Italiano
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1.1 Definizione: il realismo positivo, corrisponde, da un punto di vista temporale, alla seconda metà dell’800 sia in Europa che in Italia; questo movimento assume il nome di
Positivismo in Francia e di Verismo in Italia. Il sorgere di questo movimento è legato ad aspetti storici, letterari e filosofici.
1.2 Genesi storica: Le origini storiche del secondo Realismo sono fondate sul fallimento dei moti rivoluzionari insurrezionali europei, in particolare quelli del ’48 e sul fallimento della
prima Guerra d’Indipendenza. Questi moti erano nati per tradurre in pratica l’ideale romantico di libertà e di indipendenza nazionale, quasi che bastassero entusiasmo e fede per
riuscire nell’impresa. I moti insurrezionali fallirono per l’eccessivo idealismo dei promotori (primo fra tutti Mazzini), che, mancando di senso pratico, non furono in grado di
organizzare in maniera efficace i vari moti. Nella seconda metà dell’800 lo statista e primo ministro piemontese Cavour comprese i problemi organizzativi, e diede energia e
organizzazione al nuovo movimento per l’unità di Italia attuando un’acuta ed intelligente politica estera inserendosi nel gioco delle grandi potenze europee. Il nuovo corso storico
avrebbe portato un cambiamento sociale ed economico nel nostro paese, ma non a vantaggio degli elementi più poveri della società.
1.3 Genesi scientifica: Il movimento del secondo Realismo ha la sua radice profonda nella scienza, nelle dottrine biologiche di Darwin, Lamarck, Spencer ecc. Per questi studiosi
l’uomo è determinato nella sua evoluzione da fattori biologici, ereditari, ambientali e storici. Da qui ne esce un’immagine del genere umano non più privilegiata rispetto alle altre
specie animali, ma anch’essa condizionata nel suo comportamento da fattori esterni ed interni alla sua natura.
1.4 Genesi filosofica: La nuova scienza fa sorgere una nuova filosofia, il Positivismo così definito perché nello studio dell’uomo fonda la sua analisi su dati positivi, concreti e
tangibili della realtà.
LE IDEE FILOSOFICHE DEL POSITIVISMO E DELL’ ILLUMINISMO : Il Positivismo a prima vista si presenta come un ritorno alla concezione meccanicistica della natura e
dell’uomo che fu propria dell’Illuminismo, che però era mosso da un’ispirazione universalistica della Natura e della società, dal sentimento della libertà, della giustizia, della
solidarietà tra i popoli.
Il Positivismo si svuota invece di questi aspetti universali e si sviluppa nei contrasti interni tra le classi sociali, nei contrasti internazionali per la conquista dei mercati e delle colonie,
per ricavarne le materie prime necessarie alle industrie.
In questa seconda metà dell’800 si formalizzano quelle ideologie che saranno alla base di quelle che si esprimeranno nel ‘900: nazionalismo, colonialismo, imperialismo. Questi
ideali non sono altro che una trasposizione ideologica/ letteraria dei principi ricavati dalle scienze biologiche; come la selezione naturale, della lotta per l’esistenza e dello spazio
vitale.
Altro aspetto diversificatore tra Illuminismo e Positivismo il diverso concetto di materialismo Infatti, la filosofia settecentesca considerava la natura e l’uomo come elementi statici,
cioè fissati da regole fisico-matematiche; mentre per il Positivismo sia l’uomo che la Natura sono dinamici, soggetti alle leggi dell’evoluzione, inteso come progresso. Proprio questo
aspetto dinamico della materia, di cui l’uomo è espressione come le altre creature, si dà origine al mito del PROGRESSO, vedendo la scienza e l’istruzione come strumenti di
liberazione non solo dall’ignoranza ma anche dalla superstizione, dalla miseria. Mito del progresso espresso nel balletto “Excelsior”.
1.5 La poetica: Se facciamo riferimento alla cultura illuministica o romantica del primo ‘800 il protagonista era l’uomo, inteso come essere privilegiato, dotato di spirito,
autocoscienza e libero arbitrio, dominatore della natura e della storia.
Con il secondo REALISMO questa visione cambia: l’uomo diventa una creatura come le altre, sottoposta agli stessi condizionamenti dell’ereditarietà, dell’ambiente, del momento
storico. Tenendo conto di questi aspetti anche la letteratura, che lo rappresenta, deve essere realistica. Realistica significa che abbandona ciò che è sentimento, fantasia,
attenendosi al positivo, al concreto, raccontando quello che è oggettivo, reale e tangibile.
Uno dei principi fondamentali della poetica realista è quello di sostenere che l’arte debba rappresentare il reale positivo. Al fine di ottenere una resa migliore di questa
rappresentazione reale gli autori hanno diretto la loro azione descrittivo - narrativa nel ritrarre i comportamenti e gli ambienti delle classi più umili, poiché questa categoria risultava
più vicina alla “natura” e al “vero” senza la presenza di orpelli (ornamenti devianti) tipici delle classi più evolute (istruzione, educazione, cultura). Questi letterati svolsero una
funzione molto importante, come se fossero collaboratori degli uomini politici; rappresentando l’arretratezza e la miseria delle plebi, del proletariato e della piccola borghesia.
IL secondo principio del Realismo è l’impersonalità dell’opera d’arte: l’artista deve ritrarre la realtà in modo distaccato, freddo, impersonale. Questo pensiero però venne interpretato
in modo esasperato dai letterati francesi i quali giunsero a ridurre l’opera ad una rappresentazione fotografica e scientifica della realtà. Gli artisti italiani, quali Verga, Capuana ed
altri, rappresentarono gli aspetti sopra citati come un rallentamento della soggettività dell’autore, che resta latente, facendo sì che l’opera mantenga alcuni aspetti lirici (poetici,
descrizioni naturalistiche che mantengono una certa poeticità pur nell’oggettività della descrizione).
1.6 Tecniche compositive: Nella composizione il Realismo si adattò ai nuovi principi compositivi della prima metà del seconda: abbandona la creazione di romanzi storici (i
Promessi sposi, I miserabili, Ivanhoe ecc.), perché troppo soggetti alla manipolazione arbitraria dell’autore; quindi preferisce il genere del romanzo sociale, il cui scopo è quello di
rappresentare personaggi, ambienti caratteri e costumi della società del tempo, escludendone però gli aspetti autobiografici, i commenti; il primo romanzo del genere è “Madame
Bovarie” di Floubert che viene pubblicato nel 1857 – anno da cui si fa partire la nascita del secondo Realismo, in cui lo scrittore narra la quotidianità, anche un po’ piatta di una
donna della Parigi del tempo.
La realtà descritta però da autori come Zola presenta una sua drammaticità, che l’intervento dello scrittore, come accadeva in precedenza, ne falserebbe l’eloquenza (la capacità di
parlare - quindi i fatti parlano da soli). Altri elementi della tecnica realistica sono:
1) la descrizione particolareggiata dei paesaggi, dei personaggi e degli ambienti.
2) frequenti monologhi e dialoghi che conferiscono alla narrazione un andamento rapido e serrato, analogo a quello delle rappresentazioni teatrali.
3) il linguaggio semplice e popolare, aderente al carattere dei personaggi.
I Naturalisti hanno un atteggiamento dinamico nei confronti del mondo da I veristi hanno un moto contemplativo, che ritrae con sincera pietà le miserie e le
loro narrato, essi risultano polemici, il loro tono narrativo è volutamente pene di una società fatta di gente umile: pescatori, piccoli borghesi, contadini,
provocatorio, con lo scopo di denuncia delle ingiustizie sociali. pastori, ma non hanno nessuna fiducia nella possibilità di riscatto.
Le radici del naturalismo sono il suo mondo di cui lui è parte integrante. Le radici del narratore verista è un mondo diverso infatti il verista italiano è il
gentiluomo che si piega con pietà verso la miseria (con un atteggiamento
Il Naturalismo è un movimento letterario che nasce in Francia come
ambiguo, non chiaro, fatto sia di partecipazione che di distacco) delle plebi,
applicazione diretta del pensiero positivista e si propone di descrivere la
senza che queste possano sperare nella salvezza del futuro.
realtà psicologica e sociale con gli stessi metodi usati dalle scienze naturali.
Gli autori veristi i quali, trattando gli argomenti prima citati,
Gli autori naturalisti preferiscono analizzare le grandi città.
sono pessimisti e in essi vi è sempre il dolore. Non vedono speranza alcuna di
Gli autori naturalisti sono ottimisti e preferiscono analizzare la denuncia cambiare la classe sociale di appartenenza, anche se questo è il periodo
sociale, lo stato degli operai, i bambini. Hanno uno scopo attivo e dell'“entrata in gioco” della borghesia e i ceti medi.
propositivo. Della vicenda il narratore naturalista è ONNISCENTE, in quanto
sa tutto dei personaggi di cui scrive, perché li ha precedentemente indagati,
analizzati, sezionati.
1.7 Considerazioni: Partendo dall’osservazione dei caratteri del romanticismo del primo Ottocento e osservando il Realismo della seconda metà di questo secolo, si può affermare
che il Realismo non fu una vera rivoluzione culturale, ma una ripresa e un rivolgimento di una tendenza realistica insita nello stesso romanticismo. La differenza quindi tra Realismo
del primo Ottocento e quello del secondo si riscontra in questo aspetto: il realismo manzoniano fu illuminato da una concezione religiosa e idealistica della vita – l’idea di
Provvidenza che assiste e soccorre gli umili; l’immagine degli umili che non sono cattivi perché accecati dalla fame e dal bisogno come ce li descrive Dickens, il quale però pensa
che nella vita di un povero essere umano, tra tante sfortune egli possa incontrare anche gente BUONA, che lo aiuta e quindi gli permette il riscatto sociale.
Il Realismo positivista del secondo Ottocento fu invece materialistico e scientifico e, almeno nella narrativa di Verga, improntato su un totale pessimismo. Questo accento è invece
meno presente nel realismo francese, che ha un’immagine della società che, sebbene degradata, può avere il suo riscatto se la classe politica se ne occupa.
In merito alla tecnica di narrazione nel Realismo del primo ‘800 vede la presenza di una voce narrante che riproduce il modo di vedere e di esprimersi dell'autore, borghese colto, e
tale voce interviene spesso con giudizi sia espliciti che impliciti; nella composizione naturalistica invece tra il narratore e i personaggi vi è un distacco netto. Il narratore
allontanandosi dall'oggetto e guardandolo dall'alto, adotta il punto di vista dello scienziato.
I.8 L NATURALISMO FRANCESE Per quanto riguarda la formazione di questo movimento esso trova la sua “culla” nei nuovi ambienti borghesi e industriali sia francesi che
europei, che in quegli anni hanno visto evolversi, progredire ed arricchirsi proprio grazie alle nuove scoperte scientifiche; le cui leggi sembrano essere certe e immutabili; ma, che
se tanto bene hanno prodotto, esse hanno anche originato forti e drastici cambiamenti sociali, non sempre positivi. Sono proprio quest’ultimi ad essere indagati. Da qui ha le sue
movenze il Naturalismo francese, positivista, che vedeva nel progresso scientifico la possibilità per l’umanità di affrancarsi da stenti e fatiche, una volta che ne fossero stati
denunciati gli squilibri e la società colta e ricca si fosse fatta carico di migliorare la situazione delle classi meno abbienti.
In questa prospettiva nasce il romanzo sperimentale, che indaga la realtà degli esseri umani, studia l’interagire degli uomini tra loro, esplora i meccanismi psicologici per vederne le
storture e poterle così raddrizzare.
Il romanziere non è più il letterato in senso poetico, ma è un intellettuale scienziato. Su di un metaforico tavolo della dissezione c’è l’animo umano, c’è la psiche con le sue
debolezze e grandezze, e anche l’ambiente dove si nasce, si cresce e si sviluppa il carattere, diventa motivo d’indagine. Infatti, Zola, in Germinale, uno dei suoi testi facente parte
del ciclo di 20 romanzi da lui scritti, aveva osservato le masse proletarie cittadine, abbrutite dalla miseria, dall’alcolismo, dal vizio (ma anche minate da tare mentali); aveva però
anche osservato le prime forme di protesta di queste masse disperate: gli scioperi.
I Naturalisti, la cui anima filosofica è socialista, pensavano quindi che, appena possedute le leggi universali dell'agire umano, sarebbe bastato intervenire sugli ambienti e sugli
individui in modo scientifico per poter migliorare la società. Lo scrittore assume pertanto un preciso impegno sociale e politico, quello di aiutare le scienze politiche, sociali ed
economiche a regolare la società, eliminando i problemi della criminalità.
Secondo Zola il lavoro dello scrittore-scienziato può svolgersi soltanto in uno stato in cui vi sia un regime repubblicano democratico che utilizzi gli strumenti della scienza moderna
per realizzare il progresso e il benessere degli uomini.
1.9. IL VERISMO ITALIANO: In Italia, la città più vicina ai canoni europei di sviluppo economico e sociale, nonché industriale era Milano, il cui ambiente culturale e intellettuale era
adatto ad accogliere un prodotto come il Naturalismo figlio dei tempi moderni.
Il Verismo è un forte movimento letterario naturalista che si afferma negli anni settanta del XIX secolo e riproduce sostanzialmente nella sua poetica quella del Naturalismo
francese, ma con caratteri regionalistici derivanti da una situazione economica e sociale segnata dal ritardo dell'industrializzazione e dalla centralità della questione contadina.
Nel verismo il narratore è come se fosse uno dei personaggi stessi, è al loro livello e narra i fatti con la loro mentalità. Alla fine del 1870 quando l'Italia era stata appena costituita in
unità ed i problemi esistenti si erano fatti più acuti e pressanti, quando la questione sociale dei rapporti fra patronato e masse lavoratrici stava diventando pericolosa per la stabilità
sociale, gli scrittori veristi italiani, prendendo le mosse dal naturalismo francese, elaborarono le loro teorie letterarie creando opere che modificarono il modo d’intendere l’arte dello
scrivere.
Il modo di concepire la letteratura da parte del verismo italiano fu ben diverso da quello del Naturalismo francese. Se il realismo manzoniano era stato illuminato di
un’interpretazione religiosa e idealistica della vita, nei veristi la visuale del vero, assume un’angolazione diversa, ha un aspetto metà scientifico e realistico. Anche l’idea
dell’impersonalità dell’autore è decisamente antiromantica. Infatti, in questo movimento post unitario la realtà è descritta in modo oggettivo, senza intrusioni soggettive, né
ideologiche, né sentimentali; ma procedendo da uno studio scientifico dei fatti alla formulazione delle loro leggi attuative.
Felice Cameroni fu tra i sostenitori più fervidi di Zola e con i suoi articoli su vari giornali milanesi, fece conoscere lo scrittore francese. La sinistra milanese colse subito l’importanza
delle nuove tendenze ma fu culturalmente ed intellettualmente debole: non fu, cioè, in grado di formulare né un linguaggio letterario nuovo né una teoria artistica coerente e valida.
Furono proprio i due conservatori siciliani: Capuana e Verga ad elaborare una teoria letteraria che, come detto, prese le mosse dal Naturalismo per divenire subito autonoma ed
indipendente. Il verismo italiano presenta aspetti regionali nei contenuti e dialettali nella lingua, in quanto si adegua alla società narrata.
il romanziere verista è il narratore del desolato silenzio di una moltitudine inerte e miserabile, estranea alla cultura e ai problemi nazionali post unitari, di cui in qualche modo invece
denunzia il fallimento per non aver dato vita ai quei cambiamenti necessari per trasformare l’Italia da semplice realtà geografica in una vera nazione, unita nella cultura,
nell’economia e nello sviluppo sociale. Per questo l’opera verista è di tipo solitario, non solo perché i suoi autori sono isolani (Capuana, Verga, Deledda), ma perché vi è in loro la
volontà di inchinarsi verso questi diseredati, ma senza l’input di voler cambiare la realtà, come emerge invece nella corrente francese. In essi non vi è nulla di rivoluzionario, ma
solo la triste coscienza dell’immutabile arcaismo, in cui questi uomini sono immersi. I personaggi, infatti, sono totalmente estranei agli accadimenti nazionali, anzi questi hanno
portato in qualche modo solo peggioramenti alla loro già difficile e misera vita. Quella vita che è fortemente legata alla roba, al pratico e quotidiano, resta legata anche al senso di
soffocamento che l’ignoranza e gli ancestrali rapporti feudali avevano creato, senza mai evolversi. In Verga il senso di immutabilità è poi sottolineato anche dal fatto che nel
momento in cui il personaggio cerca di modificare il suo status quo, inesorabilmente la sorte gli è avversa, gli chiede di tornare al suo posto; egli non può alzare la testa, né
ribellarsi, perché questo chiede un tributo enorme: può essere la vita, la propria coscienza di inadeguatezza, il fallimento sociale.
Famiglia
Ambiente sociale
Periodo storico
Impersonalità e narratore popolare. Pare quasi che l’autore non ci sia e che non esprima giudizio alcuno, anzi, vi è il punto di vista dei personaggi all’interno della rosa (vedi La
roba). L’autore usa il linguaggio corale che dà globalmente il giudizio implicito e spessissimo vi sono fenomeni di straniamento (vengono presentati come normali atteggiamenti che
tali non sono). L’aspetto impersonale del romanzo nasce dal fatto che l’autore desiderava che il romanzo sembrasse fatto da sé, maturato e sorto spontaneamente, come
espressione di un fatto naturale, eliminando il contatto tra autore e opera.
Artificio della regressione. Per adottare il punto di vista del popolo, rinuncia alla sua intellettualità ed assume la prospettiva (cultura, etica) popolare.
Principio dello straniamento. La tecnica dello straniamento consiste nell'adottare, per narrare un fatto e descrivere una persona, un punto di vista completamente estraneo
all'oggetto e questo procedimento narrativo lo troviamo usato in larga misura nelle opere veriste del Verga.
Discorso indiretto libero. Non vi sono segni grafici, il discorso è in terza persona. Manca il verbo reggente e nel linguaggio popolare vengono riferite idee proprie del personaggio.
Ripetizione. Rientro significativo a dettagli descrittivi che ritornano per dare un’unità organica. Queste possono essere a distanza di pagine ma anche nella frase successiva.
Il linguaggio di Verga non è colto ma non vi è neppure troppo dialetto. Vi si trovano espressioni popolari, ha una sintassi del modo parlato (la parola che viene utilizzata più volte e
con significati diversi).
Questa visione fatalistica sembra in netta contrapposizione con quella positivistica del tempo in cui si muove lo scrittore siciliano; egli sebbene abbia fede nel progresso tende a
ridurlo alle solo forme esteriori ed appariscenti in quanto risulta comunque frutto di lacrime e sangue. Infatti, nella visione dello scrittore siciliano, il progresso è espressione
dell’evoluzione umana che va avanti per le conquiste scientifiche e tecnologiche, ma il singolo uomo è sempre dolorante ed infelice, costantemente collocato nel FATO.
Questa visione dell’umanità sarebbe di gran lunga peggiore di quella leopardiana, se non fosse per tre elementi positivi:
Sentimento della grandezza e dell’eroismo umano: questo pensiero porta Verga ad assumere nei confronti dei vinti un atteggiamento misto di pietà e di ammirazione. La pietà per
le miserie e le sventure che li travagliano; ammirazione per la loro virile (forte, senza esitazione) rassegnazione. Figura simbolo di questo eroismo è Padron ‘Ntoni de I Malavoglia.
Fede in alcuni valori che sfuggono alle ferree leggi del destino e della società: questi valori sono la RELIGIONE della famiglia e della casa, inteso come luogo in cui la famiglia si
riunisce e ritrova la sua solidità; la dedizione al lavoro, il SENSO dell’onore; la FEDELTA’ alla parola data (espressa con una stretta di mano, ma che vale più di una firma su di un
foglio di un notaio); lo SPIRITO di sacrificio; l’AMORE nutrito di sentimenti profondi fatto di silenzi, di sguardi furtivi, di pudore (vedi quelli espressi da Alessi con Nunziata, Mena con
compare Alfio).
La saggezza che viene dalla coscienza dei nostri limiti: questa coscienza permette ai vinti di sopportare le delusioni.
Prima di intraprendere la strada del Verismo, lo scrittore siciliano aveva composto dei romanzi: quelli del primo periodo che sono storie legate al periodo risorgimentale, mentre
quelle del secondo sono di tipo romantico- passionale. Sono comunque storie che narrano vicende torbide d’amore e di morte, vissute in ambienti aristocratici e borghesi. Tra
questi, quello di maggiore successo fu il romanzo scritto in forma epistolare che ha per protagonista una fanciulla che diventa suora (capinera) contro la sua volontà ( Storia di una
capinera).
2.2 UN NUOVO STILE La svolta stilistica di Verga si ha nel 1874 quando compone la novella Nedda, legata alla scoperta dei naturalisti francesi, grazie anche all’amicizia con Luigi
Capuana. Con questa novella lo scrittore siciliano abbandona i personaggi passionali ed evoluti per porre la sua attenzione sugli umili, che vivono rassegnati e silenziosi tra gli
stenti e le fatiche. Qui l’autore abbandona le complicate analisi psicologiche e il lirismo dei primi romanzi iniziando una narrazione sobria, priva di orpelli letterari, espressa in un
linguaggio semplice e scarno. A questa novella seguono due raccolte: Vite dei campi e Novelle rusticane, quindi i due romanzi I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo.
2.3. “LA FIUAMA DEL PROGRESSO” Nella prefazione a I Malavoglia Verga indica con chiarezza cosa vuole rappresentare: “Il movente dell’attività umana che produce la fiumana
del progresso.” Per movente si deve intendere la LOTTA per i bisogni naturali, questo allo stato più basso – Nedda, I Malavoglia -, mentre in Mastro Don Gesualdo questo movente
è l’AVIDITÀ di ricchezza e l’ambizione. In relazione alla classe sociale il movente cambia d’aspetto, perché sono diversi i bisogni. Mentre per FIUMANA va inteso il movimento
disarticolato dell’umanità che viene trascinata dal progresso, il cui cammino non sempre è ordinato, chiaro e così positivo come lo si dipingeva all’epoca.
Dal punto di vista compositivo nell’idea del ciclo dei vinti il romanzo dei Malavoglia fa capo a sé, mentre a partire dal Mastro don Gesualdo, si sarebbe dovuto avere uno sviluppo
genealogico, poiché La duchessa de Leyra doveva essere la storia della figlia di Gesualdo, L’onorevole Scipioni la storia del nipote e L’uomo di lusso ultimo discendente di
Gesualdo. Tale ciclo tuttavia non ebbe mai vita in quanto la composizione degli altri tre romanzi doveva riguardare argomenti, come la vanità aristocratica, che l’autore disprezzava
profondamente e non poteva più rappresentare visto la condanna morale che nasceva dalla poetica verista verso queste classi.
Se analizziamo la produzione verghiana risulta quasi evidente che la fase verista non fu una vera e propria svolta rispetto alle sue opere giovanili, quelle di carattere romantico –
passionale, ma risultò un progressivo arricchimento di questo genere, con le sue debite evoluzioni. Infatti, anche i protagonisti dei primi romanzi sono dei vinti, vittime come i
protagonisti delle opere maggiori.
In Vita dei campi e ne I Malavoglia vige l’ideale dell’ostrica: essa deve restare attaccata con tutte le sue forze allo scoglio altrimenti morirà; e così quei pescatori devono restare uniti
nel loro piccolo paese, nella loro famiglia, altrimenti il mondo – la fiumana del progresso - li ingoierà spietatamente! Anche se il mondo in cui vivono non è certo tenero con loro;
perché li uccide con le malattie, con la carestia.
I primi romanzi verghiani sono “Una peccatrice” del 1866; seguono “Storia di una capinera” 1871 ed “Eva” (il romanzo migliore di questa prima produzione). Questi primi romanzi
raccontano la storia di donne fatali, di amori passionali, tragici, vicini nello stile al romanzo di appendice.
Il termine appendice deriva dal fatto che in alcune riviste nell’appendice, per l’appunto, cioè la parte conclusiva, venivano pubblicati a puntate delle storie come momento di
evasione; queste storie presentavano intrecci complessi e avventurosi, e spesso non avevano un lieto fine.
Il primo Verga presenta caratteristiche analoghe: il modo di presentare i personaggi è superficiale, in quanto l’autore non si preoccupa di analizzare le sue creature dal lato
psicologico e introspettivo; altra consuetudine ampiamente usata anche dal Verga era adottare periodi e frasi di uso comune tra gli scrittori per descrivere sentimenti e situazioni
presenti in questi romanzi. Spesso poi adottava il sistema della narrazione epistolare.
Evoluzionismo (prefazione a I Malavoglia) Si basa sulle teorie di Darwin, che hanno influenzato anche la cultura da cui deriva la concezione della vita intesa come lotta, sia
individuale che sociale, che produce la “fiumana del progresso” nel tentativo di superare la condizione precedente. Nei confronti di questa affermazione pessimistica per il Verga il
progresso si attua a spese dei singoli. Comunque nessuno nasce vincitore, ma siamo tutti dei vinti senza possibilità di riscatto, poiché chi sembra vincitore oggi sarà uno sconfitto
domani. Quello verghiano risulta essere un pessimismo molto più diffuso di quello leopardiano. La vita è una lotta continua che produce solo vinti.
Questione meridionale (Fantasticheria) Riguarda la difficile situazione che si è venuta a creare con l’unità d’Italia, accentuando in questo modo quella situazione sociale ed
economica complessa. Questa situazione socio-politico-culturale probabilmente Verga la sperimentò sulla propria pelle, tanto da giungere a considerare l’ineluttabilità delle leggi
economiche e di classe, contro cui è inutile combattere. Vi è nell’autore siciliano una profonda rassegnazione, e la sua grandezza è insita proprio nell’accettazione della propria
condizione.
Naturalismo (dedica a Salvatore Farina) Guidò Verga alla formulazione del principio d’IMPERSONALITÀ, l’unico che gli sembrasse adeguato all’obiettiva realtà storico-sociale che
andava scoprendo. Volle giungere ad ottenere una sorta di spontanea e naturale creazione, eliminando i punti di contatto tra autore e testo scritto. L’autore si pone come
osservatore distaccato dei vinti.
Opere
Ciclo dei Vinti - Negli anni che vanno dal 1872 al 1893 comincia una riflessione sulla condizione dell’uomo, essendo venuto anche a contatto con la letteratura francese di Balzac,
Zola e Flaubert. Proprio ispirato da queste scoperte sulla falsa opulenza e dai racconti francesi decide di scrivere il Ciclo dei Vinti, cioè dei romanzi con un tema comune dominante:
l’uomo sconfitto sotto ogni aspetto della vita.
I Malavoglia (1881) – Il romanzo venne scritto nel 1881, è il primo della serie dei Vinti che Verga pensava scrivere, con l’intenzione di descrivere, per seguirle nella lotta per la vita,
tutte le classi sociali dalle più basse alle più alte. È la narrazione quindi del cammino dell’umanità verso il progresso. Degli altri quattro romanzi solo Mastro don Gesualdo venne
completato, La duchessa de Leyra, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso non vennero portati a termine. Creare una
fantasmagoria della lotta per la vita, che va assumendo tutte le forme dall’ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del grottesco umano. Diventa
quindi in grado di cogliere il drammatico, il ridicolo, e/o il comico di tutte le fisionomie sociali; ognuna con la sua caratteristica, negli sforzi che gli uomini compiono per andare avanti.
Il realismo come schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa; la sincerità dell’arte potrà prendere un lato della fisionomia della vita dell’Italia moderna, a
partire dalle classi inferiori, dove la lotta è limitata al pane quotidiano.
Riassunto: I Malavoglia sono una famiglia di pescatori di Acitrezza: il loro nome era Toscano. Essi vivono nella “Casa del nespolo” da tante generazioni e possiedono una barca, la
“Provvidenza”, a cui affidano le sorti della loro vita, ma la “Provvidenza” naufraga, trascinando nella rovina l’intera famiglia. Nel naufragio scompare Bastianazzo, la barca è andata
distrutta e così non avevano i soldi nemmeno per pagare il carico di lupini che non sono riusciti a vendere a seguito dell'incidente. Per sanare il debito si vedono costretti a cedere
la Casa del nespolo. Il padre di Bastianazzo, il vecchio Padron ‘Ntoni, muore all'ospedale, più tardi muore anche la moglie di Bastianazzo, Luca muore nella battaglia di Lissa, il
giovane ‘Ntoni cerca di far fortuna col contrabbando, ma viene arrestato, Lia prende una cattiva strada, e Mena, non essendosi potuta sposare per la cattiva fama della sorella, va a
vivere con la famiglia dell’ultimo suo fratello, Alessi, il quale, dopo tante sventure, riuscirà a formare una sua famiglia e a ricomprare la “Casa del nespolo”.
Personaggi principali
Nel romanzo I Malavoglia si scontrano due mentalità: la prima, quella della tradizione rappresentata dal vecchio capo famiglia Padron ‘Ntoni, l’altra concezione è quella del giovane
‘Ntoni:.
Padron 'Ntoni: Il nonno, per molti aspetti una figura biblica e leggendaria, fornito di una saggezza pratica fondata sui proverbi, è il capostipite della famiglia Malavoglia.. Nel corso
del romanzo soffrirà molto a causa delle morti precoci dei parenti o per le loro fughe. Sua unica consolazione restano Alessi e la Mena i quali mantengono comportamenti fedeli alla
famiglia e alle regole di vita.
Bastianazzo: Presente nel romanzo soprattutto perché viene citato dagli altri personaggi, muore nel naufragio della Provvidenza. Egli è il figlio ubbidiente, che non respira se il
padre non glielo ordina, se vogliamo è l’esatto contrario del figlio maggiore Ntoni.
La Longa: Maruzza, detta la Longa (in senso antifrastico essa è di piccola statura), è la moglie di Bastianazzo. Insieme a Padron ‘Ntoni è quella che più si dà da fare per ripagare i
debiti e risolvere la situazione economica della famiglia Malavoglia. Figura silenziosa e materna, l’immagine della Madonna, si affaccenda intorno al focolare, protettiva con i figli,
moglie e nuora devota.
'Ntoni: È il maggiore dei figli di Bastianazzo e la Longa. Viene presentato come un bighellone, ma è un bravo ragazzo: egli si ribella all’immobilismo dell’ambiente in cui vive, rifiuta
così il suo mondo con i valori portati avanti, vuole uscire da questo ambiente ristretto con il miraggio di una vita migliore, ma lo fa nel modo sbagliato cominciando a frequentare gli
ambienti del contrabbando, disonorando la famiglia. Il suo agire è stato tale, che quando ritornerà dalla prigione, il suo momentaneo rientro crea nella famiglia un certo imbarazzo; il
giovane è cosciente di non potere tornare e ricucire quanto si è rotto, ne verrebbero meno i nuovi equilibri, il suo riscatto morale inizia nella sua scelta di lasciare la casa paterna, il
suo è un futuro incerto, ma ha la certezza che non si possono rompere gli schemi senza pagarne amare conseguenze.
Mena: È la maggiore delle ragazze Malavoglia. Giudiziosa e educata, è innamorata da sempre del vicino carrettiere Alfio Mosca, ma promessa al ricco Brasi Cipolla. Dopo la morte
della madre, sarà lei a doversi occupare della casa e dell’educazione della sorella minore, Lia. Subisce molto l’influenza della società del suo tempo, tanto che alla fine non sposerà
Alfio, pur avendone la possibilità, temendo che si torni a parlare della fuga della sorella Lia. Il suo ruolo è quello di riscattare l’onore della famiglia con il sacrificio della sua
esistenza; che si spegnerà lentamente.
Alessi: È lui, all’inizio della vicenda definito un moccioso, che sempre fedele ai valori tradizionali della famiglia, alla fine riuscirà a riacquistare la casa del nespolo, e a risollevare il
buon nome della famiglia Malavoglia.
Lia: È la minore dei Malavoglia, ed è corteggiata da Don Michele, un brigadiere corrotto che sarà ferito dal fratello 'Ntoni. Fuggirà da Aci Trezza senza dare più nessuna notizia.
Solo Alfio Mosca la incontra un giorno ma non rivelerà ai familiari che è diventata una prostituta.
Narratore: È onnisciente, conosce tutti i fatti e spesso li anticipa, come la morte del giovane Luca. Si limita a raccontare le azioni senza esprimere giudizi personali. Sembra un
narratore popolare che condivide il modo di comportarsi, i pregiudizi, la mentalità, la cultura del mondo di cui parla, anche perché i luoghi del romanzo sono gli stessi nativi
dell’autore. Il punto di vista è esterno.
Tempo: Le vicende durano circa otto o nove anni (Alfio Mosca nel quindicesimo capitolo dice che erano passati otto anni da quando aveva lasciato Aci Trezza), mentre il tempo del
racconto non è omogeneo. Sono frequenti le ellissi e spesso vengono narrate intere giornate. Il ritmo è quindi abbastanza accelerato, frammentario e solo in alcuni punti viene
rallentato da piccole riflessioni e descrizioni. L’elemento dominante è la scena e in questi punti tempo del racconto e tempo della storia coincidono. Sono praticamente assenti
flashback e anticipazioni. Le indicazioni temporali sono solamente quelle legate alle feste liturgiche e all’alternarsi delle stagioni, elementi tipici che caratterizzano lo scorrere del
tempo nella cultura contadina.
