sabato 7 dicembre 2024

Grand Tour - Miguel Gomes

si alternano immagini ambientate due secoli fa e altre girate in questi anni, in un bianco e nero essenziale.

la fuga di un uomo dalla sua fidanzata attraverso diversi paesi orientali, e la testardaggine di lei nel cercarlo.

(il regista non spiega perche Edward fugge, ma non importa).

uno si chiederà cosa ci fanno tutti quegli europei e statiunitensi nell'Estremo Oriente. 

Miguel Gomes non approfondisce, ma tutta quella gente sono agenti del colonialismo, ladri di economie e territori, a diverso titolo.

la risata di Molly è davvero simpatica, non perdetevela.

un miracolo che un film come questo arrivi in sala, addirittura (!) in una cinquantina di sale.

buona visione - Ismaele



 

Grand Tour è la rappresentazione manieristica di un cinema in movimento, visionario nelle sue semplici aspirazioni. Un cinema che bacchetta la situazione sociale senza averne piena coscienza e senza volerlo fare. Miguel Gomes è tra i riferimenti contemporaneo della “finzione documentaristica”.

Grand Tour è estetica che attraversa l’urbanistica storica. Si! Anche. L’attenzione per i dettagli è la mappa di un film così complesso. Si lavora per geografie e mappature. Edward e Molly sono la rappresentazione di una condizione storico-fisica; sono, esattamente, il tipo di persone che immagineremmo nel ‘700, cappotti, cappelli, consumati dal freddo, intiepiditi dai lumi di bische, di chiese o dipartimenti. Tutto ridotto in una cartina che non sgrana oltre i 16mm ma si inserisce dentro.

Grand Tour è la gloria di Miguel Gomes, anche se il regista dichiara di non esserne particolarmente affezionato, di non esser realmente riuscito a catturare ciò che l’occhio/pensiero nudo ha visto, a riproporne la sua bellezza. Eppure… questo film è bellissimo!

Grand Tour: valutazione e conclusione

*Critica y analisi. Disturbiamo Gilles Deleuze, solo come punto di partenza nella parte più tecnica. “Il delirio è l’unica apparenza sensitiva che sia in grado di mostrarci la passionalità per qualcosa”. Nel caso del filosofo si esprime con la scrittura che traduce il pensiero, smascherando in sillabe pause e accenti il processo mentale. Nel caso di Gomes la sperimentazione visiva avviene attraverso la costruzione di una “storia” che non ha una sua soluzione ma che induce all’esplorazione degli altri in se stessa.

Grand Tour è quindi una storia di amore, un thriller, un drammatico ma è soprattutto il “soppalco immaginativo” di una ricerca mai fine a se stessa. Da bravi scolari la sceneggiatura è lievita di manifestazioni linguistiche complesse addolcite da una scenografia che, perché in bianco e nero, assolutizza la richiesta di non avere pretese e di non ricercare intenzioni… quanto meno registiche. Pretenderlo spezzerebbe l’incanto del cinema sperimentale, l’incanto dell’indipendenza artistica che rimembra una storia cinematografica possente ed eurocentrica. Dai vizi “viscontini”, i ribaltamenti parigini, le metafore sovietiche l’analisi si completa con un’affermazione precisa: Grand Tour è l’erede di filmografie divergenti, rivoluzionarie, acute; Miloš Forman nell’estetica, Alejandro Jodorowsky nei concetti, Miguel Gomes nella mente esecutiva.

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Il cineasta di Tabu e Le mille e una notte – Arabian Nights si è dovuto confrontare in questo caso con i limiti imposti alla produzione dalla pandemia, col Covid che ha bloccato la troupe in uno studio a Lisbona col set cinese del lungometraggio situato a 3500 km di distanza, fra Shanghai e la provincia del Sichuan (sono stati utilizzati anche i set di Cinecittà, coi teatri di posa aricreare soffusamente il passato in discontinuità con gli squarci più caotici del presente). La sensazione è che tale ostacolo sia stato risolto muovendosi ancora di più in direzione di un’ecletticità e di una frammentarietà che determinano le varie piste e tracce del racconto, scandendone tanto i momenti più strampalati e surreali quanto quelli più lirici e addirittura spirituali.

