si alternano immagini ambientate due secoli fa e altre girate in questi anni, in un bianco e nero essenziale.
la fuga di un uomo dalla sua fidanzata attraverso diversi paesi orientali, e la testardaggine di lei nel cercarlo.
(il regista non spiega perche Edward fugge, ma non importa).
uno si chiederà cosa ci fanno tutti quegli europei e statiunitensi nell'Estremo Oriente.
Miguel Gomes non approfondisce, ma tutta quella gente sono agenti del colonialismo, ladri di economie e territori, a diverso titolo.
la risata di Molly è davvero simpatica, non perdetevela.
un miracolo che un film come questo arrivi in sala, addirittura (!) in una cinquantina di sale.
buona visione - Ismaele
…Grand Tour è
la rappresentazione manieristica di un cinema in movimento, visionario nelle
sue semplici aspirazioni. Un cinema che bacchetta la situazione
sociale senza averne piena coscienza e senza volerlo fare. Miguel Gomes
è tra i riferimenti contemporaneo della “finzione documentaristica”.
Grand Tour è estetica che attraversa
l’urbanistica storica. Si! Anche. L’attenzione per i dettagli è la mappa di
un film così complesso. Si lavora per geografie e mappature. Edward e Molly
sono la rappresentazione di una condizione storico-fisica; sono, esattamente,
il tipo di persone che immagineremmo nel ‘700, cappotti, cappelli, consumati
dal freddo, intiepiditi dai lumi di bische, di chiese o
dipartimenti. Tutto ridotto in una cartina che non sgrana oltre i 16mm ma
si inserisce dentro.
Grand
Tour è la gloria
di Miguel Gomes, anche se
il regista dichiara di non esserne particolarmente affezionato, di non esser
realmente riuscito a catturare ciò che l’occhio/pensiero nudo ha visto, a riproporne
la sua bellezza. Eppure… questo film è bellissimo!
Grand Tour:
valutazione e conclusione
*Critica
y analisi. Disturbiamo Gilles Deleuze, solo come punto di
partenza nella parte più tecnica. “Il delirio è l’unica apparenza sensitiva che
sia in grado di mostrarci la passionalità per qualcosa”. Nel caso del filosofo
si esprime con la scrittura che traduce il pensiero, smascherando in sillabe
pause e accenti il processo mentale. Nel caso di Gomes la
sperimentazione visiva avviene attraverso la costruzione di una “storia” che
non ha una sua soluzione ma che induce all’esplorazione degli altri in se
stessa.
Grand Tour è quindi una storia di
amore, un thriller, un drammatico ma è soprattutto il “soppalco immaginativo”
di una ricerca mai fine a se stessa. Da bravi scolari la sceneggiatura
è lievita di manifestazioni linguistiche complesse addolcite da una scenografia
che, perché in bianco e nero, assolutizza la richiesta di non avere pretese e
di non ricercare intenzioni… quanto meno registiche. Pretenderlo spezzerebbe
l’incanto del cinema sperimentale, l’incanto dell’indipendenza artistica che
rimembra una storia cinematografica possente ed eurocentrica. Dai vizi
“viscontini”, i ribaltamenti parigini, le metafore sovietiche l’analisi si
completa con un’affermazione precisa: Grand Tour è l’erede
di filmografie divergenti, rivoluzionarie, acute; Miloš Forman nell’estetica,
Alejandro Jodorowsky nei concetti, Miguel Gomes nella mente esecutiva.
…Il
cineasta di Tabu e Le mille e una notte
– Arabian Nights si è dovuto confrontare in questo caso con i
limiti imposti alla produzione dalla pandemia, col Covid
che ha bloccato la troupe in uno studio a Lisbona col set
cinese del lungometraggio situato a 3500 km di
distanza, fra Shanghai e la provincia
del Sichuan (sono stati utilizzati anche i set
di Cinecittà, coi teatri di posa aricreare
soffusamente il passato in discontinuità con gli squarci più caotici del
presente). La sensazione è che tale ostacolo sia stato risolto
muovendosi ancora di più in direzione di un’ecletticità e di una frammentarietà
che determinano le varie piste e tracce del racconto, scandendone tanto i
momenti più strampalati e surreali quanto quelli più lirici e addirittura
spirituali.