Stile narrativo: La narrazione, che è in terza persona, crea l’illusione che a parlare sia il mondo raccontato e fornisce l'impressione che il narratore sia esterno alla vicenda. Verga
applica la formula verista, di filtrare il racconto attraverso i pensieri e i discorsi dei personaggi; questa tecnica viene definita del “discorso rivissuto” o indiretto libero che dà come
conseguenza un effetto di vivacità.
Le novità stilistiche del romanzo: Tutta la narrazione de I Malavoglia si basa sul discorso indiretto libero. La presentazione dei personaggi e dell’ambiente non sono raccontate
dall’ottica dello scrittore, ma da quella dei personaggi, che ruotano intorno alla famiglia, e vedono, percepiscono, i sentimenti che l’oggetto osservato, descritto suscita.
Nella narrazione il Verga si serve del dialetto siciliano con le sue forme sintattiche, gli scatti colloquiali, le rapide condensazioni del dialetto siciliano, conseguentemente alla volontà
di voler rendere meglio l’espressione e i sentimenti di chi parla, vede, sente. Teniamo poi presente che l’autore vuole rendere il più fedele possibile il racconto alla realtà. E i
personaggi protagonisti sono solo dei poveri pescatori che conoscono unicamente il dialetto. Naturalmente Verga usa un linguaggio filtrato, cioè in grado di essere comprensibile a
tutti, un dialetto un po’ italianizzato. Inventa una nuova lingua, lontana dalla tradizione manzoniana.
Altra novità stilistica è l’ampio uso del proverbio, di metafore e similitudini ricavati dalla realtà siciliana. Vi è poi la mancanza di verbi dicendi, infatti, l’autore usa verbi che siano
conseguenti ad un’azione, che indicano il ragionamento, che non è messo in evidenza chiaramente, dal momento che Verga può solo raccontare, non può descrivere quello che i
protagonisti pensano, dal momento che il pensare non è visibile. I tempi sono semplificati, spesso usati all’imperfetto anche per il passaggio dal discorso indiretto a quello diretto. La
semplificazione linguistica avviene anche tramite l’inserimento del che per le frasi relative complesse. In questo modo si compie, anche sul piano stilistico-strutturale, la
rivalutazione verghiana, che sostituisce al realismo classico, un nuovo realismo, per cui non è l’autore a dominare la narrazione, come nel caso di Manzoni, ma sono i personaggi
stessi che con l’intrecciarsi delle singole visuali compongono il mosaico della loro storia.
La grandezza di Verga sta nell’aver creato un tempo misto, che concilia romanzo storico e romanzo etnologico, storia e mito. Il mito è sempre confrontato con la distruzione;
l’adesione a valori arcaici è sempre contraddetta dal punto di vista borghese, dall’ottica inevitabilmente distante con cui si guarda a quella realtà. Il lettore deve comprendere che
per quel mondo si può provare un’inestinguibile nostalgia solo se si è altrove, se si ha la coscienza che da esso si deve partire, se si è in grado di capire che in esso vi è il germe
della distruzione.
Vita dei campi – Raccolta di 9 novelle i cui temi trattati sono relativi a passioni e sentimenti espressi al massimo grado, poiché siamo in una società primitiva, in cui l’istintività è
ancora evidente. Qui il principio d’impersonalità trova la sua massima espressione, vi è, infatti, una rappresentazione obiettiva anche se umanamente partecipe dei meccanismi che
regolano la vita, delle lotte feroci che essa impone, dell’irriducibile destino di sconfitta che grava sui più deboli.
Viene sottolineato il conflitto che nasce tra l’individuo, originariamente buono, e la società corrotta e corruttrice, in quanto imbevuta di egoismi che tendono a soverchiare l’individuo;
che pur ribellandosi resta un perdente fin dall’inizio.
Tecniche di narrazione:
Discorso indiretto libero cioè privo dei verbi dicendi o pensandi; uso del parlato filtrato o discorso rivissuto. L’autore conduce la narrazione dal punto di vista del personaggio o della
comunità; regredendo al loro livello culturale e sociale. Esempio: in Rosso Malpelo il discorso è filtrato attraverso la visione di un personaggio e della comunità.
Vi è anche un frequente ricorso alla sintassi zoom orfica con paragoni tratti dalla vita animale, per spiegare certe situazioni.
Al piano della regressione si alterna quello oggettivo che serve a definire la realtà storica in cui si muovono i personaggi.
il ritratto iniziale della Lupa che ne mette in luce le caratteristiche principali che ritorneranno diverse volte nella trama del racconto (rr. 1-17);
l’innamorarsi della Lupa per Nanni, in questa prima fase senza soddisfacimento in quanto il giovane mira a sposarne la figlia, obbligata dalla madre ad acconsentire (rr. 18 – 61);
l’esplodere dell’amore incestuoso tra genero e suocera, che provoca lo scandalo del paese, la reazione di Maricchia e i tentativi di Nanni di sottrarsi alla passione e al fascino della
donna (RR. 62 – 121);
epilogo: l’omicidio della Lupa da parte di Nanni (rr. 122 – 127).
La novella (che trae spunto da un fatto di cronaca, ossia l’omicidio di una contadina da parte del genero in seguito a un’incestuosa passione amorosa) si apre con la descrizione
della protagonista in pochi tratti essenziali, ma molto significativi:
«Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due
occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse che vi mangiavano».
La descrizione, che risulta abbastanza tradizionale, dal punto di vista di un narratore onnisciente, isola alcuni elementi essenziali: la magrezza, che è indice non di fragilità come si
potrebbe supporre, ma di voracia, il seno fermo e vigoroso, l’età nell’espressione non era più giovane, il pallore come indice di tensione interiore, gli occhi grandi così, messi
fortemente in rilievo dal sintagma nominale e con un’accezione favolistica nell’aggettivo grandi, torneranno diverse volte nel corso del testo come tramite della passione amorosa e
le labbra fresche e rosse che vi mangiavano , altro elemento ricorrente. L’inserimento del pronome di seconda persona vi introduce il punto di vista popolare.
Rosso: Simbolo di energia vitale e di conquista, sensualità e passione, autorità e fierezza. Colore del fuoco, rappresenta il calore e il sentimento, come pure l’aggressività e la
violenza (connessione con Marte, dio della guerra). Legame immediato con il sangue, con una duplice valenza: positiva (se il sangue scorre nel corpo), alludendo all’esistenza e
alla vitalità; negativa (se il sangue viene versato), alludendo al sacrificio e al martirio. in questa novella rappresenta un “filo rosso” carico di significato, che congiunge le labbra della
protagonista (incipit) ai papaveri del finale.
Novelle rusticane: La raccolta Novelle Rusticane comprende 12 novelle, tra cui La roba, Malaria e Libertà.Le novelle sono ambientate nel mondo rurale della Sicilia, ma alle storie di
singoli personaggi si accompagnano quelle legate alle vicende della collettività, in modo tale da analizzare gruppi sociali. Confrontando questa raccolta con Vita dei Campi, le
Novelle Rusticane mostrano quindi una maggiore attenzione ai movimenti economici e materiali dell’esistenza, in quanto spariscono le figure tragiche di Rosso Malpelo o della
Lupa, che vengono sostituite da concetti astratti, così come i personaggi appaiono dominati dalla logica del profitto e dalla volontà di ascesa sociale, ma finiscono per essere
sconfitti dalle leggi della natura.
Libertà: analisi e riassunto della novella di Verga: Nella novella libertà di Verga, così come l'identità del paese non viene chiarita, anche la descrizione dei suoi spazi rimane sul
vago. Il paese emerge come una collezione di luoghi e edifici, tipici dei paesi dell'entroterra siciliano, nominati, ma non descritti, né connessi tra loro, che appaiono soltanto quando
vengono "toccati" dalla vicenda: la chiesa, la piazza, il casino dei galantuomini, il Municipio, la chiesa, le stradicciuole, la villa della baronessa, il cimitero, il convento.
•Intorno al paese sta la campagna, intravista prima tra le case della piazza e, successivamente, attraversata dal corteo degli arrestati. Più in là ancora, a chiudere il paesaggio, vi
sono i fianchi dell'Etna ricoperti di "boschi cupi".
•A separare paese e campagna sta un burrone, a collegarli una stradicciola che scende a precipizio. Tra paese e campagna s'instaura quindi un rapporto alto/basso, che assume
particolare importanza durante l'arrivo dei garibaldini, quando la posizione dei popolani, sulla cresta del monte, consentirebbe loro di sconfiggere i soldati che risalgono il burrone.
•L'altra contrapposizione spaziale presente nella novella è quella che s'instaura tra paese e città. Quest'ultima si rivela completamente ostile ai popolani: è dominata dal gran
carcere dalle celle buie, al quale i parenti dei detenuti faticano ad accedere; non vi si trova lavoro, né di cui cibarsi; anche la locanda più misera è costosa e chi dorme sugli usci
della chiesa viene arrestato; una ragazza persino vi si perde.
La roba: analisi e riassunto della novella di Verga: Tutta la raccolta, infatti, concepita nel pieno del passaggio al Verismo da parte di Verga, è incentrata intorno all’importanza dei
beni materiali, “la roba” appunto, nel panorama socio-economico della Sicilia post-risorgimentale, in cui si stava tardivamente sviluppando una prima società industriale dopo
l’unificazione d’Italia. Mazzarò, protagonista della novella, è come i maggiori eroi verghiani un parvenu, un contadino arricchito, legato avidamente alle sue ricchezze senza aver
tuttavia l’oculatezza e la furbizia per gestirle in maniera saggia.Nella sua brevità, La roba vuole fotografare utilizzando la storia di Mazzarò la Sicilia, regione natale dell’autore, nelle
dinamiche socio-economiche in cui è stata coinvolta dopo l’annessione al Regno d’Italia. Regione legata alla civiltà rurale e non ancora toccata dall’industrializzazione che aveva
invece già profondamente trasformato il nord-Italia, la Sicilia stava sperimentando in quegli anni un repentino passaggio verso lo sviluppo economico. Erano in molti quindi i
Mazzarò che Verga voleva rappresentare con estremo realismo. I membri delle classi sociali più basse, come i contadini, i pescatori o gli operai, stavano riuscendo ad accumulare
ricchezze ma stavano ancora assimilando i meccanismi adatti a gestirle, rimanendo identici a se stessi anche dopo aver attraversato un profondo cambiamento, come accade agli
eroi dei grandi romanzi verghiani del Ciclo dei Vinti, I malavoglia e Mastro-don Gesualdo, scritti dall’autore nello stesso periodo.
DECADENTISMO
Va tenuto poi presente che il Decadentismo è un genere letterario, al pari del Romanticismo, di tipo europeo, infatti, gli artisti e scrittori che lo rappresentano appartengono a tutti i
paesi europei.
Francia patria del decadentismo
Il Decadentismo comunque trova le sue radici in Francia, dove furono elaborate le più importanti poetiche del movimento, quasi tutte derivate da intuizioni di Baudelaire (1821-
1867) considerato il padre della poesia moderna.
Perché la Francia fosse il centro d’irradiazione di questo movimento, trova ragione in due motivazioni. La prima è di natura fortuita il miracolo del fiorire contemporaneo di artisti,
poeti pittori tutti nella stessa nazione, ridando ad essa il primato culturale che era stato in secoli precedenti. Mentre la seconda motivazione è di stampo storico-letterario. Infatti, per
la Francia il Romanticismo era stato un movimento alquanto blando, non creato autonomamente; era passato senza lasciare grandi impronte; essendo vivi temi ed aperti ancora
problemi di tipo letterario, stilistico ed espressivo (rivoluzione della forma, l’idea di poesia come creazione assoluta, allargamento psicologico e sociale dei contenuti della
letteratura). Questi aspetti che in Germania e in Italia invece avevano trovato delle soluzioni durante il Romanticismo, in Francia avvennero nella seconda metà dell’800 in modo
radicale, violento poiché vi erano ragioni filosofiche e storiche, che condussero all’esigenza di rompere con la tradizione e di creare un’arte assolutamente nuova. La genesi
filosofica
Il Decadentismo nasce come reazione alla crisi del Positivismo e del pensiero scientifico. Alla fine del secolo filosofi e matematici misero in evidenza i limiti del Positivismo e della
scienza stessa alla quale si riconosceva solo il carattere pratico di classificare e di spiegare i fenomeni naturali, negando ogni aspetto assoluto e definitivo alle sue conoscenze.
Questi limiti saranno resi ancora più evidenti dalla teoria della relatività di Einstein dalla nuova fisica la quale – in contrasto con quella di Galileo e di Newton, fondata sull’ordine
meccanico dei fenomeni - diventa una disciplina probabilistica che ammette l’indeterminatezza dei fenomeni, che dipendono dal luogo in cui ci troviamo, dalla velocità e dalla
direzione del movimento. A questo aspetto fisico matematico va aggiunto l’introduzione di una nuova disciplina: la psicoanalisi, la nuova scienza di Sigmund Freud (1856-1939)
secondo la quale le nostre azioni non sono frutto di scelte autonome e razionali, ma sono l’effetto d’incoercibili impulsi interiori, che ignoriamo perché sfuggono al nostro controllo
cosciente.
La crisi dei valori tradizionali
La sfiducia nella ragione, prima tanto esaltata dal Positivismo, segnò in campo morale la crisi dei valori tradizionali: la libertà, la patria, il progresso, generando insicurezza,
scetticismo e quel senso di angoscia esistenziale che, presente in tutte le civiltà, da quella precristiana a quella cristiana, era stato lenito e consolato dalla fede in una divinità
superiore e nella sua giustizia. Perdutasi la fede religiosa per effetto delle negazioni positivistiche, la nuova angoscia fu senza lenimento e senza conforto e si tradusse spesso nella
maledizione dell’esistenza stessa: questa appare scolorita, banale e senza scopo, dominata dalla noia, dal senso di mistero e di annientamento. Da qui si hanno due reazioni.
Menti fragili psichicamente, incapaci di padroneggiare i propri sentimenti, lo sbocco da quest’angoscia è la fuga dalla realtà, attuata in vari modi: disordini morali, sregolatezze dei
sensi, paradisi artificiali della droga, con tutte le manifestazioni di vita, di costume e di cattivo gusto. Non di rado queste esperienze avventurose dello spirito si conclusero anche
con la coscienza del fallimento e con il ritorno alla fede religiosa, come avvenne per Rimbaud e Verlaine. Mentre per gli spiriti più forti lo sbocco fu l’accettazione virile e operosa
della realtà e il riconoscimento di un valore positivo dell’esistenza nell’impegno per la costruzione di un mondo migliore, impegno che si svolse nella direzione dell’umanesimo
liberale e democratico fondato sul rispetto dei diritti umani e civili ed è prevalente nel mondo occidentale.
La genesi storica
Gli ideali romantici e positivistici furono smentiti brutalmente dai feroci conflitti interni e internazionali che condussero al tramonto dell’ottimismo positivista, facendo subentrare una
visione pessimistica e angosciosa della vita. La critica marxista trova le sue origini nel Decadentismo, nella condizione di sradicamento dell’intellettuale dopo la rivoluzione liberale
dell’800 (1848).
Compiuta questa rivoluzione, l’intellettuale si avverte a disagio nella nuova società; questa, così come si va organizzando, tutta tesa alla produzione e al guadagno, con le sue
ingiustizie sociali, sembra irridere a quegli ideali di libertà e democrazia in nome dei quali era incominciata la rivoluzione. In una società di questo genere l’intellettuale non è ancora
inserito e assume un atteggiamento ribelle, è il poeta maledetto e satanico, che rifiuta la società borghese e ne dissacra i valori. Va considerato però che questo atteggiamento
oppositivo ha anche un carattere generazionale. Esso è, infatti, l’eterna contrapposizione dei figli contro i padri, e non come nel Socialismo, il frutto di un’ideologia liberatrice.
Questo spiega quindi l’atteggiamento aristocratico, antisociale e superomistico di molti decadenti, il loro disprezzo per l’uomo comune e per le idee democratiche. Confronto
Romanticismo – Decadentismo
A un esame superficiale si può pensare che il Decadentismo sia una ripresa del soggettivismo romantico, dopo la parentesi del Realismo. Va considerato che tra questi due
movimenti, che effettivamente presentano alcuni aspetti comuni, sono invero passate due correnti culturali: il Positivismo e il Realismo, che hanno lasciato tracce ben evidenti.
La poesia decadente: funzione, ruolo del poeta, rivoluzione delle forme
Le culture precedenti avevano fallito poiché si erano fidate di aspetti che non erano stati in grado di dare risposte chiare. La filosofia si era arenata perché nel suo procedere per
ragionamenti, non aveva saputo dare delle certezze (Romanticismo), la scienza era stata anche lei incapace di mantenere le sue promesse di liberare l’uomo; non restava che la
poesia, unico strumento di conoscenza di quel mistero che ci avvolge, poiché la vita è intesa come mistero. A questo punto la poesia non va più intesa come espressione del lirismo
sentimentale, né come verità intellettuale, morale e religiosa; ma come illuminazione e rivelazione dell’ignoto.
Anche il ruolo del poeta si trasforma, quindi non più cantore inteso come maestro di umanità, come lo era stato per gli antichi, né apostolo delle verità cristiane, come nel medioevo,
ma non è neppure il divulgatore della scienza moderna, come nell’era illuminista. Perde anche il ruolo di vate, cioè di guida del popolo e il cantore dei nobili ideali umani, com’era
nel romanticismo.
Il Decadentismo vede il poeta veggente, cioè l’esploratore del mistero, dell’inconscio e dell’assoluto. La sua poesia è data da improvvise folgorazioni e intuizioni. A questi mutamenti
contenutistici non poteva non aggiungersi quello formale. Il poeta decadente, rifiuta le forme metriche chiuse, le strofe rette da norme precise di accenti e di strutture, preferisce le
forme aperte, le strofe e i versi liberi, in quanto la poesia essendo illuminazione e rivelazione del mistero, deve essere immune da ogni interferenza razionale ed esterna.
IL SIMBOLISMO
Questa corrente nel quadro del Decadentismo, nasce per opera di un greco ateniese che prese il nome di Jean Moréas, il quale afferma che “tutte le cose hanno tra loro un legame
misterioso, dove spesso una ne richiama un’altra, come una musica, un profumo o un colore ne richiamano altri come ricordi, o immagini di tempi lontani”.
Per i simbolisti la realtà vera non è quella che cade sotto i nostri occhi, ma è qualcosa di più profondo e misterioso, che vive sotto le parvenze sensibili; solo il poeta illuminato è in
grado di cogliere questi legami e queste folgorazioni improvvise, esprimendole poi in poesia.
Il simbolismo decadente non ha lo stesso valore di quello medioevale, che ha un carattere ideologico e quindi cosciente intellettivamente nell’intervenire. In pratica il poeta dice una
cosa, ma ne intende un’altra. Il simbolismo decadente ha invece un carattere evocativo, poiché il poeta scopre e rappresenta la realtà arcana e segreta delle cose istintivamente,
cioè con l’assoluta estraneità della ragione. Un esempio di simbolismo lo troviamo in X Agosto di Pascoli, in cui “il gran pianto” delle stelle nella notte di S. Lorenzo, che il poeta,
dopo aver ricordato la morte del padre, considera come simbolo della tristezza del cielo che piange, inorridito, sulla malvagità della Terra “atomo opaco del male”. Altro
componimento simbolico è Il Gelsomino notturno sempre di Pascoli: “l’urna molle e segreta” alla quale è paragonato il calice del fiore che si richiude all’alba allude o alla dolcezza
del nuovo giorno che ognuno spera foriero di felicità o al germogliare di una nuova vita nel grembo della giovane sposa. In entrambi i casi, il simbolismo è istintivo, concepito,
emotivamente, con l’assoluta estraneità dell’intelletto.
Decadentismo e Romanticismo Decadentismo:seconda fase del Romanticismo
Aspetti specifici:base-irrazionalismo,rifiuto della realtà,volontà di fuga verso un “altrove” ideale e fantastico. =>età romantica:slancio entusiastico,ribellione eroica e titanica
evidenziano energia spirituale =>Decadentismo contrassegnato da stanchezza,languore,estenuazione,smarrimento, presentimento di sfacelo=>ogni slancio energico è inibito
letteratura romantica:ambizioni costruttive,vaste concezioni concettuali e artistiche che rispecchiano la totalità//letteratura decadente:punta solo al frammento e tende perciò a opere
brevi e dense
Romanticismo esalta forza creatrice immediata del genio, “natura”valore supremo, Decadentismo celebra artificio,complicazione
senso di esaurimento e di sconfitta,frammentazione dell'io aspetti tipici del Decadentismo, legato alla situazione economica di fine secolo:dimensioni colossali della grande
industria, meccanismo produttivo sempre più irrazionale,società di massa =>senso di smarrimento e di impotenza di fronte ad una realtà complessa ed enigmatica
L'intellettuale è investito dalle trasformazioni sociali=>frustrazione in seguito ad una forte perdita di prestigio in una società borghese dominata da valori utilitaristici =>reazione:
accentuazione della propria diversità ed eccezionalità attraverso estetismo,maledettismo,superomosmo, tentativi di esorcizzare una condizione avvilente. In un poemetto dello
Spleen di Parigi di Baudelaire si parla efficaciemente della “perdita d'aureola”,della riduzione dell'opera d''arte a merce
Conflitto capitale-lavoro:l'intellettuale si ritrae spaventato dal contrasto tra borghesia e proletariato, due classi di cui non condivide gli interessi =>rifiuto dell'avvicinamento al
proletariato => accentuazione fuga dalla realtà
Continuità tra Romanticismo e Decadentismo<=sostanziale omogeneità delle condizioni socio-economiche di fine secolo
Decadentismo e Naturalismo fenomeni culturali paralleli lungo gli anni '70-'80 e primi '90, dopodiché il Naturalismo si esaurisce
Medesimo contenuto storico MA espressione di gruppi intellettuali diversi,che si collocano diversamente rispetto al periodo:naturalisti integrati nel sistema borghese//decadenti
patiscono profondamente le contraddizioni del sistema perciò rifiutano categoricamente la visione borghese =>opposizione razionalismo/irrazionalismo,risposte diverse al
medesimo contesto
Reciproca influenza tra le due correnti: in Zola si possono riscontrare vitalismo,tendenza a costruire complesse simbologie,compiacimento per atmosfere “malate”;Huymans
esordisce come seguace di Zola contribuendo alla stesura delle Serate di Medan;il primo D'Annunzio è suggestionato dalle novelle verghiane
Decadentismo e Novecento
secondo alcuni il termine “Decadentismo”può essere esteso a tutto il Novecento,secondo altri solo fino alla prima parte del secolo
In Italia:esponenti principali D'Annunzio e Pascoli//Svevo e Pirandello hanno,per certi aspetti, radici in tale clima ma poi se ne distaccano assumendo una visione del mondo più
moderna, “aperta” e pluriprospettica
Termine “Decadentismo”utilizzato all'inizio negativamente,tuttavia è ormai chiaro come esso non abbia implicato una decadenza della cultura e dei valori artistici,anzi ha dato
origine a opere innovative e di grande profondità. Malattia decadente=>alto valore conoscitivo,strumento di attenta e profonda esplorazione di una crisi epocale
Baudelaire, un link tra Romanticismo e Decadentismo
Romanticismo e Decadentismo sono così distanti e differenti? Irrazionalismo, sogno, ricerca e approfondimento di una realtà “altra”, misteriosa, al confine con l’esoterismo legano a
doppio filo due movimenti apparentemente lontani. Basta analizzare la poesia di Charles Baudelaire per averne conferma. Se è vero, come dirà Eugenio Montale, che “la poesia
non è tale se non porta in sé un segreto”, Baudelaire con il simbolismo ha anticipato di diversi decenni perfino l’ermetismo. E non è finita. Se ci pensiamo bene, in lui troviamo
anche il “male di vivere” che poi altro non è se non lo “spleen”. Il poeta, scrive Baudelaire, è come l’albatro. L’albatro domina col suo volo gli spazi ampi: le sue grandi ali lo rendono
regale nel cielo ma se gli capita di essere catturato dai marinai si muove goffo e impacciato sul ponte della nave e diventa oggetto di scherzi e di disprezzo; e sono proprio le grandi
ali che lo impacciano nel muoversi a terra. Anche il poeta è abituato alle grandi solitudini e alle grandi profondità delle tempeste interiori e in queste dimensioni domina sovrano;
anche lui come l’albatro può sembrare goffo e impacciato nella realtà quotidiana, nella quale non si muove a suo agio. Il poeta insomma ha il dominio della realtà fantastica, ma
nella realtà quotidiana è un incapace e riceve l’incomprensione e il disprezzo degli uomini, esattamente come accade all’albatro. L’esasperazione della ricerca romantica si
razionalizza nella coscienza dell’avvenuta frattura storica tra l’immagine dell’arte e la sostanza della vita, tra idéal e spleen. La negazione della morale collettiva e la
rappresentazione del male, del demoniaco, del grottesco vengono ideologicamente poste a fondamento della vita così come della poesia Il poeta è venuto sulla terra per
interpretare la realtà alla luce del suo sogno, ribelle alle convenzioni, inabile alla vita pratica, destinato a gettare il discredito sulle comuni passioni, a sconvolgere i cuori, a
testimoniare per mezzo dell’Arte d’un mondo magicamente e idealmente perfetto. Per questo il poeta è deriso e perseguitato; per questo Baudelaire nel 1857 venne processato per
il suo capolavoro I fiori del male, accusato di immoralità.
Baudelaire: “Corrispondenze” da I fiori del male: È una poesia manifesto, in cui poterlo annuncia una determinata visione del mondo e delinea la funzione della poesia che ne
consegue. Si tratta di una visione del reale di tipo mistico. Le forme materiali della natura non sono che simboli di una realtà più profonde autentica, che si colloca al di là delle cose.
Una rete di legami misteriosi unisce tutte le realtà in un’unica realtà occulta. L’uomo non riesce accogliere questi legami, anche se i simboli risuonano familiari perché corrispondono
a qualche cosa che giace nel profondo di ognuno.
Per decifrare questo linguaggio segreto occorre rinunciare alla visione razionale, che si ferma solo alla superficie delle cose e abbandonarsi alle sensazioni che, nella loro essenza
non razionale, mettono in comunicazione col profondo. Al di là delle apparenze, soggetto e oggetto non sono distinti, ma uniti in un’unità profonde tenebrosa. Una corrente
sotterranea unisce l’inconscio, in cui le sensazioni desta nel loro etti, e la realtà esterna. Per questo sono le sinestesie che possono cogliere i legami misteriosi che uniscono tutto
reale. Le sinestesie sono confusioni di sensazioni: una sensazione può evocare effetti propri di altri sensi.
È implicito che è il poeta ad avere la facoltà di decifrare questi simboli occulti, grazie alla sua sensibilità privilegiata, alle sue prerogative di veggente. La poesia non si colloca più
sul piano della comunicazione logica, ma agisce a livelli più profondi, evocando queste analogie misteriose. Il suo linguaggio non deve quindi essere razionale, ma allusivo, come
un sortilegio provocatorio, una sorta di magia che metta in comunicazione con ciò che è al di la delle apparenze. La poesia assume il valore di rivelazione del mistero, dell’ineffabile.
“L’Albatro” da I fiori del male: nell’allegoria dell’albatro si trova l’enunciazione più compiuta della concezione romantica del poeta. L’albatro, con le sue ampie ali, signoreggia l’aria;
ma, quando si posa sul suolo, propria causa delle ali non riesce a camminare da fare goffo in ridicolo. Così il poeta alle grandi ali della sua nobilità spirituale, delle sue capacità
intellettuali, della sua sensibilità, nella sua fantasia, che gli permettono di spaziare nei cieli della poesia e dell’ideale; ma, una volta mescolato sia gli uomini comuni, attraverso
privilegio spirituale lo rende inadatto alla vita pratica. Si delinea qui il conflitto tra l’intellettuale e il mondo borghese che è costitutivo della cultura ottocentesca. In una società che ha
come valori fondamentali l’utile, l’interesse, la produttività, e che trasforma anche l’opera d’arte in merce, l’artista, teso verso l’ideale e creatore di un valore disinteressato come la
bellezza, appare un diverso, inadatta alla vita comune. La società, considerandolo un essere inutile e introduttivo, lo priva del prestigio quasi sacrale e dei privilegi materiali di cui
godeva in età precedenti, lo relega ai margini, lo guarda con scherno e sospetto. Da questa diversità e inettitudine si sviluppa nell’artista un oscuro senso di colpa, che lo fa sentire
con un reietto e un maledetto. Ma egli reagisce rovesciando il senso di colpa e assumendo la propria diversità come segno di superiorità e nobiltà; rifiuta quel mondo che non lo
comprende e rivendicando orgogliosamente il proprio privilegio spirituale, si isola e gli stesso, dalla vita normale, disprezzando la gretta mediocrità borghese.L’antitesi fra il volo
libero dell’albatro nell’azzurro e la sua ridicola degradazione sulla torta della nave si riproduce nello stile: da un lato ricorre una serie di preziosi immagini liriche, abissi amari, re
dell’azzurro, dall’altro ad esse si contrappongono immagini basse e comiche, il marinaio che stuzzica il becco con la pipa, quello che lo imita zoppicando. Si può a verificare qui la
tensione interna che tipica dello stile baudelairiano. In contrasto con questa disarmonia, il verso è invece fluido e musicale.
“Perdita d’aureola” da Lo spleen di Parigi: Il poemetto in prosa alla forma di un dialogo tra il poeta e un amico che si meraviglia di trovarle in un luogo malfamato. Il poeta spiega che
può frequentare quei luoghi con i comuni mortali perché ha perso l’aureola che contrassegnava la sacralità, quasi la divinità del poeta nel passato. Il poemetto è importante perché
coglie con molta acutezza, informa corrosiva mente Veronica, il mutamento di ruolo dell’artista nel mondo moderno. Egli ha perso l’aureola, cioè quella dignità sacrale, di sacerdote
della bellezza e della poesia, che lo circondava nelle società aristocratiche del passato e gli garantiva una condizione privilegiata e un forte prestigio sociale. La società borghese
non assicura più al poeta questa dignità e questo prestigio, poiché altri sono in essa i valori dominanti. Per la coscienza comune, il poeta è divenuto un uomo come tutti gli altri. Il
poeta fingere unicamente di accettare questa nuova condizione; in realtà si getta nel vizio proprio per accentuare la sua diversità dalla gente normale, per negare polemicamente
valori perbenistici su cui si regge la società borghese. Così al posto del privilegio di un tempo si colloca una specie di privilegio negativo, rovesciato, quello del vizio e del male.
LA POESIA SIMBOLISTA
Per i simbolisti la realtà non è quella della scienza, della ragione o dell'esperienza, è qualcosa di più profondo e misterioso che può essere inteso soltanto dalla poesia. Poesia è
perciò la rivelazione dell'essenza misteriosa del reale: essa cerca le affinità segrete nelle apparenze sensibili, per cogliere idee primordiali; essa intende il linguaggio della realtà
profonda, il messaggio segreto della natura, l'essenza. L'arte è l'unico valore e la vita per potersi realizzare deve risolversi in arte. L'arte è atto vitale, è la realizzazione dell'essenza
stessa della vita, è creazione e va al rovescio rispetto ai valori della società borghese.Il poeta rinuncia alla funzione morale e sociale caratteristica dei romantici; aspira a risalire alle
sorgenti stesse dell'essere, vuol farsi veggente, rivelare, cioè, l'ignoto, percepibile per illuminazioni, e dell'inconscio, secondo le misteriose leggi delle universali corrispondenze e
delle analogie.La natura è rappresentata come una foresta di simboli (da un verso di Baudelaire) tra loro corrispondenti che racchiudono le chiavi del significato dell'universo. Il
mondo è un insieme di simboli che ci parlano in un misterioso linguaggio: né la scienza né la ragione possono penetrarlo ma solo l'arte. Il poeta per intuizioni misteriose ed
improvvise coglie il senso riposto nella realtà, scoprendo collegamenti apparentemente illogici fra oggetti diversi, associando colori, profumi, suoni di cui riesce a percepire la
misteriosa affinità, scegliendo le parole non per il loro significato concreto ed oggettivo ma per le suggestioni che possono evocare con il loro suono ed il loro ritmo.
I POETI
La poesia simbolista ebbe i suoi grandi protagonisti in Rimbaud, Verlaine e Mallarmé; essi influirono in misura determinante sui successivi svolgimenti della poesia europea, specie
in Inghilterra, in Germania, in Russia. In Italia il simbolismo ebbe un'eco indiretto nella poesia di Pascoli e D'Annunzio. Ma fu soprattutto nei primi anni del nuovo secolo che esso fu
veramente conosciuto nella pienezza delle sue affermazioni teoriche e delle sue proposte di novità espressiva, influendo così in misura determinante sui futuristi e sui poeti
ermetici.
Paul verlaine: “arte poetica”
Arte poetica è il manifesto poetico in cui Paul Verlaine descrive e mostra cosa voglia dire per lui fare poesia. Il concetto chiave è espresso subito nel primo verso: la musicalità è
l’elemento più importante della poesia per questo autore, infatti torna a essere ribadita alla fine del resto. Il suono e il ritmo sono due caratteristiche fondamentali della poesia di
Verlaine e ciò che, secondo lui, differenzia realmente la poesia dalla prosa. Per questo è da prediligere il verso dispari a quello pari.
