Finanza Aziendale

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FINANZA AZIENDALE

CAP. 1 – I FONDAMENTI

Ogni decisione aziendale che ha implicazioni finanziarie è una decisione di finanza aziendale (che studia tutto
quello che accade quando viene presa una decisione che ha ripercussioni finanziarie).

Le attività di qualsiasi impresa (asset) possono essere classificate in:


- Investimenti in essere: investimenti già effettuati che comprendono attività a lungo termine (investimenti
fissi) a breve termine (capitale circolante) e che generano flussi di cassa correnti;
- Opportunità di investimento future: valore atteso da investimenti futuri.

Per finanziare queste attività, l’impresa può ricorrere a:


- Capitale di terzi (di debito): i fondi vengono raccolti da investitori o banche e in cambio si concede il diritto
a ricevere un pagamento fisso (interessi) a delle scadenze predeterminate. Questo comporta un
coinvolgimento minimo nella gestione dell’impresa e una deducibilità fiscale;
- Capitale proprio (di rischio): i fondi derivano dal proprietario o dagli azionisti e in cambio viene concesso
un diritto residuale sui flussi di cassa che restano dopo aver soddisfatto gli impegni associati al capitale di
terzi. Questo comporta un maggiore coinvolgimento nella gestione dell’impresa.

1.1 I principi della finanza aziendale


La finanza aziendale si basa su 3 principi guida:
1) Principio di investimento: investire in progetti con un rendimento atteso maggiore della soglia minima di
rendimento del progetto stesso.
Il rendimento atteso va misurato sulla base dell’ammontare dei flussi di cassa generati e alla loro
distribuzione nel tempo (tenendo conto anche degli effetti positivi e negativi del progetto). La soglia
minima di rendimento è direttamente proporzionale alla rischiosità del progetto e deve riflettere la
struttura finanziaria utilizzata.
Questo principio funziona solo se vi sono le seguenti ipotesi: gli investitori sono razionali (avversi al
rischio), le risorse per svolgere le attività sono limitate, i progetti di investimento concorrono ad
accrescere le risorse disponibili, la scelta tra investimenti alternativi è fatta seguendo criteri di economicità
(efficienza ed efficacia) del progetto.
2) Principio di finanziamento: scegliere una struttura finanziaria che massimizzi il valore degli investimenti
effettuati e sia in linea con il tipo di investimento da finanziare.
La struttura finanziaria è la combinazione (mix) delle fonti di finanziamento (capitale proprio e di terzi)
attivate dall’impresa per coprire le esigenze di investimento.
Una struttura finanziaria è ottimale quando:
- Vi è un equilibrio tra capitale proprio e di terzi;
- Le risorse finanziarie sono adeguate al progetto da realizzare;
- L’impresa rispetta l’obiettivo per cui il progetto è nato.
Per ridurre il rischio finanziario e sfruttare al massimo la capacità di indebitamento, un’impresa deve
bilanciare i flussi di cassa in uscita (derivanti dal debito) con i flussi di cassa in entrata (derivanti dall’attività
finanziata)
3) Principio dei dividendi: se non ci sono opportunità di investimento in grado di generare un rendimento
superiore alla soglia minima, l’impresa deve restituire il denaro ai proprietari (rimborso), oppure, se il
flusso di cassa generato dagli investimenti è maggiore dei flussi di cassa in uscita richiesti per remunerare
il capitale proprio, l’impresa deve dare l’eccedenza di denaro ai proprietari (dividendo). Il dividendo però
viene distribuito solo quando l’impresa non è in grado di reinvestire l’eccedenza di denaro in attività il cui
rendimento sia superiore alla soglia minima.
1.2 L’obiettivo della finanza aziendale
L’obiettivo ultimo dell’impresa è quello di massimizzare il valore dell’impresa.
Ogni decisione di investimento, finanziamento e dividendo che aumenta il valore è giusta, ogni decisione che
riduce il valore è sbagliata. La massimizzazione del valore si ha solo se l’impresa è economica (efficiente ed
efficace).
Inizialmente si pensava che le scelte aziendali erano tese a massimizzare il valore degli azionisti (shareholders
approach). Questo può accadere solo in un mondo perfetto dove tutti hanno uguali informazioni. Tale
pensiero fu però confutato per adeguarsi al mondo reale dove le scelte aziendali sono tese a ricercare un
giusto equilibrio tra gli interessi di tutti gli stakeholders (stakeholders approach).

Se la funzione obiettivo è la massimizzazione del valore dell’impresa, il valore dell’impresa è il valore attuale
dei flussi di cassa attesi, attualizzati ad un tasso che rifletta la rischiosità degli investimenti e la struttura
finanziaria utilizzata per finanziarli.
A seconda del grado di indebitamento della società, il valore dell’impresa (Enterprise Value) si calcola in 2
modi differenti:
1) Nel caso di società indebitate: EV = capitalizzazione di borsa + indebitamento netto;
2) Nel caso di società non indebitate: EV = capitalizzazione di borsa + liquidità netta.

Il valore dell’impresa così determinato rappresenta il prezzo che dovrebbe pagare chi volesse acquisire la
società con/senza debiti. Il valore della società (EV) deve essere pari al valore di mercato (del capitale proprio
e di debito).

Gli investitori formano aspettative sui flussi di cassa futuri, in base all’osservazione dei flussi di cassa correnti e alle previsioni di
crescita futura, le quali dipendono dalla qualità dei progetti dell’impresa (decisioni di investimento) e dal tasso di reinvestimento
degli utili (che dipende dalla politica di dividendo). Le decisioni di finanziamento influiscono sul valore di un’impresa tramite il
tasso di attualizzazione e anche tramite i flussi di cassa attesi.

CAP. 2 – L’OBIETTIVO

L’obiettivo ideale deve:


- Essere definito in modo chiaro (non ambiguo);
- Essere misurato con chiarezza e tempestività (così da poter valutare le decisioni prese)
- Non creare costi > benefici per l’impresa.

La finanza aziendale dice che l’obiettivo di un’impresa è massimizzare il valore, ma quale tra:
- Il valore del capitale netto, cioè il prezzo azionario (che include solo gli azionisti);
- Il valore di tutta l’impresa (che include anche obbligazionisti, investitori, etc.).

Un obiettivo basato sulla massimizzazione del prezzo azionario crea conflitti di interesse tra i vari gruppi
(manager, azionisti, obbligazionisti) e costi collaterali. Nonostante ciò, l’obiettivo rimane sempre questo
perché il prezzo azionario:
1) È un parametro immediatamente e costantemente osservabile per giudicare l’operato di una impresa
quotata in Borsa e dà immediato riscontro delle iniziative intraprese;
2) Riflette gli effetti delle politiche aziendali nel breve e nel lungo termine;
3) Fornisce un criterio chiaro per decidere i progetti di investimento, le modalità di finanziamento (per la
loro copertura), le politiche di dividendo e per valutare gli effetti di tali scelte;
4) Gode di un meccanismo di autocorrezione (ne parleremo alla fine del capitolo).

Lo scenario ideale in cui il perseguimento di tale obiettivo non produce costi collaterali e conflitti di interesse
è quello in cui:
• Il management mette in secondo piano i propri interessi dando precedenza a quelli degli azionisti (perché
teme di perdere il posto o detiene azioni);
• Gli obbligazionisti sono protetti da tentativi di espropriazione da parte degli azionisti (quando gli azionisti
vogliono tutelare la propria reputazione o la capacità di ottenere fondi a prestito in futuro);
• Il management non inganna i mercati finanziari sulle prospettive future dell’impresa;
• Non ci sono costi sociali (tutti i costi dell’impresa possono essere misurati e imputati all’impresa stessa).

Nella realtà però questi requisiti non sono soddisfatti in quanto il management non sempre prende decisioni
che soddisfano gli azionisti ed anche gli azionisti prendono iniziative che danneggiano gli obbligazionisti.

2.1 I conflitti di interesse


I conflitti di interesse più riconosciuti riguardano i seguenti gruppi di soggetti:
1) Azionisti – Manager;
2) Azionisti – Obbligazionisti;
3) Azienda – Mercati finanziari;
4) Azienda – Società.

1) Azionisti VS Manager
In teoria gli azionisti hanno il potere di disciplinare e rimuovere i manager che non operano nel loro interesse
attraverso 2 meccanismi di Corporate Governance:
- Assemblea annuale: durante la quale gli azionisti possono esprimere le proprie opinioni sulla gestione
d’impresa e votare proposte di modifiche allo statuto societario.
- CdA: supervisiona la gestione, verifica che il management agisce nell’interesse degli azionisti e influenza
le scelte gestionali.

In pratica, però, ci sono dei fattori che limitano il potere degli azionisti:
- Il potere degli azionisti nell’assemblea annuale viene diminuito da 3 fattori: molti piccoli azionisti non
partecipano all’assemblea (nonostante questi possono esercitare il loro diritto di voto per delega); i
manager ricevono delle deleghe a votare da parte degli azionisti, e se questi non partecipano, i manager
hanno un vantaggio iniziale; i grandi azionisti che non gradiscono il management spesso preferiscono
vendere le azioni e andarsene.
- Il potere degli amministratori nel CdA viene diminuito da 4 fattori: spesso gli amministratori non dedicano
molto tempo all’espletamento dei loro doveri (perché hanno altri impegni, spesso legati ad altri CdA);
mancanza di competenze specifiche per alcune aree; spesso una frazione significativa del CdA è
rappresentata dai manager stessi dell’impresa; l’amministratore delegato (esterno) stabilisce l’ordine del
giorno, presiede l’assemblea e controlla le informazioni.

Questi 2 meccanismi di Corporate Governance sono forti quando una società ha una sola tipologia di azioni
(con diritto di voto), limitate partecipazioni incrociate e molti investitori attivi (che intervengono
direttamente nella gestione dell’impresa). Al contrario sono deboli quando una società ha molte tipologie di
azioni (con diritto voto pieno, limitato o senza diritto di voto), molte partecipazioni incrociate (il maggior
azionista di una società è un’altra impresa che esercita un potere sproporzionato rispetto alla sua quota di
proprietà) e molti investitori passivi (quando non sono soddisfatti del management liquidano le proprie
azioni).

Quando il potere degli azionisti è limitato (cioè quando i 2 meccanismi di Corporate Governance sono deboli),
i manager non temono gli azionisti e pongono in essere delle tattiche per privilegiare i propri interessi a
danno di quelli degli azionisti:
• Bloccare tentativi di scalata ostile (“senza” il consenso degli azionisti): se l’impresa diventa oggetto di
acquisizione ostile da parte degli azionisti e il management lascia che l’acquisizione avvenga, significa che
i manager perdono il lavoro. Per evitare ciò può utilizzare:
- Greenmail: il management “rileva” le partecipazioni azionarie detenute dal potenziale acquirente, ad
un prezzo molto superiore a quello pagato da quest’ultimo (questo però produce 2 conseguenze
negative sul prezzo azionario, in quanto il pagamento eseguito per il riacquisto rende l’impresa più
povera e si riduce la probabilità di una fusione che avrebbe incrementato il valore azionario
dell’impresa);
- Golden Parachute (paracadute d’oro): clausola inserita nel contratto di lavoro del manager che gli
assicura una somma di denaro elevata nel caso in cui dovesse perde il lavoro a seguito di
un’acquisizione ostile;
- Poison Pills (pillole avvelenate): che si attivano in caso di offerte di acquisizione al fine di rendere
difficile e costosa l’acquisizione del controllo dell’azienda da parte di terzi (per esempio con i “flip over
right” gli azionisti ricevono il diritto di acquistare azioni dell’impresa ad un prezzo più basso di quello
corrente di mercato, scoraggiando l’acquisto da parte dei terzi).
• Clausole anti-takeover (“con” il consenso degli azionisti): hanno sempre l’obiettivo di dissuadere i terzi
dall’avanzare offerte di acquisizioni ostili, ma richiedono il consenso degli azionisti:
- Super Majority Requirements: clausole che stabiliscono che per acquistare il controllo dell’impresa, il
potenziale acquirente deve acquisire più del 51%;
- Autorizzazione a creare nuovi titoli con speciali diritti di voto che limitano il potere dei potenziali
acquirenti;
• Takeover soprappagati: il modo più veloce che il management ha per impoverire gli azionisti è quello di
soprappagare un takeover (un offerta di acquisto della società). Gli azionisti dell’impresa acquirente non
rispecchiano l’entusiasmo dei manager ed il prezzo delle azioni scende all’annuncio del takeover (cioè
dell’offerta d’acquisto).

Una possibile soluzione al conflitto d’interessi tra azionisti e management è rappresentato delle Stock
Option: strumenti finanziari che danno al possessore il diritto (non l’obbligo) di acquistare azioni di una
società (o di una società ad essa collegata) ad un determinato “prezzo di esercizio” (Strike Price). Questo
diritto sarà esercitato quando lo SP è inferiore al valore di mercato dell’azione.
Spesso le Stock Option sono conferite gratuitamente ai manager per aumentare la loro produttività e le
performance aziendali. Dunque, servono per allineare il loro interesse personale a quello degli azionisti,
perché se lavorano per massimizzare il valore degli azionisti, anche loro trarranno beneficio dall’aumento
del prezzo azionario. Tali opzioni possono però rivelarsi dannose per il mercato finanziario perché possono
creare opportunità di arbitraggio sui prezzi delle azioni, per cui spesso vengono corredate da un patto che
ne consente la cessione passati uno o due anni dal conferimento. Alle Stock Option è legato il reato di “insider
trading” che si verifica se il manager favorisce temporaneamente rialzi dei prezzi per trarre profitto dalla
successiva vendita delle azioni o aspetta ad acquistare prima di diffondere informazioni importanti che
potrebbero causarne una riduzione di prezzo.

2) Azionisti VS Obbligazionisti
La causa del loro conflitto sta nella diversa natura dei diritti sui flussi di cassa spettante ai due gruppi:
- Gli obbligazionisti hanno priorità di pagamento rispetto agli azionisti ma ricevono somme fisse (ammesso
che l’impresa generi un reddito sufficiente per adempiere ai suoi obblighi finanziari);
- Gli azionisti hanno diritto al pagamento dei flussi di cassa residuali, ma possono dichiarare il fallimento se
l’azienda non ha fondi per adempire i suoi obblighi finanziari.
Per tali ragioni, nelle scelte d’investimento, finanziamento e dividendi, gli obbligazionisti valutano il rischio
in modo molto più negativo rispetto agli azionisti perché ricevono somme fisse anche se l’investimento si
rivela un grande successo.

Gli azionisti possono massimizzare la loro ricchezza a danno degli obbligazionisti in diversi modi:
• Incrementando eccessivamente il debito (Leverage By-Out): gli azionisti effettuano operazioni di acquisto
finanziati tramite debito, il quale incrementa l’indice di indebitamento (Leverage) e riduce il rating delle
obbligazioni e quindi anche il loro prezzo;
• Incrementando eccessivamente i dividendi: se l’impresa incrementa il pagamento dei dividendi, il prezzo
delle azioni aumenta, mentre il prezzo delle obbligazioni diminuisce (e viceversa);
• Adottando progetti più rischiosi: l’aumento del rischio riduce il rating delle obbligazioni e quindi anche il
loro prezzo.
Come si evince da questi 3 punti, l’obiettivo di massimizzare il valore degli azionisti, oltre a ridurre il valore
degli obbligazionisti, può danneggiare anche tutta l’impresa.

Gli obbligazionisti per proteggersi dal potere degli azionisti possono adottare 3 metodi:
• Includere nei contratti obbligazionari delle clausole (dette Bond Covenant) che vietano o limitano azioni
che possono ridurre la loro ricchezza. In altri termini queste clausole servono a limitare le politiche di:
- Investimento: gli obbligazionisti hanno potere di veto su iniziative che vanno contro il loro interesse
(dunque impongono dei limiti alla tipologia e alla rischiosità dei nuovi investimenti);
- Dividendi: poiché l’aumento dei dividendi aumenta il prezzo delle azioni e riduce quello delle
obbligazioni, gli obbligazionisti possono prevedere delle clausole che limitano i dividendi,
proporzionandoli al livello di profitto realizzato;
- Finanziamento: la società deve avere il consenso degli obbligazionisti prima di emettere nuovo debito.
• Acquistare azioni della stessa società a cui si prestano soldi o acquistare obbligazioni convertibili in azioni
(così che possono diventare azionisti e condividere i guadagni).
• Sfruttare le innovazioni del mercato obbligazionario: ad esempio, possono ricorrere a obbligazioni
puttable che danno al titolare il diritto di restituire l’obbligazione all’impresa che l’ha emessa e riprendersi
il valore nominale nel caso in cui l’impresa abbia violato alcune condizioni specificate nel contratto
obbligazionario (come un aumento di indebitamento o peggioramento del rating).

3) Azienda VS Mercati finanziari


Come già detto, tra i due obiettivi di massimizzazione del valore, si preferisce massimizzare il prezzo
azionario. I prezzi di mercato però presentano un problema in quanto sono stabiliti dai mercati finanziari e
poiché questi sono inefficienti (mancano informazioni per ottenere stime precise e obiettive dei flussi di
cassa futuri e sulla rischiosità del titolo), essi non riflettono il valore reale dell’impresa.

L’inefficienza dei mercati genera 2 problemi:


• Problema dell’informazione: nei mercati finanziari efficienti l’informazione viene trasmessa in modo
veloce e veritiero, ma nella realtà essi sono inefficienti a causa di alcuni impedimenti:
- La diffusione di informazioni viene a volte soppressa o ritardata dalle imprese (ed esempio quando il
management, temendo una reazione spropositata dei mercati, cerca di rinviare le cattive notizie ai
giorni in cui i mercati sono meno attivi o chiusi);
- Alcune imprese per accontentare i loro investitori e far salire il prezzo delle azioni, emettono
volutamente informazioni fuorvianti sulla situazione attuale dell’azienda e le sue prospettive future,
generando una discrepanza tra valore e prezzo dell’azione;
Questi impedimenti oltraggiano la buona fede degli investitori (che pensano di acquistare un titolo che
rispecchi il valore reale dell’impresa) e ciò può comportare una perdita di fiducia nei mercati azionari e
un calo dei prezzi di tutte le azioni. Un modo per risolvere questi problemi può essere quello di emanare
leggi che impongano la trasparenza delle informazioni (ad esempio Consob può chiedere alle aziende di
trasmettere ai mercati informazioni secondo quantità, qualità e tempi desiderabili). Ma questo non basta.
• Problema del mercato: anche quando l’informazione è completa e accessibile, il prezzo azionario non è
una stima esatta del valore reale dell’impresa perché vi è il problema dell’irrazionalità degli investitori. Vi
sono poi altri 4 problemi in quanto i mercati finanziari:
- Sono volatili (poiché non sempre valutano in modo ragionevole e razionale gli effetti di nuove
informazioni sul prezzo di un’azione);
- Talvolta reagiscono in modo eccessivo alle informazioni (ad esempio quando le imprese annunciano
utili al di sopra o al di sotto delle aspettative degli analisti);
- Sono miopi e non considerano gli effetti degli investimenti di lungo periodo dell’impresa;
- In alcuni casi vengono manipolati dagli insider a loro favore (danneggiando anche gli altri azionisti).
Anche il problema dei mercati non può essere risolto con un intervento legislativo sulla trasparenza.

4) Azienda VS Società
In teoria i 2 obiettivi dell’impresa non generano dei costi sociali collaterali, ma in pratica le decisioni
finanziare del management possono creare benefici sociali (maggiore occupazione, sviluppo del territorio,
accessibilità a beni e servizi prima inaccessibili) e costi sociali (costi ambientali, qualità della vita). Tali costi
sono elevati e non vengono imputati all’impresa, ma non possono essere ignorati nelle decisioni aziendali
(nonostante siano difficili da analizzare con precisione perché troppo nebulosi). Per fare in modo che
l’impresa abbia interesse a non creare costi sociali si possono imporre delle regole di comportamento più
rigide (che sanzionano le imprese) o minori finanziamenti (gli azionisti non comprano azioni della società).

Per risolvere il conflitto tra azienda e società potrebbe bastare adottare obiettivi diversi rispetto a quello
comunemente usato (massimizzazione del valore azionario), e cioè:
1) Individuare un sistema di corporate governance diverso per massimizzare il prezzo azionario: fin ora
abbiamo descritto un sistema di corporate governance basato sul mercato, dove il compito di disciplinare
il management è affidato agli investitori operanti nei mercati finanziari e ai prezzi di mercato. Porter dice
che dare questo compito agli investitori è sbagliato perché essi sono disinformati ed hanno un’ottica di
breve periodo (rendimenti immediati). Nel modello di corporate governance tedesco e giapponese le
imprese detengono partecipazioni in altre imprese e prendono decisioni nell’interesse del gruppo
aziendale cui appartengono (e non nell’interesse individuale). Quindi le imprese si controllano a vicenda,
senza dover cedere potere e controllo agli azionisti (che sono comunque i proprietari dell’impresa).
Questo sistema presenta però degli svantaggi in quanto i gruppi industriali:
- Sono maggiormente conservatori e difficilmente finanziano investimenti ad alto rischio;
- Possono essere coinvolti nelle crisi delle singole;
- Sono poco efficaci di fronte a crisi più sistemiche.
Nonostante ciò, questo modello di corporate governance presenta dei vantaggi:
- Efficace nel limitare la capacità del management di sfruttare la sua posizione per ottenere benefici
personali;
- Facilità per le aziende nell’ottenere finanziamenti sui mercati;
- Facilità nel rimpiazzare il management quando la performance è negativa.
2) Scegliere una funzione obiettivo alternativa:
- Massimizzare la quota di mercato: l’obiettivo dell’impresa è quello di aumentare la quota di mercato,
così da avere un maggior potere di prezzo (ma se questo viene meno, focalizzarsi sulla quota di mercato
può avere effetti disastrosi). Il vantaggio è che la quota di mercato oltre ad essere un dato osservabile
(come il prezzo azionario), non richiede che i mercati finanziari siano efficienti.
- Massimizzare i profitti: gli utili sono più facili da misurare (rispetto al valore dell’impresa) e un
aumento di utili si traduce in creazione di valore. Ma obiettivi espressi in termini di redditività possono
portare a decisioni che privilegiano gli utili del breve periodo. Inoltre si possono avere stime imprecise
vista la flessibilità di applicazione dei principi contabili.
- Massimizzare la dimensione dell’impresa.

L’obiettivo della massimizzazione del prezzo azionario resta comunque il migliore perché è l’unico ad avere
una intrinseca capacità di autocorreggersi, grazie a 3 fattori:
• Reazione del mercato finanziario: che punisce riducendo il valore delle azioni o delle obbligazioni;
• Maggiore attivismo: ogni eccesso da parte di un gruppo (management, azionisti, obbligazionisti, etc.) fa
indignare i gruppi che ne sono vittime, e questo li spinge ad un maggiore attivismo;
• Innovazione dei mercati: i mercati spesso trovano nuove soluzioni per risolvere certi problemi (nuovi titoli
obbligazionari, maggiore regolamentazione, etc.).

Schema per il processo decisionale


1) Concentrarsi sul valore a lungo termine;
2) Migliorare la Corporate Governance;
3) Aumentare la trasparenza riguardo a motivazione e conseguenza di decisioni;
4) Ascoltare il mercato: quando la reazione del mercato non è coerente con le aspettative del mercato, e ci sono 3 possibili
spiegazioni: (a) Le info fornite sono incomplete e/o poco convincenti; (b) Gli investitori si lasciano influenzare da fattori
irrazionali (e i manager dovrebbero modificare la decisione per renderla appetibile agli investitori); (c) Il mercato ha ragione
nel dire che la decisione farà diminuire il valore, piuttosto che farlo aumentare (il management dovrà essere disposto ad
abbandonare le decisioni).
5) Collegare le retribuzioni al valore nel lungo termine valore dell’impresa (Enterprise value, Equity value).

CAP. 3 – LA NOZIONE DI RISCHIO

Nella nostra cultura la parola “rischio” evoca un concetto negativo: “esporsi a un pericolo” (visione parziale
del rischio, legata solo ai rischi puri). Secondo la cultura cinese (e anche quella finanziaria) il rischio è la
combinazione di “pericolo” (rendimento effettivo < rendimento atteso) e di “opportunità” (rendimento
effettivo > rendimento atteso).

In finanza il rischio è legato agli investimenti: il rischio di un progetto è quello che l’investitore o l’impresa
sopporta nel formulare una previsione di rendimento atteso. La differenza tra rendimento atteso e
rendimento affettivo costituisce il rischio. Lo scopo della finanza aziendale però non è quello di rimuovere il
rischio, ma quello di stabilire se il rischio sia stato remunerato con un rendimento adeguato (combinazione
di pericolo e opportunità).

Un buon modello di valutazione del rischio-rendimento deve:


- Fornire una misura del rischio applicabile a qualsiasi tipo di investimento;
- Fornire una misura di rischio standardizzata per confrontare i vari investimenti (e scegliere il migliore);
- Indicare quali tipi di rischio sono remunerati e quali no;
- Tradurre la misura del rischio in un “Tasso atteso di rendimento” (per essersi assunto il rischio);
- Spiegare i rendimenti realizzati passati e predire i rendimenti attesi in futuro.

Il rischio, però, va valutato in maniera differente a seconda che si tratti di:


- Investimenti a titolo di capitale proprio (azionisti): esposti al rischio in modo simmetrico, in quanto sono
esposti a eventi negativi ma beneficiano di quelli positivi;
- Investimenti a titolo di capitale di debito (obbligazionisti e banche): esposti al rischio in modo
asimmetrico, poiché sono esposti a eventi negativi ma beneficiano solo in parte di quelli positivi.

3.1 Indicatori statistici per misurare il rischio


Il rendimento atteso è la soglia minima di rendimento per decidere se conviene investire o meno. Il rischio è
dato dalla differenza tra il rendimento atteso e il rendimento effettivo. In termini statistici, il rischio è la
“distribuzione” dei rendimenti effettivi intorno ad un certo rendimento atteso (data dalla media dei possibili
rendimenti attesi). Dunque, per misurare il rischio, bisogna considerare alcune caratteristiche della
distribuzione del rendimento atteso:
• Varianza (o Scarto Quadratico Medio): dispersione dei rendimenti effettivi intorno al rendimento atteso
(maggiore è la differenza fra rendimento effettivo e rendimento atteso, maggiore è la varianza).
- Se l’errore (varianza o s.q.m.) è positivo → Upside Risk (rendimento effettivo > rendimento atteso);
- Se l’errore (varianza o s.q.m.) è negativo → Downside Risk (rendimento effettivo < rendimento atteso).
A volte si può voler determinare anche la semi-varianza, la quale però riflette solo il Downside Risk.
• Asimmetria: la distribuzione può tende verso rendimenti positivi (rendimento effettivo > rendimento
atteso) o rendimenti negativi (rendimento effettivo < rendimento atteso);
• Curtosi: misura l’ampiezza delle code della distribuzione, cioè il grado di appiattimento delle code
(maggiore è la curtosi maggiore è la probabilità di avere rendimenti estremamente alti o bassi).
Distribuzione di probabilità dei rendimenti di un investimento rischioso Distribuzione di probabilità dei rendimenti di un investimento privo di rischio

Se le distribuzioni fossero simmetriche e normali (curtosi = 0) ogni investimento potrebbe essere valutato
solo sulla base del rendimento atteso (remunerazione) e della varianza dei rendimenti attesi (rischio),
tralasciando l’asimmetria e la curtosi. Quindi se 2 investimenti hanno lo stesso rendimento, ma varianza
diversa, ovviamente l’investitore sceglierà quello con la varianza più bassa (poiché meno rischioso). Se le
distribuzioni sono asimmetriche e non normali, conviene scegliere sulla base del rendimento atteso e della
varianza: dunque conviene scegliere investimenti con distribuzioni asimmetriche tendenti verso un
rendimento positivo e con minore probabilità di forti oscillazioni (cioè con meno curtosi). Inoltre, se i
rendimenti seguono una distribuzione normale, la semi-varianza e la varianza coincidono.

Questo metodo di valutazione del rischio però considera solo elementi quantitativi e non anche le
componenti comportamentali:
- Avversione al rischio: gli individui sono influenzati negativamente da una perdita, molto di più di quanto
non siano influenzati positivamente da un guadagno. Essendo quindi avversi alle perdite, considerano
rischiosi anche quegli investimenti per i quali esiste anche una minima probabilità di incorrere in perdite
sostanziali (cioè anche se la varianza della distribuzione è minima). Infatti essi preferiscono ottenere un
flusso di cassa certo piuttosto che uno incerto (che contiene il rischio).
- Bias della familiarità: gli individui considerano meno rischiosi gli investimenti con cui hanno una certa
familiarità (più “comprendono” l’investimento e meno rischio percepiscono).
- Fattori di carattere emotivo: i guadagni fanno aumentare la felicità e l’ottimismo, mentre le perdite
aumentano l’ansia e le preoccupazioni, per cui lo stato d’animo influenza la percezione del rischio (ad
esempio investimenti sicuri possono apparire rischiosi quando lo stato d’animo è alterato).

3.2 Le componenti del rischio


Il rischio di un investimento è composto da 2 tipologie di rischio:
• Rischio specifico: è un rischio intrinseco al tipo di investimento. Le cause del rischio specifico possono
essere di diversa natura:
1) Rischio specifico di progetto: il progetto può produrre maggiori o minori flussi di cassa rispetto alle
previsioni a causa di previsioni errate o di fattori specifici legati al progetto. Questo rischio può essere
quasi del tutto eliminato se l’impresa intraprendono un gran numero di progetti simili.
2) Rischio concorrenza: i flussi di cassa generati da un investimento possono essere condizionati, in senso
positivo o negativo, dalle azioni dei concorrenti, che sono difficili da prevedere poiché imprevedibili.
Questa componente del rischio solitamente interessa più di un progetto, quindi è difficile diversificarlo.
3) Rischio settore: i profitti e i flussi di cassa dell’investimento dipendono dai fattori che incidono sul
settore: Rischio tecnologia (per significativi cambiamenti tecnologici rispetto a quando il progetto è
iniziato); Rischio normativo (cambiamento delle leggi); Rischio materie prime (variazione dei prezzi
delle materie prime e dei prodotti/servizi usati in quel settore). Il rischio settore può essere ridotto
diversificando le proprie attività in altri settori.
4) Rischio internazionale: quando la valuta nella quale sono misurati gli utili e nella quale è espresso il
prezzo del titolo azionario è diversa dalla valuta dei flussi di cassa del progetto, i risultati possono
differire dalle previsioni a causa di fluttuazioni del tasso di cambio (questo accade ad esempio quando
si fanno investimenti furi dal mercato nazionale).
• Rischio sistematico (sistemico o di mercato): impatta su tutti gli investimenti, e dipende dalle variabili
macroeconomiche del mercato:
- Struttura dei tassi di interesse (i tassi di interesse incidono direttamente sul tasso di attualizzazione e
indirettamente sui i flussi di cassa);
- Propensione al rischio degli investitori (è il contrario dell’avversione al rischio, per cui gli individui
preferiscono sempre un flusso di cassa incerto rispetto ad uno certo).
- Inflazione;
- Crescita economica.
Tale rischio può essere ridotto solo investendo su altri mercati.

3.3 Rischio del capitale netto e rischio del debito


Come detto precedentemente, il rischio relativo alle 2 fonti di finanziamento dell’impresa viene valutato in
maniera differente. Infatti, se si investe nel CN è possibile eliminare il rischio specifico ma non quello
sistematico, mentre se si investe nel capitale di debito, il rischio specifico non può essere eliminato.

Dunque, vedremo prima come calcolare il rischio del capitale netto (da cui dipende il rendimento “atteso”
di un investimento azionario o il costo del CN) e poi come calcolare il rischio del debito (da cui dipende il
rendimento “atteso” di un investimento obbligazionario o il costo del debito).

PS: Per l’investitore azionario, il rendimento atteso rappresenta un guadagno, detto “rendimento atteso di
un investimento azionario”, mentre per l’impresa che riceve il finanziamento, il rendimento atteso
rappresenta un costo, detto “costo del capitale netto”. Per l’investitore obbligazionario, il rendimento atteso
rappresenta un guadagno, detto “rendimento atteso di un investimento obbligazionario”, mentre per
l’impresa che riceve il finanziamento, il rendimento atteso rappresenta un costo, detto “costo del debito”.

3.4 Rischio del capitale netto

3.4.1 Diversificazione del rischio specifico e mancata diversificazione del rischio di mercato
Il rischio specifico di un investimento azionario può essere ridotto o eliminato attraverso una diversificazione
“non correlata” del portafoglio titoli, cioè facendo molti investimenti che abbiano dinamiche di rendimento
diverse ed i cui rendimenti abbiano una correlazione nulla o negativa (≤ 0). La combinazione di tanti
investimenti non correlati consente di ridurre la varianza del portafoglio. In termini teorici, una
diversificazione “non correlata” del portafoglio consente di ridurre/eliminare il rischio specifico per 2 motivi:
- Ogni fattore che incrementa o riduce il valore del singolo investimento avrà un impatto minimo sull’intero
portafoglio, poiché costituisce solo una piccola percentuale dello stesso;
- Le politiche aziendali avranno effetti positivi o negativi sui prezzi di ciascun titolo, ma in un portafoglio
diversificato questi effetti tenderanno a cancellarsi a vicenda.

Dimostriamo in termini statistici quanto detto: immaginiamo di avere in portafoglio 2 attività, A e B, aventi
“varianza dei rendimenti” rispettivamente pari ad 𝝈𝝈𝟐𝟐 𝑨𝑨 e 𝝈𝝈𝟐𝟐 𝑩𝑩 e “correlazione” pari a 𝑷𝑷𝑨𝑨𝑨𝑨 . La varianza del
portafoglio sarà pari a: 𝝈𝝈𝟐𝟐 𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑 = 𝒘𝒘𝟐𝟐 𝑨𝑨 𝝈𝝈𝟐𝟐 𝑨𝑨 + 𝒘𝒘𝟐𝟐 𝑩𝑩 𝝈𝝈𝟐𝟐 𝑩𝑩 + 𝟐𝟐𝒘𝒘𝑨𝑨 𝒘𝒘𝑩𝑩 𝑷𝑷𝑨𝑨𝑨𝑨 𝝈𝝈𝑨𝑨 𝝈𝝈𝑩𝑩 , dove 𝑤𝑤𝑎𝑎 è la frazione
(quota) del valore dell’azione A all’interno del portafoglio (lo stesso vale per 𝑤𝑤𝑏𝑏 ) e 𝑷𝑷𝑨𝑨𝑨𝑨 𝝈𝝈𝑨𝑨 𝝈𝝈𝑩𝑩 è la “covarianza”
(varianza di A in relazione alla varianza di B). Come si può vedere, per ogni valore di 𝑃𝑃 ≤ 0 la varianza del
rendimento del portafoglio sarà sempre inferiore alla varianza dei rendimenti dei singoli titoli. In generale,
però, i benefici in termini di riduzione della varianza del portafoglio (rispetto alla somma delle varianze dei
titoli in esso compresi) si manifestano per qualunque valore di P inferiore a 1.

Se l’investitore diversifica il suo portafoglio in maniera efficiente, il rendimento


atteso sarà influenzato solo dal rischio sistemico.

In realtà la maggior parte degli investitori non diversifica il portafoglio titoli per 3 possibili ragioni:
- Istinto dello scommettitore: gli investitori costruiscono i loro portafogli come piramidi stratificate in cui
lo strato inferiore funge da protezione contro il rischio “negativo”, mentre quello superiore ricerca
posizioni di rendita e sfrutta il potenziale “positivo”;
- Eccesso di fiducia: gli investitori hanno un eccesso di fiducia nelle proprie capacità di scegliere gli
investimenti vincenti, e questo li porta a non diversificare;
- Visione limitata e distorsione delle stime: gli investitori non diversificano perché spesso prendono
decisioni di investimento con una visione limitata (prendono in esame solo alcune parti del portafoglio) e
stimano erroneamente le correlazioni tra i vari titoli (pensano che abbiano una correlazione maggiore).

Il rischio di un investimento azionario deve essere misurato dal punto di vista dell’investitore marginale,
cioè l’investitore che in un determinato momento effettua una transazione su azioni, determinandone il
prezzo di scambio. Per essere classificato come “marginale” deve possedere una % rilevante del capitale
netto di una società e deve svolgere attività di compravendita con essa. Poiché le categorie di investitori
sono 3 (investitori istituzionali, investitori individuali, insider), per capire chi tra questi 3 gruppi di investitori
è l’investitore marginale dell’impresa, bisogna analizzare la quota partecipativa degli stessi. Dunque
l’investitore marginale sarà quel gruppo che deterrà la maggiore quota partecipativa della società. Nel caso
in cui, però, la compagine azionaria è caratterizzata dalla presenza di grandi investitori istituzionali e grandi
partecipazioni da parte di insider, è difficile capire chi è l’investitore marginale: solitamente l’investitore
marginale in questi casi è l’investitore istituzionale poiché l’insider, essendo il fondatore dell’impresa, è
difficile che svolga attività di compravendita delle azioni, per cui il valore delle azioni dipende dalla
compravendita fatta dagli investitori istituzionali.

Il rischio sistemico (di mercato) di un investimento azionario non può essere eliminato.

3.4.2 I modelli di rischio-rendimento


I modelli di rischio-rendimento servono per calcolare il rischio del CN. Tali modelli, però, sostengono che
l’investitore marginale sia ampiamente diversificato, perciò il rischio deve essere misurato da un investitore
marginale diversificato. Ciò vuol dire che l’investitore non diversificato percepisce il rischio azionario in
misura maggiore rispetto all’investitore diversificato (che non deve preoccuparsi del rischio specifico).
Inoltre, l’unico rischio di un investimento azionario è il rischio di mercato e ciò che distingue i vari modelli è
il modo in cui questi misurano il rischio di mercato.

3.4.3 L’evoluzione dei modelli rischio-rendimento

1) Frontiera efficiente dei portafogli (Markowitz)


Il primo modello fu quello di Markowitz (1952), il quale presenta la teoria del portafoglio efficiente (detta
anche relazione min-max): il portafoglio efficiente è la combinazione di titoli che massimizza il rendimento
atteso, una volta stabilito il grado di rischio (o la combinazione che minimizza il rischio, dato un certo livello
di rendimento atteso). Gli assunti fondamentali della teoria sono:
- Gli investitori intendono massimizzare la ricchezza finale e sono avversi al rischio;
- Il periodo di investimento è unico;
- I costi di transazione e le imposte sono nulli e le attività sono perfettamente divisibili;
- Il valore atteso e lo s.q.m. (o la varianza) sono gli unici parametri che guidano la scelta;
- Il mercato è perfettamente concorrenziale.