Quello
di Grand Tour è dunque un altro esperimento di un autore
ormai abituato a una metodica da rabdomante, che usa la
narrazione come mosaico polifonico ma anche come
infinito serbatoio di squarci preziosi attraverso i quali lasciare emergere la
propria poetica. In questo caso, in un percorso che attraversa diversi paesi
asiatici, dal Giappone alle Filippine passando
per Cina, Thailandia e Vietnam,
il respiro della riflessione sugli strascichi del colonialismo
dell’Oriente è il convitato di pietra che tiene insieme tutto,
come controcampo filosofico e morale delle immagini mostrate, ma è soprattutto
il dispositivo narratologico e ciò che ne deriva a
guidare lo sguardo di Gomes e le sue direzioni e bisettrici.
Grand Tour, a conti
fatti, è un film in cui il senso si arrende al cospetto delle infinite
possibilità che derivano dall’accettare l’impossibilità di
comprensione umana – e occidentale in particolare – rispetto a certi misteri
esoterici e insondabili che abitano la cultura orientale. In questa
resa c’è una dichiarazione d’intenti liberatoria, che si abbandona a momenti di
cinema purissimo (l’esecuzione di My Way di Frank
Sinatra in un locale, tra le sequenze più belle, stranianti e
magnetiche di tutta Cannes 77, ma anche il valzer Sul
bel Danubio Blu di Johann Strauss piazzato
tra le strade di Saigon) e a una zona d’ombra rigenerante
tra la malinconia attonita e la vitalità
comica e strampalata (la peculiarissima risata di Molly è
decisamente indimenticabile).
…Anche il protagonista di questa storia deve
onorare un patto. Edward (Gonçalo Waddington), funzionario per conto
dell’Impero britannico nella Rangoon d’inizio Novecento (ma parla in
portoghese) deve sposare la fidanzata Molly (Crista Alfaiate). Quando però va
ad accoglierla al porto, sotto un monsone e con un mazzo di gigli bianchi in
mano, ci ripensa e scappa. E lì comincia il suo tour – culturale, esistenziale,
spirituale – per il Sudest asiatico, che è anche il nostro attraverso il cinema
di Gomes.
E poi ne comincia un altro. Quello di Molly, come in un Rashōmon versione
Lonely Planet d’autore, in parte girato in un maestoso e mai autocompiaciuto
bianco e nero (la fotografia è di Rui Poças, Gui Liange e del solito geniale
Sayombhu Mukdeeprom), in parte nei colori del documentario antropologico,
mischiando oltre alle lingue e agli stili anche i tempi, le mode, facendosi
opera sincretica, meticcia, davvero globale. Mentre i diversi narratori ci raccontano
la storia ora in indonesiano ora in cinese, squillano iPhone nell’Indochine
coloniale e i nostri eroi di ieri si muovono nel traffico di oggi, si passa da
Maugham (fra le ispirazioni dichiarate) e i resoconti alcolici di Lawrence
Osborne (almeno son venuti in mente a me).
È un film parlato e viaggiato, Grand Tour, che segue le
peregrinazioni dell’autore fra “i Paesi, i generi, i tempi, la realtà e
l’immaginazione”, ma anche nella storia del suo stesso matrimonio, nella guerra
tra i sessi (attraverso “stereotipi universali: la testardaggine delle donne
che trionfa sulla codardia degli uomini”). E ovviamente nel cinema (le visibili
ricostruzioni nei teatri di posa di Lisbona e Cinecittà, “le screwball
comedies degli anni ’30”), e nella letteratura, perché quella è sempre
la spina dorsale. Dopo il bellissimo Tabu, arrivato anche da noi
ormai più di dieci anni fa, l’opera monstre di Gomes
resta Le mille e una notte – Arabian Nights, il film-mondo in tre
volumi (Inquieto, Desolato, Incantato) che partiva dai racconti di
Shahrazād per mischiare, anche lì sincreticamente, la Storia reimmaginata di
ieri con quella del Portogallo di oggi.
Pure Grand Tour e i suoi non-eroi sono inquieti, desolati,
sempre incantati, alla ricerca di un posto nel mondo e soprattutto nel cinema,
che se resta vivo è anche grazie a film come questo, che prendono e partono,
all’avventura.
