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ELABORATO SINTETICO 2023

11 MARZO 2023

CIVILE
L’azione di ingiustificato arricchimento, con particolare riferimento al requisito della sussidiarietà e
rapporti con l’azione di ripetizione dell’indebito in caso di prestazioni eseguite sulla base di un
contratto nullo, annullato o risolto e con la azioni fondate su clausole generali

La c.d. sussidiarietà in astratto nella giurisprudenza


La giurisprudenza prevalente interpreta la sussidiarietà dell’azione di ingiustificato arricchimento in
“astratto”: «La proponibilità dell’azione generale di indebito arricchimento postula semplicemente
che non sia prevista nell’ordinamento giuridico altra azione tipica a tutela di colui che lamenti il
depauperamento, oppure che la domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza ab origine
dell’azione proposta, per difetto del titolo posto a suo fondamento» (come nel caso di azioni
contrattuali fondate su contratto nullo, ipotesi nelle quali si ammette pacificamente l’azione di
ingiustificato arricchimento).

2. Il progressivo superamento delle affermazioni di principio


Nonostante queste affermazioni di principio, la sussidiarietà, nel corso degli ultimi anni, ha assunto
una dimensione diversa e la stessa giurisprudenza ha mostrato (pur senza abbandonare il principio
della sussidiarietà in astratto) significative aperture verso una sussidiarietà in concreto.

2.1. L’azione di arricchimento utendo iuribus verso l’ente pubblico


In primo luogo, si ricorda l’orientamento interpretativo, avallato dalla Corte costituzionale, secondo
cui in materia di fornitura e servizi prestati in favore degli enti locali in difetto dell'osservanza della
normativa di cui all'art. 191 del d.lgs. n. 267 del 2000, relativa al procedimento contabile previsto
per l'assunzione di obbligazioni vincolanti per l'ente locale, il contraente privato fornitore, se da un
lato, non può proporre azione diretta di indebito arricchimento verso l'ente pubblico per difetto del
requisito di sussidiarietà (perché l’art. 191 TUEL prevede che il rapporto contrattuale si instauri
direttamente con il funzionario che ha violato la disciplina contabile: quindi ci sarebbe l’azione
contrattuale), dall’altro, è però legittimato ad esercitare l'azione ex art. 2041 c.c. nei confronti dello
stesso ente utendo iuribus del funzionario suo debitore, agendo in via surrogatoria ex art. 2900
c.c. Non vi è dubbio che si tratti di un’azione surrogatoria sui generis (dato che viene ammessa a
prescindere dal requisito dell’inerzia e ancor prima del resto che il funzionario abbia il diritto di agire
per ingiustificato arricchimento, diritto che non può sorgere prima che, adempiendo
all’obbligazione contrattuale verso la p.a., si sia depauperato a vantaggio dell’Amministrazione che
ha ricevuto la fornitura).

2.2. Gli arricchimenti indiretti gratuiti


In generale, inoltre, in materia di arricchimenti trilateri o “indiretti” (cioè le ipotesi nelle quali tra
arricchito e impoverito ci sia l’intermediazione di un soggetto terzo: ad es. il conduttore che stipula
contratti che “arricchiscono” il locatore perché migliorano lo stato dell’immobile locato, senza
adempiere alle relative obbligazioni contrattuali verso il fornitore terzo), le Sezioni Unite, nel 2008,
valorizzando come principio generale la previsione contenuta nel 2038, co. 2, ha ammesso l’azione
di ingiustificato arricchimento in tutte le ipotesi il terzo trasferisca all’arricchito a titolo gratuito le
utilità ottenute dal depauperato. Questo orientamento di fatto supera la sussidiarietà in caso di
arricchimento indiretto (che presuppone che il trasferimento delle utilità all’arricchito sia a titolo
gratuito, altrimenti sarebbe difficile configurare lo stesso presupposto dell’arricchimento).

2.3. La differenza tra azioni tipiche e azioni fondate su clausole generali


Anche nei rapporti bilaterali, peraltro, la giurisprudenza prevalente ha finora limitato la sussidiarietà
in astratto alla c.d. azioni tipiche (fondate sul contratto o previste specificamente dalla legge
rispetto a fattispecie determinate), escludendola rispetto alle azioni fondate su c.d. clausole generali
(2043 e 1337 c.c.).

3. .La questione del rapporto tra azione di i.a. e azione di risarcimento del danno extracontrattuale
o precontrattuale.
Tesi secondo cui l’azione di ingiustificato arricchimento è preclusa solo da azioni “tipiche” (cioè
contrattuali o previste dalla legge con specifico riferimento a determinate fattispecie) e non anche
da azioni fondate su clausole generali (come quella di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043
e precontrattuale ex art. 1337).

Cassazione civile sez. III - 17/01/2020, n. 843


Presupposti azione di ingiustificato arricchimento
Presupposto per proporre l'azione di ingiustificato arricchimento è la mancanza, accertabile anche
di ufficio, di un'azione tipica, tale dovendo intendersi non ogni iniziativa processuale ipoteticamente
esperibile, ma esclusivamente quella derivante da un contratto o prevista dalla legge con riferimento
ad una fattispecie determinata, pur se proponibile contro soggetti diversi dall'arricchito. Ne
consegue che è ammissibile l'azione di arricchimento quando l'azione, teoricamente spettante
all'impoverito, sia prevista da clausole generali, come quella risarcitoria per responsabilità
extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c.

Cassazione civile sez. II - 22/03/2012, n. 4620


ARRICCHIMENTO SENZA CAUSA - Carattere sussidiario dell'azione
Presupposto per proporre l'azione di ingiustificato arricchimento è la mancanza di una azione tipica,
per tale dovendosi intendere o quella che deriva da un contratto, o quella che sia prevista dalla legge
con riferimento ad una fattispecie determinata. Ne consegue che è ammissibile l'azione di
arricchimento quando l'azione, teoricamente spettante all'impoverito, sia prevista da clausole
generali, come la domanda di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale

(testo motivazione)
La soluzione sopra indicata dimostra che la condizione preclusiva in oggetto può essere ravvisata solo in presenza di un
titolo idoneo a consentire alla parte di esercitare un'azione diversa. Si comprendono quindi le criticità che presenta la
soluzione accolta dalla Corte veneziana, che ha individuato l'azione diversa in quella volta a richiedere il risarcimento
dei danni alla terza venditrice del bene per responsabilità precontrattuale, che rientra nell'alveo della responsabilità
aquiliana, senza nemmeno verificare in concreto la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per poter esercitare
tale azione. In realtà, il dubbio pervade la stessa possibilità di poter ravvisare l'azione principale, preclusiva dell'azione
di indebito arricchimento, in un'azione risarcitoria fondata su una clausola generale. Le difficoltà, in particolare, stanno
tutte nel verificare l'esistenza di un titolo idoneo a fondare tale responsabilità e quindi la possibilità di promuovere
un'azione diversa, tenuto conto che il titolo dell'azione di danno aquiliano si identifica con l'insieme degli elementi
costitutivi della fattispecie dell'illecito. Da un lato, quindi, per l'ipotesi della responsabilità precontrattuale e per il caso
che qui interessa, deve ritenersi senz'altro insufficiente a tal fine, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di
appello, la mera sopravvenuta declaratoria di inefficacia del contratto di compravendita concluso dalla società attrice,
che è conseguenza dell'esercizio di un diritto del terzo riconosciutogli direttamente dalla legge; dall'altro lato, sembra
invece ultroneo ed eccessivo, in contrasto, in definitiva, con lo stesso requisito di tipicità che deve rivestire l'azione
principale, spingere l'accertamento della condizione in parola al riscontro della sussistenza in concreto di tutte le
condizioni richieste dalla legge per il sorgere di un obbligo a carico di un terzo di risarcire il danno per responsabilità
precontrattuale, con l'effetto che l'indagine del giudice sconfinerebbe da un accertamento astratto dell'esistenza del
relativo diritto per addentrarsi in una valutazione di merito in ordine alla fondatezza stessa della pretesa.
Può osservarsi, del resto, che nei casi, certamente frequenti, in cui l'azione di ingiustificato arricchimento viene
promossa in relazione al mancato perfezionamento del negozio, quale si verifica ad esempio nei rapporti con la pubblica
amministrazione per la mancata approvazione della proposta da parte degli organi competenti, non è mai stata posta
in discussione la possibilità per il privato che abbia nel frattempo provveduto ad una prestazione patrimoniale in favore
dell'ente di ricorrere all'azione ex art. 2041 cod. civ., così implicitamente escludendo che la stessa possa restare preclusa
dalla possibilità astratta di agire per il risarcimento del danno.
Sulla base di tali considerazioni si ritiene, pertanto, in conformità del resto con l'insegnamento tradizionale, che l'azione
tipica che preclude al danneggiato di agire per ottenere l'indennizzo conseguente all'ingiustificato arricchimento sia da
individuarsi unicamente nell'azione contrattuale ovvero in ogni altra azione specificatamente riconosciuta dalla legge in
relazione ad una determinata situazione.
In tale rilievo deve reputarsi assorbito anche l'ulteriore e ancor più generico riferimento fatto dalla sentenza di appello
all'azione di garanzia al fine di escludere il carattere sussidiario della domanda proposta dalla società attrice, che pur
nella sua indicazione sommaria appare assimilabile ad una pretesa di natura risarcitoria.

4. La rimessione alle Sezioni Unite della questione sui rapporti tra azione di ingiustificato
arricchimento e azioni fondate su clausole generali
La questione dei rapporti tra azione di ingiustificato arricchimento e c.d. azioni fondate su clausole
generali è stata di recente rimessa alle Sezioni Unite da Cass., sez. III, n. 5222/2023, che sollecita
una rivisitazione del tradizionale indirizzo, proponendo l’estensione della sussidiarietà in astratto
anche alle azioni fondate su clausole generali (nella specie un’azione di responsabilità
precontrattuale, esaminata e respinta, a cui si accompagna, nella domanda attorea, la proposizione
in via subordinata di un’azione di ingiustificato arricchimento).

5. Osservazioni a margine dell’ordinanza di rimessione


La soluzione preferibile in merito ai rapporti tra azione di risarcimento (non proposta, ma in astratto
proponibile) e azione di ingiustificato arricchimento è quella che ammette il rimedio ex art. 2041
(tesi patrocinata dal tradizionale indirizzo interpretativo).
Altrimenti si dovrebbe consentire un giudizio incidentale di fondatezza su un'azione mai proposta
(quella aquilana) al fine di rigettare, per difetto di sussidiarietà l'azione di ingiustificato
arricchimento.
Suonerebbe più o meno così: l’azione di ingiustificato arricchimento è inammissibile perché il fatto
integra (o sembra integra ad una valutazione compiuta incidenter tantum) anche un illecito
aquiliano o precontrattuale e il depauperato avrebbe (in ipotesi) l’azione risarcitoria. Quindi il
giudice andrebbe ad esaminare una domanda non proposta (per valutarne incidentalmente la
fondatezza) al fine di rigettare la domanda proposta. E con quali effetti? Di giudicato (in ordine alla
fondatezza della domanda risarcitoria vagliata in astratto)? (sembra difficile sostenerlo…con la
conseguenza che l’eventuale azione di risarcimento, una volta proposta, potrebbe poi essere respinta
per difetto dei presupposti costitutivi. Sarebbe un paradosso, che lascerebbe il depauperato privo di
tutela. Del resto, anche rispetto alle azioni c.d. tipiche (se risulta la carenza dei presupposti
costitutivi, cioè del titolo – ad esempio perché il contratto è nullo – si ammette l’azione di
ingiustificato arricchimento).

Del resto, nessuno dubita(va) (prima della rimessione alle Sezioni Unite) che si possa proporre
azione aquiliana in via principale e, nel caso di infondatezza, azione di ingiustificato arricchimento
in via subordinata. O azione di ingiustificato arricchimento e, per ottenere più dell'arricchimento,
azione di risarcimento del danno (sussistendone i presupposti). Lo ammette il codice stesso nei
numerosi casi di acquisto a titolo originario: l'azione di arricchimento verso colui che acquista (ad
esempio per accessione) può concorrere, se c'è un illecito, con l'azione risarcitoria.
Sono due azioni diverse: una è recuperatoria, l'altra è riparatoria.
E non è questione di "clausole generali" o di azione tipica. È il corretto modo di intendere, da un
lato, la sussidiarietà e, dall'altro, il principio della domanda: un'azione infondata è un'azione che non
spetta quindi non preclude l'azione di arricchimento.
Se un'azione non proposta non è proposta non si può sapere se è fondata oppure no (e non si può
onerare la parte di proporla per forza).
La sussidiarietà ha senso negli arricchimenti trilateri (nasce infatti storicamente con l'actio de in rem
verso che perseguiva gli arricchimenti indiretti, nel diritto romano procurati al padrone dallo schiavo
ed era sussidiaria (in concreto) rispetto all'azione de peculio: lo schiavo obbligava nei limiti del
peculium di cui era dotato. Se questo non era sufficiente, si agiva per recuperare gli arricchimenti
versati al padrone).
Negli arricchimenti bilaterali, la sussidiarietà in astratto oggi non ha molto senso e si deve ritenere
ammissibile un concorso (alternativo, condizionato o integrativo) tra azione di arricchimento e
azione di risarcimento.
In una situazione di ipotetico concorso di azioni, spetta quindi al danneggiato decidere se proporre
azione di risarcimento o di ingiustificato arricchimento (o di proporre la seconda in subordine o ad
integrazione della seconda)
Il caso sottoposto alle Sezioni Unite dalla Terza Sezione peraltro riguarda un caso in cui la domanda
di risarcimento (precontrattuale) è stata respinta e la domanda di arricchimento è stata proposta in
subordine: un caso, quindi, in cui è accertato che l'impoverito non aveva altri rimedi.
Qui, a seguire l'ordinanza di rimessione, non è più neanche sussidiarietà in astratto, ma sussidiarietà
secondo le iniziative processuali della parte (se ci prova con un altro rimedio e le va male, perde
anche l'azione sussidiaria, anche in caso di accertata non spettanza del rimedio principale).
Tutto il percorso argomentativo della ordinanza di rimessione si fonda sul rischio di un asserito
"aggiramento" (dei termini di prescrizione, del giudicato di rigetto...) come se si trattasse della
riproposizione sotto mentite spoglie della stessa domanda prescritta o rigettata.

