Aristotele e La Negazione Dell'armonia Celeste

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 16

Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp.

1075-1090
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000231

Marcello Zanatta*

ARISTOTELE E LA NEGAZIONE DELL’ARMONIA MUSICALE CELESTE

Aristotle and the Negation of the Celestial Musical Harmony

In the first part, we will expose the way in which Aristotle presents Pythagorean theory of
musical harmony of the stars in movement, the logical structure of this exposition and the
indications that lead to believe that he refers to Philolaus. In the second part, we will examine
Aristotle’s two objections against that theory and we will indicate the doctrinal presupposi-
tions on the basis of which it is formulated. In the last part, we will show that such assump-
tions would have allowed Aristotle to formulate other objections, but he limits himself to
those two because they are functional to show the truth of his theory that the stars do not move
by themselves, but just because heavens in which they are set are moving. It is also shown
that a third objection is implicitly formulated in the context of Aristotle’s discourse.

Keywords: Aristotle, Pythagoreans, Music, Stars, Heavens


© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

1. Il problema
In De caelo (d’ora in avanti DC) II, 9 Aristotele, nel quadro complessivo della
disamina sulla natura e sulla traslazione (φορά) dei corpi celesti, prende in con-
siderazione anche la dottrina dell’armonia musicale prodotta dai loro movimenti
e la rigetta, operandone la confutazione.
Va affermato fin d’ora che tale confutazione e questo rigetto sono funzionali
alla teoria aristotelica del suddetto genere di corpi, e ne vedremo la ragione, al
cospetto della quale ci si renderà conto che non si tratta di un’aggiunta comple-
mentare e di un arricchimento importante ma non decisivo per la determinazione
della natura di quei corpi, quasi che essa fosse già raggiunta e ora se ne puntua-
lizza un aspetto sì interessante, quale per l’appunto quello di essere o no musi-
cali, ma estraneo alla sua sostanza speculativa. Tutt’al contrario, la reiezione di
quella teoria, divenendo, come vedremo, il momento dialetticamente rilevante
per far valere che i corpi celesti non emettono né possono emettere alcun suono,
è parte integrante della definizione della loro costituzione.
*
Università della Calabria. Email: [email protected]
Received: 16.10.2019; Approved: 25.10.2019.
1076 marcello zanatta

2. La teoria pitagorica della musica celeste


Ma innanzitutto occorre fissare l’attenzione sulla teoria dell’armonia musicale
dei corpi celesti in movimento. Essa attraversa i secoli1 e una lunga e unanime
tradizione ne attribuisce l’origine ai Pitagorici2 e addirittura a Pitagora3. In ogni
caso è ai Pitagorici che Aristotele fa riferimento quando la prende in esame, come
tutti i commentatori, sia antichi che moderni, hanno riconosciuto. Sono infatti i
Pitagorici i pensatori che alla riga 290 b 14-15 lo Stagirita indica come «coloro
che l’asseriscono [ὑπὸ τῶν εἰπόντων]», formulando con essa un discorso che
suona «in modo raffinato ed elegante [κομψῶς καὶ περιττῶς]»4, ma non è vero
(οὐ μὴν οὕτως ἔχει τἀληθές); ancora i Pitagorici sono quegli «alcuni [τισιν]»
ai quali subito dopo, alle righe 290 b 15-16, Aristotele dice che «sembra essere
necessario che si produca un suono di corpi di tale grandezza che traslano [δοκεῖ
ἀναγκαῖον εἶναι τηλικούτων φερομένων σωμάτων γίγνεσθαι ψόφον]»;
e ancora sui Pitagorici Aristotele torna quando alle righe 290 b 22-23 afferma
che «sostengono che il suono degli astri nel loro traslare in circolo si produce
come armonico [ἐναρμόνιόν φασι γίγνεσθαι τὴν φωνὴν φερομένων κύκλῳ
τῶν ἄστρων]». Ed è significativa anche la seguente circostanza: la tesi pitago-
rica dell’armonia musicale dei corpi celesti è ripresa e fatta propria da Platone là
dove, nel mito di Er, descrivendo la forma dell’universo e le orbite dei pianeti,
afferma che su ciascuno è seduta una sirena la quale diffonde un suono che si
unisce a quelli delle altre sirene in un accordo cosmico5. Platone occupa certa-
mente un posto primario nell’argomentare dialettico di Aristotele, ma né alcuno
dei commentatori ha indicato pure in Platone il pensatore contro cui s’indirizza
la disamina dello Stagirita, né in questa si rinviene alcun indizio che conduca a
Platone. Tutti gli indizi rimandano invece ai Pitagorici.

1
La storia di questa teoria nell’antichità, nel medioevo e anche nell’età moderna, come risulta
dal fatto di essere stata presa in considerazione dallo stesso Keplero, è ben documentata da Marco
Nicoletta nella sua tesi dottorale, pubblicata poi come volume intitolato Pitagorismo, platonismo e
armonia delle sfere, Editrice Stamen, Roma 2014.
2
In proposito si veda, tra gli altri, A. Barbone, Musica e filosofia nel pitagorismo, La scuola di
Pitagora Editrice, Napoli 2009.
3
Così espressamente in K. Ferguson, La musica di Pitagora, tr. it. di L. Sosio, Liguori, Milano
2009, p. 23. Sul punto si veda anche infra e la testimonianza riportata alla nota 8.
4
In quest’annotazione, che in ogni caso non manca certamente dall’avere una valenza ironica, è
possibile scorgere – a me sembra – un significativo sostegno all’idea che Aristotele ha pensato l’ar-
monia dei corpi celesti come avente rilevanza di un abbellimento estetico, ma nulla di più, e l’ironia
con cui viene proferita consiste proprio nel farne risaltare il contrasto rispetto alla pretesa di essere
una «teoria» astronomica, ossia un discorso di natura speculativa sui cieli e sugli astri. Proprio que-
sto risvolto dell’annotazione di Aristotele mi sorreggeva nel sottolineare che la critica dello Stagirita
della valenza «musicale» dei corpi celesti non può leggersi come rilievo interessante ma marginale
rispetto alla sostanza speculativa di determinarne la natura.
5
Cfr. Platone, Resp. X, 617 b: «Il filo ruotava sulle ginocchia di Ananke. Sui suoi cerchi, in alto,
si muoveva insieme a ciascuno una sirena, che emetteva un’unica nota, con un unico suono; ma tutte
insieme formavano un’armonia».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1077

Una seconda considerazione a questo punto s’impone. La musica emessa dai


corpi celesti nei loro movimenti rotatori, espressione dell’armonia che regge l’u-
niverso6, è dottrina comune ai Pitagorici, a tal punto da costituire una sorta di
connotato teorico di questa linea di pensiero, attestantesi al di là delle specifiche
dottrine professate dalla scuole pitagoriche, certamente diverse tra loro, e, per
quanto è possibile ricostruirne storiograficamente il pensiero, dai singoli Pitago-
rici. Essa appartiene cioè al «pitagorismo»7, e certamente a questa filosofia o, se
si preferisce, a questa sapienza si riferisce Aristotele, il cui intendimento non è
certamente quello di informare sul pensiero di questo o quel Pitagorico, bensì di
esaminare, per respingere, una «dottrina» pitagorica.
L’attribuzione a Pitagora dell’origine e della primigenia professione di essa rien-
tra nel quadro della presentazione della sua figura secondo quei tratti di tangenza
al divino di cui i seguaci ammantavano la persona del maestro e del fondatore. In
questi termini ne dà testimonianza Porfirio nella Vita di Pitagora, in cui la capaci-
tà del filosofo di udire la musica delle sfere celesti è ascritta alla sua eccezionalità
sovrumana8. Ma è probabile che, al di fuori dell’aureola agiografica di cui veniva
ammantato Pitagora e separando la dottrina dell’armonia cosmica dall’essere egli in
grado di percepirla, quella dottrina fu effettivamente introdotta da Pitagora. Stando
infatti alla notizia di Giamblico9 e secondo la tradizione pitagorica, egli l’avrebbe
istituita facendo corrispondere le distanze dei pianeti dal centro dell’universo, iden-
tificato nella regione del fuoco10, alle proporzioni presenti nel monocordo, ovvero
calcolando le prime in base alle seconde. Pare che l’intuizione di fondo gli venne
ragionando sul rumore di un martello che batteva sull’incudine e comprendendo che