In questo modello il rendimento di un’attività finanziaria è definito come un rapporto tra l’investimento
azionario e i risultati prodotti in termini di utili e/o capital gain in un periodo di tempo specificato. Il rischio
è definito come grado di incertezza che il mercato esprime sulla effettiva realizzazione dei rendimenti attesi
ed è misurato dallo s.q.m. o dal suo quadrato (varianza).
𝑷𝑷(𝒕𝒕+𝑻𝑻) −𝑷𝑷𝒕𝒕 +𝑫𝑫𝒕𝒕
Il rendimento di un titolo azionario ex-post in un periodo T è 𝑹𝑹𝑻𝑻 = , dove 𝑷𝑷(𝒕𝒕+𝑻𝑻) è il prezzo di
𝑷𝑷𝒕𝒕
mercato nell’istante (t + T), 𝑷𝑷𝒕𝒕 è il prezzo di mercato nell’istante t (la differenza tra 𝑃𝑃(𝑡𝑡+𝑇𝑇) e 𝑃𝑃𝑡𝑡 è il capital
gain) e 𝑫𝑫𝒕𝒕 è il dividendo per azione riconosciuto all’emittente nell’istante t.
Gli investitori avversi al rischio sceglieranno quei portafogli che si
posizionano sulla frontiera delle loro curve di indifferenza (cioè
quella curva in cui ciascuna combinazione di X e Y dà all’investitore
lo stesso rendimento). Ad una varianza minima di 1/C corrisponde
un rendimento atteso pari a B/C. In quel punto, la frontiera può
essere divisa in 2 porzioni:
- Frontiera dei portafogli efficienti: comprende tutti i portafogli
che hanno un rendimento superiore al rendimento dei
portafogli con varianza minima;
- Frontiera dei portafogli non efficienti: riporta le combinazioni
dei portafogli con rendimenti inferiori al rendimento dei
portafogli che minimizzano il rischio (con varianza minima).
La scelta ottimale dell’investitore razionale ben diversificato
ricadrà sul portafoglio che soddisfa la relazione min-max ed è quello ottimale in ragione dei rischi specifici
assunti.
Questo modello presenta però dei limiti in quanto presuppone che:
- Il portafoglio sia composto solo da azioni, ignorando i titoli privi di rischio (es. titoli di Stato);
- La propensione al rischio degli investitori sia omogenea.

2) Capital Market Line (CML) e la differente propensione al rischio (Tobin)


Tobin (1958) osserva che gli investitori hanno propensioni al rischio diverse tra loro (e non omogenee).
Inoltre, introduce anche gli investimenti privi di rischio (cioè la possibilità per gli individui di dare e prendere
a prestito denaro a un tasso fisso privo di rischio). Dunque, l’investitore può adattare il livello di rischiosità
complessiva del portafoglio decidendo quanta ricchezza investire in titoli rischiosi (portafoglio di mercato) e
quanta in titoli privo di rischio.
Questo ragionamento permette di individuare una funzione che lega rischio e rendimento e che dovrebbe
essere in grado di identificare il comportamento di ciascun investitore, sulla base del proprio profilo di rischio.
Dunque, il rendimento atteso dell’investimento sarà la combinazione lineare tra rendimento rischioso (𝑅𝑅𝑚𝑚 )
e rendimento privo di rischio (𝑅𝑅𝑓𝑓 ), combinazione ottenuta come media ponderata dei rendimenti rispetto al
loro peso sul totale del capitale investito: 𝑹𝑹𝑪𝑪 = (𝟏𝟏 − 𝑿𝑿)𝑹𝑹𝒇𝒇 + 𝑿𝑿𝑹𝑹𝒎𝒎 , dove X è la frazione di ricchezza investita
nel portafoglio rischioso e (1 – X) è la frazione di ricchezza investita nel titolo privo di rischio.
Sapendo che il rischio della combinazione è dato solo dallo s.q.m. dell’investimento rischioso (cioè dallo
s.q.m. del portafoglio di mercato), in quanto l’investimento privo di rischio ha uno s.q.m. pari a 0, e
sostituendo X = σc/σm nella formula del rendimento dell’investimento, si ottiene la funzione Capital Market
𝑹𝑹𝒎𝒎 −𝑹𝑹𝒇𝒇
Line (linea di mercato dei capitali): 𝑹𝑹𝑪𝑪 = 𝑹𝑹𝒇𝒇 + � � 𝝈𝝈𝑪𝑪 , che misura il rapporto rischio-rendimento.
𝝈𝝈𝒎𝒎

Nella parte a sinistra della linea verticale tratteggiata vi


sono tutti quegli investimenti privi di rischio, mentre a
destra vi sono tutti gli investimenti che comportano un
rischio. La CML è la retta che passa nei punti (Rf,0) e
(Rm,σm). L’inclinazione della retta (Rm,Rf)/σm è pari al
premio richiesto per investire nel portafoglio rischioso e
consente di calcolare il differenziale di rendimento
generato dall’assunzione del rischio. Il rendimento di un
titolo rischioso è pari al tasso privo di rischio maggiorato
di un premio per il rischio. Il teorema è però poco pratico
per valutare il rapporto rischio-rendimento.
3) Capital Asset Pricing Model (Sharpe 1976, Lint 1977)
Il CAPM è il modello di rischio-rendimento più utilizzato ed è
il primo a stabilire una relazione tra il rendimento atteso di un
titolo e la sua rischiosità, la quale rischiosità viene misurata
tramite il beta di mercato. La relazione rendimenti-rischiosità
viene sintetizzata graficamente tramite la Security Market
Line (SML) costruita nel piano rendimenti-beta (ordinata-
ascisse). Questa retta illustra il legame tra il rischio di una
singola attività finanziaria negoziata e il relativo rendimento
atteso.

Mentre la CML confronta i portafogli sulla base del rischio totale (rappresentato dallo s.q.m.), la SML li
confronta sulla base del solo rischio di mercato (rappresentato dal beta). Dunque, si può stimare il
rendimento di ciascun investimento, avente uno specifico profilo di rischio sistematico. Consente di
individuare le attività finanziarie il cui valore è diverso dalle attese di rendimento corrette per il loro rischio
sistematico.

I benefici marginali della diversificazione di un portafoglio diminuiscono all’aumentare della diversificazione


(riluttanza della diversificazione). Ad esempio, la riduzione di un rischio specifico d’impresa ottenuta con
l’aggiunta di un 10° titolo potrebbe essere sufficiente a coprire i costi marginali associati alla diversificazione
come i costi di transazione e il costo di seguire un titolo in più (monitoring cost). Per cui, per eliminare quei
fattori che spingono gli investitori a limitare il proprio grado di diversificazione, il modello CAPM presuppone
alcune ipotesi: non esistono costi di transazione, tutte le attività sono trattate sul mercato, gli investimenti
sono divisibili all’infinito, non c’è informazione privata.

Il modello CAPM prevede altre 2 ipotesi semplificatrici molto importanti:


- Esiste solo un titolo privo di rischio (il cui rendimento atteso è certo);
- L’investitore detiene in portafoglio tutte le attività trattate sul mercato, ciascuna in proporzione al suo
valore di mercato. Il portafoglio composto da ogni attività trattata sul mercato viene chiamato portafoglio
di mercato.
Se ciascun investitore sceglierà lo stesso identico portafoglio titoli, la diversa propensione al rischio sarà data
dalla decisione di allocazione, ovvero dalla decisione di quanta ricchezza investire nel titolo privo di rischio e
quanta nel portafoglio di mercato. Gli investitori avversi al rischio investiranno tutto o la maggior parte in
titoli privi di rischio mentre gli investitori con propensione al rischio investiranno tutto o la maggior parte nel
portafoglio di mercato.

Nel contesto del CAPM, il rischio di una singola attività (𝑖𝑖) per un investitore, corrisponde al rischio che questa
attività aggiunge al portafoglio di mercato (m). Questo rischio addizionale è misurato dalla covarianza
dell’attività con il portafoglio di mercato. Maggiore è la covarianza (o correlazione) fra l’andamento di
un’attività e l’andamento del portafoglio di mercato, maggiore è il rischio aggiunto da tale attività (e
viceversa). Ma è difficile determinare questa maggiore o minore rischiosità in quanto la Cov non è una misura
standardizzata, per cui si divide la covarianza di ciascuna attività con il portafoglio di mercato per la varianza
𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪 𝝈𝝈
del portafoglio di mercato, e si ottiene il beta di “una attività”: 𝜷𝜷 = 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝒊𝒊𝒊𝒊 = 𝝈𝝈𝟐𝟐𝒊𝒊𝒊𝒊 .
𝒎𝒎 𝒎𝒎

Il beta stima la sensibilità delle variazioni del “rendimento di un titolo” al variare del “rendimento del
mercato” (cioè al variare del rendimento del portafoglio di mercato) ed è dato dal rapporto tra covarianza
tra rendimento del titolo e il rendimento del mercato e la varianza dei rendimenti del mercato. In termini
grafici rappresenta la pendenza della retta di regressione espressa dai rendimenti del titolo e del mercato. Il
beta è una misura standardizzata della rischiosità.

- Beta = 1 (Cov = Var): i titoli hanno un rischio uguale a quello di mercato (hanno un rischio medio);
- Beta > 1 (Cov > Var): i titoli sono più rischiosi rispetto alla media di mercato;
- Beta < 1 (Cov < Var): i titoli sono meno rischiosi rispetto alla media di mercato;
- Beta = 0 (Cov = 0): il titolo è privo di rischio.
Se l’investitore vuole stare bene deve avere un beta = 0 oppure un beta < 1.

Rendimento atteso
La relazione rischio-rendimento ottimale è disegnata dalla retta che unisce il rendimento del portafoglio
privo di rischio al portafoglio di mercato. Dunque, il rendimento atteso di un’attività 𝒊𝒊 sarà una funzione del
tasso di rendimento del titolo privo di rischio (𝑹𝑹𝒇𝒇 ), del beta dell’attività aggiuntiva (𝜷𝜷𝒊𝒊 ) e del premio per il
rischio di mercato [𝑬𝑬(𝑹𝑹𝒎𝒎 )– 𝑹𝑹𝒇𝒇 ], ossia: 𝑬𝑬(𝑹𝑹𝒊𝒊 ) = 𝑹𝑹𝒇𝒇 + 𝜷𝜷𝒊𝒊 [𝑬𝑬(𝑹𝑹𝒎𝒎 )– 𝑹𝑹𝒇𝒇 ].

Dunque, per usare il CAPM è necessario stimare 3 input:


- Tasso di rendimento del titolo privo di rischio: titolo per il quale il rendimento atteso nel periodo di
riferimento è sicuro ed è noto all’investitore;
- Premio per il rischio di mercato: rendimento richiesto dagli investitori per investire nel portafoglio di
mercato (che, in questo caso, comprende non solo titoli rischiosi, ma anche titoli privi di rischio);
- Beta: è l’unica ragione per cui due investimenti possono avere un diverso rendimento atteso. Inoltre,
poiché il beta è misurato in relazione al portafoglio di mercato, esso sintetizza l’intero rischio di mercato.

Limiti del CAPM


- Si basa su assunzioni poco realistiche;
- I parametri del modello non possono essere stimati precisamente;
- Il modello non funziona correttamente: la relazione tra rendimenti e beta è debole, mentre altri
parametri, come la dimensione e il price/book value, spiegano meglio le differenze tra i rendimenti delle
attività.

4) Arbitrage Pricing Model (1979)


A causa della stretta dipendenza del CAPM con il portafoglio di mercato, è stato messo a punto un modello
alternativo per la misurazione del rischio, l’APM (modello multifattoriale di estensione del CAPM).
Si basa sul presupposto che gli investitori traggono vantaggio dalle opportunità di arbitraggio. Infatti, se 2
portafogli hanno la stessa esposizione al rischio, ma offrono differenti rendimenti attesi, gli investitori
acquisteranno il portafoglio con maggiore rendimento atteso e ne faranno salire il prezzo, e quindi diminuire
il rendimento atteso, riportandolo in equilibrio con l’altro portafoglio. Anche l’APM differenzia il rischio
specifico di impresa dal rischio sistematico (di mercato), ma esso dà una misurazione diversa del rischio di
mercato: mentre il CAPM dice che il rischio di mercato è sintetizzato dal portafoglio di mercato, l’APM dice
che il rischio di mercato è influenzato dalle variabili macroeconomiche (PIL, tasso d’interesse, inflazione,
etc.) e misura la sensibilità degli investimenti al variare delle variabili macroeconomiche (ognuna con un
diverso beta). Quindi il beta misura la sensibilità dell’attività al variare di ciascuna variabile macroeconomica
(chiamata “fattore”).

Poiché la diversificazione degli investimenti elimina il rischio specifico d’impresa, secondo l’APM il
rendimento atteso di un portafoglio sarà dato dal solo rischio di mercato. Per cui, il rendimento atteso del
portafoglio deve essere una funziona lineare del beta:

𝑬𝑬(𝑹𝑹) = 𝑹𝑹𝒇𝒇 + 𝜷𝜷𝟏𝟏 �𝑬𝑬(𝑹𝑹𝟏𝟏 )– 𝑹𝑹𝒇𝒇 � + 𝜷𝜷𝟐𝟐 �𝑬𝑬(𝑹𝑹𝟐𝟐 )– 𝑹𝑹𝒇𝒇 � + ⋯ + 𝜷𝜷𝒏𝒏 [𝑬𝑬(𝑹𝑹𝒏𝒏 )– 𝑹𝑹𝒇𝒇 ]

𝑹𝑹𝒇𝒇 = rendimento atteso di ciascun portafoglio con un beta = 0


𝑬𝑬�𝑹𝑹𝒋𝒋 � = rendimento atteso di un portafoglio con un beta = 1 rispetto al fattore
�𝑬𝑬�𝑹𝑹𝒋𝒋 �– 𝑹𝑹𝒇𝒇 � = premio per il rischio associato alla variabile macroeconomica j (fattore j)

Il CAPM può essere considerato un caso particolare dell’APM, dove il rendimento di mercato è determinato
da un’unica variabile (fattore), rappresentata dal portafoglio di mercato.
L’APM richiede la stima del beta e del premio per il rischio per ciascun fattore. Per stimarli bisogna fare
l’analisi fattoriale sui rendimenti storici, che consente di trovare anche il “numero” di variabili che hanno
inciso sui dati storici.

L’APM, però, riesce a identificare solo il “numero” di variabili che determinano il rendimento atteso, ma non
riesce a stabilire “quali” lo determinano.

5) Modelli multifattoriali di rischio-rendimento


Tali modelli cercano di identificare “quali” sono le variabili macroeconomiche che concretamente generano
il rischio di mercato, al fine di determinare la sensibilità del rendimento atteso del titolo alle variabili
macroeconomiche ritenute “rilevanti” (Pil, inflazione, etc.). Dunque, una volta determinato il “numero” di
fattori nell’APM, si analizzano le serie storiche (per vedere il loro comportamento nel tempo) e le si confronta
con le serie storiche delle diverse variabili macroeconomiche, per vedere se tali variabili sono correlate nel
tempo con i fattori identificati con l’analisi fattoriale.
Queste variabili macroeconomiche possono poi essere messe in relazione al rendimento, per ottenere un
modello dei rendimenti attesi, dove il beta viene calcolato rispetto a ciascuna variabile (fattore).

𝑬𝑬(𝑹𝑹) = 𝑹𝑹𝒇𝒇 + 𝜷𝜷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷 �𝑬𝑬(𝑹𝑹𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷 )– 𝑹𝑹𝒇𝒇 � + 𝜷𝜷𝑰𝑰 �𝑬𝑬(𝑹𝑹𝑰𝑰 )– 𝑹𝑹𝒇𝒇 � + ⋯ + 𝜷𝜷𝒏𝒏 [𝑬𝑬(𝑹𝑹𝒏𝒏 )– 𝑹𝑹𝒇𝒇 ]

Tale modello (rispetto all’APM) presenta però un problema, ossia la possibilità di errore nell’identificare i
fattori economici rilevanti, perché questi possono cambiare nel tempo.

6) Modelli empirici basati sulla regressione


I modelli visti fin ora partono dal concetto di rischio di mercato e tentano poi di caratterizzarlo attraverso un
modello economico, i cui parametri sono ottenuti analizzando i dati storici. I modelli di regressione, invece,
partono dai dati statistici dei rendimenti (cioè dalla distribuzione dei rendimenti storici) per risalire ad un
modello di rischio-rendimento, attraverso la “correlazione” tra le differenze nei rendimenti degli
investimenti su lunghi periodi di tempo e le caratteristiche di tali investimenti: dimensione aziendale
(capitalizzazione di borsa), multipli del prezzo azionario. Queste variabili, correlate con i rendimenti azionari,
consentono di determinare il rischio di mercato. Infatti, Fama e French notarono che i rendimenti effettivi di
un’impresa nel lungo periodo erano correlati al rapporto tra valore di mercato e valore contabile del capitale
netto e alla capitalizzazione di mercato. Queste variabili vengono usate per approssimare il rischio di mercato
e quindi stimare il rendimento atteso di un investimento.

Analisi comparata dei modelli di rischio-rendimento


• Tutti i modelli partono dall’assunto che il rischio-mercato viene remunerato e che il rendimento atteso è funzione di tale rischio
di mercato.
• Il CAPM si riferisce solo al fattore mercato e può essere considerato un caso speciale dell’APM con un unico fattore
perfettamente misurato dall’indice di mercato.
• L’APM si riferisce a più fattori e quindi si rivela superiore se l’impresa è sensibile a fattori economici non adeguatamente
rappresentati dall’indice di mercato. Il suo problema è l’incapacità di identificare esattamente i fattori macroeconomici che
determinano il rendimento atteso ed è difficile capire cosa significhino i coefficienti beta per un’impresa.
• I modelli multifattoriali sono usati più come strumenti per valutare la performance di un portafoglio.

Riepilogo: fasi per la costruzione di un modello di valutazione del costo del capitale proprio
Fase 1: definire il rischio (calcolare la varianza dei rendimenti);
Fase 2: distinguere tra rischio remunerato e non remunerato (stimare il solo rischio di mercato);
Fase 3: misurare il rischio di mercato (CAPM, APM, Modelli multifattoriali, Modelli empirici basati sulla regressione).

Per le imprese quotate può essere utilizzato un approccio alternativo alla stima del costo del capitale proprio,
ossia usare il prezzo di mercato, che però è una stima del valore di tutta l’impresa. Dal prezzo di mercato si
può però stimare “implicitamente” anche il costo del capitale netto. Infine, non richiede alcun modello di
rischio-rendimento.
Prezzo azione = Dividendo atteso prossimo anno / (Costo capitale netto – Tasso crescita atteso)
3.5 Rischio del debito

3.5.1 Rischio di insolvenza


Quando un investitore presta dei fondi ad un individuo o ad un’impresa, corre il rischio di non ricevere il
rimborso del prestito o il pagamento degli interessi maturati: questo è il rischio di insolvenza. Mentre il
modello di rischio-rendimento esaminava solo il rischio di mercato (poiché il rischio specifico era eliminato
attraverso la diversificazione del portafoglio), il modello di stima del rischio di insolvenza esamina gli effetti
del rischio specifico d’impresa (quali il rischio di insolvenza) sui rendimenti attesi. Infatti, la diversificazione
non riesce ad eliminare il rischio specifico quando si tratta di titoli di debito, poiché l’apprezzamento a
seguito di eventi aziendali positivi è assai limitata rispetto alla potenziale perdita di valore a seguito di eventi
negativi. Dunque, il rendimento atteso di un titolo obbligazionario dipende dal rischio d’insolvenza specifico
della società emittente.

Il rischio di insolvenza è funzione di 2 variabili:


- Capacità dell’impresa di generare flussi di cassa tramite l’attività operativa;
- Ammontare degli impegni finanziari (tra cui il pagamento degli interessi e della quota capitale sui debiti).

Inoltre, il rischio di insolvenza dipende anche dal grado di liquidità delle attività dell’impresa:
- Se i flussi di cassa sono maggiori rispetto agli impegni finanziari, il rischio di insolvenza è minore (quindi,
imprese che hanno effettuato tanti investimenti avranno un minore rischio di insolvenza, perché in grado
di generare tanti flussi di cassa);
- Maggiore è la stabilità dei flussi di cassa, minore è il rischio di insolvenza (per cui, imprese che operano in
settori stabili e prevedibili avranno minore rischio di insolvenza rispetto alle altre);
- A parità di indebitamento e di generazione dei flussi, maggiore è la liquidità delle attività (asset)
dell’impresa, minore è il rischio di insolvenza, poiché è più facile per essa trasformare tali attività in fondi
liquidi utilizzabili per soddisfare gli impegni finanziari.

I modelli che stimano il rischio di insolvenza misurano la capacità dei flussi di cassa di far fronte agli impegni
finanziari. Tale relazione è sintetizzata dagli indici finanziari.

3.5.1 Rating
Un tempo, i finanziamenti alle imprese venivano fatti dalle banche, e prima di erogarli valutavano il rischio
di insolvenza dei clienti. Oggi, con lo sviluppo del mercato dei titoli obbligazionari, il finanziamento alle
imprese viene fatto anche da investitori che non hanno risorse adeguate per poter valutare il rischio
d’insolvenza. Per tale ragione nascono le Agenzie di rating. Esse analizzano il rischio di insolvenza utilizzando
fonti informative pubbliche e private, e poi traducono questa analisi in misure del rischio di insolvenza (rating
obbligazionario).

Processo di rating:
1) L’impresa si rivolge ad un’agenzia di rating per ottenere un rating: infatti, poiché l’impresa è poco
conosciuta, le sarà difficile riuscire a raccogliere i fondi necessari sul mercato obbligazionario (negli USA
la percentuale di imprese con un rating sul debito è molto elevato in quanto il mercato obbligazionario è
molto attivo, mentre in Europa tale percentuale è molto inferiore in quanto le banche rimangono la fonte
di finanziamento principale);
2) Dopo che l’impresa ha compilato il modulo di richiesta del rating, l’agenzia assegna all’impresa un gruppo
di analisti;
3) Gli analisti raccolgono le informazioni da fonti pubbliche (bilanci) e private;
4) Gli analisti analizzano i dati, li presentano all’agenzia di rating e sulla base di questi decidono quale rating
assegnare all’impresa;
5) Il rating viene comunicato all’impresa (se è in disaccordo può presentare ulteriori informazioni);
6) Il rating viene pubblicato.
I rating assegnati dalla S&P variano da AAA a D:
- Obbligazioni con un rating ≥ BBB sono dette “grado di investimento”, per indicare che il rischio di insolvenza associato alle
obbligazioni emesse dall’impresa è sostanzialmente limitato;
- Obbligazioni con un rating < BBB sono dette “obbligazioni spazzatura” (Junk bonds) o “obbligazioni ad alto rendimento” (High
yield bond).

Il rating obbligazionario delle società dipende dagli indici finanziari, che misurano il rischio di insolvenza
(capacità dell’impresa di generare flussi di cassa stabili e prevedibili con cui far fronte agli impegni finanziari).
Perciò, le imprese che avranno flussi di cassa maggiori degli impegni finanziari avranno un rating elevato. Le
agenzie di rating, nella valutazione complessiva, tengono conto anche degli “elementi soggettivi” come ad
esempio la previsione di un significativo miglioramento (quindi un’impresa può avere degli indici finanziari
negativi ma un rating positivo in quanto si prevede una crescita dell’impresa).

3.5.2 Tasso di interesse


Il tasso di interesse su un’obbligazione societaria è funzione del rischio di insolvenza della società emittente.
Rating e tasso d’interesse sono correlati negativamente (ad un rating elevato corrisponde un minor tasso di
interesse e viceversa).

Il rating può essere cambiato dall’agenzia in seguito a cambiamenti della salute dell’impresa o della sua
struttura finanziaria. Il rating migliora dopo l’emissione di nuove azioni o dopo un miglioramento della
performance operativa, mentre peggiora dopo l’emissione di nuovo debito o dopo un peggioramento della
performance operativa. Dunque, la decisione di modificare il rating riflette eventi già noti ai mercati. Spesso
i prezzi delle obbligazioni diminuiscono prima dei peggioramenti dei rating.

CAP. 4 – MISURARE IL RISCHIO E LA SOGLIA MINIMA DI RENDIMENTO: IN PRATICA

Ricapitolando, nel capitolo precedente abbiamo detto che il rendimento atteso di un investimento azionario
(o costo del CN) è funzione del rischio di mercato, il quale, a sua volta, dipende da 3 parametri (tasso privo
di rischio, premio per il rischio di mercato, beta) che possono essere stimati con 3 modelli diversi: CAPM,
APM, Modello multifattoriale. Inoltre abbiamo detto che il rendimento atteso (costo del CN o costo del
debito) rappresenta la soglia minima di rendimento. In questo capitolo, però, vedremo come “determinare”
la soglia minima di rendimento di un progetto d’investimento.

Per “stimare” la soglia minima di rendimento, bisogna “stimare” il costo del capitale, dato dal:
• Costo del capitale di debito (tasso di interesse): dipende dal rischio di insolvenza e dalla leva finanziaria;
• Costo del capitale netto (capitale proprio): dipende da 3 parametri che bisogna “stimare”: tasso privo di
rischio, premio per il rischio di mercato, beta di mercato dell’attività.
Infatti, la soglia minima di rendimento deve riflettere la struttura finanziaria dell’impresa, cioè la struttura
del capitale aziendale (capitale proprio e capitale di debito).

Se il rendimento atteso dipende dalla rischiosità del progetto, allora anche il costo del capitale dipende dalla
rischiosità. Infatti, la soglia minima di rendimento è direttamente proporzionale alla rischiosità del progetto.

4.1. Costo del capitale netto


Il costo del capitale netto è il tasso di rendimento atteso richiesto da coloro che investono nelle azioni di una
società. I rendimenti attesi da investimenti rischiosi vengono calcolati aggiungendo al tasso privo di rischio
un premio per il rischio atteso (legato al beta dell’attività).

Rendimento atteso del capitale netto = rendimento privo di rischio + premio per il rischio
Tasso di rendimento atteso del capitale netto = tasso privo di rischio + premio per il rischio
𝑹𝑹𝒋𝒋 = 𝑹𝑹𝒇𝒇 + 𝜷𝜷𝒋𝒋 (𝑹𝑹𝒎𝒎 – 𝑹𝑹𝒇𝒇 )
4.1.1 Stima del tasso privo di rischio (Rf)
Il tasso privo di rischio è il rendimento di un’attività della quale l’investitore conosce con certezza il
rendimento atteso. A condizione che non vi siano:
- Rischio di insolvenza (default risk): in genere ciò implica che si tratti di un titolo emesso da uno Stato (il
quale teoricamente è sempre solvibile, anche se non tutti gli Stati sono esenti da rischio di insolvenza,
rendendo quindi difficile la stima);
- Incertezza sui tassi di reinvestimento (tassi di rendimento a cui sono investiti i flussi di cassa intermedi): il
che richiede che non ci siano flussi di cassa intermedi (come ad esempio i titoli privi di cedola, cioè i titoli
zero coupon), altrimenti si sarebbe esposti al rischio di reinvestimento, perché non si sa con certezza
quale sarà il tasso di rendimento al quale il flusso di cassa intermedio sarà reinvestito.

Quindi, il tasso privo di rischio è il tasso di uno zero coupon bond con uguale scadenza rispetto ai flussi di
cassa generati dal progetto d’investimento.

Flussi di cassa e tassi privi di rischio (il principio della coerenza): il tasso privo di rischio deve essere espresso
nella stessa valuta in cui sono stimati i flussi di cassa. Il fattore che determina le differenze fra le varie valute
è l’inflazione. Se l’inflazione è elevata, la stima dei flussi di cassa viene fatta in termini reali (utilizzando tassi
di crescita reali, cioè senza considerare la crescita derivante dall’inflazione). Dunque, i tassi di attualizzazione
devono essere espressi anche in termini reali. Per ovviare a tale problema sono stati introdotti titoli di stato
indicizzati al tasso d’inflazione, i quali offrono un rendimento garantito in termini reali, invece che in termini
nominali.

4.1.2 Stima del premio per il rischio di mercato (Rm – Rf)


Nel CAPM il premio per il rischio misura il rendimento addizionale richiesto dagli investitori per passare da
un investimento privo di rischio ad un investimento di media rischiosità.
Quindi, il premio per il rischio di mercato deve essere una funzione di 2 variabili:
- Avversione al rischio degli investitori: maggiore è l’avversione al rischio, maggiore è il premio richiesto
dagli investitori;
- Rischiosità dell’investimento rischioso medio (rischiosità del portafoglio di mercato): maggiore è la
rischiosità dell’investimento rischioso medio, maggiore è il premio richiesto dagli investitori.

Ciascun investitore nel mercato avrà una sua valutazione di cosa costituisce un premio accettabile, per cui il
premio risulterà essere una media ponderata del premio richiesto da ciascun investitore, con i pesi
proporzionali al patrimonio investito da ciascun investitore.

Nell’APM e nei modelli multifattoriali, i premi per il rischio utilizzati per ciascuno dei fattori saranno pari alla
media ponderata dei premi richiesti dai singoli investitori per ciascuno dei fattori.

Detto ciò, vediamo adesso come stimare il premio per il rischio di mercato. Nel CAPM ci sono 3 modi:
1) Fare sondaggi fra i maggiori investitori per capire quali sono le loro aspettative per il futuro (poco usato);
2) Analizzare i premi effettivamente ottenuti in passato attraverso i dati storici (il più usato);
3) Misurare il premio implicito nei dati correnti di mercato (il migliore).
Nell’APM e nei modelli multifattoriali il premio può essere stimato solo sulla base di dati storici.

1) Sondaggi
Ha il vantaggio di avere una osservazione diretta delle aspettative di rendimento, ma ha il difetto
dell’impossibilità di fare stime precise, per 3 motivi:
- È un metodo che non impone limiti di buon senso alla stima ottenuta: ad esempio il rendimento atteso
dei maggiori investitori può risultare addirittura inferiore del tasso privo di rischio;
- Le stime ottenute sono estremamente volatili (perché diverse a seconda del mercato);
- Tendono ad essere stime di breve periodo.
2) Premi storici di mercato
Nell’APM e nei modelli multifattoriali, i premi per ciascun fattore sono stimati sulla base di dati storici sui
prezzi di certe attività su lunghi archi temporali.

Nel CAPM il premio viene calcolato come differenza fra rendimenti medi azionari e rendimenti medi su titoli
privi di rischio (Rm – Rf) lungo un esteso periodo di tempo.
Vi sono 3 tappe da seguire:
- Definire un arco temporale per la stima;
- Calcolare il rendimento medio di un indice azionario e di un titolo privo di rischio nel periodo in questione;
- Calcolare la differenza fra i 2 rendimenti e utilizzarla come stima del premio per il rischio atteso per il
futuro.
Così, però, si ipotizza che l’avversione al rischio degli investitori e la rischiosità media del portafoglio
“rischioso” (cioè dell’indice azionario) non sia cambiata in modo sistematico nel tempo.

Anche se questa è la migliore stima del premio, vi sono differenze fra le stime usate nella pratica, per 3
motivi:
1) Periodo usato: poiché l’avversione al rischio cambia nel tempo, si usano periodi brevi e più recenti, ma
questo implica un maggiore margine di errore della stima (minore è il periodo di stima, maggiore è il
margine di errore). Dunque, non vi è alcun vantaggio derivante dall’utilizzo di una stima più aggiornata.
Per avere un errore standard ragionevole sono necessarie lunghissime serie storiche di rendimenti.
2) Scelta del titolo privo di rischio: il premio per il rischio risulta maggiore se stimato rispetto ai titoli di stato
a breve termine. Nella maggior parte dei casi, in finanza aziendale, il tasso privo di rischio rilevante è
quello di lungo periodo. Perciò il premio per il rischio dovrebbe essere calcolato prendendo il premio
ottenuto dagli investitori azionari rispetto ai titoli di stato a lungo termine.
3) Medie aritmetiche e geometriche: la media aritmetica è la media dei rendimenti annuali. La media
geometrica si riferisce al rendimento composto (cioè al valore dell’investimento all’inizio e alla fine del
periodo). L’approccio più comune è utilizzare la media aritmetica, ma questa tende a sovrastimare il
premio poiché i rendimenti degli investimenti azionari sono negativamente correlati nel tempo. I modelli
di rischio-rendimento suggeriscono che l’orizzonte di riferimento dovrebbe essere pluriennale e perciò va
preferita la media geometrica.

Quindi, la stima del premio per il rischio è diversa a seconda del periodo, del titolo di stato scelto e dell’uso
dei medie aritmetiche o geometriche.

Versione modificata del premio per il rischio su dati storici (premi storici)
I dati storici sui rendimenti azionari sono facilmente accessibili negli USA. In altri mercati (soprattutto quelli
emergenti), purtroppo, non è così. Quando i dati storici sono pochi, il premio per il rischio viene calcolato nel
seguente modo: Premio per il rischio del mercato azionario di un certo paese = Premio per il rischio dei
mercati azionari maturi + Premio per il rischio del paese (riflette il rischio addizionale associato ad un
mercato specifico).

Dunque, per stimare il premio per il rischio nei mercati emergenti bisogna stimare il premio per il rischio dei
mercati maturi (es. USA) e il premio per il rischio addizionale specifico di un paese. Per stimare il premio per
il rischio addizionale di un paese specifico si possono usare 3 approcci:
1) Differenziale per il rischio di insolvenza dei titoli obbligazionari di un paese rispetto a quelli dei paesi
maturi (spread): una delle misure più semplici del rischio di un Paese è il rating assegnato al debito di un
Paese dalle agenzie specializzate. Esso misura il rischio di insolvenza di un paese e non il rischio azionario,
ma riflette la maggior parte dei fattori da cui dipende anche il rischio azionario: stabilità della valuta,
deficit, bilancia commerciale, etc.
2) Volatilità del mercato azionario rispetto ai mercati azionari maturi: una misura convenzionale del rischio
azionario è la deviazione standard (s.q.m.) dei prezzi azionari (maggiore è la devianza, maggiore è il
rischio). Riportando la deviazione standard di un mercato rispetto ad un altro si ottiene una misura del
rischio relativo del paese: Dev std relativa del paese = Dev std paese / Dev std USA  σ relativa del paese
= σ paese / σ USA
Questa misura presenta però un problema perché paragonare deviazioni standard calcolate per mercati diversi in termini di
microstruttura e liquidità, può non essere appropriato. Infatti, ci sono mercati emergenti che anche se molto rischiosi, hanno
una volatilità bassa per la scarsa liquidità. Questo approccio tenderà a sottostimare il premio per il rischio azionario. Alcuni
analisti ritengono che i premi per il rischio azionario dei mercati debbano riflettere le differenze in termini di volatilità fra i
diversi mercati.
3) Differenziale per il rischio di insolvenza + volatilità del mercato azionario rispetto ai titoli di Stato
(combinazione dei primi 2 metodi): l’investimento in azioni è più rischioso di quello in obbligazioni. Per
capire di quanto, bisogna calcolare la volatilità del mercato azionario di un Paese rispetto alla volatilità
dei titoli di stato usati per stimare il differenziale per il rischio di insolvenza. In questo modo si ottiene la
stima del premio addizionale per il rischio azionario di un paese = differenziale per rischio insolvenza di
un paese * (σ Azioni / σ Titoli di Stato)

3) Premi azionari impliciti


Questo approccio di stima del premio per il rischio di mercato parte dal presupposto che i prezzi espressi dai
mercati azionari riflettono correttamente il valore delle azioni.

Un metodo per determinare il valore delle azioni è quello dell’attualizzazione dei dividendi attesi. Se i
dividendi crescono ad un tasso costante si può usare il modello di Gordon e quindi il Valore attuale dei
dividendi = Valore di mercato = Dividendi attesi nel prossimo periodo / (Tasso di rendimento atteso sul
Capitale Netto – Tasso di crescita dei dividendi attesi)
Da questa formula è possibile ricavare il rendimento atteso sul capitale netto, da cui si sottrae il tasso privo
di rischio e si ottiene il premio implicito per il rischio azionario.
Questo metodo presenta alcuni vantaggi in quanto il premio per il rischio:
- Si basa solo su valori di mercato e riflette le aspettative future (senza bisogno di dati storici);
- Varia al variare delle condizioni di mercato.

I tre approcci a confronto


Nel passaggio da un approccio all’altro, o anche all’interno di uno stesso approccio, possono cambiare i
parametri di stima, e questo può comportare una diversa stima dei premi per il rischio azionario. I 3 approcci
possono quindi dare risultati diversi per 3 motivi:
1) Quando i prezzi azionari entrano in una fase prolungata di movimenti al rialzo (ribasso), il premio storico
per il rischio salirà (scenderà) per riflettere i rendimenti passati, mentre il premio implicito scenderà
(salirà);
2) I premi ottenuti tramite sondaggi riflettono i dati storici e non le aspettative, per cui quando le azioni
salgono, gli investitori sono più ottimisti e ciò si riflette nei premi ottenuti tramite sondaggi;
3) Quando cambiano i fondamentali di un mercato, i premi storici per il rischio non variano, mentre i premi
impliciti variano.

In ogni caso, la stima migliore dipende da 3 fattori:


1) Potere predittivo: ciò che importa è conoscere il premio per il rischio azionario futuro, quindi andrebbe
dato maggiore peso all’approccio che ha il maggiore potere predittivo (premio per il rischio azionario
implicito);
2) Convinzioni sui mercati: se si ritiene che i mercati sono efficienti, la scelta migliore è il premio per il rischio
azionario implicito, mentre se si ritiene che i mercati possono essere sopravvalutati/sottovalutati, la scelta
migliore è il premio storico per il rischio.
3) Scopo dell’analisi: l’obiettivo per il quale si utilizzano i premi per il rischio azionario può determinare il
giusto premio da utilizzare in caso di valutazione delle imprese soggette ad acquisizione (premio per il
rischio azionario implicito, perché considera anche il mercato, mentre gli altri approcci no.

Dunque, non c’è un metodo per la stima dei premi per il rischio azionario che vale per tutti i tipi di analisi.
4.1.3 Stima del parametro di rischio (βj)
Nel CAPM il beta di una attività deve essere stimato rispetto al portafoglio di mercato (unico fattore).
Nell’APM e nel modello multifattoriale il beta di una attività deve essere stimato rispetto a ciascun fattori.
Vi sono 3 approcci per “stimare” il beta (βj):
1) Utilizzare dati storici sui prezzi di mercato delle singole attività (regression beta);
2) Effettuare un’analisi dei dati fondamentali (bottom-up beta);
3) Utilizzare dati contabili (accounting beta).