Va segnalato questo passaggio motivazionale dell’ordinanza di rimessione


"Ma, anche ad ammettere che, nel caso di clausola generale, l'indagine sulla
sussidiarietà dell'azione di arricchimento rischia di diventare indagine nel merito, ossia indagine che
deve valutare non solo l'astratta disponibilità dell'azione alternativa, ma altresì se di quest'ultima
sussistano i presupposti, anche ad ammettere questa prospettiva, essa non ha più ragion d'essere
quando, come nel caso presente, quell'indagine è stata già fatta e l'azione principale, giudicata nel
merito, è stata rigettata.
Da questo passaggio dell'ordinanza di rimessione sembra emergere una contraddizione: perché
prima si dice (giustamente) che non puoi far dipendere l'ammissibilità dell'azione ex
204I da una prognosi di fondatezza di un'azione non proposta (sul presupposto che l'ostacolo nasce
se l'azione alternativa è fondata, ma questo non si può sapere se l’azione non è proposta), poi si
afferma che in caso di acclarata inesistenza del rimedio alternativo (la cui infondatezza è già stata
vagliata) la preclusione invece scatta senza problemi.
Usucapione immobiliare, accertamento negoziale e conflitti con i terzi

Usucapione: acquisto a titolo originario (il problema dell’estinzione dei diritti reali parziari esistenti
sul bene). La retroattività dell’usucapione viene generalmente ammessa dalla giurisprudenza,
nonostante le perplessità di parte della dottrina. La giurisprudenza esclude, invece, che all’usucapito
si applica l’istituto della c.d. usucapio libertatis (previsto espressamente solo per i beni mobili in
caso di “possesso vale titolo”). L’estinzione non riguarda quindi i diritti che preesistono all’inizio del
possesso.

L’usucapione è oggetto di pubblicità notizia (eventuale) e non di pubblicità dichiarativa. Non


richiede, inoltre, la continuità delle trascrizioni. L’immobile usucapito può circolare validamente a
prescindere dall’accertamento giudiziale dell’usucapione (non si tratta di vendita del possesso –
generalmente non ammessa – ma di vendita di un diritto di proprietà nascente a titolo originario
dal possesso ad usucapionem).

L’usucapione accertato negozialmente è inserito tra i casi di trascrizione immobiliare con funzione
dichiarativa. Il che sembra stridere con la natura dell’usucapione (acquisto a titolo originario) che
non è compatibile con la pubblicità dichiarativa (che regolai conflitti tra aventi causa incompatibili
tutti a titolo derivativo).

In realtà, il negozio di accertamento dell’usucapione è un atto dispositivo del diritto di proprietà


causalmente giustificato dall’esigenza di rimuovere la res incerta (sul perfezionamento
dell’usucapione). L’avente causa di questo negozio acquista la proprietà a titolo derivato (come
accade in ogni acquisto negoziale), non a titolo originario. Se vuole far valere questo titolo (il negozio
di accertamento) soggiace ai principi della pubblicità dichiarativa. Ciò non toglie che egli possa far
valere l’acquisto a titolo originario per usucapione (e prevalere anche sui terzi titolari di diritti
anteriormente trascritti in base al principio di retroattività dell’usucapione): ma in questo caso avrà
bisogno della sentenza di accertamento dell’usucapione.
PENALE

Maltrattamenti di animali in relazione allo svolgimento di combattimenti fra gli stessi, organizzati al
fine di raccogliere scommesse. Conseguenze dell’uccisione dell’animale, a seconda che avvenga in
esito al maltrattamento, a prescindere dal maltrattamento, nel corso e causa del combattimento,
durante il combattimento ad opera dell’uomo per la necessità di salvare il proprio animale coinvolto
nel combattimento. Esamini il candidato i reati che possono venire in considerazioni e dica se il
concorso fra gli stessi è apparente o reale.

Uccisione di animali: prima che venisse introdotta come fattispecie autonoma, l’uccisione di animali
era solo aggravante della contravvenzione di maltrattamenti ed evento del reato di uccisione o
danneggiamento di animali altrui (638). Non era punita quindi l’uccisione senza maltrattamenti di
animali propri o res nullius. La Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibile (411/1995) una
questione di costituzionalità ritenendo che dal suo accoglimento potesse derivare la creazione di
una fattispecie penale in violazione del principio di riserva di legge.

Inserimento del Titolo IX-bis ad opera della legge 189/2004 “dei delitti contro il sentimento per gli
animali, racchiude cinque disposizioni, quattro dedicate all’incriminazione di nuove fattispecie (artt.
544-bis-544-quinquies) ed una dedicata alla disciplina della confisca e delle pene accessorie.
Al tempo del codice Rocco l’unica norma, per di più a carattere meramente contravvenzionale era
l’art. 727. La legge del 2004, espressione della mutata sensibilità sociale rispetto al mondo animale,
ha introdotto un micro-cosmo di tutela completo del rapporto uomo-animale, dedicandogli un
apposito titolo all’interno del libro secondo del Codice penale, modificando anche l’art. 638 e l’art.
727 (già modificato, peraltro, dalla legge n. 473/1993).
L’approccio, tuttavia, è ancora di tipo “tradizionale”, incentrato sulla tutela non dell’animale in
quanto tale, ma della sensibilità dell’umo verso l’animale. Ai tempi della legge, del resto, nessuna
norma costituzionale dava espressa rilevanza agli interessi degli animali (la riforma dell’art. 9 è
avvenuta solo nel 2022, con la legge costituzionale n. 1/2022. Il nuovo testo dell’art. 9 oggi prevede
che la legge disciplina modi e forme della tutela degli animali, dando così ai diritti degli animali un
espresso riconoscimento costituzionale, ponendo le basi per l’eventuale futuro superamento della
teoria antropocentrica:).
Anche a livello comunitario, del resto, si segnala l’art. 13 TFUE, il quale dispone che l’Unione e gli
Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali come
esseri senzienti).
La riforma dell’art. 9 della Cost. e l’art. 13 TFUE spingono oggi verso una interpretazione
costituzionalmente orientata che impedisce di considerare gli animali come mere “cose”,
imponendo di considerarli come esseri “senzienti” che, al di là delle loro caratteristiche fisiologiche
ed etologiche” sono dotati di sensibilità e come l’uomo possono provare dolore.
Da segnalare in questa evoluzione anche la Convenzione europea sugli animali da compagnia,
firmata a Strasburgo nel 1987 e rese esecutiva in Italia con la legge n. 201/2010, che ha introdotto
una graduazione di tutela a seconda del livello di vicinanza dell’animale all’uomo, con evidenti
riflessi anche sui beni giuridici tutelati dalle fattispecie penali.

Il bene protetto è il sentimento comune di umana compassione: inizialmente era stata previsto
un nuovo Titolo XII-bis, intitolato “dei delitti contro gli animali”, il quale doveva essere inserito tra i
delitti contro la perdona e i delitti contro il patrimonio. Si intendeva tutelare l’animale in sé come
bene.
Poi ha prevalso la visione antropocentrica: le nuove norme sono state introdotte nel nuovo titolo
IX-bis (fra i delitti contro la moralità pubblica (titolo Ix) e i delitti contro il la famiglia (titolo X)) con
la rubrica delitti contro il sentimento degli animali: l’animale sarà pure un essere senziente, andrà
rispettato e i suoi interessi presi in considerazione in un ipotetico bilanciamento, ma resta senza
diritti. È solo oggetto materiale di un reato previsto a tutela di un sentimento comune di pietà e
compassione.
L’individuazione del bene protetto consente di circoscrivere la tutela agli animali che instaurano con
l’uomo relazioni sociali o che, sono suscettibili di creare un sentimento di umana compassione in
caso di sofferenza, lesione, maltrattamento, morte. Ed è questa del resto una delle principali ragioni
che hanno giustificato la scelta antropocentrica: il timore che la tutela diretta dell’animale, a
prescindere dal legame con il sentimento umano, potesse ampliare eccessivamente l'ambito
dell’incriminazione, offrendo tutela penale anche agli animali posti ai gradini della scala biologica,
rispetto al quale non esiste un sentimento di comune compassione (ad es. insetti).

Maltrattamenti di animali in relazione allo svolgimento di combattimenti fra gli stessi, organizzati
al fine di raccogliere scommesse.
Il delitto di maltrattamenti concorre con quello di cui all’art. 544-quiquies comma (addestramento
di animali per destinarli al combattimento): le due norme non sono speciali in astratto (nel 544-ter
manca la destinazione al combattimento e l’addestramento di cui al 544-quinquies comma 3 non
necessariamente avviene con le modalità di maltrattamento di cui al 544-ter). La specialità è
reciproca o in concreto, ma non è vera specialità e non esclude il concorso di reati.

Conseguenze dell’uccisione dell’animale, a seconda che avvenga in esito al maltrattamento,


Se è voluto si applica il 544-bis in concorso con il 544-ter non aggravato. Se non è voluto si applica
l’art. 544-ter aggravato dall’evento morte (che deve essere concretamente prevedibile).

a prescindere dal maltrattamento: si applica il 544-bis, che richiede il dolo e che l’uccisione avvenga
per crudeltà o senza necessità.

nel corso e causa del combattimento: si applica il 544-bis (crudeltà e assenza di necessità sono insiti
nella partecipazione al combattimento).

durante il combattimento ad opera dell’uomo per la necessità di salvare il proprio animale


coinvolto nel combattimento. Si potrebbe pensare che ricorre la “necessità” che esclude il 544-bis.
Però nel 544-bis vi è modalità alternativa (“per crudeltà”) che non richiede una particolare modalità
della condotta ma (almeno secondo la tesi prevalente) un motivo crudele (è il contesto illecito in cui
avviene l’uccisione sembra integrare un’ipotesi di crudeltà). Quindi si può sostenere l’applicabilità
del 544-bis.

Il 544-bis prevale ed assorbe il 638 (che contiene clausole di riserva)

il 544-bis prevale sul 727-bis (che si applica solo a specie protette e comunque non richiede “senza
necessità” o “per crudeltà”.

La causa di non punibilità di cui all’art. 19 ter disp. coord. C.p.


Il caso dei piccioni usati come esche vive per la pesca sportiva
Cassazione penale sez. III, 14/12/2018, (ud. 14/12/2018, dep. 29/04/2019), n.17691
Occorre premettere che l'art. 544 ter c.p., introdotto dalla L. 20 luglio 2004, n. 189, costituisce, al
pari delle altre tre disposizioni codificate dalla novella che compongono il titolo 9 bis del libro
secondo del codice penale, una norma profondamente innovativa rispetto al preesistente sistema,
indotta dalla necessità di adeguare la disciplina penale alla mutata sensibilità sociale nei confronti
del mondo animale. Nell'acquisita consapevolezza della natura di esseri viventi degli animali in grado
di percepire sofferenze non soltanto di natura fisica, ma altresì di quelle che incidono sulla loro
psiche essendo anch'essi passibili di tali menomazioni, il legislatore è intervenuto sull'impianto
codicistico ampliando la sfera di tutela, precedentemente circoscritta all'art. 727 c.p. che già
considerava penalmente rilevanti le condotte che "quantunque non accompagnate dalla volontà
d'infierire, incidono senza giustificazione sulla sensibilità dell'animale producendo dolore" da parte
di chi abbandona gli animali o li tiene in condizioni incompatibili con la loro natura, ai
comportamenti connotati da maggiore gravità, in quanto dolosi, nei confronti degli animali a
prescindere dal rapporto di detenzione da parte dell'agente e dunque in un'ottica di ben più ampio
respiro di quella, di fatto, sostanzialmente limitata agli animali cd. di affezione in cui di norma si
estrinseca la detenzione, costituente il presupposto applicativo della contravvenzione di cui all'art.
727.

