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Ilvano Caliaro
La tr a d u zio n e d a i c la ssic i a Ve r o n a n e l
Se tte c e n to . Ap p u n ti
P arole chiave: Traduzione, Classici, Maffei, Pindemonte, Torelli
K eywords: Tanslation, Classics, Maffei, Pindemonte, Torelli
C ontenuto in: Un tremore di foglie. Scritti e studi in ricordo di Anna Panicali
C uratori: Andrea Csillaghy, Antonella Riem Natale, Milena Romero Allué, Roberta De Giorgi, Andrea Del Ben e Lisa
Gasparotto
Editore: Forum
Luogo di pubblicazione: Udine
A nno di pubblicazione: 2011
C ollana: Studi in onore
IS B N: 978-88-8420-666-4
IS B N: 978-88-8420-971-9 (versione digitale)
P agine: 203-211
P er citare: Ilvano Caliaro, «La traduzione dai classici a Verona nel Settecento. Appunti», in Andrea Csillaghy,
Antonella Riem Natale, Milena Romero Allué, Roberta De Giorgi, Andrea Del Ben e Lisa Gasparotto (a cura di), Un
tremore di foglie. Scritti e studi in ricordo di Anna Panicali, Udine, Forum, 2011, pp. 203-211
Url: http://www.forumeditrice.it/percorsi/lingua-e-letteratura/studi-in-onore/un-tremore-di-foglie/la-traduzione-daiclassici-a-verona-nel-settecento
FARE srl con socio unico Università di Udine
Forum Editrice Universitaria Udinese
via Larga, 38 - 33100 Udine
Tel. 0432 26001 / Fax 0432 296756 / www.forumeditrice.it
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La traduzione dai classici a Verona
nel Settecento. Appunti
Ilvano Caliaro
Non vi è dubbio che il traduttore veronese più noto, e pregevole, sia Ippolito
Pindemonte, che infatti si ricorda soprattutto per la sua versione dell’Odissea,
nella quale egli non fu, e non volle essere, traduttore ‘fedele’, rivolgendosi a
quel monumento di poesia e di cultura piuttosto come a una fonte d’ispirazione per la propria creatività letteraria. Il Pindemonte traduttore dall’antico si
radica in quella fervida tradizione di studi classici che caratterizza la Verona
settecentesca, in cui lo studio dei testi latini e greci non appare mai disgiunto
dalla prassi (anche dilettantesca) della traduzione. L’attività dei numerosi, e
alcuni dei quali apprezzabili, traduttori veronesi del secolo fu fortemente condizionata dall’idea di traduzione elaborata da Scipione Maffei, alfiere e riconosciuta autorità del classicismo veronese. Da posizioni maffeiane, assunte invero con discrezione, mosse quindi anche Pindemonte, ma per approdare a una
diversa idea di traduzione, consentanea a quella di Cesarotti e Monti1.
I primi punti di riferimento culturale di Pindemonte si riconoscono in
Giuseppe Torelli (cui Luigi Pindemonte, padre di Ippolito, morto prematuramente, aveva affidato l’educazione del figlio undicenne) e Girolamo Pompei, peraltro autentici depositari del legato culturale, specie sul versante classicistico, di Maffei. Fu Pompei (cui si deve una celebre traduzione delle Vite
parallele, rilevante nella storia del plutarchismo settecentesco: quel «divino»
Plutarco che Ortis, e prima ancora il suo autore, portava religiosamente con
sé) ad iniziare Pindemonte al greco, sulle pagine di Erodiano; e fu Pompei,
come si apprende sempre dall’Elogio vergatone dallo stesso Pindemonte, ad
indurlo a studiare particolarmente Omero e a suggerirgli di volgarizzare
1
Sull’idea di traduzione ch’ebbe Pindemonte vedi I. Caliaro, L’idea di traduzione di
Ippolito Pindemonte, in A. Daniele (a cura di), Teoria e prassi della traduzione, Atti del
convegno (Udine, 29-30 maggio 2007), Padova, Esedra 2009, pp. 69-80.