La scelta delle parole deve puntare all’imprecisione, alla vaghezza, non a un linguaggio preciso ed esatto nel definire ogni cosa, in modo che sia più leggero e suggestivo. Più
spazio deve essere lasciato all’immaginazione. Ogni parola deve poter avere più significati. L’ambiguità, in questo caso, è ricchezza.
Secondo Verlaine, inoltre, la poesia deve evitare l’arguzia, le sottigliezze intellettuali, la retorica, che sono espedienti di basso livello. Allo stesso modo sono da evitare le rime,
ornamenti esteriori che non aggiungono nulla alla poesia e sono ormai stati usati troppo.
Il finale molto diretto ed efficace vuole sottolineare il distacco tra la poesia e il resto della letteratura: la poesia è altro, ha le sue particolarità ed è superiore al resto.
ARTHUR RIMBAUD, `Vocali'.
Il sonetto Vocali parte dall’associazione tra vocali e colori, affermata perentoriamente nel primo verso come dato oggettivo e incontestabile. Da qui partono analogie ispirate a questi
colori: con libere associazioni mentali ispirate dai suoni, forme e colori delle vocali, Rimbaud associa a ciascuna di queste lettere delle immagini e delle sensazioni.
Questa poesia è quindi tutta una grande sinestesia, che mescola e confonde sfere sensoriali diverse. L’anarchia e l’arbitrarietà delle immagini che si costruiscono nella mente del
poeta è resa dal ritmo incalzante dei versi, con parole collegate tra loro per lo più per asindeto.
L’ordine delle vocali non è del tutto quello consueto: la O viene messa per ultima perché identificata con l’omega, ultima lettera dell’alfabeto greco.
Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde
Il ritratto di Dorian Gray è l'unico romanzo attribuito allo scrittore, poeta, drammaturgo irlandese Oscar Wilde ed è considerato un manifesto letterario dell'estetismo. In questa sede
approfondiremo la trama, il significato, la morale e i personaggi dell’opera. Conosciamo tutti il nome di Oscar Wilde perché le sue riflessioni sono diventate degli aforismi celebri
soprattutto attraverso le citazioni che vengono diffuse largamente sul web. Il successo di tali aforismi è dovuto alla scrittura caratteristica di Wilde che ricerca il paradosso, l’ironia, lo
scontro diretto con i luoghi comuni del comune pensare.
Oscar Wilde, scrittore de Il ritratto di Dorian Gray
Breve biografia dell'autore: Riassumendo in poche righe la vita di Oscar Wilde, prima di passare all’analisi del romanzo Il ritratto di Dorian Gray, bisogna ricordare che lo scrittore
nacque a Dublino nel 1854 e morì a Parigi nel 1900. Wilde studiò al Trinity College di Dublino dove si distinse come studente eccelso; agli studi seguì un periodo di viaggi in cui lo
scrittore si dedicò all’insegnamento. Presto si sposò ed ebbe due figli ma nonostante questo matrimonio fu denunciato e incarcerato con l’accusa di essere omosessuale, fatto
all’epoca considerato un vero reato per la condotta di un uomo del suo rango.
Il tema centrale del romanzo di cui ci occupiamo qui, Il ritratto di Dorian Gray (The picture of Dorian Gray) è certo un motivo caro al pubblico di ogni epoca: il profondo desiderio di
ottenere e mantenere la giovinezza eterna.
Il ritratto di Dorian Gray, considerato da molti critici e studiosi un vero e proprio manifesto nel movimento letterario detto estetismo, fu pubblicata nel 1890. Per i contenuti scabrosi
alcuni episodi del romanzo vennero censurati e nella seconda edizione del romanzo del 1891 Oscar Wilde prepose una prefazione al testo in cui si difese dalle accuse ricevute per
l’inserimento di questi episodi.
Il romanzo in sintesi: Prima di analizzare la trama nel dettaglio e di proporre un commento su Il ritratto di Dorian Gray, anticipiamo qui i punti salienti di quanto ci aspetta nel
racconto: il romanzo è la storia di un giovane ragazzo inglese, Dorian Gray, a cui un pittore, Basil, fa un bellissimo ritratto. Dorian, sedotto dai discorsi sull’importanza della
giovinezza di un ricco dandy inglese, arriva a sperare di poter rimanere sempre giovane anche a costo di perdere la sua anima. Il quadro allora invecchia al posto di Dorian che
ormai è senza anima. La sua vita sarà scapestrata e ossessionata e lo porterà ad uccidersi.
D’ANNUNZIO GABRIELE 1863/1938
Nacque a Pescara, il cognome D’Annunzio vi è assunto dal poeta essendo stato adottato da una zia materna il cui marito faceva D’Annunzio. Sebbene si fosse iscritto all’università,
non la condusse mai a termine in quanto preferì dedicarsi alla vita
mondana, frequentando i salotti più mondani della capitale; anche i circoli letterari e culturali furono oggetto di frequentazione da parte del giovane Gabriele. Nonostante assiduo
frequentatore della vita mondana fu anche un indefesso scrittore, infatti, fedele assoluto alla sua arte ebbe una produzione feconda. A lui vengono attribuite avventure amorose e
non, ma i momenti salienti della sua vita sono il viaggio in Grecia, la storia con l’attrice Eleonora Duse, il soggiorno in Toscana. Il periodo che visse alla Capponcina, presso
Firenze, fu circondato da uno sfarzo tipico di un uomo rinascimentale, contraendo una serie di debiti non saldati che alla fine lo costrinsero ad un volontario esilio in Francia, presso
Bordeaux.
Quindi fu parlamentare nei banchi della Destra, tuttavia al tempo dell’ostruzionismo della Sinistra contro le leggi repressive del governo Pellux, passò in questo settore sostenendo
che un uomo d’intelletto andava verso la vita.
Allo scoppio della Grande Guerra ritornò in Italia partecipando al conflitto, compiendo imprese che sono state memorabili come la beffa di Buccari e il volo dimostrativo su Vienna.
Alla fine del conflitto, vi fu l’occupazione di Fiume poiché gli alleati non vollero riconoscerne l’annessione all’Italia. Tale occupazione iniziata nel 1919 terminò nel Natale del 1920,
quando abbandonò la città non volendo spargere sangue fraterno tra i suoi legionari e le truppe mandate dal governo Nitti. Fino alla morte visse poi sulle rive del Garda, nella villa
detta Il Vittoriale, così chiamata perché vi raccolse molti cimeli della Grande Guerra.
In merito al fascismo invece il poeta vate tenne un atteggiamento ambiguo, passando da un sostegno benevolo, ad un disprezzo sdegnoso. Mussolini lo definì un dente guasto,
sostenendo che o lo si estirpava o lo si teneva ricoprendolo d’oro; il duce volle ricoprirlo d’oro.
È fuori di dubbio che nell’insieme lo scrittore pescarese fu in grado di realizzare quel “vivere inimitabile”, eccezionale dominato da una continua ricerca della bellezza e di
grandezza, tipico del gusto estetizzante del Decadentismo. La sua vita fu la costruzione di un’opera d’arte. I suoi gesti estremi nella guerra sono espressione proprio di questo
aspetto avventuroso che egli incarnò perfettamente; così come incarnò il desiderio di spettacolarità, il compiacimento per il bel gesto; la ricerca di una bella morte come
coronamento di un “vivere inimitabile”.
Confronto con Pascoli
D’Annunzio e Pascoli sono i due poeti più rappresentativi del panorama decadente italiano, si possono inoltre considerare contemporanei, infatti. Pascoli è più grande di
D’Annunzio di soli 8 anni, ma i due presentano differenze notevoli sia nel loro modo di esprimersi sia nel modo di vivere e intendere la vita. Il decadentismo di Pascoli presenta una
maggiore consapevolezza e istintività, quasi priva di influenze poetiche esterne – fatta eccezione di Poe e Baudelaire. Il decadentismo dannunziano è frutto di scelte precise,
operato nell’ambito delle più diverse esperienze decadenti europee, assimilate e padroneggiate, in quanto lo spirito del poeta pescarese era decisamente aperto alle esperienze più
varie ed ardite.
Va però fatta una riflessione sulla capacità di adesione di D’Annunzio alle più disparate forme di Decadentismo come l’estetismo, il panismo, il sensualismo, il vitalismo l’ulissismo
(tale adesione va intesa in senso dinamico, come ricerca di esperienze sempre nuove ed eccezionali, non in senso vittimistico di un perseguitato destino come l’Ulisse di Foscolo o
Dante), che non vennero vissute come effettivo strumento di conoscenza del mondo ultra sensibile, né come espressione del dramma della solitudine e dell’angoscia di vivere. Egli
comunque seppe creare un suo stile personale, che va inteso come fenomeno culturale così profondamente vasto e radicato che si può dire che si passò dall’Italia carducciana
della seconda metà dell’Ottocento all’Italia dannunziana del primo Novecento. Altri elementi di comparazione differenziazione tra Pascoli e D’Annunzio si evincono in diversi punti:
La percezione di Pascoli in merito alla solitudine è di tipo ansioso, tanto da invocare la solidarietà degli uomini, quella di D’Annunzio percepisce la solitudine in modo orgoglioso e
arrogante, ciò lo conduce all’isolamento dagli altri uomini per affermare la sua superiorità sull’umanità.
Il carattere di Pascoli si presenta schivo, riservato, nonché introverso che lo conduce ad una vita raccolta ed umbratile (ombroso). D’Annunzio ha un carattere estroverso, che lo
conduce ad assumere atteggiamenti teatrali, a compiacersi del bel gesto per attirare su di sé l’attenzione o per sottolineare la propria eccezionalità.
Da qui deriva anche la diversità di vivere e comporre la poesia, quella di Pascoli è decisamente intima e raccolta, vibrante di vita interiore. Quella dannunziana si manifesta
opulenta, lussureggiante, disumana in quanta volta a mettere in evidenza la vita e le esperienze del poeta nella loro eccezionalità, a prescindere dalla loro positività o negatività.
Pascoli è il “fanciullino” che guarda al mondo con occhi stupiti e vede sotto il velo della realtà il palpito di una vita più profonda; D’Annunzio è sempre l’uomo esperto di raffinatezze
e voluttà. Egli è l’eroe centauro, mezzo uomo mezzo bestia, un mostro di orgoglio, voluttà, volontà, istinto, i quattro pilastri della sua vita inimitabile.
Possiamo poi guardare ad un raffronto con il Verga, dove la differenza con lo scrittore siciliano è decisamente abissale; infatti il verismo di Verga sotto l’apparente indifferenza e
imparzialità, rivela invece moralità e pietà per le vicende dei suoi personaggi; il verismo dannunziano sotto un’apparente impersonalità mostra un gusto decadente per il mondo
primitivo e selvaggio, ritratto con fredda impietosità, con indifferenza per i problemi sociali.
Il decadentismo dannunziano
L’ESTETISMO ARTISTICO: la concezione della poesia e dell’arte intese come creazione della bellezza, in assoluta libertà nelle forme e nei motivi; tale ricerca nasce dalla
necessità di contrapporsi alla volgarità del Verismo.
ESTETISMO PRATICO: rapporto di analogia con l’estetismo artistico, vede la vita quotidiana realizzata in assoluta libertà, al di fuori e al di sopra di ogni legge e freno morale.
L’ANALISI DELLE SENSAZIONI RARE: tale processo è attuato in senso narcisistico e compiaciuto; il desiderio di percepire le sensazioni come esclusivo piacere personale.
IL GUSTO DELLA PAROLA: la scelta dell’idioma viene formulata in funzione esclusivamente evocativa e musicale dello stesso più che per il suo valore logico. Tale ricerca della
parola intesa come musicalità la si ritrova in Alcyone, serie di componimenti poetici che sono l’espressione più decadente proprio nel senso della ricerca musicale della parola.
IL PANISMO: la tendenza ad abbandonarsi alla vita dei sensi e dell’istinto, dissolvendosi e immedesimandosi con le forze della natura.
Una disamina del decadentismo dannunziano rivela comunque un carattere superficiale e naturalistico. Tale atteggiamento artistico va sotto il nome di dannunzianesimo, cioè
l’influenza che il comportamento del poeta ebbe nella vita pratica.
Il dannunzianesimo ebbe effetti nella vita pratica, in quanto suscitò interesse, curiosità in alcuni ambiti aristocratici e borghesi, quelli più sfaccendati, influenzandone i costumi e i
comportamenti.
Nella vita letteraria il dannunzianesimo si rivela nei virtuosismi lessicali e stilistici.
Vi è infine l’influenza nella vita politica, con la sua eloquenza sfarzosa, con le imprese eroiche e leggendarie, galvanizzando in parte l’Italia nella discesa in guerra. In merito al
fascismo il dannunzianesimo non fornì solo degli schemi esteriori, ma lasciò in eredità anche aspetti decisamente negativi come la mancanza di senso storico, il disprezzo per il
lavoro umile, compiuto per il bene della patria, l’idea d’improvvisazione, di faciloneria, di superficiale disprezzo per gli avversari.
La poetica di D’Annunzio
Il primo D’annunzio si muove sull’imitazione esteriore in campo poetico di
Carducci, mentre nel campo della prosa segue le orme dei naturalisti francesi e veristi italiani; ma D’Annunzio con il suo temperamento sensuale è decisamente lontano dalla
concezione sana dell’ideale carducciano o verghiano. Le opere successive seguono sempre le orme superficiali di scrittori e poeti precedenti, nel caso dei romanzi D’Annunzio
pensò di scrivere un ciclo di romanzi sulle orme di Zola e di Verga, tale ciclo doveva essere suddiviso in tre trilogie, ciascuna delle quali denominata secondo il nome di un fiore: la
rosa, il giglio e il melograno. Tale trilogia doveva simboleggiare l’evoluzione dello spirito umano dalla schiavitù delle passioni alla vittoria dei protagonisti su di esse. I vari
protagonisti risultano essere poi la proiezione, sul piano narrativo, dello stesso D’Annunzio.
I romanzi della Rosa sono l’unico ciclo portato a termine dall’autore, in essi primeggia la voluttà e la passione invincibile, simbolo della rosa, a cui appartengono. Il primo dei tre è Il
PIACERE, il protagonista è Andrea Sperelli, ultimo rampollo di una nobile famiglia, un esteta; egli, ha un principio-guida è, secondo l’ideale dello stesso D’Annunzio, quello di “fare”
la vita come si fa un’opera d’arte. Il giovane trascorre il tempo lontano dal “grigiore” della quotidianità, circondandosi di cose raffinate e lussuose, immerso in attività fuori del
comune. La sua esistenza viene però turbata dall’abbandono dell’amante, la bella e misteriosa Elena Muti, che Andrea, nonostante le numerose avventure frivole, non riesce né a
sostituire né a dimenticare. Ferito in duello, durante la convalescenza, si innamora, riamato, di Maria Ferres, una giovane molto spirituale. Ben presto però il rapporto si complica
per la somiglianza fra le due donne: Andrea, sempre più tormentato dal ricordo di Elena, ricerca con la nuova amante le sensazioni provate con l’altra e quando, durante una notte
d’amore, si rivolge a Maria chiamandola inconsapevolmente
Elena, la donna inorridita capisce la verità e lo lascia. I motivi di fondo del
Piacere presentano forti affinità con quelli del romanzo più rappresentativo del Decadentismo europeo di quegli anni. Andrea Sperelli è totalmente votato alla ricerca estetica, al
pieno godimento delle più raffinate sensazioni, ma destinato alla sconfitta. Compare qui, in maniera estremamente esplicita, quel motivo che la critica ha indicato fra quelli
fondamentali della personalità dannunziana, il velleitarismo, ovvero la frattura tra il desiderio di affermazione del proprio io e la costante percezione dell’impossibilità di ottenerla. In
questo senso, Il piacere anticipa le posizioni che D’Annunzio verrà precisando nei romanzi successivi. Ma è indispensabile ricordare ancora una volta che quest’opera testimonia
l’eccezionale capacità dello scrittore nel captare e assimilare le espressioni della più recente cultura d’oltralpe, e si propone, proprio per questo, come il primo contributo italiano alla
definizione europea dell’eroe decadente che, dopo Des Esseintes, assumerà, in Inghilterra, le splendide e ambigue fattezze di Dorian Gray, l’inquietante protagonista dell’omonimo
capolavoro di Oscar Wilde.
Il secondo romanzo è L’INNOCENTE, in esso si narra il dramma di Tullio Hermil, che volendo riconquistare la moglie con la passione di un tempo, vede nel figlio avuto dalla donna
da un’altra relazione un ostacolo a tale riavvicinamento, così con fredda determinazione mette il bambino appena nato al freddo facendolo così morire.
Il terzo romanzo IL TRIONFO DELLA MORTE, qui il protagonista non potendo vincere l’amore sensuale e la gelosia che prova per Ippolita, sente che solo con la morte potrà
liberarsi dal tormento della passione e si getta in un baratro nel quale trascina la donna con sé.
Il ciclo del Giglio, simbolo della passione che si purifica, avrebbero dovuto vedere come protagonisti personaggi vicini al concetto del superuomo di Nietzsche. Il superuomo, infatti,
non è più schiavo delle passioni, ma si serve di esse per realizzare pienamente la propria volontà di potenza. Va però sottolineato che il pensiero di Nietzsche venne male
interpretato da D’annunzio, infatti, il filosofo tedesco non si auspicava l’avvento di un uomo che fosse superiore agli altri e ad esso fosse tutto concesso in virtù tali doti, ma egli
sperava nell’avvento di un’umanità rinnovata, che per realizzare ogni sua potenzialità dovesse liberarsi di ogni soggezione alla morale tradizionale, fatta di ipocrite finzioni.
D’Annunzio non considerò il vero messaggio nicciano, ma lo deformò adattandolo al suo temperamento sensuale, facendo del superuomo l’individuo d’eccezione, destinato a
dominare sugli altri; tale filosofia è poi alla base delle grandi dittature del ‘900 (da Mussolini, ad Hitler, passando per Stalin). Della trilogia del Giglio lo scrittore compose solo il
romanzo LE VERGINI DELLE ROCCE, il protagonista è Claudio Cantelmo, seguace delle dottrine del superuomo, concepisce l’idea di unirsi in matrimonio con una delle
principesse di un’antica famiglia borbonica, con cui procreare il futuro re di Roma. Il D’Annunzio romanziere si va liberando lentamente, sotto l’influenza degli autori russi, degli
elementi del romanzo verista, dando alle sue opere un andamento di una lunga lirica in prosa, nella descrizione delle sensazioni, raffinate e di stati d’animo eccezionali, in uno stile
elevato che rinuncia ai toni medi.
IL PIACERE:Il Piacere è il primo romanzo di D’annunzio, viene scritto tra il luglio e il dicembre del 1888 e pubblicato nel 1889. Con questo romanzo la cultura decadente, iniziata
nella narrativa con l’opera di Huysmans “A rebours” (1884), si afferma per la prima volta in Italia.Il Piacere ottiene un grande successo e allo stesso tempo solleva scandalo e
polemiche per l’immoralismo del protagonista.Questo romanzo ed i seguenti: L’Innocente e Il trionfo della morte, verranno uniti da D’Annunzio in un ciclo dal nome “I romanzi della
Rosa”, dove la rosa è simbolo della lussuria. Il termine dannunziano inizia con quest’opera.
STRUTTURA DEL ROMANZO
L’opera è suddivisa in quattro sezioni (libri), ognuna strutturata in capitoli.
Le quattro parti si collocano cronologicamente in quattro momenti ben definiti della vita di Andrea Sperelli.
ANALISI
L’elemento di grande importanza di questo romanzo è dato dal fatto che con esso viene introdotto in Italia la figura dell’eroe decadente già presente nella letteratura straniera
(vedi Jean des Esseintes, personaggio principale del romanzo di Huysmans, in Francia e Dorian Gray di Oscar Wilde, in Inghiltera). Il protagonista, Andrea Sperelli, è l’incarnazione
dell’eroe decadente: raffinato, aristocratico, dandy, freddo, cultore solo del bello.
Nel Piacere si trovano ancora tracce della tradizione naturalistica del romanzo d’ambiente che si mescola con la nuova tendenza decadente della narrativa lirico-evocativa.
E’ soprattutto l’impianto narrativo e strutturale che risente ancora di modi di rappresentazione che appartengono al naturalismo (per es. narratore esterno onnisciente), mentre
lontano dal naturalismo è invece l’utilizzo del discorso indiretto libero, l’analisi psicologica dei personaggi, ricorso al flash-back ed anche il registrare in presa diretta il punto di vista
del protagonista o di altri personaggi (una parte della narrazione è per esempio affidata al diario di Maria).
D’Annunzio fa spesso ricorso alla paratassi (le proposizioni possono essere tutte principali accostate tra loro per coordinazione, esempio: “ ella sarebbe venuta, ella si sarebbe
seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato ”) ed i singoli episodi e i diversi particolari della rappresentazione
sono come giustapposti. Il racconto non segue il corso cronologico degli accadimenti ma avanza per blocchi discontinui, infatti spesso ci sono flash-back (scarto temporale) legati ai
ricordi di Andrea ed avvenimenti passati, che mescolano passato e presente.
D’Annunzio utilizza uno stile molto ricercato e dotto, la prosa è levigata e preziosa, l’italiano utilizzato è ricco e raffinato, lo scrittore sceglie infatti con grande accuratezza parole
rare e preziose, nomi esotici o sonori, latinismi, arcaismi, termini liturgici e aulici, intenzionalmente non alla portata di tutti in cui le parole sono ordinate secondo un preciso schema
metrico.
Il linguaggio mostra di frequente procedimenti tipici della poesia, come il troncamento (incitazion tanto forte), l’uso sistematico di simmetrie sintattiche (amato e goduto e sofferto), il
ricorso a figure retoriche come antitesi, analogie, allitterazioni, similitudini, metafore ed assonanze. Grande spazio viene riservato a lunghissime descrizioni e divagazioni erudite.
Nonostante la componente autobiografica il romanzo è scritto in terza persona.
Il Piacere affascina più per le atmosfere che per la vera e propria storia, un po’ come il ritratto di Dorian Grey. L’autore vi esalta la sua esperienza di vita salottiera, mondana,
preziosa.
TITOLO
Il piacere è il fondamento su cui si basa la vita del protagonista, Andrea Sperelli, fatta di piaceresensuale, lussuria, avventure amorose, culto della bellezza, delle donne e delle
opere d'arte, da qui la scelta del titolo.
PERSONAGGI
D’Annunzio dedica alla descrizione dei personaggi particolare attenzione, soprattutto per quanto riguarda i pensieri del protagonista Andrea Sperelli, che vengono illustrati in
maniera precisa e minuziosa dal narratore.
Andrea Sperelli: è forse il più famoso tra i personaggi dannunziani. Andrea Sperelli è, per molti aspetti, la personificazionedell’autore, la vita estetizzante e mondana del giovane
D’Annunzio si trasfigura in Andrea. Egli incarna l’eroe decadente, l’esteta dotato di una sensibilità eccezionale che lo rende particolarmente incline alla bellezza ed ai piaceri. Di lui
vengono descritte le ambizioni, le contraddizioni, le idee e i gusti artistici che permettono di delineare un personaggio di intellettuale che si contraddistingue per: la sapiente ricerca
del piacere, la scienza dell’edonismo, il disprezzo per la mediocrità, lo spirito antidemocratico, l’ostentazione della superiorità, la carenza di umanità. D’Annunzio simpatizza
pienamente con Andrea Sperelli e con la sua visione della vita. Andrea Sperelli è stato educato dal padre a costruire la propria esistenza come “un’opera d’arte” e nello stesso
tempo a dominare e a possedere. Abita in un palazzo del Cinquecento, palazzo Zuccari, a Trinità dei Monti, pieno di opere d’arte e di oggetti raffinati, descritti con precisione e
compiacimento. D’Annunzio, nonostante esprima il fascino per questo stile di vita aristocratica ed elegante, mette in evidenza le debolezze morali di Andrea. In Andrea Sperelli
l’autore denuncia l’incoerenza, l’arrendevolezza nei confronti degli istinti, la mancanza di genuinità e spontaneità. D’Annunzio evidenzia la debolezza della figura dell’esteta
incapace di opporsi ad un mondo dominato dalla borghesia in ascesa e destinato quindi ad un isolamento in cui il culto della bellezza si trasforma in falsità e menzogna. Andrea
Sperelli basa la propria esistenza sull’artificio e la finzione e ciò lo porta ad instaurare un rapporto distaccato e ambiguo con tutto ciò che lo circonda, gli oggetti che colleziona, gli
ambienti che frequenta e soprattutto le numerose donne a cui è legato, è un uomo dalla volontà debolissima, privo di slancio morale, di autenticità, è incapace di agire
spontaneamente, è puramente cerebrale. Andrea Sperelli non è capace di provare veri sentimenti, è vuoto, fine a sé stesso. L’estetismo in Andrea Sperelli diventa in lui una forza
distruttiva, che lo porta alla solitudine e alla sconfitta nel rapporto con l’universo femminile, come emerge chiaramente nel finale del romanzo.
Elena Muti: duchessa di Scerni, è la donna fatale, dalla sensualità dirompente ed aggressiva, che incarna l’erotismo lussurioso. Grande amore di Andrea, o meglio, grande piacere.
Il rapporto tra Andrea ed Elena è l’opposto di quello tra Andrea e Maria, è un gioco tra rifiuto e desiderio, è corteggiamento e conquista, è sensualità ma il sentimento vero è
assente.
LE LAUDI: Le Laudi di Gabriele D’Annunzio sono cinque raccolte poetiche che devono il nome alle stelle della costellazione delle Pleiadi (Maia, Elettra, Alcyone, Merope,
Asterope). Nell’Alcyone, la terza raccolta, in particolare, D’Annunzio descrive il sogno di un’estate, di un’ideale vacanza estiva dai colli fiesolani alle coste tirreniche,
dalle piogge di fine primavera ai paesaggi autunnali di settembre. In questa raccolta, si esplica pienamente il cosiddetto “panismo dannunziano”: l’uomo si trasforma in un elemento
della natura e la natura stessa si umanizza. Nella natura tutto è divino: non c’è più distinzione tra il soggetto e l’oggetto, tra l’uomo che osserva e ciò che osserva. Infatti, “panismo”
deriva dalla parola greca “Pan”, che significa, appunto, “tutto”: l’io del poeta si fonde con lo scorrere della vita del Tutto, trasfigurandosi ed arrivando a toccare il divino, a cui solo la
potenza della parola evocativa del poeta-vate (strettamente connesso con il superuomo) è in grado di attingere, sapendo cogliere appieno l’essenza misteriosa della natura.
La poesia La sera fiesolana, la prima di Alcyone ad essere stata composta, rappresenta una sorta di rilettura laica e dionisiaca del Laudes creaturarum di San Francesco d’Assisi: il
misticismo francescano viene riproposto in modo esteriore, con espressioni come “laudata sii”, “fratelli ulivi”; “pura morte”, inserite però in un contesto totalmente diverso.
La sera è il momento della fusione panica con la natura e rappresenta l’attesa del rapporto d’amore con la propria donna: dopo la sera ci sarà una notte d’amore, ma il poeta
preferisce descriverne l’attesa, attraverso procedimenti irrazionali, in particolare la sinestesia e l’analogia. Vuole evocare più che descrivere razionalmente le scene. Si tratta di una
sera di giugno dopo la pioggia al crepuscolo, un momento di passaggio e di metamorfosi, fatto di trasformazioni quasi impercettibili, un momento carico di attesa e di suggestione.
Come la sera ‘muore’ spegnendosi lentamente nella notte (v.49), così la primavera muore trascolorando nell’estate.
In tutta la poesia, D’Annunzio si rivolge ad un “tu” indeterminato, una figura femminile di cui non viene esplicitato il nome, ma ogni strofa costituisce sostanzialmente un nucleo a sé
stante. A fungere da collegamento stanno i tre ritornelli in cui è lodata la sera, che assume sembianze umane, di una donna amata, celebrata per il viso perlaceo, le vesti profumate
e la cintura indossata.
Nella prima strofa, originariamente intitolata Natività della luna, il tema centrale è il sorgere della luna: essa è tutta costruita su una serie d’immagini che si richiamano l’una con
l’altra per analogia: il suono delle parole “fresche” richiama il “fruscio” delle foglie del gelso e queste corrispondenze assumono un valore allusivo quasi magico, acuito
dall’allitterazione onomatopeica e dalla sinestesia. Questi versi introducono la nascita della luna, una sorta di teofania che solo le parole del poeta-vate sono in grado di descrivere;
ma non è descritto il sorgere vero e proprio della luna, bensì il momento, magico e sospeso, che lo precede. La luna ha il potere di produrre il refrigerio necessario a far rifiorire la
vita laddove c’era l’aridità, ma l’idea del “fresco” la connette allusivamente anche alle “fresche” parole del poeta, che quindi assumono le medesime prerogative salvifiche.
Nella seconda strofa, originariamente intitolata La pioggia estiva, si presta ancora più attenzione al suono delle parole, che sono scelte innanzitutto per la loro musicalità e per la
trama fonica che formano. Di nuovo, si insiste sull’idea dell’acqua e su momenti ambigui di passaggio, in particolare tra la primavera e l’estate, col grano non maturo, ma non più
verde e il fieno tagliato che sta lentamente ingiallendo.
Nella terza strofa, dal titolo originario L’immagine delle colline, giunge al massimo l’esaltazione irrazionale dell’innamoramento: si crea una dimensione favolosa in cui le parole
servono non a denotare ma ad evocare. Si giunge ad una sensualità panica, ad una forza erotica che pervade la natura e di cui anche l’uomo partecipa: nell’atmosfera magica e
misteriosa dei “reami d’amor”, persino le colline si trasformano in sensualissime labbra.
La cura formale è molto elevata; il lessico è ricercato e ricco di arcaismi, con stilemi tipici dello Stil novo (“viso di perla”, v. 15) e un francesismo, “bruiva”, al v. 19. Una raffinatissima
musicalità, come abbiamo visto, si accompagna a un uso larghissimo e sapiente delle figure retoriche e di ardite personificazioni e giochi cromatici
LA PIOGGIA NEL PINETO introduzione al componimento
Il tema della poesia è la pioggia estiva, che cade nella pineta mentre il poeta e la sua donna vi entrano. La descrizione risulta così minuziosa che rivela l’abilità compositiva del
poeta, che riesce a fare percepire l’acuirsi dei sensi nell’ascoltare la natura e il suo manifestarsi, riuscendo anche a riprodurre i suoni della natura stessa che si manifestano nella
loro diversità quando cade la pioggia. Il poeta descrive i diversi momenti della pioggia, dapprima il suo lento cadere, quindi il suo intensificarsi per divenire infine scrosciante
orchestrazione di suoni. Il poeta e la donna amata si abbandonano alla gioiosa voluttà e alla freschezza della pioggia, imbevendo il proprio spirito di quello del bosco, fino a sentirsi
parte integrante della natura stessa in una metamorfosi oviedea, lontana dall’urna vegetale del gelsomino notturno di Pascoli.
Il vero tema della poesia tuttavia non è la descrizione della pioggia in sé, quanto piuttosto il PANISMO del poeta, la percezione dei sensi intimamente fuso con la natura, il ritornare
alle sorgenti primordiali della natura
Commento
La poesia La pioggia nel pineto viene composta dal poeta a cavallo fra il luglio e l’agosto del 1902, ed appartiene alla sezione centrale di Alcyone (il terzo libro delle Laudi, uscito
alla fine del 1903, e composto dal poeta tra il 1899 e il 1903). La raccolta è costituita da una serie di liriche che rappresentano «un susseguirsi di laudi celebrative della natura – e
soprattutto dell’estate, dal rigoglioso giugno al malinconico settembre – nella quale il poeta si immerge mirando a realizzare una fusione panica: a sprofondare e a confondersi con
tutto – mare, alberi, luci, colori – in un sempre rinnovato processo di metamorfosi che si risolve in un ampliarsi della dimensione umana».1Sono lodi che celebrano la natura
osservata in una vacanza ideale, che inizia a fine primavera nelle colline di Fiesole e termina a settembre sulle coste della Versilia. Il poeta racconta in versi come avviene la
fusione dell’uomo con la natura attraverso il superamento della limitata dimensione umana.
La lirica più nota e più rappresentativa della raccolta è La pioggia nel pineto, leggendo la quale riusciamo a capire come l’uomo entri in simbiosi con la natura, sottoponendosi a un
processo di naturalizzazione, e come la natura subisca a sua volta un processo di antropomorfizzazione.
Il poeta e la sua compagna entrano in empatia con la natura e arrivano a condividerne la sua anima segreta: D’Annunzio contempla la metamorfosi delle cose e la sua compagna si
trasforma in fiore, pianta, frutto, mentre la pioggia cade.
