Giacomo Leopardi

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GIACOMO LEOPARDI

VITA
Primogenito di dieci figli, Giacomo nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, nelle Marche,
nello Stato pontificio, dal conte Monaldo Leopardi e dalla marchesa Adelaide Antici. La
sua era una famiglia dell'aristocrazia terriera, rigida e tradizionalista, ed economicamente
in declino. Il padre era uomo di vasta cultura ma d'orientamento conservatore, animato da
una curiosità intellettuale ripresa dall’illuminismo. Giacomo crebbe dunque in un clima di
rigida ortodossia cattolica e di educazione autoritaria, priva di confidenza e affetto.
Giacomo fu istruito da insegnanti privati, iniziati nel 1807 e proseguiti instancabilmente per
tutta la vita. Fin dagli anni dell’infanzia, l’ampiezza degli interessi culturali fu prodigiosa,
cominciò a leggere sia i classici che i contemporanei.
Tra il luglio e l'agosto 1817, Giacomo iniziò a registrare note e appunti delle sue letture e
delle sue meditazioni nello Zibaldone di pensieri, eccezionale diario e autobiografia
intellettuale, la cui stesura si protrasse per circa quindici anni (fino al 4 dicembre 1832).
Nel 1818 il poeta ribadì il suo classicismo nel “Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica”.
Nel frattempo, l'impossibilità di lasciare Recanati, anche per mancanza di denaro, gli
rendeva insopportabile l'atmosfera opprimente del palazzo paterno, tanto che nel luglio
1819 Giacomo tentò maldestramente di fuggire. La crisi fu all’origine di una conversione
filosofica, una svolta nel pensiero leopardiano che si manifestò con un nuovo interesse per
la poesia, avviando la stesura degli Idilli.
Nel 1822 i genitori concessero finalmente a Giacomo di allontanarsi da Recanati. Ma il
mondo fuori da Recanati lo deluse profondamente. Con il ritorno a Recanati abbandonò la
poesia e cominciò a scrivere in prosa, più ragionativa e riflessiva. Iniziò così la stesura
delle prime venti Operette morali.
Lasciò nuovamente Recanati e nel 1828 conobbe il giovane intellettuale napoletano
Antonio Ranieri, che divenne suo amico inseparabile. Privo di mezzi economici e in
precarie condizioni di salute, fu costretto a tornare a Recanati e cominciò a scrivere i canti
più celebri, detti «pisano-recanatesi».
Nel 1830 poté lasciare definitivamente Recanati, grazie ai suoi amici fiorentini che gli
offrirono un assegno mensile per un anno. Leopardi arrivò a Firenze, visse la sua ultima e
più intensa passione d'amore, per la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti, che ispirò i
cinque componimenti del cosiddetto «ciclo di Aspasia».
Nel 1833 lasciò Firenze e si stabilì a Napoli, ospite di Antonio Ranieri. Nell'aprile 1836 si
ritirò con Ranieri presso villa Ferrigni, a Torre del Greco, per trovare nell'aria più salubre
della campagna un giovamento alla precaria salute e per sfuggire al colera che
imperversava in città. Morì nel 1837 a Napoli.
“Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”
Nel saggio critico scritto nel 1818, Leopardi legge una rivista che lo portò a confrontare le
sue conoscenze con quelle attuali. La natura è il mezzo con cui si esprime l’immortalità
della poesia, ed il senso dell’eternità alberga in ogni anima umana che si esprime con il
contatto della natura.
Leopardi dice inoltre che la caratteristica negativa che pone un freno alla tendenza
all’infinito è l’abitudine/frequenza, il vivere frequentemente permette di vivere nei limiti ed
impedisce di vivere appieno l’infinito.
La fantasia o immaginazione ci porta oltre questo limite e ci porta alla necessità di toccare
fisicamente, il bisogno e la sensazione dell’infinito.
Essere un poeta classicista non significa cercare di imitare la perfezione degli antichi, ma
ritrovare la loro stessa purezza, ritornando a quell'incorrotto stato di natura che il dilagare
della ragione ha soffocato. La distanza tra la poesia degli antichi e quella dei moderni
assume esplicitamente i tratti dell'opposizione tra la genuinità dello stato di natura e la
corruzione provocata dall'«incivilimento»: in un presente in cui tutto è ragione e calcolo,
anche la moderna poesia romantica non può che essere arida e intellettualistica, o incline
all'orrido e al brutto. Occorre pertanto ritornare alla grande poesia delle origini che cantava
la natura, celebrando la bellezza e la forza della vita.