Un tremore di foglie. Scritti e studi in ricordo di Anna Panicali, a cura di Andrea Csillaghy, Antonella Riem Natale,
Milena Romero Allué, Roberta De Giorgi, Andrea Del Ben, Lisa Gasparotto, vol. II, Udine, Forum 2011.
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ILVANO CALIARO
l’Odissea2, negletta dai traduttori italiani, che fino a quel momento si erano
cimentati con l’Iliade. A restituire il sentimento vero e commosso di una riconosciuta e riconoscente filiazione non solo culturale provvede, sempre
nell’Elogio pindemontiano di Pompei, l’immagine del giovanissimo Ippolito
che, sottratto alle lusinghe del libertinage dalla parola dei maestri, costituisce
con essi un novero di ‘spiriti magni’, dimezzato rispetto a quello di dantesca
memoria (come lo è il Pompei revenant d’oltremondo3): «Oh giorni troppo
veloci! O notti beate! Quante volte io non abbandonava, giovinetto, i ridotti
più frequentati, e le femmine più attraenti, per seder terzo fra te, e il Torelli?».
Ma qui, anticipando da un più ampio studio in corso sulla traduzione dai
classici a Verona nel Settecento, si vuol brevemente richiamare la poliedrica
figura di Torelli (1721-1781), definita splendidamente dall’affettuosa, eloquente, concisione pindemontiana:
fu in lui un certo senso dell’ottimo in ogni cosa, un’anima geometrica, e nel
tempo stesso di finissima temperatura, onde l’amor del vero insieme e del
bello, onde quel felice bisogno e invidiabile di unire alle più gravi le facoltà
più gentili, di viver tra Newton, e Omero4.
Peritissimo delle lingue antiche (di latino, greco ed ebraico) e non digiuno di quelle moderne (inglese, francese e spagnolo), di molteplice cultura
tutta di prima mano, Torelli si dovrebbe ricordare soprattutto per l’edizione
di Archimede, uscita postuma a Oxford nel 1792 (ma lui ancora in vita a
lungo sollecitata dagli amici ed estimatori inglesi): un’opera improntata a
quello straordinario incontro tra scienza e filologia che connota l’ambiente
culturale in cui, dopo l’apprendistato nella città natale alla scuola di Pietro
e Girolamo Ballerini, egli deve la sua formazione superiore, cioè quello di
maestri dello Studio patavino quali l’anatomista Giambattista Morgagni, il
matematico Giovanni Poleni e il botanico Giulio Pontedera, che con dottri2
Elogi di letterati scritti da Ippolito Pindemonte, Verona, Tipografia Libanti Editrice 18251826, vol. II, p. 36.
3
L’Elogio che Pindemonte scrisse di Pompei è atipico rispetto agli altri Elogi di letterati,
per il taglio particolare, essendovi la notizia biografica, l’informazione bibliografica e il
giudizio critico rifusi in forma dialogica, tra Pindemonte e il Pompei ormai passato a
miglior vita, entro la cornice di una visione che Ippolito finge di aver avuto un giorno a
Venezia nei giardini del Patriarcato, quando, pensando proprio a Pompei, questi improvvisamente gli apparve e tra i due poté instaurarsi un breve dialogo.
4
Elogi di letterati scritti da Ippolito Pindemonte cit., vol. II, p. 75.
LA TRADUZIONE DAI CLASSICI A VERONA NEL SETTECENTO
205
na ingente e singolare sensibilità ecdotica risalivano alle fonti antiche delle
loro discipline5.
Ma qui, di Torelli, interessa il traduttore, il quale abbraccia l’idea di traduzione che fu di Maffei e che questi ha inteso applicare al greco volgarizzando
dall’Iliade, dichiarata dapprima nella Prefazione epistolare dei suoi Traduttori
Italiani o sia Notizia de’ volgarizzamenti d’antichi scrittori Latini, e Greci che
sono in luce. Aggiunto il volgarizzamento d’alcune insigni iscrizioni greche, e la
notizia del nuovo Museo d’iscrizioni in Verona, col paragone fra le iscrizioni e le
medaglie (Venezia, per Sebastian Coleti 1720).