D'altra parte che le due norme, seppur accomunate dall'oggetto della tutela costituito dal
sentimento di pietà nei confronti degli animali promuovendo l'educazione civile dei consociati,
abbiano ambiti applicativi diversi è stato già affermato da questa Corte che ha avuto modo di
stigmatizzare che, mentre "la fattispecie delittuosa punisce chi "cagiona una lesione ad un animale
ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue
caratteristiche etologiche", è caratterizzata dal solo elemento soggettivo del dolo e non anche da
quello della colpa, nonchè dall'ulteriore presupposto della crudeltà o della mancanza di necessità,
la fattispecie contravvenzionale, invece, punisce, anche a titolo di colpa, la meno grave condotta di
chi "detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze",
senza richiedere la crudeltà o la mancanza di necessità, nè la causazione di lesioni, o la
sottoposizione a sevizie, comportamenti, fatiche, lavori insopportabili" (Sez. 3, n. 10163 del
03/10/2017 - dep. 06/03/2018, Rondot e altri, Rv. 2726210).

E' in tale contesto che si inserisce l'art. 19 ter disp. coord. c.p., anch'esso introdotto dalla L. n. 189
del 2004 il quale prevede che "le disposizioni del titolo IX bis del libro secondo del codice penale
non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di
trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attività
circense, di giardini zoologici, nonchè dalle altre leggi speciali in materia di animali". La tesi posta a
monte delle doglianze difensive si fonda su un'erronea lettura di tale disposizione che gli imputati
considerano una sorta di zona franca volta a garantire agli esercenti le attività ivi menzionate, fra
cui è compresa la pesca, di commettere impunemente i reati disciplinati dal citato titolo IX - bis,
mentre, al contrario, tale disposizione altro non è se non l'esplicitazione del principio di specialità di
cui all'art. 15 e della scriminante dell'esercizio di un diritto di cui all'art. 51 c.p.. Come osservato in
dottrina, infatti, la ratio ispiratrice della norma è quella di escludere l'applicabilità delle norme penali
poste a tutela degli animali con riferimento ad attività obbiettivamente lesive della loro vita o salute
a condizione che siano svolte nel rispetto delle normative speciali che le disciplinano perchè
considerate socialmente adeguate al consesso umano. Uniformandosi a tale interpretazione la
giurisprudenza ha pertanto univocamente affermato che la scriminante trova il proprio limite
applicativo nella funzionalità della condotta posta in essere rispetto agli scopi e alle ragioni posti a
base della normativa speciale: dette attività, segnatamente contemplate dalla suddetta norma di
coordinamento, devono essere svolte, per potere essere esentate da sanzione penale, nell'ambito
della normativa speciale stessa ed ogni comportamento che esuli da tale ambito è suscettibile di
essere penalmente valutato (cfr., con riferimento all'attività circense, Sez. 3, n. 11606 del
06/03/2012, Rv. 252251; nonchè Sez. 3, n. 40751 del 05/03/2015 - dep. 12/10/2015, PG in proc.
Bertoldi, Rv. 265164, secondo cui in forza della previsione dell'art. 19-ter disp. att. c.p. il reato di cui
all'art. 544-ter c.p. e le altre disposizioni del titolo 9-bis, libro secondo, del c.p. non si applicano ai
casi previsti in materia di caccia ed alle ulteriori attività ivi menzionate, se svolte nel rispetto della
normativa di settore).

Sulla scorta di tali principi deve pertanto escludersi che l'esimente dell'esercizio di un diritto,
invocata dal ricorrente, sia applicabile alla fattispecie in esame. Dal momento che l'eccezione deve
ritenersi operante solo nel caso in cui le attività in essa menzionate vengano svolte entro l'ambito
di operatività delle disposizioni che le disciplinano, va rilevato che la normativa vigente in materia
di pesca - nel cui ambito rientra la pesca sportiva, caratterizzata dall'uso della canna come attrezzo
principale, ed esercitata a scopo ricreativo e amatoriale da singole persone, ovvero per attività
agonistica - non disciplina le esche e conseguentemente neppure contempla, a differenza della
disciplina sulla caccia (che consente l'uso, a scopo venatorio, di richiami vivi, ma comunque vieta
che ad esseri viventi dotati di sensibilità psico-fisica siano arrecate ingiustificate sofferenze),
l'utilizzo di animali viventi, onde l'esimente deve ritenersi inutilmente invocata: non è sufficiente
che l'ordinamento attribuisca all'agente un diritto, ma è necessario che ne consenta l'esercizio
proprio con l'attività e le modalità che altrimenti costituirebbero reato.

Ora è ben vero che nella prassi corrente i pescatori che praticano tale attività con la canna impiegano
come esca vermi vivi, ma a prescindere dal rilievo che trattasi in tal caso di larve (quali si configurano,
fra le più usate, i bigattini o le camole), il loro utilizzo a tal fine, non contrastante con le attitudini
etologiche di tali esseri, non si presta in ogni caso a recar loro sofferenze. Del tutto diverso è
l'impiego di volatili, quali sono i piccioni, legati per una zampetta all'amo e costretti a seguire il volo
della lenza fino a venire ripetutamente catapultati nel fiume quale richiami per la cattura del pesce
siluro che, a detta della difesa, di tali uccelli si nutre: è evidente come non solo le condizioni di
cattività a cui tali animali sono stati costretti con l'imbracatura alla lenza, ma altresì l'attentato alla
loro stessa sopravvivenza con gli affogamenti ripetuti nell'acqua (tanto che sono state rinvenute
dagli agenti di PG tra il materiale in possesso degli imputati quattro carcasse, ancora bagnate, di
piccioni morti) si configuri come una vera e propria sevizia, atta a provocare agli uccelli, quand'anche
sopravvissuti, gravi sofferenze, indipendentemente dalle lesioni eventualmente arrecategli.
Sostenere, così come fa la difesa, che i piccioni siano prede naturali del pesce siluro, costituisce
argomento che surrettiziamente elude la ratio della noma in contestazione, come se fosse la natura
di preda a determinare la legittimità del suo utilizzo, ed in ultima analisi del suo "sacrificio", per
finalità assolutamente non necessarie rispetto allo scopo dell'attività amatoriale praticata che
preveda la cattura del predatore: così opinando dovrebbe ritenersi legittimo l'impiego della gazzella
per la caccia al leone o, restando nell'ambito dell'attività venatoria avente ad oggetto gli animali
predatori nel territorio nazionale, della gallina o del cucciolo di un capriolo per la caccia alla volpe.

Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di rilevare, con riferimento alla
disciplina sulla caccia, che costituisce ipotesi di sevizia configurante maltrattamento l'utilizzazione
come richiamo per la caccia di una cesena viva, imbracata con una cordicella e costretta mediante
strattoni a levarsi in volo per poi ricadere pesantemente al suolo o su un albero e che l'uso a scopo
venatorio di richiami vivi con tali modalità che, se anche non vietate espressamente dalla L. n. 157
del 1992, debbono ritenersi illecite, non costituisce alcuno dei casi previsti dalla legge speciale in
materia cui si riferisce l'art. 19 ter disp. coord. c.p. (Sez. 3 n. 46784, del 05/12/2005 - dep.
21/12/2005, Boventi, Rv. 232658).

La Corte d'appello correttamente basa la sua decisione sulla considerazione che le condotte degli
imputati, in relazione alle condizioni in cui gli animali erano utilizzati, hanno determinato in essi
rilevanti sofferenze, senza che ricorresse il requisito della necessità. La pesca, anche del pesce siluro,
è comunque praticabile con le esche di uso comune (che comprendono, secondo l'accezione di uso
corrente animaletti o pezzetti di carne o di altri organi animali, sostanze diverse o anche oggetti
luccicanti, che si mettono all'amo per attirare e prendere i pesci), senza che debba farsi ricorso ai
piccioni, che di certo, non facendo parte del suo naturale habitat, non costituiscono le uniche prede
di un animale ricompreso nella categoria dei pesci, sia pure di acqua dolce e che invece sono stati
in tal modo sottoposti a condizioni insopportabili per le loro attitudini etologiche, ovverosia
incompatibili con il comportamento proprio della specie di appartenenza, così come ricostruito dalle
scienze naturali (Sez. 3, n. 5979 del 13/12/2012 - dep. 07/02/2013, Galeotti, Rv. 254637), e perciò
non giustificate dall'esigenza della pesca.
I delitti di istigazione nel quadro nel principio di offensività. Dopo aver esaminato i profili differenziali
dei delitti di istigazione previsti dal codice penale, il candidato si soffermi sui rapporti tra istigazione
a delinquere e partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo.

Istigazione a delinquere (414):


Tutela l’ordine pubblico materiale, quindi occorre pericolo concreto (il che consente di superate
ogni dubbio cdi compatibilità con principio di offensività). .
L’apologia di delitto è ormai interpretata come istigazione indiretta.
Pubblicamente: significa rivolgersi a una cerchia indeterminata di persone. Il concetto è comunque
specifica dall’art. 266 (istigazione a violare i doveri militari)

Se si tratta di delitti contro la personalità dello Stato si applica il 302. Se si tratta di delitti di pedo-
pornografia si applica il 414-bis. L’aggravante del 414 co. 4 nella parte in cui fa riferimento ai delitti
di terrorismo e ai crimini contro l’umanità sembra per un verso inutile (l’istigazione ai delitti di
terrorismo dovrebbe già rientrare nel 302 fatto espressamente salvo) da un lato indeterminata
(crimini contro l’umanità (categoria che non ha trovato nel diritto interno un riscontro formale)

Istigazione ex art. 302 (è unita anche l’istigazione privata)

Istigazione a disobbedire a leggi di ordine pubblico: problema dell’indeterminatezza delle “leggi di


ordine pubblico”.
Deve trattarsi anzitutto di una legge, non di un regolamento o di un atto amministrativo, ed a
maggior ragione non di una convenzione o contratto privatistico (v. anche Cass. Pen. Sez. 1, n. 5927
in data 25.02.1991, che escluse il reato nella condotta di istigazione all'autoriduzione delle fatture
per il consumo dell'energia elettrica e dell'acqua).
Non si deve però trattare di una legge penalmente sanzionata - limite negativo - per il principio di
specialità che, in tal caso, impone la prevalenza dello specifico disposto di cui all'art. 414 c.p. (da
evidenziare che se si tratta di contravvenzioni, l’art. 414 prevede una pena più mite, ma prevale
comunque sul 415.
Un orientamento superato riteneva che il concetto di ordine pubblico includesse anche l’ "ordinato
assetto e buon andamento del vivere sociale nel quadro costituzionale repubblicano, con
riferimento alle norme cogenti ed inderogabili".
Sulla base di tale indirizzo fu ritenuto integrare il reato ex art. 415 c.p. l'istigazione a disobbedire alle
leggi tributarie.
Successivo orientamento ha negato alla condotta di istigazione a disobbedire alle leggi fiscali - in
quanto non rientranti nell'ordine pubblico - la materialità del reato in questione (cfr. Cass. Pen. Sez.
1, n. 16022 in data 16.10.1989, Rv. 182569, Leghissa), avendo ristretto il concetto di ordine pubblico
rilevante in proposito a quelle norme che tendono a garantire la pubblica tranquillità e la sicurezza
pubblica (ordine pubblico materiale), non necessariamente coincidente, tuttavia, con le sole
norme di polizia, ma con tutte quelle che sono dirette a tutelare la sicurezza della collettività
associata. Sovviene, poi, un argomento di carattere sistematico (ordine pubblico sociale, quindi,
non meramente poliziesco). Di recente l’istigazione a violare alcune norme del codice della strada
(a guidare ubriachi e senza cinture) è stato ritenuto rientrare nel 415.

Istigazione all’odio fra le classi sociali: norma inserita nel codice Rocco per reprimere la diffusione
di teorie politiche fondate sull’idea di contrasto e prevalenza fra le classi sociali (marxismo). Dopo
l’entrata in vigore della Costituzione, si è reso necessario un intervento additivo-manipolativo della
Corte cost. che ha dichiarato incostituzionale la norma nella parte in cui non limita l’incriminazione
alle ipotesi in cui la condotta è concretamente idonea a suscitare violente reazioni contro l’ordine
pubblico e, più in generale, sia attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità.

Istigazione alle pratiche di pedopornografia: Fattispecie speciale rispetto a istigazione a delinquere


che si qualifica per i reati oggetto della condotta (anche se l’incremento sanzionatorio rispetto al
414 è minimo (di soli sei mesi sul minimo editale).
Interessante è la previsione di non scusabilità delle ragioni fi finalità di carattere artistico, letterario.,
di costume, storico. Per alcuni si tratta di una deroga alla disciplina dell’errore di fatto di cui all’art.
47 c.p., nei casi in cui, pur in assenza di dolo, la condotta sia oggettivamente concretamente idonea
a incitare alla pratiche di pedopornografia (Ad es. un film in cui si affronta il temo dello sfruttamento
sessuale dei minori per fini pedo-pornografici, ovvero un libro in cui si approfondisce il tema della
pedofilia). Si accogliesse questa interpretazione, sarebbe comunque necessario il correttivo della
colpa, e si avrebbe quindi un’ipotesi (l’unica di istigazione colposa),

Istigazioni non pubbliche a soggetto determinato affinché commetta un delitto specifico o un atto
autolesivo
(istigazione del p.u. alla tortura e istigazione alla corruzione): fattispecie prodromiche rispetto al
reato scopo. Non tutelano l’ordine pubblico ma offrono protezione anticipata allo stesso bene
protetto dal reato scopo.

