leopardi

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GIACOMO LEOPARDI

LA VITA (1798-1837)

I primi anni

Nasce nel 1798 a Recanati, piccola città delle Marche, da una famiglia nobile.
Il padre aveva una grande passione per la letteratura, raccolse una ricca biblioteca,
nutrì grande ammirazione e affetto per il figlio.
La madre, donna austera e inflessibile, si occupava solo di risollevare il patrimonio
familiare oberato dai debiti, disinteressandosi completamente del figlio, tanto da
diventare la prima causa della sua infelicità.
Maggiore di 10 fratelli mostra presto un'indole vivace e sensibile. Fu educato da
precettori ecclesiastici.
Dai 10 ai 17 anni Giacomo decise di studiare da solo: si chiuse così nella biblioteca
paterna, affrontando prima di tutto la filologia greca e latina, imparò poi l'ebraico e le
lingue moderne, scrisse opere di erudizione e un inno in greco.

La “conversione filosofica” e gli Idilli

Lo studio “matto e disperatissimo” di questi 7 anni gli consente di raggiungere


precocemente una conoscenza dei classici e un’erudizione eccezionali. Ma la sua
salute ne risente, tanto che a 18 anni teme per la sua vita.
Ben presto, nel 1817, si riprese grazie anche a tre forti spinte emotive:
− il desiderio di gloria, che immaginò potesse realizzarsi grazie all'amicizia stretta
con Pietro Giordani, con il quale tenne una corrispondenza. Leopardi aveva
tradotto il secondo libro dell'Eneide, e lo aveva inviato ai più famosi letterati
del tempo. Giordani esaltò le doti del giovane poeta e si recò alcuni giorni a
Recanati, compiendo con lui una gita a Macerata (1818);
− l'amore: nel 1817 si innamorò di una sua bellissima cugina di 26 anni, Geltrude
Cassi Lazzari, giunta a Recanati, in casa Leopardi per metter in collegio una figlia e
alla sua partenza il poeta compose la lirica Il primo amore; poco tempo dopo nel
1818, si innamorò di Teresa Fattorini, figlia del suo cocchiere, morta molto
giovane, per lei Leopardi scriverà molti anni più tardi A Silvia;
− la patria, che egli cantò con spirito liberale nelle due canzoni All'Italia e A
Dante (1818). Esse non piacquero al padre, aristocratico e reazionario, ma
attirarono su Leopardi le simpatie degli ambienti carbonari.

Giacomo si sente soffocare dall'ambiente zotico e vile di Recanati e, dopo un vano


tentativo di essere assunto alla Biblioteca Vaticana, non avendo ottenuto il permesso per
motivi economici della famiglia di lasciare la sua città, progetta una fuga clandestina
nel 1819, lasciando al padre una lettera che esprimeva il suo desiderio di raggiungere il
successo. Il progetto fu scoperto e il giovane Leopardi, tenuto sotto stretta sorveglianza, si
rinchiuse in una malinconia sempre più cupa.
Legge i romantici e partecipa alla polemica tra classicisti e romantici schierandosi
dalla parte dei primi, ma rivelando un sensibilità romantica.
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Nel ’19 ci sono i primi problemi di salute.
In questo periodo (dal 1818 al 1822), oltre alle liriche sopra accennate, scrisse anche i
seguenti Idilli: Il Sogno, L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria;
inoltre le canzoni: Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel
pallone, Bruto minore, Alla primavera o delle favole antiche, Ultimo canto di Saffo.