Maffei vi registra il «quasi doppio genio» corrente nelle traduzioni, le «due
diverse idee, che in certo modo distinguono i traduttori»: il «tradur libero»,
sollecito della ricezione del testo, che possa quindi essere letto «da ogni sorte
di persone della sua nazione con piacere, e senza difficoltà», cui inclinerebbero «generalmente» i francesi; e il «tradur testuale», volto a riprodurre il concetto e lo stile dell’originale, preferito dagli italiani. Maffei, che comunque
condanna gli eccessi dell’una e dell’altra modalità traduttiva, parteggia per
quella «testuale», riconoscendo il «pregio più essenziale» di una traduzione
nella sua «fedeltà» o «inerenza» all’originale, per cui l’«interprete» deve studiarsi di lavorare non «una bella figura, ma un bel ritratto».
Già qui, sulla soglia dei Traduttori italiani, Maffei individua nel «verso rimato» ciò che preclude la necessaria «inerenza» all’originale, e sul verso rimato
5
Un quadro del classicismo e dell’erudizione veneta settecentesca offrono D. Nardo e M.
Cerruti rispettivamente in Gli studi classici e L’erudizione storico-letteraria, in G. Arnaldi M. Pastori Stocchi (a cura di), Storia della cultura veneta, Il Settecento/I, Vicenza, Neri
Pozza 1985, pp. 227-256 e 257-275. Esempio della sensibilità filologica di Torelli (peraltro
cresciuto, come si è detto, dapprima a Verona alla scuola di Pietro e Girolamo Ballerini, cui
si deve la fondamentale edizione di S. Zenone e Raterio) è quanto egli scrive a Clemente
Sibilato (per cui vedi qui p. 9) il 12 maggio 1781, parlando di un volume di traduzioni di
Pindemonte e di Pompei (Volgarizzamenti dal latino e dal greco del marchese Ippolito Pindemonte Cavaliere di Malta e di Girolamo Pompei gentiluomini veronesi, Verona, Eredi Marco
Moroni) fresco di stampa: «Che vi pare di que’ volgarizzamenti dal greco e dal latino? Il letterato, a cui sono indirizzati [Richard Franz Philippe Brunck, uno dei più celebri filologi del
Settecento], vi sarà noto. Egli è un grecista meraviglioso; non sapendo qual altro lo superi
nella cognizione di quella lingua. Ora è tutto occupato intorno a una novella edizione d’Aristofane e di Sofocle. Una sola cosa mi dispiace in lui, ch’è troppo franco nel metter mano ne’
testi antichi, com’era lo Scaligero ed il Bentleio, e cangia, traspone e corregge, spesso per sole
congetture, senza alcun soccorso di codici» (in Opere varie in verso e in prosa di Giuseppe Torelli veronese, Pisa, presso N. Capurro e Comp. 1833, vol. II, p. 287).