6
Basilare, a questo riguardo, la tesi pitagorica riportata da Stobeo, Ecl., I, 21, 7 = Philol. 44 B
6 Diels-Kranz, secondo la quale l’armonia costituisce la «sostanza [ἐστω]» dell’universo, quella
sostanza per la quale l’universo è un κόσμος.
7
«Il pitagorismo – ha scritto magistralmente Giovanni Reale (Storia della filosofia greco-romana,
vol. 1, Orfismo e Presocratici naturalisti, Bompiani, Milano 2004, p. 131) – e le dottrine che esso ha
elaborato fra la fine del VI e l’inizio del IV secolo a.C. vanno viste nella loro unità d’insieme. Chi spez-
za questa unità, rompe anche lo spirito che l’ha creata, ossia quello spirito che ha fatto del pitagorismo
una scuola diversa da tutte le altre».
8
Cfr. Porphirii, Vita Pyth. 30, riportato nel fasc. 1, pp. 16-19 di M. Timpanaro Cardini (a cura
di), Pitagorici. Testimonianze e frammenti, 3 fasc., La Nuova Italia, Firenze 1969 (d’ora in poi cita-
to con la sigla TC seguita dal numero del fascicolo): «Pitagora udiva l’armonia dell’universo, cioè
percepiva l’universale armonia delle sfere e degli astri moventisi con quelle [τῆς καθολικῆς τῶν
σφαιρῶν καὶ τῶν κατ’ αὐτὰς κινουμένων ἀστέρων ἁρμονίας]». E, prosegue Porfirio, dando
così ulteriore attestazione dell’aura sovrumana che circondava Pitagora nella considerazione dei
seguaci, «lo testimonia anche Empedocle, dicendo di lui: “c’era tra essi un uomo di straordinaria
sapienza, che possedeva davvero ricchezza immensa d’ingegno, e validissimo era in opere varie
e sapienti, sì che quando tendeva con ogni potenza la mente, facilmente ciascuna di tutte le cose
vedeva, che son nel corso di dieci, di venti età umane”».
9
Cfr. Giamblico, Vita Pyth. 65-67 (tr. it. di M. Giuangiulio, La vita pitagorica, Rizzoli, Milano
1991, pp. 67 ss.).
10
Cfr. DC II, 13, 293 a 18 (= TC 2, fr. 330, pp. 160-163): «i più dicono che la terra sta al cen-
tro. Il contrario affermano i filosofi italici chiamati Pitagorici; essi dicono che nel mezzo c’è il
fuoco e che la terra è un astro».
1078 marcello zanatta

l’altezza del suono, vale a dire l’acutezza del rumore, non dipendeva dalla forza
con cui venivano battuti i colpi, ma dal peso del martello. Servendosi perciò di un
monocordo, stabilì che le consonanze dei suoni seguivano questi rapporti numerici:
1/2 per l’intervallo d’ottava, 2/3 per la quinta e 3/4 per la quarta11. Usò quindi le pro-
porzioni presenti nel monocordo per calcolare le distanze dei pianeti tra loro rispetto
al centro dell’universo, ponendo perciò che i rapporti erano gli stessi. Così a Saturno
e alle stelle fisse venivano ricondotti i suoni più acuti, mentre al sole era associata la
nota centrale, nella quale si congiungono due tetracordi discendenti, ossia due scale
composte ciascuna da quattro suoni.
Ma si deve certamente a Filolao il perfezionamento di questa dottrina o comun-
que la formulazione di essa in termini teorici più determinati, e ciò grazie alle sue
alte competenze musicali, attestate dalla definizione ulteriore, precisa e raffinata,
che, su base matematica, egli effettuò degli accordi musicali dividendo a sua volta
il «tono», ossia la divisione del rapporto di quinta e di quarta che compongono
l’ottava. Dalla testimonianza di Boezio indicata alla nota 12 e dalla dotta espli-
cazione di essa operata da Timpanaro Cardini, nonché dalla relativa valutazione
critica, risulta che il contributo genuino che può ascriversi a Filolao e sta a fonda-
mento della sua definizione degli accordi musicali, risiede nella determinazione
dell’apotome, del diesis e del comma12. E proprio al modo in cui Filolao definì il
rapporto tra l’accordo delle note e i corpi celesti, è altamente probabile che Aristo-
tele si sia riferito nel presentarlo.

11
A commento della testimonianza di Boezio, Inst. mus. III, 5 p. 276, 15 Friedlein (= TC 2, fr.
26, pp. 180-185), su cui torneremo dicendo di Filolao, così Timpanato Cardini presenta l’importanza
della scoperta di questi accordi e, in particolare, del loro comporsi nell’ottava: «l’osservazione dei
rapporti fissi 2:1, 3:2, 4:3 tra le lunghezze delle corde (o lo spessore dei dischi, o il liquido dei reci-
pienti), donde risultano gli accordi di ottava, quinta e quarta, fu il fondamento su cui <i Pitagorici>
costruirono la loro teoria matematica della musica. Il suono fu per loro un rapporto numerico, una
quantità, e tale si mantenne anche nei seguaci, perché costituiva una prova evidente della corrispon-
denza tra le cose e i numeri» (TC 2, p. 182).
12
TC 2, pp. 182-183: «i rapporti di quarta e di quinta “avevano dimostrato che quanto più piccoli
erano i numeri che li costituivano, tanto più perfetta era la consonanza; così perfettissima tra tutte era
l’ottava, 2 : 1, che comprendendo in sé le altre due (3/2, 4/3 = 12/6 = 2/1), racchiudeva analogamen-
te l’armonia dell’universo. Da tale matematica impostazione derivava come logica conseguenza la
ricerca di tutti i possibili intervalli musicali nell’ambito dell’ottava e la determinazione numerica dei
loro rapporti; si comprende perciò come questo problema fosse e restasse predominante negli studi
musicali della Scuola. Quei primi Pitagorici s’accorsero, forse procedendo per tentativi, che, come
l’ottava si ottiene col prodotto (non con la somma) dei rapporti di quinta e di quarta che la compon-
gono, così, volendo trovare la differenza tra la quinta e la quarta, bisognava dividere il primo rappor-
to per il secondo; e in tal modo trovarono il rapporto di 9/8 (3/2 : 4/3 = 9/8) che chiamarono ‘tono’.
Si posero allora il problema se fosse possibile dividere a sua volta il tono in rapporti consonanti; ed
eccoci così arrivati alla divisione escogitata da Filolao” della quale riferisce Boezio […] Le fonti
intermedie a cui attinse Boezio» nella presentazione del calcolo di Filolao degli ulteriori accordi
musicali «erano già forse esse stesse confuse»; sicché «il giudizio su questo passo di Boezio, dopo
averne messo in evidenza le assurdità, non può essere altro che […] sia genuina di Filolao solo l’idea
della divisione del cubo 27 in apotome, diesis e comma».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1079

In conclusione si può dunque dire che i Pitagorici costruirono la dottrina dell’ar-


monia celeste sulla base della corrispondenza tra il calcolo della distanza dei piane-
ti dal centro dell’universo e quello dei rapporti che, a partire dalla determinazione
dell’ottava, attraverso procedimenti matematici vieppiù raffinati vennero definendo
e perfezionando degli accordi musicali. Il nucleo teorico emergente da questa teoria
è, in ultima analisi, che il rapporto tra le distanze dei pianeti dal centro dell’universo
è identico al rapporto tra le lunghezze delle corde nella definizione degli accordi
musicali. Quest’istanza di base Aristotele sottopone a critica.

