, 216n, 218 e n, 224 e n, 225
e n, 226, 227 e n, 228 e n, 229, 230
e n, 231 e n, 232 e n, 233, 234 e n,
235, 236, 238 e n, 242, 243 e n, 246,
302, 303, 304 e n, 305, 306, 307 e
n, 308, 376, 378, 383 e n
Dassovich Mario, 203n, 401n, 411n,
415n
D’Auria Elio, 46n
Deák Francis, 91n
De Ambris Alceste, 304 e n
De Angelis Mariano, 276, 324n, 357,
364 e n, 365 e n, 366, 368 e n, 369
e n, 370, 371, 372 e n, 373 e n, 437n
De Benvenuti Angelo, 1n, 8n, 51n, 54n,
56n, 285n, 287
De Boccard, 53 e n, 54 e n, 62n
De Castro Diego, 6n, 285 e n
De Chmielewski Giorgio, 424
De Draganich-Venanzio Carlo, 101n
De Felice Renzo, 80n, 82n, 89n, 148n,
218n, 219n, 251n, 304 e n, 336n,
339n, 397n, 400n
Degli Alberti Alberto, 417n
Degli Alberti Gastone, 69n
De Hoeberth Edmondo, 9
Dei Sabelli (Pietromarchi) Luca, 116n
Delcassé Théophile, 29n, 30n
Delich Silvio, 9, 14, 54n, 154, 155
Della Torre Giuseppe, 339n
Della Torretta vedi Tomasi
Dellich Giuseppe, 259 e n
De Marassovich famiglia, 366, 438
De Marassovich Francesco, 232n
De Martino Giacomo, 14, 15, 16n, 17,
111, 112n, 116, 122 e n, 123, 139,
140 e n, 141, 142 e n, 143n, 144,
145 e n, 170n, 339n
Demicheli Achille, 151, 152
De Michieli Vitturi famiglia, 430
De Michieli/Micheli Vitturi Silvio, 69n,
72
De Morsier Frank, 14n, 15n, 16n, 18n,
21n, 22n
De Nakich Antonio, 9
De Nakich Giorgio, 15
Denti di Pirajno, 275n
Depicolzuane famiglia, 422n
Depoli Attilio, 383n
Depolo famiglia, 438
Derby Edward Georges Villiers Stanley,
93n
De Rey vedi Vannutelli
De Rossignoli Giorgio, 152
Desanti Raimondo, 306n
De Schönfeld Enrico, 154, 221, 224,
233, 241, 287, 288, 302, 303 e n,
377
De Serragli Giovanni, 8
Desnica/Desniza Uros, 65, 308, 320,
354
De Stefani Alberto, 378
Dethan Georges, 89n
De Toni, 151
Devich Cirillo, 152
Diaz Armando, 56, 163n
Di Fant Annalisa, 254n
Difnico famiglia, 366
Difnico Antonio, 9, 47n
Difnico Giovanni, 15
Di Giamberardino Oscar, 58n, 156n,
158n, 159n, 160n, 162n, 163n,
173n, 227n, 228n, 229n, 230n,
231n, 236n, 237n
Djordjevic Dimitrije, 26n
Diklic! Marjan, 3n
Di Nolfo Ennio, 82n, 219n, 400n, 401n,
414n
Di Villanova, 117
Dockrill Michael L., 91n
Dodge Cleveland Hoadley, 54n
Dogo Marco, 412n, 414n
Dojmi di Delupis Lorenzo, 134, 136,
232n, 267
Domiacussich Pietro, 379
Donati Giuseppe, 154
Dragnich Alex N., 25n, 248n
Dras#kovic! Milorad, 250, 316
Drazevich Simeone, 379
Dreist Markus, 194n
Drinkovic! Mate/Matteo, 8
INDICE DEI NOMI
Duce Alessandro, VII
Dudan Alessandro, 1n, 9, 15 e n, 16, 17,
18 e n, 19, 46n, 47n, 49, 79, 89n,
171 e n, 224 e n, 232n, 233, 300,
301, 302, 303, 304, 306 e n, 308,
379, 389 e n, 393 e n, 394 e n, 395n,
396, 397, 403, 404, 405 e n, 406,
407
Dudan Antonio, 152
Duroselle, Jean-Baptiste, 38n, 89n, 90n,
96 e n, 107n, 202n
Emanuel Guglielmo, 41, 44, 85n, 91n,
92n, 93n
Engel-Janosi Friedrich, 32n
Ercolani Antonella, 148n
Evans Laurence, 108n
Facta Luigi, 299, 381, 382, 383, 388,
389, 390, 391, 393, 397 e n, 400
Falorsi Vittorio, 40n
Fanello Marcucci Gabriella, 191n, 382n
Fanfogna famiglia, 438
Fanfogna Giovanni, 83n
Fanfogna Nino, 150, 151, 152
Fanfogna Simeone, 152
Fanfogna Umberto, 152
Fattori Onofrio, 57n
Fattovich Nino, 377, 397n
Federzoni Luigi, 11, 18, 70, 79 e n, 80,
136n, 180n, 217 e n, 218 e n, 221,
253n, 255, 331 e n, 434n
Fejtö François, 30n, 31n
Feldman Gerald D., 116n
Fenzi famiglia, 366
Feoli Gaetano, 8
Ferrari Giuseppe, 101n
Ferruzzi Ferruccio, 8n, 9
Ferruzzi Roberto, 15, 59n, 60n, 62n
Field Woolsey Hopkins, 151
Filippi famiglia, 438
Filippi, 241, 302, 377
Filippini Francesco, 55n, 56 e n
Fink Carole, 116n, 123n, 382n
Fiorentin famiglia, 422
Fiorentin Anna Maria, 7n, 420n
Fischer Bernd J., 197n, 412n
Fisher H. H., 16n
461
Foch Ferdinand, 96
Fontenay Louis-Gabriel-Antoine-Joseph,
197
Foretic! Dinko, 185n
Foretich famiglia, 429, 430
Forges Davanzati Roberto, 70, 79 e n,
111, 180n, 216 e n, 218 e n, 219n,
221, 305 e n, 388 e n
Foscari Piero, 70 e n, 78 e n, 79, 80,
149, 244, 245, 306
Fosco Ugo, 261n
Frank, 150n
Frank Ivica, 175
Frari famiglia, 366
Frater (Mario Forges Davanzati), 79n,
180n
Frohn Axel, 382n
Fülaus, 308
Gabrich Giacomo, 185