Fuori Recanati

Dopo vari tentativi andati a vuoto per ottenere un lavoro che gli permettesse di lasciare la
sua città, Leopardi ottiene il permesso di lasciare la famiglia, grazie all'intercessione
dello zio materno, e nel 1822 parte per Roma.
La città gli sembrò molto superficiale e poco ospitale.
A causa dell'assenza di un impiego Leopardi e' costretto a tornare a Recanati dove
rimane per quasi due anni, finché un editore milanese gli propone di di andare da lui
a Milano per curare un'edizione dei classici.
In questo periodo compose la maggior parte delle Operette morali (1824), prima
sintesi del suo pensiero.
Dal ’25 al ’28 il poeta vagabonda per l’Italia in cerca di un impiego che gli
consentisse di lasciare per sempre Recanati .
Leopardi rimane poche settimane a Milano, che gli sembrò ancora meno ospitale di
Roma, dove conobbe Monti e poi i trasferì a Bologna, che gli fece un'ottima
impressione. Qui strinse molte care amicizie e amò appassionatamente la contessa
Teresa Carniani Malvezzi, amica di letterati e letterata lei stessa.
Dopo un altro soggiorno a Recanati, dove passò l'inverno, nel 1827 Leopardi si trasferì a
Firenze, sia per l'amicizia che lo legava al Giordani, sia per il desiderio di vivere in
Toscana. Qui entrò in contatto con gli intellettuali del Viesseux, tra i quali Manzoni,
ma si trovò più che mai solo, tra questi intellettuali ottimisti, amanti del progresso e
dell'idea della perfettibilità dell'uomo.
Si trasferisce poi a Pisa, dove il clima mite giova alla sua salute e dove si diede anche alla
vita mondana.
Durante il periodo pisano scrive i due canti Il Risorgimento e A Silvia e dà inizio alla
stagione poetica dei “Grandi idilli”.
Nel ’28 è costretto, per ragioni economiche, a tornare a Recanati (insieme a Gioberti, che
si ferma qualche giorno a casa sua). Qui rimane con suo grande dolore per quasi due
anni, finché, dopo altri tentativi per trovare un lavoro, esce di nuovo nel ‘30, grazie
all’intervento degli amici toscani che, per riaverlo con loro a Firenze, gli forniscono per
un anno un modesto assegno senza un preciso obbligo di restituzione.
In questo periodo scrive Le ricordanze, Il passero solitario, La quiete dopo la
tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante
dell'Asia.

Gli ultimi anni

A Firenze rimase dal 1830 al 1833, e nonostante i suoi gravi problemi di salute, cura
l'edizione definitiva dei Canti (1831).
In questo periodo nutre una forte passione per Fanny Targioni Tozzetti, il suo ultimo
e sfortunato amore, ma ebbe una cocente delusione e, dopo due anni, si convinse che

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anche l'amore era un'illusione tramontata per sempre.
In occasione dei moti carbonari del 1831, Recanati lo elesse deputato
dell'Assemblea Nazionale che doveva convocarsi a Bologna, ma l'incarico non fu
mai portato a termine perché pochi giorni dopo la nomina gli Austriaci entrarono
in città.
Strinse amicizia con l’esule politico napoletano Antonio Ranieri e decise di far con lui
vita comune, per cui lo seguì prima a Roma, poi a Firenze e infine a Napoli.
In questo periodo scrisse tre liriche ispirate all'amore per la Targioni Tozzetti, tra le
quali A se stesso e Aspasia.
Leopardi alloggia a Napoli con Ranieri e la sorella di lui Paolina, ma d'estate vive in una
villa tra Torre del Greco e Torre Annunziata, su consiglio dei medici.
In questo periodo attacca quella che lui definisce "la nuova filosofia positiva"
scrivendo Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti, Paralipomeni alla
Batriacomiomachia e La ginestra, simbolo della concezione filosofica dell'ultimo
Leopardi.
In un primo tempo la sua salute trova qualche sollievo, ma poi le malattie che lo
affliggevano (nevrastenia, idropisia, asma, ecc.) cominciarono a peggiorare e nel 1837,
mentre stava per lasciare Napoli, infestata dal colera, morì forse di mal di cuore,
invocando, come Goethe, la luce.

PERSONALITÀ E PENSIERO

Leopardi segna la crisi del Romanticismo, il punto più estremo di quella parabola
idealistica (aspirazione a una vita sempre più piena e più alta, a una felicità cui
non si può attingere), di cui Alfieri, Foscolo (idealismo eroico) e Monti erano stati la
premessa incompiuta e Manzoni il massimo interprete (idealismo religioso).

Pessimismo eroico

Anche Leopardi muove da una premessa eroica, si parla infatti di pessimismo eroico:
1) la gloria
2) l'amore
3) la patria: il patriottismo degli anni giovanili viene presto spento dallo scetticismo (A se
stesso).

Pessimismo teorico

Nel pensiero di Leopardi possiamo poi distinguere un pessimismo teorico (o


materialismo pessimista): la realtà è materia e forza, la forza che agita la materia
ha generato il mondo e lo distrugge continuamente mediante il moto stesso
circolare della terra, quindi è la condizione della sua esistenza e della sua
distruzione (ironia delle cose).

Da ciò deriva il concetto di Natura matrigna: essa procede secondo leggi meccaniche,
senza badare all'uomo, il quale viene calpestato, e la sua aspirazione alla felicità è
un'illusione irraggiungibile (cfr. La ginestra, ecc.).