La poesia inizia con un punto fermo dopo l’imperativo Taci (v.1), che indica un momento di preparazione e di attesa. Comincia il rito d’iniziazione, al quale sono invitati tutti i lettori, e
non solo la donna: si tratta di un momento quasi liturgico che per essere vissuto fino in fondo necessita di un silenzio assoluto. Il poeta esorta la sua compagna a restare in silenzio,
al fine di ascoltare con la dovuta attenzione i suoni inusitati (le parole più nuove) emessi dalla natura: le parole sussurrate da gocce e foglie lontane, avvertite sin dalle soglie del
bosco. Sta piovendo e la pioggia altro non è che una manifestazione della natura, che avvolge e riveste tutto.
Il poeta invita più volte la sua compagna ad ascoltare (v. 8: Ascolta; v. 33: Odi?; v. 40: Ascolta; v. 65: Ascolta, ascolta; v. 88: Ascolta) la musicalità della pioggia e i suoni emessi
dalla natura. Alla donna in questione viene attribuito il nome di Ermione, il nome della figlia di Elena e Menelao della mitologia greca con il quale il poeta, probabilmente, si riferisce
a Eleonora Duse (una grande attrice della sua epoca, con la quale visse un’intensa storia d’amore).
Il processo di naturalizzazione e di metamorfosi viene messo in atto sin dai primi versi della lirica, in cui vengono elencati diversi tipi di piante e di fiori, al fine di creare una
premessa per la fusione tra gli uomini e la natura che viene esplicitata già nei versi 20-21, attraverso i quali si nota che i volti del poeta e di Ermione sono diventati silvani,
permettendo ad entrambi di trasformarsi in creature silvestri, dello stesso colore e quasi della stessa sostanza del bosco. Successivamente la donna è paragonata agli elementi
della natura: il suo volto è come una foglia (vv. 56-58) e i suoi capelli emanano lo stesso profumo delle ginestre (vv. 59- 61: le chiome come le ginestre). Gradualmente, arrivano
entrambi a fondersi con la natura e a sentirsi parte di essa, tanto è che il poeta, attraverso l’uso delle similitudini, mostra come la donna sembri aver assunto l’aspetto di una pianta
verdeggiante e sembri uscita dalla corteccia di un albero come una ninfa (vv. 99-101), il suo cuore sembri vivere di una nuova vita e sia simile al frutto della pèsca (vv. 104-105) e
mostra come persino gli occhi (vv. 106-107) e i denti (vv. 108-109) si trasformino e rendano esplicito il senso d’immedesimazione delle due creature umane nella vita del bosco.
D’Annunzio descrive minuziosamente il temporale estivo e lo rende estremamente musicale, attraverso l’uso di onomatopee e di un lessico particolare, ma non si limita a registrare
il semplice cadere della pioggia al livello più esterno, ma mette in evidenza, in particolare, la metamorfosi panica sulla quale si basa tutta la lirica: la trasformazione sua e della sua
compagna in elementi vegetali e arborei, via via che riescono a fondersi con la natura. La pioggia nel pineto colpisce, infatti, per il tema panico-metaforico, per la trasformazione
vegetale del poeta e di Ermione. Il termine panismo deriva da Pan (dio greco della natura, per metà uomo e per metà caprone) e si riferisce all’identificazione dell’uomo con la
natura, con la vita vegetale. Attraverso i versi 53-55, il poeta ci fa capire che la metamorfosi è ormai al suo culmine:
Un altro tema molto importante della lirica è quello dell’amore, in quanto il poeta parlando della pioggia estiva refrigerante sottolinea come questa rigeneri non solo la natura, ma
rinvigorisca anche l’anima dei due innamorati, i quali continuano ad abbandonarsi alla forza dei sentimenti e dell’amore, ma con la consapevolezza che si tratti soltanto di una
favola bella (v. 29) che li ha illusi in passato e continua ad illuderli (vv. 29-32).
Colpisce, inoltre, la musicalità che caratterizza l’intera lirica e che è ottenuta attraverso la frantumazione del verso e il ricorso alle rime interne e alle assonanze. C’è un vero e
proprio studio del poeta, un virtuosismo basato anche sul principio della ripetizione, che provoca degli effetti ritmico-musicali particolarmente interessanti. Il poeta tende ad imitare i
suoni della pioggia e a inventare delle vere e proprie melodie: le parole più nuove a cui fa riferimento il poeta al v. 5 sono anche le parole che creano una musicalità nuova. Per
riuscire ad entrare in empatia con la natura il poeta trasforma le sue parole in musica, utilizzando un lessico piuttosto ricercato e musicale, dimostrando di aver fatto suoi gli
insegnamenti dei Simbolisti francesi.
Figure retoriche APOSTROFE; ANAFORA , ALLITTERAZIONE,SIMILITUDINE, ITERAZIONE Le iterazioni richiamano un andamento musicale.Lirica tra le più belle e le più famose
di D'Annunzio (composta nel 1902), una sorta di orchestrazione musicale, una composizione sinfonica, per l’abilità del Poeta a sfruttare ogni strumento fornito dalla lingua e dalla
retorica e per l'uso attento della parola per creare sequenze sonore, i toni e i rumori provocati dalla caduta delle gocce di pioggia sulla vegetazione.
Nella lirica emergono i due temi cari alla sensibilità decadente di D’Annunzio: il tema naturalistico-musicale della descrizione della pioggia e dei suoni che produce e il tema
fantastico-magico della progressiva assimilazione dell’uomo e della donna alla vita vegetale.
LA SERA FIESOLANA: ANALISI DEL TESTO: La sera fiesolana è una poesia composta da Gabriele d’Annunzio nel 1899. E’ la prima lirica dell’Alcyone (il terzo libro delle Laudi del
cielo, del mare, della terra e degli eroi). La poesia è divisa in tre strofe, seguite da una ripresa di tre versi, sotto forma di lodi.
I versi che compongono “La sera fiesolana” sono pervasi da una strana atmosfera mistica dovuta allo stretto legame tra la natura e l’uomo, che finisce con l’intrecciarsi
inevitabilmente in più punti sia tramite antropomorfizzazione e sia tramite naturalizzazione. Queste trasformazioni sono presenti sia nelle strofe principali e sia nelle terzine: la
personificazione della Luna, la personificazione della Sera ricorrente per tre volte, la personificazione del fieno e infine la personificazione delle colline. Non c’è da stupirsi
se D’Annunzio fa un uso cosi cospicuo di tali figure dato che ciò è perfettamente in linea con il tema centrale della raccolta Alcyone, dove perdono valore le critiche e le discussioni
politiche a vantaggio del panteismo naturalistico, la totale immersione e fusione del poeta protagonista delle liriche con tutto ciò che lo circonda, alla ricerca di emozioni, sensazioni
e passioni che la natura cela al suo interno.
STRPI CANORE: La poesia è un canto la cui origine va cercata nel mondo della natura ; dalle emozioni che il poeta ne trae sgorga la melodia dei versi. Il titolo significa “le radici
del canto”, e vuole indicare le origini della poesia del poeta. Quella di D’Annunzio è una poesia che esprime la varietà del mondo. La parola è vista proprio come forza creatrice,
strumento di potere per il superuomo, che grazie ad essa può creare il reale. La struttura sintattica è molto semplice perchè fondata sull’enumerazione; il lessico è semplice e
l’intreccio di rime e assonanze contribuisce a rendere il discorso fluido e lineare. Non si parla di realismo perché questa è una poesia in cui il canto si libera in pura mistica
sensuale. Una poesia compiutamente decadente perché fatta solo di sensazioni e di atmosfera, in totale assenza di costruzione, di contenuti, di centri logici e dunque non si può
parlare di realismo e di descrizione della realtà quotidiana!
IL PERIODO NOTTURNO: Il periodo notturno (o fase notturna) ha inizio nel 1916, anno in cui D’Annunzio venne ferito ad un occhio durante un’impresa militare, una trasvolata, e a
causa della ferita fu costretto a portare una benda sull’occhio. In quest’occasione egli compose il cosiddetto “notturno”: si tratta sia di un notturno fisico e fisiologico, ma anche di un
notturno dell’anima, accompagnato da un periodo caratterizzato da una forte inntiimità interiore. I testi scritti in questa fase contengono un misto di fantasie del poeta e di allusioni
alla convalescenza che egli stava attraversando a causa della ferita all’occhio. Si tratta di una raccolta quasi futturista, in cui la parola viene svincolata da ogni legame sintattico e
grammaticale. Il poeta si libera dagli eccessi, dalla retorica del periodo precedente e scompone la sua prosa in frammenti sofferti e privi del tipico superomismo. Nei testi scritti in
questo periodo non emerge più il D’Annunzio roboante e solare, che lascia invece il posto a un D’Annunzio più introspettivo: appunto notturno, tanto è vero che la sua prosa
acquista un tono naturale e sfumato, trasparente e diafano, con il quale il poeta esprime il rimpianto per la giovinezza perduta. Il Notturno è dunque una raccolta di testi scritti in
prosa nei quali il poeta affronta il tema della malinconia, della tristezza che nasce dalla coscienza della caducità e della labilità di tutte le cose e in particolare della giovinezza. Dato
che a causa della ferita egli non poteva scrivere, pare che la figlia gli preparasse delle striscie di carta (che il poeta chiama cartigli), in cui egli potesse scrivere. Lo stile utilizzato dal
poeta in questa fase può essere assimilato a quello dell’Alcione (terzo libro delle Laudi), considerato il capolavoro della poesia d’annunziana. La lirica principale del libro dell’Alcione
si chiama “tregua”, quasi ad indicare la tregua dell’anima del poeta che sarebbe avvenuta successivamente. Tregua è appunto il titolo che apre la raccolta.
LA PROSA NOTTURNA:
In questi due passi del componimento D’Annunzio è a Venezia.
Primo passo
Il poeta avverte tutti i rumori esterni senza vedere nulla e li registra. Questi rumori si mescolano con le sue fantasie e i suoi ricordi che lui riporta alogicamente (in modo disordinato),
secondo l’esempio del “flusso di coscienza” novecentesco.
Tutto ciò che D'Annunzio sente lo registra. Lui non può vedere, per cui la sensazione fondamentale è quella uditiva che si mescola con impressioni interiori: “afa di marzo”, “La
primavera entra in me come un nuovo tossico”, all’improvviso cambia argomento: “ho le reni dolenti”, poi ascolta, riportando tutto ciò che sente e abbondano:
• termini fonosimbolici: “sciacquio…colpi sordi…grida rauche…scrosci chiocci…risse stridenti…chioccolio sciocco”;
• Frasi senza verbo: “battito di un motore marino”, “chioccolio sciocco del merlo”, “ronzio lugubre”;
• Manca una logica ordinatrice: tutto è registrato come viene avvertito dal poeta;
• Uso di scelte stilistiche moderne: fonosimbolismo che vuole registrare le sensazioni.
Queste scelte stilistiche vengono definite “moderne”, perché anticipano il romanzo moderno per l’uso di:
• frasi brevi;
• Mancanza del verbo;
• Linguaggio fonosimbolico.
Secondo passo
Il poeta enuncia le allucinazioni causate dai dolori atroci.
è Una delle caratteristiche del romanzo del 1900 sarà prestare attenzione e registrare le sensazioni presenti all’interno dello scrittore e nello stesso istante, non nel prolungarsi del
tempo.
D’Annunzio vede nel fondo dell’occhio una figura che sembra un fiore “il giacinto violetto”, poi avverte un dolore fortissimo che causa un “grido folle”, sente il liquido colare dalla
compressa di garza sull’occhio, vede ancora nero in fondo all’occhio, in seguito rispunta il dolore e infine dichiara di non avere più l’immagine del fiore nell’occhio.
Il poeta descrive le immagini di un delirio onirico, figure create nel fondo dell’occhio dalla malattia.
Queste figure si alternano liberamente, caoticamente, sono le fantasie, le allucinazioni e i ricordi che rappresentano il “flusso di coscienza”.
Lo stile
Lo stile non è retorico, ma sintetico e lapidario. Non si trova la prosa aulica, sontuosa, composta da periodi ampi e complessi tipici di D’Annunzio, ma sono presenti periodi molto
brevi, rapidi e incalzanti.
In questo testo si ha un D'Annunzio nuovo, anche se queste “novità” potrebbero non essere del tutto nuove, poiché non si riesce a capire fino a che punto il poeta abbia operato per
la sua intimità oppure quanto ha assorbito da esperienze antecedenti a lui. Infatti, una prosa simile era stata utilizzata dai vociani e dai futuristi.
Pascoli conobbe anche D’annunzio. Tra loro due ci fu uno scambio di epistole però allo stesso tempo i due erano molto diversi. Pascoli era uno che doveva lavorare per vivere
mentre d’Annunzio con il suo superomismo e vitalismo era riuscito a diventare una persona molto influente nei salotti. Seguire una moda a quei tempi significava vestirsi o
atteggiarsi come D’Annunzio. Pascoli quindi era anche un poco geloso di questa fame di D’Annunzio.
Verso il 1890 il ministero della pubblica istruzione si rese conto che Pascoli era una persona di una cultura eccezionale, che aveva letto e conosceva di tutto e di più. Di
conseguenza gli fu affidata una commissione: esaminare i libri di testo. Scrisse molti saggi critici e per alcune riviste importanti del tempo. Poi sempre negli anni 90 la sorella Ida si
rifidanzò e si sposò.Quindi per Pascoli fu un trama, perché i tre erano molto legati. Alla fine gli rimase solo la sorella Maria, e nei suoi confronti ebbe sempre un atteggiamento
paterno, poiché si sentiva responsabile di lei e in colpa per le sue disgrazie . Pascoli nella sua vita ebbe anche l’occasione di sposarsi però rinunciò. Alla fine Pascoli affitta una
nuova tenuta in provincia di Lucca dove poteva stare a contatto con la natura .
Successivamente iniziò la sua carriera universitaria dove ebbe la cattedra di grammatica greca e latina a Bologna, a Messina ecc. A Bologna come abbiamo già detto prese il posto
di Carducci. Le ultime produzioni poetiche furono di risorgimentale, in cui celebra modellu come Garibaldi. Nello stesso anno fece un discorso chiamato “ la grande proletaria si è
mossa”, in cui giustifica la guerra coloniale in Libia. Pascoli muore nel 1912 per una malattia al fegato a 56 anni.
IL FANCIULLINO
Il fanciullino è il fulcro della poetica di Pascoli. La poesia per l’autore è un’attività che non ha niente a che fare con la razionalità, anzi, è qualcosa di spontaneo che nasce dalla
propria immaginazione. Quando parliamo di Pascoli dobbiamo pensare al simbolismo.Lui diceva che dentro ciascuno di noi c’è come un fanciullino, quindi una voce. Questa voce ci
da la capacità di guardare le cose, anche le più piccole come qualcosa di significativo e quando noi siamo bambini questa voce che è dentro di noi è un tutt’uno con la voce del
bambino. Quando cresciamo l’uomo viene catturato dai problemi quotidiani, dal lavoro, ma soprattutto dalla razionalità per cui mette a tacere la voce del fanciullino. Tanto è vero
che l’uomo adulto non è capace di far parlare le piante a differenza dei bambini.
Il fanciullino possiede due qualità: la capacità di vedere e quella di dare il nome alle cose. Nel guardare assume in un certo senso punti di vista insoliti, per esempio adatta il nome
della cosa più grande a quella più piccola, e viceversa. Oppure si pone ad una certa distanza per vedere ciò che con la sua piccola statura, sfuggirebbe. Quindi impicciolisce per
poter vedere e ingrandisce per poter ammirare ( analogia= accostamento ancora più ristretto tra concetti e parole che di per sé hanno dei significati lontanissimi che però il poeta
vate è in grado di leggere). Inoltre il fanciullino scopre affinità e legami tra le cose, mettendo in relazione anche cose che non hanno niente in comune. Assegnando il nome ad un
oggetto, fa riferimento ad Adamo che nel mito biblico contribuisce all’opera creatrice di Dio dando nomi ad uccelli, pesci, ecc. Di questo passo possiamo affermare che se il
fanciullino non desse un nome alle cose, l’uomo non farebbe caso ai significati delle cose. Questa si tratta evidentemente di una fanciullezza non realistica.Il fanciullino conosce le
verità più antiche, proprie del mondo, che però appaiono nuove all’uomo moderno e inoltre sceglie di riferirle in una forma semplice, che è proprio quella della lingua poetica.
IL POETA CHI E’ ?
Sebbene il fanciullino non sia presente in tutti il poeta è colui che si distingue dalla massa e che nel cui animo il fanciullino non perde mai la voce. Ed è il poeta vate perché è colui
che riesce a porsi come sacerdote, capace di comunicare qualcosa ai suoi lettori.
Il fatto che il poeta volga la sua attenzione agli oggetti più semplici, ovviamente non vuol dire che sia una persona incolta. Anche perché come sappiamo Pascoli è un insegnante di
liceo e poi professore universitario. Di questo passo l’autore assume una posizione polemica nei confronti della tradizione letteraria, poiché è influenzata dall’accademismo.
Nella poesia Contrasto, Pascoli distingue l’artista dal poeta. L’artistaper Pascoli è come il soffiatore del vento, che ricrea a modo suo, in modo sublime la materia informe (non
ancora sviluppata) , ma la cui virtù si nota appunto nella capacità decorativa. A lui si contrappone il poeta, colui che comprende come l’oggetto più umile, possa rivelarsi qualcosa di
molto prezioso. Ma poiché questo avvenga oltre ad uno sguardo attento ci vuole l’arte del cogliere. Il poeta si limita ad ascoltare e a dire ciò che il suo fanciullino interiore gli
suggerisce. L’autore di questo passo prende le distanze sia da colore che vogliono affermare le loro doti, sia da coloro che assumono posizioni infantili, apparendo falsi. Inoltre la
poesia non deve perseguire nessuno scopo, poiché è utile di per se per il loro fatto che esiste.
Pascoli ha sempre sostenuto che la capacità di comprende la poesia è in tutti, ma col tempo capisce che solo i veri poeti sono in grado di far rivivere dentro di sé il fanciullino e a
dargli voce.
LA MYRICAE
Questa raccolta è molto significativa perchè il titolo si ispira ad un verso di Virgilio.Virgilio nella 4 bucolica aveva scritto che non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici.Myricae
è la traduzione di tamerici che sono delle piante. Virgilio aveva detto che non a tutti piacciono le umili tamerici e aveva affermato questo perché aveva intenzione di lasciare la
composizione delle bucoliche e comporre un’opera più importante. Pascoli al contrario del poeta però afferma che a tutti piacciono le umili tamerici, per dire che la vita umile di
campagna e le cose modeste, cosi’ come sono le tamerici, piacciono.
La raccolta myricae è proprio il manifesto del simbolismo decadenteperché da un lato troviamo i temi tipici della sua vita che lo ossessionarono ( il senso di solitudine, la morte, i
lutti) e dall’altro c’è il senso letterario del testo. La difficoltà del lettore è quella di interpretare il simbolismo che compare in questi componimenti. Possiamo fare riferimento alla siepe
dove c’è una sorta di barriera che lo protegge dalla realtà esterna. Quando parla delle nebbiavuole invece far riferimento al tempo che ha offuscato i ricordi. Poi ci sono anche dei
simboliche sono interpretabili in modo diverso a seconda del contesto. Per esempio dove parla della sera in alcune poesie sta ad indicare la quiete raggiunte, in altre la sera è la
morte.
I MODELLI
I modelli a cui si ispira sono i poeti classici come Omero e Virgilio, ma ci sono anche Dante e Leopardi.
In genere i componimenti della myricae sono abbastanza brevi dove prevale la paratassi ( l’uso prevalente di frasi coordinate) . Siccome mancano i nessi logici fa un largo uso di
rime, allitterazioni e onomatopee. Questi sono tutti elementi tipici del fonosimbolismo (significa che i suoni sono portatori di significato).
Abbondano le metafore e le analogie. L’analogia è accostamento ancora più stretto tra concetti e parole che di per sé hanno dei significati lontanissimi che però il poeta vate è in
grado di leggere.
LAVANDARE
La poesia “Lavandare” fu scritta nel 1891 da Giovanni Pascoli, appartenente alla raccolta del Myricae. Nella poesia si assiste al ricorrere di alcune immagini e di alcuni temi, gli
affetti familiari sono considerati un valore supremo: di fronte a un mondo misterioso, dominato dalla violenza e dalla morte, il "nido" familiare è l'unico rifugio capace di garantire
solidarietà e protezione e dal paesaggio naturale è il luogo in cui il poeta si immerge per meditare, ma dove si trovano i segni della vita e della morte insieme.
Infatti, il tema della poesia sono quelli della solitudine e dell’abbandono rappresentati dall’aratro in mezzo al campo deserto. La poesia è composta da tre strofe, due terzine e una
quartina in versi endecasillabi. La descrizione è costituita da tre elementi che assumono un valore simbolico per rappresentare la condizione esistenziale dell’uomo:
- 1° terzina prevalgono immagini e sensazioni visive con il suo aratro dimenticato;
- 2° terzina si aggiungono altre sensazioni: lo sciabordare delle lavandare e il loro canto;
- 3° strofa riprende due stornelli marchigiani: la lavandaia canta lamentando la sua solitudine dopo la partenza senza ritorno dell’amato. Ritorna l’immagine dell’aratro abbandonato
che diventa così il simbolo dell’abbandono e della solitudine. A livello lessicale presenta: una metonimia v. 5 "sciabordare delle lavandare", una metafora v.7 "nevica la frasca", due
similitudini vv.9-10 "come son rimasta! / come l'aratro in mezzo alla maggese " e una sinestesia v.6 "tonfi spessi". A me è piaciuta questa poesia perché l’autore è riuscito a
trasmettere la solitudine del poeta dopo aver perso un familiare, ma, indirettamente, facendo riferimento ad un paesaggio triste con un aratro lasciato solo in un campo non
seminato.
IL LAMPO
È una ballata di endecasillabi. Il titolo è infomativo perché la parola lampo non c’è nella poesia.
Il bianco è il silenzio prima della nascita quindi la vita nel grembo materno ed indica la purezza, protezione, pace, serenità.
La poesia può essere vista come un grande simbolo del mistero dell’esistenza in cui si mescolano vita e morte/bene e male/luce e buio/gioia e dolore.
La casa è dove ti senti sicuro, vivo, che è la famigliaàè l’unico punto di luce nel buio.
Il secondo significato: il lampo è protagonista ed è come un occhio nella notte quindi è l’intuizione poetica che nell’oscurità del mistero riesce a cogliere il simbolo che è la casa.
La conoscenza dei poeti rimane frammentaria perché non riesce ad organizzarsi in sistema.
3. Il terzo significato: Pascoli ha scritto un commento a questa poesia dove ci svela che il lampo è quello del fucile che ha ucciso il padre e dli occhi sono quelli del padre poiché morì
con gli occhi spalancati e quello che si vede sono le ultime cose che ha visto il padre prima di morire.
I tre livelli si sovrappongono perché la morte del padre ha rivelato a Pascoli il dolore e che l’unica felicità è la casa.
TEMPORALE
Tuttavia non ne abbiamo la sensazione poiché ci concentriamo nei suoi come per esempio “bubbolio”. Le onomatopee e le parole onomatopeiche sono infatti usate molto spesso
da Pascoli.
Il rumore del tuono si avvicina. L’orizzonte è rosso come infuocato dalla parte del mare. Dalla parte della montagna è nero come la pece. Nuove chiare sembrano stacci nel cielo.
Tra le montagne un casolare bianco come l’ala di un gabbiano.
Il casolare è il posto in cui ci si rifugia, il NIDO in cui ci si trova al sicuro da questa natura minacciosa, gli elementi del mondo sembrano minacciosi per l’uomo. Egli ritrae un
paesaggio vero ma che ha anche un valore simbolico.
NOVEMBRE
In questa poesia c’è tutto quello di significativo che c’è da sapere su Pascoli. Si capisce che è Novembre solo sul titolo. Gemmea significa pura e limpida come una gemma.
Limpida come una gemma l’aria, il sole così luminoso che viene da pensare che sia primavera, tanto che si gira per vedere gli albicocchi e gli sembra di sentire nel cuore il profumo
amaro del biancospino ma gli alberi sono secchi e le piante stecchite segnano il cielo con le loro trame nere. Il cielo è vuoto, non ci sono gli uccelli e il terreno è talmente duro dal
gelo che camminando si produce un rumore che lo fa sembrare cavo.
Ci sono le trame nere che si stagliano sul cielo e il silenzio, il quale è la caratteristica della stagione. Con i colpi di vento si sente il cadere fragile delle foglie (sinestesia
fragilità=tatto, cadere=rumore). E l’estate in cui si ricordano i morti.
Il tema della morte c’è sempre nelle sue poesie e poi questo paesaggio privo di vita. Il sole dal il senso della primavera ma la natura è morta.
ASSIUOLO
La costruzione del testo è particolare: presenta tre quadri che parrebbero autonomi, privi di collegamento; l’unico esile legame sembra costituito dalla voce dell’assiuolo, chiù.
La prima strofa (vv. 1-8) raffigura il cielo notturno, poco prima che sorga la luna.
La seconda (vv. 9-16) descrive il fruscio proveniente dal bosco e, in lontananza, il rumore ritmico delle onde marine.
La terza (vv. 17-24) mostra le cime degli alberi protesi verso i raggi lunari e scossi da un leggero vento.
Possiamo così sintetizzare il contenuto della lirica: in una notte nebbiosa il poeta guarda il cielo, cerca invano la luna, rimira le rade stella. Ma, rispetto a tale spettacolo, la sua
attenzione è continuamente distratta: prima dai lampi che, all’orizzonte, accendono le nubi nere e cariche di pioggia; poi dalla voce monotona del mare; infine dal fruscio fragoroso
delle cavallette. Intanto, dall’una all’altra strofa, egli ascolta la voce solitaria e lamentosa dell’assiuolo.
Schema metrico: 3 stanze (doppie quartine) di versi novenari, con schema di rime ABABCXCx; X corrisponde alla rima fissa –u e x alla parola-rima chiù.
Alcuni elementi ci aiutano a interpretare il testo:
-Il primo è la costante presenza del chiù, il verso dell’assiuolo che, tradizionalmente, annunciava sventure;
-Il secondo elemento sono i sistri (v.20), strumenti musicali usati dagli antichi Egizi nei loro funebri di resurrezione;
-Infine l’accenno alle porte / che forse non s’aprono più (vv. 21-22), allusione probabilmente al regno della morte, che gli egizi credevano di poter riaprire.
La lirica è dunque una personalissima meditazione sulla morte: un’intuizione di quel mondo segreto, alternativo all’esistenza comune, che attrae gli uomini ma resta per sempre
inattingibile. In questo senso l’improvvisa domanda iniziale condensa, con la sua sospensione, il messaggio ideologico della lirica: il mondo e la vita umana in esso sono
interrogativi senza risposta.
I CANTI DI CASTELVECCHIO
Pascoli nel 1903 realizza un’altra raccolta, intitolata i canti di castel vecchio. Questa raccolta andò incontro a varie correzioni per cui ci furono varie edizioni. Vengono intitolate in
questo modo perché fanno riferimento al castel vecchio di Barga, dove Pascoli si era trasferito con la sorella nel tentativo di ricostruire il proprio nido familiare. Ci sono anche delle
somiglianze con Leopardiin questi componimenti. Inanzitutto c’è quel gusto per il vago e l’indefinito che è presente anche in leopardi e che Pascoli ricava da lui . E’ presente anche
la visione della sofferenza e l’idea del piacere come cessazione del dolore. Molte sono le affinità con Myricaepoiché anche nei canti di castel vecchio c’è la presenza dell’epigrafe di
virgilio ( non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici) ad inidicare la semplicità dei contenuti. Poi c’è il ricordo delle persone care, quelle che lui aveva perso e la presenza
ossessiva del pensiero della morte.
La successione dei canti di castel vecchio non segue l’ordine cronologico ma segue il susseguirsi delle stagioni alludendo al ciclo della vita. Quindi c’è questa alternanza tra vita e
morte cosi’ come c’è l’alternanza tra una stagione e l’altra. Rispetto a Myricae i testi sono più lunghie prevalentemente ci sono novenari e senari, ritmi spezzati, pause e frequenti
enjambements.
Il simbolismo che costituiva una novità nelle Myriae qui viene ulteriormente accentuato. In alcuni componimenti si capisce chiaramente l’allusione, mentre l’evocazione è più difficile.
IL GELSOMINO NOTTURNO
“Il gelsomino notturno” è una poesia scritta da Giovanni Pascoli nel 1903 in occasione delle nozze di un amico, Gabriele Brignati. Inserito nella raccolta Canti di Castelvecchio, il
componimento contiene delle immagini allusive alla sessualità, ambito della vita che dal poeta veniva vissuto in maniera ambivalente, con drammatica esclusione. La poesia è
composta da sei quartine di novenari, tutti a rima alternata.
Già a partire dal titolo, questa poesia fa degli evidenti ma delicati riferimenti all’erotismo. Il poeta contempla la casa in cui l’amico si appresta a consumare la prima notte di nozze.
Il tema sessuale viene sviluppato grazie a una serie di immagini liberamente riprese dalla natura che in quel momento circonda il poeta. Così Pascoli fa riferimento ai “fiori notturni”,
i gelsomini che hanno la precisa peculiarità di aprirsi al calare della notte per poi richiudersi con l’arrivo del sole, e alle “farfalle crepuscolari”, che anticipano il momento della
giornata - la sera - in cui è ambientata la poesia.
Nella seconda e terza quartina prevale l’atmosfera di pace della fine del giorno, attraversata però dall’attesa di qualcosa di misterioso che sta per giungere. “L’odore di fragole
rosse” (v. 10) è appunto la sinestesia che Pascoli usa per alludere ellitticamente l’esperienza sessuale che gli sembra preclusa.
Il poeta si trasfigura nella “ape tardiva” (v. 13) che trova tutto il suo alveare occupato da chi è arrivata prima di lei; e la scena ha subito un parallelo in una dimensione “cosmica”,
sullo sfondo del cielo attraversato dalle Pleiadi sfavillanti (la “Chioccetta” del v. 15 è nome popolare per la nota costellazione). A questo punto lo sguardo del poeta osserva
tristemente le luci nella casa che si accendono e si spengono nelle varie stanze, fino ad arrivare in camera da letto, dove la luce del lume che lascia definitivamente spazio al buio
della notte allude al fatto che la prima notte di nozze sta per essere consumata dagli sposi.
Il passaggio all’ultima quartina del testo è mediato da un’ellissi, attraverso la quale si passa all’alba successiva; la “felicità nuova” (v. 24), che allude alla futura gravidanza della
moglie dell’amico, è la causa per cui i petali del gelsomino sono “un poco gualciti” (v. 22). La conclusione del Gelsomino raggiunge così il vertice dell’allusività erotica e il punto più
alto della metafora dell’esclusione che caratterizza il testo: il poeta è infatti estraneo al ciclo della vita simboleggiato da “l’urna molle e segreta” (v. 23) del gelsomino.
Origini
Il Futurismo nasce in un periodo - l'inizio del Novecento - di notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era stimolato da numerosi fattori determinanti: le
guerre, la trasformazione sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte tecnologiche e di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, aeroplani e le
prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare completamente la percezione delle distanze e del tempo, "avvicinando" fra loro i continenti.
Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo vento, che portava all'interno dell'essere umano una nuova realtà: la velocità. I futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le
biblioteche" in modo da non avere più rapporti con il passato e concentrarsi così sul dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene di montaggio
abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luce artificiale, si avvertiva questa nuova sensazione di futuro e velocità
sia nel tempo impiegato per produrre o arrivare ad una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione.
Questo movimento nacque inizialmente in Francia e successivamente si diffuse in tutta Europa.
Primo futurismo
«Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e
noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro… » (dal Manifesto dei pittori futuristi, febbraio 1910
Nel Manifesto Futurista (1909), pubblicato inizialmente in vari giornali italiani, il 20 febbraio 1909, Filippo Tommaso Marinetti espose i principi-base del movimento.
Poco tempo dopo a Milano nel febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà
, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della pittura futurista.
Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie (bollate con l'etichetta di
"passatismo", tra cui figura anche il Parsifal di Wagner, che a partire dal 1914 cominciò a essere rappresentato nei teatri d'Europa). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità,
l'industria e la guerra, che veniva intesa come "igiene dei popoli".
La riconciliazione con i futuristi avvenne in seguito, grazie alla mediazione dell'amico Aldo Palazzeschi. Nel 1913 infatti, Soffici e Papini uscendo da La voce decisero di fondare la
rivista Lacerba appoggiando così il movimento futurista.
Alla morte di Umberto Boccioni nel 1916, Carrà e Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la
sede del movimento da Milano a Roma, con la conseguente nascita del "secondo Futurismo".
Secondo futurismo
Il secondo futurismo fu sostanzialmente diviso in due fasi; la prima andava dal 1918, due anni dopo la morte di Umberto Boccioni, al 1928 e fu caratterizzata da un forte legame con
la cultura post-cubista e costruttivista, la seconda invece, dal 1929 al 1938, fu molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente - che si concluse attraverso il cosiddetto
"terzo Futurismo", portando anche all'epilogo del Futurismo stesso - fecero parte molti pittori fra cui Fillia (Luigi Colombo), Enrico Prampolini, Nicolay Diulgheroff ma anche Mario
Sironi, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Carlo Vittorio Testi e la moglie Fides Stagni
Se la prima fase del futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia e fanatica (in pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche anarchica, la seconda stagione
ebbe un effettivo legame con il regime fascista, nel senso che abbracciò gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca e si valse di speciali favori.