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ILVANO CALIARO
egli ritorna nella Dedicatoria della sua versione del primo canto dell’Iliade (Il
primo canto dell’Iliade d’Omero. Tradotto in versi italiani, Londra, Brindley
1736)6, superando peraltro l’ambito specializzato della traduzione e la ricerca
del metro più idoneo a «rappresentare» l’originale. La perfezione poetica, conseguita dagli antichi, è a suo giudizio inattingibile anche dai grandi moderni
(quali Dante, Ariosto, Tasso), non per inferiorità di «ingegno» e di «spirito di
Poesia», ma per «la diversa perfezione dell’istrumento da gli uni usato, e dagli
altri», non avendo i moderni scelto un verso «di ugual libertà, e d’ugual forza»
dell’esametro, per cui è soprattutto «la servitù della rima» a negare loro la perfezione dei «grandi esemplari» greci e latini, in primis Omero e Virgilio. Solo
il «verso sciolto», «emulo del Latino e del Greco», certo di non facile cesellatura7, può consentire ai moderni di «emular gli Antichi nel verso, e nello stile»,
di «uguagliarli»8: un verso, quello sciolto, che mentre è venuto in discredito
degli italiani (nonostante l’abbia usato Chiabrera, il «nostro Pindaro») è invece
adottato dagli inglesi, testi Shakespeare e Milton. Ed è appunto per provarne
le potenzialità che Maffei sceglie di tradurre dal «maestro» dei poeti antichi,
dal «primo fonte della Poesia tutta», prefissandosi una «dura legge», quella
di non prendermi nel tradurre licenza alcuna, e di non allontanarmi mai dal
mio Autore, per render forse più grato al moderno gusto il parlar talvolta, o
il pensare. Quinci è, che potrà di leggeri ogn’altro volgarizzamento esser migliore, e più elegante di questo, ma più inerente non credo. Ridicole si stiman
sempre da chi ben intende le traduzioni arbitrarie, e infedeli. Una traduzione
debb’essere un ritratto, che tanto si loda quanto somiglia. Chi altramente fa,
inganna il suo Lettore, non l’instruisce9.
6
La versione, già da molto tempo approntata («Questo tentativo in fatto di Poesia Italiana, al quale io m’arrischiai molti e molt’anni sono»: Maffei, Il primo canto dell’Iliade
d’Omero… cit., p. 11), fu da Maffei, durante il suo soggiorno in Inghilterra, dedicata e
donata manoscritta a Federico di Brunswik, principe del Galles, figlio del re Giorgio II
d’Inghilterra, che la diede subito alle stampe.
7
«La rima è come un liscio, che bruttezza, e difetti può ricoprire; ma il render grato,
e il far ricevere a lungo con senso di diletto il verso sciolto, non si può conseguire, che
a forza di bellezza vera, e di pregio intrinseco. […] La rima fa perdonar molto, dove
senza di essa né pure il minimo neo si soffre» (Maffei, Il primo canto dell’Iliade d’Omero… cit., p. 22).
8
Istruzioni per la confezione di un verso sciolto capace di emulare l’esametro greco e
latino Maffei le fornisce alle pp. 319-320 del cit. Primo canto dell’Iliade d’Omero.
9
Su Maffei traduttore vedi G.P. Marchi, Storia e tecnica della traduzione in Scipione
Maffei, in G. Coluccia - B. Stasi (a cura di), Traduzioni letterarie e rinnovamento del
LA TRADUZIONE DAI CLASSICI A VERONA NEL SETTECENTO
207
Pubblicando, dieci anni dopo, nel 1746, le Traduzioni poetiche o sia tentativi per ben tradurre in verso esemplificati col volgarizzamento del primo libro
dell’Iliade, del primo dell’Eneide, e di alcuni cantici della Scrittura, e d’un salmo
(Verona, Stamperia del Seminario), alla propria versione del primo canto
dell’Eneide Torelli fa significativamente precedere, quasi ideale riconoscimento
della priorità e autorità di un’idea di traduzione e di esemplare prassi traduttiva,
la versione maffeiana, e la relativa, teoricamente cospicua, lettera dedicatoria,
del primo canto dell’Iliade, pubblicata a Londra dieci anni prima, aggiungendovi la parte del secondo canto che Maffei aveva tradotto ma lasciata inedita.
Nella lettera prefatoria al volume (Agli illustri Letterati che compongono l’Accademia delle Scienze di Bologna) Torelli rivendica anzitutto l’originalità dell’idea di
traduzione di Maffei10 e il valore della sua versione omerica, contestando coloro
che avevano rimproverato a Maffei la «temerarietà», se non il «gran fallo», di
aver dato alle stampe traduzione dell’Iliade dopo quella di Anton Maria Salvini11, grecista e scrittore acclamato, insuperabile nella comune reputazione.