Gaeta Franco, 11n
Galante, 17
Galanti Vincenzo, 198n, 248n, 249n,
250n
Galli Carlo, 363, 364n, 418n, 419n,
426n, 436n, 437n, 438n
Galvani famiglia, 366
Galzigna Doimo Lauro, 57 e n, 232n
Ganza-Aras Tereza, 5n, 7n
Gasperini, 377
Garzia Italo, VII, 92n, 93n, 94n, 410n
Gayda Virginio, 11, 302 e n
Gazzari, 44
Gelfand Lawrence E., 38n
Gentile Emilio, 253n, 337n
Gentiloni Silveri Umberto, 79n
Gerra Ferdinando, 148n, 226n, 227n,
229n, 237n, 238n, 245n
Ghiglianovich Roberto, VI, 4 e n, 8, 9,
14 e n, 16n, 17 e n, 18 e n, 19 e n,
20, 21 e n, 22 e n, 23, 24, 46 e n, 47
e n, 48, 49 e n, 70 e n, 78, 82, 83,
84 e n, 99 e n, 100 e n, 101n, 109 e
n, 110 e n, 111n, 114 e n, 115, 126
e n, 127 e n, 128 e n, 129 e n, 130
e n, 131 e n, 132 e n, 134 e n, 135
e n, 136 e n, 137 e n, 138 e n, 139n,
153 e n, 154 e n, 155 e n, 165 e n,
462
INDICE DEI NOMI
166 e n, 167 e n, 169 e n, 170n, 175,
178 e n, 199, 200 e n, 205, 233, 234
e n, 236 e n, 240 e n, 289, 300, 301,
302, 303, 304n
Ghisalberti Carlo, 80n
Giannini Amedeo, 146n, 177n, 210n,
211n, 215n, 342n, 352n, 398n,
403n, 404n, 405n, 409n, 411n, 412n
Giannini Francesco, 387n
Gifuni Giambattista, 89n
Gilardi Lorenzo, 9, 83
Gilardi Maria, 83
Giolitti Giovanni, 58, 183 e n, 191 e n,
192, 193, 194 e n, 195, 196 e n, 197
e n, 198 e n, 202, 203n, 204 e n, 205
e n, 207, 208, 209, 212, 213, 217,
227 e n, 229 e n, 242 e n, 253, 273,
275, 295, 311, 319, 326, 327, 328,
329, 330, 333n, 334, 336 e n, 337,
339 e n, 340 e n, 344, 382, 404
Giordano Giancarlo, 192n, 339n
Giovannizio Antonio, 103n
Giovannizio Giannina, 103n
Girardini Giuseppe, 336
Giunta Francesco, 332n, 404 e n
Giuriati Giovanni, 111, 148n, 149 e n,
158 e n, 159 e n, 160n, 172 e n, 173,
174 e n, 175 e n, 226, 227 e n, 233
e n, 253, 383 e n, 389 e n, 397,
416n, 432n, 434n
Giurina famiglia, 422
Glaise Horstenau, Edmund, 50n, 52n
Glaser Elisabeth, 116n
Gobetti Piero, 86n
Goldstein Erik, 91n
Goold J. Douglas, 91n
Gospodnetich Giovanni, 69n
Gottlieb W.W., 10n
Graciotti Sante, 257n
Graham Ronald, 382n
Grandi Dino, 413, 418n, 434n
Grant White Lawrence, 88n
Grassi Fabio L., 193n
Gray Ezio Maria, 380, 393 e n
Gregory John Duncan, 387n
Grigg Edward, 387n
Grisogono famiglia, 363
Grisogono Armando, 363
Grisogono Petar, 363n
Grisogono Prslav, 434
Groscetta Antonio, 223n
Grumel-Jacquignon François, 90n,
409n, 413n
Guaina Leonardo, 69n
Guariglia Raffaele, 401n
Guida Francesco, 340n, 412n
Guina famiglia 430
Gulli Tommaso, 152n, 189
Gullini, 387n
Hacin, 384n, 388n
Hankey Maurice, 104n, 113n, 116n,
387n
Hanks Ronald W., 52n
Harding Warren, 202
Headlam-Morley James W., 144
Heideking Jurgen, 382n
Hein, 128n
Helmreich Paul C., 91n, 108n, 112n
Host-Venturi Giovanni, 148n, 159n,
175, 231 e n, 253, 302, 303
House Edward Mandell, 69n, 80n, 93n,
103, 112 e n
Howard Harry H., 90n
Iarabek Elio, 375n, 46n
Illich famiglia, 430
Illich Bruno, 287, 379
Illich Ernesto, 72, 83, 188, 424
Illich Giuseppe, 274, 275n, 326
Imperato Federico, VII
Imperiali di Francavilla Guglielmo,
16n, 28n, 29n, 33n, 39n, 41n, 107n,
214n
Inchiostri, 241, 302, 376, 377
Iordache Nicolae, 213n
Iustus, 92n, 112n, 113n
Ivetic! Egidio, 1n
Jacchia, 237
Jacini Stefano, 385n
Jakir Aleksandar, 50n, 67n, 372n
Janjatovic! Bosiljka, 184n, 185n, 248n,
250n
Jaquin Pierre, 416n
Jelich Giovanni, 103 e n, 440
INDICE DEI NOMI
Jezina, 308, 377
Johnson Douglas Wilson, 113n
Jovanovic! Ljuba, 28
Jurica Anton, 289n
Juso Pasquale, 414n
Justus Verdus Antonio, 16n
Kacin Wohinz Milica, 190n, 215n,
252n, 414n
Karadjordjevic!, dinastia, 50
Karaman/Caraman famiglia 430
Karaman Doimo, 424
Kec#kemet Dus#ko, 2n, 4n, 434n, 435n
Keller Guido, 226, 238
Kiddle Edward Burton, 75
Kitsikis Dimitri, 108n
Kolar Dimitrijevic! Mira, 430n
Kolb Eberhard, 57n
Kovac! Miro, 31n, 90n
Krekich Natale, VI, 4 e n, 8, 110 e n,
128n, 137n, 153, 154, 165 e n, 167
e n, 169 e n, 173n, 175, 199, 200n,
223, 224, 233, 234, 235, 236, 240,
256, 269, 270n, 286, 287, 288,
289n, 290, 291n, 292n, 301, 302,
303, 304, 305, 306, 307, 308, 309 e
n, 310, 312, 320, 329, 330n, 332 e
n, 342, 357, 375, 379 e n, 380, 381
e n, 385 e n, 386n, 393 e n, 394n,
406, 407 e n, 408