Quello di Grand Tour è dunque un altro esperimento di un autore ormai abituato a una metodica da rabdomante, che usa la narrazione come mosaico polifonico ma anche come infinito serbatoio di squarci preziosi attraverso i quali lasciare emergere la propria poetica. In questo caso, in un percorso che attraversa diversi paesi asiatici, dal Giappone alle Filippine passando per CinaThailandia e Vietnam, il respiro della riflessione sugli strascichi del colonialismo dell’Oriente è il convitato di pietra che tiene insieme tutto, come controcampo filosofico e morale delle immagini mostrate, ma è soprattutto il dispositivo narratologico e ciò che ne deriva a guidare lo sguardo di Gomes e le sue direzioni e bisettrici.

Grand Tour, a conti fatti, è un film in cui il senso si arrende al cospetto delle infinite possibilità che derivano dall’accettare l’impossibilità di comprensione umana – e occidentale in particolare – rispetto a certi misteri esoterici e insondabili che abitano la cultura orientale. In questa resa c’è una dichiarazione d’intenti liberatoria, che si abbandona a momenti di cinema purissimo (l’esecuzione di My Way di Frank Sinatra in un locale, tra le sequenze più belle, stranianti e magnetiche di tutta Cannes 77, ma anche il valzer Sul bel Danubio Blu di Johann Strauss piazzato tra le strade di Saigon) e a una zona d’ombra rigenerante tra la malinconia attonita e la vitalità comica e strampalata (la peculiarissima risata di Molly è decisamente indimenticabile).

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Anche il protagonista di questa storia deve onorare un patto. Edward (Gonçalo Waddington), funzionario per conto dell’Impero britannico nella Rangoon d’inizio Novecento (ma parla in portoghese) deve sposare la fidanzata Molly (Crista Alfaiate). Quando però va ad accoglierla al porto, sotto un monsone e con un mazzo di gigli bianchi in mano, ci ripensa e scappa. E lì comincia il suo tour – culturale, esistenziale, spirituale – per il Sudest asiatico, che è anche il nostro attraverso il cinema di Gomes.

E poi ne comincia un altro. Quello di Molly, come in un Rashōmon versione Lonely Planet d’autore, in parte girato in un maestoso e mai autocompiaciuto bianco e nero (la fotografia è di Rui Poças, Gui Liange e del solito geniale Sayombhu Mukdeeprom), in parte nei colori del documentario antropologico, mischiando oltre alle lingue e agli stili anche i tempi, le mode, facendosi opera sincretica, meticcia, davvero globale. Mentre i diversi narratori ci raccontano la storia ora in indonesiano ora in cinese, squillano iPhone nell’Indochine coloniale e i nostri eroi di ieri si muovono nel traffico di oggi, si passa da Maugham (fra le ispirazioni dichiarate) e i resoconti alcolici di Lawrence Osborne (almeno son venuti in mente a me).

 

È un film parlato e viaggiato, Grand Tour, che segue le peregrinazioni dell’autore fra “i Paesi, i generi, i tempi, la realtà e l’immaginazione”, ma anche nella storia del suo stesso matrimonio, nella guerra tra i sessi (attraverso “stereotipi universali: la testardaggine delle donne che trionfa sulla codardia degli uomini”). E ovviamente nel cinema (le visibili ricostruzioni nei teatri di posa di Lisbona e Cinecittà, “le screwball comedies degli anni ’30”), e nella letteratura, perché quella è sempre la spina dorsale. Dopo il bellissimo Tabu, arrivato anche da noi ormai più di dieci anni fa, l’opera monstre di Gomes resta Le mille e una notte – Arabian Nights, il film-mondo in tre volumi (Inquieto, Desolato, Incantato) che partiva dai racconti di Shahrazād per mischiare, anche lì sincreticamente, la Storia reimmaginata di ieri con quella del Portogallo di oggi.

Pure Grand Tour e i suoi non-eroi sono inquieti, desolati, sempre incantati, alla ricerca di un posto nel mondo e soprattutto nel cinema, che se resta vivo è anche grazie a film come questo, che prendono e partono, all’avventura.