1) Derivare il beta da dati storici di mercato (regression beta)


Bisogna anzitutto calcolare i rendimenti che un investitore otterrebbe se investisse in azioni di un’impresa
per ogni intervallo di tempo lungo un certo periodo. Poi:
- Nel CAPM il beta viene ottenuto esaminando la relazione tra i suddetti rendimenti (previsti) e i rendimenti
di un indice del mercato azionario (indice che sintetizza il rendimento di tutti i titoli azionari sul mercato);
- Nei modelli multifattoriali i beta sono stimati esaminando la relazione tra i suddetti rendimenti azionari
e l’andamento dei vari fattori macroeconomici;
- Nell’APM i beta sono dati dall’analisi fattoriale dei rendimenti azionari storici.

Nel CAPM il beta si stima facendo la “regressione” dei rendimenti grezzi sull’investimento (Rj) rispetto ai
rendimenti grezzi sul mercato (Rm): Rj = α + βj*Rm
• β: è l’inclinazione della retta e misura la rischiosità dell’attività;
• α: è l’intercetta della retta e misura la performance del prezzo azionario rispetto alla performance attesa.
Per misurare la performance del prezzo azionario, l’intercetta (α) deve essere messa a confronto con
l’intercetta prevista [Rf*(1 – Bj)]:
- Se α > Rf (1 – β), la performance nel periodo analizzato è stata migliore del previsto;
- Se α = Rf (1 – β), la performance nel periodo analizzato è stata uguale alle previsioni;
- Se α < Rf (1 – β), la performance nel periodo analizzato è stata peggiore del previsto.
Questa misura della performance del prezzo azionario [α – Rf (1 – β)] prende il nome di “alfa di Jensen” e
indica se la performance dell’azione (tenuto conto del suo profilo di rischio) è stata superiore o inferiore
alla performance del mercato azionario nell’arco temporale analizzato.

2) Derivare il beta dai fondamentali dell’impresa (bottom-up beta)


Il beta riflette le politiche aziendali di investimento/finanziamento. Questo modello di stima del beta dà più
rilievo alla intuizione economica e meno rilievo alla stima basata sui dati storici. Infatti il beta di un’impresa
dipende da 3 variabili:
a) Tipo di attività dell’impresa;
b) Intensità della leva operativa;
c) Intensità della leva finanziaria.

a) Tipo di attività dell’impresa


Il beta dipende dall’andamento generale del mercato (perché il beta misura il rischio dall’impresa rispetto
all’indice di mercato), per cui, più l’attività dell’impresa risente delle oscillazioni dell’economia (come ad
esempio le imprese cicliche) più il beta sarà alto. Il beta dipende anche dalla discrezionalità nell’acquisto dei
prodotti da parte dei clienti, per cui più l’attività dell’impresa risente della discrezionalità, maggiore sarà il
beta. Ad esempio le imprese che vendono beni di lusso hanno beta elevati perché se non ho soldi il bene
non lo acquisto. Per rendere i propri prodotti più necessari e meno discrezionali bisogna rendere il prodotto
parte integrante e necessaria della vita quotidiana delle persone e creare fedeltà nella marca tramite
pubblicità e campagne di marketing.

b) Intensità della leva operativa


La leva operativa è una funzione della struttura dei costi dell’impresa data dal rapporto tra CF e CT (CF / CV
+ CF). Un’impresa con un’elevata leva operativa avrà anche una alta variabilità del reddito operativo rispetto
ad una impresa che produce lo stesso tipo di prodotti ma con una leva operativa inferiore. Ad una leva
operativa alta corrisponde un beta elevato. Risulta però difficile per un osservatore esterno misurare la leva
operativa, perché dal bilancio di esercizio non si vedono quali sono i CF e quali i CV. Un’altra misura per
calcolare la leva economica è la seguente: Δ%RO / Δ%R.

c) Intensità della leva finanziaria


Il beta dell’attività dell’impresa è la media ponderata del beta del capitale netto (rischio degli azionisti) e del
beta del capitale di debito (rischio degli obbligazionisti).
β attività = β CN (CN/Passività tot.) + β debito (Debito/Passività tot.)
Se l’intero rischio è a carico degli azionisti (β debito = 0) e gli oneri finanziari sono fiscalmente deducibili, la
relazione tra β CN e leva finanziaria sarà: βL = βu [1 + (1 – t)*(D/E)]
βL (beta CN “levered”) = rischiosità del CN in presenza di debito;
βu (beta CN “unlevered”) = rischiosità del CN in assenza di debito;
t = aliquota d’imposta;
D/E = Debito/CN = leva finanziaria.

Un aumento della leva finanziaria (cioè del rapporto d’indebitamento) fa aumentare il rischio degli azionisti
(βL) perché gli azionisti si accolleranno un maggior rischio di mercato. Il βu dipende dal rischio inerente
l’attività svolta (business risk), per cui βL dipende dal rischio inerente l’attività svolta e dal rischio finanziario
(financial risk). La leva finanziaria moltiplica il rischio operativo, per cui le imprese con maggior rischio
operativo sono più prudenti nell’indebitarsi, mentre quelle che operano in settori stabili sono più propense a
ricorrere alla leva finanziaria.

Stimare il beta bottom-up


Il beta di due attività è la media ponderata del beta di ciascuna attività, con i pesi proporzionali al loro valore
di mercato. Per calcolare il beta bottom-up bisogna:
1) Individuare le attività svolte dall’impresa;
2) Stimare i βu medi di altre imprese quotate che operano in ciascuna di queste attività, tenendo conto dei
problemi di stima:
- Identificare imprese comparabili;
- Stimare il beta di ciascuna impresa rispetto a uno stesso indice;
- Trasformare il β in βu;
- Media semplice o ponderata;
- Rettifica per le disponibilità liquide: gli investimenti in disponibilità liquide hanno β prossimo allo zero.
3) Calcolare il βu dell’impresa come media ponderata dei βu delle varie attività usando come pesi il valore di
mercato di ciascuna attività. Questa media ponderata = βu bottom up;
4) Calcolare l’indice di indebitamento corrente dell’impresa;
5) Stimare il βL dell’impresa partendo dal βu.

Vantaggi del beta bottom-up


- Si può stimare il beta anche senza i dati storici sui prezzi azionari (es. azioni non quotate);
- Il beta di ciascuna attività è la media di molti beta stimati tramite regressione e quindi sarà più preciso del
beta di una singola impresa stimato tramite regressione;
- Riflette le variazioni recenti o attese nella struttura delle attività e della leva finanziaria d’impresa, perché
nello stimare il β è possibile cambiare la composizione delle attività e il peso di ciascuna di esse.

3) Derivare il beta dai dati contabili (Accounting beta)


Il terzo approccio usato per stimare il β CN di un’impresa, utilizza gli utili contabili piuttosto che i prezzi di
mercato. Si può fare una regressione della variazione degli utili dell’impresa, rispetto alla variazione degli
utili nel mercato, nello stesso arco di tempo, così da ottenere la stima del beta da inserire nel CAPM.

Questo metodo presenta 3 problemi:


- I valori contabili tendono a “smorzare” la vera volatilità dei fondamentali dell’impresa, spingendo il beta
verso il basso (cioè il beta di tutte le imprese vengono spinti verso 1);
- Gli utili contabili possono essere influenzati da fattori non operativi (es. variazione dei metodi contabili
usati per l’ammortamento, l’allocazione delle spese generali);
- I dati sugli utili contabili sono disponibili con scadenza trimestrale e annuale, per cui il basso numero di
osservazioni riduce l’attendibilità dei risultati della regressione.

Quale beta utilizzare?


Stimando il beta con metodi diversi, si ottengono dei rischi diversi dell’attività. Quale bisogna scegliere?
- Dati contabili (accounting beta): non è affidabile perché usa come variabili i dati di bilancio;
- Dati di mercato (regression beta): non è affidabile perché gli indici locali sono inadeguati e le regressioni
non riflettono variazioni nel rischio finanziario ed operativo dell’impresa;
- Fondamentali (bottom-up beta): è affidabile perché utilizza le medie e incorpora gli effetti di variazioni
nella struttura finanziaria ed operativa.

4.1.4 Stima del costo del capitale netto


Stimato il rendimento privo di rischio, il premio per il rischio di mercato e il beta di mercato dell’attività, resta
da stimare il rendimento atteso di un investimento azionario (cioè il costo del capitale netto).

Nel CAPM, il rendimento atteso del capitale netto è pari a:


𝑹𝑹𝒋𝒋 = 𝑹𝑹𝒇𝒇 + 𝜷𝜷𝒋𝒋 �𝑬𝑬(𝑹𝑹𝒎𝒎 ) – 𝑹𝑹𝒇𝒇 �
𝑹𝑹𝒋𝒋 (rendimento atteso);
𝑹𝑹𝒇𝒇 (tasso privo di rischio): è rappresentato dai titoli di stato a lungo termine;
𝜷𝜷𝒋𝒋 (beta dell’attività): stimato usando i dati contabili, i dati storici o i fondamentali;
�𝑬𝑬(𝑹𝑹𝒎𝒎 – 𝑹𝑹𝒇𝒇 )� (premio per il rischio di mercato): è il premio storico o implicito.

Nell’APM e nel modello multifattoriale, il rendimento atteso del capitale netto è pari a:
𝒏𝒏

𝑹𝑹𝒋𝒋 = 𝑹𝑹𝒇𝒇 + � 𝜷𝜷𝒋𝒋 �𝑬𝑬�𝑹𝑹𝒎𝒎 – 𝑹𝑹𝒇𝒇 ��


𝒋𝒋=𝟏𝟏
𝑹𝑹𝒋𝒋 (rendimento atteso);
𝑹𝑹𝒇𝒇 (tasso privo di rischio): è rappresentato dai titoli di stato a lungo termine;
𝜷𝜷𝒋𝒋 (beta dell’attività): è il β dell’investimento del fattore j ed è stimato usando i dati storici o i fondamentali;
�𝑬𝑬(𝑹𝑹𝒎𝒎 – 𝑹𝑹𝒇𝒇 )� (premio per il rischio di mercato): è il premio per il rischio relativo al fattore j ed è stimato sulla
base di dati storici.

Il rendimento atteso di un investimento azionario (CN), che è la remunerazione per il rischio, ha conseguenze
per gli azionisti e per il management:
- Per gli azionisti, il rendimento atteso è la remunerazione minima che richiedono per il rischio assunto
(avendo investito nella società);
- Per il management, il rendimento atteso è il rendimento minimo che devono cercare di ottenere per
soddisfare gli investitori (per l’impresa rappresenta il costo del CN).

4.2. Costo del capitale di debito


Le imprese, oltre a finanziarsi con il capitale proprio (CN), si finanziano anche con altre fonti di finanziamento:
- Capitale di debito;
- Fonti ibride di finanziamento;
- Obbligazioni convertibili in azioni.
4.2.1 Costo del capitale di debito
Il costo del debito è il costo che l’impresa deve sostenere per prendere in prestito fondi necessari a finanziare
l’attività operativa. Esso dipende da:
- Livello attuale dei tassi d’interesse: maggiore è il tasso d’interesse, maggiore è il costo del capitale di
debito;
- Rischio d’insolvenza della società: all’aumentare del rischio d’insolvenza, i proprietari del denaro
aumentano i tassi di interesse per compensare il maggior rischio;
- Beneficio fiscale associato al debito: gli interessi passivi sono deducibili ai fini fiscali, per cui il costo del
debito (al netto delle imposte) sarà funzione dell’aliquota di imposta.

Costo del debito al netto delle imposte = (Tasso privo di rischio + differenziale per rischio insolvenza) * (1 –
Aliquota d’imposta marginale).

Il problema della stima del costo del debito risiede nella stima del differenziale per il rischio di insolvenza
della società. Se l’impresa ha in circolazione obbligazioni a lungo termine ampiamente negoziate (e senza
caratteristiche speciali) è possibile calcolare il rendimento obbligazionario, che consente di calcolare il costo
del debito. Se l’impresa non ha obbligazioni ampiamente negoziate, esse avranno un rating, che viene usato
per calcolare il costo del debito. Quando non è disponibile un rating (cioè nelle imprese di piccole
dimensioni), per stimare il costo del debito si ricorre a 2 strade alternative:
1) Recente storia del prestito: poiché analizzando i prestiti più recenti richiesti da un’impresa, è possibile
definire i differenziali per rischio d’insolvenza applicati;
2) Stima di un rating sintetico: facendo le veci di un’agenzia di rating e assegnando il rating ad una impresa
sulla base di certi indici finanziari, è possibile stimare un rating sintetico.
Ad esempio si può calcolare l’indice di copertura degli oneri finanziari (RO/Interessi passivi). Basando il
rating sintetico solo su questo indice si corrono però dei rischi:
- Rischio di avere un rating troppo basso o troppo alto, poiché usando il reddito operativo dell’ultimo
anno l’impresa potrebbe avere avuto un anno eccezionalmente negativo o positivo. Il problema è
risolto usando il RO medio relativo a un dato periodo;
- Rischio di ignorare informazioni fornite dagli altri indici finanziari. Per risolvere il problema bisogna
sviluppare un punteggio basato su numerosi indici e correlarlo ad un rating obbligazionario.
La caratteristica principale del debito è che si è obbligati ad effettuare certi pagamenti, indipendentemente dalla performance
dell’impresa, pena il fallimento o la perdita di controllo dell’impresa stessa. Per cui è possibile che il debito dello SP non rifletta la
realtà. Ciò avviene in particolare quando si stipulano contratti di leasing, in quanto si ha un indebitamento maggiore rispetto a
quello riportato dallo SP. Per risolvere tale problema bisogna considerare tutti i pagamenti di leasing come spese finanziarie,
convertire gli impegni futuri di leasing in debito e calcolare il valore attuale del debito. Tale valore può essere considerato come il
valore di debito dei leasing operativi aggiungendolo al valore del debito dello SP.
Reddito op rettificato = reddito operativo dichiarato + canone leasing pagato nell’anno – Amm.to del bene preso in leasing.

Tassi di interesse contabili e di mercato


Le imprese spesso prendono in prestito denaro a tasso fisso. Quando invece emettono obbligazioni, questo
tasso fisso viene definito “cedola” (coupon rate). Questi fattori (tasso fisso e cedola) determinano gli interessi
passivi che l’impresa dovrà pagare nell’anno in corso, ma non il costo del debito al lordo di imposte. Infatti,
il costo del debito deve basarsi non su tassi d’interesse contabili, ma su tassi d’interesse di mercato correnti.

4.2.2 Costo delle fonti ibride di finanziamento


Le fonti ibride di finanziamento hanno caratteristiche comuni sia al debito che al capitale proprio. Prevedono:
- Postergazione del rimborso del finanziamento ibrido o l’annullamento totale o parziale dello stesso (es.
prestito dei soci);
- Specifiche clausole (nel contratto obbligazionario) che prevedono delle opzioni di acquisto di quote di
capitale proprio (es. obbligazioni convertibili o con warrant) e legano implicitamente il rendimento del
titolo anche al rendimento azionario;
- Costruzione di strumenti finanziari mezzanini che legano la remunerazione del sottoscrittore al
rendimento degli azionisti. Qui il finanziamento è remunerato con una componente fissa e una variabile
(legata all’andamento del business);
- Totale privazione del diritto di voto in cambio di un privilegio sugli utili (es. azioni di risparmio).

Lo strumento mezzanini è un debito a medio termine, senza garanzie e senza privilegi, il cui rimborso è legato
più ai flussi di cassa attesi dell’attività finanziaria che alle garanzie reali. Esso è la sintesi di una forma di
debito a tasso fisso e dell’equity kicker (diritto a percepire una quota % dell’utile netto).
In Italia, una forma di questo strumento è il prestito partecipativo. In esso si configura un rapporto
triangolare tra la banca, l’impresa finanziata e i terzi obbligati (soci). La società si obbliga a corrispondere alla
banca, alla scadenza, il capitale, gli interessi e una % dell’utile netto. I soci si impegnano a fornire alla società
le risorse necessarie al rimborso del prestito. Di fatto è una anticipazione di capitale di rischio, che sarà
rimborsata secondo il piano di ammortamento del finanziamento e che fino alla sua estinzione darà luogo
ad un accantonamento in conto “futuro aumento di capitale”.

Per inserire il costo di queste forme di finanziamento nel calcolo del costo del capitale, ci sono 2 metodi:
- Diretto: utilizzando i dati contrattuali o i dati di mercato;
- Indiretto: con una media ponderata dei costi delle singole componenti.

In presenza di molteplici forme di finanziamento ibride, è possibile ottenere il costo totale delle fonti come
media ponderata del rendimento di ogni singola fonte per la quota di incidenza sul totale delle fonti ibride.
Costo finanziamenti ibridi: kibridi = kprestito_soci [Prestito soci / Tot. ibridi] + kconvertibili [Convertibili / Tot. ibridi] +
kdebito_senior [Quota debito senior sul magazzino / Tot. ibridi] + kequity_kicker [Quota E sul magazzino / Tot. ibridi]
+ kazioni_risparmio [Azioni di risparmio / Tot. Ibridi]

4.2.3 Costo delle obbligazioni convertibili


Sono la combinazione di una obbligazione ordinaria (debito) e un’opzione di conversione (capitale netto).
Invece di calcolare il costo di questi titoli ibridi, conviene anzitutto scomporre le sue componenti e trattarle
separatamente. Poi, per valutare il titolo esistono 2 approcci:
- Valutare l’opzione di conversione attraverso il modello Option Pricing, trattando come debito solo la
differenza tra valore dell’obbligazione ordinaria e valore dell’opzione di conversione;
- Valutare l’obbligazione convertibile come se fosse una obbligazione ordinaria, utilizzando il tasso al quale
l’impresa può prendere un prestito nel mercato come tasso di interesse dell’obbligazione. La differenza
fra il prezzo dell’obbligazione convertibile e il valore stimato dell’obbligazione ordinaria può essere il
valore dell’opzione di conversione (prezzo obbligazione convertibile – VA dell’obbligazione ordinaria).

4.3. Costo del capitale (CN + capitale di debito)


Ottenuti i costi per ogni componente della struttura finanziaria (CN e capitale di debito), per stimare il costo
del capitale bisogna calcolare il peso relativo del capitale di debito e del capitale netto. Il peso di ciascuna
fonte di finanziamento può essere calcolato secondo 2 modi differenti:
1) Pesi basati sul valore contabile;
2) Pesi basati sul valore di mercato.

1) Stima dei valori contabili


Alcuni analisti usano ancora pesi basati sul valore contabile perché:
- Il valore contabile è più affidabile del valore di mercato perché molto meno volatile (però la volatilità del
valore di mercato è buona, in quanto il vero valore dell’impresa varia nel tempo);
- È un approccio più prudente per stimare gli indici di indebitamento (ma in verità non lo è perché il costo
del CN è maggiore del costo del debito, per cui il costo del capitale calcolato usando indici di
indebitamento basati sul valore contabile è minore del costo del capitale calcolato usando indici di
indebitamento basati sul valore di mercato);
- Si ha coerenza, in quanto le misure di redditività si basano su dati contabili e quindi anche il costo del
capitale calcolato in base ai valori contabili (questo però non ha senso dal punto di vista economico perché
i fondi investiti nei progetti potrebbero essere investiti altrove e sfruttare rendimenti sui tassi di mercato).

2) Stima dei valori di mercato


Valore di mercato del CN
È ottenuto moltiplicando il numero di azioni in circolazione per il prezzo azionario corrente. Se in circolazione
ci sono azioni di più di una classe, il CN è dato dalla somma del valore di mercato di tutti questi titoli. Se ci
sono titoli azionari di altro tipo (es. Warrant), anch’essi devono essere valutati e inclusi nel valore del CN. Se
le imprese non sono quotate si utilizzano:
- I multipli del fatturato e dell’utile netto ai quali sono valutate le imprese quotate;
- Come peso relativo di debito e CN il peso relativo per le imprese quotate operanti nello stesso settore.

Valore di mercato del capitale di debito


È difficile ottenere il valore di mercato del debito perché sono poche le imprese che hanno tutto il loro debito
sotto forma di obbligazioni in circolazione sul mercato. Spesso il debito non è negoziato sul mercato, come
ad esempio il debito verso le banche (di questo si conosce il valore contabile e non il valore di mercato).
Per risolvere tale problema, gli analisti dicono che il valore contabile del debito è uguale al valore di mercato
del debito. Questo però è vero solo nelle imprese mature in mercati sviluppati. Un modo per convertire il
valore contabile del debito in un valore di mercato consiste nel trattare il debito complessivo riportato nei
libri contabili come una obbligazione con coupon, come coupon gli interessi passivi complessivamente
pagati sull’intero debito e come scadenza la media ponderata delle scadenze dei vari debiti. Poi bisogna
aggiungere il valore attuale dei futuri impieghi finanziari dei leasing.

I pesi associati al costo del capitale possono variare di anno in anno in caso di:
- Imprese giovani: man mano che crescono possono ricorrere maggiormente all’indebitamento e quindi
l’indice di indebitamento tenderà a crescere;
- Indici di indebitamento target e variazione della struttura finanziaria.
Il costo del capitale deve essere interpretato come una misura relativa ad un anno in particolare

4.3. Stima e utilizzo del costo del capitale


Una volta che si è in possesso delle stime dei costi delle singole componenti (debito, CN e titoli ibridi) e dei
pesi, basati sul valore di mercato per ogni fonte di finanziamento, è possibile calcolare il costo del capitale:
WACC = Costo del capitale netto + Costo del debito + Costo finanziamenti ibridi
WACC = kE [E/(D + E + ibridi)] + kD [D/(D + E + ibridi)] + kibridi [Ibridi/(D + E + ibridi)]

E = Valore di mercato del CN;


D = Valore di mercato del debito;
Ibridi = Valore di mercato dei finanziamenti ibridi.

Il WACC è la media ponderata del costo delle singole fonti di finanziamento. Il costo del capitale (WACC) è
una misura di quanto costa ad un’impresa finanziarsi, alla luce della sua struttura finanziaria.
• Se si vuole misurare il rendimento del solo investitore azionario, la soglia minima di rendimento (per
capire se conviene investire) è rappresentata dal solo costo del capitale netto. Bisogna quindi confrontare
il costo del CN (kE) con il rendimento atteso del CN investito (ROE). Conviene investire nel progetto solo
se ROE > kE (la differenza costituisce il rendimento del capitale di progetto per gli azionisti).
• Se si vuole misurare il rendimento complessivo per tutti gli investitori, la soglia minima di rendimento è
rappresentata dal costo del capitale. Bisogna quindi confrontare il costo del capitale (WACC) con il
rendimento atteso di tutti gli investimenti aziendali (ROI). Conviene investire nel progetto solo se ROI >
WACC (la differenza positiva costituisce il rendimento delle risorse di progetto per tutti gli investitori).

La soglia minima di rendimento deve riflettere il mix delle fonti di finanziamento usate.
Un progetto crea valore solo se rendimento atteso > soglia minima di rendimento.

Parametri di stima del rendimento basati sul rischio: tasso privo di rischio, premio per il rischio, misura del
rischio remunerato, rischio di insolvenza, costo del debito, costo del capitale, soglia minima di rendimento.

CAP. 5 – MISURARE IL RENDIMENTO DI UN INVESTIMENTO

5.1 Cos’è un progetto (decisione) d’investimento


Per sapere quali progetti d’investimento intraprendere, bisogna effettuare un’analisi dei progetti stessi, cioè
un’analisi di budget del fabbisogno finanziario (Capital Budgeting Analysis), cioé vedere se il rendimento
atteso del progetto è superiore al costo del progetto stesso.
Il tipico progetto d’investimento ha le seguenti caratteristiche:
- Alto investimento iniziale;
- Flussi di cassa distribuiti lungo un certo arco di tempo;
- Valore di recupero finale.

Ogni investimento è caratterizzato da una serie di flussi in entrata e in uscita aventi una determinata
distribuzione temporale ed un tasso d’interesse a cui attualizzarli.

Il progetto è una “decisione” sull’uso delle limitate risorse a disposizione di un’impresa. Quindi ogni decisione
strategica rientra nell’analisi dell’investimento. Le decisioni che può porre in essere sono:
- Decisioni strategiche fondamentali: entrare in una nuova ASA (business), entrare in un nuovo mercato,
acquisire altre imprese;
- Decisioni di tattica: nuove iniziative nell’attività che già svolge o in mercati in cui già opera;
- Decisioni operative: variare gli aspetti di progetti già intrapresi (es. la dimensione del magazzino, il mix di
beni da offrire, etc.);
- Decisioni di fornitura dei servizi richiesti.

I progetti possono essere classificati per:


• Grado di dipendenza: indipendenti (possono essere fatti entrambi), alternativi (uno esclude l’altro),
complementari (uno implica l’altro), preliminari;
• Finalità: aumentare i ricavi o ridurre i costi (valutare se l’aumento dei ricavi o la riduzione dei costi è tale
da giustificare l’investimento);
• Natura: investimenti reali (beni) o finanziari (in denaro);
• Tipo di rischio: operativo (ciclo operativo, tutto ciò che è core business) o finanziario (acquisizione risorse).

5.2 Misurare il costo di un progetto


Bisogna stimare il costo del CN, il costo del capitale di debito e il costo del capitale del progetto. In alternativa,
per l’analisi del progetto, si potrebbero usare il costo del CN, il costo del capitale di debito e il costo del
capitale che sono stati stimati per l’intera impresa, ma solo se gli investimenti fatti per il progetto e per
l’intera impresa hanno un profilo di rischio simile.

5.2.1 Costo del capitale netto dei progetti


Per valutare il beta (rischio) di un progetto bisogna considerare 3 possibili situazioni:
1) L’impresa opera in una singola attività e i progetti nell’attività hanno un profilo di rischio simile: l’impresa
può usare il costo del CN generale come costo del CN del progetto. Dunque si può usare lo stesso beta
generale, ma in questo caso la stima del CN del progetto presenta un vantaggio, cioè non necessita di
stimare il rischio prima di fare il progetto.
2) Diverse attività con diversi profili di rischio, ma progetti con simile profilo di rischio all’interno di ciascuna
attività: l’impresa può stimare il costo del CN per ciascuna attività separatamente e utilizzarlo poi per tutti
i progetti che rientrano in quella attività. Le attività più rischiose avranno costi del CN maggiori rispetto a
quelle più sicure e i progetti al loro interno genereranno rendimenti maggiori. Il costo del CN per singola
attività può essere stimato con i beta bottom-up basati su altre imprese quotate operanti nello stesso
settore o con i beta dati contabili (relativi all’ASA in questione).
3) Progetti con diversi profili di rischio: in linea di principio non conviene usare il costo del CN generale come
costo del CN del progetto, ma nella realtà vi è una lieve differenza tra i 2 costi del CN e questo non genera
sostanziali differenze delle decisioni di investimento. Dunque, l’impresa deve valutare se i benefici
aggiuntivi derivanti dall’utilizzo di un costo del CN per ciascun progetto siano superiori ai costi sostenuti
per stimarlo. Se i costi di stima sono superiori ai benefici, conviene usare il costo del CN generale, in caso
contrario conviene stimare il costo del CN per il progetto. Il metodo di stima del beta più utile è il metodo
beta bottom-up.

5.2.2 Costo del capitale di debito dei progetti


Per la stima del costo del debito di un progetto esistono 3 approcci:
1) Far coincidere la stima del costo del debito di progetto con il costo del debito dell’impresa: viene fatto
quando le dimensioni del progetto sono piccole rispetto all’impresa, così che il costo del debito di progetto
non ha un impatto alto sul rischio d’insolvenza dell’impresa.
2) Osservare la capacità del progetto di generare flussi di cassa rispetto ai suoi costi di finanziamento, così
da stimare il rischio di insolvenza e quindi il costo del debito di progetto. Il rischio di insolvenza può essere
anche stimato osservando altre imprese che intraprendono progetti simili e quindi usare il loro rischio di
insolvenza e il loro costo del debito. Ciò viene fatto quando il progetto è di grandi dimensioni.
3) Il costo del debito del progetto può essere valutato utilizzando la sua capacità di generare flussi di cassa
rispetto ai suoi obblighi finanziari. In alternativa si può usare la stima del rating sintetico. Questo approccio
viene usato quando un progetto viene finanziato singolarmente (es. project financing) e coloro che lo
finanziano non hanno il diritto di rivalersi sull’impresa in caso di insolvenza del progetto (separazione
patrimoniale perfetta). Ciò accade di rado, quando gli investimenti sono molto grandi.

5.2.3 Costo del capitale dei progetti


Per passare dal costo del CN e del debito al costo del capitale, abbiamo bisogno di assegnare a ciascuno un
peso relativo. Anche qui vi sono soluzioni differenti:
1) Nel caso di piccoli progetti, si possono usare i pesi stimati per l’impresa nel suo insieme, ricorrendo ai pesi
al valore di mercato di debito e capitale netto;
2) Nel caso di grandi progetti con diversi profili di rischio, conviene usare (per ogni progetto) l’indice di
indebitamento medio del progetto di altre imprese che operano nello stesso settore (non si usano i pesi
stimati per l’impresa nel suo insieme perché il progetto può essere più rischioso dell’intera impresa);
3) Per i progetti indipendenti (finanziati singolarmente), i pesi dovrebbero basarsi sul finanziamento
effettivamente ottenuto per il progetto (quindi si dovrà usare l’indice di indebitamento del progetto).
L’indice di indebitamento e il costo del debito dipendono dalla dimensione del progetto in rapporto
all’impresa, dal suo profilo di rischio, dalla scadenza e dal debito residuo.

5.3 Misurare il rendimento di un progetto


Per misurare il rendimento di un progetto bisogna scegliere se usare:
1) Misure contabili (bilanci) o flussi di cassa (differenza tra entrate e uscite del periodo);
2) Flussi di cassa totali o incrementali;
3) Flussi di cassa nominali o attualizzati.

5.3.1 Misure contabili o flussi di cassa


Per misurare il rendimento (la performance) di un progetto si usano i flussi di cassa perché le misure contabili
possono essere “manipolate” (spostando costi e ricavi fra periodi contigui o cambiando metodo contabile
per la registrazione dei costi) e perché nessuna impresa accetta gli “utili” come pagamento ma chiede
liquidità (infatti progetti con utili maggiori e flussi di cassa inferiori, prosciuga la liquidità, mentre progetti
con utili minori ma flussi di cassa maggiori, incrementa la liquidità).
Da uno studio emerge che il ricorso alla manipolazione aumenta all’aumentare dell’ansia da performance
indotta nel management da frequenti revisioni contabili interne. Pertanto, un maggior numero di regole può
produrre l’effetto perverso di aumentare il ricorso a questa pratica. Inoltre i manager che ragionano secondo
un orizzonte di breve termine vi fanno maggior ricorso.

Dalle misure contabili di rendimento ai flussi di cassa


Anzitutto definiamo alcuni concetti preliminari:
- Spese di esercizio: spese che producono benefici solo nel periodo in cui sono sostenute e vengono
sottratte dai ricavi nel calcolare l’utile di esercizio.
- Spese in conto capitale: spese che producono benefici per molti anni e quindi vengono sottratte
annualmente secondo un piano di ammortamento (quindi solo la quota annua di ammortamento viene
sottratta dai ricavi). Molti progetti richiedono spese in conto capitale anche nel corso della loro vita e
queste spese ridurranno le liquidità disponibili in ciascuno di questi periodi.
- Spese non cash (non monetarie, non finanziarie): spese che pur facendo ridurre il reddito, non generano
un’uscita di cassa e quindi non riducono i flussi di cassa, anzi possono avere un impatto positivo sui flussi
di cassa se sono facilmente deducibili (es. ammortamento). Per conoscere a quanto ammonta il beneficio
di imposta dell’ammortamento bisogna moltiplicare le quote annue di ammortamento per l’aliquota
d’imposta marginale. L’ammortamento può essere a quote costanti o anticipato (nei primi anni di attività
si assegnano quote maggiori, per essere ridotte in quelli successivi).
- Ricavi non cash (non monetari, non finanziari): ricavi che pur facendo aumentare il reddito, non generano
un’entrata di cassa e quindi non aumentano i flussi di cassa (es. rimanenze finali).
- Capitale circolante netto: differenza fra le attività correnti (crediti verso clienti e giacenze di magazzino)
e le passività correnti (debiti verso fornitori).
- Capitale circolante non cash (non finanziario): differenza fra le attuali attività non cash e le attuali
passività non cash. Ad una diminuzione del capitale circolante non cash corrisponde un aumento dei flussi
di cassa.
- Principi della competenza e della cassa: i ricavi di “competenza” possono differire dall’entrata di “cassa”.
Anche le spese di competenza sono diverse dalle spese di cassa e così le imposte.

Per passare dal reddito contabile (RO) al corrispondente flusso di cassa bisogna:
- Aggiungere al reddito operativo (al netto delle imposte) tutte le spese non cash e sottrarre gli eventuali
ricavi non monetari;
- Sottrarre le uscite in conto capitale e aggiungere le entrate di disinvestimenti;
- Tenere conto dell’effetto delle variazioni del capitale circolante non cash (infatti un aumento del capitale
circolante riduce i flussi di cassa).

I primi 2 punti servono a considerare il diverso trattamento contabile tra le spese d’esercizio e le spese in
conto capitale, mentre il punto 3 serve per convertire costi e ricavi (di competenza) in entrate e uscite (di
cassa).

Tipologie di free cash flow


1) Free cash flow to firm (flussi di cassa disponibili per tutti gli investitori):
FCFF = Reddito operativo * (1 – Aliquota d’imposta) + (Costi non monetari – Ricavi non monetari) – Δ
capitale circolante non cash – (Uscite in conto capitale – Entrate da disinvestimento)
I FCFF rappresentano i flussi di cassa al netto dell’imposta e al lordo degli oneri finanziari. Essi misurano
le liquidità generate da un progetto per “tutti” gli investitori dell’impresa, dopo che sono state soddisfatte
le necessità di reinvestimento. In questi flussi rientrano gli sgravi fiscali associati all’ammortamento ma
non quelli generati da interessi passivi.
Per passare dagli utili di esercizio ai flussi di cassa disponibili per gli azionisti, bisogna tener conto anche
dei flussi di cassa degli investitori che non sono azionisti.
2) Free cash flow to equity (flussi di cassa disponibili per i soli azionisti):
FCFE = Reddito netto + (Costi non monetari – Ricavi non monetari) – Δ capitale circolante non cash –
(Uscite in conto capitale – Entrate da disinvestimento) + (Nuove emissioni di debito – Pagamenti del
debito) – Dividendi sulle azioni prive di diritto di voto
I FCFE rappresentano una misura dei flussi di cassa generati da un progetto per i soli azionisti dell’impresa,
dopo che sono stati assolti gli obblighi di pagamento (imposte, debitori, etc.) e soddisfatte le necessità di
reinvestimento. In questi flussi rientra anche il beneficio fiscale connesso agli interessi passivi.

5.3.2 Flussi di cassa totali o incrementali


La differenza tra flussi di cassa totali e incrementali è che mentre i primi considerano tutti i flussi di cassa, sia
quelli generati direttamente dall’investimento sia quelli che l’investimento non ha generato, i flussi di cassa
incrementali sono solo quelli causati direttamente dall’investimento in esame.
Poiché lo scopo dell’analisi degli investimenti è individuare progetti che possono aumentare il valore
dell’impresa, i flussi di cassa da prendere in considerazione sono i flussi di cassa incrementali. Quindi un
progetto è valido solo genera flussi di cassa incrementali.

Per tale ragione, l’analisi degli investimenti deve escludere tutti quei flussi di cassa che non sono
incrementali, come ad esempio quelli generati dai “costi sommersi” (costi per indagini di mercato, per R&S,
etc.). Infatti, questi costi sono sostenuti addirittura prima che venga effettuata l’analisi del progetto (per cui
non sono causati dall’investimento) e non saranno mai recuperati se il progetto non verrà intrapreso.
Tuttavia da alcuni studi è emerso che per i manager non è facile escludere tali costi dall’analisi del progetto.
I costi generali invece sono costi non direttamente riconducibili ai ricavi generati dai singoli progetti, ma che
vengono ragionevolmente ripartiti fra di essi in base a specifici criteri di riparto che tengono conto del fatto
che tali costi possano comunque creare ricavi incrementali (dunque tali costi vengono valutati come se
fossero direttamente causati dall’investimento). Ovviamente la quota di costi generali che non può essere
allocata secondo tale criterio (ossia che non è causata direttamente dall’investimento), non va considerata
ai fini dell’analisi dell’investimento.

Dunque, noi ci concentreremo solo sui flussi di cassa che un investimento aggiungerà in futuro all’attività
d’impresa, cioè i flussi di cassa incrementali.

5.3.3 Flussi di cassa nominali o attualizzati


Conviene usare i flussi di cassa attualizzati piuttosto che quelli nominali per 2 motivi:
• I flussi di cassa nominali relativi a diversi periodi non possono essere comparati (e quindi non possono
essere sommati per stimare il rendimento) per 3 motivi:
- Gli individui preferiscono consumare oggi piuttosto che domani e sono disposti a rinunciare a
consumare oggi solo se in futuro ottengono una maggiore possibilità di consumo (che è rappresentata
dal tasso di rendimento reale – TIR);
- Con l’inflazione il valore dell’investimento si riduce nel tempo;
- Ogni forma di rischio (incertezza) sulla futura entità dei flussi, riduce il valore degli stessi.
Con l’attualizzazione invece tutti i flussi generati dal progetto possono essere convertiti nel valore attuale,
dunque possono essere sommati e si può calcolare il rendimento in modo preciso.
• Gli investitori danno maggiore importanza ai flussi che si producono prima in quanto il loro obiettivo è
quello di creare subito valore.

Sia l’attualizzazione dei flussi di cassa (portano flussi futuri alla data odierna) che la capitalizzazione dei flussi
di cassa (portano flussi attuali in date future) avvengono ad un tasso che riflette:
- Le attese di inflazione: maggiore è l’inflazione, maggiore è il tasso usato;
- Tasso di interesse reale atteso su investimenti risk free: maggiore è il tasso reale, maggiore è il tasso usato
(gli individui preferiscono consumare oggi piuttosto che domani);
- Incertezza dei risultati futuri: maggiore è l’incertezza, maggiore sarà il tasso usato.
Il tasso di attualizzazione dei flussi di un progetto rappresenta il costo delle fonti di finanziamento del
progetto, che è remunerato con i flussi del progetto stesso.