Krizman Bogdan, 50n, 54n, 414n
Krstelj Ivan, 8, 55, 188, 371, 385, 387n,
388
Krüger Peter, 382n
Kudrijavcev Anatolij, 2n, 67n, 434n
Kybal Vlastimil, 401n
Lakatos# Joso, 430n
Lampe John R., 50n, 248n, 435n
Lana Clara, 268n
Lanier Winslow Lawrence, 93n
Lansing Robert, 54n, 69n
Lanzetta, 367n
Lanzilotti Mariantonietta, 2n, 362n
Laroche Jules, 90n
Ledeen Michael A., 148n
Lederer Ivo J., 50n, 52n, 54n, 98n,
103n, 111n, 112n, 113n, 127n,
463
133n, 145n, 164n, 178n, 179n,
180n, 182n, 183n, 196n, 198n,
202n, 203n
Leeper Reginald Willig Allen, 171n
Lefebvre D’Ovidio Francesco, 401n,
402n, 409n, 413n
Legatus vedi Roberto Cantalupo
Levi Alessandro, 5n, 11n
Link Arthur A., 38n
Livakovic! Ivo, 367n
Lloyd George David, 37, 38, 40, 46, 91
e n, 106 e n, 107, 108, 113, 114,
133, 138, 198, 386, 387 e n
Lobasso Giuseppe, 128n
Lobasso Vince, 162n
Longo Luigi Emilio, 148n, 150n, 163n
Lönne Karl-Egon, 177n, 194n
Lorenzini Ester, 162n
Lovric! Plavko, 64
Lubin Giovanni, 81, 83, 89, 109, 126,
127, 129 e n, 131 e n, 132 e n, 134,
135, 152, 165 e n, 232n, 287, 306n,
307 e n, 385 e n, 386n, 392, 393 e
n, 394n
Lubin Lorenzo, 152
Lubin Nicolò, 152
Lubin Rados, 152
Lucci, 404n
Lucich Simeone, 223n
Luciolli Ludovico, 311, 384n, 385n,
388n, 411n
Lunt W. E., 104n
Lupis-Vukic!, 8n
Lusignoli Alfredo, 397n
Luxardo famiglia, 374, 375
Luxardo Franco, VI
Luxardo Nicolò, 9
Luxardo De Franchi, Nicolò, 9n, 374n,
417n
Luzzatti Luigi, 111, 115
Lyttelton Adrian, 400n
Macaus Enrico, 57
Macchi di Cellere Vincenzo, 29n, 37n,
39 e n, 41n, 112
Machiedo Jerko, 51, 54n, 65, 308
Machiedo/Macchiedo Luigi, 223n, 267,
300
464
INDICE DEI NOMI
Machiedo Mladinic! Norka, 186n, 373n,
434n
Madaffari Antonio, 329n
Madirazza Francesco, 101n, 295n
Maggioni, 403n, 404 e n, 405n, 406n
Mahnic! Antonio, 57 e n
Malagodi Olindo, 42n, 89n, 93n, 95n,
192n
Malfer Stefan, 177n
Mamatey Victor S., 32n, 38n, 40n, 43n
Mandel Maurizio, 154, 221, 236, 241,
287, 300, 303 e n, 306, 307n, 375,
377, 378, 379 e n, 403, 404n
Manfredi, 151
Mantica, 151
Mantoux Paul, 104n, 106n, 107n, 108,
112n, 113n, 116n
Manzoni Gaetano, 220 e n, 249 e n,
250n, 269 e n, 270, 271 e n, 273,
274n, 275, 276 e n, 310 e n, 311 e
n, 314 e n, 315 e n, 316 e n, 317 e
n, 318 e n, 319 e n, 327, 328, 344,
350 e n, 351 e n, 352n, 357 e n, 359
e n, 384 e n, 388n, 389n, 422n
Maracich famiglia, 422
Maranelli Carlo, 7n, 12n, 85n
Marchi Antonio
Marchi Nicolò, 223n
Marchi Simeone, 223n
Marcocchia Giacomo, 69n, 72, 83, 188
Marich/Maric famiglia, 438
Maric Giuseppe, 152
Maricich Luca, 223n
Marincovich Carlo, 69n, 72
Marincovich Piero, 416n, 432 e n, 434n
Marini famiglia, 438
Marini Marino, 152
Marini Michele, 152
Marini Spiridione, 152
Maroevich/Maroevic! Raimondo, 265,
429 e n
Maroni Paolo, 151
Marotti Giovanni, 103 e n
Marsan Giovanni, 380
Marsico Giorgio, 276n, 350n
Martini Ferdinando, 89n
Maserati Ennio, 185n
Massagrande Danilo L., 210n, 256n,
277n, 318n, 321n, 340 e n, 397n,
409n
Matkovic! Hrvoje, 51n, 248n
May Arthur J., 8n, 9n, 32n, 50n, 52n
Mayer Arno, 38n, 88n, 92n, 103n
Mayer Bruno, 69n
Mazzarella, 59n
Mazzini Giuseppe, 13
Mazzoleni famiglia, 366
Mazzoleni Paolo, 128n
Mc Dougall Walter, 96n
Medovich Demetrio, 289n, 291n, 292n
Melchionni Maria Grazia, 52n, 53 e n,
86n, 87n, 93n, 192n, 203n, 212n,
213n, 331n
Meli Lupi di Soragna Antonio, 411n
Menini Giulio, 74n, 75n, 76, 77n, 118n,
119n, 152n, 185 e n, 186 e n, 187 e
n, 188 e n, 189
Mercalli, 57n
Meriano Francesco, 418 e n, 419 e n,
427n, 428n
Merlo Eugenio, 429
Metlic#ic! Stevo/Stefano, 51, 314, 354,
377
Mezes Sidney B., 103
Miagostovich famiglia, 366
Miagostovich Giovanni, 128 e n, 134,
136, 154, 162 e n, 163, 173, 230,
260n, 274 e n, 429n
Miagostovich Vincenzo, 257n
Micheletta Luca, 12n, 132n, 133n,
138n, 164n, 169n, 177n, 179n,
193n, 195, 196n, 214n, 335n, 339n,
340n, 341n, 352n, 382n
Milcovich Ludovico, 9, 48 e n, 49
Milelli Guido, 384n, 387n
Mileta monsignor, 367
Mileta Mattiuz Olinto, 6n
Milic!, 188
Miller David Hunter, 45n, 112, 113
Millerand Alexandre, 195n, 198
Millicich famiglia, 375
Millo Anna, VII, 252n, 408n
Millo Enrico, 58 e n, 59 e n, 60 e n, 61