Il compito del poeta non è dunque istruire, bensì illudere, non educare ma procurare
diletto, impedendo alla ragione di distruggere i dolci inganni della fantasia.
POETICA
Le illusioniLa natura è considerata da Leopardi una madre benigna che ha donato
all’essere umano il piacere più grande di cui egli possa godere, quello delle illusioni. Le
illusioni sono i valori che danno un senso dell’esistenza, sono il conforto, il risarcimento
per un mondo deludente e povero di ideali.
Se la natura, mediante la facoltà immaginativa, conforta l'uomo facendogli dono del
«vano» piacere delle illusioni, al contrario la ragione distrugge la sua capacità fantastica,
disseccando la sua vena poetica e rendendolo infelice, in quanto consapevole della
propria misera condizione.
Pessimismo Con «pessimismo storico», s'intende la prima fase del pensiero
leopardiano, quando il poeta riconduce la propria visione negativa e pessimistica della
realtà e dell'esistenza alla particolare situazione storica e politica dell'Italia della
Restaurazione. Leopardi vede nell'antichità una stagione di pienezza, e nel presente una
condizione di dolore, identificando pertanto la storia come un processo inesorabile di
decadenza e allontanamento dalla felicità.
Nel 1819 nasce in leopardi una lenta crisi della fiducia nel «sistema della natura e nella
forza lenitiva delle illusioni. Matura la sua conversione alla filosofia. Leopardi diventa
dunque «moderno», cioè si avvicina «alla ragione e al vero» che smorzano la fantasia e
rivelano la noia, il vuoto, la disperazione. Si intensifica la drammatica dialettica tra la realtà
e le illusioni.
Il pessimismo storico diventa un pessimismo psicologico-esistenziale, partendo dalla
teoria del piacere. L’individuo è caratterizzato da un desiderio illimitato di piacere.
Un tale desiderio è destinato a rimanere sempre insoddisfatto, poiché, anche nel momento
in cui si riesca a provare il piacere dell'appagamento di un desiderio, si tratta comunque di
una condizione effimera, immediatamente superata e incrinata dal sorgere di un nuovo
desiderio. Perciò, anche quando non esistono motivi concreti di dolore, ciascuno è
ugualmente triste e sofferente a causa del suo inappagabile desiderio di piacere.
La sofferenza non è più come l'esito di un processo storico che soffoca e blocca l'agire
dell'individuo, ma come una caratteristica insita nella stessa natura umana. L'uomo non
soffre per ragioni contingenti, storico-politiche, ma è destinato a soffrire per la frustrazione
generata dalla circolarità del meccanismo desiderio-insoddisfazione desiderio.
Comincia a nascere in Leopardi l’idea di un contrasto tra natura e l’individuo: il poeta
giunge alla consapevolezza che è la natura stessa a suscitare nell'essere umano quel
desiderio illimitato di felicità che, destinato a rimanere insoddisfatto, lo rende infelice e
sofferente.
Nasce una nuova concezione della natura: Leopardi si persuade che la ricerca del piacere
non sia che un meccanismo architettato dalla natura stessa al fine di garantire il
perpetuarsi della specie umana. L'idea di una natura benigna cambia e diventa una
matrigna indifferente che divora la propria prole. La natura non offre più al genere umano
un mezzo per far fronte alle miserie e alle sofferenze dell'esistenza (le illusioni), ma si
limita ad assecondare il ciclo di produzione e distruzione in cui si risolve la vita
dell'universo.
Nasce così il pessimismo cosmico, una visione rigorosamente materialistica della realtà.
L'infelicità umana non è causata dall'incivilimento, ma è intrinseca alla vita stessa, perché
tutto ciò che esiste non è che un anonimo ingranaggio nel ciclo meccanicistico di
«produzione e distruzione», regolato dall'indifferente natura. Leopardi rivolge la sua
invettiva contro una nuova, unica responsabile della sofferenza umana: la natura.
Il poeta giustifica il suicidio (ritenendolo liberatorio e salvifico), ma lo rifiuta di fatto, in nome
del senso dell'animo, ossia di quel gusto di vivere che inevitabilmente risorge, anche in
mezzo alle sofferenze, grazie al conforto dell'amicizia e al sostegno delle persone care.
Vago e indefinito Il piacere è irraggiungibile nella realtà, ma si può trovare nelle
immagini del «vago e indefinito», capaci di procurare piacere nell'immaginazione. Queste
situazioni sono piacevoli perché rispondono al bisogno umano di infinito: laddove non si
riesce più a vedere o a sentire, subentra infatti la forza fantastica, che si figura spazi
sterminati e lontananze senza confini.