Ottimismo manageriale nella stima dei flussi di cassa


I manager tendono ad essere troppo ottimisti nella stima dei risultati di un progetto, cioè fanno delle stime
dei flussi di cassa troppo generose, che spingono le imprese a fare investimenti che altrimenti non avrebbero
fatto. Dalla letteratura emergono 2 conclusioni:
- Le imprese tendono ad essere più ottimiste riguardo ai risultati che ritengono di poter controllare (es.
stimano in eccesso la capacità di realizzare profitti rispetto ai concorrenti). La soluzione è quella di
sottrarre ai promotori del progetto (manager) il compito di analisi.
- L’ottimismo tende ad aumentare con il coinvolgimento dei manager: più i manager sono coinvolti nel
progetto, più stimano in eccesso i flussi di cassa che il progetto può generare. La soluzione è quella di
effettuare uno stress test di tutti i progetti, al fine di mettere in discussione, analizzare e diversificare le
ipotesi fondamentali.

5.4 Capital budgeting


Una volta aver stimato i flussi di cassa incrementali ed averli attualizzati, bisogna decidere se fare o meno
l’investimento. Per fare ciò bisogna scegliere un criterio decisionale.
Un valido criterio decisionale per l’analisi del capital budgeting deve avere 3 caratteristiche, cioè deve:
- Dare peso alla valutazione soggettiva del management e assicurare che diversi progetti siano giudicati in
modo coerente (non troppo meccanico e neanche troppo discrezionale);
- Consentire la massimizzazione del valore dell’impresa;
- Essere applicabile a diversi tipi di investimento.

I criteri decisionali di capital budgeting più usati per valutare un progetto si basano su:
• Reddito contabile non attualizzati:
- Alcuni si basano sulla nozione di reddito dal punto di vista degli azionisti (utile d’esercizio): ROE;
- Altri si basano sulla nozione di reddito dal punto di vista degli investitori (reddito operativo): ROC, EVA.
• Flussi di cassa:
- Non attualizzati: payback period ordinario;
- Attualizzati: payback period attualizzato, VAN (valore attuale netto), TIR (tasso interno di rendimento),
PI (profitability index).

5.4.1 Reddito contabile non attualizzato

1) Return On Equity (ROC): redditività del capitale proprio (CN)


Il ROE di un progetto misura il rendimento ottenuto dagli azionisti dal loro investimento nel progetto (ci dice
se i capitali investiti dagli azionisti nel progetto stanno generando reddito).

ROE = Utile Netto / Valore contabile medio dell’investimento azionario nel progetto

Per decidere se intraprendere o meno il progetto, il ROE deve essere confrontato con un’appropriata soglia
minima di rendimento, ossia col costo del capitale “netto” (kE), che rappresenta il tasso di rendimento
richiesto dagli azionisti.
- Se ROE > kE si accetta il progetto;
- Se ROE < kE si rifiuta il progetto.

Limiti del ROE:


- Dipende da misure contabili;
- Nel corso del progetto cresce per l’ammortamento del valore contabile;
- Fornisce stime elevate di progetti a bassi investimenti;
- Non distingue la distribuzione temporale dei redditi.
2) Return On Capital (ROC): redditività del capitale
Il ROC di un progetto misura il rendimento ottenuto dall’impresa dal suo investimento nel progetto (ci dice
se i capitali investiti dall’impresa nel progetto stanno generando reddito). Per cui misura il rendimento
ottenuto da tutti gli investitori dell’impresa sul loro investimento.

ROCLordo = RO / Valore contabile medio del capitale investito nel progetto


ROCNetto = RO * (1 – aliquota d’imposta) / Valore contabile medio del capitale investito nel progetto

Il calcolo è semplice per progetti ad 1 anno, mentre è più complesso per progetti di più anni dove il RO e il
valore contabile sono diversi. In questi casi il ROC è dato dalla media dei ROC di ogni anno oppure dal
rapporto tra ROC medio e investimento medio.

In ogni caso, per decidere se intraprendere o meno il progetto, il ROC al netto dell’imposta deve essere
confrontato con un’appropriata soglia minima di rendimento, ossia col costo del capitale (WACC).
- Se ROCNetto > WACC si accetta il progetto;
- Se ROCNetto < WACC si rifiuta il progetto.

Limiti del ROC:


- Valido per progetti tradizionali (caratterizzati da alto investimento iniziale e profitti positivi);
- Non è valido se il reddito non rispecchia i flussi di cassa generati (incidenza degli ammortamenti e del
magazzino);
- Il valore contabile non esprime il valore nel tempo degli investimenti (al netto degli ammortamenti).

5.4.2 Flussi di cassa

1) Payback period ordinario (criterio del tempo di recupero del capitale investito)
Il payback period misura il tempo che flussi di cassa di un progetto impiegano per recuperare l’investimento
iniziale del progetto stesso. Il payback period può essere misurato da 2 punti di vista:
- Di tutti gli investitori del progetto: per calcolare il payback period si usano i FCFF, cioè si fa la somma di
tutti i flussi di cassa disponibili per tutti gli investitori fino a copertura dell’investimento iniziale;
- Dei soli azionisti del progetto: per calcolare il payback period si usano i FCFE, cioè si fa la somma di tutti i
flussi di cassa disponibili per i soli azionisti fino a copertura dell’investimento azionario iniziale.

La formula del payback period è la seguente:


𝑻𝑻
𝑭𝑭𝑪𝑪𝒕𝒕
𝒘𝒘 = �
(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝒕𝒕
𝒕𝒕=𝟎𝟎

- Se payback period atteso < payback periodo massimo accettabile, si accetta il progetto;
- Se payback period atteso > payback periodo massimo accettabile, si rifiuta il progetto.

Spesso il payback period viene utilizzato come secondo criterio per fare una ulteriore scrematura dei progetti
da intraprendere.

Limiti del payback period:


- Non considera i flussi che ci saranno dopo che l’investimento iniziale è stato recuperato;
- È fatto per progetti tradizionali (alti investimenti iniziali e flussi di cassa operativi positivi);
- Il payback period ordinario usa flussi di cassa nominali, cioè non considera il valore finanziario nel tempo
di tali flussi. Per tale motivo viene privilegiato il payback period attualizzato (che però mantiene i primi 2
limiti).
2) Valore attuale netto (VAN)
Il VAN è la somma dei valori attuali di tutti i flussi di cassa (positivi e negativi) generati dal progetto.
𝑵𝑵
𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 = �
(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝒕𝒕
𝒕𝒕=𝟎𝟎
FCt = flusso di cassa al periodo t
r = tasso attualizzazione
N = durata del progetto

- Se VAN > 0 si accetta il progetto (poiché il rendimento è superiore alla soglia minima);
- Se VAN < 0 si rifiuta il progetto.

Il VAN può essere stimato da 2 punti di vista:


- Di tutti gli investitori del progetto: per calcolare il VAN si usano i FCFF attualizzati al costo del capitale;
- Dei soli azionisti del progetto: per calcolare il VAN si usano i FCFE attualizzati al costo del capitale netto.

Per ottenere il VAN reale (cioè i flussi di cassa reali) bisogna deflazionare i flussi di cassa nominali, cioè
dividendoli per (1 + tasso d’inflazione). Quindi il costo del capitale reale è uguale al costo nominale
1+𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛𝑛
deflazionato: 𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟 = 1+𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖 −1

Proprietà del VAN:


• Additività: i VAN dei singoli progetti possono essere sommati per ottenere un VAN cumulativo di
un’impresa, ossia VAN (A + B) = VAN (A) + VAN (B). Ne consegue che il valore di un’impresa può essere
rappresentato come la somma del VAN dei flussi di cassa dei progetti già intrapresi e del VAN atteso dei
flussi di cassa dai progetti futuri:
- Se l’impresa decide di abbandonare un progetto, il valore dell’impresa varierà di un ammontare
corrispondente: se VAN era < 0 il valore dell’impresa aumenterà di un ammontare pari al VAN, mentre
se VAN era > 0 il valore dell’impresa diminuirà di un ammontare pari al VAN;
- Se l’impresa decide di vendere un’attività in essere, la somma ricevuta con tale vendita avrà un impatto
sul valore dell’impresa: se P > VAN dei flussi di cassa attesi di tale progetto, il valore dell’impresa
aumenterà, mentre se P < VAN dei flussi di cassa attesi, il valore dell’impresa diminuirà;
- Se l’impresa decide di acquistare un’altra impresa, la somma pagata avrà un impatto sul valore
dell’impresa: se P > VAN dei flussi di cassa attesi dall’impresa acquisita, il valore dell’impresa acquirente
aumenterà, mentre se P < VAN dei flussi di cassa attesi dall’impresa acquisita, il valore dell’impresa
acquirente aumenterà.
• I flussi di cassa intermedi sono reinvestiti alla soglia minima di rendimento che è il costo del capitale (se
si considerano i FCFF) o il costo del capitale netto (se si considerano i FCFE).
• Il VAN consente di usare la formula anche in presenza di struttura di tassi per scadenza e di diversi tassi
di interesse. Dunque il VAN viene usato anche con tassi di attualizzazione diversi nel tempo:
𝑵𝑵
𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 = �
∏𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓𝒕𝒕 )
𝒕𝒕=𝟎𝟎

I tassi di attualizzazione possono variare nel tempo perché cambia:


- La durata dell’investimento;
- La rischiosità del progetto;
- La combinazione delle fonti di finanziamento del progetto (capitale e capitale netto).

Critiche al VAN:
- Viene espresso in termini assoluti (non relativi) e per questo non considera la diversa dimensione dei
progetti;
- Non considera la durata del progetto, per cui tende a favorire progetti con durata maggiore.
3) Tasso interno di rendimento (TIR)
Si basa su flussi di cassa attualizzati e tiene conto della diversa dimensione dei progetti. Può essere definito
come quel tasso di attualizzazione che rende VAN = 0 (dunque misura la sensibilità del VAN al variare del
tasso di attualizzazione, misurata dall’inclinazione della retta).

𝑵𝑵
𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕
𝑻𝑻𝑻𝑻𝑻𝑻𝒕𝒕𝒕𝒕 = � = 𝟎𝟎
(𝟏𝟏 + 𝑻𝑻𝑻𝑻𝑻𝑻)𝒕𝒕
𝒕𝒕=𝟎𝟎

FCt = flusso di cassa al periodo t


TIR = tasso interno di rendimento
N = durata del progetto

Per capire se un progetto è accettabile o meno, il TIR deve essere confrontato con la soglia minima di
rendimento accettabile, ossia col costo del capitale (FCFF) o col costo del capitale netto (FCFE):
- Se TIR > r allora VAN > 0 e si accetta il progetto;
- Se TIR < r allora VAN < 0 e si rifiuta il progetto.
Di fronte a progetti con uguale rischiosità si preferisce quello con TIR più elevato.

Inoltre, nell’analisi di 2 progetti alternativi, il TIR consente di trovare il tasso di attualizzazione di equilibrio
(Break-even point), ossia il tasso al quale per l’impresa sarà indifferente la scelta tra i 2 progetti.

Il TIR può essere stimato da 2 punti di vista:


- Di tutti gli investitori del progetto: per calcolare il TIR si confrontano i FCFF col costo del capitale;
- Dei soli azionisti del progetto: per calcolare il TIR si confrontano i FCFE col costo del capitale netto.

Limiti del TIR:


- Favorisce la scelta di progetti di dimensione minore, sui quali è più probabile ottenere rendimenti elevati;
- Non può essere calcolato quando l’investimento iniziale nullo o modesto o quando per un progetto esiste
più di un TIR e non è chiaro quale usare.

Confronto tra VAN e TIR


Esistono differenze:
- Nella gestione della dimensioni dei progetti: il VAN è assoluto, il TIR è relativo alle dimensioni del progetto;
- Nel reinvestimento dei flussi intermedi: nel VAN si ipotizza che i flussi siano reinvestiti al tasso di
attualizzazione (r) il TIR presuppone che vengano reinvestiti allo stesso TIR.

CAP. 6 – INTERDIPENDENZE TRA PROGETTI (DECISIONI DI INVESTIMENTO)

6.1 Progetti alternativi e razionamento del capitale


Due o più progetti sono alternativi quando accettarne uno significa escludere automaticamente tutti gli altri.
La scelta di un progetto a discapito degli altri può avvenire per diverse ragioni:
- Razionamento del capitale: l’impresa non è in grado di investire in tutti i progetti con rendimenti superiori
alla soglia minima di rendimento;
- I progetti hanno uguale finalità;
- I progetti sono approcci alternativi per il futuro.

Il razionamento del capitale può verificarsi per 3 motivi:


1) Accesso limitato ai fondi:
- L’impresa non ha la capacità/volontà di reperire i fondi;
- L’impresa non è credibile di fronte ai mercati finanziari: l’impresa ha difficoltà a trasmettere
informazioni ai mercati finanziari e questo non gli permette di convincere i finanziatori sulla sua
capacità di creare valore.
2) Alti costi per la raccolta fondi sui mercati finanziari;
3) Mancata individuazione dei progetti a causa dell’incertezza del valore reale dei progetti.
In presenza di razionamento del capitale, l’impresa deve scegliere verso quale progetto indirizzare i limitati
capitali. Per fare tale scelta, bisogna classificare i progetti validi. Il VAN e il TIR non sono adatti a classificare
i progetti perché:
- Il VAN non tiene conto della diversa dimensione dei progetti (quindi i progetti di dimensioni maggiori
occuperanno una posizione più alta in classifica) e assume che i flussi di cassa intermedi siano reinvestiti
alla soglia minima di rendimento (costo del capitale o del CN);
- Il TIR assume che i flussi di cassa siano reinvestiti al TIR medesimo (significa ipotizzare che l’impresa
continuerà ad avere opportunità di investimento in grado di generare rendimenti simili a quelli ottenuti
nel progetto).

Per questo motivo si utilizzano diversi criteri di capital budgeting:


A) Indice di redditività (versione standardizzata del VAN)
È il modo più semplice per incorporare il razionamento di capitale nell’analisi del progetto. È utile quando
riguarda pochi progetti e il problema di scelta è rivolto al breve termine. È dato dal rapporto tra VAN e
investimento iniziale: IR = VAN / I0
Fornisce una misura approssimativa del VAN che l’impresa ottiene per ogni unità di capitale investito
(capitale proprio o di terzi). Dopo aver calcolato l’indice per ogni progetto, si scelgono progetti con IR positivo
fino a quando il capitale disponibile non si esaurisce. L’IR presenta dei limiti:
- Considera il razionamento del capitale solo nel periodo attuale (non considera i problemi di razionamento
che si possono avere in futuro nel caso in cui il progetto inizialmente intrapreso dovesse richiedere in
futuro dei maggiori investimenti);
- Non fornisce una misura corretta del contributo del progetto a creare valore se il progetto richiede esborsi
significativi in futuro;
- Se i progetti comportano investimenti spalmati su diversi periodi e una serie di spese operative, l’IR
potrebbe non essere una misura corretta perché non garantisce che l’investimento totale sia uguale al
capitale disponibile.
B) TIR modificato (ipotizza reinvestimenti più ragionevoli)
Per risolvere il problema del tasso al quale sono reinvestiti i flussi di cassa intermedi bisogna:
- Ipotizzare che i flussi di cassa intermedi siano reinvestiti alla soglia minima di rendimento (capitale o CN)
e calcolarne così il valore futuro alla fine del progetto;
- Calcolare il TIR a partire dall’investimento iniziale e finale dei flussi di cassa intermedi (si ottiene il TIR
modificato, ma è un ibrido tra il VAN e il TIR).
C) Metodo di programmazione lineare (razionamento del capitale esteso a periodi diversi)
In un programma lineare si inizia specificando un obiettivo sottoposto a determinati vincoli. Nel caso del
razionamento del capitale l’obiettivo è massimizzare il valore aggiunto dei nuovi investimenti, considerando
i vincoli di capitale in ciascun periodo. Dunque, tale metodo considera i vincoli del razionamento di capitale
non solo nel periodo attuale, ma anche nel futuro (tiene conto del fatto che la disponibilità di capitale varia
nel tempo).

6.2 Progetti alternativi con pari durata


L’impresa ha 2 modi per scegliere tra progetti alternativi con uguale durata:
• Calcolare il VAN di ciascun progetto e scegliere quello con VAN maggiore;
• Calcolare i flussi di cassa differenziali tra 2 progetti e scegliere in base al VAN o al TIR associato a tali flussi.
Più precisamente bisogna fare la differenza tra i flussi di cassa di un progetto e i flussi di cassa del progetto
che presenta un “maggior investimento iniziale” e poi scegliere il progetto in base al VAN o al TIR. Se la
scelta viene fatta in base al VAN, si sceglie il progetto B se VANB-A > 0 o il progetto A se VANB-A < 0. Tale
confronto è possibile solo quando i due progetti hanno pari livello di rischio e stesso tasso di
attualizzazione. Se invece si vuole scegliere in base al TIR, si sceglie il progetto B se TIRB-A > r o il progetto
A se VANB-A < r. Tale confronto è possibile solo quando i due progetti hanno pari livello di rischio e lo
stesso rendimento atteso. Nel caso di più di 2 progetti, il confronto verrà sempre fatto fra coppie,
eliminando volta per volta il progetto meno valido.

6.3 Progetti alternativi con diversa durata


Per scegliere tra 2 progetti con diversa durata non ci si può basare direttamente sul VAN perché è logico che
un progetto di durata maggiore avrà un VAN maggiore (perché ha più flussi di cassa). Perciò, nel confrontare
2 progetti di diversa durata si deve procedere diversamente. Vi sono 2 approcci:
1) Replica del progetto: si replica il progetto con durata minore (attraverso la possibilità di investire
nuovamente al termine del progetto o in un tempo inferiore) fino ad eguagliare la durata dell’altro
progetto. Una volta che i 2 progetti hanno uguale durata, si può calcolare il VAN dei 2 progetti e metterli
a confronto. Questo approccio presenta però dei limiti:
• Difficile da usare quando vi sono tanti progetti da confrontare e quando le durate non sono multipli tra
di loro;
• Difficile che la scelta di un progetto da parte di un’impresa rimanga invariata nel tempo.
2) Rendite equivalenti: per confrontare 2 progetti di durata diversa bisogna convertire il VAN in rendite
equivalenti, usando durata (n) e tasso di attualizzazione (r) specifici del progetto, e scegliere il progetto
𝒓𝒓
con rendita equivalente più elevata. Rendita equivalente = 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 × 𝟏𝟏−(𝟏𝟏+𝒓𝒓)−𝒏𝒏 .

6.4 Costi collaterali del progetto


Le risorse che l’impresa mette a disposizione per un progetto (struttura, impianti, personale, etc.) possono
essere impiegate (trasferite) anche su altri progetti. Questa eventualità genera 2 tipi di eventi:
1) Costi opportunità: è il mancato guadagno derivante dall’impiego alternativo dei fattori produttivi rispetto
all’impiego corrente degli stessi. Per stimare i costi opportunità bisogna considerare 2 casi:
• Se la risorsa ha un utilizzo alternativo immediato, bisogna considerare il fatto che la risorsa potrebbe:
- Essere data in affitto (il costo opportunità sono i potenziali redditi da locazione);
- Essere venduta (il costo opportunità è il prezzo di vendita);
- Trovare altro impiego nell’impresa (il costo-opportunità è il costo per rimpiazzare la risorsa).
• Se la risorsa non ha un utilizzo alternativo immediato, bisogna considerare il fatto che impiegare la
risorsa nel progetto comporta la rinuncia ad un suo alternativo futuro utilizzo.
2) Cannibalizzazione dei prodotti: fenomeno per cui un nuovo prodotto introdotto da un’impresa compete
con prodotti già esistenti dell’impresa stessa e ne riduce le vendite. Per cui, nel decidere se introdurre il
nuovo prodotto, fra i costi associati all’introduzione di un nuovo prodotto si devono includere i flussi di
cassa perduti sui prodotti esistenti. La decisione se incorporare o no nell’analisi di un progetto la
cannibalizzazione di altri prodotti, dipende dalla probabilità che un’impresa concorrente introduca
comunque un prodotto simile o uguale (infatti se decido di non introdurre tale bene, ma poi questo bene
viene introdotto da un’altra impresa concorrente, si avranno comunque effetti negativi sulle vendite del
bene che già vendo). Se si è in un settore molto competitivo e senza barriere all’entrata, i costi della
cannibalizzazione non vanno considerati perché questa si verificherebbe comunque, mentre se vi sono
barriere all’entrata allora i costi aggiuntivi vanno inclusi nell’analisi.

6.5 Benefici collaterali del progetto


Un nuovo progetto può generare dei benefici diretti o indiretti ad altri progetti che l’azienda ha già intrapreso
e ciò deve essere considerato nella valutazione del progetto.

Le sinergie
Quando un progetto crea benefici collaterali (in termini di flussi di cassa) per altri progetti in essere, si creano
le sinergie. Spesso queste sinergie si manifestano rispetto ad altri potenziali progetti futuri analizzati
contemporaneamente.
In caso di acquisizioni di imprese, le sinergie sono spesso usate per giustificare i grandi costi sostenuti
dall’impresa acquirente senza aver fatto un’analisi soggettiva. Infatti, le risorse specializzate dell’impresa
acquirente possono aumentare il loro valore se combinate con le risorse dell’impresa acquisita. Queste
sinergie sono diverse a seconda del tipo di acquisizione:
- In caso di acquisizioni orizzontali (si fondono 2 imprese dello stesso settore), le sinergie derivano da
maggiori economie di scala (minori costi) o dall’incremento del potere di mercato (maggiori profitti);
- In caso di acquisizioni verticali (l’impresa acquista il suo fornitore), le sinergie derivano da un maggior
controllo della catena di produzione.

Le sinergie devono essere valutate in base al:


- Come si manifestano: i benefici derivanti dalle sinergie devono manifestarsi in uno degli input della
valutazione (maggiori ricavi, minori costi, maggior tasso di crescita futuro, etc.);
- Quando inizieranno a produrre benefici: spesso i benefici si manifestano nel medio/lungo periodo
(soprattutto al crescere delle dimensioni dell’impresa).

Per stimare il valore delle sinergie nelle acquisizioni, bisogna seguire i seguenti step:
1. Valutare individualmente le imprese coinvolte nella fusione (attualizzando i flussi di cassa attesi per
ciascuna di esse);
2. Sommare i valori ottenuti per ciascuna impresa (si ottiene il valore dell’impresa combinata senza sinergie);
3. Valutare l’impresa combinata con le sinergie (includendo gli effetti dei flussi di cassa futuri e dei tassi di
crescita);
4. Fare la differenza tra valore dell’impresa combinata con sinergie e valore dell’impresa combinata senza
sinergie (si ottiene il valore delle sinergie).

CAP. 7 – LA STRUTTURA DEL CAPITALE: ANALISI DELLA DECISIONE DI FINANZIAMENTO

La struttura finanziaria è la leva strategica per raggiungere l’obiettivo primario di massimizzare il valore
dell’impresa. Dunque, il principio del finanziamento è quello di scegliere una struttura finanziaria che
massimizzi il valore dei progetti intrapresi e che sia in linea con il progetto da finanziare. Ricordiamo che la
struttura finanziaria è composta da capitale proprio, capitale di terzi e anche da titoli ibridi.

7.1 Differenza tra debito e capitale netto


Le due principali fonti di finanziamento presentano delle differenze in merito ad alcuni aspetti:
1) Natura dei diritti sui flussi di cassa:
- Titolo di debito: dà al suo possessore il diritto a ricevere dei flussi di cassa (ossia gli interessi a delle
date prestabilite e il capitale alla scadenza del contratto);
- Titolo azionario: dà al suo possessore il diritto a ricevere flussi di cassa “residuali” (i dividendi vengono
pagati solo dopo che sono stati adempiuti tutti gli altri obblighi finanziari).
2) Grado di priorità nella remunerazione e nel rimborso:
- Titolo di debito: il suo possessore è privilegiato sia nella remunerazione (ha la priorità sui flussi di cassa
periodici) che nel rimborso (ha la priorità sui beni del l’impresa in caso di liquidazione);
- Titolo azionario: il suo possessore non è privilegiato né nella remunerazione e né nel rimborso.
3) Trattamento fiscale:
- Capitale di debito: per l’impresa genera degli interessi passivi, che sono fiscalmente deducibili (in
parte);
- Capitale proprio: per l’impresa genera dei dividendi, che però sono fiscalmente indeducibili.
4) Scadenza:
- Titolo di debito: ha una scadenza prefissata, al termine della quale deve essere restituito il capitale
preso a prestito;
- Titolo azionario: ha una scadenza potenzialmente illimitata, per cui la liquidazione del capitale avviene
solo in caso l’impresa decide di cessare l’attività.
5) Controllo sul management:
- Titolo di debito: attribuisce al possessore un ruolo meno attivo nella gestione aziendale, in quanto non
conferisce alcun potere di controllo sul management (tranne in occasione delle maggiori decisioni
finanziarie, in cui danno diritto ad esercitare il “potere di veto”);
- Titolo azionario: attribuisce al possessore un ruolo attivo nella gestione aziendale, in quanto conferisce
potere di controllo sul management (dando il diritto a partecipare e votare alle adunanze).

7.2 Capitale netto


Le imprese quotate hanno più scelta rispetto a quelle non quotate, in quanto possono emettere più titoli per
ottenere capitale proprio. Le principali fonti di capitale netto sono:
1) Capitale proprio: fondi apportati dai titolari dell’impresa e che costituiscono le basi per la crescita e
l’eventuale successo dell’impresa;
2) Private equity e venture capital: quando i fondi forniti dai proprietari non sono più sufficienti, le imprese
(soprattutto quelle piccole), possono ricorrere ai private equity o ai venture capital (es. “business angel”).
In generale, questi forniscono capitale netto in cambio di una quota della proprietà dell’impresa.
Più precisamente, il private equity è uno “strumento di finanziamento” mediante il quale un investitore
apporta nuovi capitali all’interno di una società (generalmente non quotata in mercati regolamentati),
che presenta un’elevata capacità di generare flussi di cassa costanti e altamente prevedibili. L’investitore
si propone di disinvestire nel medio-lungo termine realizzando una plusvalenza dalla vendita della
partecipazione azionaria. Gli investimenti in private equity riguardano un’ampia gamma di operazioni, in
funzione sia della fase del ciclo di vita dell’impresa finanziata, sia della tecnica di investimento usata. Tra
le operazioni di investimento in private equity vi rientra il venture capital (capitale di rischio), che altro
non è che l’apporto di capitale di rischio da parte di un investitore professionale per finanziare l’avvio
(imprese di recente costituzione o da costituire) o la crescita di un’impresa situata in settori ad elevato
potenziale di sviluppo, col fine di cedere le partecipazioni dopo un certo tempo (3-5 anni) e realizzare un
elevato rendimento. Spesso lo stesso nome viene dato ai fondi di investimento creati appositamente per
finanziare imprese che, per natura dell’attività e stadio di sviluppo, non riescono a trovare finanziamenti
dai tradizionali intermediari finanziari (es. banche).
3) Azioni ordinarie (Common stock): un’impresa quotata solitamente si procura CN emettendo azioni
ordinarie al prezzo che il mercato è disposto a pagare (prezzo corrente di mercato). Per un’impresa che si
vuole quotare per la prima volta, il prezzo di “prima” emissione viene stimato dall’emittente (banca
d’investimento) con la collaborazione di un advisor finanziario che consiglia un range di prezzi. Anche le
imprese già quotate collocano le nuove azioni al prezzo di emissione ogni volta che effettuano un aumento
di capitale a pagamento, ma in questo caso il prezzo di emissione riflette il prezzo di mercato. Un’impresa
senza CN non potrebbe emettere titoli di debito o titoli ibridi.
4) Warrants (buono d’acquisto): è uno strumento finanziario “derivato” (molto simile ad un’opzione) che,
in cambio del pagamento immediato di un “premio”, conferisce al possessore il diritto di acquistare
(warrant call) o di vendere (warrant put) l’attività sottostante (azioni ordinarie) a/entro una determinata
scadenza e ad un prezzo prefissato.
Perché l’impresa preferire emettere il warrant e non direttamente un’azione ordinaria?
- Il prezzo dei warrant dipende dalla volatilità delle azioni sottostanti (maggiore è la volatilità e maggiore
sarà il valore del warrant), perciò se il mercato sopravvaluta la rischiosità dell’impresa (e quindi il valore
del warrant), l’impresa guadagna dall’emissione dei warrant;
- I warrant non creano obblighi finanziari al momento della loro emissione, e questo è vantaggioso per
le imprese con flussi di cassa attuali limitati o negativi;
- Consente di procurarsi CN senza emettere subito delle nuove azioni.
Vi è però un aspetto negativo: l’esercizio dei warrant fa crescere il numero delle azioni, questo riduce il
valore delle azioni che fa ridurre il valore dei warrant rispetto alle opzioni call equivalenti.
5) Contingent Value Right (CVR): è un titolo che, in cambio del pagamento immediato di un “premio”,
conferisce al possessore il diritto di vendere le azioni sottostanti all’impresa che emette i CVR, a un prezzo
prefissato. L’impresa che emette CVR, invece, dietro pagamento immediato di un “premio”, si impegna
ad acquistare le azioni sottostanti, a un prezzo prefissato. Il valore del CVR deriva dalla volatilità delle
azioni e dal desiderio da parte degli investitori di proteggersi dalle perdite. Anche le “opzioni put”
negoziate in borsa conferiscono ai loro possessori il diritto di vendere le azioni sottostanti ad un prezzo
prestabilito, ma vi sono 2 differenze, ossia i ricavi della vendita di CVR vanno all’impresa emittente, mentre
quelli delle opzioni put quotate vanno ai privati che le emettono, in secondo luogo i CVR tendono a essere
più a lungo termine rispetto alle tipiche opzioni put quotate.
Perché emettere i CVR?
- Quando l’impresa crede di essere sottovalutata dal mercato, può emettere CVR per mandare un
segnale positivo ai mercati;
- Come “assicurazione” contro le perdite sulle azioni ordinarie sottostanti: emette CVR per rendere più
interessante l’azione ordinaria sottostante e quindi attrarre nuovi investitori.

7.3 Capitale di debito


Le principali fonti di capitale di debito sono:
1) Debito bancario: è la principale fonte di prestito per le imprese (sia quotate che non). La banca fissa il
tasso di interesse sul debito sulla base di analisi della rischiosità dell’impresa.
Vantaggi:
- Può essere usato per prendere a prestito quantità relativamente piccole di denaro (le obbligazioni
invece, a causa del loro elevato costo, sono più adatte a raccogliere grandi somme);
- Se l’impresa non e molto conosciuta, il debito bancario può essere usato per fornire alla banca
(investitore) le informazioni interne necessarie per valutare i progetti e l’intera impresa (nelle
obbligazioni invece ci sono tanti investitori e questo rende troppo costoso il processo di analisi delle
informazioni);
- Non bisogna sottoporsi a nessun processo di rating (per lo obbligazioni invece è necessario il rating, e
rivolgersi ad un’agenzia di rating è molto più costoso che rivolgersi ad una banca).
Le banche possono essere una fonte di finanziamento a breve e a medio/lungo termine. Infatti, spesso
offrono “linee di credito” più flessibili per far fronte a necessità di finanziamento impreviste o stagionali.
La linea di credito individua la somma di denaro data a prestito e il tasso di interesse, che è collegato ad
un tasso di mercato (tasso primario o tasso dei titoli di stato). Il vantaggio della linea di credito è che
garantisce l’approvvigionamento di fondi senza dover pagare interessi passivi se questi fondi non vengono
usati. Questo è molto utile se si ha necessità di capitale circolante in modo variabile. Però, spesso
all’impresa viene chiesto di mantenere un certo ammontare di fondi “a garanzia” (ai quali vengono
applicati tassi d’interessi pari a zero o al di sotto di quello di mercato).
2) Obbligazioni (bond): per le imprese quotate rappresentano un’alternativa al debito bancario.
Vantaggi:
- Offrono condizioni di finanziamento più favorevoli rispetto al debito bancario perché il rischio viene
ripartito su un gran numero di investitori;
- Consentono di aggiungere caratteristiche che il debito bancario non può includere, come ad esempio
la possibilità di emettere obbligazioni convertibili in azioni ordinarie o indicizzate ai prezzi delle materie
prime.
Nel prendere il prestito, l’impresa deve decidere la scadenza (breve, media o lunga), gli interessi (fissi o
variabili), la natura della garanzia offerta agli investitori (garantito o non garantito) e la forma del
rimborso.
3) Leasing: solitamente le imprese prendono in prestito dei fondi per finanziare l’acquisizione di un bene
necessario per le loro operazioni. Un altro modo per finanziare l’acquisto di un bene è quello di stipulare
un contratto di leasing, ossia prendere in prestito il bene con l’obbligo di effettuare pagamenti fissi al
proprietario del bene e la possibilità di restituire o riscattare il bene alla fine del contratto. I pagamenti
fissi possono essere totalmente o parzialmente deducibili a fini fiscali. Il mancato adempimento dei
pagamenti comporta la perdita del bene, ma può anche indurre a liquidazione. Il leasing si distingue in:
- Leasing operativo: la durata del contratto è più breve rispetto alla vita del bene ed il valore attuale dei
pagamenti del leasing è di solito molto inferiore al prezzo effettivo del bene. Alla scadenza del contratto
il bene torna al locatore che può decidere se venderlo al locatario o stipulare un altro contratto con un
altro locatario. Il locatorio di solito ha il diritto di rescindere il contratto e restituire il bene al locatore.
Dunque, il locatario non si assume il rischio di obsolescenza, perché la proprietà del bene resta al
locatore. Quindi il leasing operativo incide solo sul Conto Economico (in cui vengono rilevate le spese
per i canoni di leasing) e non anche sullo Stato Patrimoniale.
- Leasing finanziario: di solito ha durata pari a quella del bene e il valore attuale dei pagamenti del
leasing copre il prezzo del bene. Il locatario non ha la possibilità di rescindere il contratto ed ha l’opzione
di rinnovarlo a scadenza a un tasso ridotto oppure acquistare il bene a un prezzo favorevole. Dunque,
il rischio collegato alla perdita di valore del bene o alla sua obsolescenza grava sul locatario, perché il
bene entra nella proprietà del locatario. Quindi il leasing finanziario incide sia sullo Stato Patrimoniale
(nell’attivo viene iscritto come bene strumentale e nel passivo viene rilevato il fondo ammortamento)
che sul Conto Economico (in cui viene rilevato l’ammortamento del bene e gli interessi passivi).
Vantaggi del leasing rispetto al prestito di fondi per acquistare il bene:
- Servizi: il locatario del bene in leasing offre anche una serie di servizi nel corso della vita del leasing;
- Flessibilità: il contratto di leasing può offrire l’opzione di scambiare il bene con una versione diversa o
più aggiornata per tutta la durata del leasing (questo quando la tecnologia dell’impresa cambia
velocemente o quando l’azienda ne ha bisogno solo per periodi brevi e acquistarlo costa di più che
affittarlo);
- Agevolazioni fiscali: il locatario è soggetto ad un’aliquota d’imposta inferiore rispetto al locatore.
Inoltre il leasing operativo crea degli obblighi di pagamento (canoni di leasing) deducibili ai fini fiscali.

7.4 Titoli ibridi


Riassumendo, il CN rappresenta un diritto residuale sui flussi di cassa e sulle attività dell’impresa (in caso di
liquidazione) ed è in genere associato al controllo sulla gestione, mentre il debito rappresenta un diritto fisso
sui flussi di cassa e sulle attività dell’impresa (in caso di liquidazione) e non implica il controllo sulla gestione.
Poi esistono titoli ibridi, che presentano caratteristiche dell’una e dell’altra categoria.

Le principali categorie di titoli ibridi sono:


1) Obbligazione convertibile: è un’obbligazione che può essere convertita in un numero prefissato di azioni,
secondo le modalità e i tempi stabiliti nel regolamento di emissione. È un titolo che contiene il diritto di
opzione di acquisto dei titoli (call). Al momento dell’emissione è “out of money” (non conviene
convertire), ma poi l’opzione acquista valore via via che il prezzo dell’azione aumenta, e quando supera
lo strike price diventa “in the money”. Spesso le imprese aggiungono l’opzione di conversione alle
obbligazioni per abbassare il tasso di interesse da pagare sulle obbligazioni. Le sue caratteristiche sono:
- Indice di conversione: misura il rapporto tra il numero di obbligazioni detenute e il numero di azioni
che possono essere ottenute esercitando l’opzione di conversione.
- Prezzo di conversione: è dato dal prodotto tra il rapporto di conversione, il numero di obbligazioni
possedute e il prezzo unitario dell’obbligazione. Se il prezzo dell’azione è superiore al prezzo di
conversione, allora conviene effettuare la conversione, altrimenti no.
Es: il rapporto di conversione indicato nel regolamento è pari ad 1/5 (ho diritto ad un’azione ogni 5 obbligazioni possedute).
Se l’obbligazionista possiede 25 obbligazioni al valore nominale di 3€ e il valore dell’azione di compendio è di 20€, qual è il
prezzo di conversione? Conviene fare la conversione? Prezzo di conversione: 1/5 * 25 * 3 = 15€. Poiché 20 > 15 allora
conviene fare la conversione. In effetti, il valore delle obbligazioni possedute è pari a 75€ (25 * 3€), mentre il valore delle
azioni di compendio è di 100€ (20€ * 25 * 1/5).
- Premio di conversione: è la differenza tra il prezzo di conversione e valore di mercato delle azioni.
L’obbligazione convertibile può essere suddivisa in 2 componenti:
- Valore dell’opzione di conversione: prezzo dell’obbligazione convertibile – valore del debito ordinario;
- Valore del debito ordinario: dato dal valore ordinario delle cedole più il valore attuale del capitale di
rimborso.
2) Azioni privilegiate: hanno caratteristiche che si rifanno al:
• Debito:
- Pagano un ammontare fisso (dividendo) ma se l’impresa non ha liquidita disponibili, l’ammontare
dovuto viene accumulato e pagato quando ci sono utili sufficienti;
- Non danno il controllo della gestione d’impresa (possono votare in assemblea solo per decisioni che
li riguardano direttamente).
• Capitale netto:
- Per l’impresa i pagamenti agli azionisti sono fiscalmente indeducibili;
- Le azioni privilegiate hanno scadenza illimitata e conferiscono un diritto residuale (sia in sede di
dividendi che di liquidazione dell’azienda).
3) Azioni di risparmio: possono essere emesse solo da società quotate e si differenziano dalle azioni
ordinarie per 2 caratteristiche:
- Il titolare di azioni di risparmio non ha diritto di voto sia in assemblea ordinaria che straordinaria;
- Il titolare ha il diritto a un dividendo maggiore rispetto all’azionista ordinario.
Dunque, tali azioni le acquistano coloro che sono solo interessati al dividendo e non anche al controllo
dell’azienda. Poiché prevedono un maggior dividendo, dovrebbero avere un prezzo di mercato maggiore
rispetto alle azioni ordinarie, ma visto che non prevedono il controllo sono poco scambiate sul mercato e
ciò ne riduce il prezzo. Inoltre:
- Non possono essere emesse in misura superiore al 50% del capitale sociale;
- I dividendi privilegiati non sono fiscalmente deducibili;
- I detentori possono solo votare quelle delibere che pregiudicano i loro diritti.
4) Obbligazioni con opzioni: sono collegate a specifici valori o indici sottostanti, per cui sono la combinazione
tra un’obbligazione ordinaria e un’opzione call. Esistono 2 tipologie:
- Obbligazioni indicizzate alle materie prime: le imprese produttrici di materie prime emettono
obbligazioni che collegano il pagamento della quota capitale e/o degli interessi al prezzo delle materie
prime, così che quando il valore delle materie prime è basso anche il pagamento sarà basso. Dunque,
consentono di allineare i flussi di cassa sull’obbligazione ai flussi di cassa generati dalle materie prime.
- Catastrofi: le imprese assicurative emettono obbligazioni in cui il pagamento della quota capitale e/o
degli interessi si riduce in caso di catastrofi mentre rimane invariato se non si verificano. Questo perché
il verificarsi di catastrofi comporta ingenti esborsi per l’assicurazione, che deve coprire i danni.