3. La presentazione aristotelica
Prima però di muovere alla critica, Aristotele indica, com’è ovvio, la tesi pitagorica
presentandola nei termini seguenti:
Ad alcuni, infatti, sembra essere necessario che si produca un suono di corpi di tale gran-
dezza che traslano, dal momento che se ne produce uno anche di quelli presso di noi, pur
non avendo né masse simili né traslando con tale velocità. È impossibile che del sole,
della luna e di astri siffatti per numero e grandezza, i quali traslano secondo una traslazio-
ne siffatta per la velocità, non si produca un certo suono, straordinario per la grandezza.
Ipotizzando questi <effetti> e che le velocità a partire dalle distanze abbiano il rapporto
dei <suoni> in accordo, sostengono che il suono degli astri nel loro traslare in circolo si
produce come armonico13 (tr. it. mia).

Nella prima parte del passo, dove si afferma che per alcuni, ossia per i Pitagorici,
la necessità che i corpi celesti, di notevole grandezza, traslando emettono un suo-
no viene dedotta («dal momento che [ἐπεί]», dunque) dal fatto che identicamente
avviene nella traslazione dei corpi terrestri, ben più piccoli, risuona evidente il
riferimento, ancorché elaborato nei termini del tutto propri della presentazione
aristotelica, al fatto che alla base della tesi pitagorica sta il calcolo, attribuito dalla
tradizione a Pitagora, dei rapporti musicali a partire da un dato d’esperienza: il
battere del martello sull’incudine. Non è difficile scorgere che qui Aristotele cali-
bra il riferimento a Pitagora o, più esattamente, a ciò che la tradizione attribuisce
a Pitagora (successivamente, vedremo, il riferimento è a Filolao, e sarà la pars
potior dell’intervento dello Stagirita); ma che al tempo stesso lo calibra inqua-
drandolo entro la definizione epistemologica del ricercare da lui definita, secondo

13
DC II, 9, 290 b 15-23:«δοκεῖ γάρ τισιν ἀναγκαῖον εἶναι τηλικούτων φερομένων
σωμάτων γίγνεσθαι ψόφον, ἐπεὶ καὶ τῶν παρʼ ἡμῖν οὔτε τοὺς ὄγκους ἐχόντων ἴσους οὕτε
τοιούτῳ τάχει φερομένωνʼ ἡλίου δὲ καὶ σελήνης, ἔτι τε τοσούτων τὸ πλῆθος ἄστρων καὶ
τὸ μέγεθος φερομένων τῷ τάχει τοιαύτην φορὰν ἀδύνατον μὴ γίγνεσθαι ψόφον ἀμήχανόν
τινα τὸ μέγεθος. ὑποθέμενοι δὲ ταῦτα καὶ τὰς ταχυτῆτας ἐκ τῶν ἀποστάσεων ἔχειν τοὺς τῶν
συμφωνιῶν λόγους, ἐναρμόνιόν φασι γίγνεσθαι τὴν φωνὴνφερομένων κύκλῳ τῶν ἄστρων»
(testo greco stabilito da P. Moraux, Aristote. Du Ciel, Les Belles Lettres, Paris 1965, dal quale sono
tratte anche le successive citazioni del DC).
1080 marcello zanatta

la quale si conosce procedendo da ciò che è più noto per noi e meno noto per
sé, corrispondente nel caso di specie all’esperienza del diverso suono dei colpi
del martello sull’incudine, verso ciò che è più noto per sé e meno rispetto a noi,
ovvero la scoperta che l’altezza dei suoni dipende dalla grandezza del martello e
la definizione in termini matematici del rapporto tra questi elementi. Ed è signifi-
cativo a questo riguardo che, mentre per Pitagora, secondo il racconto della tradi-
zione, il passaggio dal dato d’esperienza alla scoperta della legge è tra il semplice
battere del martello e i rapporti matematici che ne definiscono il rumore, ma con
una chiara proiezione al rapporto tra le traslazioni dei pianeti e il rapporto armo-
nico dei suoni, Aristotele renda esplicito e testuale il contenuto della proiezione.
Il che è ancor più evidente nella seconda parte del passo – dove pur, come si
diceva e ora ci si appresta a provarlo, il riferimento è piuttosto a Filolao. Giac-
ché in questa seconda parte la grandezza del martello viene assunta, nel pendant
con la proiezione astronomica, come grandezza dei corpi celesti, e specifica-
mente dei pianeti («il sole, la luna e gli astri siffatti»), e, in strutturale relazione
con questa, come grandezza della loro «distanza» dal centro dell’universo, e in
tale esplicitazione dell’iniziale assunto pitagoreo è messa in rapporto con la loro
velocità di traslazione.
Già Simplicio commentando il passaggio aristotelico puntualizzava il nesso
tra la grandezza dei corpi celesti e la grandezza della loro distanza dal centro
dell’universo.
Argomentando dalle distanze le grandezze dei <corpi> comprendenti i quali sono nello
stesso rapporto delle distanze: infatti i <corpi> comprendenti sono sempre più grandi
di quelli compresi, e sono tanto più grandi quante più volte e quanto più da lontano li
comprendono14 (tr. it. mia).

Qui i «corpi comprendenti» e i «corpi compresi» sono le sfere celesti, concentri-


che e di diversa grandezza, nelle quali per Aristotele sono incastonati i pianeti.
Anche se, con ogni probabilità, i Pitagorici e in specie Filolao non definivano in
questo modo il rapporto tra i cieli e i pianeti, in questo modo presenta la loro con-
cezione Aristotele, il quale non è interessato fornirne una ricostruzione storica,
ma a valutarne il grado di verità sul piano della fisica celeste, la vera dottrina della
fisica celeste è appunto quella da lui definita. Così i pianeti sono nessi in rapporto
con i cieli, e su questo presupposto s’inquadra il commento di Simplicio. Schema-
tizzando, possiamo pertanto declinare il discorso della seconda parte del passo di
DC precedentemente letto, dove appunto Aristotele presenta la dottrina pitagorica
dell’armonia celeste, con la seguente successione di concetti:

14
Simplicii, In Aristotelis De Caelo Commentaria, ed. I.L. Heiberg, tipys et impensis Georgii
Reimeri, Berolini 1894, 464, 7: «ἐκ τῶν ἀποστάσεων τὰ μεγέθη συλλογισάμενοι ἐν τῷ αὐτῷ
λόγῳ τῶν ἀποστάσεων ὄντα· μείζονα γὰρ ἀεὶ τὰ περιέχοντα τῶν περιεχομένων καὶ τοσούτῳ
μείζονα, ὅσῳ πλησιαίτερον ἢ πορρώτερον περιέχει».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1081

• dalla distanza (dal centro dell’universo) dipende la grandezza (μέγεθος) di


un cielo [ossia: la grandezza di un cielo è proporzionale alla sua distanza dal
centro dell’universo]
• dalla distanza (e dunque dalla grandezza) del cielo dipende la sua velocità di
traslazione
• dalla velocità di traslazione dipende un certo tipo di suono
• ai diversi tipi di suono corrispondono diversi tipi di note
• queste note si combinano tra loro in un accordo musicale
• dunque, anche i suoni dei cieli formano un accordo
• sussiste pertanto una proporzione tra i suoni dei cieli e le note in accordo,
ovvero gli accordi musicali.
Tuttavia, nella presentazione che nel passo in esame Aristotele fa della teoria pita-
gorica manca, per così dire, un tassello, basilare perché detta teoria risulti comple-
tamente fondata. La grandezza di un cielo dipende dalla sua distanza dal centro
dell’universo: è il punto di partenza dell’intera scansione del discorso. Ma qual è
la distanza del cielo dal centro dell’universo o, più esattamente, come nella teoria
pitagorica veniva determinata? A questa basilare domanda fornisce un’implicita
risposta Simplicio nel commento all’inizio di DC II, 10, 291 a 29-32, dove lo
Stagirita afferma che l’ordine (τάξις) degli astri, secondo il quale «gli uni sono
anteriori [scil. quelli più vicini alla sfera delle stesse fisse], gli altri posteriori [scil.
quelli più distanti da detto cielo]» e dal quale dipende «il modo in cui ciascuno si
muove [ὃν μὲν τρόπον ἕκαστα κινεῖται]», è materia studiata nei trattati di astro-
nomia. Il commentatore così scrive:
Aristotele dice infatti così: «è cosa da studiare nei libri che trattano di astronomia».
Infatti lì si dimostra che riguardo all’ordine degli astri erranti, alle loro grandezze e
distanze Anassimandro per primo trovò i rapporti delle grandezze e delle distanze, come
racconta Eudemo [scil. Eudemo da Rodi] il quale poi attribuisce ai Pitagorici per primi
l’ordine della loro posizione15.