I CANTI e la Ginestra o fiore del deserto
Il titolo “Canti” è un titolo programmatico, unisce la canzone del senso petrarchesco e
tradizionale, con i versi, in senso sparso e non organizzato (riprende la tradizione per
portarlo verso la modernità). I Canti hanno 3 edizioni curate da Leopardi:
o Nel 1831, la prima edizione, con 23 testi intitolata “i canti”
o Nel 1835 a Napoli, la seconda edizione, con 39 testi, ma verrà fermato dalla
censura (edizione napoletana)
o Nel 1845, curata da Ranieri, la terza edizione, con 41 testi

La lirica dei Canti ha uno scopo civile e sentimentale dell’espressione della propria
soggettività, e la tecnica è sia quella tradizionale della canzone che quella spontanea dei
versi.
Leopardi propone un modello diverso da quello Petrarca che è simbolo della tradizione
lirica italiana, un modello che esprimeva esemplarità. Leopardi propone sé stesso come
strumento per l’indagine esistenziale, non propone regole, il soggetto è l’io e non l’indagine
psicologica che deve diventare modello.
I temi di questa raccolta: civile, comprensione del rapporto tra antichi e i moderni, la
memoria o rimembranza (incarnazione del vago e indefinito), l’amore (presente nel ciclo di
Aspasia). Leopardi si pone come punto di arrivo la riflessione dialettica e di trovare un
senso ed una risposta alle domande.
Nell'aprile 1836, Leopardi lascia il centro di Napoli, infestato dal colera, per trasferirsi con
l'amico Antonio Ranieri in campagna. I due sono ospiti del cognato di Antonio a villa
Ferrigni, fra Torre del Greco e Torre Annunziata, alle pendici del Vesuvio. Alle spalle della
villa si erge la sagoma minacciosa del vulcano, mentre all'orizzonte si distende il golfo di
Sorrento. A breve distanza si possono visitare i siti archeologici di Ercolano e Pompei.
In questo luogo particolarmente suggestivo, Leopardi compone il suo ultimo canto, La
ginestra o il fiore del deserto.
Le numerose passeggiate attraverso le desolate campagne vesuviane e tra le antiche e
nobili rovine di Pompei offrono al poeta ricchissimi spunti per la sua meditazione sulla vita
e sulla natura. Il deserto pietrificato del Vesuvio, in particolare, è un'esemplare
manifestazione della natura maligna, mentre le rovine sono testimonianza della fragilità dei
destini umani.
la Ginestra o il fiore del deserto
La Ginestra venne composta a Torre del Greco nella primavera 1836 ed occupa il
trentaquattresimo posto nell’edizione definitiva dei Canti, raccolta lirica composta tra 1816
e 1837. È l’ultima opera inedita poiché i componimenti successivi sono traduzioni o
imitazioni ispirate alla lirica greca.
Il giallo fiore odoroso, che con le sue radici si aggrappa a pendii aridi e poco ospitali,
rappresenta la precarietà della vita umana e l'inevitabile sofferenza dei mortali, ma anche
la dignità di chi, pur consapevole di non poter cambiare il proprio destino di creatura
infelice, lo accetta a testa alta, guardando coraggiosamente in faccia la realtà.
Canzone libera di endecasillabi e settenari, composta da 317 versi divisi in sette strofe, è
una poesia di pensiero, con una struttura argomentativa ampia e complessa, chiusa
circolarmente sull’immagine della ginestra. La sua complessità fa pensare al carme dei
sepolcri, raccoglie la poetica a lui precedente.
Ha una struttura argomentativa, fondata su tesi argomentati sul pensiero. Divisa in:
 EPIGRAFE, verso greco che deve orientarci alla lettura. Dal versetto di Giovanni,
l’epigrafe dice “e amarono gli uomini le tenebre piuttosto che la luce”, per il poeta si
giunge alla verità attraverso la «luce» della ragione, intesa come coscienza critica
della realtà, mentre le «tenebre» rappresentano l'incapacità di vedere, il bisogno di
rifugiarsi dietro false illusioni
 PRIMA STROFA: confronto tra passato e presente che prende le mosse dalla
descrizione del paesaggio
 SECONDA STROFA: polemica contro il presente e le sue ideologie
 TERZA STROFA: allegoria del povero malato
 QUARTA STROFA: immagine della condizione umana
 QUINTA STROFA: paragone tra il frutto che si abbatte sul formicaio e la forza del
Vesuvio
 SESTA STROFA: la violenza del vulcano e il parallelo fa il passato e il presente
 SETTIMA STROFA: ripresa dell’immagine della ginestra, per esprimere il concetto
fondamentale, se siamo destino di distruzione, propone un modo di vivere
dignitosamente nonostante la sofferenza, la ginestra è consapevole di tutto ma
resiste fino alla finela ginestra come simbolo dell’umanità consapevole che
vedendo la verità decide di resistere.