Come dichiara A’ Lettori, nel suo volgarizzamento Salvini aveva voluto
essere piuttosto «fido interprete» che «parafraste leggiadro», precisando tuttavia di aver perseguito una traduzione «serrata» e insieme «elegante», improntata a una fedeltà rigorosa quanto al «sentimento», cioè al significato, giudiziosa invece («mentre la lingua, in cui si traduce, il comporti») quanto alle
«voci […] di che è rivestito il sentimento», cioè alla forma, onde evitare a
questa «durezze», «stenti» e «oscurità»12, in cui anch’egli, come ammette, è
incorso nella sua versione e di cui chiede venia ai lettori. La conciliazione di
fedeltà e di eleganza, certo ardua, per Salvini è concessa soprattutto al traduttore italiano, che dispone di una lingua che «è come cera, cedente ad ogni
figura, che in lei si piaccia d’imprimere».
gusto: dal Neoclassicismo al Primo Romanticismo, Atti del convegno internazionale (LecceCastro, 15-18 giugno 2005), Lecce, Mario Congedo 2006, vol. II, pp. 149-165.
10
«l’idea del Marchese Maffei nel tradurre è molto diversa da quella finora di tutti gli
altri» (Traduzioni poetiche… cit., p. 9); «quest’idea nel tradurre si prefisse appunto prima
d’ogn’altro» (ivi, p. 10), dichiarata invero già nella Prefazione ai suoi Traduttori italiani,
pubblicati nel 1720.
11
Iliade d’Omero tradotta dall’original greco in versi sciolti, Firenze, Giovanni Gaetano
Tartini e Santi Franchi 1723.
12
«le quali cose talora intervengono a chi, a guisa di quel Demetrio scultore, mentovato
da Quintiliano, che curava più ne’ ritratti la similitudine, che l’eleganza» (Iliade d’Omero tradotta dall’original greco in versi sciolti… cit., p. ii); «Chi sta attaccato alle parole,
riesce talora oscuro, o barbaro» (ivi, p. iii).
208
ILVANO CALIARO
Torelli, se non ispirato certo autorizzato nelle sue affermazioni da Maffei13, ritiene che la traduzione di Salvini non si discosti di molto da un
primo getto («una versione a penna corrente, e senza porvi alcuna cura»),
su cui questi avrebbe dovuto invece ritornare «posatamente»14. E le sue
manchevolezze non si debbono tutte all’«esatta e perfettissima inerenza al
testo», perché, a disamina, la traduzione di Salvini si rivela non così «inerente», così «fedele», come comunemente, ma infondatamente, si afferma15.
Il confronto, «di verso in verso, o di senso in senso», con l’originale e con
la versione del Maffei, mostra questa «molto più inerente, e molto più fedele», confutando quanto asserito dallo stesso Salvini nella Prefazione alla
sua Iliade, di aver «seguitato il Poeta in ogni particolarità ancor minima,
ponendo e fissando i miei piedi nelle sue vestigie, e quasi con religiosa venerazione osservato»16.
Torelli definisce quindi il buon traduttore: «fedele», «inerente», «religiosamente attaccato» all’originale17, vigile peraltro affinché «la religiosità non
passi in superstizione, poiché intera e perfettissima uniformità non si dee
voler sempre, che sarebbe viziosa, e farebbe perder bellezze, e incorrere in più
difetti». E per una traduzione che possa dirsi poetica «dee in tanto pregio
13
Di quel Salvini di cui peraltro Maffei «venera, ed ama la memoria, e decanta spesso
con gli amici le lodi, e moltissime cose professa aver imparate da lui» (Traduzioni poetiche… cit., p. 19) e del quale lo stesso Maffei aveva detto nei Traduttori italiani (p. 10):
«non so qual più atto si trovasse mai a ben trasportare dal Greco».
14
Donde «lo stile è per lo più così dimesso, e così disgustoso, che riesce assai dissimile
dal nobile ch’egli usò nelle sue Poesie» (Traduzioni poetiche… cit., p. 13).