Dunque, se Anassimandro determinò per primo il rapporto tra la grandezza e la


distanza di ogni pianeta rispetto alla grandezza e alla distanza di ogni altro, più
precisamente la grandezza di ciascun pianeta rispetto a quella di ciascun altro in
relazione alla distanza di ciascuno da ciascun altro, i Pitagorici determinarono
invece «l’ordine [τάξις] della posizione [τῆς θέσεως]» di ciascun pianeta, vale a
dire quale era più vicino e quale più distante dal centro dell’universo, fatto coinci-
dere dai Pitagorici col fuoco, come abbiamo letto nella testimonianza riportata alla

15
Ibi, 471, 1 (= TC 3, fr. 960, pp. 202-203, di cui si è riportata la traduzione italiana): «ταῦτα οὖν,
φησίν, ἐκ τῶν περὶ ἀστρολογίαν θεωρείσθω· καὶ γὰρ ἐκεῖ περὶ τῆς τάξεως τῶν πλανωμένων
καὶ περὶ μεγεθῶν καὶ ἀποστημάτων ἀποδέδεικται Ἀναξιμάνδρου πρώτου τὸν περὶ μεγεθῶν
καὶ ἀποστημάτων λόγον εὑρηκότος, ὡς Εὔδημος ἱστορεῖ τὴν τῆς θέσεως τάξιν εἰς τοὺς
Πυθαγορείους πρώτους ἀναφέρων».
1082 marcello zanatta

nota 10. Sorge pertanto il problema di come venne calcolata la distanza di ciascun
pianeta dal centro e di chi ne propose il calcolo. E parallelamente, da quale fonte
Aristotele venne a conoscere tale calcolo e con esso, di conseguenza, l’«ordine»
secondo cui nel sistema dei Pitagorici cui fa riferimento si definisce la «posizio-
ne» di ciascun pianeta. Ora, se, quanto al secondo problema, sulla base della più
recente e accreditata storiografia filosofica occorre rispondere indicando «un’ope-
ra scritta, di carattere non dossografico, redatta da un membro della comunità»16,
quanto al primo, l’evidente corrispondenza tra l’ordine dell’universo pitagorico
che vede il fuoco al centro, la terra e l’antiterra girare intorno al fuoco, dopo la
terra la luna, poi il sole, poi i cinque pianeti, infine il cielo delle stelle fisse17, con il
sistema astronomico attribuito a Filolao18, porta a riscontrare in costui l’autore di
tale ordinamento cosmico e, di conseguenza, del calcolo delle distanze dei corpi
celesti dal centro dell’universo. Ovvero a riconoscere che l’autore di quell’opera
scritta si rifece basilarmente a Filolao, di modo che costui, in ultima istanza, è
il Pitagorico alla cui determinazione del sistema cosmologico e, con esso, della
musica dei corpi celesti Aristotele fa riferimento per confutarla.

4. Ancora un’istanza
Concludendo la presentazione di detta dottrina e prima di procedere a confutarla,
lo Stagirita rappresenta ancora un’istanza che attribuisce espressamente ai Pita-
gorici (290 b 25: φασίν, «sostengono»): il fatto cioè che il suono degli astri non
sia udito dagli uomini non è affatto illogico (ἄλογον), come potrebbe sembrare

16
Così per esempio B. Centrone, Introduzione ai Pitagorici, Laterza, Roma - Bari 1996, p.
16, il quale, dopo aver riassunto in questi termini gli esiti degli studi più aggiornati sui Pitagorici:
«Aristotele utilizza per la sua esposizione delle dottrine pitagoriche un’opera scritta di contenuto
non dossografico, redatta da un membro della comunità», mette in evidenza l’importanza che pro-
prio per questo ha la testimonianza aristotelica. «Ciò – scrive appunto lo studioso – rende insostitui-
bile, pur con tutte le limitazioni possibili, il valore storico della sua testimonianza».
17
Sul sistema cosmologico dei Pitagorici rimando, in particolare, agli studi di D.R. Dicks,
Early Greek Philosophy to Aristotle, Cornell University Press, Ithaca - New York 1970, pp. 62-76
e di W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge University Press,
Cambridge 1970, pp. 299-368.
18
Ciò è stato ben messo in chiaro da C.A. Huffman, Philolaus of Croton: Pythagorean and
Presocratic. A Commentary on the Fragments and Testimonia with Interpretative Essays, Cam-
bridge University Press, Cambridge 1970, pp. 38-240. Si vedano anche Centrone, Introduzione
ai Pitagorici, p. 131, il quale porta a documentazione della suddetta, «evidente corrispondenza»,
Aet. II, 7, 7 = Philol. 44 A 16 Diels-Kranz (per Filolao il centro dell’universo è il fuoco), Aet III,
11, 2 = Philol. 44 A 17 Diels-Kranz (Filolao afferma che la terra ruota assieme all’antiterra), Aet.
III, 13, 2 = Philol. 44 A 21 Diels-Kranz (per Filolao la terra si muove in circolo). Lungo questa
linea di considerazioni è rilevante anche il contributo di C.H. Kahn, Pythagorean Philosophy
Before Plato, in A.P.D. Mourelatos (ed.), The Pre-Socratics. A Collection of Critical Essays,
Anchor Press, Garden City (NY) 1974, pp. 161-186, il quale dimostra l’esistenza di tratti della
filosofia dei «cosiddetti Pitagorici» che non risalgono a Pitagora.
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1083

(290 b 24: δοκεῖ), ma ha una precisa causa (αἴτιον), consistente nell’assuefa-


zione (συνέθεια) a esso, che ci è nelle orecchie fin dalla nascita e come tale, non
essendo preceduto da un silenzio che esso col suo irrompere spezzi e dia luogo a
una novità percettiva, non viene percepito, al modo in cui anche il silenzio viene
avvertito perché spezza un suono che lo precede. Così scrive, infatti:
E poiché il fatto che noi non udiamo questo suono sembra illogico, sostengono esiste
una causa di ciò: il fatto che il suono delle cose che vengono all’essere sussiste subito,
per cui non è riconoscibile da tutti in relazione al silenzio contrario. Infatti, il discerni-
mento di suono e silenzio è dell’uno in relazione all’altro, cosicché, come a coloro che
battono il bronzo sembra per via dell’abitudine che niente faccia differenza, anche agli
uomini capita la stessa cosa19 (tr. it. mia).

Porfirio, nel luogo della sua Vita pitagorica indicato alla nota 8, sintetizza l’istan-
za dicendo che
la qual cosa [scil. l’armonia musicale degli astri] non sentiamo per la limitatezza della
nostra natura [διὰ σμικρότητα φύσεως] (tr. it. mia).