I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella parte del futurismo collocata politicamente su posizioni vicine
all'anarchismo e al bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi ritenuti principali fu fagocitato dal fascismo.
L’esaltazione della modernità meccanica comporta anche un’etica nuova che rifiuta l’immobilità pensosa, nonché l’estasi ed il sonno del passato, per esaltare l’aggressività,
l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il militarismo, la guerra, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore ed in fine il disprezzo per le donne, in quanto
portatrici di valori deboli ed ispiratrici di poesia sentimentale. Non sono invero idee originali, poiché vi sono dottrine di tipo anarchico, socialista e nazionalistiche, quindi l’influenza
dannunziana del Laus Vitae, il mito della violenza di Sorel, lo slancio vitale di Bergson, la volontà di potenza nicciana, per finire la concezione della poesia pura di Croce. Ma i
futuristi ne fecero un coacervo di idee buone per tutti gli usi, sicuramente in funzione antiborghese. Ciò spiega l’iniziale simpatia che ebbe da parte della classe operaia e fu
avversata dalla borghesia. Proprio per ciò tale movimento ebbe fortuna in Russia tramite i poeti Majakovskij ed Esenin.
In Italia il futurismo andò sempre più verso destra, fino a sfociare nell’adesione al Fascismo diventando l’arte ufficiale del regime. L’ironia volle che Marinetti, che odiava le
accademie, divenisse egli stesso accademico d’Italia. Questo aspetto involutivo del futurismo venne evidenziato dalla critica marxista.
Gramsci definì i Futuristi “un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula
della guardia campestre”. Quindi il Futurismo nato come movimento antiborghese venne ricondotto in aula da un maestro elementare (Mussolini), egli stesso pochi anni prima un
feroce antiborghese.
La poetica di Marinetti
Per quello che riguarda la sua poetica essa è chiaramente espressa sul suo “Manifesto tecnico della letteratura futurista” di cui sviluppò la parte riguardante le parole in libertà. Vi
leggiamo, infatti, che “bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono. Si deve usare il verbo all’infinito... abolire l’aggettivo, perché il sostantivo nudo
conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è incompatibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione...
abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata”.
Asserì poi Marinetti che la poesia dovesse essere un seguito ininterrotto di immagini nuove e che il poeta dovesse dare vita ad una serie di analogie secondo una gradazione
sempre più vasta. Queste immagini poi, “siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell’intelligenza umana... bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo
un maximum di disordine”. Tutto ciò nella convinzione che solo il poeta asintattico e dalle parole slegate avrebbe potuto penetrare l’essenza della materia e distruggere la sorda
ostilità che la separa da noi. Arrivò così al concetto di immaginazione senza fili sognando un’arte ancora più essenziale quando i poeti avrebbero osato sopprimere tutti i primi
termini delle analogie per non dare più altro che il seguito ininterrotto dei secondi termini, anche se ciò avesse comportato il rischio di non essere compresi, ma egli affermò anche
che “Essere compresi non è necessario” e che ciò che il poeta avrebbe dovuto prefiggersi sarebbe stato entrare nei domini sconfinati della libera intuizione. E proclamò: “Dopo il
verso libero, ecco finalmente le parole in libertà”.
Ma oltre ad essere stato autore di manifesti, Marinetti, per dare degli esempi concreti, scrisse alcune opere letterarie come “ Zang, tumb, tumb”, un racconto di guerra nato dalla sua
attività di inviato speciale in Turchia durante la seconda guerra balcanica. In quest’opera il poeta realizzò la sua poetica paroliberista. Secondo A. Frattini “ci troviamo come
sommersi in un grande carnevale orgiastico di rumori, immagini, nessi senza senso, in una sarabanda di sensazioni sfrenate che si traduce e si risolve nella parola impazzita, fuori
di ogni ordine logico, fantastico, musicale. È lo snaturarsi della parola, che è convenzione ed emblema, nel caos degli elementi bruti”.
Altra importante opera marinettiana è “Mafarka il futurista”, pubblicata in Francia nel 1910 e successivamente anche in Italia, ma da noi fu sequestrata per oltraggio al pudore. Narra
le imprese del Re africano Mafarka-el-Bar il quale dopo aver sconfitto attraverso una serie di atti eroici le schiere dei negri che avevano cinto d’assedio la sua città, per consolare la
madre della perdita in battaglia dell’altro figlio Magamal, dà alla luce senza il concorso della donna, per il solo sforzo della volontà esteriorizzata il figlio Gazurmah, uccello invincibile
e gigantesco che ha grandi ali flessibili fatte per abbracciare le stelle, in cui egli, invaso da uno slancio vitalistico e animato da fervori mistici, trasfonde il proprio essere per
rinascere a nuova vita”. A livello ideologico vi ritroviamo gran parte dell’armamentario futurista, e cioè il mito del superuomo, la glorificazione della guerra, il disprezzo della donna,
la celebrazione della macchina.
Tra le altre opere citiamo Gli indomabili e Spagna veloce e toro futurista, in cui il poeta descrive un viaggio in automobile da Barcellona a Madrid e poi una corrida.
Palazzeschi
Aldo Giurlani, che in arte si firmò Palazzeschi riprendendo il cognome della nonna materna, nacque a Firenze nel febbraio del 1885 da una famiglia di commercianti.
Quanto alla sua adesione al movimento futurista occorre chiarire che essa fu dovuta alla presenza di atteggiamenti di ribellione contro la cultura ufficiale, l’accademismo, la poesia
retorica, gli ideali borghesi, “le vecchie / reliquie tarlite / così gelosamente custodite”, insomma in virtù del forte spirito di contestazione che lo caratterizzava. Mancano, infatti, nella
poesia di
Palazzeschi diversi elementi caratterizzanti l’ideologia futurista. In particolare sono assenti i miti dell’attivismo, il feticismo per la macchina, la concezione della guerra come sola
igiene del mondo, che anzi egli si distaccò dal movimento quando i futuristi presero la strada del nazionalismo e dell’esaltazione della guerra.
È presente invece lo sperimentalismo delle onomatopee, delle parole e delle immagini in libertà. Egli applicò liberamente il principio dell’indipendenza metrica, del verso liberismo,
da ogni legge tradizionale. E su questa strada propose l’immagine del poeta saltimbanco: “Sono forse un poeta? / no certo”, egli scrive, ma “il saltimbanco dell’anima mia”,
rendendo caratteristiche della sua poesia l’ironia, il divertimento, la provocazione come reazione ai tempi nuovi che hanno tolto alla poesia ogni spazio: “i tempi sono cambiati, / gli
uomini non domandano più nulla / dai poeti: / e lasciatemi divertire!”.
La sua libertà di dissacratore e di funambolo della parola dunque non nasceva soltanto da una volontà di anticonformismo letterario, di lotta al convenzionalismo, al
dannunzianesimo dominante, al pascolismo, ma da una radicale protesta contro la società contemporanea che sembrava ormai negare spazio ad ogni forma d’arte che non fosse
funzionale alla propaganda politica o mercificabile. Da ciò la sua volontà di “incendiario” e la presenza poi nelle sue prose di un elemento fantastico e favolistico ai limiti del
surrealismo.
Δ FINE PRIMO QUADRIMESTRE Δ (?) INIZIO SECONDO QUADRIMESTRE
ITALO SVEVO 1861/1928
I nuovi fermenti nella narrativa
Va tenuto presente che dalla narrativa di Verga e di D’Annunzio a quella di Svevo e Pirandello si rileva una notevole differenza nel concepire il romanzo; nel mondo della letteratura
faceva la sua
comparsa la filosofia di Bergson che nella sua opera Saggio sui dati immediati della coscienza, ipotizzava un romanzo molto diverso da quello naturalistico sia nello stile
compositivo che in quello tecnico narrativo. Il romanzo si sganciava dalle teorie naturalistiche per adattarsi alle nuove concezioni irrazionalistica ed individualistica della vita
basandosi sui seguenti elementi: 1) Piegare la narrativa a strumento per la diffusione di “idee”;
1. Ridurre i personaggi a portavoce dell’autore, della sua concezione del sentimento e del mondo;
2. Scolorire i personaggi minori in funzione del protagonista.
Il fu Mattia Pascal, romanzo di Pirandello, si rivela già nel 1904 esempio di come veniva sancita l’incompatibilità tra i modi di narrare del Naturalismo e quelli della nuova concezione
relativistica della vita, con un ribaltamento del processo tipico del Naturalismo, non si raccontano più le modificazioni che i fatti e l’ambiente inducono nell’individuo, ma si
raccontano le REAZIONI dell’uomo di fronte ai fatti, all’ambiente agli eventi.
Comunque non fu un taglio netto la narrativa a cavallo dei due secoli, ma una mescolanza di vecchio e nuovo; nel senso che si prende coscienza dell’incapacità del vecchio
romanzo verista di accogliere i modi della nuova ideologia, della sensibilità e del gusto.
Riferimenti biografici
Nasce a Trieste, nel 1861, da padre tedesco della Renania, la madre un’italiana del Friuli, entrambi ebrei; il nome di nascita è Ettore Schmitz, ma scelse di chiamarsi ITALO
SVEVO per indicare la pacifica convivenza della cultura italiana e di quella tedesca. Sposa una ricca giovane di famiglia ebrea, proprietaria di una prospera azienda di vernici
sottomarine, entra in società con il suocero rivelando buone capacità imprenditoriali, coltivando marginalmente la letteratura. Muore in un incidente nel 1928.
Ignorato dalla critica per molti anni, si guardò a lui quando si venne a sapere che era stato amico di James Joyce, nonché notato da due valenti italianisti francesi. In Italia venne
fatto conoscere da Montale. La fama di questo scrittore è cresciuta sono dopo la II Guerra mondiale, quando si cominciò ad approfondire la letteratura del primo Novecento, l’opera
di Svevo era uno degli strumenti per conoscere più approfonditamente la spiritualità del nuovo secolo. L’importanza di Svevo nasce anche dalla città in cui visse: Trieste, all’epoca
vero crocevia della cultura mitteleuropea, germanica, slava. Tutto ciò rese Svevo lo scrittore più antiletterario del Novecento italiano, più attento a recepire e a rielaborare i motivi
profondi della moderna letteratura , scrutandone i meandri tortuosi del subcosciente.
Tematica comune
Le opere di Svevo sono costituite da tre grandi romanzi: i primi due, UNA VITA
(1892) e SENILITÀ (1898), vennero quasi del tutto ignorati dal pubblico, che sembrava preferire le opere di D’Annunzio e Fogazzaro. Dopo 25 anni di silenzio nel 1923 Svevo
pubblica il terzo romanzo: LA COSCIENZA DI ZENO, che gli procurò un’improvvisa notorietà.
I tre romanzi sono idealmente affini, perché hanno la stessa tematica comune, che consiste nell’analisi ossessiva e spregiudicata del subcosciente, dei rispettivi protagonisti;
quest’analisi poi risulta essere un’autoanalisi, dal momento che ciascuno di essi è la controfigura romanzesca dell’autore, a conferma dello sfondo autobiografico.
Svevo e la psicoanalisi
Per condurre a fondo quest’analisi l’autore si servì della psicoanalisi di Sigmund Freud, che era già diffusa in ambiente medico e intellettuale triestino. Lo studioso austriaco
insegnava che molte nostre azioni solo apparentemente nascono da libere scelte, in realtà sono frutto di condizionamenti complessi psichici; cioè gruppi di tendenze emotive,
represse parzialmente o totalmente perché in contrasto con i principi etico sociali imposti dall’esterno. Questi complessi psichici si sono formati nel passato, in particolare durante
l’infanzia o ricevuti in eredità, preesistenti alla piena autocoscienza di sé. Quindi solo frugando nei meandri tortuosi del nostro io possiamo cogliere le ragioni e i motivi più profondi
delle nostre azioni.
Svevo fu tra i primi scrittori a introdurre nella letteratura la psicoanalisi come uno strumento di conoscenza scientifica della nostra profonda realtà interiore. Lo scrittore non è più
rivolto ad elementi esterni, al documento storico, ambientale o sociale, tipico degli scrittori del Naturalismo, ma si concentra su fatti interni, va all’esplorazione dei labirinti del
subconscio.
LA COSCIENZA DI ZENO
Il capolavoro di Svevo
La coscienza di Zeno è il romanzo maggiormente conosciuto di Italo Svevo, scrittore d’avanguardia del Novecento italiano. Egli fu inoltre autore di una raccolta di novelle meno
conosciuta. Otto sono invece le commedie della sua produzione. Lo ricordiamo maggiormente per aver scritto tre romanzi: Una vita (1892), che racconta della vita di un impiegato
con ambizioni letterarie, Senilità (1898) storia di Emilio, giovane anagraficamente ma anziano per modo di vivere. Il capolavoro di Svevo, che lo ha reso famoso è però La
coscienza di Zeno. Questo romanzo va collocato nel periodo del ritorno dell’autore alla letteratura. Fu scritto in soli tre anni, dal 1919 al 1922. Il romanzo fu pubblicato nel 1923 per
la prima volta, quasi contemporaneamente all’ Ulisse di Joyce, amico dello scrittore.
La coscienza di Zeno segna il carattere d’avanguardia dell’autore e la sua voglia di sperimentare, la narrativa si unisce alla psicologia e Svevo diventa con quest’opera un
romanziere novecentesco a tutti gli effetti per le tematiche affrontate.
Il significato di coscienza e i 7 capitoli
L’autore gioca con il significato di coscienza. Essa può essere considerata sia coscienza morale ma anche consapevolezza, in questo caso più come inconsapevolezza del
personaggio principale, Zeno Cosini.
Il romanzo è suddiviso in sette capitoli:
1. Preambolo
2. Il fumo
3. La morte di mio padre
4. La storia del mio matrimonio
5. La moglie e l’amante
6. Storia di un’associazione commerciale
7. Psico-analisi
Tutti i capitoli sono preceduti da una Prefazione. L’ordine è tematico invece che cronologico. Quella che sembrerebbe la storia della sua vita è in realtà la storia della sua malattia,
la nevrosi.
La coscienza di Zeno: riassunto
Il protagonista è Zeno Cosini, che racconta la storia della propria vita non in maniera lineare ma seguendo il proprio ordine mentale. Egli invia il memoriale al suo psicanalista,
il Dottor S., che per curarlo dalla sua malattia gli commissiona la stesura di un romanzo della propria vita. Zeno abbandona però il trattamento psicanalitico e il Dottore pubblica il
romanzo per vendetta nei suoi confronti. Questa è la finzione iniziale del racconto presentata nella Prefazione, tutto il resto della narrazione è il racconto di Zeno delle vicende della
sua vita.
Egli è nevrotico, quindi allontana dalla sua coscienza gli eventi più traumatizzanti che ricompaiono nell’inconscio sotto forma di lapsus, a cui Zeno è spesso soggetto. Il capitolo
secondo racconta della volontà del protagonista di smettere di fumare: egli continua però a rimandare il momento e si appiglia sempre all’ultima sigaretta. Il terzo capitolo racconta
della morte del padre, con il quale il protagonista aveva un rapporto ostile e che culmina nello schiaffo che il genitore gli da in punto di morte.
Gli altri capitoli seguono un ordine cronologico. Il protagonista racconta del suo matrimonio con Augusta, figlia del suo socio commerciale Malfenti. Vi giunge dopo essere stato
rifiutato dalle altre due figlie Ada e Alberta. Prosegue poi col racconto della storia con la sua amante Carla, povera donna bisognosa di denaro e protezione, che non riesce a
lasciare proprio come l’ultima sigaretta. In seguito il racconto della sua storia commerciale e della sua rivalità con Guido Speier, suo antagonista che gli ha strappato Ada. Il capitolo
Psicoanalisi torna ad essere diaristico e Zeno diventato anziano racconta che è rimasto deluso dalla psicoanalisi è che è guarito solo grazie al commercio. Zeno infatti se ne
approfitta in tempo di guerra (prima guerra mondiale) e diventa uno speculatore commerciale, preparando l’umanità all’autodistruzione a causa del cattivo utilizzo degli ordigni
militari.
ANALISI DEL TESTO
Italo Svevo come Pirandello esce dalla crisi letteraria e filosofica da cui era nato il Decadentismo, con posizioni molto diverse rispetto a Pascoli e a D’Annunzio, approdando ad una
visione dell’arte molto più problematica di quella del Decadentismo. Se con i poeti simbolisti e con gli stessi Pascoli e D’Annunzio era ammessa una sorta di verità, pur se non
univoca e granitica ma utile a dare spiegazione dell’esistere, con Svevo e Pirandello la possibilità di arrivare a una qualsiasi verità viene negata. La realtà è multiprospettica e
dinamica, in assidua evoluzione e mutazione, pertanto la verità non esiste, ma esistono tante verità possibili e l’arte non può rappresentare la realtà ma sta al lettore dare una
propria interpretazione e la costruzione di un senso.
La modernità della visione di Svevo sta nell’idea di fare della coscienza di un personaggio il centro del romanzo, coscienza considerata nell’ottica della psicanalisi di Freud, si tratta
quindi di una coscienza problematica, contraddittoria, in cui la parte istintiva e la parte razionale si contrastano in continuazione. E’ una coscienza che mente, a se stessa e agli altri,
che distoglie lo sguardo dalle vere cause del proprio disagio.
Si definisce il personaggio che rappresenta la figura centrale per molta letteratura europea del ‘900, un uomo inetto alla vita, “malato” di una malattia morale che spegne ogni spinta
all’azione e ogni impulso vitale o ideale: Zeno Cosini trascorre la sua vita in una statica indifferenza, basata su una capacità di auto-analisi che lo porta ad un’ironia distruttiva che
lo allontana da ogni rapporto diretto con la realtà.
La coscienza di Zeno non è, come potrebbe apparire a prima vista, un’autobiografia di Zeno, ma è la storia della sua malattia. La narrazione verte infatti sulla malattia del
protagonista-narratore, e non sulla sua vita. Di conseguenza la materia narrativa segue un percorso basato sulla specificità del tema: la vicenda non ripercorre le tappe
cronologiche della vita dell’uomo (infanzia, fanciullezza, maturità), ma quelle della “malattia dell’anima”. La malattia in questione altri non è se non l’inettitudine che assume le
caratteristiche di una vera e propria nevrosi, una patologia di natura psicologica che si manifesta in diversi modi: senso di insoddisfazione costante, angoscia, paura incontrollabile,
conflitto costante con l’ambiente in cui il soggetto vive, sensazione di inadeguatezza, ecc. Le cause, in base alla psicoanalisi freudiana, vanno ricercate nei traumi e nei conflitti
irrisolti dell’infanzia che hanno impedito la piena maturazione psicologica dell’individuo.
L’utilizzo della psicoanalisi, nonostante Svevo non abbia alcuna fiducia nel suo potere terapeutico, è strumentale perché ritenuto dallo scrittore molto efficace in campo letterario per
le possibilità che apre nella comprensione dei meccanismi che regolano il comportamento dell’individuo.
STILE
Zeno utilizza un lessico moderno: il testo di Italo Svevo è pervaso di un sottile umorismo ed è scritto con un linguaggio semplice e vivace, vicino al parlato in cui, qua e là, si
inseriscono espressioni tecniche, ripetizioni, metafore, similitudini e giochi di parole che danno un tono ironico alla narrazione. L’ironia è una componente stilistica fondamentale:
ogni avvenimento presenta aspetti ironici.
L’elemento tecnico-stilistico più originale è il discorso indiretto libero che è alla base del monologo interiore del protagonista.
Innovazioni formali:
La struttura temporale:
Il romanzo si articola per capitoli a tema e non cronologici, la struttura narrativa non segue più il modello del romanzo ottocentesco basato sul resoconto cronologico di una vicenda.
I fatti vengono narrati attraverso una continua alternanza di piani temporali (il passato dell’io narrato e il presente dell’io narrante) che rappresenta quindi una novità rispetto
all’andamento cronologico dei romanzi tradizionali. E’ una tecnica narrativa in linea con quella utilizzata dai grandi scrittori contemporanei di Svevo (Proust, Joyce, Woolf,
Pirandello) in cui il tempo si relativizza in base alla percezione che ne ha il personaggio: è il tempo interiore della coscienza.
La voce narrante:
A differenza del romanzo ottocentesco in cui il narratore si caratterizzava per la sua credibilità (narratore oggettivo), nel romanzo di Svevo la voce narrante appare inattendibile, è
insicuro e incerto nell’interpretare le vicende del proprio passato e può solo immaginare ed avanzare delle ipotesi interpretative.
IL FUMO
Il capitolo terzo della Coscienza di Zeno riguarda il vizio del fumo del protagonista, una dipendenza sviluppata fin da ragazzino e sempre combattuta senza successo. Zeno ricorda
la sua prima sigaretta fumata da adolescente, inizialmente rubando i soldi al padre poi, dopo essere stato scoperto, fumando i suoi sigari avanzati. A vent’anni Zeno si accorge di
odiare il fumo e si ammala, ma nonostante la malattia decide di fumare un’ultima sigaretta; ed è qui che si evidenzia per la prima volta la vera malattia psicoanalitica del
protagonista. Inizialmenteil fumo è per Zeno una reazione al rapporto con il padre - i cui rapporti saranno sviscerati nel capitolo La morte di mio padre - poi si allarga a forma di
difesa verso la realtà circostante e il mondo intero. In tal senso, ogni tentativo di smettere di fumare non è che uno stimolo ulteriore al desiderio, tanto più se il complimento per la
propria perseveranza viene da una figura come quella del padre
Da qui nascono i continui e vani tentativi di smettere di fumare, perché, come ammette Zeno, “quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo”.
Le giornate di Zeno finiscono "coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più”. La vicenda del fumo viene affrontata sempre con una prospettiva ironica e
demistificante, raggiungendo i migliori esiti nel momento in cui viene presentata la sigla "u.s. (ultima sigaretta)". Questa sigla e la data vengono apposte su libri, diari, agende, muri
e qualsiasi cosa passi sotto mano al protagonista:
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza
proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo piú possibile di formarne in quel luogo degli altri.
Ma la malattia del fumo si rivela essere in realtà un'altra "malattia della volontà", cioè l’incapacità di Zeno di perseguire un fine, e riflette il senso di vuoto nella sua vita, scaturito
dalla impossibilità di affrontare l’esistenza e il mondo. Ed è proprio questa l’inettitudine, descritta da Svevo, caratteristica dei suoi romanzi a partire da Una vita. La voce narrante (e
giudicante) della Coscienza vede nella sigaretta un sintomo della propria inettitudine, di cui però non vuole disfarsi né superare, perché essa costituisce una sorta di
autogiustificazione e alibi alla propria incapacità esistenziale:
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se
cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi
grande di una grandezza latente.
L’inettitudine di Zeno riflette una dimensione più profonda della riflessione di Svevo sull’uomo, che verrà rivelata solo nella conclusione del romanzo: la malattia del protagonista è
comune in realtà a tutti gli uomini che vivono nella società contemporanea, alienante e contraddittoria. Il solo modo possibile per affrontarla è mantenere un distacco ironico, che
faccia emergere la comicità dell’esistenza stessa. Ed è proprio l’ironia la risorsa conoscitiva centrale nel capitolo sul fumo: la distanza, sottilmente percepibile, tra ciò che Zeno dice
e ciò che il lettore capisce è cruciale per decifrare la usa "malattia". Lo si vede bene nell’episodio del ricovero di Zeno in clinica per smettere di fumare. Zeno si fa rinchiudere
volontariamente ma, una volta in clinica, decide di scappare, corrompendo l’infermiera Giovanna con una bottiglia di cognac e una promessa di rapporto sessuale. L’intera vicenda
viene narrata con intenti comici, ma rileva le dipendenze e le ossessioni dell’uomo moderno, caratterizzato da un profondo senso di solitudine di fronte a un mondo malato, egoista
e contraddittorio.
LA MORTE DEL PADRE
Già dall’intestazione si capisce quale sarà l’argomento chiave del capitolo che in realtà si rivelerà essere pieno di scoperte e sorprendenti colpi di scena. Zeno racconta di aver
perso la mamma prima di compiere 15 anni: aveva scritto delle poesie in suo onore e credeva che da quel preciso momento sarebbe cominciata la sua vera vita, quella dura e
difficile. In realtà sarà la morte di suo padre a rivelarsi una vera e propria catastrofe: Zeno fino a quel momento non aveva mai vissuto per suo padre e solo alla sua morte aveva
realizzato quanto fosse addolorato e soprattutto quanto tempo avesse sprecato evitandolo tutte le volte. Zeno comincia a raccontare del suo rapporto con il padre: di solito, quando
si trovava a Trieste, lo passava a trovare al massimo per un’oretta al giorno anche perché tra i due non c’era nessun punto in comune dal punto di vista intellettuale. Anche suo
padre era un accanito fumatore, un discreto bevitore e un commerciante onesto ma non abile, un amante delle donne anche se sosteneva di non aver mai tradito la sua defunta
moglie e di essersi sempre lasciato guidare da lei. Ma il padre di Zeno gli rimproverava sempre due cose: la distrazione perenne e la sua banale risata durante i discorsi seri.
Eppure Zeno sostiene per tutto il capitolo che suo padre era la vera parte debole della coppia e lui la forza. In una fresca sera di marzo Zeno viene interrotto da Maria, la loro
cameriera fidata, che gli comunica dello stato di salute di suo padre: l’uomo balbetta e affanna. Zeno allora si reca nella sala da pranzo e ritrova suo padre: cenano, chiacchierano,
ma l’anziano uomo non mostra segni di salute cagionevole. Dopo una chiacchierata intensa ma priva di ogni spiegazione, i due vanno a dormire; ma durante la notte Maria torna a
svegliare Zeno il quale però continua a riposare ancora. Quando l’inetto si sveglia, raggiunge la stanza del padre e ritrova Maria a sostenere l’anziano uomo che giaceva supino,
con la faccia sudata e in preda al dolore. Zeno resta solo con il padre: l’uomo dalla folta chioma riccioluta e bianca, aveva un respiro ora affannoso e grave, ora più lento e regolare;
la bocca era stretta e serrata e la morte si avvicinava. Zeno, seduto sulla poltrona, racconta di aver pianto le lacrime più amare della sua vita e adesso, ricordano, era convinto che
quelle erano state le sue ore più brutte. Le ore scorrevano inesorabilmente, il dottor Coprosich aveva visitato suo padre e gli aveva detto che aveva subito un edema cerebrale e
che la fine era oramai vicina. Pur sentendosi dire che oramai per il padre è giunta la sua fine, Zeno ha paura che questi possa riprendersi e possa scoprire gli istinti omicidi nei
confronti di suo padre. Tante volte aveva immaginato di veder morto quell’uomo borghese, cattivo e corrosivo, e anche ora non vuole altro che la morte di suo padre; ma Zeno cela
il suo odio e il suo rancore dietro lacrime false e una finta tensione. Solo alla fine del capitolo Zeno riceve la sua punizione: il punto di morte, suo padre trova la forza di alzarsi dal
letto e di alzare la sua mano che con violenza scaglia uno schiaffo sul volto del figlio. L’ultimo gesto prima di morire è quello di dare con forza uno schiaffo a suo figlio, quell’inetto
antieroe novecentesco che desidera la morte del padre e che dice di voler smettere di fumare ma non riesce a liberarsi dal vizio del fumo. Solo al funerale Zeno riesce a perdonare
suo padre: attribuisce lo schiaffo violento a un momento di perdita di lucidità e quindi era un gesto non voluto. Zeno riesce a liberarsi di suo padre solo quando questi non è più vivo
e non può più nuocergli e soprattutto cambia idea: era il padre ad essere quello più forte e lui il debole della situazione.
Analisi:Gli inetti sono in tali proprio perché non possono coincidere con un'immagine quaterna, virile, solida e sicura e quindi non riescono a trasformarla in una componente della
propria personalità. In questo capitolo nella prima parte viene offerta una ricostruzione nel conflitto del figlio con il padre, chi risulta cattivo e corrosivo. Emerge la figura dell'inetto di
Zeno per contrapporsi al padre Borghese e alle sue solite incertezze. Quindi trova un modo per aggredire simbolicamente il padre, e questi impulsi aggressivi si scatenano in
occasione della malattia del padre, che lo priva della sua forza del suo potere simbolici trasformandola in un essere debole e indifeso. Rifiuta di ammettere alla coscienza questi
impulsi e cerca di affermare la propria innocenza, la mancanza di ogni colpa. Essendo però sia il narratore che l'attore della storia non possiamo mai prendere per buoni le sue
affermazioni, il racconto non ci offre nessuna Fonte sicura e nessun. di stabilire con certezza la verità. Lo schiaffo del padre mostra i meccanismi delle giustificazioni di Zeno. Il
padre ha la sensazione che il figlio di voglia Togliergli l'aria, inconsciamente avverte la corrente di odio aggressivo che c'è in lui e lo schiaffo ne è la conseguenza. Questo fatto
scatena forti sensi di colpa in Zeno che si dispera perché non riesce a protestare la propria innocenza e la morte del padre gli impedisce di provargliela. La figura del padre morto è
una proiezione del suo senso di colpa, dimostrando l'insistenza sugli attributi paterni " il corpo superbo e minaccioso", " le mani grandi e potenti pronto ad afferrare punire": Sono i
sensi di colpa dell' osservatore che caricano la figura del morto di questi connotati di immagine paterna terrificante.
Secondo Svevo la vita ” non sopporta cure “perché, differentemente dalle altre patologie, questa è sempre mortale. Secondo lui l’origine della malattia umana è radicata nella
mancata coscienza dell’uomo. L’autore basa la sua visione del mondo su dubbio e incertezza non contemplando alcun rimedio alla malvagità, sinonimo della più profonda natura
umana.
2. L’uomo “s’è messo al posto degli alberi e delle bestie” sta a significare che questo, sentendosi nucleo del mondo, ha cercato di convertire tutto a sua misura assecondando la sua
vita quotidiana e la “superomizia”. Le libertà e il processo materiale che garantivano la tutela dell’ecosistema (piante, foreste, boschi) sono stati via via soppressi.
3. Mediante gli aggettivi “triste” e “attivo” l’autore allude alla malattia vera e propria dell’uomo. Quest’ultimo è “triste” perchè non ha saputo addurre uno sviluppo concreto, avendo
solo mutato ciò che gli era intorno. E’ “attivo” proprio perché fa questo lavoro, mentre la selezione naturale degli animali si verifica in modo passivo, senza alcun loro contributo.
4. In questo brano l’autore introduce la sostanziale differenza che intercorre tra l’evoluzione umana e quella animale.
Quella umana è evidente nella dominazione e nella mutazione, processi che avvengono durante il perfezionamento dello spazio circostante; l’altra è invece fine a se stessa, per
mezzo di questa non si arriva a cambiamenti sintomatici.
LUIGI PIRANDELLO (1867/1936)
La vita
Nasce in Sicilia, a Girgenti, l’attuale Agrigento, il padre è un garibaldino, partecipa attivamente alle imprese del Generale nella terra di Sicilia. Quindi fin dall’infanzia crebbe nel culto
dell’ideale
risorgimentale che però mostra presto i segnali di una profonda crisi sia politica che economica.
Studia a Palermo città ricca di vita culturale, di dibattiti sociali, ricca anche di biblioteche dove Pirandello andava ad abbeverare la sua mente. Quindi si trasferisce per un certo
periodo in Germania, dove discute la sua tesi di laurea in filologia romanza.
Tornato in Italia incontra Capuana, maestro del verismo italiano, che influì molto nella sua formazione, portandolo alla “conversione dalla poesia alla prosa”.
A Roma si sposa con una ricca e bella compaesana. La famiglia cresce e lui insegna a Roma, ma nel 1903 vi è la rovina economica del padre; questo avvenimento segna il
peggioramento mentale della moglie, affetta da crisi depressive, che si trasformano in forme di paranoia manifestatesi nelle manie di persecuzione e di gelosia nei confronti del
marito, che invece le rimase fedele e amorevole per tutta la vita.
Lo scoppio della I Guerra mondiale segna un altro passaggio drammatico nella vita dello scrittore: infatti, il figlio maggiore parte volontario per la guerra, dove verrà fatto prigioniero
dagli Austriaci e internato per tutto il periodo del conflitto in un campo di concentramento. Anche questo episodio va a sottolineare il rapporto con il DOLORE, che andrà a
consolidare la sua triste concezione della vita.
Dal termine della guerra egli si dedicò al teatro per rivelare le “verità” da lui scoperte; tra il ’21 e il ’22 si rafforza la sua dimensione internazione come scrittore, tanto che nel 1923 si
reca a Parigi e a New York per le rappresentazioni delle sue opere. Quindi fonda il teatro d’Arte a Roma, dove verrà scritturata Marta Abba protagonista delle sue opere nonché
ispiratrice delle successive. Nel 1930 andò ad Hollywood per le riprese del film tratto dall’omonima commedia, con protagonista al Garbo, “ Come tu mi vuoi”. Quindi nel 1934 venne
insignito del premio Nobel per la letteratura, di cui però lo scrittore non sembrò fiero e orgoglioso. Muore nel 1936, Mussolini vorrebbe decretargli i funerali di Stato ma Pirandello
aveva lasciato scritto, che voleva andare al cimitero su un carro dei poveri. Lo scrittore se ne andò senza onori, né discorsi ufficiali, avvolto in un lenzuolo: come il più polemico,
corrucciato, dei suoi infiniti personaggi.