e n, 62 e n, 63 e n, 64 e n, 65 e n,
66 e n, 69n, 71 e n, 72 e n, 73 e n,
74 e n, 75n, 87, 101 e n, 103n, 118
INDICE DEI NOMI
e n, 128n, 133, 137 e n, 138n, 146n,
150 e n, 151n, 152n, 156 e n, 157 e
n, 158 e n, 159 e n, 160, 161 e n,
162 e n, 163 e n, 164 e n, 171, 173
e n, 185n, 186n, 187n, 188n, 189 e
n, 190n, 222 e n, 224, 227 e n, 228
e n, 229 e n, 230 e n, 231 e n, 232,
235, 236 e n, 237, 238, 241 e n, 242
e n, 257, 284n, 292
Milojevic!, 320
Mimica Boz#e, 372n
Miofrag Giovanna, 246
Miotto Luigi, 2n
Mira Giovanni, 115 e n, 336n, 339n,
397n, 400n
Miros#evic! Franko, 438n
Mirossevich Maria, 103n
Mirossevich Matteo, 103n
Mola Armando, 44
Mongiardini, 55n
Monroy, 55 e n
Montanari, 151n
Monteleone Renato, 14n, 48n, 49n
Monti Carlo, 57n, 214, 367 e n
Monti Lorenzo, 2, 3
Monticone Alberto, 40n, 42n, 88n, 125n
Monzali Luciano, 1n, 2n, 4n, 5n, 7n,
11n, 12 n, 14n, 16n, 17n, 18n, 19n,
20n, 22n, 43n, 78n, 85n, 108n,
125n, 242n, 253n, 254n, 285n,
410n, 417n, 435n
Morich famiglia, 422
Moroni, 376, 377 e n, 378 e n, 385n,
393 e n, 394n, 437n
Morozzo Della Rocca Roberto, 412n,
413n
Morpurgo famiglia, 362
Morpurgo Anna, 362n
Morpurgo Elio, 362
Morpurgo Eugenio, 362
Morpurgo Luciano, 362 e n
Morpurgo Vito, 2, 3
Morpurgo Vittorio, 362
Mosca Rodolfo, 89n, 177n, 340n, 341n
Moscati Ruggero, 401n
Moscheni, 140, 341n
Mosettig Ivan/Ivo, 430n
Muhr Josef, 194n
465
Mussolini Benito, 82 e n, 219 e n, 255
e n, 299, 304, 331 e n, 339, 364n,
397 e n, 399, 400 e n, 401 e n, 402
e n, 403 e n, 404 e n, 405 , 406 e n,
407 e n, 408, 409, 410, 411n, 412,
413, 414, 416, 422n, 426n, 430n,
433, 434n
Nani Giulio, 152
Nani Umberto, 83, 288, 303 e n, 411n
Nardelli Anne-Sophie, 91n
Nathan Ernesto, 11, 12, 80
Negrotto Cambiaso Lazzaro, 423n
Nesti, 340n
Niblack, 75
Nicola, re del Montenegro, 33, 34
Nicoletti famiglia, 366
Nicoletti Tullio, 128n, 173n, 260n, 274
e n, 287, 364, 391 e n, 417, 418
Nicolson Harold, 91n
Nigro Jr Louis John, 92n
Nincic!/Nincich Momchilo, 317, 384,
385, 386, 387 e n, 388, 402 e n
Nitti Francesco Saverio, 40, 42, 58, 87,
88 e n, 115, 125 e n, 126, 133, 134,
136, 137n, 139, 143 e n, 144 e n,
145 e n, 149, 156 e n, 157 e n, 158
e n, 161 e n, 164, 169 e n, 170, 177
e n, 178 e n, 179, 180 e n, 181 e n,
183 e n, 184, 193, 194, 198, 218,
223, 254n, 255n, 340, 382
Nordio M., 368n
Notarbartolo Leopoldo, 55 e n
Novach famiglia, 438
Novak Grga, 4n, 277n
Novak Slobodan Prosperov, 15n
Nunes Franco, 150n
Nutrizio Luigi, 73n, 83
Odenigo/Hodnig Armando, 78n, 80n,
231
Ojetti Ugo, 12n
Orlando Vittorio Emanuele, 13, 41, 42
e n, 44, 45, 47n, 49 e n, 52, 56, 70,
71 e n, 72n, 86 e n, 87, 88 e n, 93 e
n, 94 e n, 95 e n, 99, 104, 105, 106,
110, 111, 114 e n, 115, 126, 191,
388n, 389n, 395 e n
466
INDICE DEI NOMI
Ostoja famiglia, 438
Ostrogovich famiglia, 422
Ozretich, 152
Page Thomas Nelson, 69n, 70n, 80n,
88n
Pagliano, 397n
Palcich Giorgio, 57
Palcich Paoli Germano, 160n
Palombo Francesco, 246
Pantaleoni Maffeo, 218, 306
Pappucia Remo, 307n
Paratore Giuseppe, 396n
Parenta Milos, 65
Paresce Gabriele, 411n
Pas#ic!/Pasich Nikola, 25 e n, 30, 32, 33,
34, 35, 36, 37, 179, 183, 198, 249,
269, 311, 317, 319, 350, 388, 409
Pastorelli Pietro, VII, 10n, 30n, 87n,
89n, 179n, 197n, 352n, 401n, 410n,
413n
Paulucci, 34n
Pavcovich Giovanni, 438
Pavelic! Ante, 414
Pavlowitch Stevan K., 51n, 248n
Pavone Giuseppe, 189
Perathoner Julius, 396
Perfetti Francesco, VII, 11n, 30n, 148n,
304 e n
Peric! Ivo, 2n, 3n
Perich Ernesto, 292n
Perlini Giuseppe, 287
Perlini Marco, 59n, 62n, 287, 374n
Perman D., 91n
Perucich famiglia, 438
Pesavento Giuseppe, 378n
Perselli Guerrino, 6n, 285n
Persicalli Arturo, 287
Persicalli Ascanio, 287, 408, 411 e n
Pervan Edoardo, 68, 69n, 72, 76, 102,
118 e n, 119n, 154, 289
Petracchi Giorgio, 31n, 41n, 89n, 177n,
339n, 382n
Petricich, 152
Petricioli Marta, 111n, 341n
Petricioli Roberto, 303, 306, 307n, 377
Petrinovic! Ivo, 3n, 26n, 33n, 414n
Petris, 56
Petrovic! Rade, 3n
Petrovich Michael Boro, 10n
Pettorelli Lalatta /Finzi Cesare, 172
Pezzoli Carlo, 83,
Pezzoli Enrico, 15, 288
Pezzoli Leonardo, 8, 68, 69n, 72n, 76,
102, 118 e n, 119n, 128, 129n, 134,