È altamente probabile che nel far riferimento all’assuefazione quale causa della nostra
assenza di percezione della musica astrale, Aristotele riferisca un assunto effettiva-
mente professato dai Pitagorici. Ed è verisimile che esso sia stato asserito, nel quadro
dell’esaltazione di Pitagora come persona dotata di sovrumane capacità, in risposta
all’obiezione che quella pretesa armonia musicale, avvertita dal solo Pitagora, di fatto
nessuno l’ha mai udita. Donde la non verità dell’istanza sul piano dottrinario.
È altamente probabile, invece, che la spiegazione «causale» della non udibilità
della musica celeste, il fatto cioè che il suono è percepito soltanto se è preceduto
da silenzio e, parimenti, il silenzio si avverte soltanto se è preceduto da un suono,
non corrisponda affatto a un asserto dei Pitagorici che Aristotele riferisce, ma sia
Aristotele stesso ad aggiungerlo, per il desiderio – a lui del tutto consono – di
ricercare sempre la causa.
In questa prospettiva esegetica, la sintesi di Porfirio non pare adeguata, giac-
ché non si tratta già di una limitatezza percettiva dell’uomo, bensì di una legge
acustica, di una condizione strutturale del sentire, e dunque dell’attestazione del
carattere «normale» e pienamente adeguato del percepire umano. A meno che Por-
firio, chiamando in causa la limitatezza del sentire umano, non l’abbia addotta in
rapporto alla capacità uditiva di Pitagora. Ma il contesto sembra escluderlo e non
sembra affatto probabile.

19
DC II, 9, 290 b 24-29: «επεὶ δʼ ἄλογον δοκεῖ τὸ μὴ συνακούειν ἡμᾶς τῆς φωνῆς ταύτς, αἴτιον
τούτου φασὶν εἶναι τὸ γιγνομένοις εὐθὺς ὑπάρχεν τὸν ψόφον, ὥστε μὴ διάδηλον εἶναι πρὸς τὴν
ἐναντίαν σιγήν· πρὸς ἄλληλα γὰρ φωνῆς καὶ σιγῆς εἶναι τὴν διάγνωσιν, ὥστε καθάπερ τοῖς
χαλκοτύποις διὰ συνήθειαν οὐθὲν δοκεῖ διαφέρειν, καὶ τοῖς ἀνθρώποις ταὐτὸ συμβαίνειν».
1084 marcello zanatta

5. Le prime due obiezioni


Contro la teoria pitagorica della musica celeste Aristotele formula tre argomenti
intesi a rigettarla20. I primi due sono i seguenti:
È assurdo
1) non soltanto il non ascoltare niente di ciò di cui intraprendono a esporre la causa,
2) ma anche il non averne alcun’affezione, indipendentemente dalla sensazione. Ché, i
suoni eccessivi consumano anche le masse dei corpi inanimati, per esempio quello del
tuono divide le pietre e i più forti tra i corpi. E poiché traslano <corpi> di molta grandezza
e il suono transita in rapporto alla grandezza che trasla, è necessario che ne giunga fino qui
uno molte volte tanto e che la forza della sua violenza sia immensa. Ma per il fatto che non
viene emesso nessun suono, ben logicamente né udiamo, né risulta che i corpi patiscano
alcuna affezione violenta21 (tr. it. mia).

Il primo argomento, compreso nelle righe 290 b 31-33, non è soltanto la riproposta
della probabile obiezione rivolta ai Pitagorici, secondo l’ipotesi esegetica che s’è
fatta e che da questo contesto argomentativo trae conferma, ma – a ben vedere –
presenta un aspetto ulteriore, che ne manifesta il carattere prettamente dialettico, e
cioè l’attestarsi come argumentum ad hominem. Ché, ai Pitagorici i quali all’obie-
zione dell’assurdità (290 b 32: ἄτοπον) della loro teoria di una musica astrale che
nessuno percepisce opponevano che tale non-udibilità ha una «causa», ora Aristo-
tele oppone che quella stessa «causa» (290 b 33: τὴν αἰτίαν) è assurda in quanto
con essa si pretende spiegare un fatto in se stesso assurdo: l’asserire l’esistenza di
qualcosa che nessuno sperimenta né ha mai sperimentato. Insomma, la pretesa di
spiegare l’assurdo è un vuoto argomentare, e come tale è essa stessa assurda.
Il secondo e il terzo argomento, ponendo in atto la confutazione, la quale,
com’è noto, è un procedimento dialettico, anzi è il procedimento principe della

20
Mi discosto dalla maggioranza degli interpreti nel considerare tre e non due gli argomenti di Ari-
stotele intesi a rigettare la tesi pitagorica dell’armonia celeste. Così, per esempio, L. Elders, Aristotle’s
Cosmology. A Commentary on the De Caelo, Van Gorcum, Assen 1966, p. 225: «Aristotle advances
two arguments against this view on the Pythagoreans: (a) the fact that we do not hear the noise is
not well accounted for; (b) this noise would shatter stones on the earth, but this effect has never been
observed». Nessuna delle due formulazioni, di cui è certamente da ammirare la perentoria incisività
concettuale, mi sembra però pienamente soddisfacente: non la prima, perché manca di mettere in chia-
ro la probabile ripresa di una altrettanto probabile obiezione rivolta ai Pitagorici, donde il suo carattere
totalmente dialettico, come ci apprestiamo ad argomentare; e neppure la seconda perché manca di met-
tere in chiaro il carattere di confutazione, come vedremo, assunto dall’argomento aristotelico.
21
DC II, 9, 290 b 31 - 291 a 6: «οὐ γὰρ μόνον τὸ μηθὲν ἀκούειν ἄτοπον, περὶ οὖ λύειν
ἐγχειροῦσι τὴν αἰτίαν, ἀλλά καὶ τὸ μηδὲν πάσχειν χωρὶς αἰσθήσεως. οἱ γὰρ ὑπερβάλλοντες
ψόφοι διακναίουσι καὶ τῶν ἀψύχων σωμάτων τοὺς ὄγκους, οἷον ὁ τῆς βροντῆς διίστησι
λίθους καὶτὰ καρτερώτατα τῶν σωμάτων. τοσούτων δὲ φερομένων, καὶ τοῦ ψόφου
διιόντος πρὸς τὸ φερόμενον μέγεθος, πολλαπλάσιον μέγεθος ἀναγκαῖον ἀφικνεῖσθαί τε
δεῦρο καὶ τὴν ἰσχὺν ἀμήχανον εἶναι τῆς βίας. ἀλλʼ εὐλόγως οὕτʼ ἀκούομεν οὕτε πάσχοντα
φαίνεται τὰ σώματα βίαιον οὐδὲν πάθος, διὰ τὸ μὴ ψοφεῖν».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1085

dialettica, a tal punto da entrare nella sua stessa definizione22, vedono Aristotele
utilizzare a questo scopo presupposti squisitamente fisici, cosicché l’argomentare
φυσικῶς s’intreccia con l’argomentare ἐλεγτικῶς. Nella prima delle due con-
futazioni, infatti, lo Stagirita utilizza una legge del suono da lui stabilita in De
anima (d’ora in poi indicato con la sigla DA) II, 8, 419 b 9-25, e cioè che il suono
si produce quando la percussione di una superficie dura, liscia, uniforme e cava
muove la massa d’aria confinante, essa medesima continua e unitaria, e quando
quest’aria esterna muove quella contenuta nell’orecchio, la quale a sua volta col-
pisce la membrana del timpano. Dunque, le condizioni perché si generi un suono
sono (1) innanzitutto che qualcosa urti contro qualcosa23, (2) il quale non sia come
la lana, bensì una superficie (a) dura e liscia, quale per esempio il bronzo, e (b)
cava, perché queste prerogative permettono (a) all’urto di risuonare e, (b) tramite
le ripiegature, che si producano molti colpi dopo il primo24. (3) È richiesto altresì
il duplice movimento del medio, l’aria, che, messo in moto dall’effetto del colpo,
muova a sua volta l’aria interna all’orecchio, la quale affetta il timpano25. Aristote-
le fa inoltre presente che anche l’aria risuona se colpita fortemente.
Non è difficile avvedersi che, alla luce di queste condizioni e sulla base di esse,
il suono musicale dei corpi celesti così come i Pitagorici lo concepivano e, in par-
ticolare, come Aristotele presenta la loro concezione, non ha titolo per sussistere
e va perciò negato. Non potrebbe sussistere perché, per emettere un suono, i cor-
pi celesti dovrebbero urtare gli uni contro gli atri, cosa che la teoria pitagorica
non prevede affatto; inoltre, dovrebbero essere duri, lisci e cavi, e neppure questo
è compreso in tale teoria, né essi sono siffatti nel quadro di quella aristotelica,
secondo la quale essi sono costituiti di etere, che non ha affatto tali caratteristiche;
ancora: il suono dei corpi celesti, ove mai si producesse urtando gli uni contro gli