Istigazione al suicidio: tutela della libertà (e della vita) e del soggetto vulnerabile

Differenza tra istigazione a delinquere e partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo

7.1 La concreta individuazione della soglia comportamentale cui ancorare la condotta partecipativa nella
fattispecie associativa in esame, nel rispetto dei principi di materialità ed offensività, non può prescindere da
alcune preliminari riflessioni relative alla natura di reato di pericolo presunto del delitto ex art. 270 bis c.p.
(ex multis, Sez. 1, n. 35427 del 21/06/2005, Drissi, Rv. 232280; Sez. 2, n. 24994 del 25/5/2006, Bouhrama, Rv.
234345;Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016,Nasr Osama,Rv. 265924) e alla sostanziale impossibilità di
automatica traslazione alla specificità del fenomeno jihadista dei collaudati canoni interpretativi elaborati in
materia di criminalità organizzata e formazioni eversive interne.

Sotto il profilo della storiografia giudiziaria e con riguardo ai fenomeni di criminalità organizzata, in
particolare di stampo mafioso, deve rilevarsi che, superata la fase stragista degli anni (OMISSIS), il peculiare
metodo che caratterizza siffatte compagini rifugge dalla generalizzata violenza, privilegiando lo strumento
del controllo del territorio, della infiltrazione degli apparati amministrativi e dell'intimidazione di singoli o
categorie di soggetti al fine di assumere posizioni egemoniche su interi settori produttivi mentre la violenza
di matrice ideologica interna, nelle sue espressioni più recenti e virulente, appare distante da tensioni ed
efficacia propriamente eversive, intese a minare l'assetto costituzionale.

La siderale distanza che separa le esperienze associative criminali interne e il fenomeno jihadista, di latitudine
globale, ha reso palese da tempo la necessità di un indispensabile adeguamento dei consolidati canoni
ermeneutici in materia di delitto associativo con riguardo a detto peculiare fenomeno.
Non possono, infatti, sottacersi le criticità e frizioni di sistema che si frappongono alla mera trasposizione nel
campo delle associazioni terroristiche di criteri ermeneutici elaborati con riferimento al modello criminale
dell'associazione mafiosa che, quantunque tentacolare e pervasivo, resta ancorato ad una dimensione
territoriale ed ad una struttura organizzativa piramidale, il cui archetipo è di tipo familistico-patriarcale, e
consente di misurare la partecipazione criminosa secondo efficaci griglie valutative, quali l'organica
compenetrazione del singolo nel tessuto organizzativo del sodalizio o la "messa a disposizione", intesa quale
assenso preventivo ed incondizionato a prestare la propria attività nell'interesse dell'associazione,
rispondenti al fine di sondare l'internità al gruppo secondo un criterio di tipo organicista.
Siffatti parametri interpretativi soffrono evidenti torsioni applicative nell'adattamento ad un fenomeno
criminale di carattere addirittura statuale, reclamando l'Isis la natura di uno stato universalista includente
tutti i musulmani, che delle proprie strategie fa pubblica professione, che non aggrega per cooptazione
rispetto ai fini ma in ragione dell'adesione ad una visione integralista della religione musulmana, che predica
la necessità di affermarne la primazia in maniera violenta, anche a livello individuale, al fine di scardinare
istituzioni e assetti delle società dei miscredenti, che costituisce, dunque, un modello criminale che per
dimensioni e diffusione non ha termini di utile comparazione giuridica nelle pregresse esperienze criminose
nazionali.
In detto contesto l'affiliazione e la partecipazione, nel rispetto delle imprescindibili garanzie discendenti dal
principio di offensività, devono essere valutate secondo parametri che valorizzino la specificità del fenomeno
e colgano adeguatamente, in relazione ai casi concreti, il superamento della soglia di messa in pericolo dei
beni tutelati dalla norma di cui all'art. 270bis c.p..
7.2 Di tale problematica si è fatta carico da tempo la giurisprudenza di legittimità, seppur con esiti ancora
non pienamente consolidati, evidenziando che - ai fini della configurabilità del delitto di associazione con
finalità di terrorismo internazionale - la necessità di una struttura organizzativa effettiva e tale da rendere
possibile l'attuazione del programma criminale non implica necessariamente il riferimento a schemi
organizzativi ordinari, ed è compatibile con le strutture "cellulari" proprie delle associazioni di matrice
islamica, caratterizzate da estrema flessibilità interna, in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze
che, di volta in volta, si presentano, in condizioni di operare anche contemporaneamente in più Stati, ovvero
anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici o comunque a distanza tra gli adepti anche connotati da
marcata sporadicità, considerato che i soggetti possono essere arruolati anche di volta in volta, con una sorta
di adesione progressiva ed entrano, comunque, a far parte di una struttura associativa saldamente costituita.
In tal caso, l'organizzazione terroristica transnazionale assume le connotazioni, più che di una struttura
statica, di una "rete" in grado di mettere in relazione soggetti assimilati da un comune progetto politico-
militare, che funge da catalizzatore dell'"affectio societatis" e costituisce lo scopo sociale del sodalizio (Sez.
5, n. 31389 del 11/06/2008, Bouyahia e altri, Rv. 241175). Nello stesso senso, Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012,
Chabchoub e altri, Rv. 253944, secondo cui il reato è integrato anche in presenza di un sodalizio connotato
da strutture organizzative "cellulari" o "a rete", in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche
in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi
in rete, che realizzi anche una sola delle condotte di supporto funzionale all'attività terroristica di
organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di
documenti di propaganda, all'assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione
di armi o di documenti falsi, all'arruolamento, all'addestramento. Nel delineato solco interpretativo si colloca,
più recentemente, anche Sez. 2, n. 38208/2018 del 27/4/2018, Waqas Muhammad ed altro, non mass..
L'espansione orizzontale e la versatilità del fenomeno jihadista non ha, tuttavia, fatto scolorire la
considerazione circa la necessità di raccordare il contributo dell'agente con l'entità associativa nella sua
interezza, sia pure attraverso articolazioni decentrate. L'elaborazione giurisprudenziale ha, infatti,
insistentemente richiamato l'esigenza dell'innesto dell'attività del singolo sodale nella struttura organizzativa
di riferimento sicchè - a fini cautelari - la partecipazione all'Isis o, comunque, ad analoghe associazioni
internazionali di matrice islamica che propongono una formula di adesione "aperta", è stata desunta dai
propositi di partire per combattere gli "infedeli", dalla dichiarata vocazione al martirio e dall'opera di
indottrinamento, a condizione che l'azione del singolo si raccordi con la struttura organizzata, ovverossia che
esista un contatto operativo, anche flessibile, ma concreto tra il singolo e l'organizzazione che, in tal modo,
abbia consapevolezza, anche indiretta, dell'adesione da parte del soggetto agente (Sez. 6, n. 40348 del
23/02/2018, Afli Nafaa, Rv. 274217; in termini n. 14503 del 19/12/2017 - dep. 2018, P.M. in proc. Messaoudi,
Rv. 272730); principi ribaditi anche da Sez. 6, n. 51218 del 12/06/2018, El Khalfi Abderrahim, Rv. 274290 che
ha precisato che la partecipazione all'organizzazione internazionale "madre" postula contatti effettivi e reali
con la stessa, non potendosi attribuire di per sè rilevanza, ai fini della configurazione della condotta
partecipativa, nè al supporto ad una generica finalità terroristica ovvero alla propaganda all'interno di luoghi
di culto, nè alla generica messa a disposizione "unilaterale".
Si è, infatti, costantemente segnalato che la sola adesione ideologica alla dottrina integralista islamica
propugnata dall'IS e alle azioni violente che la caratterizzano non può ritenersi elemento giuridicamente
sufficiente per dare prova del ruolo di partecipe all'associazione terroristica (ex multis, Sez. 6, n. 14503 del
19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 27273; Sez. 1, n. 22719 del 22/3/2013, Lo Turco, Rv. 256489; n. 30824
del 15/6/2006, Tartag, Rv. 234182), pur chiarendo che la risposta alla chiamata alla jihad segna il momento
in cui si instaura un legame qualificato tra il singolo e l'associazione, alla luce del quale vanno lette le condotte
che il singolo pone in essere, richiamandosi e utilizzando il patrimonio ideologico, culturale e di condivisione
delle tecniche terroristiche, che costituisce il sostrato comune dell'associazione denominata ISIS (in tal senso,
Sez. 2, n. 38208/2018 del 277472018, Waqas Muhammad ed altro, cit.)
8. L'elaborazione della giurisprudenza di legittimità, nell'affrontare l'inedito problema di organizzazioni
terroristiche transnazionali di matrice etnico-religiosa, a base diffusa e struttura fluida, con modalità di
propaganda e reclutamento che privilegiano mezzi informatici di grande impatto e difficile controllo, che
fanno leva su programmi di spiccato contenuto ideologico e fondati su una chiamata al jihad anche di
carattere individuale, non ha, dunque, trascurato di prestare doverosa attenzione alla necessità di ancorare
l'anticipazione della soglia di punibilità propria dei delitti di attentato e dei reati di pericolo alla valutazione
di offensività in concreto delle condotte.

8.1 La Corte Costituzionale ha reiteratamente rammentato che rientra nella sfera di discrezionalità del
Legislatore la scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi, ivi compresa l'opzione
per forme di tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice
esposizione a pericolo, nonchè, correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosità alla quale
riconnettere la risposta punitiva. Ha, tuttavia, chiarito che tali soluzioni debbono confrontarsi con il rispetto
del principio di necessaria offensività del reato, desumibile dall'art. 25 Cost., comma 2, precisando che spetta
al giudice costituzionale procedere alla verifica dell'offensività in astratto, acclarando se la fattispecie
delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo, e, ove tale condizione risulti soddisfatta, il
compito di omologare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato
al giudice ordinario, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività c.d. in concreto), essendo lo
stesso chiamato ad una lettura "teleologicamente orientata" degli elementi di fattispecie, ancor più
penetrante quando le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sè, anodine o polisense, al fine
di evitare che l'area di operatività dell'incriminazione si espanda fino a ricomprendere condotte prive di
un'apprezzabile potenzialità lesiva (Corte Cost. sent. n. 225 del 2008).

8.2 L'individuazione del minimo partecipativo idoneo a realizzare la lesione dell'interesse protetto dalla
disposizione incriminatrice di cui all'art. 270 bis c.p. sconta sul piano pratico la oggettiva difficoltà di
enucleazione di pacifici criteri ermeneutici capaci di scriminare la condotta funzionale all'esistenza e
all'attingimento degli scopi del sodalizio terroristico dalla lecita manifestazione di pensieri ed opinioni che,
quantunque riprovevoli ed estranei all'humus culturale dei paesi occidentali, rientrano nella tutela
costituzionale dell'art. 21 che, pacificamente legittima ogni forma di manifestazione del pensiero a
prescindere dai contenuti, con i soli limiti rinvenibili "non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche
nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell'esigenza di prevenire e far cessare
turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema" (Corte
Costituzionale, sent. 65/1970).

9. La norma di confine che delimita la condotta partecipativa dal basso è costituita dalla fattispecie di cui
all'art. 414 c.p. che, nella sua duplice declinazione, sanziona l'istigazione, intesa quale sollecitazione
all'insorgenza ovvero al rafforzamento dell'altrui proposito criminoso, e l'apologia, consistente
nell'esaltazione di un fatto delittuoso finalizzata a determinarne l'emulazione. Trattasi di condotte connotate
da dolo generico, che postulano come modalità costitutiva la destinazione del messaggio ad una pluralità di
destinatari e punibili solo in presenza dell'effettiva idoneità della condotta istigatrice o apologetica a turbare
l'ordine pubblico.
La fattispecie originaria, sulla base delle spinte novellatrici scaturite dai clamorosi attentati terroristici che
hanno funestato gli ultimi lustri, si è arricchita con la previsione di due circostanze aggravanti ad effetto
speciale, contenute nell'art. 414 c.p., comma 4, applicabili qualora l'istigazione o l'apologia riguardi "delitti di
terrorismo o crimini contro l'umanità" ovvero fatti commessi con strumenti informatici o telematici.

La giurisprudenza di questa Corte ha puntualizzato che, ai fini dell'integrazione del delitto di istigazione a
delinquere, previsto dall'art. 414 c.p., (che è reato di pericolo concreto e non presunto) non basta
l'esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa
apparire alla generalità dei consociati, ma occorre che il comportamento dell'agente sia tale per il suo
contenuto intrinseco, per la condizione personale dell'autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da
determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della consumazione di altri reati e, specificamente, di reati
lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato (Sez. 1, n. 11578 del 17/11/1997, Gizzo, Rv.
209140; n. 8779 del 05/05/1999, Oste, Rv. 214645; n. 26907 del 05/06/2001, Vencato, Rv. 219888).