135, 136, 188, 274 e n, 275 e n,
284n, 287, 312n, 326 e n, 337, 342
e n, 355, 356, 357, 359 e n, 360,
361n, 385, 391 e n, 408, 411, 424,
425n, 426, 428n, 429n
Piazza, 64 e n
Picconelli, 62n
Pichon, Stephan-Jean-Marie 87n, 90 e
n, 95n
Pierallini, 190n
Pietro re Karadjordjevic!, 274
Pini Luigi, VI, 4, 109, 128 e n, 129 e n,
162 e n, 165 e n, 173n, 222, 230,
232n, 233, 235, 257, 259 e n, 260 e
n, 287, 364, 408, 416, 418
Pirjevec Joz#e, 50n, 184n, 215n, 248n,
249n, 252n, 414n
Pisa Beatrice, 5n, 11n, 12n
Pitacco Giorgio, 11n, 109
Pizzigallo Matteo, 382n, 401n
Plenc#a Dus#an, 60n
Po Guido, 58n
Poduje Gustavo, 9
Poduje Luca, 83
Pojani Carlo, 128n
Poincaré Raymond, 96 e n, 409n
Polk Frank, 168 e n
Popovic! Tihomir, 310, 317, 319, 350,
351
Preziosi Giovanni, 306
Prezzolini Giuseppe, 12, 13 e n
Pribicevic! Svetozar, 249
Price Bell Edward, 93n
Prinetti Giulio, 193
Pulis#ic! Vincenzo, 265, 292
Pupo Raoul, 414n
Quaroni Pietro, 193n
Quartieri Ferdinando, 311, 315, 317,
318 e n, 319 e n
INDICE DEI NOMI
Radic!/Radich Stjepan, 184, 248, 249,
250
Radica Bogdan, 2n
Radizza famiglia, 438
Rados Andrea, 69n, 72
Radovani Trifone, 403, 406 e n
Randi Oscar, 4n, 9n, 25n, 47n, 48n, 49n,
62n, 99n, 100n, 109n, 110n, 111n,
114n, 115n
Ratyè Jean-Etienne-Charles-Marcel, 75
Rava Luigi, 80
Razza Antonello, 433n
Reich famiglia, 429
Renzi William A., 10n
Riboli Alfredo, 69n, 72, 424, 426
Ribot Alexandre, 89n
Riccardi Luca, VII, 7n, 14n, 29n, 30n,
31n, 37n, 38n, 48n, 89n, 97n, 100n,
108n, 111n, 126n, 132n, 139n,
179n, 198n, 200, 202n, 203n, 206n,
217n, 289n, 310n, 312n
Ricciardi Elio, VII, 244n
Ricci Buratti Arturo, 120n, 200n
Rigatti, 303 e n, 307n, 376
Righetti, 350 e n, 385n, 388n
Rigoli Carlo, 149n
Rismondo Francesco, 9
Rocco Alfredo, 218
Rocco Guido, 260n, 261 e n, 262 e n,
263, 264, 265 e n, 273, 277n, 294 e
n, 295n, 319, 320n, 321 e n, 322 e
n, 324n, 364 e n, 437n
Roccucci Adriano, 11n, 19n, 78n, 149n,
217n, 253n
Rodd James Rennell, 38, 89n, 125n,
178n
Roddolo Marcello, 74 e n, 295n, 374n
Rolandi Ricci Vittorio, 339n
Romano Sergio, 126n, 198n
Romano Avezzana Camillo, 29n, 34 e n
Rombo Ugo, 75, 76
Romizi, 424n
Roncagli Giovanni, 281n, 306 e n, 388
e n, 410, 411n
Rosandich, 152
Roselli Alessandro, 413n
Rossi Aldo, 189
Rossini Daniela, 40n, 92n
467
Rossini Giuseppe, 32n
Rothwell, V. H., 31n, 32n, 91n
Rovaro Brizzi Egidio, 154, 300, 380
Rubic! Ivo, 363n, 420n, 421 e n, 430n,
434, 434n, 435n
Ruggeri Carlo, 79, 259 e n
Rumi Giorgio, 389n
Rusinow Dennison I., 190n, 210n, 414n
Ruspoli Mario, 137 e n
Russo Mario, 407n
Ruzzier Umberto, 428n
Rybar/Ribarz#, 312, 313, 314, 316, 318,
340, 350, 384n, 388n
Sachs-Petrovic! Vladimir, 175
Sadkovic! James J., 414n
Sagrestano, 439
Saint-Aulaire Charles de, 382n
Saiu Liliana, 40n, 92n
Salandra Antonio, 11, 12, 47 e n, 92 e
n, 99, 191, 330 e n, 335 e n, 336,
339, 379n
Salata Francesco, 51n, 97, 100n, 101n,
103n, 112n, 118n, 120, 121 e n, 126
e n, 127 e n, 131n, 134, 135n, 139
e n, 140 e n, 141, 142, 144, 146n,
175, 178n, 180, 181n, 199, 200,
203, 204n, 205, 208, 209, 217 e n,
223n, 224 e n, 230n, 234n, 241n,
242n, 256 e n, 260n, 262n, 273, 275
e n, 279, 288n, 289 e n, 290n, 291n,
292n, 293 e n, 294n, 295n, 302n,
303 e n, 306n, 307n, 309 e n, 310n,
312 e n, 313 e n, 314 e n, 315n, 316
e n, 319, 340 e n, 342n, 344 e n,
346n, 350n, 374n, 376n, 381n,
385n, 386, 404, 429n
Salghetti Drioli famiglia, 15, 374, 375
Salghetti Drioli Francesca, 408n
Salghetti Drioli Francesco, 374n
Salghetti Drioli Giovanni, 287, 407, 411
en
Saluzzo, 314n
Salvago Raggi Giuseppe, 36n, 99, 112
Salvatorelli Luigi, 115 e n, 336n, 339n,
397n, 400n
Salvemini Gaetano, 7n, 12 e n, 13, 22n,
44 e n, 45 e n, 47n, 85 e n, 86 e n,
468
INDICE DEI NOMI
88n, 216, 217n, 251n, 400n
Salvi Beniamino, 3n, 26n
Salvi Ercolano, 4, 8, 64 e n, 81, 83, 84
e n, 85, 89, 109, 110 e n, 126, 134,
135, 136, 161 e n, 165 e n, 188 e n,
200, 234 e n, 288
Salvi Uros, 288
Sanminiatelli Donato, 16n, 17, 80
Santic Vincenzo, 152
Santini Gualtiero, 244n
Santoro Stefano, 212n
Santucci Carlo, 167, 168n
Sarlo, 59n
Savo famiglia, 429, 430
Savo signorina, 419n