22
Cfr. Aristotele, Top. I, 1, 100 a 1-4, dove si dice che la dialettica consiste nel reperimento di
una μέθοδος che guidi il ragionare nelle discussioni, che metta, cioè, in condizione di confutare
e di evitare d’essere a propria volta confutati, asserendo cose da cui si possa dedurre la contrad-
dizione della propria tesi. Analogamente Aristotele dice anche in Soph. El. 34, 183 37 - b 6. Sul
punto mi permetto di rinviare all’Introduzione dell’edizione italiana dell’Organon da me curata,
vol. I, Utet, Torino 1996, pp. 46-47.
23
DA II, 8, 419 b 9-10: «il suono in atto [ὁ κατʼ ἐνέργειαν ψόφος] è sempre di qualcosa con-
tro qualcosa [τινος πρός τι] e si genera sempre in qualcosa. Infatti, ciò che lo produce è un colpo
[πληγή]» (tr. it. di M. Zanatta, Aristotele. L’anima, Aracne, Roma 2008, condotta sul testo greco
stabilito da W.D. Ross, Aristotelis De anima, Clarendon Press, Oxford 1963).
24
DA II, 8, 419 b 14-20: «la lana anche se venga colpita [ἂν πληγῇ] non produce alcun suono;
invece lo producono il bronzo e tutte quelle cose che sono lisce e cave [λεῖα καὶ κοῖλα]: il bronzo
perché è liscio e le cose cave perché con la loro ripiegatura producono molti colpi dopo il primo, dal
momento che ciò che è stato mosso [scil. l’aria] è impossibilitato a uscir fuori. […] deve generarsi un
colpo delle cose solide [στερεῶν πληγή] l’una contro l’altra» (tr. it. di Zanatta, Aristotele, L’anima).
25
DA II, 8, 420 a 3-5: «è atto a produrre suono [ψοφητικὸν] ciò che è atto a muovere dell’aria che
sia una per continuità fino all’udito [τὸ κινητικὸν ἑνὸς ἀέρος συνεχείᾳ μέχρις ἀκοῆς]. All’organo
dell’udito è congenita dell’aria [ἀκοῇ δὲ συμφυὴς ἀήρ]. E per il fatto che <tale organo> è nell’aria,
quando quella esterna è mossa, è mossa quella interna» (tr. it. di Zanatta, Aristotele. L’anima).
1086 marcello zanatta

altri, essendo essi di notevole grandezza, muoverebbe molta aria esterna e questa,
data la sua quantità, muoverebbe quella di ben più ridotta quantità interna all’o-
recchio in modo tale che l’affezione prodotta da quest’ultima al timpano si risol-
verebbe in realtà in una sua rottura, per cui il suono non sarebbe udito. E ancora:
poiché per Aristotele il suono «si ode nell’aria e anche nell’acqua, ancorché di
meno» – pur non essendo «l’aria né l’acqua il fattore principale del suono»26, ma
il colpo (πληγή) di una cosa solida contro un’altra –, il presunto suono dei cieli e
degli astri, ancorché si desse, non si udirebbe nell’etere in cui sarebbe prodotto27;
ma un suono che non si oda là dove si produce è una contraddizione.
Sennonché, come abbiamo letto, Aristotele, che pur nel secondo argomento si
vale delle condizioni del suono da lui teorizzate, come ben si vede dal richiamo,
strutturale nell’argomento stesso, del movimento e dell’urto dell’aria, non rigetta la
teoria della musica astrale facendo valere i motivi su esposti, pur essendo essi del
tutto consoni all’istanza, ma utilizza soltanto l’argomento secondo cui (schematiz-
zando in un sillogismo ipotetico) «se i corpi celesti emettessero suono, la grande
quantità d’aria che muoverebbero, data la loro grandezza, provocherebbe lo spez-
zamento di cose solide e dure come le pietre; ma non si riscontra nessuno spezza-
mento di tali cose; dunque i corpi celesti non emettono suono»28. Ci si chiede allora
perché egli faccia valere soltanto questa condizione della sua teoria sul suono e non
anche le altre per rigettare la teoria pitagorica, e la risposta è che soltanto sulla base
di questa condizione era possibile costruire una «confutazione [ἔλεγχος]», e Ari-
stotele, in tutta evidenza, ha inteso «confutare» detta teoria, per via dell’efficacia
della confutazione, mentre gli altri argomenti non sono «confutazioni», ma soltanto
«dimostrazioni» dell’inesistenza della musica astrale. La confutazione, infatti, è

26
DA II, 8, 419 b 18-19: «ἀκούεται ἐν ἀέρι, κἀν ὕδατι, ἀλλʼ ἧττον, οὐκ ἔστι δὲ ψόφου
κύριος ὁ ἀὴρ οὐδὲ τὸ ὕδωρ».
27
Su questa linea si è espresso Elders, Aristotle’s cosmology, p. 225 il quale scrive: «in this
chapter Aristotle does not elaborate on how the noise of the celestial bodies would have to enter into
the region of the air and there produce its effects». Meno rilevante in ordine alla determinazione
dell’argomento nel suo nucleo speculativo, mi sembra il rilievo poco prima formulato dallo studioso,
il quale, a proposito della capacità del suono di spezzare le cose, chiamata in causa come esempio
da Aristotele, rileva come quest’annotazione e, in generale, la tesi che il suono, se forte, spezza gli
oggetti, presentano una difformità dalla tesi di DA 424 b 11 dove «is not the sound of thunder, but
the air which accompagnes it, which splits the trunks of trees».
28
Con un sillogismo ipotetico anche Tommaso d’Aquino prospetta l’obiezione di Aristotele: «si
corpora caelestia facerent iam magnos sonos, non solum est inconveniens quod nihil eorum audiatur
quod ipsi [scil. i Pitagorici] solvere nituntur [scil. quella che nella presentazione dell’argomento pitago-
rico abbiamo indicato come “aggiunta” e come risposta a una probabile obiezione], sed etiam inconve-
niens est quod corpora inferiora [scil. gli enti del mondo sublunare e, in specie, quelli inanimati] nihil
patiantur ab illis sonis, etiam si eos non sentiant» (S. Thomae Aquinatis, In Aristotelis libros De caelo
et mundo, De generatiopne et corruptiopne, Metereologicorum expositio, cum texto ex recensione leo-
nina, cura et studio P.fr. R.M. Spiazzi, Marietti, Torino 1952, L. II, 1, XIV, 424, p. 211). Dall’esegesi
tomista mi discosto, sia pur parzialmente, per non includere nell’argomento anche «l’aggiunta».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1087

«il sillogismo della contraddizione»29 o, come pure è definita, «il sillogismo con
contraddizione della conclusione»30, e come ben si vede nella schematizzazione
dell’argomento sopra proposta mercé un sillogismo ipotetico, in esso la conclusio-
ne contraddice la premessa dell’esistenza della musica celeste. Gli altri argomenti
atti a respingere la teoria pitagorica, che pur possono formularsi sulla base delle
condizioni del suono istituite da Aristotele, non sono, come chiaramente si costa-
ta, delle confutazioni, perché non concludono con la contraddizione della tesi, ma
dimostrano l’impossibilità del suo darsi.