7.4 Scelta delle fonti di finanziamento


Le fonti di finanziamento si dividono in:
- Fonti di finanziamento esterne: flussi di cassa raccolti all’esterno dell’impresa. Tali fonti si dividono in
finanziamenti a titolo di capitale proprio (capitale netto) e finanziamenti a titolo di debito (capitale di
debito);
- Fonti di finanziamento interne (autofinanziamento): flussi di cassa generati dalle attività in essere di
un’impresa.

Le imprese non quotate difficilmente ricorrono al finanziamento esterno perché ciò comporta una perdita
del controllo aziendale e costi di transazione, mentre i flussi interni no. Le fonti di finanziamento interno
presentano però dei limiti:
- Se non si tiene conto dei costi di transazione, le fonti esterne avranno un costo uguale alle fonti interne
(ma se si tiene conto dei costi di transazione, le fonti esterne avranno un costo superiore alle fonti
interne);
- Le fonti interne sono limitate ai flussi di cassa “residuali” (dopo aver remunerato le fonti esterne) generati
dall’impresa con la sua attività, per cui far leva solo su di esse potrebbe far ritardare o rinunciare ad alcuni
progetti (per mancanza di sufficienti fondi).

Le scelte delle fonti di finanziamento variano in base alle fasi del ciclo di vita che l’impresa attraversa:
- Avviamento: l’impresa non è quotata, si finanzia con CN investito dai proprietari o al massimo con debito
bancario (dunque vi è un numero limitato di scelte di finanziamento).
- Espansione: una volta che l’impresa si è stabilità nel mercato ed ha creato la sua clientela, essa vuole
crescere e ciò richiede più finanziamenti, ma poiché i flussi di cassa interni sono bassi, deve attingere
anche a fonti di finanziamento esterne (CN privato o venture capital), prevedendo anche la possibilità di
quotarsi in borsa.
- Crescita elevata: con il passaggio a impresa quotata aumentano le scelte di finanziamento. In questa fase
i ricavi possono essere alti, ma gli utili e i flussi di cassa sono bassi e quindi non ancora sufficienti per il
reinvestimento. Ciò richiede ulteriore finanziamento esterno, ma questa volta attraverso azioni ordinarie,
warrant, debito convertibile, etc.
- Maturità: la crescita inizia a stabilizzarsi e ciò genera 2 fenomeni, ossia gli utili e i flussi di cassa crescono
grazie agli investimenti fatti e vi è una minore necessità di investire in nuovi progetti. Di conseguenza vi
sarà un maggior ricorso al finanziamento interno a discapito di quello esterno (che sarà circoscritto solo
al debito bancario o alle obbligazioni societarie).
- Declino: si assiste ad un progressivo calo dei ricavi e dei profitti man mano che le attività dell’impresa
vengono superate da quelle dei concorrenti. L’impresa ha poca necessità di fare nuovi investimenti, quindi
è difficile che emetta nuove azioni o obbligazioni, anzi si ha un probabile ritiro di debito in circolazione e
riacquisto di azioni proprie (liquidazione dell’impresa).

Non tutte le imprese attraversano tutte e cinque le fasi e non tutte operano le stesse scelte di finanziamento.
Tali scelte dipendono infatti dal tipo di attività e dalla natura dei flussi di cassa che esse generano piuttosto
che dalla fase del ciclo in cui un’impresa si trova.

Da uno studio sulle modalità di finanziamento dei paesi del G7 tra il 1984 e il 1991 è emerso che le imprese
hanno fatto maggior ricorso al finanziamento interno rispetto a quello esterno, e quando ricorrevano a
quello esterno si tratta di nuovo debito piuttosto che di nuove azioni. In Italia ad esempio si fa un elevato
ricorso al finanziamento interno legato al capitalismo familiare delle imprese e all’indebitamento bancario.
Ciò ha avuto come conseguenza la sottocapitalizzazione delle imprese italiane. Il private equity gioca un ruolo
importante nel consentire la transazione tra fase privata e quotazione. Le imprese statunitensi, invece,
ricorrono più alle fonti esterne perché molte si trovano in una fase di maturità e hanno un accesso maggiore
ai mercati obbligazionari rispetto ad altri Paesi. Ma anche quando le imprese sono quotate, hanno una certa
riluttanza ad emettere nuove azioni, per 2 motivi:
- Ancoraggio delle persone all’analisi dell’utile per azione: essa rileva che l’emissione di nuove azioni,
facendo aumentare il numero di azioni in circolazione, diminuire l’utile per azione;
- Eccesso di fiducia del management, che stimando in eccesso i flussi di cassa dei progetti, di conseguenza
fa ritenere che le azioni siano sottovalutate e ciò rende sconveniente l’emissione di nuove azioni.

7.5 Il processo di raccolta del capitale


È possibile individuare 4 passaggi fondamentali nelle scelte relative al tipo di finanziamento:
1) Impresa non quotata ricorre ad investitori in private equity per ricercare fondi;
2) Impresa non quotata decide di offrire il suo CN ai mercati finanziari quotandosi in borsa;
3) Impresa quotata decide di ricorrere di nuovo ai mercati finanziari per raccogliere altro CN;
4) Impresa quotata decide di raccogliere debito dei mercati finanziari emettendo obbligazioni.

Fase 1: Espansione di un’impresa non quotata


Le imprese non quotate che necessitano di CN superiore a quello apportato dai proprietari, in un primo
momento si rivolgono ad investitori in private equity. Si può quindi parlare di:
- Seed money venture capital: per le start-up che vogliono testare un’idea innovativa;
- Start Up venture capital: per le start-up che hanno già sviluppato prodotti e idee (prototipi), ma che
necessitano di fondi per industrializzarli e metterli sul mercato.

Il processo attraverso il quale alle imprese viene fornito capitale di rischio (private equity) consta di 5 fasi:
1) Provocare l’interesse degli investitori di private equity: a tal fine sono importanti il tipo di attività e la
reputazione del top management.
2) Valutare i rendimenti prospettici: in genere si usa il metodo del venture capital tramite il quale vengono
previsti gli utili relativi ad un anno nel quale ci si aspetta che l’impresa venga quotata o ceduta. Tali utili
determinano il valore dell’impresa al momento della futura quotazione/cessione (valore di uscita). Questo
valore viene poi attualizzato ad un tasso di rendimento target (misura ciò che i fornitori di venture capital
ritengono sia un rendimento giustificabile, in base al rischio al quale sono esposti). Di solito questo target
viene fissato ad un livello maggiore rispetto al costo del CN tradizionale dell’impresa. Valore di uscita
attualizzato = Valore uscita stimato / (1+ Tasso di rendimento target). Sulla base del valore di uscita
attualizzato viene stimato il valore di ingresso del capitale e la quota di partecipazione da acquistare.
3) Concordare i principali termini del contratto:
- L’investitore deve negoziare quale % del valore dell’impresa (quota di partecipazione) deve ricevere in
cambio dell’investimento in private equity (% = capitale fornito/valore stimato);
- Il proprietario deve negoziare quale % è disposto a rinunciare in cambio dell’ingresso dell’investitore
in private equity.
4) Gestione dell’impresa dopo l’apporto di capitale da parte del private equity: l’investitore assume un
ruolo attivo nella gestione dell’impresa, apportando grande esperienza e contatti.
5) Uscita: gli investitori investono in imprese non quotate per ottenere rendimenti prospettici elevati dal
loro investimento. Questi rendimenti possono essere di 3 tipi:
- Se l’impresa in futuro si quota, l’investitore può ottenere un rendimento vendendo le azioni sul
mercato (capital gain);
- Se l’investitore detiene la proprietà di tutta l’impresa, può vendere l’impresa ad un’altra società;
- L’investitore può chiedere la liquidazione della sua quota.

Fase 2: Diventare un’impresa quotata (le IPO)


La quotazione di un’impresa comporta:
• Benefici:
- L’impresa ha un ampio accesso ai mercati finanziari per raccogliere fondi da investire nei progetti;
- I proprietari dell’impresa sono in grado di monetizzare il proprio investimento.
• Costi:
- Perdita di controllo;
- Obblighi legali (di produzione e divulgazione delle informazioni) e di fornire informazioni ai mercati;
- L’impresa deve dedicare molto tempo alle relazioni con gli investitori (coltivare le relazioni con gli
analisti finanziari che svolgono un ruolo di intermediazione fra impresa e investitori).
Se i benefici sono maggiori dei costi allora conviene quotarsi.

Fasi di una IPO (Initial Public Offering: offerta pubblica iniziale)


1) Scegliere una banca d’investimento (Sponsor): questa sottoscrive l’emissione e garantisce un certo
prezzo azionario. Inoltre agisce come “coordinatore” di un gruppo di numerose banche (consorzio di
collocamento), così da ripartire il rischio di collocamento dell’offerta e aumentare il mercato potenziale.
Lo Sponsor va scelto sulla base della sua reputazione (poiché questa fornisce credibilità e sicurezza agli
investitori) e della sua esperienza (importante per determinare il prezzo di emissione, per eseguire il
processo di quotazione e per prendere ulteriori decisioni di finanziamento future).
2) Valutare l’impresa e definire i dettagli dell’emissione: lo Sponsor valuta l’impresa ricorrendo a modelli
dei flussi di cassa attualizzati o ai multipli. Poi calcola il valore dell’impresa per azione: nel primo caso,
dividendo il valore dell’impresa per il numero di azioni (determinato sulla base dell’intervallo di prezzo che
l’impresa emittente desidera avere per le azioni), nel secondo caso, osservando i prezzi delle emissioni di
imprese simili già quotate. Infine stabilisce il prezzo di “offerta” per azione, che solitamente viene fissato
al di sotto del valore dell’impresa per azione (IPO underpricing), per 2 motivi:
- Ridurre l’esposizione della banca al rischio: se lo sponsor garantisce il collocamento delle azioni
(consorzio di collocamento e garanzia), fissa il prezzo di offerta al di sopra del valore per azione e poi
non riesce a vendere tutte le azioni, essa dovrà attingere ai propri fondi per acquistare le azioni non
collocate;
- Gli investitori e le banche considerano un segnale positivo eventuali incrementi del prezzo subito dopo
l’emissione: perché gli investitori ottengono un riscontro positivo del loro investimento, e per la banca
emittente diventa più facile l’emissione futura di nuove azioni.
3) Stimare la domanda degli investitori al prezzo di offerta scelto: prima di fissare definitivamente il prezzo
di offerta, lo Sponsor può (attraverso sondaggi) stimare la domanda degli investitori per un certo prezzo
di offerta. Se gli investitori non si dimostrano entusiasti, l’impresa può ritirare la IPO.
4) Inviare il prospetto informativo alla Consob per il rilascio del nulla osta alla sua pubblicazione: lo
Sponsor e l’impresa redigono il “prospetto informativo”, che contiene informazioni utili per i potenziali
investitori circa la rischiosità e le prospettive di sviluppo dell’impresa (ossia informazioni circa la storia
finanziaria dell’impresa, le sue prospettive future e le modalità secondo cui intende utilizzare i fondi
raccolti tramite la IPO). Per poter pubblicare il prospetto bisogna ottenere il nulla osta della Consob.
A Borsa Italiana invece bisogna consegnare il “filling di Borsa”, un documento che informa sul sistema di
controllo di gestione, sul piano industriale e sulla valutazione dell’impresa, al fine di garantire più
trasparenza e ridurre le asimmetrie informative (e i comportamenti opportunistici). Inoltre, è consigliabile
aderire al codice di autodisciplina delle società quotate.
5) Domanda di ammissione alla Borsa: bisogna consegnare tutta la documentazione alla Borsa che, dopo
averla valutata, entro due mesi delibera e comunica all’emittente il rigetto o l’ammissione alla domanda.
6) Fase esecutiva: gli investitori istituzionali dichiarano l’ammontare dei titoli che intendono acquistare e il
prezzo che intendono offrire, andando così a formare il book di negoziazione grazie al quale si definire il
prezzo di offerta (di collocamento) che viene deliberato da Borsa Italiana.
7) Assegnare le azioni agli investitori “istituzionali” che si offrono di acquistarle al prezzo di offerta: se è
stato fissato un prezzo di offerta troppo elevato, potrebbe capitare che la domanda delle azioni emesse
sia inferiore all’offerta. La banca dovrà acquistare le azioni rimanenti al prezzo d’offerta. Se la domanda è
superiore all’offerta, l’impresa dovrà assegnare le azioni in “proporzione” a coloro che ne hanno fatto
richiesta.

Costi della quotazione


I costi associati alle IPO sono:
• Costi legali e amministrativi: costi per la nuova emissione, costi per la gestione e il controllo della
quotazione;
• Commissione di sottoscrizione: pagata allo Sponsor per la sottoscrizione, la gestione e la vendita
dell’emissione (data dalla differenza tra prezzo di vendita e prezzo che l’impresa riceve per azione);
• Costo di Underpricing: prezzo di collocamento delle azioni al di sotto del valore di mercato. Ciò comporta
per l’impresa una raccolta di fondi inferiore, e tale perdita varia in funzione della quantità di capitale netto
che l’impresa offre nell’offerta iniziale. Di solito, però, lo Sponsor colloca le azioni di una IPO al di sotto
del loro valore di mercato in modo esplicito e consapevole. Le ragioni che spiegano l’Underpricing sono:
- Stabilità degli acquirenti: l’investitore che aderisce a una IPO conferisce all’azione un prezzo familiare
e stabile. Lo sconto iniziale è il prezzo che le banche pagano agli investitori iniziali per limitare
“volontariamente” la loro vendita (attraverso un accordo implicito);
- Ipotesi dell’impresario: l’elevato rendimento iniziale per gli investitori in una IPO aiuta a creare o ad
aumentare l’entusiasmo per la IPO in generale (creando quindi effetti positivi sulle IPO future);
- Gli Sponsor che sono “avversi alle perdite” collocheranno la IPO al di sotto del prezzo di mercato;
- Fare leva sugli investitori poco informati, i quali potrebbero tentare la strategia di offrire prezzi elevati
per garantirsi la sottoscrizione e sperare di ottenere un successivo guadagno dall’underpricing (gli
investitori informati invece sottoscrivono solo investimenti convenienti, che gli consentono di ottenere
un capital gain).

Fase 3: Emissione di nuove azioni


Le offerte azionarie supplementari effettuate dalle imprese già quotate prendono il nome di emissioni
azionarie secondarie. L’emissione di nuove azioni può essere di 3 tipi:

1) Sottoscrizioni generiche
L’emissione è rivolta al grande pubblico. Rispetto all’IPO presenta delle differenze riguardanti:
• Accordo di sottoscrizione: per le IPO è prevista solo la garanzia per le azioni non collocate, mentre per le
emissioni secondarie esistono diversi accordi di sottoscrizione:
- C’è la possibilità di fare un’asta concorrenziale fra le banche d’investimento (così che queste possano
promettere un prezzo fisso di collocamento);
- Offrono altre garanzie, quali ad esempio la garanzia di tipo “best effort” (lo Sponsor è obbligato ad
impegnarsi al massimo per collocare sul mercato i titoli emessi, senza però essere costretto a comprare
quelli che eventualmente non dovessero essere assorbiti dal mercato) o “standby” (la banca fornisce
una garanzia di copertura se il prezzo effettivo scende al di sotto del prezzo d’offerta).
• Accordo sul prezzo di emissione: la banca che emette la IPO deve prima stimare il valore dell’impresa, poi
quello dell’azione ed infine stabilire il prezzo di emissione. Il prezzo di una emissione secondaria invece
parte dal prezzo attuale di mercato (spesso il prezzo di emissione secondaria viene fissato appena al di
sotto del prezzo attuale di mercato).

2) Collocamento privato (comprende anche le obbligazioni)


I titoli sono venduti direttamente a uno o pochi investitori istituzionali e le caratteristiche dei titoli vengono
negoziate direttamente tra le controparti. Rispetto alla IPO vi sono:
• Vantaggi:
- Minori costi di transazione e risparmio in termini di tempo e costi amministrativi (perché vengono
saltati gli adempimenti con Borsa Italiana e Consob);
- Le caratteristiche delle obbligazioni possono essere adattate alle necessita dell’acquirente e le imprese
possono divulgare informazioni riservate ai soli potenziali investitori.
• Svantaggi: il numero dei potenziali investitori si restringe perché un collocamento su ampia scala
potrebbe esporre l’investitore a troppo rischio specifico dell’impresa.

3) Emissioni riservate agli azionisti


Vengono emesse nuove azioni, ma queste sono riservate solo agli azionisti dell’impresa, in virtù del diritto
di opzione, che gli consente di acquistare ulteriori quote societarie in proporzione alle loro partecipazioni
attuali, ad un prezzo molto inferiore all’attuale prezzo di mercato.

Prezzo del diritto d’opzione = (Pcum – Psottoscrizione) / (n + 1)


Pcum = prezzo azionario comprensivo del diritto d’opzione;
Psottoscrizione = prezzo azionario non comprensivo del diritto d’opzione;
n = numero di diritti richiesti per ciascuna nuova quota azionaria.

- Se Prezzo del diritto > (Pcum – Psottoscrizione) l’investitore non esercita il diritto e questo fa scendere il prezzo
dell’azione;
- Se Prezzo del diritto < (Pcum – Psottoscrizione) l’investitore esercita il diritto e questo fa salire il prezzo
dell’azione.

Questo tipo di emissione è un modo meno costoso per raccogliere capitale rispetto alle emissioni al pubblico:
- Meno commissioni di sottoscrizione (l’emissione è riservata agli azionisti e non c’è il rischio di non trovare
investitori);
- Minori costi di transazione e amministrativi (c’è minore necessita di marketing e distribuzione).
Lo svantaggio di questo metodo, rispetto agli altri, è che fa aumentare il “numero” di azioni in circolazione
(perché se il prezzo di emissione è inferiore a quello di mercato, per raccogliere la stessa somma di denaro,
servono più azioni) e questo riduce il prezzo di mercato delle azioni (aumenta il denominatore), ma per gli
azionisti sarà uguale perché in proporzione avranno un numero maggiore di azioni della società.

Registrazione anticipata
Negli USA il processo di registrazione era costoso e richiedeva molto tempo, e per questo si ricorreva
maggiormente al finanziamento interno. Per cui nel 1982 la SEC (il pari della Consob) ha semplificato la
regolamentazione, consentendo una maggiore flessibilità nel finanziamento esterno e una riduzione delle
commissioni pagate per nuove emissioni. La nuova norma consente alle imprese di: effettuare una
“registrazione anticipata” (fare un unico prospetto informativo che vale per tutte le emissioni future fino a 2
anni), avere una maggiore flessibilità nell’accesso ai mercati (le emissioni di azioni e obbligazioni possono
essere effettuate al momento più favorevole), ridurre i costi di transazione (è possibile valutare le offerte di
diverse banche di investimento e scegliere quella meno costosa, oppure si può addirittura scegliere di
emettere azoni senza ricorrere ad alcuna banca d’investimento).

7.6 Trade off del debito: costi e benefici


La scelta del debito rispetto al capitale netto comporta 2 vantaggi, ma anche 3 svantaggi.
Vantaggi:
- Beneficio fiscale, poiché i pagamenti degli interessi sul debito sono deducibili;
- Maggiore disciplina imposta al management dalla necessità di dovere effettuare pagamenti sul debito.
Svantaggi:
- Costi attesi del fallimento;
- Costi d’agenzia;
- Riduzione della flessibilità.

7.6.1 Beneficio fiscale


Il beneficio fiscale del debito deriva dal fatto che gli interessi sul debito siano fiscalmente deducibili dal
reddito d’imposta. Negli USA gli interessi pagati sul debito sono totalmente deducibili. Lo stesso avveniva
anche in Italia fino al 1997. Questo portava ad un risparmio di imposta, ma al tempo stesso favoriva
l’indebitamento. Oggi invece vige un sistema di parziale deducibilità: ai fini IRAP gli oneri finanziari sono
totalmente indeducibili, mentre ai fini delle imposte sul reddito (IRES e IRPEF) gli oneri finanziari sono
parzialmente deducibili, ossia solo per la quota che non eccede il 30% del ROL (reddito operativo lordo).

Alcuni paesi cercano di adottare una protezione contro la “doppia imposizione” dei dividendi, ossia quel fenomeno secondo cui
l’utile prodotto dalla società viene prima tassato in capo a quest’ultima (a titolo di reddito di impresa) e, successivamente, dopo
essere stato distribuito al socio (dividendo), viene tassato in capo al socio (a titolo di reddito di capitale). In Inghilterra forniscono
un credito d’imposta a coloro che ricevono i dividendi, pari alle imposte sugli utili pagate dalla società. In Germania gli utili non
distribuiti sono tassati ad un’aliquota maggiore rispetto a quelli distribuiti. In Italia prima vigeva il criterio del credito d’imposta,
oggi esiste un sistema basato sull’esenzione, nel quale l’utile viene tassato solo in capo al soggetto che lo ha realmente prodotto
(cioè al percettore del dividendo).
I benefici fiscali del debito possono essere di 2 tipi:
• Benefici diretti: possono essere espressi in termini assoluti (benefici di un anno) o in termini relativi o %
(benefici di più anni);
• Benefici indiretti: sono espressi in ottica di rendita perpetua.

1) Benefici fiscali in termini assoluti: si calcolano come differenza tra debito lordo e debito netto.
Debito lordo = rd*D
Debito netto = rd*D(1 – tc)
Beneficio fiscale = rd*D – rd*D(1 – tc) = rd*D – rd*D + rd*Dtc = rd*Dtc

rd = tasso di interesse sul debito


D = debito
tc = aliquota d’imposta marginale

Come si può vedere, il beneficio fiscale in termini assoluti può essere anche più direttamente ottenuto
moltiplicando gli interessi passivi sul debito (rd*D) per l’aliquota d’imposta marginale dell’impresa (tc).

2) Benefici fiscali in termini relativi: si calcolano come differenza tra costo del debito lordo e costo del debito
netto.
Costo del debito lordo = rd
Costo del debito netto = rd(1 – tc)
Beneficio fiscale = rd – rd(1 – tc) = rd – rd + rdtc = rdtc

Come si può vedere, il beneficio fiscale in termini relativi è dato dal prodotto tra costo del debito lordo
(rd) e aliquota d’imposta marginale (tc).

3) Benefici fiscali in termini di rendita perpetua: si calcolano come differenza tra VA dell’impresa Levered
(con debito) e VA dell’impresa Unlevered (senza debito).
𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝑡𝑡 𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝟏𝟏
VA dell’impresa Levered: 𝑽𝑽𝑳𝑳 = ∑∞ 𝑡𝑡=0 (1+𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊𝑊)𝑡𝑡 = 𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾
𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹 𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹1 𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝟏𝟏
VA dell’impresa Unlevered: 𝑽𝑽𝑼𝑼 = ∑∞ 𝑡𝑡
𝑡𝑡=0 (1+𝑟𝑟 )𝑡𝑡 = =
𝑒𝑒 𝑟𝑟𝑒𝑒 𝒓𝒓𝒆𝒆
𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝟏𝟏 𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝟏𝟏
Beneficio fiscale: 𝑽𝑽𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩𝑩 = −
𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾 𝒓𝒓𝒆𝒆

Tali benefici possono essere calcolati solo se:


- Il flusso di debito è costante (come se il beneficio sia una rendita costante);
- Il tasso di attualizzazione coincide con il tasso di interesse passivo (rd);
- L’aliquota d’imposta attesa rimane costante nel periodo (tc);
- L’impresa produce sempre redditi positivi (imponibile sempre positivo).

A parità di condizioni, i benefici del debito saranno maggiori in presenza di aliquote d’imposta più elevate.
Ne consegue che:
- Le imprese con aliquote d’imposta maggiori dovrebbero avere indici di indebitamento maggiori di quelli di imprese con aliquote
di imposta minori;
- Se le aliquote d’imposta aumentano nel corso del tempo in un dato mercato, ci aspetteremo che anche gli indici di
indebitamento saliranno in quel mercato per riflettere i maggiori benefici fiscali;
- Le società con ingenti perdite operative nette dovrebbero ottenere minori vantaggi connessi al debito.

7.6.2 Maggiore disciplina imposta al management


Secondo la teoria di Jensen, la presenza del debito spinge le imprese ad un più attento utilizzo dei flussi di
cassa disponibili (free cash flow), su cui il management ha potere discrezionale. Questa tesi si basa sul
presupposto che esiste un conflitto di interessi fra management e azionisti, e che il management non si
impegnerà a massimizzare il valore del capitale netto se non ha un incentivo a farlo. Nelle imprese con elevati
flussi di cassa e poco debito, il management ha uno scudo di protezione contro eventuali errori di gestione
(visti gli elevati flussi) e questo lo disincentiva a scegliere progetti con efficacia. Nelle imprese con bassi flussi
di cassa e tanto debito, invece, il management è incentivato a scegliere progetti con efficacia perché la
necessità di dover pagare interessi e quota capitale aumenta il rischio di insolvenza se l’impresa investe in
progetti mediocri.

7.6.3 Costo atteso del fallimento


Il costo atteso del fallimento è dato dal prodotto tra:
• Probabilità di fallimento: possibilità che i flussi di cassa non siano sufficienti a soddisfare tutti gli obblighi
connessi al debito (interessi e capitale). La probabilità di fallimento dipende dall’entità e dalla volatilità
dei flussi di cassa operativi (minore entità e/o maggiore volatilità, più probabilità di fallimento).
• Costi diretti e indiretti: i costi diretti sono le uscite di cassa al momento del fallimento, cioè le spese legali
e amministrative e gli interessi sui pagamenti ritardati, mentre i costi indiretti sono quelli che sorgono in
seguito alla percezione che l’impresa si trovi in una situazione di dissesto finanziario (es. i clienti cessano
di acquistare il prodotto, i fornitori richiedono termini più onerosi per proteggersi contro la possibilità di
insolvenza, difficoltà per l’impresa di trovare nuovo capitale per i progetti).
I costi indiretti saranno maggiori dei costi diretti per:
- Le imprese che vendono beni durevoli che richiedono pezzi di ricambio;
- Le imprese fornitrici di beni e servizi per i quali la qualità rappresenta un attributo importante, ma
difficile da determinare in anticipo (per cui la reputazione è importante nella decisioni di acquisto);
- Le imprese che realizzano prodotti in cui il valore per i clienti dipende da servizi e prodotti
complementari forniti da altre imprese;
- Le imprese che vendono prodotti che richiedono servizio e supporto continuo da parte del produttore.

7.6.4 Costi d’agenzia


I costi di agenzia sono tassi di interesse più elevati e minore potere decisionale per il management. Essi si
generano quando l’impresa si indebita, poiché si espone al conflitto di interessi tra azionisti e obbligazionisti
riguardo le:
- Politiche d’investimento: se l’impresa intraprende progetti con rischio più alto rispetto a quello atteso, gli
obbligazionisti subiranno una perdita perché il prezzo delle obbligazioni diminuirà per il maggior rischio;
- Politiche di finanziamento: per finanziare nuovi progetti, gli azionisti preferiscono emettere nuovo debito,
assegnando ai nuovi obbligazionisti priorità rispetto a quelli esistenti, così da ottenere un tasso d’interesse
più basso sul nuovo debito (gli obbligazionisti si opporranno perché più debito vuol dire maggior rischio
di insolvenza);
- Politiche dei dividendi: gli obbligazionisti preferiscono che l’impresa utilizzi le liquidità per pagare il debito
e ridurre il rischio di insolvenza, mentre gli azionisti preferiscono che l’impresa conservi le liquidità per
pagare i dividendi o acquistare azioni proprie.
Dunque, i conflitti sulle 3 politiche aziendali generano i costi d’agenzia.

Se gli azionisti fanno azioni a danno degli obbligazionisti, questi ultimi richiederanno un tasso di interesse
maggiore e, inoltre, si tuteleranno inserendo nei contratti obbligazionari delle clausole restrittive che
comportano costi diretti di monitoraggio dei progetti e costi indiretti per minore flessibilità (perché le
clausole impediscono all’impresa di fare alcuni progetti, di usare alcuni finanziamenti, etc.). Quindi, maggiore
è l’indebitamento, maggiore è il conflitto e maggiori saranno i costi di agenzia.

I costi d’agenzia causati dalle variazioni di rischio saranno maggiori per le imprese i cui investimenti sono
difficili da osservare e monitorare.
I costi d’agenzia causati dalle azioni di monitoraggio saranno maggiori per le imprese con progetti a lungo
termine e estremamente incerti.
7.6.5 Riduzione della flessibilità
Le imprese spesso non ricorrono al massimo livello di indebitamento che i flussi di cassa operativi possono
sopportare, ma preferiscono tenere un margine di flessibilità per il futuro. Altre imprese invece esauriscono
la capacità di indebitamento (perdendo flessibilità) e così facendo si precludono la possibilità di ottenere altri
finanziamenti quando avranno difficoltà finanziarie. Una certa flessibilità finanziaria consente all’impresa di
intraprendere validi progetti futuri man mano che si presentano e massimizzare il valore dell’impresa.
L’obiettivo di avere maggiore flessibilità finanziaria potrebbe però essere usato come pretesto per far valere
gli interessi degli azionisti. Dunque, vi è un trade-off tra il mantenere flessibilità finanziaria e il non
mantenerla.

Il valore della flessibilità deriva da:


- Accesso ai mercati finanziari: imprese di grandi dimensioni, che operano in mercati sviluppati e che hanno
libero accesso ai mercati finanziari non hanno bisogno di mantenere flessibilità finanziaria perché possono
raccogliere fondi quando vogliono, mentre imprese piccole che operano in mercati emergenti danno più
valore alla flessibilità finanziaria;
- Possibilità di ottenere da nuovi progetti rendimenti superiori al costo del capitale: imprese con rendimenti
superiori al costo del capitale non hanno interesse a mantenere la flessibilità finanziaria, mentre quelle
che hanno rendimenti inferiori al costo del capitale danno maggior valore alla flessibilità finanziaria.

In conclusione, se i benefici marginali connessi al debito superano i costi marginali connessi al debito,
all’impresa converrà aumentare il livello di indebitamento, in caso contrario sarà meglio ricorrere al capitale
netto.

7.7 In che modo le imprese scelgono la struttura finanziaria


Secondo Modigliani e Miller non esiste una struttura finanziaria ottimale. Vi sono poi altre 3 teorie che
sostengono il contrario e aiutano a capire in che modo le imprese scelgono la struttura finanziaria ottimale.

7.7.1 Teorema di Modigliani-Miller


Costoro sostengono che non esiste una struttura finanziaria ottimale, cioè il valore dell’impresa non dipende
dal rapporto di indebitamento e che politiche di investimento e finanziamento possono essere trattate
separatamente.

Tale teorema viene dimostrato attraverso un modello esemplificativo in cui si ipotizza un mercato con le
seguenti caratteristiche:
- Assenza di imposte (beneficio);
- Assenza di costi di transazione per raccogliere finanziamento esterno tramite debito o CN;
- Assenza di costi diretti e indiretti connessi al fallimento;
- Assenza di costi di agenzia;
- Il management opera nell’interesse degli azionisti;
- Gli obbligazionisti non devono preoccuparsi di tutelarsi dagli azionisti.
In questo contesto tutti i benefici e i costi del debito scompaiono, il debito non produce effetti sul valore
dell’impresa e le decisioni sulla politica di finanziamento diventano irrilevanti (politica di investimento e
finanziamento sono indipendenti).
Se invece si ipotizza un altro contesto, uguale al primo, ma dove esistano le imposte, allora esisterà il
beneficio fiscale, ma poiché non vi sono costi legati al debito, tale beneficio fiscale sarà permanente. Per cui,
in questo contesto, il rapporto di indebitamento ottimale per un’impresa è pari al 100% (cioè una struttura
finanziaria composta al 100% da debito e CN pari a zero).
Valore dell’impresa indebitata = valore dell’impresa priva di debito + tcD
Dove tcD è il valore attuale dei benefici fiscali degli interessi passivi sul debito,
trattati come una rendita perpetua.
Come si può vedere dal grafico, se l’indebitamento dell’azienda è pari a zero, il valore dell’impresa Unlevered
(VU) sarà nullo. All’aumentare del debito, invece, il valore dell’impresa Levered (VL) aumenta a causa dei
benefici fiscali (tcD) e si avrà che VL > VU.
Da quanto appena detto si evince che la scelta della combinazione delle fonti di finanziamento incide sul
valore dell’impresa, per cui, contrariamente a quanto detto inizialmente, anche il teorema Modigliani-Miller
prevede una struttura finanziaria ottimale, che è quella in il CN è nullo e il debito è pari al 100%. Dunque,
secondo tale teoria, le imprese dovrebbero scegliere la combinazione delle fonti di finanziamento
bilanciando i benefici del debito con costi. Ma esistono 3 teorie alternative.

7.7.2 Struttura finanziaria ottimale e ciclo di vita


La scelta fra debito e capitale netto dipende dalla fase del ciclo di vita in cui un’impresa si trova. Nelle fasi di
start-up e rapida crescita, i benefici fiscali derivanti dall’utilizzo del debito sono esigui o nulli in quanto gli
investimenti in essere producono utili esigui o negativi. Ciò fa aumentare i costi attesi del fallimento. Banche
e investitori sono poco propensi a concedergli un prestito e ciò fa aumentare i costi d’agenzia. Dunque, si
hanno costi > benefici. Quando la crescita rallenta, il trade-off propende per il debito e man mano che gli
utili diventano maggiori, aumentano i benefici fiscali e diminuiscono i costi attesi del fallimento. Quando
aumentano le dimensioni dell’impresa, aumenta anche il conflitto di interessi tra azionisti e management e
quindi aumentano i benefici derivanti dall’utilizzo del debito come meccanismo di disciplina. Nella fase di
declino vi sarà un alto indice di indebitamento. Ovviamente ci saranno delle differenze in base al tipo di
settore in cui l’impresa opera.

7.7.3 Struttura finanziaria ottimale e politica finanziaria di altre imprese


Le imprese scelgono la struttura finanziaria ispirandosi alla politica finanziaria di altre imprese dello stesso
settore. Questo perché le imprese non vogliono allontanarsi dalla media del settore. Infatti, se le imprese
operano nello stesso settore e condividono caratteristiche comuni, non dovrebbe sorprendere che essere
scelgano strutture finanziarie simili. Questo però funziona solo se le 2 imprese si trovano nella stessa fase
del ciclo produttivo.
Questa modalità di scelta delle fonti di finanziamento può essere però pericolosa per 2 ragioni:
- Se fra imprese operanti nello stesso settore vi sono variazioni in termini di potenziale di crescita e rischio;
- Se le imprese in media fanno ricorso a troppo o troppo poco debito rispetto a quello che le loro
caratteristiche richiederebbero.

7.7.4 Struttura finanziaria ottimale e gerarchia delle fonti di finanziamento


La scelta di come comporre la propria struttura finanziaria viene fatta tenendo conto dell’ordine gerarchico
delle fonti di finanziamento: utili non distribuiti, debito, emissione di nuove azioni e infine emissione di azioni
privilegiate convertibili.
Il management definisce questa gerarchia perché:
- Dà importanza alla flessibilità e al controllo (che si ridurrebbero con il ricorso a finanziamenti esterni);
- L’autofinanziamento non prevede costi di transazione;
- Le informazioni che l’impresa trasmette ai mercati finanziari ricorrendo alle fonti esterne (circa le sue
condizioni e prospettive future) possono essere valutate erroneamente dai mercati stessi, e questo si
ripercuote su una valutazione errata del prezzo dei titoli emessi;
- I mercati interpretano l’emissione come un segnale negativo per i titoli azionari e meno negativo per le
obbligazioni ordinarie (per le quali l’asimmetria informativa è minore).

CAP. 8 – LA STRUTTURA DEL CAPITALE: LA COMBINAZIONE OTTIMALE DELLE FONTI DI FINANZIAMENTO

Dopo aver definito il trade-off tra debito e capitale netto, bisogna definire “quantitativamente” qual è la
combinazione ottimale che consente di massimizzare il valore dell’impresa.
Per fare ciò, bisogna leggere i principali indicatori di struttura finanziaria (1 e 2) e di copertura (3):
1) Indici di composizione:
- Indice di indebitamento (leverage): D / (D + E)
- Grado di autonomia finanziaria: E / (D + E)
2) Indici di comparazione:
- Indice di leva: D / E
3) Indici di copertura:
- Rapporto di copertura: EBIT / Oneri finanziari
L’EBIT (Earnings before interest and taxes) = Reddito Operativo, cioè il reddito aziendale prima degli
oneri finanziari e delle imposte. In altri termini, EBIT = fatturato – costo del venduto = Margine
Operativo Lordo – costi operativi. L’EBIT esprime il reddito che l’impresa è in grado di generare prima
della remunerazione del capitale (proprio e di terzi).
- Tasso di copertura del debito: FCFF / Oneri finanziari + Quota capitale annua
Esprime la capacità dell’impresa di generare flussi sufficienti per coprire il debito nelle sue due
componenti (quota capitale e quota interessi).
𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝒓𝒓
∑𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔
𝒕𝒕=𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊 𝒅𝒅𝒅𝒅 𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗𝒗 (𝟏𝟏+𝒓𝒓𝒅𝒅 )𝒓𝒓
- Tasso di copertura della vita del prestito: 𝑳𝑳𝑳𝑳𝑳𝑳𝑳𝑳 = 𝒅𝒅𝒅𝒅𝒅𝒅𝒅𝒅𝒅𝒅𝒅𝒅 𝒓𝒓𝒓𝒓𝒓𝒓𝒓𝒓𝒓𝒓𝒓𝒓𝒐𝒐
È il rapporto tra il valore attuale netto dei flussi di cassa (che si hanno nel periodo di vita del
finanziamento) e il valore attuale del debito.