Savo Doimo, 424, 426
Savo Giovanni, 274, 275n
Savo Giuseppe, 8, 83, 430
Savo Riccardo, 69n, 76
Scaduto Gioacchino, 385n
Scarpa, 260
Schanzer Carlo, 367n, 381, 382 e n,
383, 384n, 386, 387 e n, 388n, 389
e n, 390n, 391, 393n, 395 e n, 396
e n, 397 e n, 401n
Schödl Günther, 3n, 7n, 24n
Schuster Peter, 30n
Scialoja Vittorio, 17, 128 e n, 132 e n,
143n, 145 e n, 165n, 177 e n, 180,
183 e n
Sciortino Nicolò, 423n
Sciti, 389n, 392n, 393n, 394n
Scodnik Enrico, 17 e n, 47n, 80
Scottà Antonio, 40n, 42n, 57n, 214n
Sechi Giovanni, 63n, 126, 128n, 158 e
n, 188n, 203, 239n
Segre Guido, 408n, 418n, 436n, 437n,
440n
Selem Alessandro, 72
Selem Stefano, 68, 76, 83, 274, 275n,
326, 391, 392 e n, 407n, 424, 426
Semi Francesco, 4n, 15n
Senjanovic! Petar, 375n
Æepic! Dragovan, 3n, 25n, 26n, 29n, 32n,
33n, 36n, 44n, 50n
Serra Enrico, 177n, 193n
Seton-Watson Christopher, 30n
Seton-Watson Hugh, 30n
Seton-Watson Robert, 8n, 16 e n, 26 e
n, 30 e n, 31, 44, 45n
Seveglievich Ernesto, 69n
Seymour Charles, 112n
Sforza Carlo, 30 e n, 32 e n, 34 e n, 35
e n, 36n, 37 e n, 41 e n, 57n, 151n,
156n, 161, 169, 170n, 175, 191, 192
e n, 193 e n, 194, 195 e n, 196, 197
e n, 198, 199 e n, 200 e n, 202, 203
e n, 204 e n, 205 e n, 206 e n, 207
e n, 208n, 209n, 210, 212 e n, 213
e n, 214 e n, 216 e n, 220n, 221,
222, 227, 232n, 239 e n, 241n,
247n, 249n, 260n, 261n, 265n, 269
e n, 271 e n, 273, 274n, 275, 276 e
n, 287n, 288n, 310n, 311 e n, 316n,
318 e n, 319 e n, 320, 321 e n, 322n,
326, 327, 329, 330 e n, 331 e n, 332,
333 e n, 334 e n, 335 e n, 336 e n,
337, 339 e n, 340 e n, 341, 346, 352,
384n, 400, 401, 404, 437n
Sherman Miles, 64n
Shorrock William I., 409n
Siciliani, 228, 229, 230
Sillani Tomaso, 11
Silva Pietro, 12 e n, 13 e n, 44
Silvestri Claudio, 190n
Singleton Fred, 435n
Sinigaglia Oscar, 111, 149
Skirmunt, 213n
Smerchinich famiglia, 438
Smerchinich Michele, 438
Smerchinich Stefano, 134, 136, 165 e n
Smirich E., 385 e n
Smith Llewellyn Michael, 108n
Smodlaka Josip, 2n, 8, 24, 67 e n, 69,
167 e n, 186, 247, 434
Smolc#ic! Vincenzo, 55, 65
Solmi Arrigo, 80n, 148n, 149n, 180n
Sonnino Sidney, 10n, 11, 12 e n, 13,
14n, 16n, 21n, 22n, 28 e n, 29 e n,
30n, 31n, 32n, 33 e n, 34 e n, 35 e
n, 36 e n, 37 e n, 38 e n, 39 e n, 40,
41 e n, 42, 45, 46 e n, 47n, 49, 52,
70 e n, 73n, 86 e n, 87 e n, 88 e n,
92, 93, 94 e n, 95 e n, 99, 104 e n,
105, 106, 107n, 109, 110, 111, 114,
115, 123, 125, 126, 191
INDICE DEI NOMI
Soppelsa Giancarlo, 4n
Soragna vedi Meli Lupi
Sore famiglia, 438
Spalajkovic! Miroslav, 25 e n
Spector, Sherman David, 91n
Sporti Gaetano, 381n
Sportiello, 55
Spriano Paolo, 251n
Squillante Giovanni, 61n
Squitti Nicola, 28 e n
Staderini Alessandra, 149n
Staffetti Carlo, 419n, 440 e n
Stallo, 61n
Steed Henry Wickham, 16, 26, 30 e n,
31 e n, 44
Stoijc! Marco, 55
Stojanovic! Kos#ta, 203
Stokes Gale, 26n
Storelli, 439n
Stovall Pleasant Alexander, 54n, 69n
Stranieri Augusto, 117, 139, 140 e n,
141 e n, 142
Strojan Antonio, 152
Sturzo Luigi, 255, 309
Subotic! Nikola, 65
Summonte Consalvo, 250n, 393n, 432n
Supilo Frano, 3n, 26 e n, 33 e n, 34
Suvich Fulvio, 332n, 393 e n, 394 e n
Svircich Spiridione, 57
Swire Joseph, 197n
Tacconi famiglia, 429
Tacconi Antonio, VI, 15n, 68 e n, 69n,
72n, 76, 102, 118 e n, 119n, 274 e
n, 275 e n, 284n, 287, 312n, 326 e
n, 337, 342 e n, 343, 344 e n, 345,
346, 355, 356, 357, 359 e n, 360,
361n, 385, 391 e n, 392 e n, 393 e
n, 394 e n, 406 e n, 408 e n, 411 e
n, 418 e n, 421 e n, 424, 426, 427 e
n, 429n, 430, 433, 438 e n
Tacconi Edoardo, 2
Tacconi Ildebrando, 4n, 15n, 68n, 77n,
154n, 155n, 160n, 237n, 244n, 287,
288, 379 e n, 417 e n
Tacconi Vanni, VII, 2n, 4n, 417n
Tadich Allina, 103n
Tadich Ferdinando, 103n
469
Talpo Gustavo, 408
Talpo Ljubo/Amato, 8, 287, 430
Talpo Oddone, 283n, 403n, 417n
Tamajo Corrado, 411n
Tamaro Attilio, 1n, 15, 16 e n, 17 e n,
19, 32n, 44n, 51n, 54n, 56n, 57n,
172n, 203n, 221 e n, 222, 225 e n,
226, 230n, 232 e n, 236 e n, 239n,
240, 241 e n, 253 e n, 254 e n, 255,
283 e n, 329n, 330 e n
Tamborra Angelo, 12n, 29n, 40n, 42n
Taranto, 237, 238 e n, 239 e n, 240, 241,
256, 257, 258n, 259
Tardieu André, 113, 114