Ha, inoltre, ritenuto che integra il reato di istigazione a delinquere, la diffusione, mediante l'inserimento su
profilo personale Facebook, di comunicazioni contenenti riferimenti alle azioni militari del conflitto bellico
siro-iracheno e all'Isis che ne è parte attiva, dai quali, anche solo indirettamente, possa dedursi un richiamo
alla jihad islamica e al martirio, in considerazione, sia della natura di organizzazioni terroristiche, rilevanti ai
sensi dell'art. 270-bis c.p., delle consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale sia della
potenzialità diffusiva indefinita della suddetta modalità comunicativa (Sez. 1, n. 24103 del 04/04/2017, P.M.
in proc. Dibrani, Rv. 270604; n. 47489 del 06/10/2015, Halili, Rv. 265264). Quanto al dolo si è puntualizzato
che lo stesso è generico e consiste nella cosciente volontà di commettere il fatto in sè, con l'intenzione di
istigare alla commissione concreta di uno o più delitti, essendo del tutto irrilevanti il fine particolare
perseguito ed i motivi dell'agire (Sez. 1, n. 40684 del 16/10/2008, P.M. in proc. Fusco, Rv. 241564).

10. La condivisibile affermazione, costante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui restano fuori dalla
nozione di partecipazione le condotte di mera adesione psicologica ad un'ideologia violenta ed estremista,
destinate a refluire - nella ricorrenza delle soprarichiamate condizioni - nelle ipotesi di cui all'art. 414 c.p., va
in ogni caso coniugata con la meditata analisi delle concrete caratteristiche dell'associazione a giudizio e dei
comportamenti dei singoli agenti onde coglierne l'eventuale e specifica portata incriminante.

Il Gup (pag. 78) ha opportunamente evidenziato che "solo un'attenta analisi delle peculiari caratteristiche e
delle finalità del sodalizio criminoso può consentire di stabilire se le condotte rispettivamente ascritte agli
imputati - divulgazione e propaganda del jihad e delle azioni violente realizzate dai membri del sedicente
Stato Islamico, adesione a forum e gruppi chiusi riconducibili all'associazione terroristica, contatti con
aspiranti foreign fighter, trasmissione del giuramento di fedeltà del califfo A.B., instradamento di aspiranti
combattenti verso i territori di guerra e manifestazione di disponibilità a porre in essere un attentato
terroristico - costituiscano un contributo utile al mantenimento, alla realizzazione o al rafforzamento degli
scopi del sodalizio e nel contempo, offensivo del bene giuridico protetto dall'art. 270 c.p. "Di seguito la
sentenza di primo grado ha focalizzato i caratteri e gli scopi del c.d. Stato Islamico, sottolineando come risulti
strumentale al consolidamento dell'organizzazione, volta a creare uno Stato di ispirazione salafita che
abbracci l'intera comunità dei musulmani, la positiva risposta alla chiamata al jihad armato contro i nemici,
anche in forma individuale, più volte formulato dal sedicente califfo A.B., e richiamando l'assoluta centralità
rivestita nell'ambito del progetto terroristico dell'utilizzo della rete Internet e dei social media, destinati non
solo alla propaganda delle attività del califfato, ma anche e soprattutto ad agevolare il reclutamento e
l'autoradicalizzazione, a condividere le istruzioni tecniche per atti di jihad individuale, ad intimidirei nemici
"infedeli". Il rilievo cruciale attribuito alla comunicazione e all'esportazione globale del progetto dell'IS è
testimoniato dalla creazione di un apposito "consiglio dei media" che sviluppa la produzione propagandistica
del califfato e la sua diffusione tramite social network.

10.1 Un'attenta dottrina ha acutamente osservato come nel caso del c.d. Califfato o Stato islamico (IS), la
militanza ideologica funge da vera e propria testimonianza di appartenenza identitaria in quanto -
esplicitando la propria adesione al programma enunciato da A.B. - e, di conseguenza, esaltandone le atrocità
- un soggetto si professa cittadino del sedicente Stato islamico, si dichiara parte di una collettività che vede
nel califfo la propria unità politica. La funzione strategica della propaganda apologetica in siffatto quadro di
riferimento dà conto della correttezza ermeneutica della chiave di lettura dei materiali processuali offerta
dal Gup e della riduttiva e non perspicua valutazione operatane dalla sentenza impugnata.

11. La Corte territoriale, come lamentato dal P.g. impugnante, ha condotto un inadeguato e parziale scrutinio
delle risultanze processuali a carico dei prevenuti An.Ho. e A.H., svalutando circostanze di fatto che erano
meritevoli di più puntuale scrutinio allo scopo di saggiarne l'attitudine a fondare la responsabilità a titolo
partecipativo nel delitto ex art. 270 bis c.p.. Ed, invero, dall'analitica ricostruzione della sentenza di primo
grado risulta, con riguardo alla posizione di A.H. che, oltre alla pubblicazione sui molteplici profili Facebook,
di cui aveva l'uso, di materiale propagandistico dell'IS, alla condivisione di video apologetici dell'attentato
terroristico di (OMISSIS) del (OMISSIS) e alla partecipazione a gruppi chiusi di condivisione dell'ideologia
jihadista, si faceva promotore del sostegno finanziario alla causa islamista, faceva ricorso alla c.d. Taqiyya
ovvero alla dissimulazione della propria fede jihadista, come emerge dall'intercettazione telefonica
dell'(OMISSIS) dopo aver subito un controllo all'aeroporto di Fiumicino ove doveva imbarcarsi in direzione
dell'Egitto; aveva espressamente aderito alla rivista on line "(OMISSIS)", prodotta dallo Stato Islamico che
affronta principalmente i problemi dell'emigrazione verso i territori conquistati dall'ISIS e fornisce consigli sui
bersagli da colpire in occidente e sulla fabbricazione di armi.

La Corte territoriale ha ricondotto nel paradigma dell'art. 414 c.p. non solo la pubblicazione da parte del
prevenuto di video, immagini, commenti che esaltano le azioni più brutali ed efferate dell'Isis, quali
l'assassinio di ostaggi con la contestuale esortazione ad ucciderli " ovunque li incontriate", ovvero di messaggi
diretti ad intimorire ("i nostri coltelli saranno presto sulle vostre gole..") ma anche la diretta sollecitazione
agli utenti a contribuire economicamente alla causa di rendere vittoriosa la religione islamica e la
partecipazione a gruppi chiusi che hanno natura di strumenti d'indottrinamento piuttosto che di propaganda.
Ugualmente deve rilevarsi che, sotto il profilo del dolo, la Corte territoriale non ha dato congruo conto delle
ragioni alla base dei comportamenti dissimulatori adottati dal prevenuto per eludere l'attenzione degli organi
investigativi e concretatisi nel ricorso a generalità di fantasia per la creazione di plurimi profili facebook; nella
preoccupazione espressa a tale E.E. circa i controlli subiti all'aeroporto di (OMISSIS) l'(OMISSIS) e nelle cautele
adottate in occasione di altro viaggio effettuato via nave nell'autunno (OMISSIS), di cui parlava con il fratello
H. in alcuni messaggi scambiati l'(OMISSIS).

11.1 Quanto ad An.Ho., le emergenze processuali richiamate dai giudici di merito attestano che egli, che si
proclamava agguerrito sostenitore dello Stato Islamico, ambiva - al pari del fratello - ad unirsi ai combattenti
del califfato, dimostrava conoscenza e pregressi contatti con jihadisti che avevano risposto alla chiamata alle
armi di A.B., palesando partecipazione e cordoglio per tale E.S. caduto in guerra e apprezzamento per Ab.Ra.
che aveva raggiunto la (OMISSIS) per unirsi ai combattenti islamici.

Anche An.Ho., secondo le risultanze delle sentenze di merito, si è reso protagonista di una incalzante attività
di propaganda in favore di Daesh tramite molteplici profili Facebook, anche con generalità false, utilizzati per
divulgare la chiamata al jihad attraverso la pubblicazione di notizie e video diramati dall'associazione sulla
piattaforma Telegram, curando tra l'altro un profilo intestato ad Sw.Ah. ("(OMISSIS)"), "martire" della causa
e già membro dell'esercito del Califfato, proponendosi di eseguire "il testamento del nostro fratello" con la
pubblicazione " dell'unicità e delle notizie dello stato". Tramite lo stesso profilo l'imputato postava la frase
"AlJazeera, Watsapp, Telegram e Facebook sono diventati campi di battaglia tra lo stato islamico e l'esercito
degli Stati Uniti d'America..qualcuno di voi ha paura, giovani, oppure siete pronti per la battaglia?", ricevendo
ben 228 like e commenti anche da parti di soggetti che si dicevano personalmente pronti al jihad.

Il primo giudice ha, inoltre, evidenziato come dalle intercettazioni telematiche emerga che l'imputato era
punto di riferimento per ottenere delucidazioni circa le scelte dello Stato islamico (come nel caso
dell'esecuzione del pilota giordano M.A.K.), non esitando - a fronte di una richiesta rivoltagli in data (OMISSIS)
- a puntualizzare di "spiegare il punto di vista dello Stato"; si preoccupava di fornire ausilio a coloro che
intendevano unirsi alle milizie jihadiste, contattando soggetti in grado di accreditare i potenziali combattenti
e garantendo della loro affidabilità; trasmetteva, a richiesta, come nel caso del coimputato S.T., il giuramento
di fedeltà al califfo. Nè la Corte territoriale ha spiegato le ragioni alla base dell'adozione di accurate
precauzioni per evitare la sua identificazione attraverso il ricorso a sistemi di comunicazione anonima
finalizzati a ostacolare il tracciamento dell'attività svolta sulla rete, alla cancellazione di post e chat, al
reiterato suggerimento ai suoi interlocutori di utilizzare canali di comunicazione di maggiore sicurezza. Basti
por mente alla telefonata intercorsa il (OMISSIS) con E.K., avente ad oggetto il desiderio di quest'ultimo di
raggiungere il teatro di guerra in (OMISSIS), al quale il prevenuto suggeriva di non parlarne per telefono,
invitandolo a ricorrere a facebook o messanger: "ci sono delle possibilità, ci sono dei metodi però non se ne
parla qui.. hai capito?".

11.2 La Corte territoriale, pur dichiarando (pag. 15) di condividere le osservazioni del primo giudice circa la
centralità della rete internet nelle strategie dell'organizzazione terroristica, ha complessivamente svalutato
le emergenze che attingono i prevenuti, ritenendo - con riguardo alla posizione di An.Ho. - dirimente
l'affermazione captata in una chat del (OMISSIS) con tale J.K. nella quale egli testualmente asseriva "io non
faccio parte dell'esercito del califfato ma sono un agguerrito sostenitore dello Stato e chiedo a Dio di farmi
unire a loro in salute con le tue preghiere".

La sentenza impugnata ha trascurato di spiegare in maniera persuasiva i motivi per i quali l'autoqualificazione
del prevenuto alla stregua di mero sostenitore dell'Is rivesta valore assorbente al fine della degradazione
della condotta partecipativa ritenuta in primo grado, nonostante una serie di emergenze dimostrative di
personali e qualificati contatti con combattenti presenti sul fronte di guerra, pronti a fidarsi del suo
accreditamento al fine di reclutare soggetti desiderosi di unirsi all'esercito di A.B., senza tener conto che la
partecipazione armata al conflitto è solo uno dei possibili ruoli funzionali all'assetto organizzativo del
sodalizio e all'attingimento dei suoi scopi.

La stessa sentenza impugnata (pag. 16) riconosce, infatti, che almeno tre soggetti non individuati, come
emerge dalle chat in data (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), si erano rivolti ad An.Ho. "per ottenere
informazioni utili ad unirsi alle milizie dello Stato Islamico", ricevendo assicurazioni sull'attivazione di contatti
in grado di agevolarli.

Si tratta di condotte che la Corte distrettuale valuta alla stregua della mera istigazione sebbene le stesse si
collochino, sotto il profilo fattuale, più propriamente nell'area del reclutamento, in quanto l'imputato si
prestava ad instradare i combattenti, già determinati a votarsi al jihad, verso il teatro di guerra nei territori
occupati da Daesh.

12. Alla luce dei materiali scrutinati dai giudici di merito emergono, dunque, comportamenti che non si
esauriscono nell'esaltazione dell'organizzazione terroristica e nell'invito ad aderirvi ma proiettano l'azione
dei prevenuti nell'ambito della concreta attività di supporto al sodalizio e che non risultano scrutinati in
termini di adeguatezza e conferenza motivazionale dalla sentenza impugnata, con particolare riguardo
all'analisi compiuta del complesso comunicativo ascrivibile agli imputati, tenuto conto dei criteri discretivi tra
apologia e partecipazione all'organizzazione in esame, della valenza "costitutiva" del ricorso ai social media
e alla funzionalità delle condotte al rafforzamento del sodalizio, sotto il profilo dell'incentivazione
dell'adesione al progetto criminoso, dell'agevolazione, del reclutamento e del convogliamento di fonti
economiche-finanziarie verso l'apparato belligerante.