15
«corre tal opinione per quel dono, che tanti hanno di parlare, e di giudicare de’ libri
senza avergli letti» (ivi, p. 14).
16
Puntualizza Torelli: «170 versi più di quella del Marchese Maffei contiene in questo
primo Canto la versione del Salvini; da che ben apparisce, com’ei non si tenne religiosamente attaccato al suo Originale, come sempre ha fatto quell’altro [Maffei], ma ora per
finire il verso (ciò che appunto era da sfuggire) ora per ampliare, venne secondo l’uso de’
traduttori prendendosi libertà d’andarvi mettendo qualche cosa di suo» (ibidem). Torelli denuncia «giunte, e parole, e detti che soprabbondano, e nel Poeta non si hanno»
(ibidem), mentre quella di Maffei «niente ha mai di più, o di meno. Ma in oltre ei ritiene le reticenze ancora, e i modi, e le grazie tutte» (ibidem).
17
Autorizzano questo metodo traduttivo gli esempi di coloro che ebbero «talento veramente poetico» (Ariosto, Tasso, Chiabrera), «religiosissimi» nel tradurre i «migliori antichi», mentre, al contrario, «somma libertà» hanno usato «gl’ingegni mediocri, e nati a
tutt’altro che alla Poesia» (ivi, p. 8).
LA TRADUZIONE DAI CLASSICI A VERONA NEL SETTECENTO
209
aversi l’inerenza e l’eleganza»18: diversamente, quando traducendo si voglia
conseguire solo l’«inerenza», «bisogna tradurre in prosa, e non in versi»19.
Con la sua versione in sciolti del primo canto dell’Eneide Torelli vuole smentire l’opinione corrente che in una traduzione la «fedeltà»20 sia inevitabilmente
con pregiudizio dell’«eleganza»; e altresì contribuire a perfezionare appunto
quel verso sciolto che, a giudizio suo, e prima ancora di Maffei, solo consente
alla traduzione di un poema epico di riuscire «inerente» all’originale e di avvicinarsi il più possibile «alla bellezza, e alla perfezione degli antichi esemplari»21.
18
Torelli lo ribadirà nell’avvertenza (chiaramente ispirata, se non direttamente redatta,
secondo Marchi, da Maffei: vedi Marchi, Storia e tecnica della traduzione in Scipione
Maffei cit., p. 158) premessa alla Versione d’alcune poesie della Sacra Scrittura di Maffei,
pubblicata a cura dello stesso Torelli entro il primo tomo delle Poesie del Sig. Marchese
Scipione Maffei volgari e latine. Parte non più raccolte, e parte non più stampate, Verona,
presso Antonio Andreoni 1752, in cui sono raccolti gli esperimenti di traduzione del
Maffei: «Per far vedere come anche dall’Ebreo si può tradurre con tutta inerenza, e senza allontanarsi dall’eleganza, ho voluto por qui alcuni poetici componimenti, che si
hanno nella sacra Scrittura, resi con l’istessa fedeltà dal Marchese Maffei, con cui rese il
principio dell’Iliade. […] sempre con la sua idea solita d’accoppiare esatta inerenza con
lingua poetica, e con tutta l’eleganza, e nobiltà possibile» (pp. 226-227).
19
Lo dice a proposito ancora di Salvini: «Lodasi la sua traduzione solamente per la fedeltà, ed inerenza, e si loda di ciò con ragione, essendo veramente molto più d’altre
versioni finora vedute fedele [ma Maffei è stato ancor più fedele all’originale, come vuol
dimostrare Torelli tramite non pochi esempi: vedi Traduzioni poetiche cit., p. 14]. Ma
quando altro conseguir non si voglia traducendo, bisogna tradurre in prosa, e non in
versi» (ivi, p. 13).