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Pessimismo pratico

Si parla poi di una fase del pensiero leopardiano definita del pessimismo pratico.
L'uomo potrebbe evitare il dolore, a patto di spogliarsi della sua umanità in tre
modi:
- con il suicidio (Bruto minore, Ultimo Canto di Saffo, Operette morali);
- con il sonno (Operette morali);
- con il regredire all'incosciente innocenza naturale (cfr. Rousseau): l'animale
incosciente non soffre (Passero solitario, Canto notturno di un pastore errante
dall'Asia, Operette morali), mentre l'uomo (che pensa e ha una coscienza) è votato
a soffrire sempre più, a causa del progredire della civiltà.

Pessimismo storico

Il primo periodo della meditazione filosofica di Leopardi sul significato dell’esistenza


viene detto del “Pessimismo storico”, perché legato per l’appunto alla storia al
susseguirsi delle epoche.
Leopardi vede la razionalità utilitaristica come la maggior fonte di infelicità: l’uomo
antico, che viveva nell’illusione, non si rendeva conto della miseria umana.
Paradossalmente e in controtendenza con l’epoca, Leopardi addita la scienza e la
conoscenza come cause prime di infelicità.
La Natura era una madre amorosa che ci ha creati per la felicità, l’incivilimento ha
rovinato tutto.

Pessimismo cosmico

Mano a mano che Leopardi abbandona la religione cattolica e si rivolge alla filosofia
sensista, abbandona questa concezione per approdare ad un pessimismo più radicale:
- la Natura diventa una forza meccanicistica indifferente
- l’infinito non è raggiungibile
- l’esistenza è dolore
- l’esistenza è incomprensibile
- la felicità è la momentanea cessazione del dolore

Il pessimismo cosmico di Leopardi diventa però dignità umana con la poesia e


istanza di solidarietà tra gli uomini.
Con La Ginestra Leopardi si scaglia contro i falsi miti di progresso e invita gli
uomini a guardare in faccia il destino di morte per affrontarlo con dignità.

Per il CONTENUTO della sua opera (pessimismo, malinconia, inquietudine,


contemplazione sentimentale) Leopardi si può considerare un ROMANTICO, per la
FORMA, invece, egli si riteneva ed è comunemente ritenuto un CLASSICO (la
compostezza del concetto, l'adorazione del bello plastico, la spiritualità in cui il
suo dolore tanto spesso si trasfigura).

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OPERE MAGGIORI

OPERETTE MORALI (1824-1832)

Sono quasi tutte state composte nel triennio in cui L. pensava di aver ormai abbandonato
la poesia (1823-1826).
Si tratta di 24 scritti, in forma perlopiù di dialoghi o monologhi, “morali” in quanto
esprimono in forma allegorica la meditazione leopardiana sul senso dell’esistenza,
sul destino di dolore dell’uomo e sul meccanicismo indifferente della Natura.

La forma dialogica deriva da Luciano e dalla letteratura filosofica del Settecento


(soprattutto Voltaire), ma anche il genere satirico ha avuto su queste opere una
notevole influenza. Il modello è dunque la satira, ma le operette morali assumono via via
aspetti sempre più lirici.

I personaggi storici o immaginari rappresentano per lo più il poeta stesso.

Le operette hanno un duplice fine:


1) filosofico, o esposizione della teoria pessimistica di L.: l'autore, nel suo intimo
rimane poeta, traduce i suoi pensieri, più che in concetti, in immagini anch'esse
poetiche. Le Operette, per il loro contenuto filosofico, rappresentano il miglior
commento dei Canti.
2) letterario, o scrittura di belle pagine di prosa, perché L. riteneva che la prosa
italiana non fosse ancora nata.

Per il contenuto le Operette si possono dividere in tre gruppi:


1) il primo gruppo rappresenta di preferenza l'aridità della vita moderna, priva di
illusione.
2) il secondo gruppo si addentra di più nella filosofia leopardiana: vi è svolto il concetto
della natura matrigna, si insegna che la vita meno infelice è quella più ricca di
fantasia e di sensazioni, che la noia (cioè il senso dell'insufficienza della vita) è
propria delle anime nobili e più greve di ogni dolore.
3) il terzo gruppo vorrebbe insegnare quale sia la felicità possibile tra gli uomini: essa
consiste nel rinunciare alla gloria, nel guardare con stoica rassegnazione alla
vanità delle cose umane, nel non temere la morte che è estinzione e non
dolore, nel confondersi con la vita del mondo fisico, ecc.