12.1 Alla stregua del consolidato insegnamento di legittimità in tema di valutazione della prova indiziaria
relativa a realtà associative va richiamata la centralità della prova logica che, muovendo dall'esame delle
singole condotte criminose, ciascuna delle quali può non essere dimostrativa del vincolo associativo, e previa
valutazione della consistenza di ciascun elemento acquisito, deve approdare ad una valutazione complessiva
e sinergica, sorretta da corrette inferenze logiche, in ordine alla riconducibilità o all'esclusione delle condotte
incriminate dall'alveo della partecipazione. Va al riguardo ulteriormente osservato che, nella prospettiva
dell'apprezzamento di condotte potenzialmente partecipative al delitto associativo ex art. 270 bis c.p.,
appare particolarmente pregnante il riferimento, atto a selezionare quelle concretamente sanzionabili, al
"contesto" di realizzazione delle stesse che si rinviene all'art. 270 sexies c.p., trattandosi di richiamo che
agisce in funzione di ampliamento della disposizione incriminatrice e di perimetrazione della messa in
pericolo del bene protetto, che impone all'interprete la valutazione del contributo individuale nella concreta
interazione con tutte le forze finalizzate all'evento.

La giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che il riferimento al "contesto" dell'azione, che concorre a


definire la base sulla quale deve essere valutato il significato della condotta, comporta di dover dare rilievo
al pericolo del "grave danno" anche quando questo non dipenda solo dall'azione individuale considerata, ma
sia piuttosto il frutto dell'innesto della stessa in una più ampia serie causale, non necessariamente controllata
dall'agente, fermo restando che questi deve rappresentarsi e volere tale interazione (Sez. 6, n. 28009 del
15/05/2014, Alberto e altri, Rv. 260076 in fattispecie relativa ad attentato in danno del tunnel di Chiomonte
della linea TAV; conforme Sez. 1, n. 47479 del 16/07/2015,P.m. in proc. Alberti e altri, Rv. 265405).

13. Devesi aggiungere che lo scrutinio del giudice d'appello ha analogamente pretermesso, ai fini dell'operata
riqualificazione, un confacente vaglio del coefficiente psicologico che sostiene le condotte incriminate al fine
di discernere l'eventuale emersione, oltre che di azioni causalmente raccordate agli scopi perseguiti da
Daesh, di un'adesione che travalichi l'ambito della mera esaltazione ideologica dell'operato del califfo per
sfociare nella consapevole volontà di condividerne operativamente gli obiettivi attraverso quella che il primo
giudice ha definito (pag. 79) il c.d. jihad elettronico. Siffatta valutazione non può che far leva sul dolo specifico
proprio della fattispecie ex art. 270 c.p., suscettibile di valorizzazione ai fini della più efficace tipizzazione
delle condotte in considerazione del rapporto strumentale di mezzo a fine che qualifica il rapporto tra i singoli
atti potenzialmente partecipativi e lo scopo tipico dell'associazione.

13.1 Invero, la preoccupazione avanzata da più parti in dottrina per la "destrutturazione" in corso della
condotta partecipativa, asseritamente estesa fino a ricomprendere manifestazioni connotate da un deficit di
materialità, non può ignorare il fatto che le attività di propaganda, apologia e proselitismo di cui si tratta non
si risolvono nella manifestazione di opinioni pur esecrabili e nell'induzione all'emulazione ma orientano il
consenso nell'ampia sfera della comunicazione virtuale in conformità alle direttive dello stato islamico e
costituiscono la riserva aurea delle individuali vocazioni al martirio, prontamente rivendicate dall'ISIS che
riconosce la veste di proprio combattente a chiunque ne attui, ovunque, le strategie violente. La
smaterializzazione (intesa quale mero deficit di ricaduta nel mondo fisico degli effetti della condotta e non
quale illecito esaurito dalla sola volizione), a ben vedere, costituisce il portato di modalità di estrinsecazione
dei fatti delittuosi che non postulano necessariamente una fenomenologia che incida la realtà fisica ma la
veicolano attraverso pervasivi strumenti di manipolazione comunicativa. Si tratta di fenomeni non estranei
al diritto penale e che hanno indotto il legislatore in ripetute occasioni ad intervenire, ad esempio, in tema
di pornografia virtuale, adescamento di minori via internet, frode informatica, a fronte di condotte che
trovano nel mezzo telematico lo strumento elettivo di esecuzione con correlativa configurazione di condotte
illecite la cui manifestazione è di per sè smaterializzata, ma non per questo può negarsene la specifica ed
incontestabile offensività in ragione della lesione arrecata ai beni giuridici protetti. Nè il sistema ignora
condotte partecipative che prescindono da un apporto materiale all'illecito sol che si considerino le
dinamiche del concorso di persone nel reato, ravvisabile anche in presenza di un contributo agevolatore che
abbia reso più facile la consumazione del reato, che può atteggiarsi anche come mera partecipazione morale,
di rafforzamento cioè dell'altrui proposito criminoso già esistente o di sostegno psicologico delle altrui attività
(Sez. 4, n. 2310 del 22/11/1994 - dep. 1995, P.G. in proc. A.V.C.I., Rv. 201244; Sez. 5, n. 21082 del
13/04/2004,Terreno, Rv. 229200;Sez. 4, n. 24895 del 22/05/2007, P.m. in proc. Di Chiara, Rv. 236853;Sez. 6,
n. 1986 del 06/12/2016,Salamone, Rv. 268972), nel qual caso nessuno dubita della punibilità del contributo
prestato dal partecipe sebbene di natura squisitamente psicologica in quanto destinato a saldarsi e a refluire
nella materialità dell'azione lesiva del correo e non esaurito, quindi, da un mero stato soggettivo di volizione.

14. La Corte territoriale nello scrutinio dei materiali processuali, ai fini della diagnosi differenziale tra
partecipazione ed istigazione ha, inoltre, omesso di considerare la possibilità (per così dire intermedia) di
configurare l'attività del fratelli A. alla stregua di concorrenti esterni dell'organizzazione criminosa IS secondo
le coordinate ermeneutiche della sentenza Mannino, la quale ha chiarito - in relazione a compagini di natura
mafiosa - che assume il ruolo di "concorrente esterno" il soggetto che, non inserito stabilmente nella
struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'"affectio societatis", fornisce un concreto, specifico,
consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si
configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative
dell'associazione o, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale, e sia diretto
alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima, valutazione da effettuarsi
mediante accertamento "ex post" in ordine all'affidabilità dell'efficacia condizionante della condotta atipica
del concorrente. (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671). Sotto il profilo del dolo la
giurisprudenza ha segnalato la necessità che l'agente, pur in assenza dell'"affectio societatis" e, cioè, della
volontà di far parte dell'associazione, sia consapevole dell'esistenza della stessa e del contributo causale
recato dalla propria condotta alla sua conservazione o al suo rafforzamento, agendo con la volontà di fornire
un apporto per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio (Sez. 5, n. 26589 del
23/02/2018, V. e altro, Rv. 273356).

15. Alla luce delle considerazioni che precedono e del rilevato multiforme deficit motivazionale della sentenza
impugnata, ritiene la Corte che la stessa debba essere annullata - ritenuti assorbiti i ricorsi degli imputati
An.Ho. e A.H. - con rinvio alla Corte d'Assise d'Appello di Milano per nuovo giudizio.

Va al riguardo debitamente precisato che l'originario errore contenuto nel dispositivo concernente l'erronea
individuazione del giudice di rinvio nella Corte d'Assise d'Appello di Genova è stato emendato ex art. 130
c.p.p. con ordinanza resa in data 8 marzo 2019. Non è, inoltre, fuor di luogo ribadire che, poichè esula dalla
funzione del giudice di legittimità sovrapporre una nuova ed autonoma valutazione a quella compiuta dai
giudici di merito in ordine alla portata ed alla affidabilità delle fonti di prova acquisite, dovendo lo stesso
limitarsi a stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito
una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se
abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno
giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995 - dep.
1996, Clarke, Rv. 203428), allorchè il vizio che determina l'annullamento della sentenza riguarda la
motivazione, il giudice di rinvio mantiene integri i poteri di accertamento e valutazione, sicchè gli eventuali
elementi di fatto contenuti nella pronuncia di annullamento rilevano come punti di riferimento al fine della
individuazione del vizio ma non come dati che si impongono per la decisione demandatagli, che può ed, anzi,
deve procedere ad una completa rivisitazione del materiale probatorio facendo corretta applicazione dei
principi di diritto e delle regole della logica evidenziati in sede rescindente.
AMMINISTRATIVO

Natura e funzioni del giudizio di ottemperanza, con particolare riferimento ai rapporti fra il potere
del commissario ad acta e quello dell’amministrazione che subisce l’ottemperanza. Esamini il
candidato anche il tema dei rimedi avverso i provvedimenti adottati nella fase dell’ottemperanza.

Plenaria 2/2013 sull’impugnazione dei provvedimenti espressione delle riedizione del potere
dopo il giudicato: In via generale può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione
di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un
giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto
questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente
per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità.
Naturalmente questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a
qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza
da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge
nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori.
Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato
dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la
nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di
interesse della seconda domanda.
Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione
per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.
Ciò appare consentito dall’art. 32, co. 2, primo periodo, cpa, in base al quale “il giudice qualifica
l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali”, e la conversione dell’azione è ben possibile –
ai sensi del secondo periodo del medesimo comma – “sussistendone i presupposti”.
Ciò peraltro presuppone che tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio
iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di
decadenza previsto dall’art. 41 cpa: il rispetto del termine decadenziale per la corretta
instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che dalla disciplina del giudizio
impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza dei “presupposti” (tra i
quali occorre certamente comprendere il rispetto del termine decadenziale), effettuato dall’art. 32,
co. 2, cpa.
Giova osservare, infine, che la conversione dell’azione può essere disposta dal giudice
dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli articoli 21 septies
l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett. b), cpa, è competente, in relazione ai provvedimenti
emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa a seguito di sentenza
passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione del
giudicato, e dunque – come si è già evidenziato – della più grave delle patologie delle quali gli atti
suddetti possono essere affetti.

Plenaria 8/2021 (sui poteri della p.a. dopo l’insediamento del commissario ad acta)
a) il commissario ad acta è solo ed esclusivamente “ausiliario del giudice”;
b) il potere esercitato dal commissario non è il medesimo del quale l’amministrazione è titolare, né
il commissario si “sostituisce” all’amministrazione nel suo esercizio, né si verifica un “trasferimento”
di detto potere (come pure è stato anteriormente affermato: Cons. Stato, sez. V, 5 giugno 2018 n.
3378);
c) il potere del commissario ad acta nella adozione di atti e provvedimenti trova il proprio
fondamento genetico nella decisione del giudice (sentenza passata in giudicato; sentenza
provvisoriamente esecutiva non sospesa; ordinanza cautelare) e la propria giustificazione sul piano
funzionale nella necessità di assicurare pienezza ed effettività alla tutela giurisdizionale già
riconosciuta alla situazione soggettiva per la quale si è agito in giudizio;
d) gli effetti degli atti posti in essere dal commissario ad acta si imputano alla sfera giuridica
dell’amministrazione non già come conseguenza del fatto che il commissario è organo straordinario
della medesima (riconducendo quindi in tal modo, implicitamente, l’imputazione degli effetti alla
immedesimazione organica), bensì perché tali effetti si producono nella sfera giuridica
dell’amministrazione per derivazione dalla decisione del giudice (articoli 2908, 2909 c.c.).
6.1. La natura distinta del potere esercitato dal commissario ad acta rispetto al potere del quale è
titolare la pubblica amministrazione soccombente già costituisce, di per sé, chiara indicazione in
ordine alla ammissibilità della “concorrenza” della competenza commissariale con quella
dell’amministrazione.
Difatti, il commissario ad acta svolge compiti ed esercita specifici poteri in virtù del munus
conferitogli, nei sensi innanzi esposti, dall’atto di nomina da parte del giudice
e dalla decisione da attuare. Nel suo caso, come si è detto, non si verifica alcuna “sostituzione”
dell’amministrazione nell’esercizio dei poteri che le sono propri, né questi ultimi si “trasferiscono”
al commissario per effetto della nomina della quale l’inerzia dell’amministrazione costituirebbe la
ragione.
[…]
Da quanto innanzi esposto consegue:
a) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del
commissario ad acta, non possono essere considerati affetti da nullità, poiché essi sono adottati da
un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento
del commissario medesimo. Tali atti potranno essere, ricorrendone le condizioni, dichiarati nulli dal
giudice per la diversa ipotesi di violazione o elusione del giudicato (art. 21-septies, l. n. 241/1990),
ovvero annullati perché ritenuti illegittimi all’esito di domanda di annullamento in un ordinario
giudizio di cognizione, ma non possono in ogni caso essere considerati emanati in difetto assoluto
di attribuzione e, per questa ragione, ritenuti affetti da nullità;
b) il commissario ad acta nominato dal giudice potrà esercitare il proprio potere fintanto che
l’amministrazione non abbia eventualmente provveduto. Qualora persista il dubbio del commissario
in ordine all’esaurimento del proprio potere per intervenuta attuazione della decisione (poiché, ad
esempio, questa è reputata dal commissario parziale o incompleta), lo stesso potrà rivolgersi al
giudice che lo ha nominato, ai sensi dell’art. 114, co. 7 c.p.a.;
c) gli atti emanati dal commissario ad acta, non essendo espressione di potere amministrativo, non
sono annullabili dall’amministrazione in esercizio del proprio potere di autotutela. Qualora
l’amministrazione intenda dolersi di tali atti (ritenendoli illegittimi ovvero non coerenti con il
comando contenuto nella decisione del giudice), potrà esclusivamente rivolgersi al giudice
dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a., ovvero al giudice del silenzio, ai sensi dell’art.
117, co. 4, c.p.a.;
d) qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare
attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsi inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione
può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del giudizio sul silenzio.
Allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall’amministrazione dopo
che il commissario abbia provveduto.
Chiarito il rapporto intercorrente tra commissario ad acta ed amministrazione soccombente,
occorre ricordare come resti ovviamente fermo il potere della parte vittoriosa di rivolgersi al giudice
per ogni doglianza o chiarimento nei confronti degli atti adottati.
8. Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, l’Adunanza Plenaria formula i seguenti principi di
diritto:
a) il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo
che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in
giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che
l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto;
b) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del
commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi
sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina
o l’insediamento del commissario.
c) gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio
del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione,
ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell’ottemperanza, ai
sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del giudizio sul silenzio, ai sensi dell’art. 117,
co. 4, c.p.a.
d) gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare
attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il
commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro
rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice
dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio.
Limiti legislativi alla tutela in forma specifica nel diritto amministrativo. Si esaminino, in particolare,
le forme di tutela della pretesa all’aggiudicazione di un appalto, anche con riferimento agli appalti
collegati all’attuazione del PNRR