Tartaglia famiglia, 327
Tartaglia Ivo, 24, 67, 186 e n, 188, 362,
434, 436
Tartaglia Renato, 362, 363n
Tasso Antonio, 277
Thaon di Revel Paolo, 14n, 57, 58 e n, 71
e n, 72n, 73n, 87 e n, 126, 219 e n
Tillman Seth P., 91n
Tittoni Tommaso, 28n, 29 e n, 111, 115,
125 e n, 126 e n, 127, 128 e n, 129,
130, 131 e n, 132 e n, 133, 134, 134,
136, 138, 139, 142, 143 e n, 144 e
n, 149, 156, 161, 164, 165 e n, 166,
168 e n, 169 e n, 170 e n, 171, 177,
382
Tolomeo Rita, 283n, 341n, 408n
Tomasi Della Torretta Pietro, 339 e n,
340 e n, 341, 342, 349 e n, 351, 352,
358 e n, 359 e n, 361 e n, 384n
Tommaseo Nicolò, 162, 257
Tommasini Francesco, 126n, 213n,
340n, 341 e n
Tonc#ic! Giuseppe, 65
Toniatti Alfredo, 303, 307n
Tornielli Giuseppe, 193
Torre Andrea, 41, 44, 49
Toscano Mario, 10n, 25n, 26n, 27n,
28n, 29n, 89n, 108n, 116n, 213n
Tosi Luciano, 14n
Tosti di Valminuta Fulco, 297, 298 e n,
299n, 340, 342n, 382, 384, 385n,
387n, 388n, 389n, 390n, 393 e n,
394 e n, 395n
Trabalza Ciro, 392n
470
INDICE DEI NOMI
Tramontana famiglia, 438
Tranfaglia Nicola, 337n
Tres#ic! Pavic#ic! Ante, 247
Trigari Remigio, 287
Troiani, 300, 377
Trumbic! Ante, 3n, 24n, 26 e n, 32, 33 e
n, 34, 44, 45, 49, 84, 113, 179, 180,
181, 182, 186, 197, 198 e n, 203,
204, 205, 206, 208, 209, 210, 247,
249, 340, 388
Turati Filippo, 255n, 332 e n, 336
Uccelli Michele, 261
Udina famiglia, 422
Umiltà Carlo, 325 e n, 326n, 328, 329n,
346, 347 e n, 349 e n, 353 e n, 354n,
355 e n, 356n, 357, 358n, 359 e n,
360 e n, 363n, 373n, 377 e n, 385n,
390 e n, 401n, 402n, 411n, 426n,
428n, 430n, 432n, 437n
Urbanitsch Peter, 3n
Uroda Pietro, 232n
Vaccari Pietro, 417
Vacchelli Nicolò, 273
Valenti Rodolfo, 101n
Valeri Nino, 148n, 191n
Valiani Leo, 10n, 12n, 25n, 26n, 28n,
31n, 32n, 33n, 42, 44n, 45n
Vallauri Carlo, 191n, 197n
Valle Giuseppe, 73n
Vallery Tullio, VI, 54n, 80n, 148n,
151n, 155n, 160n
Vannutelli De Rey Vincenzo, 292n
Varé Daniele, 395n
Varisco Giorgio, VII
Venanzi Paolo, 148n
Veneruso Danilo, 31n, 339n, 382n
Verban Vittorio, 302, 377, 380
Vesnich/Vesnic! Milenko, 150n, 198,
203, 209
Vettori Vittorio, 74n, 232, 301, 306
Vidossich, 394n
Vigevano Attilio, 150n, 151n, 228 e n,
229 e n, 230 e n, 232n, 241 e n
Vinzi famiglia, 438
Vinzi Giacomo, 232n
Viola Guido, 385n, 422n
Visconti Venosta Giovanni, 387n
Visintin Angelo, 252n
Vitetti Leonardo, 180n
Vittoria Albertina, 15n
Vittorio Emanuele III di Savoia, 214 e
n, 228, 229 e n, 372
Vivarelli Roberto, 12n, 29n, 42n, 82n,
400n
Vladovich Arnaldo, 440
Vlahov famiglia, 375
Vojnovic! Lujo, 8
Volpi Giuseppe, 78, 198, 199
Voltolini Giuseppe, 424
Vosilla/Vozila famiglia, 438
Vosilla/Vozila Giacomo, 152
Vrandec#ic! Josip, 1n
Vucassovich Riccardo, 246n
Wandruszka Adam, 3n
Wandycz Piotr, 213n
Weiss Edmondo, 440 e n
White Stephen, 382n
Wildauer Federico, 283n, 284n, 285n,
292, 293n, 295n, 296, 297, 346n,
375n
Wilfan Josip, 331 e n, 332
Wilson Woodrow, 37, 38 e n, 39, 40, 46,
88 e n, 92, 93 e n, 94 e n, 103, 105,
106, 107, 113, 114 e n, 115, 130,
153, 169, 170, 171, 178, 182, 195,
198, 202, 204
Young Charles Alban, 190n, 197n, 214n
Zaccagnini, 16n
Zanella Riccardo, 383
Zanettich famiglia, 438
Zeman Zybnék A., 32n, 38n
Ziliotto Giuseppe, 4n, 243n, 244n, 408
Ziliotto Luigi, VI, 4 e n, 8, 51 e n, 53n,
54, 57 e n, 68, 70 e n, 84, 109, 128
e n, 129 e n, 130, 131 e n, 132 e n,
134, 135, 136, 137n, 153, 154, 155
e n, 165, 166n, 167 e n, 169 e n,
173n, 175, 178 e n, 181 e n, 182 e
n, 198, 200, 201 e n, 205, 223, 224,
233, 234 e n, 235 e n, 236, 240 e n,
242 e n, 243 e n, 244, 245, 246, 286,
INDICE DEI NOMI
287, 288, 289 e n, 290 e n, 291n,
293 e n, 294, 301, 303, 304 e n, 306
e n, 307 e n, 312, 375, 378, 379,
380, 381, 406
Ziliotto Luigi (sindaco di Zara), 381n,
408n, 417n
Zimolo Michelangelo, 221, 236, 300,
471
375, 377, 379 e n
ºivojinovic! Dragan R., 32n, 64n, 65n,
71n, 77n, 92n
Zizak Giuseppe, 152
Zogolli Ahmed/Zogu, 197, 412, 413
Zoli Corrado, 172n, 216n, 218n, 226,
231, 232 e n, 253
473
INDICE GENERALE
INDICE GENERALE
Introduzione ....................................................................................... p.