Le Operette più importanti sono:

Dialogo della Moda e della Morte, Dialogo della Natura e di un'Anima, Dialogo
della Natura e di un Islandese, Elogio degli uccelli, Dialogo di un Venditore di
almanacchi e di un Passeggere, Dialogo di Tristano e di un amico, Dialogo di
Cristoforo Colombo e di Pietro Guittierrez, Dialogo di Federico Ruysh e delle sue
mummie, Cantico del gallo silvestre, Dialogo di Plotino e di Porfirio, Dialogo di
Torquato Tasso e del suo genio familiare.

Dialogo della Moda e della Morte (1824). L. volle forse confutare l'apologia della moda

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scritta da Melchiorre Gioia nel suo Galateo. La Moda e la Morte sono sorelle, perché
entrambe sono figlie della Caducità, e perché la Moda possiede usanze antigieniche, che
conducono alla morte più in fretta.

Dialogo della Natura e di un'Anima (1824). Più un'anima è grande, più è


necessariamente infelice, perché l'anima grande è dotata di maggiore coscienza, e perché
maggiore è l'irresoluzione nel deliberare e nell'operare. La sua infelicità è fatale.

Dialogo della Natura e di un Islandese (1824). La natura non opera per garantire la
felicità umana. Questa, qualunque precauzione si prenda, è irraggiungibile per un motivo
di ordine cosmologico, perché la vita cosmica è un eterno circuito di produzione e
distruzione.

Elogio degli uccelli (1824). Gli uccelli sono superiori agli uomini perché fisicamente
meglio portati a godere e a essere felici: infatti, per il continuo moto, non soffrono la noia,
e per la maggiore sensibilità dell'udito e della vista, hanno immaginazione più ricca, come i
fanciulli.
Il canto degli uccelli è come il riso negli uomini, ma il canto è segno di gioia, mentre il riso
è spesso una "specie di pazzia non durabile", in quanto provocato dall'esperienza della
vanità delle cose.

Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere (1832). La vita è infelice,


tant’è vero che gli uomini, anche principi o ricchi, non vorrebbero mai ripetere la vita
antecedente, con tutto il suo bene e il suo male, ma solo vivere a caso. Per L. è bella solo
la vita futura, cioè quella che non si conosce, non lo è invece la vita passata, che si
conosce.

Dialogo di Tristano e di un amico (1832). Tristano (cioè lo stesso L.) finge di avere
cambiato la sua opinione pessimistica sulla natura umana e sostiene con amara ironia, di
credere alla felicità e al progresso. Nelle sue ultime parole però, ripiegando su se stesso,
confessa fermamente la propria infelicità e dichiara di desiderare sopra ogni cosa la morte.

I CANTI

La lirica leopardiana, che va dal 1816 al 1836, si può dividere in due periodi, separati
da circa tre anni (1823-1826), durante i quali il poeta si dedicò alla composizione delle
Operette morali.
Entrambi i periodi hanno come denominatore comune il dolore ma, mentre nel primo
periodo prevale il concetto di dolore individuale, e la natura è invocata come potenza
misteriosa, allo stesso tempo ostile e benevola, nel secondo periodo predomina il
concetto del dolore universale, e la natura è concepita come "matrigna".
Per quel che riguarda la forma, nel secondo periodo prevale l'uso della canzone libera
(cosiddetta leopardiana), costituita da endecasillabi e settenari variamente intrecciati e
rimati.

Liriche del dolore individuale (1816-1823)

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Nel ’18 scrive All’Italia e Sopra il monumento di Dante che riflettono il gusto e le
tematiche romantiche, mentre ricalcano l’eloquenza dei modelli classici. L’infelicità
individuale può trovare un compenso nell’azione.
In All'Italia, il poeta riprendendo l'eredità di Parini, Alfieri e Foscolo, lancia agli Italiani un
appello di risveglio e di rinnovamento. Predominante è il contrasto tra la grandezza
passata e la miseria presente (l'Italia decaduta e ingannata dalla dominazione
napoleonica e austriaca). Oltre a reminescenze petrarchesche e montiane, qua e là domina
uno spirito di schietto eroismo.
In Sopra il monumento di Dante si deplora la recente tirannia della Francia e si esalta il
nostro passato

Ad Angelo Mai e A un vincitore nel gioco del pallone: presentano ancora qualche eco
della poesia patriottica, ma ormai l'amor patrio si fa sconsolato e disperato (cfr.
Paralipomeni) ed è presente un lento declino delle illusioni e irrompe l’arido vero.
Ad Angelo Mai (1820) che aveva scoperto la Repubblica di Cicerone. La canzone rievoca
il Rinascimento (Dante, Ariosto, Tasso), concludendo che il mondo delle illusioni è
morto ucciso dalla ragione e che Alfieri ha cercato invano di restaurarlo.
A un vincitore nel gioco del pallone (1821): celebra i giochi ellenici, che preparavano i
giovani a imprese gloriose.