Le prime due classi di indicatori sono utilizzate per evidenziare il livello di capitalizzazione e di autonomia
finanziaria dell’impresa. L’ultima per analizzare la sostenibilità finanziaria di un debito e stimare la rischiosità
e i costi del finanziamento.

Per giungere alla struttura finanziaria ottimale vi sono 4 metodi:


1) Metodo del costo del capitale;
2) Metodo del valore attuale modificato;
3) Metodo del reddito operativo;
4) Metodo dell’analisi comparata.

8.1 Metodo del costo del capitale


Il costo del capitale è la media ponderata dei costi del capitale netto, del debito e dei titoli ibridi, al netto del
beneficio fiscale, con i pesi basati su valori di mercato.
𝑬𝑬 𝑫𝑫 𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊
𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾 = 𝒌𝒌𝑬𝑬 � � + 𝒌𝒌𝑫𝑫 � � + 𝒌𝒌𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊 � �
(𝑫𝑫 + 𝑬𝑬 + 𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊) (𝑫𝑫 + 𝑬𝑬 + 𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊) (𝑫𝑫 + 𝑬𝑬 + 𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊)

Se si escludono i titoli ibridi, il costo del capitale è la media ponderata del costo del capitale netto e del costo
del debito, al netto del beneficio fiscale, con i pesi basati sul valore di mercato.
𝑬𝑬 𝑫𝑫
𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾 = 𝒌𝒌𝑬𝑬 � � + 𝒌𝒌𝑫𝑫 � �
(𝑫𝑫 + 𝑬𝑬) (𝑫𝑫 + 𝑬𝑬)
Il costo del capitele netto (kE) riflette il rischio degli investitori marginali: se questi sono diversificati, si
considera solo il rischio diversificato (beta), mentre se non sono diversificati, si considera anche il rischio
specifico.
Il costo del debito (kD) riflette il rischio d’insolvenza e considera il beneficio fiscale: infatti se gli interessi sono
deducibili, bisogna correggere il costo del debito e considerare il beneficio fiscale usando l’aliquota
d’imposta, ottenendo il costo del debito al netto dell’imposta.

Relazione tra costo del capitale (WACC) e struttura finanziaria ottimale (valore dell’impresa)
Il valore del progetto è dato dai flussi di cassa attesi dal progetto (disponibili per gli investitori) attualizzati al
tasso che riflette la rischiosità (cioè al costo del capitale per finanziare il progetto). Vengono considerati i
flussi di cassa disponibili per gli investitori (FCFF), prima di ogni pagamento relativo al debito, ma al netto
delle imposte.
Se questo discorso viene esteso a tutta l’impresa, il valore dell’impresa può essere stimato attualizzando i
flussi di cassa futuri attesi (FCFF) al costo del capitale dell’impresa.

𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊𝒊 = �
(𝟏𝟏 + 𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾)𝒕𝒕
𝒕𝒕=𝟏𝟏

Se l’obiettivo è quello di scegliere una struttura finanziaria ottimale che consente di massimizzare il valore
dell’impresa, allora bisogna scegliere una struttura finanziaria ottimale che consente di minimizzare il costo
del capitale (metodo standard) o di massimizzare i FCFF (metodo avanzato).

Il punto chiave per l’utilizzo del metodo del costo del capitale è quello di ottenere delle stime realistiche del
WACC per ogni livello di indebitamento. Per determinare la combinazione ottimale delle fonti di
finanziamento occorre fare una tabella in cui ad ogni livello di indebitamento bisogna determinare il costo
del capitale e quindi il valore dell’impresa.

8.1.1 Metodo standard del costo del capitale


Il reddito operativo e flussi di cassa rimangono costanti, solo il costo del capitale varia. Per cui, l’indice di
indebitamento ottimale è quello che minimizza il costo del capitale.

Per calcolare il costo del capitale bisogna stimare:


1) Costo del capitale netto: il costo del CN deve essere stimato per ogni livello di indebitamento,
considerando che se aumenta il debito, aumenta il rischio di investire con mezzi propri, e se il beta levered
aumenta, questo farà aumentare il costo del CN (e il costo del WACC). Questo è l’effetto leva finanziaria.
𝑫𝑫
Dunque, per stimare il costo del capitale netto si usano le variazioni del beta CN: 𝜷𝜷𝑳𝑳 = 𝜷𝜷𝑼𝑼 �𝟏𝟏 + (𝟏𝟏 − 𝒕𝒕) 𝑬𝑬 �
β L (beta del CN “levered”) = rischiosità dei mezzi propri in presenza di debito;
β u (beta del CN “unlevered”) = rischiosità dei mezzi propri in assenza di debito;
t = aliquota d’imposta;
D/E = Debito/CN = leva finanziaria.
2) Costo del debito al netto d’imposta: il costo del debito deve essere stimato per ogni livello di
indebitamento, considerando che se aumenta il debito, aumenta il rischio di insolvenza (quindi il rating
peggiora) e questo farà aumentare il costo del debito (e il costo del WACC), con conseguenze negative sul
prezzo delle obbligazioni.
Dunque, per stimare il costo del debito si usano le variazioni del beta del debito. Per stimare il beta del
debito bisogna stimare il rating delle obbligazioni e per stimare il rating si usa il rapporto di copertura degli
oneri finanziari: EBIT/Interessi passivi
Se per stimare il costo del debito utilizziamo il rating obbligazionario, bisogna procedere in 6 fasi:
- Poiché la capacità di ricorrere al prestito dipende dalla capacità reddituale dell’impresa, bisogna
osservare i dati di bilancio e calcolare il reddito operativo e tutti gli indici finanziari necessari;
- Stimare il valore di mercato attuale dell’impresa nel periodo analizzato: Vm del CN + Vm del debito;
- Calcolare l’ammontare di debito che l’impresa dovrebbe emettere in corrispondenza di ciascun livello
di indebitamento: debito = indice di indebitamento * Vm attuale dell’impresa;
- Calcolare gli interessi passivi che l’impresa dovrebbe pagare per ciascun livello di indebitamento
(interessi passivi = tasso d’interesse * ammontare del debito) e il rapporto di copertura degli oneri
finanziari (EBIT/Interessi passivi);
- Per ciascun livello di indebitamento calcolare il tasso d’interesse al lordo delle imposte: differenziale
per il rischio d’insolvenza + tasso di interesse privo di rischio;
- Calcolare il costo del debito al netto del beneficio fiscale: kD = costo del debito al lordo dell’imposta * (1
– t).
3) Pesi di debito e capitale netto.
4) Costo del capitale (WACC) in corrispondenza di ciascun livello di indebitamento: l’indice di indebitamento
ottimale è quello in cui il WACC è minimizzato.
5) Effetti sul valore dell’impresa e sul valore azionario: il miglior metodo per calcolare gli effetti sul valore
dell’impresa è quello di considerare il fatto che se l’impresa riduce il WACC, essa ridurrà anche il costo del
finanziamento. Dunque, anzitutto si calcola il VA dell’impresa = FCFF (1 + g) / (WACC – g), dove g è il tasso
di crescita dei flussi di cassa. Poi si calcola il costo del finanziamento all’indice di indebitamento “attuale”,
il costo del finanziamento all’indice di indebitamento “ottimale”, si fa la differenza e si ottiene il risparmio
sul costo del finanziamento. Poi si calcola il VA del risparmio = risparmio / (costo del capitale – g). Infine
si calcola il valore dell’impresa = VA dell’impresa + VA del risparmio.

Ipotesi alla base del metodo standard:


- Non c’è crescita: le variazioni della struttura finanziaria non accrescono il valore dell’impresa, per cui,
l’indice di indebitamento viene ridotto emettendo nuovo CN e ritirando il debito; al contrario l’indice di
indebitamento viene aumentato prendendo in prestito denaro e riacquistando azioni proprie;
- Il reddito operativo al lordo delle imposte non dipende dal rischio di insolvenza dell’impresa e quindi dalla
combinazione delle fonti di finanziamento;
- Esiste sempre un imponibile fiscale, cioè il reddito operativo lordo è sempre superiore alla somma degli
interessi finanziari;
- L’aliquota d’imposta marginale rimane invariata all’aumentare dell’indice di indebitamento.

L’indice di indebitamento ottimale è determinato da 2 fattori:


• Fattori specifici dell’impresa:
- Aliquota d’imposta: all’aumentare dell’aliquota, i benefici fiscali del debito aumentano (per via della
deducibilità degli interessi passivi sul debito), ma all’aumentare dell’aliquota potrebbe aumentare
anche l’indebitamento;
- Reddito operativo lordo (o flusso di cassa operativo lordo): un’impresa con alti rendimenti lordi (con
alti flussi di cassa lordi) può sopportare un maggior indebitamento perché avrà più facilità a coprire gli
oneri finanziari;
- Varianza del reddito operativo: se la varianza cresce, il beta cresce, l’indice di indebitamento ottimale
peggiora ed anche il rating peggiora in misura maggiore all’aumentare del livello di indebitamento (cioè
se il debito cresce, il rating peggiora in misura maggiore se la varianza del RO è elevata).
• Fattori macroeconomici:
- Livello dei tassi d’interesse: se il tasso di interesse cresce, cresce anche il rischio di insolvenza, che fa
crescere il costo del debito e l’indice di indebitamento ottimale si riduce (ma questo solo se il tasso di
interesse oscilla oltre l’intervallo normale, mentre per piccole variazioni del tasso questo non avviene);
- Differenziale per il rischio d’insolvenza: il rischio d’insolvenza riduce il livello di indebitamento ottimale
e tende ad aumentare nei periodi di recessione.

Market Timing
Secondo Baker e Wurgler la decisione dei manager di ricorrere al debito o al capitale netto per finanziare i
progetti è più una questione di market timing e non di trade-off tra costi e benefici del debito. Se il
management ha la sensazione che le azioni della propria società siano sopravvalutate, farà ricorso al CN, se
ha la sensazione che siano sottovalutate, farà ricorso al debito. Se ha la sensazione che i tassi d’interesse
sono bassi, farà ricorso al debito, se sente che sono alti, farà ricorso al CN. Quindi, l’indice di indebitamento
è il risultato dei tentativi da parte del management di calcolare i tempi dei mercati azionari e obbligazionari.

Limiti del metodo standard del costo del capitale


- Limite del rating obbligazionario: il rischio di insolvenza dell’impresa al punto in cui il WACC risulta
minimizzato potrebbe essere abbastanza elevato da mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa,
cioè l’impresa potrebbe avere un WACC minimo e allo stesso tempo un rating obbligazionario al di sotto
della soglia minima (BBB). Un modo per usare il metodo del costo del capitale senza mettere le imprese
in pericolo di dissesto finanziario (senza fare in modo che le imprese non ricevano più prestiti) consiste
nell’imporre un limite minimo al rating obbligazionario nell’analisi del WACC e a questo punto l’indice di
indebitamento ottimale risulta essere quello in corrispondenza del quale il WACC è minimizzato e il rating
obbligazionario associato è pari o superiore a quello minimo prescelto. Questo approccio è molto
semplice ma è soggettivo, per cui il management può insistere nel fissare un rating minimo che risulta
troppo ambizioso (troppo elevato) da raggiungere avendo al contempo un WACC minimo. Per
responsabilizzare il management si può misurare il “costo associato al mantenimento di un certo rating”
= Valore massimo dell’impresa senza vincoli sul rating – Valore massimo dell’impresa al livello di rating
prescelto. Infatti, un vincolo di rating troppo elevato genera una perdita di valore che è il costo per fare
una politica di indebitamento eccessivamente prudente.
- Analisi di sensibilità: l’indice di indebitamento ottimale varia in funzione degli input che rientrano nel
calcolo del WACC, direttamente (beta, tasso privo di rischio, premio per il rischio, differenziale per il rischio
d’insolvenza) o indirettamente (in funzione del reddito operativo, perché gli indici di copertura degli oneri
finanziari si basano sul RO e sono usati per stimare il rating e i tassi d’interesse).

Dopo aver calcolato l’indice di indebitamento ottimale con gli input attuali, le imprese possono sottoporlo
ad uno stress test variando gli input specifici d’impresa e quelli macroeconomici. Così, l’indice di
indebitamento rifletterà la volatilità delle variabili sottostanti e l’avversione al rischio da parte del
management.

8.1.2 Metodo avanzato del costo del capitale


I principali limiti del metodo tradizionale sono che il reddito operativo viene mantenuto fisso (mentre il rating
obbligazionario varia) e che nel calcolare l’indice di indebitamento ottimale si ignorano i costi indiretti del
fallimento.
Nel metodo avanzato del costo del capitale, invece, i costi indiretti del fallimento vengono inseriti nel reddito
operativo atteso. Per cui, se il rating si riduce, anche il RO si riduce, perché riflette il comportamento dei
clienti, dei fornitori e degli investitori che reagiscono alla riduzione del rating. Poiché rating e RO sono
collegati, per quantificare i costi indiretti del fallimento bisogna calcolare in che misura ci aspetteremmo che
il RO scenda qualora scenda il rating obbligazionario. Gli effetti del rating sul RO dipendono dal settore (cioè
dal modo in cui clienti, fornitori e finanziatori reagiscono) e i costi del fallimento dipendono dal periodo (cioè
dalla facilità di accesso ai mercati finanziari e di vendita degli asset).
Spesso, per stimare l’effetto del peggioramento del rating sul RO si osserva il passato di altre imprese
operanti nello stesso settore.
Una volta fatto il collegamento tra rating e RO bisogna modificare il metodo del costo del capitale in modo
tale che restituisca l’indice di indebitamento ottimale: piuttosto che andare alla ricerca dell’indice di
indebitamento che comporta il minore costo del capitale (metodo standard) si va alla ricerca dell’indice di
indebitamento ottimale che comporta il maggior valore dell’impresa, attraverso una combinazione di utili
per azione elevati (scudo fiscale e interessi) e basso costo del capitale.

8.1.3 Metodo del costo del capitale in casi particolari


Il metodo del costo del capitale funziona solo per le imprese industriali quotate. Per calcolare l’indice di
indebitamento di altri tipi di imprese, bisogna variare il metodo del costo del capitale. I casi particolari sono:
1) Imprese con eventi particolari: imprese cicliche, di materie prime, con eventi straordinari;
2) Società che fanno parte di un gruppo: affidabilità creditizia del gruppo, obiettivo della massimizzazione
del valore del gruppo;
3) Imprese non quotate;
4) Imprese di servizi finanziari.

1) Imprese con eventi particolari


L’input che determina la struttura finanziaria ottimale è il reddito operativo attuale, ma poiché queste
imprese sono condizionate da eventi ciclici o temporanei, per calcolare il reale impatto del RO sulla struttura
finanziaria bisogna stimare il reddito operativo normalizzato, che misura gli utili che un’impresa è in grado
di realizzare nel corso di un anno “normale”. Il metodo per “normalizzare” il RO varia in base al tipo di
impresa:
- Imprese cicliche: il RO è influenzato da eventi economici ciclici, per cui il RO normalizzato viene stimato
usando il margine operativo medio relativo ad un intero ciclo economico (da 5 a 10 anni).
RO normalizzato = margine operativo medio del ciclo * ricavi attuali.
- Imprese di materie prime: il RO normalizzato viene stimato facendo un’ipotesi sul prezzo normalizzato
della materia prima (usato poi per generare ricavi ed utili normalizzati).
- Imprese con eventi straordinari: il RO è influenzato da fattori specifici dell’impresa, per cui il RO
normalizzato viene stimato usando il margine operativo medio del settore. RO normalizzato = margine
operativo medio del settore * ricavi attuali. In alternativa si può anche usare la redditività operativa del
capitale (ROC) durante un ciclo economico o del settore di appartenenza.

2) Società che fanno parte di un gruppo


La logica di minimizzare il WACC non cambia, ma il meccanismo può risultare distorto da 3 fattori:
- Affidabilità creditizia del gruppo: il costo del debito è legato all’affidabilità creditizia del gruppo e non
alla sua sola forza finanziaria. Inoltre, un’impresa in difficoltà finanziarie che fa parte di un gruppo in
buone condizioni potrebbe riuscire a prendere in prestito una quantità maggiore di fondi ad un tasso di
interesse inferiore rispetto ad una società simile indipendente.
- Obiettivo della massimizzazione del valore del gruppo: i manager del gruppo non ottimizzano la SFO
delle singole società, ma mirano alla SFO del gruppo.
- Reddito consolidato più stabile: il RO del gruppo dovrebbe essere più stabile rispetto al RO delle singole
società che ne fanno parte, i virtù della diversificazione, quindi l’indice di indebitamento calcolato per il
gruppo sarà maggiore rispetto a quello delle singole imprese.

3) Imprese non quotate


Nell’analisi dell’indebitamento le imprese non quotate presentano delle differenze rispetto a quelle quotate:
- Non è possibile calcolare in maniera diretta il valore di mercato, per cui si effettua una stima;
- Per calcolare il costo del CN non si può usare il beta perché l’impresa non quotata non è diversificata;
- Il costo del debito non è dato dal rating ma dal tasso di interesse che le banche applicano sul prestito
bancario.

Quindi per analizzare l’indice di indebitamento ottimale bisogna fare delle distinzioni:
- Per stimare il valore dell’impresa non quotata si prende il valore di mercato delle imprese quotate nello
stesso settore;
- Per stimare il costo del CN dell’impresa non quotata si usa il beta totale e non solo il beta di mercato;
- Per stimare il costo del debito dell’impresa non quotata si usa il rating sintetico (basato sull’indice di
copertura degli oneri finanziari).

4) Imprese di servizi finanziari


Per queste imprese (banche, imprese assicurative, etc.) l’applicazione del metodo del WACC ha 3 problemi:
- Dato il loro oggetto sociale, hanno un indebitamento molto alto, per cui il debito è un input come le
materie prime. Infatti, l’indice di copertura degli oneri finanziari e il rating obbligazionario vengono stimati
separatamente, perché se si tenesse conto della loro relazione (visto il grande indebitamento) il rating
sarebbe troppo basso.
- Difficoltà di stimare il debito a causa delle tante forme di finanziamento (una soluzione può essere quella
di considerare solo i finanziamenti a lungo termine).
- Tali imprese sono regolamentate e quindi devono rispettare alcuni vincoli patrimoniali (imposti dalla
commissione europea) che di fatto impediscono all’impresa di raggiungere indici di indebitamento
ottimali. Questi vincoli variano a seconda dell’attività svolta (saranno più elevati per attività rischiose).

Date queste caratteristiche, tali imprese hanno 3 diverse strategie per ottenere una SFO:
- Strategia del minimo regolamentativo: le imprese si attengono al capitale netto minimo imposto dalla
regolamentazione o sfruttano le lacune della regolamentazione. Ottengono un’elevata redditività del CN
nei periodi favorevoli, ma si paleserà il rischio dell’investimento.
- Strategia dell’autoregolamentazione: inizialmente le imprese non si attengono alla regolamentazione,
ma stimano quanto CN è necessario raccogliere per riuscire a coprire le perdite. Fatto ciò, verificano se i
loro criteri soddisfano i requisiti patrimoniali della regolamentazione. Costringe l’impresa a valutare il
rischio (Value At Risk) dell’attività in cui opera ma richiede molti dati e c’è possibilità di errore.
- Strategia combinata: i coefficienti patrimoniali imposti dalla regolamentazione fungono da base per le
attività consolidate e l’impresa aggiunge “ammortizzatori” di sicurezza dove necessario.

Il Value At Risk misura la potenziale perdita di valore di un asset o di un portafoglio rischioso in un dato
periodo, dato un certo intervallo di confidenza (intervallo di valori plausibili: es. 95%). Viene utilizzato dalle
banche commerciali e di investimento per calcolare la potenziale perdita di valore dei loro portafogli
negoziati in un certo periodo sfavorevole di mercato. Questo valore viene poi confrontato con le riserve di
capitale e di liquidità disponibili affinché l’impresa riesca a coprire le perdite senza rischi. Quindi, il VAR si
concentra sul rischio “negativo” e le banche lo usano perché hanno paura di una crisi di liquidità che cancelli
il capitale.

8.2 Metodo del valore attuale modificato


Il presupposto è che il beneficio principale del debito è legato al risparmio fiscale e che il costo più importante
del debito è rappresentato dal rischio di fallimento. Il valore dell’impresa è dato dalla somma tra costi e
benefici del debito: Valore dell’impresa levered = valore dell’impresa unlevered + VA benefici fiscali del debito
– VA costi del fallimento. Dunque, il valore dell’impresa viene stimato attraverso 3 fasi:
1) Stimare il valore dell’impresa priva di debito: viene calcolato attualizzando i flussi di cassa operativi al
𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝟎𝟎 (𝟏𝟏+𝒈𝒈)
netto dell’imposta al capitale netto. 𝑉𝑉𝑉𝑉𝑉𝑉𝑉𝑉𝑉𝑉𝑉𝑉 𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖 𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢 = ∑𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏 𝑷𝑷 −𝒈𝒈
𝒖𝒖
- FCFF: livello ottimale del flusso di cassa operativo al netto d’imposta;
- Pu = costo CN con zero debito;
- g = tasso crescita atteso.
𝜷𝜷
Pu può essere stimato nel seguente modo: 𝜷𝜷𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼𝑼 = 𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝑫𝑫
�𝟏𝟏+(𝟏𝟏−𝐭𝐭) �
𝑬𝑬
In alternativa: Valore impresa unlevered = VA impresa attuale – VA benefici fiscali – Costi fallimento attesi.
2) Calcolare il VA dei benefici fiscali connessi al debito: i benefici fiscali vanno attualizzati al costo del debito
(tasso di interesse per il debito preso a prestito). Se consideriamo i benefici fiscali come una rendita
perpetua, allora il VA dei benefici fiscali sarà = (Costo del debito * Aliquota d’imposta * Debito) / Costo
del debito = (rd * tc * D)/ rd = tc * D.
3) Stimare il VA dei costi del fallimento attesi derivanti dal debito: VA costi di fallimento attesi = Probabilità
di fallimento * VA costi fallimento = πa * BC. La probabilità di fallimento (cioè la probabilità di insolvenza
associata ad un aumento del debito) può essere stimata in 2 modi opposti:
- Rating obbligazionario: si stima il rating obbligazionario per ciascun livello di indebitamento e ad ogni
classe di rating si associa la probabilità di insolvenza;
- Caratteristiche dell’impresa: si usa un approccio statistico che consente di stimare le probabilità di
insolvenza per ciascun livello di indebitamento a partire da caratteristiche osservabili dell’impresa. Per
osservare queste caratteristiche occorre un elenco storico di tutte le imprese fallite e in attività. Poi si
procede per fasi: (1) Identificare un evento con 2 risultati possibili (evento si verifica, evento non si
verifica); (2) Raccogliere informazioni su tutte le imprese coinvolte nell’evento; (3) Specificare le
variabili misurabili e osservabili che dovrebbero provocare l’evento; (4) Raccogliere informazioni sulle
suddette variabili (indipendenti) per le imprese che hanno dichiarato il fallimento; (5) Identificare quali
delle variabili indipendenti sono state statisticamente significative in una regressione da esito binario
0 e 1; (6) Il risultato della regressione è la probabilità di fallimento (la variabile dipendente è costituita
dal verificarsi dell’evento mentre le variabili indipendenti sono quelle della fase 3 e 4).
Dunque, il valore dell’impresa indebitata può essere calcolato sommando i costi e i benefici per ciascun livello
𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝐹𝑡𝑡 𝑵𝑵 𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝟎𝟎 (𝟏𝟏+𝒈𝒈)
di indebitamento: 𝑉𝑉𝑉𝑉 𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖𝑖 𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙 = ∑𝑁𝑁
𝑡𝑡=1 (1+𝑃𝑃 ) + 𝑡𝑡𝑐𝑐 𝐷𝐷 − 𝜋𝜋𝑎𝑎 𝐵𝐵𝐵𝐵 = ∑𝒕𝒕=𝟏𝟏 𝑷𝑷 −𝒈𝒈
+ 𝒕𝒕𝒄𝒄 𝑫𝑫 − 𝝅𝝅𝒂𝒂 𝑩𝑩𝑩𝑩
𝑢𝑢 𝒖𝒖
𝒕𝒕𝒄𝒄 𝑫𝑫 = VA dei benefici fiscali
𝝅𝝅𝒂𝒂 𝑩𝑩𝑩𝑩 = VA del costo del fallimento
Il livello di debito al quale il valore dell’impresa indebitata risulta massimizzato rappresenta l’indice di
indebitamento ottimale.

Vantaggi del metodo del VAM:


- Scompone gli effetti del debito permettendo una stima più precisa dei tassi di attualizzazione da usare
per ciascuna componente;
- Rimuove le ipotesi di costanza dell’indice di indebitamento usate nel metodo del costo del capitale;
- Mantiene fisso l’ammontare del debito e calcola costi e benefici associati a quest’ultimo.
Svantaggio del metodo del VAM: difficoltà di stimare la probabilità di insolvenza e il costo del fallimento (per
tale ragione, spesso gli analisti ignorano tali costi, e se le ipotesi di partenza sono le stesse, il metodo del
VAM e quello del costo del capitale danno risposte identiche).

8.3 Metodo del reddito operativo


È il metodo più semplice per determinare quanto debito occorre prendere in prestito. Come punto di
partenza si fissa un livello di probabilità di insolvenza massima accettabile da parte dell’impresa, poi si
analizza la distribuzione del RO e dei flussi di cassa per stimare il livello di debito che l’impresa può sostenere
senza superare quello massimo.

Fasi:
1) Valutare la capacità di generare RO (considerando le condizioni attuali, la sua performance passata e la
probabilità che si verifichi);
2) Stimare interessi e quota capitale che devono essere pagati nel tempo, per ogni livello di debito;
3) Stimare la probabilità d’insolvenza (probabilità che non riesca a coprire interessi e capitale con il RO);
4) Stabilire la probabilità massima di insolvenza accettabile;
5) Confrontare la probabilità d’insolvenza stimata in corrispondenza di ciascun livello di debito con la
probabilità massima che l’impresa è disposta a tollerare (se la probabilità di insolvenza è superiore a
quella massima accettabile, l’impresa sceglierà un livello inferiore di debito fino ad identificare il livello di
debito corrispondente alla probabilità max di insolvenza che l’impresa ritiene accettabile).

Limiti del metodo:


- La stima della distribuzione del RO non è semplice perché può variare di anno in anno;
- Anche quando si riesce a stimare una distribuzione, può non risultare “normale” e le variazioni annuali
del RO possono non riflettere il rischio di performance negative consecutive;
- Questo metodo comporta una politica di indebitamento troppo prudente (perché per pagare la quota
capitale considera solo il RO, tralasciando le riserve e l’accesso ad altri finanziamenti);
- La probabilità massima di insolvenza stabilita dal management è soggettiva (riflette le sue preoccupazioni
e non gli interessi degli azionisti).

Questo metodo però è semplice perché si basa su dati storici e ipotizza che il RO abbia una distribuzione
normale. Per renderlo più complesso si può:
- Fare simulazioni probabilistiche del RO futuro (invece dei dati storici), così da incorporare anche la
performance futura;
- Considerare i costi indiretti del fallimento (oltre al rischio di insolvenza);
- Calcolare i benefici fiscali attesi e confrontarli con i costi del fallimento attesi.

8.4 Metodo dell’analisi comparata


L’indice di indebitamento di un’impresa viene confrontato con l’indice di imprese simili.
Il confronto può essere fatto:
- Con la media del settore: le imprese scelgono la propria struttura finanziaria sulla base dell’indice di
indebitamento medio delle altre imprese che operano nello stesso settore. Si fanno 2 ipotesi: le imprese
operanti nello stesso settore sono comparabili all’impresa in esame; in media tali imprese operano a
livello ottimale o quasi.
- Con l’intero settore: le imprese che operano nello stesso settore possono avere ampie differenze (in
termini di aliquote d’imposta, capacità di generare RO e flussi di cassa e varianza del RO). Per tenere conto
di tali differenze, si effettua una regressione degli indici di indebitamento rispetto a queste variabili, per
le imprese che operano nel settore. Tali regressioni riescono a spiegare solo parte delle differenze tra le
imprese in termini di indici di indebitamento.

Tra i due metodi si preferisce il confronto con la media del settore per 2 ragioni:
- Seguire il leader: le imprese tendono ad imitare la struttura finanziaria del leader del settore perché
sperano di ottenere il suo stesso successo.
- Migrazione del gregge: i manager delle imprese si sentono più sicuri nel fare quello che fanno gli altri del
“gregge” e quindi pur di seguire il gregge sono disposti anche ad accollarsi una quantità rilevante di debito.

CAP. 9 – LA STRUTTURA DEL CAPITALE: IMPLEMENTAZIONE

9.1 Modificare la struttura finanziaria


Un’impresa con indice di indebitamento diverso da quello ottimale deve decidere se:
• Mantenere la struttura finanziaria attuale;
• Adeguarsi alla struttura finanziaria ottimale: in questo caso l’impresa deve fare 2 tipi di scelte. Nella 1°
scelta deve decidere se vuole cambiare il rapporto di indebitamento in maniera rapida o graduale. Nella
2° scelta deve decidere se vuole utilizzare nuovi finanziamenti per investire in nuovi progetti o modificare
la struttura finanziaria per supportare i progetti in essere.

Gli azionisti e la minaccia del fallimento (per troppo indebitamento) spingono il management ad adottare la
struttura finanziaria ottimale. Infatti, il costo del mantenimento della struttura attuale è rappresentato dalla
mancata creazione di valore per gli azionisti (che si avrebbe con una struttura ottimale).

9.2 Mantenere o adeguarsi


L’indice di indebitamento ottimale è la struttura finanziaria alla quale il valore dell’impresa risulta
massimizzato, ma nonostante dall’analisi possa risultare che l’impresa sia sotto o sovra indebitata, non
sempre essa decide di adeguare la sua struttura finanziaria, poiché la scelta di non adeguarsi può essere
coerente con l’obiettivo di massimizzare il valore dell’impresa. Dunque, vi sono alcuni motivi per i quali
l’impresa decide di non variare la struttura finanziaria:
• Le imprese sottoindebitate scelgono di avere un livello di debito inferiore a quello ottimale perché:
- Non perseguono l’obiettivo di massimizzare il valore dell’impresa, ma quello di massimizzare l’utile
netto o mantenere un rating obbligazionario elevato.
- Al debito sono associate delle clausole Covenant che limitano la flessibilità (ossia le politiche di
investimento, finanziamento e dividendi). Le imprese che apprezzano maggiormente la flessibilità
finanziaria sono quelle con: limitato accesso ai mercati finanziari (imprese piccole, non quotate,
emergenti), progetti che creano extrarendimento (le imprese che operano in settori stabili e
competitivi hanno progetti con extrarendimenti pari a zero), incertezza sulle future necessità di
investimento (infatti le imprese che possono prevedere con certezza le loro necessità di reinvestimento
non hanno bisogno di mantenere della capacità di debito inutilizzata, perché possono prevedere di
raccogliere capitale con molto anticipo).
- Le necessità di finanziamento future sono incerte (per cui lasciano capacità di debito inutilizzata per
far fronte ad eventuali necessità future);
- Le imprese non quotate danno un peso eccessivo al rischio di fallimento associato ad un maggiore
indebitamento.
• Le imprese sovraindebitate scelgono di avere un livello di debito superiore a quello ottimale quando il
Governo ha l’abitudine di proteggerle dai costi associati all’insolvenza, soccorrendole in caso di dissesto
finanziario e garantendo il loro debito.

9.3 Cambiamento rapido o graduale


Se le imprese scelgono di adeguarsi, la prima scelta da fare è se scegliere un adeguamento rapido o graduale.
In generale, un cambiamento immediato consente di usufruire da subito dei benefici legati alla riduzione del
WACC e all’aumento del valore dell’impresa, però se la stima dell’indice è errata, ciò crea un maggior rischio
perché se poi deve tornare indietro dovrà sostenere dei costi.
• Per le imprese sottoindebitate la decisione di adeguarsi in maniera rapida/graduale dipende da alcuni
fattori:
- Stima dell’indice di indebitamento ottimale: maggiore è la probabilità di errore nella stima della leva
finanziaria ottimale, più le imprese sceglieranno di adeguarsi gradualmente (es. per le imprese che
operano in settori volatili). L’errore è dovuto all’incertezza sugli input da inserire nel calcolo dell’indice.
- Comparabilità con il settore: quando l’indice di indebitamento ottimale di un’impresa è molto diverso
da quello del settore, essa si adegua gradualmente perché le agenzie di rating potrebbero non guardare
di buon occhio tale cambiamento.
- Probabilità di scalata: le imprese sottoindebitate hanno più probabilità di essere acquistate, correndo
quindi il rischio di essere scalate. Maggiore è questo rischio, maggiore è la probabilità che l’impresa
sceglierà di aumentare il livello di indebitamento rapidamente. La probabilità di scalata dipende da:
esistenza di leggi statali e clausole statutarie (più sono restrittive, minore è la probabilità di scalata),
dimensioni dell’impresa (acquisire una grande impresa è più oneroso), ammontare delle azioni in mano
ai fondatori e ai manager (maggiore è la quantità di azioni da loro detenuta, più difficile sarà la scalata),
andamento del prezzo azionario (gli azionisti che hanno subito una riduzione del valore azionario sono
più vulnerabili a richieste di acquisizione).
- Necessità di flessibilità finanziaria: le imprese hanno bisogno di mantenere una certa capacità di
debito inutilizzata per far fronte a esigenze impreviste di fondi, necessari a mantenere i progetti in
essere o a intraprenderne altri. Maggiore è la flessibilità, più le imprese si adeguano in maniera
graduale.
• Per le imprese sovraindebitate la decisione di adeguarsi in maniera rapida/graduale dipende da alcuni
fattori:
- Stima dell’indice di indebitamento ottimale: maggiore è la precisione della stima della leva finanziaria
ottimale, più le imprese sceglieranno di adeguarsi rapidamente (es. per le imprese che operano in
settori stabili).
- Comparabilità con altre imprese del settore: se l’impresa ha un indice di indebitamento inferiore a
quello delle altre imprese del settore, essa si adeguerà gradualmente.
- Rischio di insolvenza: un debito troppo elevato comporta rating del debito più bassi e quindi tassi di
interesse pagati maggiori. Maggiore è la probabilità di fallimento, più le imprese sceglieranno di
adeguarsi rapidamente (provvedendo a ridurre il debito e avvicinarsi all’indice ottimale).

9.4 Metodi per modificare la struttura finanziaria


Dopo che l’impresa ha scelto il tipo di adeguamento (rapido o graduale), la seconda scelta da fare è quella di
decidere in che modo adeguarsi. Esistono 4 diversi modi per adeguarsi:
1) Ricapitalizzazione con capitale di prestito o capitale netto: il modo più semplice per variare la struttura
finanziaria è quello di cambiare il modo in cui gli investimenti sono finanziati.
Le imprese sottoindebitate possono aumentare l’indice di indebitamento:
- Prendendo in prestito denaro per riacquistare azioni proprie (riducendo le azioni in circolazione) o
pagare i dividendi (riducendo il valore delle azioni);
- Scambiando il CN con il debito: quest’azione può però essere ostacolata da clausole obbligazionarie
(deve quindi valutare i costi delle clausole con i benefici dell’aumento dell’indice). Questo tipo di
ricapitalizzazione spesso è fatta per prevenire le acquisizioni ostili.
Le imprese sovraindebitate possono ridurre l’indice di indebitamento:
- Rinegoziando i contratti di debito: cercando di convincere gli investitori a prendere una quota di
partecipazione al posto del debito;
- Ottenere dagli investitori condizioni contrattuali migliori (scadenze più lunghe, tassi più bassi);
- Emettere nuove azioni e usare il nuovo capitale per ridurre il debito.
2) Cessione di asset e utilizzo dei proventi: le imprese possono vendere le attività e utilizzare le liquidità
ricevute per ridurre il debito o il CN.
Le imprese sottoindebitate possono aumentare l’indice di indebitamento vendendo le attività e
impiegando le nuove liquidità per riacquistare azioni proprie o per pagare i dividendi.
Le imprese sovraindebitate possono ridurre l’indice di indebitamento vendendo le attività e impiegando
le nuove liquidità per rimborsare il debito in circolazione. Le imprese preferiscono vendere gli investimenti
che fruttano rendimenti inferiori a quelli attesi, ma la posizione contrattuale delle imprese
sovraindebitate può essere indebolita dalla necessità di liquidità e gli acquirenti delle attività,
accorgendosi di questa debolezza, possono imporre dei prezzi di vendita delle attività più bassi.
3) Finanziamento di nuovi progetti: le imprese finanziano nuovi investimenti in maniera sproporzionata con
debito o CN. Le imprese sottoindebitate finanziano nuovi progetti con debito (per aumentare
l’indebitamento), mentre le imprese sovraindebitate finanziano nuovi progetti con CN (per ridurre
l’indebitamento). A differenza dei primi 2 metodi, però, siccome i nuovi progetti sono dilazionati nel
tempo, l’indice di indebitamento si adeguerà in maniera graduale. L’investimento in nuovi progetti farà
aumentare sia il valore dell’impresa sia l’ammontare del debito.
4) Modifiche della politica dei dividendi: modificando la % di utili distribuiti agli azionisti. Le imprese
sottoindebitate possono aumentare l’indice di indebitamento aumentando i dividendi o riacquistando
azioni proprie, in quanto queste 2 azioni riducono il CN. In particolare, l’aumento dei dividendi aumenta
l’indebitamento in 2 modi, poiché da un lato riduce la liquidità, che riduce il valore dell’impresa e quindi
il valore azionario, e dall’altro fa aumentare il finanziamento esterno per finanziare nuovi progetti. Le
imprese sovraindebitate possono ridurre l’indice di indebitamento riducendo i dividendi, in quanto la
liquidità liberata dagli utili non distribuiti viene utilizzata per ridurre il debito. In questo caso l’indice di
indebitamento si riduce in maniera graduale perché il CN aumenta di un ammontare pari al tasso di
crescita del prezzo azionario (dato dalla differenza tra il costo del CN e il tasso dei dividendi atteso).