Il rapporto dialettico tra vita e forma
Il pensiero pirandelliano si fonda sul rapporto dialettico tra Vita e Forma, dove la vita pur essendo perpetuamente mobile e fluida, per un “destino burlone” tende a calarsi in una
forma, in cui resta imprigionata e dalla quale cerca di uscire, per assumere nuove forme, senza avere mai pace. Dal rapporto dialettico tra questi due aspetti si genera il
RELATIVISMO PSICOLOGICO, che si svolge in due sensi, uno ORIZZONTALE e riguarda il rapporto dell’individuo con gli altri; il senso VERTICALE prevede il rapporto
dell’individuo con se stesso e il suo subconscio.
Relativismo psicologico orizzontale (con gli altri)
Nell’idea di Pirandello gli uomini non sono liberi, ma sono come tanti pupi nelle mani di un burattinaio invisibile e capriccioso: IL CASO. Quando nasciamo, infatti, ci troviamo inseriti,
per puro caso, in una società precostituita regolata da leggi, convenzioni, abitudini, già fissate in precedenza, indipendentemente dalla nostra volontà. Inseriti in un determinato
contesto, la società ci assegna una parte nell’enorme pupazzata che è la vita, ci fissiamo in una forma, obbligandoci di conseguenza, a muoverci secondo schemi ben definiti. Tali
condizioni vengono accettate dall’uomo per pigrizia o per convenienza, senza avere mai il coraggio di rifiutarli, anche quando contrastano con la nostra natura. Ma sotto questa
apparenza della “forma” in cui noi stessi o gli altri si sono fissati, il nostro spirito freme per la sua continua mutabilità, perché avverte qualcosa di diverso, sentimenti ed impulsi che
sono spesso in contrasto con la parte di noi o la maschera che ci sono imposti. Tuttavia ci freniamo per non urtare contro i pregiudizi della società, per la buona pace del nostro
spirito; ma anche perché nel mondo mutevole ed enigmatico nel quale siamo immersi, quella nostra forma o maschera fissa è l’unico punto fermo al quale ci aggrappiamo
disperatamente per non essere travolti dalla tempesta.
Tuttavia capita che l’anima istintiva (inconscio) che è in noi esploda violentemente, in contrasto con l’anima morale, facendo saltare pudori e freni inibitori e lasciando via libera al
flusso torrenziale del desiderio. Allora la maschera si spezza e siamo come un violino fuor di chiave, cioè stonato, nel generale concerto della società. Ma anche in questo caso non
abbiamo motivo di rallegrarci, perché una volta usciti dalla vecchia forma, il senso della libertà che proviamo è breve, in quanto il nuovo modo di vivere ci imprigiona in un’altra
forma, diversa dalla prima, ma altrettanto provvisoria e soffocante. A questo punto si desidera rientrare nella vecchia forma che però si rivela impossibile per il continuo mutare della
realtà. IL FU MATTIA PASCAL (rapporto tra noi e gli altri)
Questo contrasto tra la maschera e il volto, cioè tra l’apparenza esteriore e la realtà interiore dell’essere, è un tema ricorrente in tutta l’opera di Pirandello; questo è anche il tema di
fondo del romanzo del “Il fu Mattia Pascal”
Relativismo psicologico verticale (con se stesso)
Il disagio dell’uomo non deriva soltanto dall’urto con la società: nasce anche dal continuo ribollimento e trasmutarsi del suo spirito che non gli permette di conoscere bene se
stesso, né di cristallizzarsi in una personalità nettamente definita. Dal fondo del subcosciente, infatti, è la zona oscura e misteriosa del suo essere, affiorano sempre nuovi
sentimenti ed impulsi che lo rendono diverso non solo dagli altri, ma anche dal se stesso di prima e da quello che sarà poi. Pirandello riprende la concezione romantica del perenne
svolgimento dello spirito. Ma nella filosofia romantica il riferimento è allo Spirito universale, di cui quello individuale era solo una parte insignificante, nella filosofia di Pirandello egli
lo trasferisce allo spirito individuale, esasperandolo fino a giungere alla disgregazione della coscienza. Proprio la caratteristica del suo continuo divenire, l’uomo è nello stesso
tempo “Uno, nessuno e centomila”: uno perché è quello che di volta in volta lui crede di essere; nessuno perché dato il suo continuo mutare, è incapace di fissarsi in una
personalità nettamente definita; né è capace di riconoscersi nella forma o apparenza che gli altri gli attribuiscono; centomila, perché nessuno di quelli che lo avvicinano, lo vede a
suo modo, quindi l’individuo assume molteplici forme (centomila per iperbole, per intendere numerose) quante sono quelle che gli altri attribuiscono.
La disgregazione della persona umana costituisce il tema di fondo del romanzosaggio: un giorno a Vitangelo Moscarda la moglie Dida fa osservare che il naso pende verso destra
e che, come uomo, ha molti difetti. Da questa rivelazione casuale incomincia la meditazione sulla vita che porta Vitangelo alla follia. Ciò che lo colpisce non è tanto la rivelazione dei
difetti, ma il fatto che egli per 28 anni non è stato per la moglie e per gli altri, quello che lui credeva di essere, e che quindi ciascuno lo ha visto in modo diverso. E allora egli si mette
con sadica voluttà a distruggere le forme o immagini che gli altri si sono fatti di lui e prende una serie di iniziative che gettano lo scompiglio nel suo ambiente, fino ad alienare le
proprie ricchezze per la costruzione di uno ospizio per mentecatti, dove finirà ospite. Egli rifiuta le centomila forme che gli altri gli attribuiscono arbitrariamente; quindi preferisce
annullarsi come persona e vivere senza alcuna coscienza di essere.
Tra i due romanzi c’è questa differenza: ne Il fu Mattia Pascal il relativismo psicologico si svolge prevalentemente in senso orizzontale, perché incentrato sul rapporto di Mattia,
sdoppiato, con la società; in Uno, nessuno e centomila il relativismo psicologico si svolge in senso prevalentemente verticale, è incentrato sul ripiegamento in se stesso, che deve
frantumarsi in centomila aspetti la propria personalità, fino a giungere all’autodistruzione.
IL FU MATTIA PASCAL
RIASSUNTO
E’ la storia paradossale, in diciotto capitoli, di un piccolo borghese, Mattia Pascal, protagonista di una vicenda di morte e reincarnazione.
La storia comincia dalla fine.
I primi due capitoli costituiscono la premessa di tutta la storia, una premessa duplicata. Il protagonista afferma che la sua è una vicenda particolarmente strana e difficile da
raccontare e che riguarda le sue prime due morti. L’amico che gli ha suggerito di scrivere la sua strana storia è il reverendo Don Eligio Pellegrinotto, col quale collabora nella
piccola biblioteca del paesino di Miragno e al quale egli affida il suo manoscritto che potrà essere letto solo 50 anni dopo quella che lui definisce la sua terza, e definitiva, morte.
Dopo un’invettiva contro Copernico, a suo parere colpevole con la sua scoperta della terra che gira attorno al sole di aver sconvolto il modo di pensare fino ad allora in auge basato
sull’antropocentrismo e quindi di aver scardinato la convinzione che l’uomo fosse il centro del mondo e con essa le sue pretese di conoscenza certa e di verità rendendole assurde
e relative, ha inizio con il terzo capitolo il racconto vero e proprio.
I capitoli dal III al VI riguardano il racconto della vita di Mattia Pascal ed ha inizio quando all’età di quattro anni Mattia Pascal perde il padre. La gestione economica familiare passa
nelle mani di un amministratore-ladro, Batta Malagna detto “la talpa”, la cui amministrazione impoverisce anno dopo anno la famiglia di Pascal per arricchire la propria. Per fargli un
dispetto Mattia Pascal seduce Romilda, la donna da cui Malagna vorrebbe avere un figlio, e la mette incinta. La situazione si complica perché Mattia Pascal ingravida anche Oliva,
la seconda moglie dell’amministratore. Mentre Malagna riconosce come proprio il figlio di Oliva, Mattia Pascal deve accettare le nozze riparatrici con Romilda. La vita coniugale si
rivela un inferno anche perché nel frattempo Pascal è economicamente caduto in disgrazia.
Mattia Pascal è dunque un personaggio imprigionato nella trappola di un matrimonio infelice e di una sventurata condizione economica e sociale. A seguito di nuove disgrazie
familiari, la morte delle sue due bambine (le gemelle) e della madre, egli fugge da casa e si reca al Casinò di Montecarlo, dove inaspettatamente realizza una cospicua vincita alla
roulette.
Il Capitolo VII segna un cambiamento radicale per Mattia Pascal. Durante il viaggio di rientro a casa Mattia Pascal legge su un giornale del ritrovamento, presso il paese dove abita,
del corpo di un suicida annegato che la moglie e la suocera hanno identificato in lui. Il caso ha fatto sì che egli si trovi improvvisamente nella condizione di poter essere un uomo
libero e padrone di sé, economicamente autosufficiente. Decide allora di utilizzare questa morte per liberarsi della sua vita passata.
Nei capitoli dal VIII al XVI Mattia Pascal si costruisce un’identità nuova, sotto il falso nome di Adriano Meis, nome scelto ascoltando sul treno dei frammenti di una conversazione tra
passeggeri.
Pascal cerca di trasformare il suo aspetto: si taglia la barba, indossa un paio di occhiali scuri per coprire lo strabismo, una giacca lunga a doppio petto e un cappello a larghe tese.
Inizia a viaggiare per l’Italia e per l’Europa, senza una meta prestabilita, senza uno scopo preciso se non quello di godere appieno dell’inaspettata libertà. Ad un certo punto però
comincia ad avvertire il peso della solitudine e sente la necessità di riallacciare quella rete di rapporti sociali che in passato lo soffocava e condizionava. Dopo un soggiorno a
Milano e l’esperienza della modernità in questa metropoli industriale, va a vivere a Roma nella pensione di Anselmo Paleari, pensione che ospita strani personaggi appassionati di
scienze occulte e di spiritismo. Si innamora della figlia del padrone di casa, la dolce Adriana, con la quale potrebbe iniziare una vita diversa e autentica. Si rende conto che in realtà
il nuovo nome e il personaggio che impersona non esistono per la società e lo stato civile e che non può realizzare nessun progetto di vita futura. Vive con il timore che venga
scoperta la sua vera identità, per non farsi riconoscere si fa operare all’occhio strabico e tuttavia quando viene derubato, durante una seduta spiritica, si rende conto che non può
neppure denunciare il furto perché è una persona inesistente per lo Stato. Si sente così ridotto ad un’ombra. Sfidato a duello da un pittore spagnolo per questioni di gelosia, Adriano
Meis, alias Mattia Pascal, in quanto privo di identità non è neanche in grado di procurarsi i padrini necessari per battersi, decide quindi di abbandonare Roma e Adriana e di far
perdere le sue tracce facendo credere ad un suicidio per annegamento.
Nei capitoli conclusivi, XVII e XVIII, il protagonista cerca quindi di rientrare nella sua vecchia identità, “risorgendo” come Mattia Pascal. Torna al suo paese natale, Miragno, ma
scopre che la moglie si è formata una nuova famiglia, si è risposata ed ha avuto una figlia con il suo amico Pomino, da sempre innamorato di Romilda ed a cui Pascal l’aveva
portata via. Rinuncia allora a vendicarsi della moglie e ad avvalersi della legge in base alla quale è ancora lui il marito legittimo, ma in tal modo non gli resta altro che adeguarsi a
vivere una condizione sospesa di “forestiere della vita”, “come fuori della vita”, che osserva gli altri dall’esterno, cosciente di non essere più “nessuno”, o meglio, di essere “fu Mattia
Pascal”. Aspettando la terza definitiva morte, si accontenta di vivere nella biblioteca in cui aveva svogliatamente lavorato da giovane, scrivendo la propria storia.
Incipit
L’incipit del romanzo vede Mattia Pascal dichiarare di avere un’unica certezza quella di chiamarsi Mattia Pascal ma di non essere Mattia Pascal. Emerge in questa dichiarazione
l’inettitudine del personaggio, cioè la sua incapacità di liberarsi della “zavorra” dell’identità, e conseguentemente delle convenzioni e della forma, nonostante ne abbia avuto
l’occasione, grazie al duplice colpo di fortuna di una vincita consistente al casinò di Montecarlo e la sua presunta morte.
Nonostante abbia scoperto che il nome è una triste convenzione sociale, una maschera vuota ed una gabbia soffocante che imbriglia il flusso vitale, Pascal commette l’errore di
darsi una seconda identità, chiudendosi in un’altra trappola. rivela di aver conservato tutto il suo carattere piccolo borghese, il bisogno della casa, del tepore della famiglia.
Conclusione
Il romanzo si chiude con un paradosso: morto due volte e senza più la possibilità di avere un’identità sociale, il protagonista può vivere solo come “il fu Mattia Pascal”, cioè come un
defunto, una persona morta, scomparsa per sempre.
Alla fine, dopo aver capito che la vita è una finzione alienante e tragica e che la realtà non è riducibile a un’unica prospettiva e a un unico significato, il protagonista deve accettare
di vivere la condizione del “forestiere della vita”, ossia in una condizione di passività ed accettazione, nella stasi totale. Ha intuito infatti che un’identità vera non esiste e neppure
può essere conferita da norme sociali false che riducono l’uomo a un nome e a una maschera.
Tematiche
Il Fu Mattia Pascal è il romanzo allegorico della crisi dell’uomo moderno e ciò emerge dalle varie tematiche che affronta:
La famiglia, viene vista sia come un nido, riferita alla famiglia originaria, soprattutto nel rapporto di tenerezza con la madre, sia come una prigione da cui evadere, relativamente al
rapporto coniugale e con la suocera;
Il relativismo espresso attraverso il gioco d’azzardo che mette in rilievo la casualità degli eventi e il potere della sorte, e sottolineando i limiti della volontà e della ragione
confermano la teoria della relatività della condizione umana affermata da Pirandello; e lo spiritismo, raccontato nell’episodio della seduta spiritica del Cap.XIV (evento presente
anche nella Coscienza di Zeno di Svevo), serve per sottolineare la crisi del razionalismo positivista e affermare che il potere della ragione umana è limitato.
L’inettitudine. Come i personaggi di Svevo anche Mattia Pascal è un inetto incapace di adattarsi alla vita e dalla quale sogna un’evasione impossibile, è uno sconfitto dalla vita ed
un anti-eroe che finisce con il guardarsi vivere e con l’adeguarsi ad accettare l’estraneità nei confronti della vita e di se stesso.
La crisi dell’identità. Mattia Pascal non riesce a rapportarsi non solo con la propria anima ma anche con il proprio corpo, ne è un sintomo il suo occhio strabico che guarda sempre
altrove. La perdita dell’identità viene evidenziata anche attraverso il tema del doppio: vi è un brano del libro in cui l’ombra del protagonista viene posta in primo piano come doppio
di Adriano Meis, rappresenta infatti la memoria e l’anima di Mattia Pascal, da cui il protagonista non riesce a staccarsi e di cui anzi è prigioniero.
Tutto il romanzo è improntato sulla duplicità, sul raddoppiamento delle situazioni: Mattia Pascal seduce sia Romilda che Oliva; finge due volte il suicidio; si dà due diverse identità,
Adriano Meis e poi Fu Mattia Pascal, ecc.
La maschera e la negazione dell’identità sociale. L’identità è una necessità sociale, ognuno di noi indossa una maschera per rapportarsi agli altri, non mostra la sua vera persona e
quando Mattia Pascal prende coscienza di ciò capisce di essere passato da una situazione di maschera a quella di maschera nuda, consapevole dell’impossibilità di qualsiasi
identità, si limita a guardarsi e guardare gli altri vivere.
Trama: Ciàula è il soprannome di un uomo sulla trentina conosciuto da tutti in miniera per la sua ingenuità che confina quasi con l’handicap mentale. Svolge il ruolo di “caruso”,
ossia trasporta lo zolfo per Zi’ Scarda, un esperto minatore segnato dagli anni di lavoro, costretto dal direttore della miniera a restare al lavoro di notte. Ciàula, incaricato di
accompagnarlo, non è terrorizzato dagli anfratti della miniera scavata per centinaia di metri nel ventre della terra poiché la conosce come le sue tasche, ma paradossalmente dal
buio della notte che troverà uscendo. Nella sua ingenuità, infatti, il protagonista non ha mai visto la luna. Così, quando la paura di uscire dalla miniera lo sta quasi bloccando dentro,
si accorge del fatto che il cielo notturno è illuminato dal corpo celeste, ritrovando, irrazionalmente, la sicurezza e il coraggio di poter tornare a casa.
Personaggi
Ciàula: è un personaggio che rappresenta, con la sua stravaganza e incoscienza che rasenta la stupidità, l’irrazionalità umana che Pirandello vuole rappresentare. Il suo
paradossale timore della notte all’aperto e non della profondità della miniera è un ribaltamento della percezione del reale fondato sull’ingenuità, che porta però alla scoperta
rassicurante della luce lunare, che gli apre gli occhi sulla verità del mondo.
Zi’ Scarda: è un minatore anziano e vittima preferita di Cacciagallina. Le vessazioni e lo sfruttamento a cui è sottoposto proseguono persino dopo la tragica esplosione che gli ha
portato via l’occhio e il figlio. A causa del pericolo a cui il mestiere lo sottopone, perdipiù senza alcuna protezione, Zi’ Scarda, al contrario di Ciàula, è un uomo comune,
giustamente spaventato dal compito di doversi calare sotto terra durante la notte.
Cacciagallina: nell’ambiente simil-verista in cui il racconto è almeno formalmente ambientato, è l’antagonista principale di Ciàula e Zi’ Scarda con la sua voracità e sadismo nello
sfruttamento dei minatori, che non esita a sottoporre a incarichi pericolosi per la loro stessa vita.
Temi principali: Il racconto delle vicende legate alle condizioni degli operai in miniera è un soggetto che Pirandello eredita dall’illustre predecessore, e conterraneo, Giovanni Verga,
come accade del resto in diverse storie all’interno delle Novelle per un anno. La denuncia dello sfruttamento e la rappresentazione del vero sono però solo inizialmente la
problematica centrale del testo, che Pirandello sfrutta per rendere la vicenda di Ciàula densa di significati simbolici. La stupidità del protagonista, la discesa in miniera e la scoperta
della luna sono infatti metafore dei concetti di ignoranza e conoscenza, legate strettamente alla paura del buio come momento di irrazionalità che viene bilanciata dall’epifania della
luce, la quale porta il protagonista a scoprire, addirittura commuovendosi, la presenza di una verità rassicurante. Ciàula è quindi il simbolo della piccolezza dell’essere umano e
delle sue poche conoscenze di fronte alle immensità – oscure e ignote – dell’universo, tema che tinge il racconto di un’atmosfera decisamente decadente.
Riassunto: Alla “buca della Cace”, ingente miniera di zolfo in Sicilia, lavora un vecchio minatore cieco da un occhio, da tutti conosciuto come Zi’ Scarda, che tiene alle sue
dipendenze un uomo incaricato di aiutarlo a trasportare lo zolfo con la mansione di “caruso”. Si tratta di Ciàula, un minorato mentale che i minatori soprannominano così perché ha
l’abitudine di rispondere con un “crah crah”, il verso della cornacchia (in dialetto siciliano il “ciàulare” appunto), quando viene chiamato in causa per qualche compito. Sul finire di
una dura giornata di lavoro, al cantiere irrompe Cacciagallina, superiore e sorvegliante della miniera, che invita, minacciandoli con una pistola, i minatori a proseguire il proprio turno
durante la notte. Tutti gli operai riescono a rifiutare l’ingrato compito, tranne il povero Zì Scarda, con il quale il capo se la prende particolarmente, che viene quindi costretto a
scendere nuovamente in miniera accompagnato dal fido Ciàula, che gli risulta essenziale per la capacità di muoversi abilmente tra i cunicoli oscuri che si inoltrano nelle profondità
della terra. Entrambi i minatori sono, tuttavia, molto spaventati. Zi’ Scarda aveva infatti perso un occhio e un figlio in un’esplosione in miniera avvenuta anni prima e lo stesso
Ciàula, quel giorno, era fuggito rintanandosi per ore nel buio in un anfratto. Sfortuna volle che, quando riuscì finalmente a uscire dalla miniera, si ritrovasse assolutamente solo in
una notte buia e non rischiarata dalla luna. Se all’interno della caverna Ciàula si era sentito protetto dalle pareti di roccia, ciò che lo aveva autenticamente terrorizzato dopo
l’esplosione era stata la vastità del paesaggio tenebroso all’esterno della miniera. I due, grazie anche alla dimestichezza di Ciàula con cunicoli e caverne oscure, riescono a
completare il proprio turno di lavoro e iniziano la risalita, gravati da un pesantissimo carico di zolfo, mentre in Ciàula il terrore della notte buia comincia ad avere il sopravvento.
Quando il protagonista, però, si affaccia dall’ingresso della miniera, si trova davanti uno scenario che non si sarebbe aspettato, data la sua ignoranza. La luce della luna getta il suo
candore sulla notte, facendola apparire più sicura e confortante. Ciàula, che non l’aveva mai vista, si spoglia della paura e cade in lacrime di commozione per aver capito di essere
nuovamente al sicuro.
Analisi e Commento: Il distacco che Pirandello architetta dal modello verghiano è riscontrabile immediatamente dalla struttura della narrazione. Lontano dall’”impersonalità” del
narratore, concetto fondante del Verismo di Giovanni Verga, Ciàula scopre la luna ha un narratore onnisciente capace di leggere, oltre che la successione di eventi narrata, anche
l’interiorità e il pensiero dei personaggi, che con le loro paure, lacrime e commozioni, sono il soggetto principale del racconto simbolico e concettuale voluto dall’autore. Aspetto
legato all’onniscienza del narratore è anche la disposizione dei fatti retrostanti alla narrazione. Dopo l’inizio in cui i personaggi principali vengono presentati nella loro irrazionalità e
Cacciagallina dà il la alle paure di Ciàula, gli antefatti che spiegano il timore del protagonista per l’oscurità della notte sono esposti in un flashback che ricostruisce l’esplosione in
miniera con la morte del figlio di Zi’ Scarda, il ferimento del minatore e la parallela sorte del protagonista in cui è contenuto il trauma che ne condiziona i pensieri. Ciàula è un
personaggio dall’aspetto tipicamente pirandelliano, costruito sulla poetica dell’Umorismo, esposta da Pirandello in un celebre saggio dall’identico titolo del 1911 (solo un anno prima
della pubblicazione di questa novella). Il protagonista incarna infatti quel “sentimento del contrario” che ribalta umoristicamente la normale percezione delle cose e ne mostra la
natura vera e paradossale. Contrapposto a Zi’ Scarda, uomo duramente colpito dalle condizioni disumane del lavoro in miniera e terrorizzato dall’imposizione di dovervi scendere di
notte, Ciàula vede nei cunicoli e nelle caverne un rifugio sicuro dalle angherie della vita e del mondo alle quali è continuamente assoggettato. L’irrazionalità di questo pensiero è
però apparente: i cunicoli sono stati davvero un rifugio per lui dopo l’esplosione e li conosce a menadito, mentre non sa assolutamente nulla del mondo e del paesaggio sterminato
che lo avvolse dopo essere uscito dalla miniera. La scoperta della luce lunare richiama per molti versi “il mito della caverna” di Platone, anch’esso legato al concetto della
conoscenza umana. Secondo Platone, se un uomo fosse nato in una caverna al buio e cresciuto eternamente tra le sue pareti, sarebbe stato abbagliato e inondato dalla normale
luce del giorno una volta uscito (quasi la stessa cosa che accade nel racconto a Ciàula). Il protagonista nella sua ingenuità non ha mai visto né sa dell’esistenza della luna e
quando la vede per la prima volta è sbalordito da un fatto assolutamente naturale e semplice: l’assoluta irrazionalità di Ciàula è una metafora sulla condizione dell’essere umano,
consapevole di pochissime cose nell’immensità e la grandezza dell’universo, che si esalta di fronte a ogni minima scoperta. Rintanato nelle sue poche certezze – nel racconto
rappresentate dalle pareti buie della miniera – egli si emoziona nello scoprire che c’è luce anche al di là di quanto ciecamente lo rassicura.
Il rapporto con i compagni di lavoro è differente: in Malpelo sono indifferenti alla sorte del ragazzo che trattano in modo crudele, infatti, subisce senza lamentarsi percosse e
punizioni, ma si vendica appena può; in Ciàula invece, gli uomini nella miniera sono meno crudeli e prendono in giro in modo bonario Ciàula, per la convinzione di essere elegante,
per il fatto di indossare una vecchia camicia, che molto tempo prima doveva essere molto bella. I protagonisti stessi, sono apparentemente simili, accomunati dalla brutalità dello
sfruttamento e dalla fatica eccessiva cui sono sottoposti. In realtà sono due personaggi molto diversi tra loro: Ciàula è un minorato mentale di età adulta, uno schiavo inconsapevole
che non si rende conto di nulla, neppure della fatica cui sottoponeva il suo fisico. Ha una bocca sdentata, cammina scalzo ed ha delle gambe misere e storte; Rosso Malpelo è un
ragazzo orfano di padre e abbandonato da tutti, è, infatti, crudele e vendicativo. Ha i capelli rossi e un viso con lentiggini. Entrambi i protagonisti sono condizionati dalla morte,
Ciàula vede morire Calicchio, il figlio del suo padrone Zi Scarda, la morte è stata causata da un incidente, lo scoppio di una mina nella cava, e provoca in lui la paura del buio e
della notte; Malpelo sconvolto dalla morte del padre, avvenuta anch’essa all’interno della cava, causata dallo sfruttamento imposto dal padrone, che lo faceva lavorare anche di
notte. La morte del padre lo costringe a lavorare per sempre all’interno della cava, per cercare il corpo del padre sepolto dalla sabbia. Non ha paura di nulla, infatti, accetta anche
una missione molto pericolosa.
CIAULA SCOPRE LA LUNA E ROSSO MALPELO: IL FINALE
Il finale, invece, è completamente diverso: Ciàula scopre che nella notte vera, non quella della miniera, la luce della Luna rappresenta una possibilità di vedere qualcosa e questa
scoperta lo commuove e lo stupisce, la Luna rappresenta per lui la speranza di un avvenire migliore, la visione del cielo è quindi diversa, Malpelo guarda con diffidenza il cielo dove
secondo quanto dicevano gli altri doveva esserci il paradiso; Malpelo credendo solo in ciò che vede non riesce a credere alla possibilità di qualcosa di sovrumano che possa esserci
nel cielo. In Rosso Malpelo il finale è molto più triste, si perde nel tunnel, dove stava cercando un collegamento con un altro posto, non riesce più a uscirne e di lui si perdono tutte
le tracce.
IL TRENO HA FISCHIATO
Riassunto: La novella racconta la storia di un contabile, Belluca. Egli ha un carattere molto mite, puntuale e dedito al lavoro, sottomesso da tutti. Per descriverlo, lo scrittore adopera
la metafora del somaro perché tante volte egli veniva rimproverato e fatto sgobbare dai colleghi di lavoro senza pietà e per scherzo, con lo scopo di vedere la sua reazione; mai egli
non si era mai ribellato ed aveva sempre accettato le ingiustizie, anche le più crudeli, senza dire una parola. Un giorno inizia a comportarsi in un modo non corrispondente al suo
carattere di sempre, tale da non sembrare più nemmeno lui: : arriva in ritardo in ufficio e non svolge regolarmente il suo lavoro. Quando il capo ufficio entra nella stanza per
controllare il lavoro svolto , si accorge che egli non aveva lavorato e sorpreso, e gliene chiede il motivo. Il contabile reagisce scagliandosi con violenza contro il suo capo, ripetendo
più volte, che un treno ha fischiato nella notte, portandolo in luoghi lontani come la Siberia e il Congo. A questo punto viene creduto pazzo e ricoverato in un ospedale psichiatrico.
Giunto in ospedale, continua a parlare a tutti del treno; i suoi occhi hanno una luce particolare, simili a quelli di un bambino felice, e dalla sua bocca escono frasi senza senso. La
cosa suscita incredulità e stupore perché fino ad ora si era sempre occupato di numeri e di registri e mai dalla sua bocca erano uscite espressioni poetiche che rimandavano a
paesaggi bellissimi quanto ignoti. All’improvviso, un vicino di casa che lo conosce inizia a gridare che Belluca non è impazzito ma che è necessario conoscere la vita che egli è
costretto a condurre, prima di esprimere un giudizio su di lui ed accusarlo di pazzia.
Infatti, egli vive in una situazione familiare disastrosa. La sua numerosa famiglia si compone di dodici persone: la moglie, la suocera e la sorella della suocera, tutte e tre cieche;
hanno bisogno continuamente di essere servite e non fanno altro che strillare, dalla mattina alla sera. Oltre alle tre donne, in casa vivono due figlie, vedove con quattro figli la prima
e tre la seconda. Con lo scarso guadagno da impiegato, Belluca non è in grado di sfamare tutte queste bocche, per cui si è dovuto procurare un secondo lavoro che svolge la sera,
fino a tardi che o sfinisce e lo porta all’esaurimento.
Quando Belluca riceve la visita del suo amico, che lo informa che tutti lo credono affetto da follia, lui stesso gli racconta di quella sera quando, essendo talmente stanco, da non
riuscire a dormire, sente da lontano un fischio di un treno e, quindi, la sua mente lo riporta indietro nel tempo quando anche lui conduceva una vita “normale” a cui da tempo non
pensava più; e quello che gli è successo è stato un ritorno al passato che lo ha fatto evadere della vita misera che conduce.
Dimesso dall’ospedale, ritorna alla solita vita da contabile, si scusa con il capoufficio il quale, però, gli concede, ogni tanto di pensare al treno che ha fischiato e di evadere, con
l’immaginazione, verso paesi lontani.
Il significato: La ricerca di quanto è realmente successo avviene attraverso una serie di flash back successivi; infatti la vicenda è narrata a ritroso, cioè dalla fine al principio, per
mezzo del punto di vista di un vicino di casa (che coincide con il narratore) e di alcuni medici dell’ospedale, con una tecnica che si avvicina molto a quella del romanzo poliziesco.
• La novella inizia dalla fine riportando i commenti dei colleghi che sono stati a fare visita a Belluca ricoverato in un ospedale psichiatrico
• Successivamente viene narrato l’episodio della sera precedente quando l’impiegato ha avuto un comportamento strano e si è lasciato andare ad una violenta lite con il capoufficio
• Quindi si ha l’intervento diretto del vicino di casa - voce narrante - che descrive la situazione familiare di Belluca, molto opprimente e descritta in modo grottesco.
• Infine, la narrazione di Belluca stesso: racconta di avere sentito il fischio inaspettato di un treno due sere prima che gli ha fatto riscoprire un mondo fino ad allora dimenticato.
Pirandello ci vuole dimostrare che il vero folle non è Belluca, ma i suoi colleghi perché accettano di lasciarsi imprigionare nel grigiore della quotidiana vita di ufficio (la forma o la
maschera). Invece Belluca cerca di uscirne ogni tanto con la fantasia e trovare così un elemento che lo possa stimolare e dare un minimo senso alla sua esistenza.
Il teatro
Il teatro di Luigi Pirandello nasce dalle novelle che sono dialogate. Il teatro viene inteso come degradazione dell'opera d'arte. Secondo Luigi Pirandello la vita non è nient'altro che
teatro.
Il teatro è il miglior luogo per rappresentare le maschere sociali. In tutto, Luigi Pirandello, ha fatto ben 43 opere teatrali, alle quali da un titolo complessivo: Maschere nude. E' stato
scelto questo titolo perché nelle opere viene messa a nudo la verità nascosta, il mondo interiore dell'uomo. I temi che vengono messi in scena sono:
- contrasto tra l'essere e l'apparire;
- crisi d'identità;
- solitudine dell'uomo.
Il teatro di Pirandello viene definito di tortura perchè ci invita a riflettere sull'esistenza.
Tra le più significative opere ricordiamo Sei personaggi in cerca d'autore. I personaggi di quest'opera teatrale non hanno un ruolo e ognuno rappresenta il proprio dramma. In
quest'opera viene messo in evidenza il contrasto tra persona e personaggio, cioè tra vita e forma. La novità introdotta con il teatro pirandelliano e che non esistono più barriere tra
palcoscenico e platea.
Giovanni Verga e Luigi Pirandello sono due autori vissuti in secoli differenti. Giovanni Verga appartiene all'800, mentre, Luigi Pirandello appartiene al '900. Entrambi gli autori hanno
scritto molte opere tra cui le novelle.
Le novelle di Verga e Pirandello sono molto simili tra loro. Queste hanno in comune l'ambientazione, infatti, entrambe sono ambientate in Sicilia. Inoltre, i protagonisti rappresentati
appartengono a ceti sociali bassi, sono cioè artigiani, contadini e pescatori.
Queste novelle rappresentano la situazione del sud dopo l'unità d'Italia avvenuta nel 1866.
L'unica sostanziale differenza tra le novelle di Verga e le novelle di Pirandello è lo scopo finale.