Corte cost. n. 49/2011 sulla legittimità costituzionale di norme che escludono la tutela in forma
specifica rispetto a certi atti amministrativi (facendo salva la sola tutela risarcitoria per
equivalente). Sentenza resa con riferimento alle sanzioni disciplinari inflitte dalle Federazioni
sportive.
Si può passare, ora, alla questione di costituzionalità sollevata dal TAR Lazio.
Quest’ultimo dubita della più volte citata disposizione legislativa nella parte in cui riserverebbe al
solo giudice sportivo la competenza a decidere le controversie aventi ad oggetto sanzioni
disciplinari, diverse da quelle tecniche, inflitte ad atleti, tesserati, associazioni e società sportive,
sottraendole al sindacato del giudice amministrativo. Chiarisce che i dubbi di costituzionalità «non
attengono alla previsione della c.d. pregiudiziale sportiva», dato che ritiene che essa sia «corretta e
logica conseguenza della riconosciuta autonomia dell’ordinamento sportivo», ma «alla generale
preclusione […] ad adire il giudice statale una volta esauriti i gradi della giustizia sportiva».
Afferma, altresì, che della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale potrebbe darsi (anzi,
in passato è stata data) altra interpretazione, ma che una recente pronuncia del Consiglio di Stato
(Sez. VI, sent. n. 5782 del 25 novembre 2008), che ha fatto seguito ad altra analoga del Consiglio di
giustizia amministrativa della Regione siciliana (sent. n. 1048 dell’8 novembre 2007), gli impone di
tralasciare la precedente interpretazione e di adeguarsi a quella fatta propria dal giudice del
gravame che, a suo giudizio, presenta aspetti di contrasto con gli artt. 24, 103 e 113 Cost.
[…]

Nella sentenza si afferma, infatti, proprio con riferimento all’art. 1 del d.l. n. 220 del 2003 che «tali
norme debbano essere interpretate, in un’ottica costituzionalmente orientata, nel senso che
laddove il provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal C.O.N.I. abbia incidenza anche
su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad
ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, debba essere
proposta innanzi al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna
riserva a favore della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere
fatta valere». Si precisa, altresì, che «Il Giudice amministrativo può, quindi, conoscere, nonostante
la riserva a favore della “giustizia sportiva”, delle sanzioni disciplinari inflitte a società,
associazioni ed atleti, in via incidentale e indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda
risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione».
Quindi, qualora la situazione soggettiva abbia consistenza tale da assumere nell’ordinamento
statale la configurazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, in base al ritenuto “diritto
vivente” del giudice che, secondo la suddetta legge, ha la giurisdizione esclusiva in materia, è
riconosciuta la tutela risarcitoria.
In tali fattispecie deve, quindi, ritenersi che la esplicita esclusione della diretta giurisdizione sugli atti
attraverso i quali sono state irrogate le sanzioni disciplinari – posta a tutela dell’autonomia
dell’ordinamento sportivo – non consente che sia altresì esclusa la possibilità, per chi lamenti la
lesione di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante, di agire in giudizio per ottenere il
conseguente risarcimento del danno.
È sicuramente una forma di tutela, per equivalente, diversa rispetto a quella in via generale
attribuita al giudice amministrativo (ed infatti si verte in materia di giurisdizione esclusiva), ma non
può certo affermarsi che la mancanza di un giudizio di annullamento (che, oltretutto, difficilmente
potrebbe produrre effetti ripristinatori, dato che in ogni caso interverrebbe dopo che sono stati
esperiti tutti i rimedi interni alla giustizia sportiva, e che costituirebbe comunque, in questi casi
meno gravi, una forma di intromissione non armonica rispetto all’affermato intendimento di
tutelare l’ordinamento sportivo) venga a violare quanto previsto dall’art. 24 Cost.. Nell’ambito di
quella forma di tutela che può essere definita come residuale viene, quindi, individuata, sulla base
di una argomentata interpretazione della normativa che disciplina la materia, una diversificata
modalità di tutela giurisdizionale.
È utile, al riguardo, sottolineare quanto questa Corte ha già avuto modo di affermare nella sentenza
n. 254 del 2002, quando ha esaminato una questione relativa all’esonero di responsabilità che
l’allora vigente normativa concedeva ai gestori del servizio telegrafico, e cioè che «appartiene alla
sfera della discrezionalità legislativa apportare una deroga al diritto comune della responsabilità
civile che realizzi un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze proprie» dei due portatori di
interesse che si contrappongono.
Tra l’altro, le ipotesi di tutela esclusivamente risarcitoria per equivalente non sono certo ignote
all’ordinamento. Infatti – ed il riferimento è pertinente in quanto si verte in tema di giurisdizione
esclusiva –, è proprio una disposizione del codice civile, vale a dire l’art. 2058, richiamata dall’art.
30 del recente d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n.
69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), a prevedere il
risarcimento in forma specifica come un’eventualità («qualora sia in tutto o in parte possibile»),
peraltro sempre sottoposta al potere discrezionale del giudice («tuttavia il giudice può disporre che
il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta
eccessivamente onerosa per il debitore»).
In questo caso, secondo il “diritto vivente” cui il rimettente fa riferimento, il legislatore ha operato
un non irragionevole bilanciamento che lo ha indotto, per i motivi già evidenziati, ad escludere la
possibilità dell’intervento giurisdizionale maggiormente incidente sull’autonomia dell’ordinamento
sportivo.

Corte cost. n. 160/2019 (sempre sulla legittimità dell’esclusione della tutela in forma specifica in
materia di sanzioni disciplinari “sportive”)
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, se è fuor di dubbio che i principi fondamentali
del nostro sistema costituzionale espressi dagli artt. 24 e 113 Cost. devono avere applicazione
rigorosa a garanzia delle posizioni giuridiche dei soggetti che ne sono titolari, ciò non significa che il
citato art. 113 Cost., correttamente interpretato, sia diretto ad assicurare in ogni caso e
incondizionatamente una tutela giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo,
spettando invece al legislatore ordinario un certo spazio di valutazione nel regolarne modi ed
efficacia (sentenze n. 100 del 1987, n. 161 del 1971 e n. 87 del 1962). Ancora più precisamente,
questa Corte ha affermato che «[i]l [...] secondo comma dell’art. 113 non può essere interpretato
senza collegarlo col comma che lo segue immediatamente e che contiene la norma, secondo la quale
la legge può determinare quali organi di giurisdizione possano annullare gli atti della pubblica
Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge medesima. Il che sta a significare che
codesta potestà di annullamento non è riconosciuta a tutti indistintamente gli organi di
giurisdizione, né è ammessa in tutti i casi, e non produce in tutti i casi i medesimi effetti» (sentenza
n. 87 del 1962). Ciò, fermo restando naturalmente che, affinché il precetto costituzionale di cui agli
artt. 24 e 113 Cost. possa dirsi rispettato, è comunque «indispensabile [...] che la norma, la quale si
discosti dal modello accolto in via generale per l’impugnazione degli atti amministrativi, sia
improntata a ragionevolezza e adeguatezza» (sentenza n. 100 del 1987).
3.2.4. Le limitazioni alla tutela giurisdizionale – delle quali il rimettente si duole sottolineando la
mancanza di un rimedio di integrale ripristino della posizione soggettiva compromessa – non solo
restano, come appena visto, nell’ambito di ciò che è costituzionalmente tollerabile in esito al
descritto bilanciamento, ma non sono comunque ignote al sistema normativo.
Come ricordato anche nella sentenza n. 49 del 2011 (punto 4.5. del Considerato in dirtto, dove si
menziona il disposto dell’art. 2058 del codice civile, richiamato dall’art. 30 cod. proc. amm.),
l’esclusione della tutela costitutiva di annullamento e la limitazione della protezione giurisdizionale
al risarcimento per equivalente non è un’opzione sconosciuta al nostro ordinamento. Si tratta, al
contrario, di una scelta che corrisponde a una «tecnica di tutela assai diffusa e ritenuta pienamente
legittima in numerosi e delicati comparti», tra i quali l’ambito lavoristico, come ha osservato la
giurisprudenza di legittimità occupandosi proprio delle disposizioni qui censurate (Corte di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 13 dicembre 2018, n. 32358). E anche questa Corte,
pronunciandosi sullo stesso tema delle tutele obbligatorie in ambito lavoristico, «ha espressamente
negato che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non
esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n.
46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto)», riconoscendo che «[i]l legislatore ben può,
nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-
monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio
di ragionevolezza» (sentenza n. 194 del 2018).
D’altro canto, se, come appena visto, il risarcimento rappresenta in linea generale una forma in sé
non inadeguata di protezione delle posizioni dei soggetti colpiti dalle sanzioni sportive, non va
trascurato il rilievo che assume, nell’ambito di una vicenda connotata pubblicisticamente quale
quella in esame, l’accertamento incidentale condotto dal giudice amministrativo sulla legittimità
dell’atto, di cui anche gli organi dell’ordinamento sportivo non possono non tenere conto.
L’esclusione della tutela costitutiva non comporta di regola conseguenze costituzionalmente
inaccettabili nemmeno sul piano della adeguatezza della tutela cautelare, nel senso
dell’impossibilità di ottenere la sospensione interinale dell’efficacia degli atti di irrogazione delle
sanzioni disciplinari sportive. L’esigenza di protezione provvisoria delle pretese fatte valere in
giudizio, ricadente essa stessa nell’ambito di operatività delle garanzie offerte dagli artt. 24, 103 e
113 Cost., può trovare invero una risposta nei caratteri di atipicità e ampiezza delle misure cautelari
a disposizione di tale giudice – che in base all’art. 55 cod. proc. amm. può adottare le «misure
cautelari […] che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli
effetti della decisione sul ricorso» – e nella possibilità che in questo ambito vengano disposte anche
ingiunzioni a pagare somme in via provvisoria.
3.3.– In secondo luogo, il TAR rimettente chiede espressamente un riesame della questione già
decisa da questa Corte nella citata sentenza n. 49 del 2011, sull’assunto che permarrebbero profili
di contrasto con l’art. 24 Cost. letto in combinato disposto con gli stessi artt. 103 e 113 Cost., perché
la sentenza n. 49 del 2011 avrebbe riconosciuto la «equipollenza» tra le due forme di tutela,
caducatoria e risarcitoria, in mancanza di un principio generale dell’ordinamento che lo consenta e
di una «espressa scelta» del legislatore, che dovrebbe avere comunque natura eccezionale.
In questa prospettiva i motivi di censura si risolvono in una critica alla pronuncia di questa Corte
nella parte in cui ha giudicato conforme a Costituzione un assetto normativo che, in base al diritto
vivente, riconosce al destinatario della sanzione la sola tutela risarcitoria. La critica tende, in
definitiva, a dimostrare che le disposizioni censurate, anche se interpretate nel senso accolto dalla
sentenza n. 49 del 2011, violerebbero l’art. 24 Cost., riconoscendo una tutela che non equivale a
quella caducatoria, sia per la diversità del bene della vita conseguibile ope iudicis, giacché con
l’annullamento di una sanzione disciplinare non ancora eseguita si può ottenere il completo
ripristino della situazione soggettiva compromessa, anziché una «prestazione diversa da quella
originaria», sia per l’aggravio dell’onere probatorio da assolvere ai fini del risarcimento del danno,
avente per oggetto gli elementi costitutivi dell’illecito civile.
Il giudice a quo muove da una lettura non corretta della sentenza n. 49 del 2011, la quale non
afferma la «equipollenza» tra le due tutele, ma si limita a escludere che la mancanza di un giudizio
di annullamento sia di per sé in contrasto con quanto previsto dall’art. 24 Cost., in quanto la
disciplina in discussione riconosce all’interessato, secondo il diritto vivente, «una diversificata
modalità di tutela giurisdizionale». La sentenza prende le mosse dall’espresso presupposto che la
forma di tutela per equivalente sia sicuramente diversa rispetto a quella in via generale attribuita al
giudice amministrativo, ma giudica il rimedio risarcitorio di regola idoneo a garantire un’attitudine
riparatoria adeguata (punto 4.5. del Considerato in diritto).
La soluzione non si fonda dunque su una presunta equiparazione dei due rimedi, che all’evidenza
non sussiste, ma, come ripetuto più volte, sulla non irragionevolezza dello specifico limite legislativo
posto alla tutela delle posizioni soggettive lese, la cui introduzione non deve ritenersi in assoluto
preclusa dalle norme costituzionali che garantiscono il diritto di difesa e il principio di effettività
della tutela giurisdizionale.
Per tutte le ragioni già esposte sopra, non è quindi pertinente il richiamo, operato dal giudice a quo,
alla natura generale della tutela caducatoria di fronte all’invalidità degli atti amministrativi, e alla
prospettata eccezionalità delle disposizioni che ne prevedono la sostituzione con quella risarcitoria.
E del resto è lo stesso giudice a quo che, nell’ipotizzare che alla tutela generale di annullamento
possa sostituirsi il risarcimento del danno, sia pure per scelta legislativa eccezionale, finisce per
presupporre che la prima non ha natura costituzionalmente inderogabile.