…L'operazione di Grand Tour è molto simile a quella di
Tabu: il passato che collassa e trova senso nel presente, o viceversa; il mito
effimero, sbiadito e sbriciolato dal tempo, del colonialismo e la sua revisione
critica; l’amore vissuto come impossibilità, come miscela di melodramma e
comicità paradossale; l'uso della voce narrante come veicolo primario della
parola. Ma la trama che segue un funzionario britannico in fuga dalla fidanzata
nell'Indocina coloniale è secondaria rispetto a come Miguel Gomes racconta, con
le immagini, l'Asia del presente. Grand Tour è allora un viaggio visionario nel
tempo e nello spazio, che esplora le potenzialità contemporanee del racconto
per immagini e che è capace di sprazzi di grandissimo cinema: carico di
spessore teorico ma anche, sempre, di felicissima ironia. (Federico Gironi -
Comingsoon.it)
La fuga
come occasione di tentata salvezza sia da parte di chi fugge, sia da parte di
chi insegue. Il viaggio di una coppia di promessi sposi motivata solo da un
lato, diventa il motivo per entrambi utile a scoprire che qualcosa per cui vale
la pena di vivere esiste ancora.
Qualcosa
per cui vale la pena non solo di vivere, ma anche di rischiare pur di
proseguire un viaggio avventuroso fino alla morte.
L'ultimo
gioiello ammaliante del cineasta portoghese Miguel Gomes non
arriva forse a toccare la magica alchimia del capolavoro Tabù (2012), ma certo completa in modo
magistrale, per stile di regia e originalità di racconto, un cerchio
esistenziale che si motiva tramite un viaggio di coppia spaiata nato da opposte
motivazioni.
Quelle che
faranno in modo che i due non si incontrino mai.
Un percorso
circolare attorno al globo, come quello della ruota dei divertimenti che si
vede attrarre pubblico presso un luna park ove viene fatta girare manualmente
con destrezza e tecnica affinata da abili acrobati e ginnasti tutt'altro che
improvvisati.
Un parco
d'attrazioni ove spicca anche un teatro di marionette che ripercorre pure lui
le tappe di un viaggio non dissimile alla disputa che oppone due promessi sposi
divisi tra vigliaccheria e voglia di avventura.
Grand Tour è
dunque un percorso raccontato più a parole, tramite io narranti in differenti
linguaggi autoctoni, ma pure plasmato da immagini di una bellezza struggente e
da ricostruzioni suadenti di una natura rigogliosa e superiore.
Gomes ci regala un film che esalta la magia
del cinema contrapposto tra narrazione incalzante e immagine contemplativa,
celebrando una umanità che dimostra stoicismo anche nella vigliaccheria più
spudorata o nella pedanteria più immotivata.
Questo più
recente lavoro di Gomes si rivela come uno dei veri grandi film del 2024.
…La prima parte di Grand Tour è
tutta dedicata a Edward e al suo vagare da un paese all’altro, tra fiumi, mari,
foreste, palazzi e tuguri. Una fuga che toccherà, dopo la Birmania, Singapore,
Thailandia, Shanghai, la parte di Cina vicino al Tibet, poi le Filippine, il
Giappne. Una geografia che è anche una mappatura della fascinazione esercitata
dall’Oriente sull’Occidente. “Ce ne andremo dall’Asia senza averla mai capita”,
dice un inglese insabbiato in un luogo remoto. Molly è invece la padrona della
seconda parte, ripercorrendo i luoghi toccati da Edward, sfiorandolo più volte,
spesso mancandolo. Di più è meglio non rivelare. Nei lunghi spostamenti dei due
promessi sposi incontriamo ambigui padroni venuti dall’Europa, locali ora
ostili ora (fin troppo) fedeli servi dei colonialisti, cortigiani di sovrani
indocinesi, americani misteriosamente arricchiti, in una galleria che è la
summa degli infiniti caratteri incontrati nel cinema coloniale della nostra
vita. Con sequenze memorabili, il treno deragliato nella giungla o la risalita
da parte di Molly di un fiume tra mille rischi che ricorda quella del
protagonista del coppoliano Apocalypse Now (e
di Cuore di tenebra di Conrad). Si esce dal cinema
con più dubbi che certezze. Grand Tour è
un film volutamente incerto e indefinito, molto libero, oscillante tra cinema
del reale e il cinema più ostentatamente artificiale-artificioso e “finto”,
aperto a infiniti rimandi e suggestioni, ma anche sfuggente, inconcluso. Anche
troppo derivato dal precedente Tabu.
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