Le maschere sociali
Secondo il pensiero di Luigi Pirandello, la vita è un fluire costante di emozioni. Inoltre, la vita scorre velocemente, in modo inafferabile e inconoscibile.
Gli esseri umani, per avere qualche consistenza, fissano la vita in una forma che rappresenta la fissità, la morale comune e la rigidità. Ne deriva, quindi, il contrasto tra vita e forma.
Alla vita si oppone la forma. Per forma si intendono le maschere sociali che ogni individuo indossa per adeguarsi alla società di appartenenza. Le maschere sociali rappresentano
un vero e proprio ostacolo alla libertà personale dell'uomo, un limite alla vita.
L'uomo per adattarsi alle convenzioni della società è costretto ad indossare le maschere. Se l'uomo intende liberarsene deve ricorrere alla follia. La follia, quindi, rappresenta l'unica
salvezza per gli uomini che vogliono essere liberi. Le maschere sono, quindi, delle trappole. Ogni individuo è vittima di queste trappole. Anche la famiglia rappresenta una
maschera per ogni essere umano. Secondo Luigi Pirandello la famiglia è la principale maschera, e quindi trappola di ogni individuo.
Uno sguardo sulla narrativa europea di inizio Novecento: l’Ulysses di James Joyce
La destrutturazione della forma romanzo – strumento privilegiato dai narratori dell’Ottocento per raccontare e documentare la realtà e l’epopea della borghesia – è un processo che
accomuna la narrativa europea dei primi del Novecento, caratterizzata appunto dalla sperimentazione di forme narrative nuove e da un linguaggio radicalmente innovativo rispetto
alla tradizione. Ci soffermeremo soltanto sull’Ulysses di James Joyce, anche in relazione al rapporto di amicizia e di stima che legò lo scrittore irlandese al nostro Italo Svevo.
L’Ulysses, pubblicato nel 1922 e più volte censurato per oscenità (siamo nella cattolicissima Irlanda di inizio Novecento), è probabilmente il romanzo che più di ogni altro
simboleggia la rottura stilistica e tematica del Novecento. Che cosa “racconta” infatti l’Ulysses? E qual è il senso del richiamo all’Ulisse omerico?
Soffermiamoci innanzitutto sulla trama: Ulisse racconta non solo e non tanto gli avvenimenti vissuti a Dublino, in una sola giornata, da Leopold Bloom, agente pubblicitario di origine
ebrea, ma ciò che avviene nella sua coscienza in questo periodo di tempo. E se i pensieri e le sensazioni inconsce del protagonista si sviluppano nello spazio temporale di poche
ore, in essi il presente s'intreccia indissolubilmente con tutto il suo passato individuale e con quello dell'umanità intera. «Ogni episodio della giornata di Leopold trova un proprio
corrispondente tematico-simbolico nell'Odissea. Come l'Ulisse del mito omerico, Leopold cerca di ricongiungersi a un figlio, rappresentato nel romanzo da Stephen Dedalus, un
giovane intellettuale. Mentre Bloom la mattina si separa dalla moglie Molly, cantante, per recarsi a un funerale, Stephen lascia la torre dove abita con un amico. Durante la giornata,
Leopold e Stephen s'incontrano in luoghi diversi della città, finché a sera, in un quartiere malfamato, il giovane, ubriaco e aggredito da due soldati inglesi, viene salvato da Leopold,
che lo conduce a casa sua. I due parlano sino a notte inoltrata; poi Stephen se ne va. Molly è già a letto e, non potendo addormentarsi, si abbandona a ricordi, immagini, pensieri
fluttuanti fra la memoria, il sogno e la riflessione consapevole. Il suo lungo monologo interiore, condottò attraverso la tecnica del "flusso di coscienza", conclude il romanzo.
IL MONOLOGO DI MOLLY BLOOM
Il protagonista è Leopold Bloom che rincasato a notte fonda dopo il fallimento con l’incontro con il figlio. Si corica accanto alla moglie, una donna sensuale ed infedele. Molly, nel
dormiveglia, si lascia andare ad un bilancio della giornata. Ciò si trasforma invece in un’ autoanalisi che Molly conduce delle sue esperienze, dei suoi rapporti con gli uomini e in
particolare con il marito. Il romanzo è diviso in tre parti ed è costituito da 18 capitoli senza titolo. La vicenda è narrata in un unica giornata in cui il destino di Bloom e della moglie
Molly si intreccia con quello di Dedalus, un giovane intellettuale e ribelle che simboleggia l’alter ego di Joyce.
La trama: La vicenda si svolge a Dublino, Irlanda; il romanzo narra tutto ciò che accade fra le otto del mattino e le due di notte del 16 giugno 1904 ai tre protagonisti del racconto:
l'ebreo Leopold Bloom (Ulisse), la moglie Molly (Penelope) e il giovane Stephen Dedalus (Telemaco: una sorta di figlio spirituale di Bloom).Si comincia con l'inizio della giornata di
Stephen, giovane letterato in crisi. Alle sue vicende s'intrecciano presto quelle, spesso banali, che capitano all'agente di pubblicità Leopold Bloom: risveglio, partecipazione al
funerale di un conoscente, arrivo in ufficio, visita alla redazione di un giornale. Man mano Bloom incontra vari personaggi e subisce una serie di sottili ingiurie in quanto ebreo.
Spesso sfiora il cammino di Stephen, senza però mai entrare in contatto con lui. All'ora di pranzo Bloom ritorna a vagabondare per le strade di Dublino: persone, negozi,
monumenti, musei, sfilano svogliatamente dinanzi ai suoi occhi, mentre Stephen si trova alla Biblioteca Nazionale dove intavola una discussione su Shakespeare. Anche Bloom
sosta brevemente alla biblioteca, dove sono sussurrate nuove malignità sulla sua origine ebraica. Giunta la sera, ripensa ai tanti insuccessi della giornata a un'amica, e quindi si
ritrova a far baldoria con un gruppo di giovani. Stephen, lì presente, propone di avviarsi verso un pub. Il gruppo si muove in piena notte per le strade più malfamate della città, entra
in un bordello e innesca una rissa; Bloom deve adoperarsi per salvare la reputazione di Stephen, ormai ubriaco. Poi lo guida verso casa sua. A casa di Bloom i due parlano della
loro vita passata e presente, ma senza intendersi mai realmente: dopo aver esposto i propri progetti letterari, Stephen rifiuta l'offerta di una stanza per le notte e abbandona
Bloom.Questi, ripensando alla giornata vissuta, raggiunge a letto la moglie. Il romanzo si conclude con un lungo soliloquio di Molly, che nel dormiveglia ripercorre alcuni episodi
della sua esistenza.
UMBERTO SABA (1883 – 1957)
La vita
Umberto Saba, pseudonimo di Umberto Poli (Trieste, 9 marzo 1883 – Gorizia, 25 agosto 1957), è stato un poeta, scrittore, di difficile collocazione di corrente.
Umberto Saba nacque il 9 marzo 1883 a Trieste - allora parte dell'Impero austroungarico - da madre ebrea, e da padre di nobile famiglia veneziana e agente di commercio. Il padre
si era convertito alla religione ebraica in occasione del matrimonio, avvenuto nel 1882. Tuttavia, quando nacque Umberto, Felicita, la madre, era già stata abbandonata dal marito,
un giovane «gaio e leggero», insofferente dei legami familiari.
In Italia Umberto fu vittima della persecuzione razziale per via della sua origine ebraica, cercò rifugio prima a Parigi, poi a Roma sotto la protezione di Giuseppe Ungaretti, ed infine
a Firenze, ospite di Montale.
Umberto Saba, refrattario a schieramenti politici ma tendente all'interventismo per le sue origini triestine, arriva a collaborare con Il Popolo d'Italia, diretto da Benito Mussolini.
Allo scoppio della grande guerra venne richiamato alle armi dapprima a Casalmaggiore in un campo di soldati austriaci prigionieri, poi come dattilografo in un ufficio militare, e
infine, nel 1917, al Campo di aviazione di Taliedo, dove venne nominato collaudatore del legname per la costruzione degli aerei. Risale a questo periodo la lettura di Nietzsche e il
riacutizzarsi delle crisi psicologiche, per le quali, nel 1918, verrà ricoverato nell'ospedale militare di Milano.
Fra il 1929 e il 1931, a causa di una crisi nervosa più intensa delle altre, decise di mettersi in analisi a Trieste con il dottor Edoardo Weiss, lo stesso di Italo Svevo. Fu Weiss, allievo
di Freud, che con la Rivista italiana di psicoanalisi introdusse in Italia gli studi del medico viennese. Con lo psicanalista, Saba indagò la sua infanzia, e rivalutò il ruolo della sua
nutrice.
Nel 1938, poco prima del secondo conflitto mondiale, a causa delle leggi razziali, fu costretto a cedere formalmente la libreria al commesso Carlo Cerne e ad emigrare in Francia, a
Parigi.
Ritornato in Italia alla fine del 1939, si rifugia prima a Roma, dove Ungaretti cerca di aiutarlo, ma senza risultato, e poi nuovamente a Trieste, deciso ad affrontare con gli altri italiani
la tragedia nazionale.
Dopo l'8 settembre 1943 fu però costretto a fuggire con Lina e la figlia Linuccia, e a nascondersi a Firenze, cambiando spesso appartamento. Gli sarà di conforto l'amicizia di
Montale che, a rischio della vita, andrà a trovarlo ogni giorno nelle case provvisorie, e quella di Carlo Levi.
Poetica
Pur essendo considerato tra i maggiori poeti del Novecento, Saba è molto difficilmente classificabile all'interno di correnti letterarie. Lo stile "umile" che lo caratterizza, l'amore
conflittuale per la propria città, l'autobiografismo sincero, il senso della quotidianità, sono però caratteristiche a lui generalmente riconosciute, insieme a un tono profondamente
malinconico.
Paziente di Edoardo Weiss, e talvolta fortemente oppresso da sofferenze psichiche, a livello critico è, infatti, indicato un suo senso tormentato di fragilità interiore, all'interno però di
un "registro colloquiale" che comunque appartiene anche alla tradizione della letteratura italiana.
Le opere
La poesia di Saba è semplice e chiara. Nella forma adopera le parole dell'uso quotidiano e nei temi ritrae gli aspetti della vita quotidiana, anche i più umili e dimessi: luoghi,
persone, paesaggi, animali, avvenimenti, Trieste con le sue strade, le partite di calcio ecc. Una vera e propria dichiarazione di poetica la possiamo leggere nella lirica Il borgo della
raccolta Cuor morituro (1925-1930). Il Canzoniere, poi, da lui concepito come autobiografia totale, raccoglie tutte le sue poesie.
Il poeta, quando era agli inizi della sua produzione poetica, aderì e partecipò a gruppi intellettuali triestini e nella sua formazione culturale, trasse giovamento dagli studi delle teorie
di Freud. A tal proposito, va detto che la città natale ha rivestito senz'altro un ruolo fondamentale nella sua poetica come nella sua vita.
L'amore per la città di origine, però, allo stesso tempo suscitò nel poeta anche una certa repulsione sotto un preciso punto di vista. L'ambiente culturale era basato principalmente
sul romanticismo e anche sull'irrazionalismo, due elementi che a Saba non appartenevano e che respinse.
Umberto Saba scriveva con l'intenzione di dare vita a qualcosa di duraturo nel tempo, perché la fragilità e il disordine della vita di tutti i giorni poteva essere superato solo dal valore
dell'arte.
L'opera più illustre di Saba è sicuramente Il Canzoniere, pubblicato nel 1948. L'opera è scritta come un lungo poema autobiografico che mostra l'evoluzione artistica del poeta.
Il mondo poetico di Saba è pieno di malinconia ma anche di grande saggezza, entrambe raccontate con sincerità. Questo, e non solo, colloca Umberto Saba tra i più importanti
autori del Novecento italiano.
Per capire la poesia di Saba è necessario rifarsi ad un opuscolo pubblicato sulla rivista " La Voce" nel 1910 ed intitolato: "Ciò che resta da fare ai poeti è la poesia onesta".
Per Saba la poesia "onesta" è quella che ha il coraggio di dire la verità sui sentimenti e sulle motivazioni che spingono l'uomo ad agire, è insomma un tipo di lirica che è in grado di
scandagliare l'inconscio dell'uomo; l'interesse per la psicanalisi è stato una costante nella vita di Saba, anche perché effettivamente egli fu costretto a sottoporsi a lunghe sedute
psicanalitiche per migliorare la sua nevrosi. Per il poeta la sofferenza e l'amore sono un'esperienza fondamentale nella vita dell'individuo, proprio perché attraverso il dolore e
l'esperienza dell'amore l'uomo comprende il valore della quotidianità ed è spinto anche a guardarsi dentro per cercare delle risposte sul significato autentico della vita. Nella poesia
di Saba sono presenti figure e temi che restano costantemente uguali a se stessi: la città di Trieste e i suoi fanciulli, i caffè del porto di Trieste, l'amata moglie, gli animali che
vengono spesso umanizzati, la nostalgia del passato e il ricordo dell'infanzia. Un esempio emblematico forse di tutta la filosofia poetica di Saba è la poesia " Amai", tratta dalla
raccolta "Mediterranee".
Saba “antimoderno” e la linea “antinovecentista”. La critica letteraria si è interrogata a lungo sul rapporto tra Saba e la lirica del suo tempo, cercando di «spiegare perché è
storicamente moderno essendo quasi completamente agli antipodi degli altri moderni» (Giacomo Debenedetti). In parte si può rispondere sostenendo che l’attenzione per la
psicanalisi colloca perfettamente Saba nel suo tempo e riflette una luce nuova su tutta la sua poesia, ponendola pienamente nella “crisi” del primo Novecento. Una risposta più
articolata a tale domanda è offerta da Pasolini che analizzando la lirica del Novecento distinse la linea “novecentista” da quella “antinovecentista”. La prima faceva capo a Ungaretti,
agli ermetici e alla “poesia pura”, una poesia di intensa sperimentazione, fatta di parole evocative, talvolta oscure, che dovevano condensare la verità in poche sillabe; la seconda
era in parte riconducibile a Montale – il quale si era cimentato in una poesia che rendeva “versificabile” anche il brutto, l’impoetico, i relitti della quotidianità – ma soprattutto a tutto
quel filone che sosteneva una lirica sommessa tra cui spiccavano Gozzano e appunto Saba, riconosciuto come maestro da molti poeti della seconda metà del Novecento, tra cui
Penna, Sereni, Giudici. L’antinovecentismo di Saba si manifesta proprio nel rifiuto delle più ardite innovazioni poetiche e nel disinteresse per la “crisi della parola”, che invece
rappresentava uno dei temi più frequentati dai poeti suoi contemporanei.
IL CANZONIERE
L’opera è divisa in sezioni, che sono a loro volta raggruppate in tre ‘volumi’, che corrispondono agli archi di sviluppo della giovinezza (1900-1920), maturità (1921-1932) e vecchiaia
(1933-1954).
Caratteristiche:
1. Carattere unitario: si può parlare di un’opera unitaria in quanto narra la storia di una vita; i componimenti sono collegati da un punto di vista tematico e ogni parte acquista
significato alla luce dell’insieme.
2. Carattere autobiografico: Non è un mero resoconto della sua vita perché Saba trasferisce tali eventi su un piano di riflessione che riguarda una condizione più generale dell’uomo
e della vita. Inoltre non è di difficile comprensione. Questi due aspetti (elemento biografico + carattere unitario) hanno spinto Saba stesso a definire l’opera un ‘romanzo’.
Fondamenti della poetica
1. Verità: Saba prende le distanze dalla concezione estetizzante dominante in quel periodo, soprattutto in Italia per l’influenza di d’Annunzio, e si propone di fare non tanto della
‘bella poesia’, ma della ‘poesia onesta’, volta a fare chiarezza dentro di sé e nei rapporti con gli altri.
2. Temi della quotidianità: conseguenza diretta del voler fare una poesia forgiata sulla verità; temi ricorrenti: la moglie, gli animali della campagna, la città… A conferma di ciò vi è la
poesie Trieste.
3. Ricerca profonda della verità: lui vuole andare al di là delle apparenze, vuole indagare il senso segreto che sta dietro alle cose; non è però una ricerca con un significato
metafisico (come può essere in Ungaretti), ma la verità che si propone di cercare è terrena e in particolare riguarda l’uomo e le motivazioni profonde del suo agire, che nelle loro
ragioni ultime sono identiche per tutti gli uomini.
4. Psicoanalisi: è lo strumento privilegiato per comprendere la realtà umana; la scoperta della verità più profonda può infatti assumere anche una funzione terapeutica (la sua
poesia è nutrita della conoscenza di Freud).
5. Influenza di Nietzsche: costui aveva smascherato le ipocrisie della morale corrente per svelare gli aspetti più nascosti e inquietanti della psiche umana; infatti Saba rimane
affascinato non tanto dal suo superuomo, ma dalla psicologia contenuta nel suo pensiero.
Temi
1. Amore per la vita: la sua intenzione di cantare –per esempio- la ‘città’ o la ’donna’ in se stesse non indica un intento di mimesi del reale, quanto l’amore per la vita che il poeta
sente o di cui cerca di riappropriarsi (nella poesia Trieste e una donna la città appare strettamente collegata alla donna, e nella poesia A mia moglie, Lina è paragonata ad animali
del cortile, quasi a suggerire un’idea di eros come elemento della natura).
2. La città (Trieste): nelle poesie dedicate all’ambiente triestino si vede lo sforzo di superare un isolamento che nasconde in sé tracce di angoscia e dolore (egli infatti come Svevo
subisce le conseguenze dell’isolamento intellettuale); Trieste è infatti amata per la sua vivacità, ma anche per i luoghi in cui lui può isolarsi.
3. Rapporto con la donna: riguarda il problema della maternità e più in generale della famiglia, coinvolgendo la situazione difficile vissuta durante l’infanzia (abbandono del padre e
durezza della madre); nella moglie egli cerca anche un sostituto dell’immagine materna, mentre altrove la figura femminile sembra ricalcare quella della donna-amante e della
donna-fanciulla.
4. Componente autobiografica: è fondamentale, tanto da dare il titolo ad una sezione della raccolta. L’infanzia in particolare assume un’importanza decisiva, come momento
centrale della formazione dell’individuo. Dall’infanzia poi si dipartono i principali motivi sviluppati nel canzoniere: l’eros come elemento della natura e il riconoscimento delle pulsioni
inconsce, che può avere una funzione terapeutica.
5. Legame tra gioia e dolore: i due momenti possono anche scindersi: al godimento della gioia, all’amore, può sostituirsi l’angoscia più cupa; il poeta continua a vivere in questo
sdoppiamento: gioia e dolore sono considerati entrambi elementi costitutivi e compresenti nell’esistenza individuale e collettiva. Anche la sua idea di umanità nasce dal dolore, dalla
malattia psicologica che affonda le sue radici nell’infanzia del poeta: da qui il motivo della sincerità e del bisogno di fare chiarezza.
Caratteristiche formali
1.Rifiuto delle tendenze contemporanee: egli scrive basandosi prevalentemente sui libri della tradizione scolastica e ignorando le sperimentazioni contemporanee del primo
Novecento. E’ questo il limite della sua poesia: negli anni delle avanguardie egli adotta schemi poetici del passato come l’uso della metrica regolare, la ripresa delle rime e il
linguaggio quotidiano caratterizzato da costrutti tradizionali e termini desueti.
2. Distanza da Ungaretti e Montale: la poetica dell’Ermetismo gli rimarrà sostanzialmente estranea, rifiutando un’espressione deliberatamente difficile; il poeta si propone di cogliere
gli stati d’animo e le impressioni delle cose che descrive, andando alla ricerca di significati più profondi, utilizzando però chiarezza espressiva e un lessico volutamente povero e
comune.
3. Linea “antinovecentista”: pur vivendo nel cuore del Novecento, la sua poesia è stata definita “antinovecentista” in quanto rifiuta le più vistose innovazioni della ricerca poetica del
proprio tempo.
TRIESTE
Trieste è una poesia che Umberto Saba dedica alla sua città natale.
Metrica: strofe irregolari di endecasillabi, settenari e quinari (ad eccezione del v. 19) liberamente disposti. Numerose le rime baciate.
"Trieste" è la prima poesia di Saba che testimonia la sua volontà di cantare Trieste proprio in quanto tale, e non solo come città natale. Saba ama osservare la realtà che gli sta
attorno, che lo circonda.
Prima strofa: il poeta descrive la strada in salita che conduce alla collina affollata, vivace, rumorosa all'inizio e sempre più solitaria alla fine. Percorrendo la strada giunge in un
piccolo spazio chiuso da un muricciolo, "un cantuccio" che segna il confine della città e lì il poeta siede solo ma non diviso dal mondo che ama.
Seconda strofa: Qui paragona Trieste a "un ragazzaccio aspro e vorace", facendola diventare un personaggio vivo e autonomo. Il ragazzo possiede una grazia innata, una bellezza
spontanea e naturale; i suoi "occhi azzurri", che riflettono il colore del mare di Trieste, evocano tenerezza. Le sue mani sono grandi per compiere atti gentili (come regalare un fiore)
ma dietro questa apparenza si nasconde una grande dolcezza. Questo contrasto viene identificato dal poeta come un amore tormentato dalla gelosia. Dall'alto della salita che gli
consente di avere una visione panoramica di tutta la sua città, gli pare che "ogni chiesa, ogni via", "l’ingombra spiaggia" e "la collina", gli appartengano e che sono avvolti nell' “aria
natia” che è anche un'aria strana e tormentosa.
Terza strofa: Dalla sua postazione, il cantuccio, ossia una difesa o un riparo protettivo in poeta fa le sue riflessioni, osserva la vita intorno senza farne parte, ma senza neppure
sentirsi estraniato. Sa di poter trovare nella città uno spazio adatto alla sua vita "pensosa e schiva".
Livello lessicale: Trieste nella prima strofa viene identificata con il termine "la città" (nome comune di cosa), nella seconda assume il nome proprio e nella terza "la mia città".
Questa differenza serve a indicare il passaggio da una visione oggettiva a una soggettiva.
Questo componimento esprime il sentimento e il legame, anche contraddittorio, di Saba nei confronti di Trieste, la città («la mia città», v. 23) in cui è nato («Intorno / circola ad ogni
cosa…l’aria natia», vv. 19-22) e in cui vive. In questa città, «che in ogni parte è viva» (v. 23), il poeta riesce a trovare, dopo aver «salita un’erta» (v. 2) e quindi da un’altura, che gli
offre una vista privilegiata, un «cantuccio» in cui può confrontarsi con la propria solitudine.
Nel raccontare Trieste, allo stesso tempo «popolosa» e «deserta» (v. 3), Saba le attribuisce caratteri umani (possiede un’ossimorica «scontrosa / grazia», assomiglia a un
«ragazzaccio aspro e vorace» che goffamente non riesce, con le sue «mani troppo grandi» a «regalare un fiore», è come un innamorato geloso).
Ai vv. 12-13 Saba utilizza la rima «fiore / amore», che nel compimento Amai celebrerà come «la più antica difficile del mondo», segno di una poesia che, attraverso un linguaggio
semplice, può esprimere significati profondi.
Figure retoriche: Oltre alla personificazione relativa alla città, le figure retoriche più rilevanti sono i numerosi enjambement (si vedano i vv. 5-6; 8-9; 11-12; 15-16), il chiasmo al v. 3
(«popolosa in principio, in là deserta»), il poliptoto dei vv. 6-7 (termina / termini), l’ossimoro dei vv. 8-9 («scontrosa / grazia»), la similitudine al v. 10 («come un ragazzaccio») e al v.
13 («come un amore»), l’anastrofe ai vv. 15-16 («Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via / scopro»), l’iperbato ai vv. 19-20 («Intorno / circola ad ogni cosa»), la ripetizione ai vv. 21-
22 («un’aria…un’aria…l’aria») e l’ipallage ai vv. 24-25 («alla mia vita / pensosa e schiva»).
Spiegazione per parole
Erta: altura, strada in salita che porta alla collina.
Aspro: rude.
Vorace: ingordo, goloso.
Un amore con gelosia: un amore tempestoso, turbato, pieno di inquietudine, di contraddizioni, di tormento. (Simile ai vv. 51-52 della poesia A mia moglie).
Mena: conduce.
Ingombrata: affollata, piena di bagnanti.
L'aria natia: aria di casa.
Pensosa e schiva: questo modo di accoppiare gli aggettivi è forse derivato da Leopardi (si pensi ad esempio agli occhi di Silvia, "ridenti e fuggitivi"). Saba li usa per descrivere e
accentuare il suo carattere chiuso e prudente.
GIUSEPPE UNGARETTI (1888-1970)
Giuseppe Ungaretti nacque l’8 febbraio 1888 ad Alessandria d’Egitto da genitori lucchesi, emigrati in Egitto al tempo dei lavori per lo scavo del canale di Suez.
Si recò a Parigi per studiare, e durante questo periodo venne a contatto con l’ambiente del simbolismo francese, che influì molto sulla sua formazione.
Ritornato in Italia, Giuseppe Ungaretti partecipò come soldato alla Prima Guerra Mondiale.
Terminato il conflitto, si stabilì a Roma per poi trasferirsi in Brasile ad insegnare letteratura italiana, e lì per errore di un medico, gli morì il figlio. Successivamente Giuseppe
Ungaretti ritornò in Italia per insegnare letteratura moderna all’Università di Roma. Morì a Milano nel 1970.
La poetica di Ungaretti
Giuseppe Ungaretti concepisce la poesia come strumenti di conoscenza della realtà; infatti egli ritiene che la conoscenza della realtà interiore ed esteriore della coscienza non si
raggiungono per via razionale o scientifica, ma per via analogica; questa via appunto consente di scoprire le relazioni esistenti tra gli esseri umani e perviene alla coscienza di
sentirsi in armonia con l’universo alla percezione dell’assoluto e alla fede di Dio.
Quindi la sua poesia contiene la storia dell’itinerario del poeta: dall’angoscia esistenziale, che deriva dal senso di dolore, alla fede in Dio; dalla condizione di “uomo di pena” alla
condizione di “uomo di fede”.
Questa sua ideologia spiega il titolo “Vita di un uomo” che egli assegnò alla raccolta delle sue opere.
Naturalmente per poter ricercare l’autenticità dell’essere, Giuseppe Ungaretti necessitava di un’espressione adeguata, che la individuò nella parola nuda, scabra ed essenziale, che
riconduceva alla purezza e freschezza delle origini dell’uomo.
vita e opere d Giuseppe Ungaretti
Lo svolgimento dei contenuti e delle forme
Le raccolte principali di Giuseppe Ungaretti sono:
- “Il porto sepolto”, scritta nel 1916, contiene le poesie scritte sul fronte di guerra in trincea su pezzi di carta occasionali. Il titolo allude ad un porto reale nei pressi di Alessandria, e
ha un significato simbolico: infatti il porto sepolto è il mistero, l’assoluto, alla cui ricerca il poeta si pone per potervi approdare come in un porto di pace.
- “L’Allegria”, scritta nel 1932, che contiene le liriche del “Il porto sepolto”. Anche questo titolo è allusivo: la guerra infatti è come un naufrago della vita; i superstiti del naufragio sono
presi da una sorta di ebbrezza per lo scampato pericolo e superano il dolore con la fede e la speranza di un domani migliore.
In queste poesie sono raccolte le impressioni della Prima Guerra Mondiale.
I temi fondamentali sono: Il sentimento dell’attaccamento alla vita spinge il poeta a scrivere lettere piene d’amore quando appunto è costretto a passare una nottata vicino a un
compagno massacrato (Veglia); il cuore impietrito dal dolore, divenuto simile alla pietra refrattaria del San Michele, indurita dal sole (Sono una creatura); il cuore straziato dalle case
sbriciolate dalla guerra, per la morte di tanti che gli corrispondevano (San Martino del Carso); il sentimento della precarietà di vita (Soldati), ecc.
Al contrario di D'annunzio, Giuseppe Ungaretti sente la guerra non come una occasione di esaltazione patriottica, ma come una fatalità inevitabile, certa, che si abbatte sulla gente
d’Italia, la quale la subisce con rassegnazione, con semplicità di gesti e parole.
Una forma libera e antiretorica
Per poter esprimere la sua condizione umana di combattente diseroicizzato, Giuseppe Ungaretti lo fa in poesie brevi, ridotte a semplici connotazioni ma dense di significato: esse
rappresentano poesie da meditare, poesie profonde.
Per poter esprimere queste impressioni, si avvale di versi liberi, di parole semplici, essenziali.
Inoltre, ricorre ai mezzi tecnici utilizzati dai simbolisti e futuristi: per esempio l’accostamento paratattico, l’abolizione della punteggiatura, impiego di spazi bianchi e di pause, uso
dell’analogia e sinestesia.
Le meditazioni sulla poesia e sull'uomo
Terminata la guerra, Giuseppe Ungaretti continua la sua meditazioni sulla poesia e sulla condizione dell’uomo. La meditazione sulla poesia lo porta al recupero dell’endecasillabo e
del settenario. Questa scelta è utilizzata dal poeta principalmente per poter comunicare agli uomini le sue scoperte di essere il poeta “veggente”, teorizzato dagli stessi simbolisti.
- “Il sentimento del tempo”, anche questa opera ha un titolo allusivo; si riferisce infatti allo scorrere del tempo, del rapido fluire delle cose, delle persone amate che produce
nostalgia del passato e quindi un notevole attaccamento alla vita. Appare inoltre anche l’altro tema della raccolta, ossia il sentimento in Dio.
L'ultimo Ungaretti
Dal 1940 al 1946 Giuseppe Ungaretti scrive alcune poesie raccolte in “Il dolore” e traggono origine da due esperienze dell’autore: la prima riguarda la morte del figlio; la seconda
riguarda la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, che ispira al poeta un messaggio di amore e solidarietà tra gli uomini.
Le altre raccolte (come “La terra promessa”, “Taccuino del vecchio”, “Un grido di paesaggi”) trattano sempre temi di dolore, del tempo, di Dio.
In particolare “La terra promessa” ha come tema la storia del viaggio avventuroso di Enea. Dell’intero progetto, però, restano solo alcuni frammenti, come “i Cori” che descrivono gli
stati d’animo di Didone.
Considerazioni conclusive
Ungaretti è oggi considerato uno dei più grandi poeti contemporanei.
Egli è il creatore di un linguaggio poetico nuovo, aderente meglio al sentimento del poeta.
L’utilizzo dell’endecasillabo e del settenario da un connotato preciso alla sua posizione che è quella di un “classicismo moderno”. Questo spiega il suo amore per Petrarca e
Leopardi.
La funzione della poesia: Attraverso il titolo Vita d’un uomo, Ungaretti vuole evidenziare il carattere autobiografico della raccolta, proponendo la sua opera poetica come una sorta di
nuova e versificata “ricerca del tempo perduto” (riferimento a Proust). Secondo Ungaretti, l’opera d’arte può essere tale solo attraverso una confessione. Il carattere autobiografico
dell’opera dunque va spiegato attraverso la concezione di opera d’arte di Ungaretti e degli ermetici. Per gli ermetici, letteratura e vita sono strettamente connesse tra loro e la
letteratura ha un ruolo privilegiato perché ha la funzione di svelare il senso nascosto delle cose. La poesia dunque ha il compito di illuminare e illustrare l’essenza stessa della vita.
L'analogia: Per comprendere meglio le novità di questa poesia bisogna prestare attenzione alle novità formali che caratterizzano le prime di raccolte di Ungaretti. Se nelle poesie
pubblicate sulla rivista Lacerba sono alquanto cronachistiche, quelle delle due prime raccolte tendono ad escludere la componente realistica attraverso un’estrema riduzione della
frase alle funzioni essenziali della sintassi e della parola. Questa capacità di sintesi della poesia è conseguita attraverso il mezzo dell’analogia. Tale procedimento va oltre la
simbologia e le metafore utilizzate dalla letteratura precedente. Ungaretti sostiene infatti che la letteratura dell’Ottocento aveva cercato di conoscere il reale in modo analitico,
istituendo collegamenti chiari e immediatamente comprensibili tra i concetti. Ungaretti sostiene che questa via metta in evidenza solo gli aspetti immediati della realtà, quelli
superificiali, non la loro essenza profonda. Il suo nuovo modo di fare poesia è più rapido, sintetico: egli sa mettere in contatto immagini lontane che apparentemente non hanno un
rapporto tra loro. Solo così il poeta supera “in un baleno” la distanza che separa il mondo della realtà da un mondo divino che rivela il senso delle cose. L’analogia si proponeva di
cogliere il valore evocativo della parola, isolandola nella sua purezza assoluta.
La poesia come illuminazione: È chiaro che Ungaretti ritiene che il poeta sia una sorta di “sacerdote” della parola. La poesia ha un significato magico ed esoterico, e viene spinta
fino ai limiti dell’inesprimibile. Il mistero della vita non può essere spiegato attraverso un discorso disteso e concatenato, bensì può solo essere “illuminato” a tratti, grazie alla forza
di penetrazione della parola poetica. La parola assume il valore di una improvvisa “illuminazione” in cui la poesia riesce per un attimo a raggiungere la pienezza dell’essere.