Lo stile è sinfonico, la sintassi è musicale, linguista con periodi lunghi e complessi per
esprimere le problematicità. Il ritmo da adagio diventa allegro che poi diventa incalzante
ed insistente.
L’ALLEGORIA è un metodo di comunicazione che deve evocare nel lettore sensazioni e
stimolare riflessioni che arrivano alla problematicità del reale, è uno strumento poetico per
portare il lettore a cogliere il senso del reale.
Ospite presso villa Ferrigni, alle falde del Vesuvio, il poeta ha dinanzi a sé il minaccioso
vulcano e, tutto intorno, campi desolati e silenziosi, punteggiati soltanto dal colore giallo
della ginestra, il fiore del deserto. Nella sua desolazione, il paesaggio attorno al vulcano
ben rappresenta la sorte del genere umano, destinato necessariamente alla sofferenza
alla morte: con la stessa feroce e impassibile terribilità del Vesuvio, la natura può
cancellare l'esistenza umana in un attimo, senza la minima fatica. Ma gli esseri umani,
anziché accettare la dolorosa verità della loro fragilità, continuano a illudersi con i falsi miti.
Più saggiamente la ginestra, umile fiore de stinato a morire, consola il deserto con il suo
profumo e non si ribella, ma accetta con dignità la propria sorte.
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
L’ultimo dei canti pisano-recanatesi, composto tra 1829 e 1830, è legato ad un articolo che
Leopardi aveva letto su una rivista. L’articolo di cronaca riguardava dei pastori dell’Asia
che di notte guardavano seduti il cielo per controllare il gregge. Il poeta affida al pastore la
riflessione sul significato dell’esistenza e del dolore, sottoforma di dialogo con la luna
silenziosa (si guardavano le culture orientali che richiamavano il primitivismo).
Canto= stesso nome del nome della raccolta.
Notte= momento canonico, delle grandi imprese e avvengono cose che il giorno non può
vedere (es. Troia cade di notte, Tancredi e Clorinda).
Pastore= pastore anziano seduto su una roccia nel deserto, nella natura dialogando con il
gregge e con la luna (per 4 volte, con 4 aggettivi diversi)diventa simbolo degli uomini e
di comunità umana che si rivolge al mondo.
Errante= ha due significati: colui che vaga, colui che sbaglia.
Asia= per evocare immensità, non completamente conoscibile.
Leopardi toglie lo schema ritmico, la melodia è ritmicità che viene dal ritorno di suoni diluiti
all’interno di un andamento musicale, la musicalità accennata si sente dalla sensazione
uditiva della ripetizione ritmica. Il canto si compone di sei strofe di misura disuguale, che
chiudono con una rima in -ale.
Leopardi affida la propria voce a un ignoto pastore, nomade nelle sterminate pianure
dell'Asia centrale, che rivolge alla luna una serie di domande sul mistero della vita, sul
significato dell'esistenza e della sofferenza umana. Le domande restano naturalmente
senza risposta: le parole del pastore risuonano nel paesaggio deserto e desolato, mentre
la luna continua a illuminare silenziosa la notte serena. Nella disperata ricerca di un
interlocutore, il pastore si rivolge quindi anche alle proprie greggi, che gli appaiono più
fortunate di lui, perché indifferenti al senso del vivere e prive di noia. Viene negata anche
la possibilità di una felicità incosciente, nascere significa sempre e comunque soffrire.
La prima strofa propone le domande del pastore, la seconda mette in scena l'affanno
inutile della vita. La terza afferma che la vita umana è segnata dal dolore fin dal momento
della nascita. La quarta, si fonda sul senso della fragilità umana e del male di vivere,
affermato ancora sul piano personale. La quinta specifica questo male, che è proprio delle
creature umane e consiste particolarmente nella noia. La sesta, estende il peso di questo
male a tutti i viventi.
Si introduce il tema della noia, il vero sentimento della vita, e distingue l'essere umano
dalle altre creature: quando l'individuo non ha motivo di gioire né di soffrire allora prova
noia, cioè sente l'infelicità nativa dell'uomo.
Il pastore afferma l'inevitabilità del male per tutti gli esseri viventi, uomini e animali. La luna
resta «candida», non contaminata da alcun patimento, sola e impassibile nella sua
intangibilità.
Il pastore si trova così in un rapporto diretto con il deserto e con la solitudine, che mettono
in luce la sofferenza e la fragilità dei viventi.

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