20
Negletta non solo dal più encomiato traduttore del poema virgiliano, Annibal Caro,
ma dagli stessi maestri latini, i quali, quando tradussero, «d’intera fedeltà non fecero
caso», quando non usarono «molto arbitrio»: «Da i frammenti che ci sono rimasti della
versione d’Arato fatta da Cicerone, e che si hanno raccolti, e illustrati dal Grozio, si può
conoscere qual fosse il metodo, che tenne nel tradurre quel grand’ingegno, e quanto
credesse di potersi far lecito. Anche Catullo trasportando dal Greco usò molto arbitrio,
come apparisce da quell’Oda, Ille mi par esse Deo videtur etc. che recò in latino da Saffo,
e così fecero molt’altri ancora, i quali d’intera fedeltà non fecero caso» (ivi, pp. 7-8).
21
«Ma perché si crede da molti, e s’insegna, non esser possibile di tradurre con fedeltà,
salva l’eleganza, io dirò, che desidero nell’istesso tempo di far versi, che riescano affatto
grati a chi gusta il delicato della nostra Poesia, e non abbiano imperfezione, per cui si conosca come non si compone d’invenzione, ma si trasporta da lingua diversa. In questo
consiste veramente il sommo della difficoltà, ma cose molto più difficili si sono ottenute
con la fatica, e con lo studio. Un’altra mira ho anche avuto in questa mia impresa, cioè di
contribuire, per quanto potessi colle mie piccole forze, a rendere più perfetto il verso sciol-
210
ILVANO CALIARO
L’idea di traduzione ch’ebbe Torelli, e di cui egli volle dar prova volgarizzando dal latino e dal greco22, d’impronta dichiaratamente maffeiana, s’accorda comunque con il suo classicismo intransigente, chiuso quasi visceralmente
alla modernità (non peraltro al nuovo sapere scientifico), che gli fa definire
«barbara» l’età presente, avendo essa abiurato i «nostri buoni antichi» (greci,
latini e italiani)23 a favore della nuova cultura, di irradiazione francese, dilagante in Europa, quel «torrente della barbarie oltremontana, che d’ogni parte
c’inonda»24, inarginabile per i pochi che ormai lo contrastano, «colpa della
viltà italiana, che si fa idoli in tutto i Francesi»25. Questo misogallismo, da cui
si dissocia con garbo Pindemonte, che nel suo Elogio di Torelli coglie forse
l’influenza di Maffei26, è comunque aspetto di un suo più generale misoneismo, che sul piano prettamente letterario trova legittimazione nel classicismo
ufficiale e accademico patavino, in Giannantonio Volpi e nel suo successore
sulla cattedra d’umanità Clemente Sibiliato, condiscepolo e amico carissimo
dello stesso Torelli; come pure in quel luogo di straordinaria educazione o,
negli auspici specie dei laudatores temporis acti, di rieducazione umanistica,
che era il Seminario di Padova; cui s’aggiungeva, sempre a Padova, l’ultracismo classicistico, l’omerolatria, della cerchia di Paolo Brazolo Milizia, cui
to, senza il quale, come altri [Maffei] ha osservato, non sarà mai possibile di far un Poema
Epico, che giunga alla bellezza, e alla perfezione degli antichi esemplari» (ivi, pp. 8-9).
22
Oltre al primo canto dell’Eneide (in Traduzioni poetiche… cit.), Il Pseudolo comedia di
M. Accio Plauto tradotta in versi italiani. Si aggiunge la traduzione d’alcuni Idillj di Teocrito e di Mosco, Firenze, [s.e.] 1745 e Poemetto di Catullo intorno alle nozze di Peleo e di
Teti ed un epitalamio dello stesso tradotti in versi italiani, Verona, per gli Eredi di Marco
Moroni 1781. Ha lasciato inedite la traduzione di altri idilli di Teocrito e una versione
dal greco in latino di alcune favole di Esopo.
23
A Clemente Sibiliato, il 23 gennaio 1758 (in Opere varie in verso e in prosa di Giuseppe Torelli veronese cit., vol. II, p. 195).