6. Le ragioni del rigetto e la terza obiezione


A proposito della seconda obiezione è stato rilevato che «probabilmente» i Pita-
gorici non conoscevano la teoria della rivoluzione delle sfere celesti trasportanti
i pianeti in esse incastonati, come anche prima si è fatto presente. Essa – è stato
ancora rilevato – risale ad Anassimandro, secondo la testimonianza di Aet., II, 16,
5 = A 18 Diels-Kranz, e Aristotele l’avrebbe professata trasferendo sul piano fisico
«i cerchi puramente geometrici di Eudosso e Calippo»31. Senza entrare nel merito
della plausibilità storica di riferire la prima professione di questa teoria al Milesio,
materia non attinente a quest’articolo, per quanto invece e nella misura in cui con
il rilievo s’intende affermare che Aristotele obietta contro i Pitagorici nel quadro
della propria concezione del movimento astrale, non vi è dubbio che la cosa stia
effettivamente così, ma con l’aggiunta che quest’impostazione – la quale è usuale
nelle indagini, peirastiche ed exetastiche e non già storiche o dossografiche, dello
Stagirita sui predecessori, del cui pensiero non intende dare notizia, ma valutare
criticamente la fondatezza al fine di accoglierne quanto è adeguato, corregger-
ne invece e rifiutarne quanto non lo è, secondo il metodo dialettico da lui stesso
teorizzato32 – è del tutto consona con l’intendimento dello Stagirita di verificare
mercé il confronto con essa la propria dottrina sui cieli. Il che è esplicitamente
dichiarato dal filosofo, che a conclusione della seconda obiezione scrive che
contemporaneamente la causa di questi <fatti> è chiara e vi è per noi una testimonianza
dei ragionamenti che si sono esposti, ossia che sono veri. In effetti, ciò che crea difficoltà e
fa sì che i Pitagorici sostengano che ha luogo una sinfonia dei <corpi> che traslano, per noi
costituisce una prova33 (tr. it. mia).

29
Aristotele, Soph. El., 6, 168 a 37-38; 9, 170 b 2-3.
30
Ibi, 1, 165 a 2-3.
31
Elders, Aristotle’s cosmology, p. 225.
32
Sull’uso e sulla basilare rilevanza della dialettica nelle indagini dello Stagirita molto è stato
scritto dalla più aggiornata storiografia aristotelica, ma in questa sede basterà richiamare i molti con-
tributi di E. Berti e, tra essi, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma - Bari 1989.
33
DC II, 9, 291 a 6-9: «ἄμα δʼ ἐστὶ τό τʼ αἴτιον τούτων δῆλον, καὶ μαρτύριον τῶν
εἰρημένων ἡμῖν λόγων, ὡς εἰσὶν ἀληθεῖς· τὸ γὰρ ἀπορηθὲν καὶ ποιῆσαν τοὺς Πυθαγορείους
1088 marcello zanatta

Ciò di cui la rigettata tesi pitagorica della musica celeste fornisce la prova è la verità
innanzitutto della teoria (precedentemente da Aristotele formulata e dimostrata) che
gli astri non si muovono da sé, ma sono mossi dalle sfere dei cieli in cui sono inca-
stonati34; ma anche di altre tesi, come vedremo. La pretesa musica celeste derivava
infatti, per i Pitagorici, dal movimento che gli astri hanno per se stessi. È questo
uno degli scopi che hanno indotto Aristotele a esaminare e rifiutare la tesi pitagori-
ca: quello fondamentale, giacché è quello che Aristotele stesso dichiara, ma non è
l’unico, come vedremo. Tuttavia in questo momento interessa che, nel far presente
l’intendimento dell’indagine condotta e l’efficacia probatoria della reiezione testé
eseguita in ordine all’asseveramento della propria dottrina dei cieli, Aristotele for-
mula implicitamente una terza obiezione alla tesi pitagorica. Che va esaminata.
Questo l’intero passo:
Tutte le cose che trasportano se stesse producono suono e silenzio; invece tutte quelle
che sono vincolate o sussistono in una che trasla, come le parti in una nave, non possono
emettere suono, né lo può la nave stessa se navighi in un fiume. Eppure sarebbe possibile
formulare i medesimi ragionamenti, ossia che vi è un assurdo se l’albero e la prua di una
nave di molta grandezza quando traslano non producono un abbondante suono, o a sua
volta non lo produce la nave muovendosi. Ciò che trasla in una cosa che non trasla emette
suono; invece in una che trasla, una cosa non continua e che non produce un urto è impos-
sibile che emetta suono. Di conseguenza, a questo riguardo si deve dire, come se i corpi
degli astri traslassero in una quantità sia di aria, sia di fuoco sparsa per il tutto, al modo in
cui tutti sostengono, che è necessario che i <corpi> in alto per la loro grandezza producono
un suono, e quando esso ha luogo, e giunge qui e procura fratture. Per cui, se non risulta
che avviene questo, nessuno degli astri né trasla di una traslazione dotata di anima né di
una violenta, come ciò che in futuro deve essere perché la natura lo prevede, dal momento
che, non comportandosi il movimento in questo modo, nessuna delle cose che si trovano
intorno al luogo di qui potrebbe stare in modo simile35 (tr. it. mia).

φάναι γίγνεσθαι συμφωνίαν τῶν φερομένων ἡμῖν ἐστὶ τεκμήριον».


34
Su di essa si sono soffermati gli studiosi (cfr. per esempio J. Tricot, Aristote. Traité du ciel sui-
vi du traité pseudo-aristotélicienne Du monde, Vrin, Paris 1949, p. 92, nota 3, dove afferma che ciò
cui Aristotele allude sono «l’immobilité des astres et le mouvement des sphères où ils sont fixés»,
anche perché il riferimento a essa salta subito agli occhi nel discorso dello Stagirita; ma non l’unica,
e del resto lo Stagirita stesso parla della verità (ὥς εἰσιν ἀληθείς) «dei ragionamenti che si sono
esposti [τῶν εἰρεμένον […] λόγον]» e non «del ragionamento», cui la reiezione della tesa pitagori-
ca dà testimonianza (μαρτύριον).
35
DC II, 9, 291 a 9-26: «ὅσα μὲν γὰρ αὐτὰ φέρεται, ποιεῖ ψόφον καὶ πληγήν· ὅσα δʼἐν
φερομένῳ ἐνδέδεται ἢ ἐνυπάρχει, καθάπερ ἐν τῷ πλοίῳ τὰ μόρια, οὐχ οἷόν τε ψοφεῖν, οὐδʼ
αὖ τὸ πλοῖον, εἰ φέροιτο ἐν ποταμῷ. καίτοι τοὺς αὐτοὺς λόγους ἂν ἐξείη λέγειν, ὡς ἄτοπον
εἰ μὴ φερόμενος ὁ ἱστὸς καὶ ἡ πρύμνα ποιεῖ ψόφον πολύν τηλικαύτης νεώς, ἢ πάλιν αὐτὸ τὸ
πλοῖον κινούμενον. τὸ δʼ ἐν μὴ φερομένῳ φερόμενον ποιεῖ ψόφον· ἐν φερομένῳ δὲ συνεχὲς
καὶ μὴ ποιοῦντι πληγὴν ἀδύνατον ψοφεῖν. ὥστʼ ἐνταῦθα λεκτέον ὡς εἴπερ ἐφέρετο τὰ
σώματα τούτων εἴτʼ ἐν ἀέρος πλήθει κεχυμένῳ κατὰ τὸ πᾶν εἴτε πυρός, ὥσπερ πάντες φασίν,
ἀναγκαῖον ποιεῖν ὑπερφυᾶ τῷ μεγέθει ψόφον, τούτου δὲ γινομένου καὶ δεῦρʼ ἀφικνεῖσθαι καὶ
διακναίεν. ὥστʼ ἐπείπερ οὐ φαίνεται τοῦτο συμβαῖνον, οὔτʼ ἂν ἔμψυχον οὕτε βίαιον φέροιτο
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1089