Scelta delle alternative


La scelta fra le varie alternative è determinata da 3 fattori:
- Urgenza dell’impresa nel raggiungere l’indice di indebitamento ottimale: la ricapitalizzazione e le cessioni
di asset possono essere fatte in poche settimane, mentre il finanziamento di nuovi progetti e cambiare la
politica dividendi richiedono un cambiamento graduale.
- Qualità dei nuovi progetti: i progetti validi sono quelli con VAN positivo (rendimento atteso > soglia
minima), per cui le imprese sottoindebitate possono aumentare il valore investendo in progetti validi
finanziati da nuovo debito, mentre le imprese sovraindebitate possono aumentare il valore investendo in
progetti validi finanziati con CN.
- Liquidità delle attività in essere: in linea generale alle imprese conviene cedere attività con VAN negativo,
ma prima di farlo devono valutare se il prezzo di cessione è maggiore dei flussi di cassa attesi che gli asset
avrebbero prodotto in futuro.
Le imprese possono fare anche diverse combinazioni delle alternative quando ad esempio l’impresa è di
grandi dimensioni e le variazioni dell’indice di indebitamento è significativa.

Shock del debito


Fare maggiore ricorso al debito rende l’impresa più rischiosa e ciò può comportare:
- Paralisi decisionale: il management potrebbe rifiutare di fare nuovi investimenti con rischio incerto (che
magari avrebbe fatto se fosse stata meno indebitata);
- Enfasi sul breve termine: il management potrebbe scegliere di investire in progetti che generano pay-off
nel breve termine, così da riuscire a coprire gli interessi e la quota capitale sul debito;
- Problema dell’autoselezione: è possibile il management che veda utili più elevati in futuro e quindi decide
di prendere in prestito grosse somme di denaro.

Titoli ibridi
I titoli ibridi (come le obbligazioni convertibili) sono combinazioni di debito e CN. Se viene esercitata l’opzione
di conversione, l’impresa sovraindebitata potrebbe aumentare il CN e diminuire il debito. Altro modo per
ridurre l’indebitamento può essere quello di emettere Warrant e CVR. L’impresa sottoindebitata, invece, può
aumentare l’indice di indebitamento sottoscrivendo un contratto per consegna differita col quale si impegna
ad acquistare un determinato numero di azioni proprie in futuro (in questo modo dà ai mercati finanziari un
segnale più credibile rispetto all’annuncio di un programma di riacquisto delle azioni proprie, perché in
quest’ultimo caso le imprese non hanno poi l’obbligo di realizzarlo).

9.5 Scegliere gli strumenti finanziari appropriati


Teoricamente, la combinazione ottimale è quella che allinea i flussi di cassa in uscita relativi alle passività
con i flussi di cassa in entrata generati dalle attività. Per fare una scelta appropriata bisogna seguire 5 fasi:

Fase 1: allineare flussi di cassa passivi con flussi di cassa attivi


La ricerca di questo allineamento deve essere ottenuta poiché il valore dell’impresa è esso stesso dato dai
flussi di cassa attesi dai suoi investimenti. Il valore dell’impresa, però, varia nel tempo a causa di fattori
specifici (es. successo del progetto) e di fattori macroeconomici (tasso d’interesse, inflazione, etc.).
In ogni momento, il valore del CN = valore dell’impresa – valore del debito:
- Se l’impresa si finanzia con debito a breve termine, in alcuni periodi potrebbe capitare che valore
dell’impresa < valore del debito e quindi l’impresa è a rischio fallimento. Per ridurre il rischio dovrà ridurre
il debito.
- Se l’impresa si finanzia con debito a lungo termine (perfettamente allineato con le attività dell’impresa),
allora valore dell’impresa è perfettamente allineato al valore del debito. Per cui, il rischio di insolvenza
viene eliminato e questo permetterà all’impresa di ricorrere in misura maggiore al debito, usufruendo dei
benefici fiscali e aumentando il valore dell’impresa.
Dunque, l’allineamento permette alle imprese di avere indici d’indebitamento ottimali “più elevati” e
garantisce l’equilibrio finanziario (minor rischio d’insolvenza, minor costo del debito, minore WACC).

Per poter allineare i flussi di cassa, l’impresa deve capire come i flussi variano nel tempo. Per fare ciò bisogna
considerare 5 fattori delle scelte di finanziamento, evidenziando la relazione con la natura dei flussi generati
dalle attività.
1) Scadenza del finanziamento: gran parte dei benefici dell’allineamento dei flussi si ottengono facendo in
modo che la duration delle attività sia uguale alla duration delle passività, cioè facendo in modo che la
durata dei flussi passivi sia uguale alla durata dei flussi attivi. La duration indica la durata finanziaria di
un’attività o passività. Per misurare la duration delle attività o passività bisogna fare la media ponderata
delle scadenze di tutti i flussi di cassa ad esse associati con pesi basati sia sull’ammontare dei flussi sia
sulla distribuzione temporale dei flussi. Andando più nello specifico:
- Duration di un’attività: è data dalla media delle scadenze dei flussi attesi dal progetto, ponderata con
il loro ammontare e la loro scadenza, e sommando un valore terminale (capital gain) a fino progetto.
𝒕𝒕 × 𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕 𝑵𝑵 × 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕
�∑𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏 + �
(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝒕𝒕 (𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝑵𝑵
𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫 𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂𝒂à =
𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕
�∑𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏 (𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝒕𝒕 + �
(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝑵𝑵
N = periodo in cui viene venduta l’azione;
t = periodo in cui viene pagato ciascun il dividendo.
- Duration di un’obbligazione: è data dalla media delle scadenze dei flussi delle cedole, ponderata con
il loro ammontare e le loro scadenze, e sommando un valore terminale (capital gain) alla scadenza
dell’obbligazione.
𝒕𝒕 × 𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪 𝑵𝑵 × 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏
�∑𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏 + �
(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝒕𝒕 (𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝑵𝑵
𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫 𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐𝒐 =
𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪𝑪 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏𝒏
�∑𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏 (𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝒕𝒕 + �
(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝑵𝑵
N = scadenza dell’obbligazione;
t = periodo in cui ciascuna cedola matura.
La duration di un’obbligazione aumenta all’aumentare della scadenza e diminuisce all’aumentare del
tasso di interesse nominale (r).
In generale, la duration:
- Fornisce una misura di quando maturano i flussi di cassa dell’obbligazione (o dell’azione);
- È una misura approssimativa di quanto il prezzo dell’obbligazione (o dell’azione) varia in risposta a
piccole variazioni dei tassi di interesse;
- È inferiore alla scadenza anagrafica: la durata finanziaria è sempre inferiore alla durata anagrafica
(nominale), solo nelle obbligazioni zero-coupon (privi di cedola) le due durate sono uguali.
Il limite della duration consiste nel fatto che mantiene invariati i flussi di cassa al variare dei tassi di
interesse, perciò la vera duration della maggior parte dei progetti sarà superiore alle stime ottenute.
Un altro modo per stimare la duration è costituito dall’analisi dei dati storici: poiché la duration misura
la sensibilità del valore dell’attività al variare del tasso di interesse, allora si può ottenere una misura della
duration inserendo i rispettivi dati storici in una regressione: Δ valore dell’attività = a + b Δ tasso
d’interesse t, dove b è il coefficiente che risulta dalla regressione (che dovrebbe fornire la reale misura
della duration). Per le imprese quotate in Borsa, il valore dell’attività da inserire nella regressione è dato
dalla somma dei valori di mercato di debito e CN. Per le imprese non quotate si può usare la variazione
del Reddito Operativo: Δ RO = a + b Δ tasso d’interesse t.
Per allineare la duration delle attività e delle passività vi sono 2 strategie:
- Allineare le singole attività e passività: questa strategia genera un allineamento preciso tra le
caratteristiche di ogni attività/passività, ma genera anche dei problemi perché finanziare
separatamente ogni progetto è costoso (perché ogni volta che si raccolgono capitali si devono
sostenere costi di emissione) e non considera le interazioni tra i diversi progetti (infatti questa strategia
è adatta ad imprese con investimenti grandi e indipendenti);
- Allineare l’insieme delle attività e passività: si preferisce questa strategia perché è più semplice e meno
costosa. Nel caso in cui duration passività > duration attività, bisogna estendere la duration delle
passività, e per farlo si hanno 3 modi (finanziare nuovi investimenti con debito con duration più lunga,
estinguere una parte del debito a breve termine e rimpiazzarlo con quello a lungo termine, scambiare
debito a breve termine con debito a lungo termine).
2) Scelta tra tassi fissi e tassi variabili: nella scelta tra tasso nominale sulle obbligazioni o tasso di interesse
sul prestito bancario, fisso o variabile, bisogna considerare le caratteristiche dei progetti.
L’impresa ricorre a prestiti a breve termine a tasso variabile quando ha:
- Incertezza sulla duration dei progetti futuri;
- Progetti con rendimenti che aumentano all’aumentare del tasso d’inflazione: specularmente, conviene
che finanzi tali progetti con prestiti a tasso variabile, dove bisogna pagare interessi che aumentano
all’aumentare dei tassi di interesse di mercato, e diminuiscono al ridursi dei tassi stessi. I tassi variabili
sono però rischiosi perché c’è il rischio che l’impresa non riesca a pagare interessi elevati. Infatti, non
è automatico che l’aumento dell’inflazione fa aumentare anche i profitti, ma bisogna considerare
alcuni fattori. Uno di questi è il “potere di prezzo” dell’impresa, cioè la capacità di incrementare i prezzi
senza perdere quote di mercato, trasferendo i costi dell’inflazione ai consumatori.
3) Scelta della valuta: il rischio della valuta si crea quando un’attività dell’impresa crea flussi di cassa
denominati in una valuta diversa da quella in cui è denominato il CN. Per ridurre tale rischio, si può
emettere debito (obbligazioni o prestito) nella valuta estera.
4) Scelta fra obbligazioni ordinarie e convertibili: le obbligazioni ordinarie richiedono pagamenti di interessi
elevati e potrebbero includere le clausole Covenant (che limitano la flessibilità, ossia le politiche di
investimento, dividendi e finanziamento), per cui sono sconsigliate alle imprese con bassi flussi di cassa.
Le obbligazioni convertibili richiedono pagamenti di interessi più bassi, impongono meno limitazioni e
acquisiscono valore se percepiscono che il valore dell’impresa (cioè i flussi di cassa) ha una elevata crescita
futura (infatti possono essere convertite in azioni ordinarie quando l’impresa ha successo).
5) Caratteristiche speciali di finanziamento: per proteggersi parzialmente contro il rischio di insolvenza si
possono associare speciali caratteristiche alle obbligazioni o al debito, creandosi uno scudo protettivo
contro il rischio o rischi più seri. Per esempio le imprese che operano nel settore della materie prime
possono emettere obbligazioni personalizzate nelle quali gli interessi e la quota capitale sono legati al
prezzo delle materie prime.

Fase 2: esaminare le implicazioni fiscali


Conoscere la normativa fiscale è importante nella scelta degli strumenti finanziari perché:
- Man mano che le imprese cercano di strutturare il debito, per renderlo più simile al CN, sorge il rischio
che le autorità fiscali decidano di trattare il finanziamento alla stregua del CN e impediscano all’impresa
di detrarre il pagamento degli interessi, e si corre il rischio di vedere il beneficio fiscale cancellato da
successive variazioni della normativa tributaria.
- Il trattamento fiscale privilegiato di alcuni strumenti finanziari potrebbe incoraggiare le imprese a
ricorrervi in una misura maggiore di quanto suggerito dall’analisi delle caratteristiche dei flussi di cassa
delle attività.

Fase 3: valutare la reazione delle agenzie di rating, analisti finanziari e organismi di regolamentazione
Le imprese sono interessate alle reazioni degli analisti finanziari (che rappresentano il punto di vista degli
azionisti) e delle agenzie di rating (che rappresentano il punto di vista degli obbligazionisti), perché i due
gruppi valutano le medesime azioni di un’impresa in maniera opposta e usano criteri diversi per misurare
l’impatto delle scelte di finanziamento di un’impresa. Gli analisti valutano le scelte finanziarie di un’impresa
in base al loro impatto sugli utili per azione e valutano l’impresa in relazione ad altre imprese simili. Le
agenzie di rating valutano le scelte finanziarie in base al loro impatto sugli indici finanziari usati per valutare
il rischio di insolvenza (a dare il rating).
Vista l’importanza delle valutazioni fatte dai 2 gruppi, le imprese a volte strutturano i propri titoli finanziari
con l’intento di soddisfare le aspettative di entrambi i gruppi. Per esempio, negli ultimi anni le compagnie
assicurative USA hanno emesso “surplus notes”, titoli che vengono considerati come debito dalle agenzie di
rating e CN dagli analisti finanziari. Inoltre, le imprese possono porre in essere scelte finanziarie che non
vengono rilevate dai 2 gruppi, come ad esempio il leasing operativo che non viene riportato nello SP e quindi
l’impresa può indebitarsi senza impattare sulla misura di indebitamento delle agenzie di rating.

Fase 4: esaminare gli effetti dell’asimmetria informativa


Le imprese in genere hanno molte più informazioni sulle proprie prospettive future, rispetto ai mercati
finanziari. Questa asimmetria informativa induce le imprese ad investire meno di quanto dovrebbero. Una
soluzione è emettere debito a breve termine anche se le attività da finanziare sono a lungo termine. Se
l’asimmetria riguarda l’incertezza sui flussi di cassa a lungo termine, le imprese dovrebbero emettere debito
cedolare a lungo termine, con delle restrizioni sui dividendi. Quando l’incertezza informativa è distribuita in
modo uniforme nel corso del tempo, le imprese dovrebbero ricorrere al debito a breve termine.

Fase 5: considerare le implicazioni in termini di costi di agenzia


Nella scelta delle fonti di finanziamento bisogna considerare l’inserimento di caratteristiche che riducono i
conflitti d’agenzia (e i relativi costi) fra azionisti e obbligazionisti. Ad esempio, per ridurre tali conflitti/costi
si possono emettere obbligazioni convertibili (poiché si traferisce ricchezza dagli obbligazionisti agli azionisti,
si riduce il rischio che gli azionisti possano fare investimenti rischiosi) o obbligazioni con clausole Put
(obbligazionisti possono restituire le obbligazioni all’impresa in cambio del valore inziale, se l’impresa compie
una certa azione o il rating diminuisce).
CAP. 10 – DETERMINANTI DELLA POLITICA DEI DIVIDENDI

La politica dei dividenti riguarda essenzialmente una duplice decisione alternativa relativa al risultato
d’esercizio ottenuto a fine anno:
- Distribuirlo agli azionisti in proporzione alle quote da essi detenute;
- Reinvestirlo nell’attività d’impresa (riserve): autofinanziamento.

Solitamente, il dividendo non può essere distribuito in presenza di perdite e l’importo da distribuire non può
essere superiore all’utile conseguito. Inoltre, la distribuzione degli utili riduce le attività, quindi bisogna
distribuire ricchezza solo se non ci sono progetti di investimento con rendimento accettabile.

10.1 Dividendi: aspetti procedurali


Il processo di pagamento dei dividendi segue il seguente percorso:
- Annuncio del dividendo: il c.d.a. annuncia l’ammontare del dividendo che sarà distribuito;
- Data di ex dividendo: data entro cui bisogna aver acquistato l’azione affinché l’investitore possa ricevere
il dividendo;
- Lista degli azionisti: la società redige la lista degli azionisti che hanno diritto ai dividendi;
- Pagamento dei dividendi.

10.2 Tipologie di dividendi


In base alla forma, i dividendi si possono distinguere in:
- Cash dividend: vengono pagati sotto forma di liquidità;
- Stock dividend: vengono assegnate azioni supplementari in proporzione alla quota detenuta (poiché il
numero della azioni aumenta senza che venga aumentato anche il capitale sociale, il loro valore si riduce).

In base alla regolarità, i dividendi si possono distinguere in:


- Ordinari: pagati ad intervalli regolari (trimestrali, semestrali, annuali);
- Straordinari: dividendi aggiuntivi rispetto a quelli ordinari (dunque i dividendi totali possono essere
superiori all’utile, in quanto vengono distribuite riserve);
- Da liquidazione: dividendi che derivano dalla distribuzione di riserve di utili o di riserve di capitale (in caso
di liquidazione della società), per cui hanno trattamento fiscale diverso.

10.3 Indicatori della politica dei dividendi


Per misurare l’ammontare dei dividenti da distribuire, si possono usare 2 indicatori:
• Tasso di dividendo = Dividendo annuo per azione / Prezzo per azione
Misura la redditività del dividendo e il rischio dell’investimento. Il tasso di dividendo, però, misura solo
una componente del rendimento azionario totale. L’altra componente e l’apprezzamento azionario
(capital gain). Dunque, il rendimento azionario totale = tasso di dividendo + apprezzamento azionario.
• Rapporto di distribuzione degli utili = Dividendo annuo per azione / Utile per azione
Indica la capacità dell’impresa di autofinanziarsi. Alcuni analisti usano questo indice anche x valutare
l’impresa, stimando la crescita attesa degli utili, per stimare la quale si usa il grado di ritenzione degli utili,
cioè la porzione degli utili non distribuiti e reinvestiti nell’impresa (grado di ritenzione degli utili = 1 –
rapporto di distribuzione). Imprese con elevato grado di ritenzione degli utili, in genere hanno tassi di
crescita degli utili più elevati. Il rapporto di distribuzione tende a seguire il ciclo dell’impresa, partendo da
zero quando l’impresa ha crescita elevata, e crescendo gradualmente man mano che l’impresa matura e
le sue prospettive di crescita diminuiscono.

10.4 Studi empirici sulla politica dei dividendi


Dagli studi fatti sulla “politica dei dividendi” emerge che:
1) I dividendi seguono (in senso temporale) l’andamento degli utili: di solito se gli utili aumentano, i dividendi
fanno di conseguenza;
2) Le politiche dei dividendi sono piuttosto stabili: le imprese di solito non variano frequentemente
l’ammontare dei dividendi perché hanno paura che, un loro aumento non sia sostenibile in futuro e una
loro riduzione crei una reazione negativa dei mercati, che si traduce in cali del prezzo azionario;
3) I dividendi sono più regolari degli utili: la serie temporale dei dividendi è molto più regolare di quella degli
utili (infatti l’analisi dei dati storici rileva che la variabilità dei dividenti è minore della variabilità degli utili);
4) La politica dei dividendi tende a variare in base alla fase del ciclo di vita dell’impresa: le imprese con tasso
di crescita elevato e tante opportunità d’investimento non pagano i dividendi (perché li reinvestono),
mentre quelle più stabili con flussi di cassa positivi pagano i dividendi.

10.5 Differenze fra politiche dei dividendi in diversi paesi


Tali differenze sono attribuibili a 3 fattori:
- Fasi di crescita (più o meno elevata): imprese dei paesi con crescita più elevata tendono a pagare meno
dividendi (prevale l’autofinanziamento);
- Trattamento fiscale: negli USA il dividendo è soggetto alla “doppia imposizione”, in Germania gli utili non
distribuiti sono tassati ad un’aliquota maggiore rispetto a quelli distribuiti, in Inghilterra forniscono un
“credito d’imposta” a coloro che ricevono i dividendi (pari alle imposte sugli utili pagate dalla società), in
Italia prima vigeva il criterio del credito d’imposta, oggi esiste un sistema basato sull’esenzione, nel quale
l’utile viene tassato solo in capo al soggetto che lo ha realmente prodotto (cioè al percettore del
dividendo);
- Controllo societario: nelle imprese dove vi è separazione tra manager e azionisti (cioè nelle grandi
imprese, dove gli azionisti hanno un limitato controllo sul management), si tende a pagare meno dividendi
perché i manager preferiscono accumulare liquidità piuttosto che distribuirle.

10.6 Scuole di pensiero sulla politica dei dividendi


Vi sono 3 scuole di pensiero sulla politica dei dividendi.

1) Irrilevanza della politica dei dividendi


Secondo una scuola di pensiero la politica dei dividendi è irrilevante, nel senso che non avrà alcun impatto
né sul valore dell’impresa e né sugli azionisti. L’assunto principale di questa teoria è che le azioni che pagano
dividendi maggiori avranno un apprezzamento minore (si riduce il prezzo azionario, quindi minore capital
gain), e viceversa, cosicché il loro rendimento totale sarà lo stesso (e rifletterà soltanto le loro caratteristiche
di rischio e i flussi di cassa generati dalle politiche d’investimento). Poi devono valere anche altre ipotesi:
- Assenza di imposte: in un mondo senza imposte o in cui dividendi e capital gain sono tassati allo stesso
modo, per gli investitori sarà indifferente ricevere il loro rendimento sotto forma di dividendi o di capital
gain;
- Il management non sperpera liquidità per fini personali (investendo in progetti mediocri);
- Non esistono costi di transazione sulla vendita delle azioni (altrimenti gli investitori con bisogno
immediato di liquidità potrebbero preferire i dividendi);
- Imprese che distribuiscono dividendi elevati possono finanziare nuovi progetti emettendo nuove azioni
(senza però che vi siano costi di emissione o di transazione);
- La politica di investimento non è influenzata dalla politica dei dividendi;
- Le azioni sono prezzate correttamente.

Se tutte queste condizioni si verificano, la politica dei dividendi sarà irrilevante. Infatti, se l’impresa emette
nuove azioni per aumentare i dividendi, ma i flussi di cassa dell’impresa restano uguali, allora gli azionisti
guadagnano sul dividendo, ma perdono sul prezzo azionario (capital loss), in quando vi sarà un
deprezzamento. Per cui, sia il valore dell’azionista che il valore dell’impresa restano immutati. Infatti,
l’impresa vale per i flussi di cassa che genera e non come e a chi li distribuisce.
Tali ipotesi sono ovviamente irreali, ma la teoria lancia comunque un messaggio importante: l’impresa che
investe in cattivi progetti non può migliorare la sua immagine solamente distribuendo più utili e, al contrario,
può migliorare la sua immagine anche se, investendo in progetti adeguati, non aumenta i dividendi.

2) Preferenza per il capital gain


Questa scuola di pensiero è opposta a quella dei dividendi, poiché sostiene che i dividendi distruggono valore
a causa di una tassazione molto superiore rispetto a quella per il capital gain (come ad esempio avviene negli
USA). Dunque, in questi casi l’impresa preferisce non distribuire gli utili, anche se questo riduce il valore
azionario. Con la modifica del codice tributario nel 2003, però, la tassazione dei dividendi viene allineata a
quella del capital gain.

Il trattamento fiscale dei dividendi varia in base al soggetto che li riceve:


- Singoli investitori: per gli investitori “non qualificati” (che investono in azioni un basso ammontare), le
imposte sui dividendi sono nulle (se il loro reddito è sotto una soglia minima) o comunque inferiori rispetto
alle imposte sul capital gain. Per gli investitori “qualificati” (che investono in azioni un ammontare
elevato), le imposte sui dividendi sono maggiori rispetto alle imposte sul capital gain.
- Investitori istituzionali: per i fondi pensione è prevista l’esenzione delle imposte sui dividendi e sul capital
gain, poiché poi saranno tassate le pensioni future. Per i fondi comuni d’investimento a capitale variabile
non vi è una tassazione diretta, ma vengono tassati il dividendo e il capital gain generati dal fondo. Per le
società è prevista un’esenzione d’imposta del 70% sui dividendi che ricevono da altre società.

I paesi, per proteggere gli investitori dalla doppia imposizione fiscale sui dividendi, usano 2 metodi:
- Sgravi fiscali a livello societario: le società usufruiscono di sgravi fiscali totali o parziali per i dividendi
pagati. Ad esempio in Germania si applicava un’aliquota d’imposta maggiore sugli utili non distribuiti
rispetto agli utili distribuiti, così da avere uno sgravio parziale.
- Sgravi fiscali a livello di singolo investitore: gli investitori usufruiscono di sgravi fiscali totali o parziali per
i dividendi che ricevono. Le tipologie di sgravio possono essere il “credito d’imposta” (le imposte pagate
dalla società vengono usate come credito d’imposta sulle imposte che dovrà pagare l’investitore) o
“aliquote d’imposta più basse” (rispetto ad altre tipologie di reddito imponibile).

Ora vediamo la tassazione dei dividendi in Italia. La normativa italiana sulla tassazione dei dividendi ha
subito numerose modifiche passando da una normativa che privilegiava fortemente il capital gain ad una
normativa abbastanza neutrale. Infatti, dal 2004 la tassazione dipende:
- Dalla % di partecipazione posseduta nella società che distribuisce i dividendi: bisogna quindi fare
distinzione tra partecipazione “qualificata” (nelle società non quotate, 20% del diritto di voto in assemblea
o 25% del capitale sociale, nelle società quotate, 2% del diritto di voto in assemblea o 5% del capitale
sociale) e “non qualificata” (con % inferiori a quelle delle partecipazioni qualificate);
- Dal luogo di residenza della società che distribuisce i dividendi (residente in Italia, in paese estero a
fiscalità ordinaria, residente in paese estero a fiscalità privilegiata): i dividendi di società italiane distribuiti
a società o enti commerciali italiani sono tassati al 5%, mentre quelli distribuiti a persone fisiche, solo il
49,72% dell’ammontare corrisposto concorre a formare il reddito totale (in caso di partecipazioni
qualificate) oppure si applica una ritenuta fiscale del 12,5% da applicare all’intero ammontare (in caso di
partecipazioni non qualificate).
La normativa italiana sulla tassazione del capital gain, invece, prevede quanto segue:
- Per le partecipazioni “qualificate”, solo il 49,72% dell’ammontare corrisposto concorre a formare il reddito
totale;
- Per le partecipazioni “non qualificate”, si applica una ritenuta fiscale del 12,5% da applicare all’intero
ammontare.

3) Preferenza per i dividendi


Le ragioni “non valide” per preferire i dividendi sono:
• Certezza dei dividendi rispetto al capital gain: alcuni investitori preferiscono i dividendi piuttosto che il
capital gain perché i dividendi sono “certi” (quindi gli investitori avversi al rischio preferiscono i dividendi).
In verità, però, la scelta corretta non deve essere tra dividendi certi e capital gain incerto, bensì tra
dividendi oggi e capital gain oggi.
• Eccedenza temporanea dei flussi di cassa: l’impresa deve distribuire i dividendi solo quando ha flussi di
cassa in eccesso, ma alcune imprese pagano dividendi anche quando i flussi di cassa sono temporanei.
Una scelta corretta, invece, sarebbe quella che considera anche le necessità di investimento a lungo
termine, perché se i flussi sono temporanei e negli anni successivi si prevede un calo, allora conviene
trattenere liquidità per coprire i fabbisogni futuri. In alternativa, essa può decidere di pagare i dividendi e
coprire il fabbisogno futuro emettendo nuove azioni (ma bisogna considerare i costi di emissione).

Le ragioni “valide” per preferire i dividendi sono le seguenti:


• Alcuni investitori preferiscono ricevere i dividendi (senza preoccuparsi degli svantaggi fiscali), in quanto
pagano imposte molto basse o hanno bisogno di liquidità.
• L’aumento dei dividendi consente alle imprese di segnalare ai mercati finanziari la propria fiducia nelle
prospettive di crescita future: ogni volta che l’impresa varia la propria politica dei dividendi, i mercati
fanno le loro analisi e valutano le conseguenze sui flussi di cassa futuri, per cui, anche quando si
aumentano i dividendi bisogna cercare di dare un segnale positivo (perché non è detto che ad un aumento
dei dividendi debba corrispondere per forza un segnale positivo);
• Il pagamento dei dividendi può essere uno strumento per raggiungere un rapporto di indebitamento
ottimale;
• Il pagamento dei dividendi può essere usato per disciplinare il management: se il management tende a
investire troppo in progetti non validi, costringere le imprese a pagare i dividendi riduce la liquidità a
disposizione del management per intraprendere nuovi progetti (l’aumento dei dividendi però incrementa
i conflitti di interesse tra azionisti e obbligazionisti e riduce il valore delle obbligazioni, per cui gli
obbligazionisti tenderanno ad inserire nei contratti clausole che limitano la distribuzione dei dividendi).

CAP. 11 – L’ANALISI DELLE LIQUIDITA’ RESTITUITE AGLI AZIONISTI

11.1 Modalità di restituzione di liquidità agli azionisti


Fino agli anni ottanta, il dividendo era il principale metodo usato dalle imprese per restituire liquidità agli
azionisti. Negli ultimi anni si è utilizzato anche il riacquisto di azioni proprie, contratti per il riacquisto
differito di azioni proprie, spin-off (filiazioni) split-off (scissioni proprie).

Il riacquisto azioni proprie produce effetti simili a quelli dei dividendi:


- Riduce i flussi di cassa, il valore contabile del CN e il numero di azioni in circolazione;
- Aumentano prezzo azionario;
- Il riacquisto avviene in maniera selettiva: solo gli azionisti che scelgono di rivendere le loro azioni
all’impresa ricevono la liquidità, gli altri non ricevono liquidità ma traggono vantaggio dall’aumento del
prezzo azionario.

11.2 Vantaggi del riacquisto di azioni proprie rispetto al pagamento dei dividendi
Per l’impresa si hanno i seguenti vantaggi:
- I dividendi comportano un impegno ad effettuare pagamenti costanti nel tempo, mentre il riacquisto di
azionari proprie prevedono una restituzione di denaro una tantum (quindi anche se l’azienda genera flussi
in eccesso, ma questi sono incerti nel futuro, essa preferirà il riacquisto);
- Il riacquisto offre una maggiore flessibilità in termini di “quanto” e “quando” restituire liquidità, mentre i
dividendi prevedono pagamenti predeterminati e di importo costante.
- Il riacquisto può essere un modo per aumentare il potere di controllo degli insider (fondatori dell’impresa)
perché il numero di azioni in circolazione si riduce (infatti le azioni riacquistate possono essere annullate,
così da concentrare i diritti di proprietà in un più basso numero di azionisti).
- Il riacquisto può essere usato per sostenere il prezzo delle azioni in fasi negative.

Per l’azionista si hanno i seguenti vantaggi:


- Vantaggi fiscali: il guadagno realizzato dalla rivendita delle azioni viene tassato come capital gain, che
prevede un’aliquota inferiore a quella prevista per i dividendi (questo vantaggio però non esiste più
perché dal 2003 l’aliquota sui dividendi e quella sul capital gain si sono allineate);
- Liquidità: dalla rivendita delle azioni si ricava liquidità (ma questa liquidità viene data solo ad alcuni
azionisti, cioè solo a quelli che decidono di rivendere le azioni, mentre i dividendi danno liquidità a tutti);
- Aumento del prezzo azionario: il solo annuncio di riacquistare azioni proprie genera un apprezzamento.

11.3 Scelta fra dividendi e riacquisto di azioni proprie:


La scelta fra dividendi e riacquisto di azioni proprie dipende da 5 fattori:
• Stabilità e sostenibilità flussi di cassa in eccedenza: se i flussi di cassa sono temporanei conviene
riacquistare azioni proprie, mentre se sono permanenti conviene pagare i dividendi;
• Preferenze degli azionisti in materia fiscale: se l’aliquota sui dividendi è maggiore dell’aliquota sul capital
gain, allora l’impresa dovrebbe riacquistare azioni proprie, altrimenti dovrebbe pagare i dividendi;
• Prevedibilità del fabbisogno finanziario futuro: imprese incerte sul fabbisogno finanziario futuro
dovrebbero riacquistare azioni proprie, viceversa dovrebbero pagare i dividendi;
• Sottovalutazione delle azioni: se il management ritiene che le azioni dell’impresa siano sottovalutate
dovrebbe procedere al riacquisto, ma se restano sottovalutate anche dopo, gli azionisti che non hanno
venduto, beneficeranno del fatto che l’impresa ha pagato per le azioni un prezzo inferiore al valore reale,
perché il riacquisto trasmetterà un segnale positivo al mercato che farà aumentare il valore di mercato
delle azioni;
• Retribuzione del management: se i manager vengono remunerati con le “opzioni” sulle azioni societarie,
essi preferiscono procedere al riacquisto di azioni proprie, perché il riacquisto riduce il numero delle
azioni, che aumenta il prezzo azionario e di conseguenza aumenta il valore delle opzioni.

11.3 Disciplina italiana su riacquisto di azioni proprie


La società non può riacquistare azioni proprie per un ammontare superiore agli utili distribuibili e alle riserve
disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato. In ogni caso, il valore nominale delle azioni proprie
detenute in bilancio, non possono superare un ammontare pari al 20% del capitale sociale. Il racquisto deve
essere autorizzato dall’assemblea, che fissa le modalità, la durata di detenzione in bilancio (non superiore a
18 mesi) e il corrispettivo minimo e massimo. Per le società quotate, la Consob ha stabilito ulteriori regole: il
riacquisto deve essere effettuato tramite “offerta pubblica di acquisto” sul mercato. Le azioni acquistate in
violazione dei limiti devono essere alienate entro un anno o annullate.
L’ammontare riacquistato viene inserito con la voce “azioni proprie in portafoglio” nell’attivo dello stato
patrimoniale, tra le immobilizzazioni finanziarie o nell’attivo circolante, in base alla volontà di cederle o meno
entro l’esercizio (tale scelta va indicata e motivata nella nota integrativa). Inoltre, all’interno del patrimonio
netto deve essere costituita una riserva indisponibile per azioni proprie, di importo pari a quello iscritto
nell’attivo, finchè le azioni non siano annullate e trasferite (tali azioni non hanno diritto di voto e non
partecipano alla distribuzione degli utili).

11.4 Approcci per analizzare la liquidità da restituire agli azionisti


Per capire se l’ammontare della liquidità che l’impresa restituisce agli azionisti attraverso i dividendi o il
riacquisto di azioni proprie è tanto o poco, si possono usare 2 approcci: uno basato sui flussi di cassa e l’altro
basato sulle imprese comparabili.

11.4.1 Approccio basato sui flussi di cassa


Tale approccio si compone di 4 fasi:
Fase 1: misurare quanta liquidità l’impresa può restituire agli azionisti (FCFE)
Per vedere quanta liquidità può essere restituita agli azionisti (FCFE), bisogna partire dall’utile netto contabile
(prima fonte di liquidità) e poi bisogna sottrarre le spese nette in conto capitale (spese in conto capitale al
netto degli ammortamenti, che non costituiscono un’uscita monetaria), sottrarre la variazione del capitale
circolante no cash (giacenze e crediti verso clienti, che se aumentano fanno diminuire i flussi di cassa e se
diminuiscono fanno aumentare i flussi di cassa) e infine sommare la variazione del debito (la restituzione del
debito riduce i flussi di cassa, mentre l’emissione di nuovo debito aumenta i flussi di cassa):
FCFE = utile netto – spese nette in conto capitale – Δ capitale circolante no cash + Δ debito
FCFE = utile netto – (spese in conto capitale – ammortamento) – (giacenze + crediti v/clienti) + (nuova
emissione di debito – restituzione di debito)

Nel caso in cui le spese nette in conto capitale e la variazione del capitale circolante no cash siano finanziate
dal debito, allora i flussi di cassa disponibili per gli azionisti sarebbero pari a:
FCFE = utile netto – spese nette in conto capitale (1 – δ) – Δ capitale circolante no cash (1 – δ)
FCFE = utile netto – (spese in conto capitale – ammortamento) (1 – δ) – (giacenze + crediti v/clienti) (1 – δ)
Dove δ rappresenta la porzione di spese nette in conto capitale e variazioni del capitale circolante finanziata
con debito, ma δ viene usato solo in caso di indebitamento costante. Nuova emissione di debito e
restituzione non figurano più nel calcolo perché per mantenere l’indice di indebitamento costante i
pagamenti del debito devono essere finanziati con nuove emissioni di debito di pari ammontare (la differenza
è pari a zero).

Poi, per sapere quanta parte delle liquidità disponibili sia restituita agli azionisti sotto forma di dividendo e
riacquisto di azioni proprie, bisogna calcolare il tasso di distribuzione delle liquidità disponibili = (Dividendi
+ Riacquisto azioni proprie) / FCFE
- Se il rapporto è ≅ 100%, l’impresa sta distribuendo tutte le liquidità a disposizione;
- Se il rapporto è < 100%, l’impresa sta restituendo agli azionisti liquidità inferiori rispetto alle sue
disponibilità liquide;
- Se il rapporto è > 100%, l’impresa sta restituendo agli azionisti liquidità superiori a quanto può permettersi
(per far ciò utilizza il saldo di cassa accumulato, emette nuovi titoli o si indebita).

Perché le imprese distribuiscono liquidità inferiori al FCFE?


- Per mantenere liquidità da cui il management trae 2 vantaggi: le liquidità non distribuite possono essere
usate per aumentare la dimensione dell’impresa o fungere da cuscino di protezione per il management in
periodi in cui gli utili subiscono un calo;
- Per accantonare risorse in vista di necessità di finanziamento future (che sono sempre incerte);
- Per ripararsi dalla volatilità degli utili (e quindi restituire liquidità sempre costanti);
- Perché gli obbligazionisti possono avere imposto dei limiti all’ammontare di liquidità.

Perché le imprese distribuiscono liquidità superiori al FCFE?


- Quando un’impresa ha degli utili volatili, essa può voler mantenere costante la restituzione di liquidità,
sperando di recuperare tali utili negli esercizi successivi;
- Se l’impresa ha sempre pagato dividendi elevati, può voler continuare a pagare dividendi elevati anche
nei periodi in cui le liquidità non sono sufficienti, per paura di inviare messaggi negativi ai mercati;
- Se l’impresa è sottoindebitata, può restituire liquidità in eccesso finanziandole con nuovo debito, al fine
di aumentare il livello di indebitamento.