Appalti PNRR: art. 48, co. 4, d.l. 77/2011 : 4. In caso di impugnazione degli atti relativi alle
procedure di affidamento di cui al comma 1 e nei giudizi che riguardano le procedure di
progettazione, autorizzazione, approvazione e realizzazione delle opere finanziate in tutto o in parte
con le risorse previste dal PNRR e le relative attività di espropriazione, occupazione e asservimento,
nonché in qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con
le risorse previste dal PNRR, si applica l'articolo 125 del codice del processo amministrativo di cui
al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. In sede di pronuncia del provvedimento cautelare si
tiene conto della coerenza della misura adottata con la realizzazione degli obiettivi e il rispetto
dei tempi di attuazione del PNRR

La crescente importanza della tutela per equivalente alla luce dell’estensione agli appalti
finanziati con fondi del PNRR dell’art. 125 c.p.a. Il problema della rivalsa. Lo schema del nuovo
codice appalti.
Relazione illustrativa all’art. 209 dello schema del nuovo codice appalti.
L’art. 120 c.p.a. è stato aggiornato sostituendo i riferimenti alle disposizioni del d. lgs. 18 aprile 2016,
n. 50, con quelli del nuovo codice dei contratti pubblici; è stato inoltre sempre aggiunto il riferimento
alle concessioni.
Il testo dell’art. 121 c.p.a. della disposizione ha subìto correzioni di carattere meramente formale,
consistenti nell’espunzione dei richiami al codice previgente, sostituiti da rimandi alle norme del
nuovo codice; nell’enucleazione di un nuovo comma 1-bis in precedenza integrato nel primo
periodo del comma 1, e nella menzione dell’ente concedente nei casi in cui compariva il riferimento
alla sola stazione appaltante.
Quanto all’art. 124 c.p.a., la modifica introdotta al comma 1 prevede l’estensione della cognizione
del giudice anche alle azioni risarcitorie e all’azione di rivalsa proposte dalla stazione appaltante
nei confronti dell'operatore economico che, violando i doveri di buona fede e correttezza, ha
concorso a determinare un esito della gara illegittimo.
L’innovazione punta a rafforzare la tutela risarcitoria sia del terzo pretermesso, leso
dall'aggiudicazione illegittima, il quale può agire direttamente, oltre che nei confronti della
stazione appaltante, anche nei confronti dell'operatore economico che, contravvenendo ai doveri
di buona fede, ha conseguito una aggiudicazione illegittima; sia della stessa stazione appaltante,
che può agire in rivalsa nei confronti di quest'ultimo o dell’eventuale terzo concorrente che abbia
concorso con la sua condotta scorretta a determinare un esito della gara illegittimo.
La nuova disposizione sviluppa una soluzione già prefigurata dalla pronuncia dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato 12 maggio 2017 n. 2 (§ 22 e 30 e ss.) e si raccorda con l'art. 41 comma
2 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, nella parte in cui prevede che «Qualora sia proposta
azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari
dell'atto illegittimo».
L’innovazione rimanda, inoltre, al comma 4 dell’art. 5 rubricato “Principi di buona fede e di tutela
dell’affidamento”, il quale prevede che «Ai fini dell’azione di rivalsa della stazione appaltante o
dell’ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso, resta
ferma la concorrente responsabilità dell’operatore economico che ha conseguito l’aggiudicazione
illegittima con una condotta contraria ai doveri di buona fede».
Il nuovo terzo comma risponde all’esigenza di adattare alle specificità del giudizio in materia di
appalti il meccanismo di liquidazione del danno previsto dall’art. 34, comma 4, del decreto
legislativo 2 luglio 2010, n.104.
L’intento è quello di incrementare il grado di speditezza e di effettività della tutela risarcitoria per
equivalente.
La disposizione crea disincentivi economici nei confronti della parte danneggiante la quale manchi
di formulare una proposta transattiva o la determini in misura incongrua rispetto alla reale entità
del danno suscettibile di ristoro. L’intento è quello di favorire la rapida definizione del tema
risarcitorio nell'ambito dell’unico giudizio di cognizione, evitando l'attivazione del secondo giudizio
di ottemperanza previsto dall'art. 34, comma 4, per il caso del mancato accordo tra le parti. Al
contempo, si lascia intatta la devoluzione della questione al giudice dell’ottemperanza, nel caso in
cui le parti non riescano a raggiungere un accordo, in modo tale da preservare la pluralità degli
sbocchi (giudiziali e stragiudiziali) attraverso i quali può trovare soluzione il contrasto sulla
quantificazione del ristoro.
L’innovazione, al pari della precedente introdotta al comma 1, risponde alla crescente rilevanza
che la tutela per equivalente sempre più assumerà nei prossimi anni nell’ambito del contenzioso
nella materia dei pubblici appalti.

Plenaria 2/2017 sulla c.d. ottemperanza per equivalente:


Occorre esaminare la natura, i presupposti e l’ambito soggettivo dell’azione prevista dall’art. 112,
comma 3, c.p.a. e della responsabilità che essa sottende.
14. Il legislatore ha qualificato espressamente questo rimedio in termini di “azione di risarcimento
dei danni”, evocando, così, l’istituto della responsabilità civile. Tuttavia, rispetto al tradizionale
risarcimento del danno, l’azione in esame presenta significativi profili di peculiarità.
In primo luogo, il presupposto del rimedio è individuato nell’esistenza di un danno (anche solo)
«connesso all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o
parziale, del giudicato». È significativo evidenziare che l’art. 112, comma 3, c.p.a. distingue il danno
“connesso” all’impossibilità (o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica del giudicato)
da quello derivante dalla violazione o elusione del giudicato, indicato, subito dopo, come distinto
presupposto per l’esercizio dell’azione.
Rispetto alla formulazione originaria dell’art. 112, comma 3, c.p.a. (prima della novella introdotta
dal decreto legislativo n. 195 del 2011), il principale profilo di novità è proprio questo: l’avere, cioè,
esteso il rimedio alle ipotesi in cui il danno, pur in assenza di violazione o elusione del giudicato, è
comunque “connesso” all’impossibilità di ottenerne l’esecuzione in forma specifica.
Il legislatore, dunque, ha fatto riferimento ad una impossibilità di esecuzione che trova la sua causa
in un fatto diverso dalla violazione o elusione del giudicato, prevedendo l’azione di risarcimento del
danno –e non un semplice indennizzo- anche nel caso in cui, pur non configurandosi un
inadempimento, non è comunque possibile attuare il giudicato.
15. Da questo punto di vista, la norma ha una portata non solo processuale (che si traduce
nell’ammissibilità, nelle ipotesi indicate, dell’azione risarcitoria in sede di ottemperanza, anche
quando questa si svolge in unico grado dinnanzi al Consiglio di Stato), ma anche sostanziale, perché,
in deroga alla disciplina generale della responsabilità civile, ammette una forma di responsabilità
che prescinde dall’inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato.
La deroga, in particolare, è al regime della responsabilità da inadempimento dell’obbligazione, come
delineato dall’art. 1218 cod. civ.
Dal giudicato amministrativo, infatti, almeno quando esso, come nel caso di specie, riconosce la
fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo
esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle
parti private soccombenti) un’obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel
concedere “in natura” (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la
spettanza. E che si tratti di obbligazione il cui inadempimento è assoggettabile al regime
dell’inadempimento contrattuale è confermato dalla prescrizione decennale della relativa azione.
In base all’art. 1218 c.c., il debitore si libera dall’obbligazione se prova che l’inadempimento è stato
determinato da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. La
disciplina dell’art. 1218 c.c. trova riscontro nell’art. 1256 c.c., secondo cui l’obbligazione si estingue,
invece, quando la prestazione diventa impossibile per una causa non imputabile al debitore.
Rispetto alla disciplina civilistica dell’inadempimento dell’obbligazione cosi sommariamente
richiamata, l’art. 112, comma 3, c.p.a. introduce un elemento di specialità, perché dispone che
l’impossibilità derivante da causa non imputabile (non dovuta cioè a violazione o elusione del
giudicato) non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura
“risarcitoria”, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal
giudicato.
16. Quella che la norma presuppone è, dunque, una forma di responsabilità che, nei casi di
impossibilità non imputabile a violazione o elusione del giudicato, presentata i caratteri della
responsabilità oggettiva, perché non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza
dell’elemento soggettivo (dolo o colpa), che, invece, necessariamente connota le ipotesi di
violazione o elusione del giudicato; potendo la responsabilità essere esclusa solo per la insussistenza
(originaria) o il venir meno del nesso di causalità, il cui onere probatorio grava sul debitore
medesimo.
Viene così in rilievo un rimedio che assume una connotazione tipicamente compensativa: una
sorta, in altri termini, di ottemperanza per equivalente (già conosciuta, del resto, nel dibattito
dottrinale e giurisprudenziale anteriore alla novella del 2011) che sostituisce l’ottemperanza in
forma specifica nei casi in cui questa non sia più possibile. Essa si traduce nel riconoscimento
dell’equivalente in denaro del bene della vita che la parte vittoriosa avrebbe avuto titolo di
ottenere in natura in base al giudicato. Si ha, quindi, un rimedio alla impossibilità di esecuzione in
forma specifica della sentenza, in un’ottica, per l’appunto, “rimediale” della tutela, quale si è andata
delineando a partire dalle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte costituzionale.
La funzione sostitutiva del rimedio giustifica, allora, la scelta del legislatore sia di prevederne
l’ammissibilità in sede di ottemperanza, anche in un unico grado, in quanto “connessa”
all’impossibilità oggettiva di esecuzione del giudicato, sia di slegarla dal requisito della colpa, sia
pure intesa, in tema di illecito della pubblica amministrazione, nella lettura “oggettiva” che ne dà la
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea: trattandosi di una tutela che sostituisce
l’ottemperanza non più possibile in forma specifica, essa soggiace, sia sul piano del rito, sia sul piano
dei presupposti sostanziali, alle stesse regole dell’azione di ottemperanza (in forma specifica), che
pure si caratterizza come rimedio “oggettivo”, sganciato dalla prova del dolo o della colpa. E’, in altri
termini, una ragionevole scelta del legislatore in tema di allocazione del rischio della impossibilità di
esecuzione del giudicato.
17. La nascita dell’obbligazione risarcitoria ex lege in conseguenza dell’impossibilità di eseguire il
giudicato presuppone, comunque, la presenza, se non dell’elemento soggettivo, degli altri elementi
minimi ed essenziali ai fini della configurazione di un illecito.
18. Tali elementi essenziali, significativamente necessari anche nelle ipotesi di responsabilità
oggettiva, sono il rapporto di causalità e l’antigiuridicità della condotta.
Affinché sorga il rimedio di cui all’art. 112, comma 3, c.p.a., dunque, è necessario e al tempo stesso
sufficiente che l’impossibilità di ottenere in forma specifica l’esecuzione del giudicato sia
riconducibile, sotto il profilo causale, alla condotta del soggetto dal quale si pretende il risarcimento
e che tale condotta non risulti assistita da una causa di giustificazione, la cui presenza precluderebbe
l’insorgenza della responsabilità e, dunque, la nascita dell’obbligazione risarcitoria ex lege.

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