È subito chiaro che Aristotele costruisce il discorso su una dottrina propria: produ-
cono suono i corpi che hanno un movimento autonomo, invece non ne producono
quelli che si muovono perché si muove ciò in cui sono collocati. La ragione è evi-
dente: tra essi non vi è urto (πληγή), determinazione che, espressamente nominata
nel passo, ha pienezza di senso nel riferimento alla teoria generale del suono di DA
II, 8 di cui si sono indicati i termini basilari e che, come si diceva all’inizio, costitu-
isce l’ambito entro il quale si declina la critica dello Stagirita. Anche l’indicazione
delle cose su una nave le quali non si muovono per sé, ma solo perché trasportate
dalla nave, e quella della nave stessa entro il corso del fiume richiamano immedia-
tamente la situazione della nave di Phys. IV, 4, 212 a 14-20 alla quale Aristotele si
appoggia per illustrate la teoria del luogo. Ma v’è di più: la stessa determinazione
del carattere non autonomo del movimento degli astri in quanto trasportati dai cieli
s’inquadra nella teorizzazione della distinzione tra movimento per sé e movimento
per accidente di Phys. IV, 4, 211 a 17-21, dove per l’appunto si afferma che
È una cosa mossa, da un lato ciò che lo è per sé, in atto, dall’altro ciò che lo è per acciden-
te. <Si muove> per accidente, da un lato ciò che può muoversi per sé, per esempio le parti
del corpo e il chiodo nella nave, dall’altro…36,

con un esempio, quale quello del chiodo, al quale in tutta evidenza si connette l’e-
sempio delle parti della nave del passo del DC qui in esame.
Sulla base di questa distinzione e dalla dimostrata impossibilità che gli astri
emettano suono, Aristotele assevera, dunque, la tesi, previamente raggiunta, che
gli astri non si muovono da sé ma per la traslazione in circolo dei cieli in cui sono
incastonati, con un ragionamento che formalmente si scandisce nel seguente sillo-
gismo in Camestres: ciò che si muove da sé emette suono; ma gli astri non emetto-
no suono; dunque gli astri non si muovono da sé.
Ma, a ben vedere, anche altri due aspetti della dottrina aristotelica dei corpi cele-
sti – entrambi essenziali in ordine alla determinazione della loro natura – risultano
confermati dalla reiezione della pretesa musica astrale. Uno è la dottrina che l’uni-
verso (di volta in volta indicato dallo Stagirita come ὁ κόσμος, τὸ πᾶν, τὸ ὅλον37)

φορὰν οὐθὲν αὐτῶν, ὥσπερ τὸ μέλλον ἔσεσθαι προνοούσης τῆς φύσεως, ὅτι μὴ τοῦτον τὸν
τρόπον ἐχούσης τῆς κινήσεως οὐθὲν ἂν ἦν τῶν περὶ τὸν δεῦρο τόπον ὁμοίως ἔχον».
36
Aristotele, Phys., IV, 4, 211 a 17-21: «ἔστι δὲ κινούμενον τὸ μὲν καθʼ αὐτὸ ἐνεργείᾳ, τὸ
δὲ κατὰ συμβεβηκός· κατὰ συμβεβηκὸς δὲ τὸ μὲν ἐνδεχόμενον κινεῖσθαι καθʼ αὐτό, οἷον τὰ
μόρια τοῦ σώματος καὶ ὁ ἐν τῷ πλοίῳ ἧλος». La traduzione italiana è di M. Zanatta, Aristotele.
Fisica, UTET, Torino 1999.
37
Vi è tuttavia da segnalare la differente prospettiva da cui Aristotele, pur concependo sempre
l’universo come contenente l’insieme degli enti, ne modula, a seconda dei contesti, la determinazio-
ne di «tutto» e di «intero», stante che «tutte quelle cose la cui posizione <delle parti> non produce
una differenza sono dette un tutto [πᾶν], mentre tutte quelle la cui <disposizione delle parti la>
produce <sono dette> un intero [ὅλον]» (Aristotele, Metaph. V, 26, 1024 a 2-3; tr. it. di M. Zanatta,
Aristotele. Metafisica, Rizzoli, Milano 2008).
1090 marcello zanatta

è finito38. Il che sarebbe indirettamente contraddetto se gli astri producessero un


suono musicale in virtù del fatto d’essere regolati nelle loro traslazioni da quegli
stessi principi che stanno alla base dell’armonia, ossia dai numeri, i quali sono per
l’appunto infiniti. Insomma, l’universo, che è «il tutto», «l’intero», ossia l’insieme
ordinato di corpi la cui natura, comportando che il relativo movimento sia armonico,
è determinata da numeri, i quali sono infiniti, sarebbe esso stesso infinito: proprio
perché il tutto non può che essere regolato dagli stessi principi di cui sono regolati i
corpi il cui insieme lo fa essere un tutto. Cosicché la smentita della pretesa armonia
celeste, comportando che i corpi costituenti il tutto non sono regolati nelle loro tra-
slazioni da principi aperti all’infinito, ha per conseguenza che il tutto stesso non sia
aperto all’infinito, cioè sia finito.
E ancora, risulta confermata la dottrina che i cieli e gli astri sono costituiti di
etere, ossia di un elemento diverso dai quattro di cui sono costituiti gli enti sublu-
nari: diverso, in particolare, dall’aria. La natura eterea dei corpi celesti sarebbe,
infatti, implicitamente smentita se fosse vero che la loro traslazione produce un
suono armonico, stante che il suono si propaga tramite un mezzo, e questo è l’aria.
Ma, come si annunciava, nel complessivo contesto di questo discorso finale,
frammischiato con la conferma di momenti cardinali della teoria aristotelica dei cie-
li, si riscontrano anche i termini di una terza obiezione alla tesi dell’armonia celeste.
Questa tesi ha alla base quella, espressamente professata dai Pitagorici, e da Aristo-
tele stesso attribuita loro, che gli astri si muovono da sé. Si badi, si tratta proprio di
una tesi pitagorica, espressamente professata da costoro, non di un’istanza inferita
da una riflessione sui presupposti e sulle condizioni da cui discende la tesi pitago-
rica dell’armonia celeste. Il che è di fondamentale importanza per escludere che la
terza prova, che ora verrà specificata, possa essere fraintesa come la riformulazione
«in circolo» del precedente sillogismo: quasi che sulla base del procedimento con
cui da due premesse si ricavava la necessità della conclusione, ora da una di quelle
premesse e dalla conclusione si ricava l’altra premessa. Il fatto che il muoversi da
sé degli astri non valga come esito inferito da una riflessione quale quella suddetta,
ma sia una tesi dei Pitagorici e in questa specifica determinatezza venga ora assunta,
esclude alla radice la possibilità di una tale lettura fraintendente.
Ebbene, alla luce di quanto s’è or ora precisato è possibile scorgere che nelle pie-
ghe del discorso aristotelico si delinea anche una prova che, formalizzata, si scandi-
sce secondo il seguente sillogismo ipotetico: se gli astri emettono suono allora non
si muovono da sé; ma non-non si muovono da sé; dunque gli astri non emettono
suono (la negazione del conseguente implica infatti la negazione dell’antecedente).

38
Cfr. per esempio 293 a 19: τὸν ὅλον πεπερασμένον, detto del cielo, che, racchiudendo l’uni-
verso, comporta che l’universo stesso sia πεπερασμένον.

Potrebbero piacerti anche