Fase 2: valutare la qualità dei progetti


L’alternativa alla restituzione di liquidità agli azionisti è quella di reinvestire le liquidità nell’impresa per
progetti in essere o nuovi progetti. Per fare questo bisogna:
• Cercare buoni progetti d’investimento, cioè con rendimento atteso > soglia minima di rendimento (CN o
WACC), attraverso il ricorso a diversi metodi (TIR, VAN, ROE, EVA): il metodo del TIR e del VAN sono
sconsigliati poiché l’analista interno ha bisogno di molto informazioni e l’analista esterno ha un accesso
limitato alle informazioni, per cui conviene fare la differenza tra ROE e WACC o tra ROC e WACC (dove il
ROE è la redditività del CN e il ROC è la redditività del capitale complessivo);
• Confrontare con i rendimenti passati: confrontare il rendimento atteso con quelli passati è però difficile
quando l’impresa si sta ristrutturando o sta passando ad altro stadio del ciclo di crescita.
• Analizzare la redditività marginale dei nuovi progetti: per cui bisogna calcolare il ROE marginale
(redditività marginale del CN) e il ROC marginale (redditività marginale del capitale):
- ROEM = (utile nettot – utile nettot-1) / (CNt – CNt-1)
- ROCM = [EBIT (1 – t)t – EBIT (1 – t)t-1) / (capitalet – capitalet-1)
L’alternativa è osservare la performance delle azioni dell’impresa sui mercati finanziari

Fase 3: valutare la politica dei dividendi


Valutare la politica dei dividendi vuol dire anzitutto vedere se l’impresa è in grado di creare liquidità (cioè se
le opportunità d’investimento sono alte o basse) e poi decidere cosa fare delle liquidità in eccesso (cioè
decidere se reinvestirle in nuovi progetti, soddisfacendo gli interessi del management, o se restituirle agni
azionisti sotto forma di dividendo o di riacquisto di azioni proprie, soddisfacendo quindi gli interessi degli
azionisti). L’impresa può quindi trovarsi di fronte a 4 diverse situazioni:
• Un’impresa ha buone opportunità di investimento e restituisce agli azionisti una somma superiore ai
FCFE: si crea un deficit di liquidità che fa ridurre il valore dell’impresa per 2 motivi perché, da un lato, per
coprire il deficit dovrà emettere nuove azioni o chiedere un prestito, dall’altro, il deficit crea problemi di
razionamento del capitale e quindi l’impresa potrebbe trovarsi a dover rinunciare a progetti validi futuri;
- Gli azionisti, coscienti della rinuncia a validi progetti futuri, premono affinché l’impresa distribuisca
meno liquidità e aumenti gli investimenti.
- Il management deve trovare un modo per ridurre i dividendi, cercando però di differenziarsi da quelle
imprese che tagliano i dividendi a causa del calo degli utili, così da riuscire a fornire ai mercati finanziari
informazioni sulla qualità dei progetti disponibili. La realizzazione iniziale sarà negativa.
• Un’impresa ha buone opportunità di investimento e restituisce agli azionisti una somma inferiore ai FCFE:
l’impresa accumula liquidità.
- Il management preferisce reinvestire tali liquidità in progetti nuovi o in essere. Sfruttando la sua
passata capacità di generare valore per convincere gli azionisti a reinvestire le liquidità. Tale scelta però
risulta essere positiva solo se i reinvestimenti sono in grado di accrescere i rendimenti nel lungo periodo
e se tali rendimenti consentono di ridurre la possibilità di reinvestire in progetti mediocri e di ridurre
la probabilità che l’impresa sia target di tentativi di scalata.
- L’impresa può quindi adottare una politica più favorevole al management perché le buone opportunità
di reinvestimento delle liquidità trasmette fiducia agli azionisti, che ne accetteranno la decisione (ciò
consentirà maggiore flessibilità nella scelta della politica dei dividendi).
• Un’impresa ha opportunità di investimento mediocri e restituisce agli azionisti una somma inferiore ai
FCFE: l’impresa accumula liquidità.
- Il management preferisce reinvestire tali liquidità in progetti nuovi o in essere. Nel migliore dei casi
investirà le liquidità in eccesso in investimenti che produrranno un VAN pari a 0 (il valore dell’impresa
rimarrà invariato), oppure potrà scegliere di investire in progetti con rendimento < soglia minima, al
fine di ridurre la probabilità che l’impresa sia oggetto di scalata (il valore dell’impresa però diminuisce).
- Gli azionisti faranno pressione affinché la liquidità venga distribuita perché sarebbe inutile o dannoso
investire in progetti che non creano valore o che addirittura distruggono valore dell’impresa. Il
management potrebbe rispondere in 2 modi, sostenendo che il reinvestimento produrrà benefici in
futuro o che conviene conservare la liquidità per far fronte a contingenze future.
• Un’impresa ha opportunità di investimento mediocri e restituisce agli azionisti una somma superiore ai
FCFE: si crea un deficit di liquidità (è la situazione più critica perché si hanno problemi sia con la politica
d’investimento che con la politica dei dividendi).
Per coprire tale deficit, l’impresa potrebbe usare il saldo di cassa (il CN diminuisce e il debito aumenta),
emettere nuove azioni (che però genera costi di emissione) o chiedere un prestito (aumenta il livello di
indebitamento). Qui però il problema non è quello di distribuire dividendi superiori alle liquidità create,
bensì l’incapacità di investire in buoni progetti, per cui, quello che veramente dovrebbe fare l’impresa è
rivedere la politica d’investimento, eliminando progetti con rendimenti < soglia minima (questo riduce le
spese in conto capitale e fa aumentare i FCFE). Se l’aumento dei FCFE non riesce a coprire i dividendi,
allora bisogna ridurre i dividendi stessi.
- Gli azionisti sono disposti anche a ridurre i dividendi pur di evitare che l’impresa si indebiti o emetta
nuove azioni, ma temono che i fondi risparmiati dalla riduzione dei dividendi vengono investiti in
progetti mediocri.
- Il management potrà giustificarsi dicendo che è un problema di settore e che ci verrà del tempo per
iniziare a creare valore, oppure dicendo che il problema è la politica dei dividendi (dividendi troppo
elevati). Se non riesce a convincere gli azionisti, dovrà eliminare i progetti mediocri.

Scarse opportunità d’investimento Buone opportunità d’investimento


Surplus ↑ Aumentare i dividendi Massima flessibilità nella politica
di cassa ↓ Ridurre gli investimenti dei dividendi

Deficit ↓ Ridurre i dividendi ↓ Ridurre i dividendi


di cassa ↓ Ridurre gli investimenti ↑ Intraprendere investimenti

Fase 4: l’interazione fra politica dei dividendi e politica di finanziamento


Nel decidere la politica dei dividendi, bisogna anche considerare se l’impresa sia sovra o sottoindebitata.
Un’impresa sottoindebitata può restituire liquidità superiori all’ammontare dei suoi FCFE, finanziandola con
nuovo debito, e potrebbe farlo intenzionalmente per aumentare l’indice di indebitamento. Un’impresa
sovraindebitata, che si indebita per restituire liquidità, dovrebbe ridurre la restituzione di liquidità per ridurre
l’indice di indebitamento.

11.4.2 Approccio basato sulle imprese comparabili


Il management può sostenere che la politica dei dividendi non dipenda dalla qualità dei progetti e dalle
disponibilità liquide dell’impresa, ma che dipende dalla politica dei dividendi intrapresa da altre imprese
simili nel settore o nell’intero mercato.

Confronto con le imprese operanti nello stesso settore


Il tasso di dividendo ed il rapporto di distribuzione degli utili di un’impresa vengono confrontati con quello di
altre imprese operanti nello stesso settore. Questo confronto può essere fuorviante perché:
- Si presuppone che tutte le imprese dello stesso settore abbiano gli stessi fabbisogni finanziari in termini
di spese nette in conto capitale e variazione di capitale circolante;
- È possibile che l’intero settore stia adottando una politica dei dividendi non ottimale;
- Non considera i riacquisti azioni proprie come un’alternativa ai dividendi.

Confronto con le imprese operanti nell’intero mercato


Prendere in esame la totalità delle imprese cercando di analizzare le variabili alla base delle differenze nella
politica dei dividendi:
- Opportunità di crescita: imprese con maggiori opportunità di crescita dovrebbero restituire minori
liquidità;
- Necessità di investimento: imprese con maggiore necessità di investimento (spese in conto capitale e in
capitale circolante) dovrebbero restituire minori liquidità;
- % azioni detenute da insider: le imprese in cui gli azionisti hanno meno potere, hanno maggiore
propensione ad accumulare liquidità;
- Leva finanziaria: imprese con indici di indebitamento elevati dovrebbero restituire minori liquidità.
CAP. 12 – TEORIA E PRATICA DELLA VALUTAZIONE

Per calcolare il valore dell’impresa si usano 2 metodi:


- Metodo diretto: il valore dell’impresa è dato dalle caratteristiche che riguardano direttamente l’impresa
(metodo patrimoniale, metodo dei flussi di risultato, metodo misto);
- Metodo indiretto: il valore dell’impresa è dato dalla comparazione con gli indicatori di mercato stimati su
imprese simili (metodo dei multipli di mercato, criteri empirici).

Ogni metodo sarà valutato secondo 2 prospettive:


- L’asset side si focalizza sul valore dell’impresa nel suo complesso (EV), a prescindere da chi ne sia il
finanziatore;
- L’equity side si focalizza sul valore del capitale proprio (WE), cioè sul valore residuale di competenza del
solo azionista, e può essere stimato in modo diretto (basandosi su variabili specifiche dell’equity) o
indiretto (calcolando il valore dell’impresa e sottraendovi la posizione finanziaria netta, EV – PFN).
12.1 Metodi diretti
Per calcolare il valore del capitale proprio (dell’azionista) o dell’impresa, si possono usare grandezze stock
(patrimoniali) o flusso (flussi di risultato). Quindi esistono 3 metodi: uno basato sui valori patrimoniali, uno
sui flussi di risultato e il metodo misto.

12.1.1 Metodo patrimoniale


Questo metodo vede l’impresa come un complesso di cespiti patrimoniali (asset) che hanno uno specifico
valore corrente di mercato (diverso dal valore contabile) e che vengono finanziati con capitale e debito.

Patrimonio netto e capitale proprio sono simili, ma diversi:


- Patrimonio netto = capitale sociale + riserve + utile d’esercizio;
- Capitale proprio = capitale sociale + riserve + utile d’esercizio destinato a riserva.
Qui però verranno considereremo come se fossero la stessa cosa. Inoltre, considereremo il patrimonio netto
rettificato, il quale si distingue dal patrimonio netto tout court a causa di potenziali plusvalenze o
minusvalenze derivanti dalle valutazioni correnti delle attività e delle passività aziendali.

Fatta questa premessa, quindi, vediamo come calcolare il valore dell’impresa e degli azionisti:
- Valore dell’impresa (J): dato dalla somma del valore corrente di ogni componente dell’attivo patrimoniale
(j): 𝑊𝑊𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎 = ∑𝑁𝑁
𝑗𝑗=1 𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝑗𝑗
- Valore del capitale proprio (K): dato dalla differenza tra valori correnti dell’attivo e del passivo finanziario
(k): 𝑊𝑊𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒 = ∑𝑁𝑁 𝑁𝑁
𝑗𝑗=1 𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝑗𝑗 − ∑𝑘𝑘=1 𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝à𝑘𝑘

Questo è il metodo patrimoniale semplificato. Il suo limite è quello di trascurare gli elementi immateriali non
iscritti in bilancio e le potenzialità di crescita dell’impresa. Perciò è stato sviluppato un metodo patrimoniale
complesso che somma al patrimonio netto rettificato (K) un plusvalore legato agli elementi immateriali
posseduti dall’impresa e alle sue capacità di ottenere extraprofitti (BI). Solo nella prospettiva Equity side e
dell’azionista di maggioranza può essere considerato anche un premio di valore legato al beneficio di
controllo (BC). Il metodo patrimoniale complesso viene applicato principalmente alle imprese finanziarie e
immobiliari in cui le attività tangibili iscritte in bilancio rappresentano la maggior parte del valore
dell’impresa.

12.1.2 Metodo dei flussi di risultato


Questo metodo valuta l’impresa sulla base dei flussi di risultati attesi che è capace di generare in futuro:
flussi di reddito o flussi di cassa.

Metodo reddituale: la variabile di riferimento è il reddito atteso futuro, tenendo conto dell’orizzonte
temporale. Per cui occorre attualizzare o capitalizzare i flussi di reddito a un tasso che tenga conto del rischio
operativo e finanziario a cui l’impresa sottopone l’investitore. Il tasso è stimato servendosi del massimo
rendimento ottenibile dagli investitori sul mercato finanziario con titoli azionari simili in termini di rischiosità
(costo-opportunità del capitale investito).
Esistono 2 gruppi di metodi reddituali:
- Analitici: determinano il valore dell’impresa stimando dettagliatamente costi e ricavi che avrà in futuro,
così da quantificare il reddito operativo prospettico (asset side) e l’utile netto prospettico (equity side);
- Sintetici: determinano il valore dell’impresa stimando il reddito medio normalizzato futuro (depurato da
elementi distorsivi). La normalizzazione è importante perché permette anche di escludere valori derivanti
dall’attività straordinaria, che non si ripeteranno ogni anno.
Generalmente vengono usati insieme, stimando in modo analitico i primi esercizi e lasciando ai metodi
sintetici il compito di determinare il valore finale.
Il limite della diffusione di questo metodo è che si basa su valori economici influenzati dalle politiche di
bilancio (ammortamenti, svalutazioni, e altri costi non monetari) e inoltre trascura le componenti relative
alla gestione del circolante. Solo analizzando i cash flow della gestione operativa e complessiva sarà possibile
rimediare a tale limite.
Metodo finanziario (metodo dei flussi di cassa attualizzati): al suo interno si possono distinguere 4 ulteriori
metodi: metodo dei flussi di cassa attualizzati, metodo dei dividendi attualizzati (Dividend Discount Model),
metodo dei FCFE attualizzati (metodo di valutazione basato sull’attualizzazione dei FCFE), metodo dei FCFF
attualizzati (metodo di valutazione basato sull’attualizzazione dei FCFF). Questi li vedremo più avanti.

12.1.3 Metodo misto


Unisce i risultati e le logiche dei 2 precedenti metodi, introducendo elementi di valutazione reddituale e
finanziaria in una stima basata sul patrimonio netto rettificato. Quindi somma il valore patrimoniale
all’avviamento dell’impresa.
Si possono distinguere 2 gruppi di metodi misti:
• Metodo misto puro: il modo più semplice per determinare il valore dell’impresa considerando sia lo stock
di asset disponibili sia potenzialità di reddito è il metodo della media algebrica (il valore dell’impresa è la
media del valore patrimoniale e del valore reddituale sintetico).
• Metodo misto relativo: si basa sull’avviamento, che viene calcolato come somma degli extrarendimenti
dell’impresa. Poi, per stimare il valore dell’impresa bisogna confrontare la redditività prodotta dai propri
investimenti con la redditività di investimenti alternativi con uguale rischio. Se tale valore dell’impresa è
positivo (si è in presenza di un goodwill), esso accresce il valore del patrimonio netto rettificato, mentre
se è negativo (si è in presenza di un badwill), esso distruggere valore rispetto all’investimento iniziale.
- Valore dell’impresa: Wequity = K + A
- Valore del capitale proprio: Wasset = CIRj + MVA
K è il patrimonio netto rettificato, A sono gli extrarendimenti, CIRj è il capitale investito rettificato
(investito da tutti gli investitori) e MVA è la somma degli EVA dei singoli anni.
Per determinare il valore dell’impresa e l’extrarendimento garantito a tutti i portatori di capitale, sarebbe
necessario calcolare l’EVA con il quale si stima il valore economico aggiunto dall’impresa nel suo
complesso.

12.2 Metodi indiretti


Per calcolare il valore dell’azionista o dell’impresa, si possono usare il metodo dei multipli di mercato o criteri
empirici. Questi vengono anche chiamati “metodi di valutazione relativa”.

12.3 Metodi più usati


I metodi più utilizzati sono:
- Metodo dei flussi di cassa attualizzati;
- Metodo dei dividendi attualizzati;
- Metodo dei FCFE attualizzati;
- Metodo dei FCFF attualizzati;
- Metodo dei multipli di mercato.
12.3.1 Metodo dei flussi di cassa attualizzati
Consiste nello stimare il valore di ciascun investimento, attualizzando i flussi di cassa attesi da tale
investimento ad un tasso che ne rifletta la rischiosità. Il valore di ogni investimento dipende dai flussi di cassa
che è capace di generare (FC), dalla durata dell’investimento (N), dalla crescita attesa dei flussi di cassa e
𝑬𝑬(𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕 )
dalla rischiosità (r). Valore dell’investimento = ∑𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏 (𝟏𝟏+𝒓𝒓)𝒕𝒕 , dove E è il valore atteso.
Se consideriamo l’impresa come un portafoglio di investimenti, questa equazione può essere estera alla
valutazione di un’impresa, utilizzando i FCFF attesi durante la vita utile e un tasso di attualizzazione che
rifletta il rischio complessivo degli investimenti di un’impresa. Valore dell’impresa = ∑𝑵𝑵 𝒋𝒋=𝟏𝟏 𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝑷𝒋𝒋 .
Bisogna considerare sia i flussi di cassa degli investimenti attuali sia i flussi di cassa attesi dagli investimenti
futuri.
Inoltre, la valutazione può essere fatta sotto 2 punti di vista: di tutti gli investitori (asset side) e dei soli
azionisti (equity side). In base al punto di vista si andrà a calcolare il:
- Valore del capitale netto: si ottiene attualizzando i FCFE al costo del CN (tasso di rendimento richiesto
𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕
dagli azionisti). Valore CN = ∑𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏 (𝟏𝟏+𝑲𝑲 )𝒕𝒕
𝒆𝒆
Il metodo di attualizzazione dei dividendi è un caso specifico di valutazione del capitale netto in cui il
valore del capitale netto è calcolato come valore attuale dei dividendi futuri attesi.
- Valore dell’impresa: si ottiene attualizzando i FCFF al costo medio ponderato del capitale.
𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝒕𝒕
Valore CN = ∑𝑵𝑵𝒕𝒕=𝟏𝟏 𝒕𝒕
(𝟏𝟏+𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾)
Sottraendo al valore dell’impresa il valore della posizione finanziaria netta (indebitamento finanziario al
netto delle liquidità), si ottiene il valore del capitale netto.

Il valore di ogni investimento dipende dai flussi di cassa che è capace di generare (FC), dalla durata
dell’investimento (N), dalla crescita attesa dei flussi di cassa e dalla rischiosità (r).

Tutti i modelli dei flussi di cassa attualizzati stimano 4 input:


- Flussi di cassa connessi agli investimenti in essere: si possono stimare 3 diversi flussi di cassa: dividendi,
FCFE (per modelli di valutazione del capitale netto), FCFF (per modelli di valutazione dell’impresa).
- Tasso di crescita atteso dei flussi di cassa: per prevedere di quanto aumenteranno in futuro. Se l’obiettivo
è stimare i FCFE, si fa riferimento alla crescita dell’utile netto (o dell’utile per azione), mentre se l’obiettivo
è stimare i FCFF, si fa riferimento alla crescita dell’reddito operativo.
- Tasso di attualizzazione: la scelta dei tassi di attualizzazione dipende dalla scelta dei flussi di cassa. Se si
vuole attualizzare i dividendi o i FCFE, il tasso di attualizzazione è il costo del CN, mentre se si vuole
attualizzare i FCFF, il tasso di attualizzazione è il WACC.
- Momento futuro a partire dal quale l’impresa crescerà ad un ritorno sostenibile per sempre: nei modelli
di valutazione basati sui flussi di cassa attualizzati si ipotizza che da un certo momento in poi i flussi di
cassa avranno una crescita costante. Fino a quando il tasso di crescita varia nel tempo, devono essere
modificate anche le ipotesi riguardanti il profilo di rischio e le caratteristiche dei flussi di cassa. Via via che
il tasso di crescita scende verso un livello stabile, anche le necessità di reinvestimento dovrebbero
diminuire e il profilo di rischio dovrebbe avvicinarsi al rischio medio (quindi viene meno anche la necessità
di stimare i flussi futuri). Il tasso di crescita stabile dell’impresa non può mai essere superiore al tasso di
crescita dell’economia in cui opera. Spesso, per fissare un limite massimo al tasso di crescita stabile si
stabilisce che questo non deve essere superiore al tasso privo di rischio utilizzato in una valuta.

12.3.2 Metodo dell’attualizzazione dei dividendi (Dividend Discount Model)


Mentre il metodo precedente considerava tutti i flussi di cassa generati, questo metodo tiene conto solo dei
flussi di cassa effettivamente distribuiti agli azionisti (dividendi). Dunque, il valore di un’azione (o azienda?)
è dato dal valore attuale dei dividendi attesi.
In teoria, il valore di un’azione è il valore attuale dei dividendi attesi all’infinito, ma poiché non si possono
stimare i dividendi all’infinito, si stabilisce un periodo durante il quale si prevede una crescita elevata dei
dividendi, al termine del quale si ipotizza un tasso di crescita stabile sostenibile per sempre. Dunque, si stima
il valore che le azioni avranno alla fine del periodo di crescita elevata (evitando così di stimare il dividendo
all’infinito) e si attualizza:
𝑵𝑵
𝑬𝑬(𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫)𝒕𝒕 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝑵𝑵
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇 𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑 = � +
(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝒕𝒕 (𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏

𝑬𝑬(𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫)𝒏𝒏+𝟏𝟏
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝑵𝑵 =
(𝒓𝒓𝒏𝒏 − 𝒈𝒈𝒏𝒏 )

rn = Costo CN nel periodo di crescita stabile;


gn = Tasso di crescita atteso dei dividendi per sempre dopo l’anno n.
Se un’impresa si trova già in una fase di crescita stabile può essere utilizzato un caso particolare del metodo
di attualizzazione, ossia il metodo di Gordon:
𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒊𝒊𝒊𝒊 𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇 𝒅𝒅𝒅𝒅 𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄𝒄 𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔 =
(𝒓𝒓𝒏𝒏 − 𝒈𝒈𝒏𝒏 )

Dunque, per trovare il VA dei dividendi bisogna stimare 4 variabili:


• Lunghezza del periodo di crescita elevata (t): quanto a lungo un’impresa sarà in grado di mantenere una
crescita elevata dipende da 3 fattori:
- Dimensione dell’impresa rispetto al mercato (in termini di quota di mercato): per le imprese più piccole
è più facile mantenere rendimenti elevati perché hanno maggiori margini di crescita e maggior mercato
potenziale;
- Livello attuale dei rendimenti e del tasso di crescita: c’è una forte correlazione fra rendimenti degli
investimenti in essere e i rendimenti marginali sui nuovi investimenti;
- Entità e sostenibilità dei vantaggi competitivi: se esistono barriere all’entrata e vantaggi competitivi
sostenibili, le imprese possono mantenere una crescita elevata per lunghi periodi.
• Dividendi attesi nel periodo di crescita [E(Div)t]: per stimarli bisogna stimare gli utili attesi per ciascun
anno e applicare il rapporto di distribuzione degni utili. La stima degli utili attesi può farsi in 2 modi, ossia
partire dagli utili attuali e applicare un tasso di crescita atteso oppure partire dai ricavi futuri e stimare i
margini di profitto. Si tende a seguire il primo approccio perché la maggior parte delle proiezioni di crescita
degli analisti sono espresse in termini di ricavi e utili. Inoltre, separare le previsioni degli utili dalle
previsioni del rapporto di distribuzione degli utili consente maggiore flessibilità perché permette di variare
il rapporto di distribuzione degli utili a seconda del tasso di crescita degli utili.
Il tasso di crescita degli utili può essere stimato con 3 approcci alternativi:
- Misurando il tasso di crescita storica degli utili negli anni precedenti (bisogna scegliere il periodo da
analizzare e decidere se usare la media aritmetica o geometrica);
- Osservando le stime fatte da altri analisti finanziari sulla propria impresa;
- Prendere in esame i fattori che determinano la crescita e basare la stima sulle scelte di investimento
di un’impresa.
Il tasso di crescita dell’utile è dato dal prodotto tra grado di ritenzione degli utili (% di utile netto non
distribuito, ma destinato ad essere reinvestito) e ROE (rendimento atteso sui nuovi progetti).
• Costo del capitale netto (r): il dividendo e il valore terminale vanno attualizzati ad un tasso che riflette il
rischio dell’investimento degli azionisti, cioè il costo del CN.
𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝒏𝒏+𝟏𝟏
• Valore terminale: rappresenta il valore del CN alla fine del periodo di crescita elevato = 𝒓𝒓 +𝒈𝒈
𝒏𝒏 𝒏𝒏
Il tasso di crescita degli utili (g) può:
- Rimanere costante nel periodo di crescita elevata, scendere subito e stabilizzarsi ad un livello più basso;
- Rimanere costante nel periodo di crescita elevata, scendere gradualmente e poi stabilizzarsi ad un
livello più basso.

12.3.3 Metodo dell’attualizzazione dei FCFE


Il metodo precedente considera solo i dividendi che un’impresa distribuisce agli azionisti, ma nella realtà non
tutti i flussi di cassa vengono distribuiti agli azionisti. Infatti, l’impresa potrebbe produrre flussi pari a 10 e
distribuire 15 (indebitandosi o emettendo nuove azioni). Questo vuol dire che i dividendi non possono essere
mai inferiori a zero, mentre i FCFE si. È questa la differenza tra questo metodo e quello precedente.
In ogni caso, i flussi di cassa disponibili per gli azionisti (FCFE) sono i flussi di cassa che restano dopo il
pagamento degli interessi e della quota capitale sui propri debiti e il reinvestimento per il mantenimento e la
crescita delle attività in essere:
FCFE = utile netto – spese nette in conto capitale – Δ capitale circolante no cash + Δ debito
Nel caso in cui le spese nette in conto capitale e la variazione del capitale circolante no cash siano finanziate
dal debito: FCFE = utile netto – spese nette in conto capitale (1 – δ) – Δ capitale circolante no cash (1 – δ)
Più semplicemente: FCFE= Utile netto (1 – Tasso di reinvestimento azionario)

Stimati i FCFE, bisogna attualizzarli:


𝑵𝑵
𝑬𝑬(𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭)𝒕𝒕 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝑵𝑵
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇 𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑 = � +
(𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝒕𝒕 (𝟏𝟏 + 𝒓𝒓)𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏

𝑬𝑬(𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭)𝒏𝒏+𝟏𝟏
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝑵𝑵 =
(𝒓𝒓𝒏𝒏 − 𝒈𝒈𝒏𝒏 )

Dunque, per trovare il VA dei FCFE bisogna stimare 4 variabili:


- Lunghezza del periodo di crescita elevata (t): uguale al metodo precedente;
- Tasso di rendimento richiesto (r): è il costo del CN;
- FCFE disponibili nel periodo di crescita elevata [E(FCFE)t]: FCFE = utile netto – spese nette in conto capitale
– Δ capitale circolante no cash + Δ debito. L’input più importante è il tasso di crescita degli utili = tasso di
reinvestimento azionario * ROE, perché le spese nette in conto capitale, la Δ capitale circolante no cash e
la Δ debito variano al variare del tasso di crescita degli utili. A differenza del grado di ritenzione degli utili
(che varia tra 0% e 100%), il tasso di reinvestimento può avere segno negativo o essere superiore al 100%.
𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭
- VA del valore terminale: 𝒓𝒓 +𝒈𝒈𝒏𝒏+𝟏𝟏
𝒏𝒏 𝒏𝒏

Le stime del valore ottenute con i 2 modelli (dividendi e FCFE) sono uguali solo quando Dividendi = FCFE,
oppure quando FCFE > Dividendi, ma liquidità eccedenti sono investite in progetti con VAN = 0.

12.3.4 Metodo dell’attualizzazione dei FCFF


I FCFF possono essere misurati in 2 modi:
- Sommare i flussi di cassa degli aventi diritto: flussi di cassa per gli azionisti (dividendi + capital gain) +
flussi di cassa per gli obbligazionisti (interessi + rimborso);
- FCFF = EBIT (1 – aliquota d’imposta) – spese nette in conto capitale – Δ capitale circolante no cash;
- FCFF = EBIT (1 – t) (1 – Tasso di reinvestimento), dove Tasso di reinvestimento = (spese nette in conto
capitale + Δ capitale circolante no cash) / EBIT (1 – aliquota d’imposta). Quindi, all’aumentare del tasso di
reinvestimento, i FCFF diminuiscono (e viceversa).

Stimati i FCFF, bisogna attualizzarli per trovare il valore dell’impresa:


𝑵𝑵
𝑬𝑬(𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭)𝒕𝒕 𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝑵𝑵
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇𝒇 𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑𝒑 = � +
(𝟏𝟏 + 𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾) 𝒕𝒕 (𝟏𝟏 + 𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾)𝑵𝑵
𝒕𝒕=𝟏𝟏

𝑬𝑬(𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭)𝒏𝒏+𝟏𝟏
𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽𝑽 𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝒕𝑵𝑵 =
𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝒏𝒏 − 𝒈𝒈𝒏𝒏
Dunque, per trovare il VA dei FCFE bisogna stimare 4 variabili:
- Lunghezza del periodo di crescita elevata (t): uguale al metodo precedente;
- FCFF attesi nel periodo di crescita elevata [E(FCFF)t]: Abbiamo già visto quali sono le variabili da cui
dipendono i FCFF, ma l’input più importante è il tasso di crescita del Reddito Operativo (EBIT) = tasso di
reinvestimento azionario * ROC, perché le spese nette in conto capitale e la Δ capitale circolante no cash
variano al variare del tasso di crescita del RO. Alle imprese che investono in pochi progetti di grandi
dimensioni conviene usare il tasso di reinvestimento medio perché esso varia nel tempo (inizialmente è
alto, poi man mano che l’impresa cresce le necessità di reinvestimento diminuiscono). Il ROC (RO / Attività
totali – Passività correnti) è valido solo per valutare a redditività del capitale investito in progetti in essere,
ma se il RO è volatile bisogna considerare il ROC corrente e il ROC medio di settore. Se ROC > WACC
l’impresa avrà extra profitti.
- Tasso di attualizzazione (WACC): riflette sia il costo del CN che il costo del debito, nonché i loro pesi
relativi nella struttura finanziaria, WACC = KE (CN/D+CN) + KD (D/D+CN). Il costo del CN varia al variare del
rischio del progetto (β). Il costo del debito varia al variare del rischio di insolvenza che, a sua volta, può
variare se variano gli utili o l’indice di indebitamento (la cui variazione dipende dal fatto se l’impresa è
sovra o sottoindebitata e dalla sensibilità del management alle pressioni degli azionisti).
- Valore terminale �𝑬𝑬(𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭𝑭) 𝒏𝒏+𝟏𝟏
𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾𝑾 −𝒈𝒈
�: nel periodo di crescita stabile il tasso di reinvestimento = gn / ROCn.
𝒏𝒏 𝒏𝒏

La valutazione delle imprese non quotate


Il valore di una impresa non quotata è sempre il valore attuale dei flussi di cassa attesi, attualizzati ad un
tasso che ne riflette la rischiosità. Le differenze riguardano:
- Stima dei flussi di cassa: poiché non vi è aderenza ai principi contabili, bisogna ricostituire il bilancio
d’esercizio (e non fidarsi dei dati), che però non considera il costo dell’attività svolta dal titolare
dell’impresa e spesso le spese personali e di lavoro non sono riportate separatamente (quindi dalla stima
degli utili bisogna sommare la remunerazione del titolare e sottrarre le spese personali e di lavoro).
- Stima dei tassi di attualizzazione: il titolare dell’impresa non quotata non è quasi mai ben diversificato,
per cui il beta riflette tutto il rischio (diversificato e non). Inoltre il titolare non può ricorrere ai mercati
obbligazionari ma solo al prestito delle banche, e questo comporta un costo del debito più elevato.
- Valore terminale: le imprese non quotate spesso hanno una durata limitata in quanto la loro esistenza
dipende dalla presenza del titolare (quindi viene meno il periodo di crescita stabile considerato delle
imprese di lunga durata).

Come aumentare il valore dell’impresa


In una valutazione basata su attualizzazione dei flussi di cassa, per aumentare il valore dell’impresa bisogna
agire sui 4 input nel seguente modo:
- Aumentare i flussi di cassa delle attività in essere: utilizzando le attività in modo più efficiente, tagliando
i costi, aumentando la produttività e riducendo le imposte sul RO, le spese di manutenzione e gli
investimenti in capitale circolante (giacenze);
- Aumentare il tasso di crescita nel periodo di crescita elevata: reinvestendo una somma maggiore in
progetti in essere, investendo in nuovi progetti o acquistando altre imprese;
- Aumentare la durata del periodo di crescita elevata: ottenendo più a lungo possibile un rendimento >
WACC e per farlo bisogna avere/creare sempre vantaggio competitivo;
- Ridurre il costo del capitale: aumentando il valore dell’impresa o riallineando l’indice di indebitamento.
Quale di questi approcci è più idoneo per creare valore dipenderà dalla fase del ciclo di vita in cui ci si trova.

12.3.5 Metodo dei multipli di mercato (metodo di valutazione relativa)


Mentre i metodi diretti ricercano il valore degli investimenti in base a flussi, crescita e rischio dell’impresa
stessa, i metodi indiretti ricercano il valore degli investimenti dell’impresa in base al valore che il mercato
assegna ad investimenti simili. In sostanza il valore degli investimenti dell’impresa viene confrontato col
valore di mercato di investimenti simili. Per confrontare i valori degli investimenti, questi devono essere
standardizzati, cioè devono essere espressi in funzione di qualche variabile: utili, ricavi, valore contabile,
valore di rimpiazzo.

Multipli degli utili


Il metodo più intuitivo per esprimere il valore degli investimenti è in funzione degli utili generati dagli
investimenti stessi. Dunque, per valutare il capitale netto dell’impresa si guarda al prezzo dell’azione come
“multiplo” degli utili per azione generati dalla società. Questo rapporto Prezzo/Utili (price to earning) può
essere stimato utilizzando il livello degli utili per azione negli ultimi 4 trimestri, o il livello atteso per il prossimo
esercizio finanziario. Tale rapporto dipende dal rapporto di distribuzione degli utili, dal tasso di crescita
dell’impresa (gn), dal tasso di remunerazione del capitale proprio. Quando si vuole valutare l’impresa,
piuttosto che solo il CN, si usa il valore dell’impresa al netto delle liquidità come “multiplo” del reddito
operativo o dell’EBITDA (reddito operativo al lordo di interessi, imposte, svalutazioni e ammortamenti), cioè
Valore di mercato/EBITDA.

Multipli del valore contabile o del valore di rimpiazzo


Il valore reale di un’impresa è assai diverso dal valore dell’impresa che emerge dai suoi libri contabili. Il valore
contabile (book value), dipendendo dai principi contabili, è influenzato dal prezzo pagato per acquistare le
attività e dai loro ammortamenti. Gli investitori azionari spesso guardano il rapporto tra il valore di mercato
del CN e il valore contabile del CN per azione, per capire quanto un’azione sia sovra o sottovalutata. Questo
rapporto Prezzo/Valore contabile (price to book value) varia da settore a settore, poiché dipende dal
potenziale di crescita e dalla qualità degli investimenti.
Per coloro che sostengono che il valore contabile non rappresenti una buona misura del valore reale
dell’attività, esiste un costo di rimpiazzo delle attività. Dunque, si avrà il rapporto tra valore di mercato
dell’impresa e costo di rimpiazzo (che è il c.d. quoziente Q di Tobin): Prezzo/Valore di rimpiazzo.

Multipli dei ricavi


Sia gli utili che il valore contabile sono influenzati dai principi contabili. Un approccio alternativo consiste
nell’osservare il rapporto fra il valore di un investimento e i ricavi che esso genera: per valutare le azioni si
usa il rapporto Prezzo/Ricavi (price to sales), cioè il prezzo azionario diviso per i ricavi per azione, mentre
per valutare l’impresa si usa il rapporto Valore dell’impresa/Ricavi (entreprise value to sales). Questi multipli
consentono di confrontare imprese operanti in mercati differenti e con diverso sistema contabile.

Fattori che determinano i multipli


Mentre il metodo dei flussi di cassa fa delle ipotesi in maniera esplicita, il metodo dei multipli le fa in maniera
implicita. Dunque, bisogna capire da quali variabili dipendono i multipli. Essi possono essere derivati a partire
dai metodi basati sui flussi di cassa attualizzati.
Per valutare il CN si può partire dal metodo dell’attualizzazione dei dividendi “in un periodo di crescita
stabile”: 𝑷𝑷𝟎𝟎 = 𝑲𝑲𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫𝑫 𝟏𝟏
, dove P0 è il valore del CN per azione e DPS1 è il dividendo per azione atteso per l’anno
𝑬𝑬 −𝒈𝒈𝒏𝒏
prossimo:
- Dividendo entrambi i lati dell’equazione per gli utili per azione, otteniamo il rapporto Prezzo/Utili. Quindi
il rapporto P/U dipende dal rapporto di distribuzione degli utili, dal tasso di crescita dell’impresa (gn) e dal
tasso di remunerazione del capitale proprio (KE);
- Dividendo entrambi i lati dell’equazione per il valore contabile del capitale netto per azione, otteniamo il
rapporto Prezzo/………. (cioè P/BV);
- Dividendo entrambi i lati dell’equazione per i ricavi per azione, rapporto Prezzo/……… (cioè P/S).

Come utilizzare imprese comparabili


Per capire attraverso un multiplo se l’impresa è correttamente valutata, bisogna confrontare il valore di tale
multiplo con quello di imprese ritenute “comparabili”. Per fare questo bisogna procedere per fasi:
1) Scegliere quale multiplo utilizzare e il gruppo di imprese comparabili: un’impresa è definita comparabile
se è simile a quella oggetto della valutazione in termini di flussi di cassa, potenziale di crescita e rischio.
Quando però non è possibile comparare le imprese rispetto a tali variabili, se ne usano altre. Infatti, nella
maggior parte delle analisi la comparazione viene fatta tra imprese che svolgono la stessa attività, che
hanno dimensioni simili o che si trovano nella stessa fase del ciclo di crescita.
2) Calcolare il valore di tale multiplo per ciascuna delle imprese comparabili: le variabili che determinano il
multiplo sono molte, quindi per capire il motivo per cui vi possono essere differenze tra impresa, bisogna
rettificare i multipli:
- Rettifiche semplici: modificare il multiplo di base per tenere conto della sua variabile guida (quella più
importante per capire se l’attività è sotto o sopravvalutata);
- Rettifica di più di una variabile: quando le imprese differiscono per più di una variabile è difficile capire
le differenze modificando i multipli, per cui bisogna effettuare una regressione dei multipli rispetto alle
variabili, per stimare il multiplo previsto per l’impresa, sulla base dei suoi fondamentali, e capire perché
le imprese differiscono tra loro.
3) Calcolare la media dei multipli così ottenuti;
4) Confrontare il multiplo dell’impresa da valutare con quello medio di imprese comparabili e capire se la
differenza riflette caratteristiche peculiari dell’impresa o una sovra/sottovalutazione del mercato.

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