24
A Clemente Sibiliato, il 24 gennaio 1769 (ivi, p. 230). Allo stesso, il 17 luglio 1777:
«Credo passeranno pochi anni, che dismesso lo studio degli antichi originali, neglette le
lingue dotte greca e latina, e, se a Dio piace, l’italiana ancora, c’immergeremo in una barbarie peggiore di quella del nono secolo» (ivi, p. 262).
25
Nella cit. lettera a Sibiliato del 23 gennaio 1758 (ivi, p. 195). Tra i pochi che osano
contrastare la barbarie oltremontana s’annovera lo stesso Torelli che difende Dante dalle
ingiurie di Voltaire nella Lettera sopra Dante Alighieri contro il sig. di Voltaire, Verona, per
gli eredi di M. Moroni 1781.
26
«verso gli scrittori Francesi, forse anche per lo molto suo usare col Marchese Maffei,
fu così difficile, che poté ad alcuni sembrare ingiusto» (Elogi di letterati scritti da Ippolito
Pindemonte cit., vol. II, p. 79).
LA TRADUZIONE DAI CLASSICI A VERONA NEL SETTECENTO
211
aveva inizialmente aderito, salvo poi presto rinnegarlo, Melchiorre Cesarotti.
E di Cesarotti Torelli osteggia proprio il modernismo, che lo ha indotto a
tradurre e a divulgare l’opera di Ossian27, nonché la stessa sua modalità traduttiva, liberissima in versi, applicata anche, sino alla ricreazione, a Omero28.
Certo anche Torelli tradusse, apprezzato, dal moderno, l’Elegy di Gray29: ma
se non a contraggenio, lo fece per puro obbligo d’amicizia30.
27
A Clemente Sibiliato, il 24 gennaio 1769: «[Cesarotti] Io l’ho sempre tenuto per un
bellissimo ingegno, né altro ho desiderato in lui che amore nazionale» (in Opere varie in
verso e in prosa di Giuseppe Torelli veronese cit., vol. II, p. 230); e il 21 giugno 1777:
«L’Iliade latina dell’ab. Raimondo Cunich qui non è ancor giunta, e solo si conosce per
fama, che qui pure è precorsa assai favorevole. Io non ho veduto di lui se non che la
traduzione d’alcuni epigrammi dell’Antologia, e dell’Elegia di Callimaco sopra i bagni
di Pallade, tradotta già dal Poliziano e poi dal Checozzi. Quantum lenta salix. Piacemi
l’impresa del valoroso vostro collega, sola capace di rendere immortale il suo nome. Altro
che Ossian! Ma io vorrei rappresentare Omero qual è a puntino, quando pure il valessi,
con tutte le sue virtù e con tutti i suoi vizj. Se potrebbe essere più avvenente, ci pensi sua
madre a riformarlo» (ivi, p. 260).
28
Vedi la nota precedente.
29
La traduzione fu pubblicata alcuni anni più tardi: Elegia di Tommaso Gray scritta in
un cimitero campestre, tradotta in versi italiani, Verona, per gli eredi di A. Carattoni 1776.
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A Clemente Sibiliato, il 25 giugno 1771: «Io mi ritardava dal mandarvela, perché
dubitava che voi non foste per approvare ch’io m’occupassi con tanto studio intorno a
cose moderne: in tenui labor, et tenuis gloria. Che volete ch’io vi dica? Molte cose si fanno
per sodisfare al desiderio degli altri, che senza questo non si farebbero mai. Io ho dovuto
cedere alle istanze di Lord Bute [John Stuart, conte di Bute, primo ministro di Giorgio
III tra il 1762 e il 1763] gran protettore delle lettere e dei letterati, ed amicissimo delle
Muse italiane, e perciò degno di tutti gli onori» (in Opere varie in verso e in prosa di Giuseppe Torelli veronese cit., vol. II, p. 236). Scriverà allo stesso Sibiliato, dopo la pubblicazione della versione, il 23 aprile 1777: «circa l’aver tradotto l’Elegia inglese […] molte
cose si fanno per l’altrui voglia […] essendomi stato addossato quel peso» (ivi, p. 276).