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L'operazione di Grand Tour è molto simile a quella di Tabu: il passato che collassa e trova senso nel presente, o viceversa; il mito effimero, sbiadito e sbriciolato dal tempo, del colonialismo e la sua revisione critica; l’amore vissuto come impossibilità, come miscela di melodramma e comicità paradossale; l'uso della voce narrante come veicolo primario della parola. Ma la trama che segue un funzionario britannico in fuga dalla fidanzata nell'Indocina coloniale è secondaria rispetto a come Miguel Gomes racconta, con le immagini, l'Asia del presente. Grand Tour è allora un viaggio visionario nel tempo e nello spazio, che esplora le potenzialità contemporanee del racconto per immagini e che è capace di sprazzi di grandissimo cinema: carico di spessore teorico ma anche, sempre, di felicissima ironia. (Federico Gironi - Comingsoon.it)

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La fuga come occasione di tentata salvezza sia da parte di chi fugge, sia da parte di chi insegue. Il viaggio di una coppia di promessi sposi motivata solo da un lato, diventa il motivo per entrambi utile a scoprire che qualcosa per cui vale la pena di vivere esiste ancora.

Qualcosa per cui vale la pena non solo di vivere, ma anche di rischiare pur di proseguire un viaggio avventuroso fino alla morte.

 

L'ultimo gioiello ammaliante del cineasta portoghese Miguel Gomes non arriva forse a toccare la magica alchimia del capolavoro Tabù (2012), ma certo completa in modo magistrale, per stile di regia e originalità di racconto, un cerchio esistenziale che si motiva tramite un viaggio di coppia spaiata nato da opposte motivazioni.

 

Quelle che faranno in modo che i due non si incontrino mai.

Un percorso circolare attorno al globo, come quello della ruota dei divertimenti che si vede attrarre pubblico presso un luna park ove viene fatta girare manualmente con destrezza e tecnica affinata da abili acrobati e ginnasti tutt'altro che improvvisati.

 

Un parco d'attrazioni ove spicca anche un teatro di marionette che ripercorre pure lui le tappe di un viaggio non dissimile alla disputa che oppone due promessi sposi divisi tra vigliaccheria e voglia di avventura.

Grand Tour è dunque un percorso raccontato più a parole, tramite io narranti in differenti linguaggi autoctoni, ma pure plasmato da immagini di una bellezza struggente e da ricostruzioni suadenti di una natura rigogliosa e superiore.

Gomes ci regala un film che esalta la magia del cinema contrapposto tra narrazione incalzante e immagine contemplativa, celebrando una umanità che dimostra stoicismo anche nella vigliaccheria più spudorata o nella pedanteria più immotivata. 

Questo più recente lavoro di Gomes si rivela come uno dei veri grandi film del 2024.

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La prima parte di Grand Tour è tutta dedicata a Edward e al suo vagare da un paese all’altro, tra fiumi, mari, foreste, palazzi e tuguri. Una fuga che toccherà, dopo la Birmania, Singapore, Thailandia, Shanghai, la parte di Cina vicino al Tibet, poi le Filippine, il Giappne. Una geografia che è anche una mappatura della fascinazione esercitata dall’Oriente sull’Occidente. “Ce ne andremo dall’Asia senza averla mai capita”, dice un inglese insabbiato in un luogo remoto. Molly è invece la padrona della seconda parte, ripercorrendo i luoghi toccati da Edward, sfiorandolo più volte, spesso mancandolo. Di più è meglio non rivelare. Nei lunghi spostamenti dei due promessi sposi incontriamo ambigui padroni venuti dall’Europa, locali ora ostili ora (fin troppo) fedeli servi dei colonialisti, cortigiani di sovrani indocinesi, americani misteriosamente arricchiti, in una galleria che è la summa degli infiniti caratteri incontrati nel cinema coloniale della nostra vita. Con sequenze memorabili, il treno deragliato nella giungla o la risalita da parte di Molly di un fiume tra mille rischi che ricorda quella del protagonista del coppoliano Apocalypse Now (e di Cuore di tenebra di Conrad). Si esce dal cinema con più dubbi che certezze. Grand Tour è un film volutamente incerto e indefinito, molto libero, oscillante tra cinema del reale e il cinema più ostentatamente artificiale-artificioso e “finto”, aperto a infiniti rimandi e suggestioni, ma anche sfuggente, inconcluso. Anche troppo derivato dal precedente Tabu.

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