Bruto minore (’21) e L’ultimo canto di Saffo (’22): rappresentano il tramonto


dell’eroica solarità dei classici; le due figure di Bruto e Saffo rappresentano il crollo
delle illusioni del poeta.
Bruto minore (1821) è uno dei canti più cari a Leopardi, in cui il poeta, nell'eroe ribelle
che preferisce morire piuttosto che sopravvivere alla rovina del suo sogno, scopre se
stesso con la propria disperazione, con il proprio accorato desiderio di morte.
Ultimo canto di Saffo (1822). Il poeta nella Saffo della tradizione (considerata un'anima
sublime in un corpo spregevole) esprime ancora se stesso: anima che geme, cui risponde
l'indifferenza e la crudeltà delle cose, di fronte alle quali è legittimo il suicidio.

Alla Primavera o delle favole antiche (1822): ritorna il motivo della canzone Ad
Angelo Mai, allargato e applicato al mondo antico; il poeta celebra la mitologia antica,
che abbelliva la vita di immagini consolanti e serene, mentre la ragione ha ucciso quelle
illusioni poetiche e il mondo è ormai vuoto. In questo componimento abbiamo il tramonto
dei tempi migliori del mondo.

Dei Canti fanno parte Gli Idilli

Sono stati scritti tra il 1819 e il 1821 e sono stati chiamati da Leopardi idilli (un
componimento poetico di brevi dimensioni con spiccate caratteristiche soggettive), con
riferimento ai componimenti greci che avevano questo nome.
Fanno parte dei Canti, ma se ne discostano per uno stile più libero e conforme ai
moti del cuore e per un abbandono al ricordo al vagheggiamento di
un’adolescenza, un’infanzia perduta.
Sono piccoli quadri che raccontano rivelazioni spirituali colte nel loro affiorare.

Essi comprendono:

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La sera del dì di festa, Alla luna, L’infinito, Il Frammento, Il sogno, La vita
solitaria.
La sera del dì di festa (1820). Descrive il, contrasto tra la pace della notte e il
travaglio del poeta che sa di non essere amato.

L'infinito (1819). Capolavoro di L. ventenne, rivela nel titolo la fondamentale


aspirazione romantica del tempo, esprime l'estasi e il rapimento del poeta: è il canto
delle illusioni, in cui si fa appena sentire il senso della vanità delle cose ("le morte
stagioni").

Il sogno (1821). Descrive l'apparizione all'alba di una fanciulla morta cara al poeta (cfr.
Silvia).

La vita solitaria (1821). Ripete il motivo dell'infinito, intrecciato con quello delle
illusioni d'amore (cfr. Le Ricordanze).

Alla Luna (1819-1820). L. affronta il tema del ricordo che trasforma la realtà,
migliorandola. Il ricordo, anche se triste e doloroso, ha un potere consolatorio e la
lontananza nel tempo, come quella nello spazio, rende le immagini indeterminate, quindi
particolarmente poetiche. Il poeta instaura con la luna, sua interlocutrice privilegiata (cfr.
Canto notturno di un pastore errante dall'Asia), un dialogo affettuoso, illudendosi che essa
possa partecipare al suo dolore.

Liriche del dolore universale (1826-1836)

I grandi Idilli

Come negli Idilli anche nei Grandi Idilli si trova il tema fondamentale di una felicità
perduta fatta di illusioni, una felicità che riaffiora con il ricordo.
Il pessimismo si fa totale, vicenda universale (Canto notturno di un pastore
errante).
Essi sono: A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del
villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Il metro è quello della canzone libera che si intona al libero fluire degli stati della
coscienza.

A Silvia (1828). Il poeta ricorda soavemente la morte della giovane Teresa Fattorini,
figlia del cocchiere di famiglia, identificata, nella seconda parte della lirica con la propria
speranza.