V
Elenco dei fondi archivistici, delle raccolte documentarie
e delle abbreviazioni .......................................................................... »
IX
I. GUERRA DIPLOMATICA PER L’ADRIATICO ORIENTALE.
GLI ITALIANI DI DALMAZIA E LA POLITICA ESTERA
ITALIANA DALL’INTERVENTO ALLA FIRMA DEL
TRATTATO DI VERSAILLES
1.1. Gli italiani di Dalmazia e l’irredentismo politico durante
la guerra .......................................................................................
1.2. La Dalmazia e la questione iugoslava nella politica europea
durante la prima guerra mondiale ................................................
1.3. Un difficile dopoguerra. L’occupazione italiana della
Dalmazia settentrionale ................................................................
1.4. La città irredenta. Le lotte politiche e nazionali a Spalato
nel 1918 e 1919 ............................................................................
1.5. Il dibattito politico italiano sulla Dalmazia ..........................
1.6. La questione dalmatica alla Conferenza della Pace
di Parigi (gennaio-giugno 1919) ..................................................
1.7. Il problema della protezione degli italiani nella
Dalmazia iugoslava e i trattati per la tutela delle minoranze
in Europa centro-orientale ...........................................................
II. TRA NITTI E D’ANNUNZIO. GLI ITALIANI DI DALMAZIA
E LA LOTTA PER ZARA ITALIANA
(LUGLIO 1919-MAGGIO 1920)
2.1. I dalmati italiani e il governo Nitti di fronte al progetto
dello Stato libero dalmatico .........................................................
2.2. La rinuncia dell’Italia a tutelare gli italiani di Dalmazia
nel trattato di protezione delle minoranze in Iugoslavia .............
2.3. Il movimento dannunziano e la questione dalmatica ...........
2.4. Tommaso Tittoni, i dalmati italiani e i negoziati adriatici
nell’autunno 1919 ........................................................................
2.5. D’Annunzio, i dalmati italiani e il progetto della Lega
delle città marine ..........................................................................
2.6. La lotta per Zara italiana .......................................................
2.7. La situazione politica a Spalato e nella Dalmazia iugoslava
fra il 1919 e il 1920 .....................................................................
»
1
»
25
»
50
»
»
67
78
»
89
» 116
» 125
» 139
» 148
» 164
p. 171
» 177
» 184
474
INDICE GENERALE
III. IL TRATTATO DI RAPALLO E IL PRIMO ESODO
ITALIANO DALLA DALMAZIA
3.1. Giolitti, Sforza e la genesi del trattato di Rapallo ................ »
3.2. Una vittoria amara. Gli italiani di Dalmazia di fronte
al trattato di Rapallo ..................................................................... »
3.3. Due Stati deboli e divisi. Le lotte politiche e nazionali nel
Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e in Italia negli anni Venti ..... »
3.4. L’inizio dell’applicazione del trattato di Rapallo: la consegna
della prima zona e l’esodo italiano dalle isole dalmate ............... »
3.5. La difficile ricostruzione. I problemi economici e politici
di Zara italiana ............................................................................. »
3.6. Liberali contro nazionalisti e fascisti: le elezioni
parlamentari a Zara nel maggio 1921 .......................................... »
3.7. I colloqui italo-iugoslavi di Roma e Belgrado
(aprile-giugno 1921) .................................................................... »
3.8. L’evacuazione della seconda zona Dalmata e l’esodo
italiano da Sebenico ..................................................................... »
3.9. Le polemiche sulla Dalmazia e la caduta del governo
Giolitti-Sforza .............................................................................. »
IV. GLI ITALIANI DI DALMAZIA DI FRONTE ALLA
CRISI DELL’ITALIA LIBERALE E
ALL’AVVENTO DEL FASCISMO
4.1. Il governo Bonomi-Della Torretta e gli italiani della
Dalmazia iugoslava di fronte alla questione delle opzioni ..........
4. 2. La minoranza italiana a Sebenico dopo l’esodo del 1921 ...
4.3. Il Municipio contro la Nazione? Le lotte politiche a
Zara fra il 1921 e il 1922 .............................................................
4.4. Facta, Schanzer e gli accordi di Santa Margherita ...............
4.5. Gli italiani di Dalmazia e l’Italia fascista: alcune
proposte interpretative .................................................................
4.6. La comunità italiana di Veglia ..............................................
4.7. Il declino. Gli italiani di Spalato dopo il trattato
di Rapallo .....................................................................................
4.8. Le comunità italiane nella Dalmazia centro-meridionale .....
191
220
247
255
283
300
310
320
326
» 339
» 364
» 374
» 381
» 400
» 420
» 424
» 436
Appendice:
1. Cartine ....................................................................................... p. 441
2. Fotografie .................................................................................. » 447
Indice dei nomi .................................................................................. » 457