Le ricordanze (1829). Il poeta con dolce malinconia rievoca i sogni dell'adolescenza


e rimpiange una cara fanciulla scomparsa: Nerina (la popolana Maria Belardinelli).

La quiete dopo la tempesta (1829). La gioia non è che la cessazione del dolore,
cioè un valore negativo, un non essere.

Il sabato del villaggio (1829). L'attesa della gioia è più bella della gioia stessa: il

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piacere risiede nella speranza e nell'immaginazione.

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (1830). Il miglior canto del dolore
universale, e in genere di tutta l'opera poetica di L. Lo spunto gli viene da un articolo de
Journal des savants (1826), in cui si parlava dei pastori Kirghisi (Kirghizistan, stato
dell’Asia centrale) che passavano la notte seduti su una pietra a guardare la luna e a
improvvisare parole tristi su arie malinconiche. Il poeta immagina che un pastore
interroghi la luna sul mistero della vita e della morte, e invidi il proprio gregge
incosciente che non soffre, concludendo con una desolata constatazione della
infelicità universale.

Tra le altre liriche del dolore universale possiamo ricordare anche Il passero solitario
e Il tramonto della luna.

Il passero solitario (1829). Il poeta si sofferma ad ascoltare il passero solitario, che dal
campanile della chiesa di S. Agostino a Recanati, eleva il suo canto nell'aria serena della
primavera, e pensa che l'uccello, essere irragionevole e istintivo, è tranquillo e
felice, mentre lui è amareggiato dal pensiero dei piaceri non gustati e perduti per
sempre.
Il tramonto della luna (1836). Il poeta paragona il tramonto della luna a quello della
giovinezza. E' l'ultimo canto di L., e dettò a Ranieri i sei versi finali poche ore prima della
morte.

Le ultime liriche (1832-1834; 1836): il riscatto del pessimismo cosmico grazie alla
poesia e alla solidarietà fra gli uomini.

All'ultima stagione poetica di Leopardi appartiene La Ginestra o il fiore del deserto


(1836).
Di questo periodo sono anche i componimenti scritti in occasione della sua delusione
amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (Il pensiero dominante, Amore e Morte,
Consalvo, Aspasia, A se stesso) dove già Leopardi oppone alla sofferenza umana la
fiera dignità della poesia.

Aspasia (1834). E' un'amara satira antifemminista, contro la donna, sempre stata per il
poeta croce e delizia

A se stesso (1833). Segna il crollo dell'illusione di amore e si può considerare come


l'epigrafe funeraria del poeta.

Nella Ginestra il pessimismo cosmico si riscatta e diventa istanza di solidarietà tra gli
uomini e invito a guardare in faccia la realtà senza facili illusioni o vittimismi.

I PARALIPOMENI DELLA BATRACOMIOMACHIA


L. nella sua prima giovinezza aveva tradotto dal greco la Battaglia delle rane e dei topi,
poemetto burlesco attribuito erroneamente a Omero. Negli ultimi anni della sua vita ne
compose una fantastica prosecuzione in ottave (paralipomeni, cioè casi omessi nel primo
racconto).

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Il poeta coglie l'occasione per esprimere i dogmi della sua filosofia sensistica con
un'allegoria sull'infelice insurrezione dei moti liberali napoletani del '21 (i topi
sono i liberali, le rane i conservatori...).
L'autore deride tutti nello stesso modo, forse più i topi degli altri: il suo pessimismo
non gli consente ormai nessun serio interesse per il Risorgimento.
Il tono storico e la vis comica dell'opera non sono propri di L., che sotto il riso artificiale
scopre spesso il suo intimo dolore.

I PENSIERI
E' una raccolta di 111 pensieri, pubblicati postumi da Ranieri; per il loro significato hanno
stretta attinenza con le Operette morali.

LO ZIBALDONE
Fu pubblicato postumo nel 1898, nel centenario della nascita del poeta, con il titolo di
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura.
Si tratta di una ampissima raccolta di 3619 osservazioni, ragionamenti, note, che
Leopardi segnò per se stesso, dal 1817 al 1832, man mano che gli venivano in mente.
Anche quest'opera ha stretta attinenza con le Operette morali, ma vi si trovano in
germe anche molte idee dei Canti.
L'EPISTOLARIO
Molto copioso e anch'esso pubblicato postumo, è un ottimo commento ai Canti, perché
rivela la vita infelice e la grandezza d'animo di L.

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