Le vicende editoriali e il titolo dell’opera: Abbiamo tre fasi dell’opera. Un primo gruppo di poesie fu pubblicato con il titoli Il porto sepolto, poi Allegria di naufragi (seconda fase), poi
L’allegria (terza fase).
Il “porto sepolto” equivale al segreto della poesia, nascosto nel fondo di un “abisso” nel quale deve immergersi il poeta. Il secondo titolo, Allegria di naufragi è un’espressione
ossimorica, con Allegria che simboleggia l’ “esultanza d’un attimo” e Naufragi che simboleggia l’effetto distruttivo della morte. La decisione di eliminare il secondo termine è motivato
dalla volontà di sottolineare l’elemento positivo dell’opposizione.
La struttura e i temi: L’opera è suddivisa in cinque sezioni. La prima è intitolata Ultime, la seconda Il porto sepolto e la terza i Naufragi che rinviano ai titoli precedenti; la quarta
Girovago, l’ultima si chiama Prime così nominata perché prelude alla stagione poetica successiva. Vi è una forte componente autobiografica in cui l’uomo incontra la verità, il senso
profondo dell’esistenza. Un gruppo di temi e di immagini si lega all’adolescenza del poeta trascorsa ad Alessandria d’Egitto: il deserto, il miraggio, le cantilene arabe per ricordare
gli egiziani; il mare, il porto, il viaggio legati alla vicenda dell’emigrante. Il discorso si approfondisce poi nei motivi di nomadismo e vagabondaggio. Un momento decisivo è quello
della guerra che offre a Ungaretti gli spunti per una poesia più cruda e sofferta. Ma la guerra gli permette anche di stabilire un contatto con la propria gente e di avvertire la
consapevolezza di una ritrovata identità, così come la guerra lo costringe a vivere nel precario equilibrio tra vita e morte. Nell’edizione definitiva dell’ Allegria il poeta tratterà i temi
che riguardano l’essere e il nulla, la realtà e il mistero, presenza e assenza, gesto e immobilità. La tematica del naufragio si collega al motivo del viaggio, come simbolo di una
presenza della morte sempre latente.
VEGLIA
La poesia è composta di due strofe, la prima di 13 versi e la seconda di 3 versi. Si tratta di versi liberi e nel testo ci sono delle rime (es. nottata-digrignata-penetrata vv. 1, 6 e 10);
dominano suoni duri grazie alla presenza di lettere come l, t e anche la scelta delle parole trasmette tutta la violenza e l’angoscia della situazione vissuta dal poeta. La pausa che
divide la prima dalla seconda strofa serve a enfatizzare il sentimento potente di attaccamento alla vita provato dal poeta.
In questa poesia l’atmosfera è creata dalla presenza della luna, in un richiamo leopardiano, che è probabilmente l’ultima cosa contemplata dal soldato, compagno di Ungaretti, che
ormai ha perso la vita brutalmente. La sofferenza è data dai denti digrignati e dalle mani rosse e gonfie, gli occhi rivolti alla luna quasi a domandare: perché? Perché la morte,
perché la sofferenza?
Intanto Ungaretti è lì, accanto al corpo, che veglia il compagno e vede da vicino la morte: violenta, mostruosa, brutale, permanente. Proprio in quel momento emergono sentimenti
positivi nel poeta, in contrasto con la morte che vede lì, palese; la bellezza della vita spinge Ungaretti a cantarne le gioie scrivendole.
Il silenzio è la sola cosa che accomuna i due opposti, vita e morte. Le parole hanno un ritmo spezzato, quasi a voler concretizzare lo strazio provato dal soldato, la contrazione della
sua bocca, le mani rovinate e deformi. La morte del soldato viene ascoltata e accolta dal poeta, che con le sue parole prova a dare voce a ciò che voce non ha, la fine di tutto.
Sul finale lo slancio positivo di Ungaretti che, proprio perché davanti ai suoi occhi vede chiaramente la morte e lo strazio che ne deriva, ama la vita più che mai.
Figure retoriche
Le immagini, così come le emozioni, sono ridotte all’essenziale come è tipico della poesia ungarettiana. Dopo aver descritto il paesaggio desolato e montuoso del Monte San
Michele, il poeta, nella seconda strofa, introduce il secondo termine di paragone in seguito alla ripetizione dell’incipit: “ il mio pianto che non si vede”, passando così dalla pura
descrizione paesaggistica a una dimensione interna, più umana e introspettiva.
Con un’efficace similitudine, l’animo del poeta viene dunque paragonato alla pietra fredda e dura che caratterizza le catene montuose friulane. Ungaretti pone i sentimenti del lettore
in sintonia con la sua sofferenza, ovvero un dolore così totale ed estremo che non possiede neppure più lacrime per essere esternato.
Nei versi finali il poeta passa da una dimensione privata-individuale, quella del soldato che assiste impotente alla tragedia della guerra, a un dimensione universale. Quegli ultimi tre
versi di rara intensità, come ce ne sono pochi nella poesia italiana, sembrano narrare un’estrema verità universale della storia umana.
La morte
si sconta
vivendo.
Soltanto tre versi che hanno il valore di una sentenza, un’asserzione spietata, lapidaria.
Con queste parole Giuseppe Ungaretti sottolinea l’impossibilità umana di sfuggire al dolore che caratterizza l’esistenza. È infatti attraverso il tortuoso percorso della vita, sottolinea il
poeta, che l’essere umano sconta realmente il destino di morte cui tutti siamo destinati.
La conclusione di Sono una creatura è tragica, ma al contempo consolatoria: il poeta osserva che in realtà l’essere umano paga il sollievo offerto dalla morte con le sofferenze
scontate nel corso della vita. La morte dunque, a giudizio di Ungaretti, assume un significato positivo rispetto alla vita che - per il poeta duramente provato dalla guerra -
rappresentava il vero inferno.
È chi resta vivo, osserva nella conclusione il poeta, l’unico che deve fare i conti con la morte. Attraverso la contrapposizione ossimorica tra morte/vita, Ungaretti pone l’accento sulla
morte che, paradossalmente, è una faccenda che riguarda solo coloro che sono in vita e dunque percepiscono l’angoscia, lo struggimento, della propria mortalità.
Figure retoriche:
Similitudine = “Come questa pietra” (v. 1 e 9);
Assonanza= “pietra-fredda”; “prosciugata-refrattaria-disanimata”;
Allitterazioni = delle consonanti “t” ed “r”: “questa pietra; prosciugata refrattaria”;
Anafora = “così…così,” posta all’inizio di più versi (vv. 3-7);
Anastrofe = “come questa pietra / è il mio pianto” (vv. 9-10);
Epifonema = “La morte si sconta vivendo”, un’asserzione che ha valore di sentenza, ogni giorno con la nostra sofferenza paghiamo un tributo. (vv. 12-14);
Enjambement = vv. 1-2; 7-8.
Climax ascendente = “fredda, dura, prosciugata, refrattaria, disanimata”.
Ossimoro = la contrapposizione tra morte/vita data da “morte” e “vivendo” (vv. 12-14).
I FIUMI
La poesia di Ungaretti è come un grandissimo ricordo, un ripercorrere la sua vita dall’inizio fino al momento in cui il poeta sta scrivendo. Nascita, infanzia, adolescenza e, infine,
la guerra: quattro sono i fiumi che il poeta associa a queste quattro fasi della sua vita. L’ultimo, l’Isonzo, è quello che associa alla guerra e che tutti gli altri sembra portare con/in sé.
Nella prima parte il poeta è seduto durante la notte, si riposa e fissa la luce della luna; in questo momento romantico scaturisce la riflessione sulla sua vita.
Nella seconda parte della poesia il poeta si classifica come solo e unico superstite, sentendosi come fosse una reliquia, un oggetto antico conservato in un’urna d’acqua.
Ungaretti si immerge così nel fiume (c’è qui anche una rievocazione al momento del battesimo, invocato come una sorta di rinascita) e i suoi movimenti per uscire dall’acqua sono
fragili e precari come quelli di un acrobata. Tornando poi vicino ai suoi vestiti, che definisce “sudici di guerra”, si scopre come un abitante del deserto, un beduino, anela il sole e si
prostra per riceverlo. Di tutti i fiumi è proprio l’Isonzo quello in cui il poeta si riconosce fino in fondo e quello che gli fa capire come sia una piccola parte del tutto e dell’immenso
universo. L’esperienza della guerra consente all’uomo di comprendere la propria incredibile piccolezza e gli permette di raggiungere una maggiore consapevolezza di sé.
Nella terza parte della poesia il poeta ripercorre le fasi del suo passato prima della guerra, utilizzando quei fiumi che le rappresentano così come l’Isonzo rappresenta la sua vita in
guerra. Così il Serchio (in provincia di Lucca) rappresenta le sue origini, i posti dove i genitori abitavano prima di andare via per questioni lavorative, così come fecero molti altri
italiani all’epoca; il Nilo, invece, parla dell’infanzia e della prima giovinezza dell’autore, di quell’età in cui aveva molti sogni ma un sentiero ancora non tracciato;
la Senna rappresenta Parigi, la città dove Ungaretti ha studiato e ha compreso che sarebbe diventato poeta; l’Isonzo, infine, che riporta al presente e all’autore che, pur se in
guerra, riesce immergendosi a vivere un attimo di felicità.
Nell’ultima parte della poesia, la quarta, Ungaretti torna al presente pieno di nostalgia e tristezza, paragonando la sua vita alla corolla di un fiore, resa precaria dall’idea della morte
che può sempre affacciarsi, soprattutto vivendo in guerra.
Come le altre poesie di Allegria, I fiumi è caratterizzata da alcuni elementi tipici della produzione ungarettiana risalente a questa fase storica: anzitutto, il poeta indica il luogo e la
data di composizione del testo, per ancorarlo alla situazione contingente da cui prende vita; la poesia ha un forte contenuto autobiografico; la sintassi è frammentata in unità minime
(i “versicoli”).
Figure retoriche:
Enjambements: sono numerosissimi, a causa della sintassi particolarmente frammentata dell’intera poesia, tanto che alcuni versi sono composti esclusivamente da una parola o
due parole.
Anafore: “questi”, “questo”, “questa” (anafora con polittoto ai vv. 45, 47, 52, 57, 61, 63).
Metafore: “questa dolina / che ha il languore / di un circo” (vv. 2-4), “in un’urna d’acqua” (v. 10), “una docile fibra / dell’universo” (vv. 30-31), “ma quelle occulte / mani / che mi
intridono” (vv- 36-38, è anche una personificazione).
Personificazioni: “questa dolina / che ha il languore” (vv. 2-3), “il Nilo / che mi ha visto” (vv. 52-53), “quelle occulte mani” (v. 36).
Sineddoche: “le mie quattr’ossa” (v. 17)
Similitudini: “come una reliquia” (v. 11), “come un sasso” (v. 19), “come un acrobata” (v. 19), “come un beduino” (v. 24).
Analogia: “che ha il languore / di un circo” (vv. 3-4)
SAN MARTINO DEL CARSO
La tematica
La spaventosa realtà della guerra e della morte è espressa mediante un'analogia, le macerie del paese di San Martino diventano il simbolo del cuore del poeta e del suo dolore. Lo
strazio per l'orrore della guerra è espresso dalle case, metaforicamente ridotte a qualche brandello di muro. Di tanti soldati uccisi non è rimasto neppure un brandello del corpo, mu
tutti sono vivi nell'animo e nel ricordo del poeta.
Lo stile
La parola isolata nel versicolo e la sintassi elementare creano un sistema di parallelismi mediante l'uso insistito dell'iterazione. Ogni strofa incomincia con una maiuscola, ma per la
mancanza di punteggiatura è difficile dire se si tratta dell'inizio di un nuovo periodo o della continuazione del precedente. Le maiuscole funzionano come soli simboli grafici e non
sono indicatori di sintassi.
Commento San Martino del Carso
Questa lirica si basa sull'identificazione tra il cuore straziato del poeta e la distruzione di San Martino. Ungaretti rappresenta la devastazione del paese attraverso la METAFORA
“qualche brandello di muro”, mentre dicendo “ma nel cuore nessuna croce manca”, ci comunica che IL RICORDO DEGLI AMICI MORTI E’ PRESENTE IN LUI E RIMARRA’ PER
SEMPRE VIVO, PROPRIO COME IN UN GRANDE CIMITERO. Come tante altre, anche questa poesia nasce dalla devastante esperienza della Prima Guerra Monidale, che viene
presentata come una violenza che non risparmia niente: NE’ LE CASE, NE’ LE VITE UMANE E NEANCHE IL CUORE, DOVE COLPO LASCIA UNA PIAGA INSANABILE.
Analisi San Martino del Carso
San Martino del Carso è una poesia di Ungaretti facente parte della raccolta ‘Il porto sepolto’.
San Martino era una frazione di un paesino friulano, simbolo della resistenza locale contro le truppe dell’impero austro-ungarico e, durante la prima guerra mondiale, venne raso al
suolo dalle bombe austro-tedesche.
Questa poesia presenta al lettore l’immagine di un paese distrutto dalla guerra; viene descritto un paesaggio di macerie e di rovine, che viene quasi umanizzato con l’uso di
sostantivi come ‘brandello’ in relazione a ‘muro’, quando normalmente questo termine si riferisce alla carne o alla stoffa.
Dopo aver descritto nella prima strofa il paesaggio, nella seconda Ungaretti si sofferma col pensiero sui molti compagni caduti; se del paese era rimasto qualche brandello di muro,
do loro al poeta non resta nulla.
Ad impedire che essi vengano del tutto dimenticati restano tante croci, che trasformano il cuore del poeta in una sorta di cimitero.
L’ultima strofa presenta un’analogia tra il ‘paese’ e il ‘cuore’ del poeta, che viene definito come ‘il paese più straziato’.poesia San Martino del Carso di Ungaretti
Questa immagine finale del cuore afflitto richiama quella iniziale del brandello di muro, racchiudendo all’interno di tutto il componimento un forte senso di dolore.
In sé, la poesia descrive una sorta di “morte della vita”: l’organo vitale per eccellenza, il cuore, viene paragonato ad un cimitero, luogo di morte.
Tutta la poesia, lungo le quattro strofe composte da versi liberi, presenta un linguaggio agevole e piano, fatto di parole comuni.
La lirica è molto breve e compatta, grazie al rigore che ha avuto l’artista nella composizione, collocando le parole secondo precise simmetrie, ravvisabili anche nella misura delle
strofe, raggruppate a due a due, e composte da un numero uniforme di versi. I temi sono quello del rifiuto della guerra, la sofferenza e la morte.
Lettura connotativa: livello metrico-ritmico
Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, a 24 anni si trasferisce a Parigi dove studia letteratura e conosce importanti intellettuali. Nel 1915 quando scoppia la
Prima Guerra mondiale torna in Italia e si arruola volontario nell'esercito partendo per il fronte del Carso. Durante la sua esperienza in guerra compone numerose poesie giovanili
evidenziando l'intensità degli orrori della guerra. Nel 1936 accetta la cattedra a San Paolo in Brasile finché, alla morte del figlio Antonietto, di soli 9 anni, Ungaretti torna in Italia e si
stabilisce a Roma dove insegna all'Università e muore nel 1970.
Il nome con cui è definito lo stile di Ungaretti è Ermetismo, che fa parte della corrente filosofica/culturale del Decadentismo e consiste nel racchiudere in pochi versi l'essenza di ciò
che il poeta ha sentito o pensato; per Ungaretti,infatti, la poesia e la vita sono strettamente intrecciate tra loro. Secondo Ungaretti, le parole del poeta devono essere poche ma
ricche di significato, cercate con cura come se fossero un distillato di verità.
Intenzione comunicativa del poeta: tematiche presenti
In questa poesia, Ungaretti esprime un senso di desolazione e di distruzione totale di fronte alle rovine del suo paese che sente corrispondere a quella delle persone che egli ama il
cui ricordo é nel suo animo.
Versi : sembrano liberi ma in realtà ricomponendoli, si ottengono sempre versi regolari;
Strofe: in apparenza, sembrano 3 ma i realtá sono divise da pause riflessive
Rime perfette : non sono presenti
Rime imperfette :
assonanze ( rimasto-corrispondevano-tanto-straziato )
Vocali : a,e,o ( nella prima parte che danno immagini di distruzione totale ) i,o,u ( nella seconda parte che esprimono ricordi dolorosi che restano nel cuore )
Consonanti : s,t ( sensazioni di disagio nella prima parte ), r,t,c ( sensazione di tristezza e dolore nella seconda parte )
Ritmo : lento a causa di numerosi enjambement, non sono presenti segni di punteggiatura ( tipico del movimento letterario dell'Ermetismo ), sono presenti spazi bianchi che
rappresentano pause riflessive.
Termini : tecnici
Figure retoriche : figure di suono :Allitterazioni : queste-rimasto; tanti-tanto
figure di sintassi :Enjambement : verso 1-2; 3-4; 6-7; 7-8; 9-10; 11-12Inversione: verso 11 ( é il mio cuore )Ripetizioni : non é rimasto, cuore
Figure di significato :Analogie/corrispondenze : il poeta fa corrispondere la distruzione e la devastazione che ha provocato la guerra con le persone che egli amava ma ora non ci
sono più.
MATTINA
Spesso quando si va ad analizzare questa poesia si sottovaluta il titolo che, però, è assolutamente fondamentale ed è parte integrante della lirica.
Il titolo "Mattina", o meglio il mattino, è il momento in cui la luce nascente vince le tenebre della notte, e rivela le cose prima adombrate dal buio. Quella luce che svela tutto, dà il
senso dell'immensità.
Metaforicamente, può essere Mattino, anche la folgorazione del poeta che scopre la sua ispirazione, e gli detta verità nuove e non ancora pensate, lo porta alla ricerca di parole
chiave che, nella loro brevità esprimano tutti i significati possibili (immensi, quindi, perché inesauribili).
Il messaggio che la lirica vuol comunicare è la fusione di due elementi contrapposti:
- da una parte il singolo, ciò che è finito (l'autore);
- dall'altra l'immenso, ciò che respira in una dimensione d'assolutezza.
Straordinaria per concisione, essenzialità, potenza evocativa ed espressiva, questa brevissima lirica è composta da due soli versi-parola, dal momento che le elisioni fondono nella
pronuncia il pronome e la preposizione in un'unica emissione di fiato con il verbo e il sostantivo.
Figure retoriche
Sinestesia = "M'illumino d'immenso" (vv. 1-2).
La lirica è costruita su un'unica sinestesia analogica, che mette in connessione campi diversi della percezione: la vista e il tatto, perché la luce oltre a vedersi è anche calore; e
l'olfatto, perché è apertura all'aria fresca del mattino (la lirica si intitola Mattina); e l'udito, perché l'immensità è eco e silenzio. L'altra connessione è tutta interiore, in quanto
l'immensità è il luogo dello spirito in cui si acquietano tutti i desideri di infinito e di eterno dell'uomo.
L’analogia pone quindi in stretta relazione il finito, rappresentato dal poeta nella sua pochezza d'uomo, e l'infinito, rappresentato dall'immensità in cui terra, cielo e mare si fondono
e confondono, così come il pronome "mi" che richiama l'individualità del poeta e della sua personale esperienza, attraverso l'elisione, è fuso e confuso con la luce che lo proietta
nella dimensione dell'assoluto.
Commento
Scritto nel 1917, il brevissimo testo è confluito nell'Allegria con il titolo definitivo di Mattina, mentre in alcune stampe precedenti aveva quello di Cielo e Mare. Questo primitivo titolo
aiuta ad attribuire il giusto significato al testo: Ungaretti si alza di mattina, in riva al mare; qui il poeta s'illumina perché assiste al sorgere del sole, la cui luce si riflette sul mare.
L'idea di immenso scaturisce invece dall'impressione che cielo e mare, nella luce del mattino, si fondono in un'unica, infinita chiarita.
Fa parte dell'ermetismo e con questa poesia Ungaretti ha voluto esprimere tutto l'entusiasmo del nuovo giorno, la sua gioia nel vedere il mondo al mattino. Ciò che produce la
sensazione di magia non può essere spiegato, altrimenti perderebbe il suo fascino e secondo molti esperti in letteratura questa poesia è più vera e piena di significati che alcuni
romanzi. Bisogna tenere conto che a quanto pare l'ispirazione per questa poesia Ungaretti l'ebbe durante il servizio militare, quando un mattino scorse dalla sua postazione nei
pressi di Trieste in montagna il sole riflesso nel mare adriatico che diventa così un annuncio di speranza, e volge il pensiero dalle brutture della guerra alle bellezze del creato. Egli
ha voluto così esprimere con due parole la gioia di immergersi nella bellezza del creato dopo il frangente doloroso della guerra, quando tornò dal fronte con i suoi amici martoriati.
SOLDATI
Il titolo è indispensabile per interpretare correttamente il significato del testo: Ungaretti ricorre al procedimento analogico[1] e rende affini la vita dei soldati e le foglie in autunno,
accomunate dalla fragilità.
Questo componimento esprime l’ansia quotidiana dei soldati per la loro condizione precaria, paragonabile a quella delle fogli secche sui rami nella stagione autunnale, e l’angoscia
per una morte che può essere imminente.
Tuttavia, il titolo al plurale e l’apertura con un «Si» impersonale rendono il contenuto della poesia universale e collettivo: Ungaretti non vuole descrivere la propria vicenda, ma una
condizione generale, che riguarda tutti gli uomini accomunati dall’esperienza bellica.
Come la poesia Mattina, anche Soldati è diventata una delle più note di Ungaretti per la sua brevità, per la volontà di rendere la parola pura ed essenziale in pochissimi versi.
Il testo è costruito su un’anastrofe[2] che trasmette l’idea di attesa e sospensione.
Soldati Ungaretti Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie è il testo di uno dei più noti componimenti poetici di Giuseppe Ungaretti (Soldati).
L’immagine delle foglie autunnali come segno della fragilità dell’esistenza si trova già nell’Iliade di Omero («Tal quale la stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini. / Le foglie il vento
ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva altre ne germina in primavera», vv. 146-147, libro VI), e verrà ripresa dal poeta greco Mimnermo («Al modo delle foglie che nel
tempo / fiorito della primavera nascono / e ai raggi del sole rapide crescono, / noi simili a quelle per un attimo / abbiamo diletto del fiore dell’età, / ignorando il bene e il male per
dono dei Celesti»), Virgilio («Quante nei boschi al primo freddo d’autunno / si staccano e cadono le foglie», Eneide, libro VI, vv. 309-310), Dante («Come d’autunno si levan le foglie
/ l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie», Inferno, canto III, vv. 112-114).
Soldati – Figure retoriche
[1] – L’analogia è un procedimento che mette in relazione due termini dal significato differente eliminando i nessi logici e lasciando all’intuizione del lettore l’interpretazione del
legame creato tra i due elementi. Secondo alcuni autori, l’analogia non è di per sé una figura retorica vera e propria, ma un procedimento che si serve di strumenti quali la metafora
e la similitudine, figura retorica che in effetti può essere ravvisata in questo breve componimento.
[2] – L’anastrofe è una figura retorica che consiste nell’inversione dell’ordine normale di un gruppo di parole.
È anche presente la figura retorica dell’enjambement (vv. 1-2, 2-3, 3-4).
SALVATORE QUASIMODO p. 212
La vita: Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa) nel 1901, figlio di un capostazione, trascorre l'infanzia e l'adolescenza in vari paesi della Sicilia a causa degli spostamenti
del padre. Dopo aver conseguito il diploma di geometra, ottiene un impiego nel Genio Civile e intanto coltiva gli studi letterari e classici. Durante la sua vita svolgerà le mansioni più
disparate (commesso, disegnatore tecnico, contabile, impiegato presso il genio civile) poi dal 1939 insegnerà letteratura italiana al conservatorio di musica di Milano. Durante un
soggiorno fiorentino, il cognato Elio Vittorini lo presenta al gruppo di letterati che collaborano alla rivista Solaria, sulla quale vengono pubblicate le sue prime poesie. Nel frattempo si
avvicina ai poeti ermetici e ne condivide le caratteristiche letterarie. Risentono fortemente dell'Ermetismo infatti le sue prime raccolte di versi, Acque e terre, Oboe sommerso, Erato
e Apollion e Nuove poesie. Il secondo dopoguerra, poi, vede Quasimodo impegnarsi attivamente sulla scena politica e di conseguenza anche le sue poesie diventano strumento di
testimonianza civile e di polemica sociale e assumono toni più discorsivi. Risalgono a questo periodo le raccolte Giorno dopo giorno, La vita non è sogno, Il falso e vero verde, La
terra impareggiabile, Dare e avere. Nel 1959 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura. Muore improvvisamente a Napoli nel 1968.
Poetica:
Quasimodo è l’esponente più importante dell’ermetismo, il movimento poetico spontaneo e capillare che, solo col tempo, ha trovato una sua inquadratura stilistica, basata sul
rovesciamento del decadentismo di D’Annunzio. Etica e estetica, in questa chiave, rivendicano la profonda libertà spirituale dell’uomo e la ricerca di una poesia pura, le cui parole si
ribellano da qualsiasi imposizione esterna.
Nella prima parte della sua carriera letteraria, quella a cui appartiene Acqua e Terre, Quasimodo è influenzato dal panismo dannunziano, esalta il legame con la natura
contrapponendolo più volte al senso di esilio che vive chi sta in città. La Sicilia e il suo mare sono la sua ispirazione.
In questa fase ermetica il poeta inaugura un rapporto strettissimo tra parola, immagine e intimità. Questa prima fase della ricerca ermetica di Salvatore si conclude col volume Ed è
subito sera, nel 1942, nella quale è contenuta la famosissima poesia omonima.
La Raccolta del giorno dopo, datata 1947, è frutto del passaggio di Quasimodo attraverso la guerra. Quest’opera segna il confine tra il Salvatore ermetico a quello attento ai temi
civili e impegnato per il bene dell’uomo. La seconda parte che di Quasimodo emerge non va a rinnegare la prima, anzi, la completa. Il Quasimodo attento ai temi civili scrive in
maniera più aperta, esplicita e argomentata: vuole farsi capire.
Nella prima fase le sue opere prediligevano immagini rarefatte in una Sicilia dal sapore quasi mitico. In seguito, Quasimodo comincia a dedicare i suoi versi a riflessioni dirette,
opponendosi al regime fascista e alla guerra, percepita con orrore.
In ultimo, a prevalere fu il carattere narrativo, spesso legato anche a temi di cronaca. Secondo Quasimodo, la posizione del poeta nella società non può essere passiva, in quanto
egli “modifica” il mondo. Tutto il suo lavoro mira, quindi, a scuotere l’uomo nel profondo ancor più di quanto possano fare la storia o la filosofia. Per Quasimodo la poesia è etica e
scrivere in versi vuol dire subire un giudizio estetico, nello specifico le reazioni sociali che una qualsiasi poesia suscita.
ACQUE E TERRE DI S. QUASIMODO.
Salvatore Quasimodo riuscì a pubblicare la sua prima opera poetica ACQUE E TERRE, a Firenze nel 1930 per le edizioni “Solaria”. L’opera poetica è composta da 25 poesie,
ordinate e selezionate dal poeta per essere pubblicate nella rivista Solaria. In questo modo S. Quasimodo si adeguava alla poetica prevalente dominante degli anni ’30 e cioè alla
poetica dell’ermetismo che era l’unica poetica accettata dal fascismo. Le poesie, che il poeta aveva scritto negli anni precedenti, furono quindi adeguate al clima culturale e politico
del fascismo e dell’ermetismo. La prova evidente di questo adeguamento e selezione è data dalla prima poesia è “ED È SUBITO SERA” che il poeta seleziona da una poesia
precedente molto più lunga e meno intensa. Invece, S. Quasimodo, con questo strappo, le diede uno stile e una tecnica di scrittura tipicamente preermetica o addirittura ermetica.
Infatti i celebri tre versi della poesia sono considerati l’emblema dell’ermetismo. In un certo qual modo, S. Quasimodo si adeguò, nolente o volente, alla politica ufficiale del fascismo
e dell’ermetismo. Infatti tutte le poesie dell’opera ACQUE E TERRE hanno uno stile e una tecnica di scrittura basata sulla essenzialità della parola, sulla brevità dei versi, ricchi di
figure retoriche, quale l’analogia e l’ellissi che conferiscono all’opera poetica una aura, prettamente e volutamente, ermetica, chiusa e personale. I temi della raccolta sono vari e
tutte le poesie sono scritte in prima persona. Hanno quindi un carattere autobiografico e personale, tanto è vero che il libro si può considerare un soliloquio che si può recitare o
declamare a bassa voce in un monologo con sé stesso. I temi dell’opera poetica sono molti e vari, ma si possono raggruppare in 5 gruppi.
Il primo gruppo contiene le poesie dedicate alla nostalgia della Sicilia e dei suoi paesaggi, come le poesie “VENTO A TINDARI”, “ARIETE”, “TERRA”, “SPAZIO”, “SPECCHIO”,
“VICOLO” “I RITORNI”.
Il secondo gruppo contiene le poesie che riguardano la percezione pessimistica della vita passata presente e futura come le poesie “ANGELI” “ALBERO” “ACQUSMORTA”
DOLORE DI COSE CHE IGNORO “MAI TI VINSE NOTTE COSI’ CHIARA”, “RIFUGIO D’UCCELLI NOTTURNI”, “ANCHE MI FUGGE LA MIA COMPAGNIA” e “IN ME SMARRITA
OGNI FORMA” e “ED E’ SUBITO SERA”.
Il terzo gruppo contiene le poesie che trattano il suo rapporto con Dio come nelle poesie “SI CHINA IL GIORNO” “NESSUNO”.
Il quarto gruppo contiene le poesie che esprimono i sentimenti del poeta verso una donna come nelle poesie “E LA TUA VESTE È BIANCA”, “ANTICO INVERNO”, “S’UDIVANO
STAGIONI AEREE PASSARE”.
Il quinto gruppo contiene le poesie che riguardano la descrizione di alcuni ambienti naturali come le poesie: “RIFUGIO DI UCCELLI NOTTURNI”, “FRESCA MARINA” e
“SPECCHIO”.
Molte poesie di ACQUE E TERRE rievocano e rimpiangono la sua fanciullezza passata in Sicilia, che è il tema prevalente e diffuso dell’intera opera. Il linguaggio delle poesie è
abbastanza moderno, ma piegato al rimo e ai versi, pieni di figure retoriche che già fa intravedere l’arte e la tecnica ermetica. Il tono emotivo delle poesie è malinconico, mesto e
triste sia per il rimpianto per la Sicilia e per la fanciulla perduta sia per il pessimismo che circola anche sulle poesie che parlano del presente e del futuro. Il messaggio dell’opera
poetica consiste nell’esprimere il dolore e la tristezza che si provano nell’esilio e nella lontananza dalla terra nativa e nella solitudine della vita presente. L’esilio del poeta è
attenuato dalla presenza di un amore presente ed è mitigato dal ricordo di un amore lontano nel tempo che rischiara e attenua la solitudine dell’esule emigrato dalla Sicilia. Si
riscontrano pochissime reminiscenze letterarie: tracce di Leopardi, Pascoli e Sergio Corazzini come nella poesia “NESSUNO”. Le poesie più belle e celebri, secondo me, sono: “ED
È SUBITO SERA”, “VENTO A TINDARI” “VICOLO” e “I RITORNI”.
ED E' SUBITO SERA
Spiegazione:
‘’Ed è subito sera’’ è una poesia del 1942 scritta da Salvatore Quasimodo, noto poeta italiano del ‘900.
La poesia è formata da tre versi liberi, frutto di un lungo lavoro di sintesi ed esclusione, che rappresentano la parte conclusiva della lirica ‘‘Solitudini’’, che è lunga più di venti versi.
In questa lirica Quasimodo riflette sulla condizione umana e le da una definizione attraverso una riflessione arguta e pungente. Nella perfezione stilistica e nella raffinatezza si può
avvertire l’influenza dei classici greci e latini, ma per la concisione e concentrazione delle parole e per la profondità e centralità dei temi esistenziali la poesia si può definire
appartenente alla scuola ermetica, della quale Quasimodo è stato uno dei massimi esponenti. La lirica intende esprimere il significato della vita di ogni uomo sulla qual incombe
minacciosa la morte.
La tematica che emerge nel primo verso è la solitudine che ognuno prova a causa dell’impossibilità di comunicare come si vorrebbe, nonostante sia circondato di gente;
successivamente Quasimodo introduce le illusioni e la ricerca di una felicità spesso apparente rappresentate dal raggio di sole che anziché evocare vitalità, è simbolo di dolore. La
morte evocata nella sera chiude il componimento rendendo la lirica non solo testimone di solitudine, ma anche di fugacità e brevità di ciò che ci circonda.
temi
Il componimento è un brevissima illuminazione lirica che racchiude in pochi, famosissimi versi, il senso della condizione umana.
Metro: versi liberi :il primo è di dodici sillabe, il secondo è un novenario, il terzo un settenario. Il componimento è inserito della prima raccolta “ Acque e terre” .Il tema affrontato è
quello della solitudine dell’uomo, solo nonostante l’illusione di essere “ sul cuor della terra” di dominare il mondo e l’universo, un’illusione rafforzata dal “raggio di sole” che lo
colpisce nascondendogli la verità della sua condizione; ma è un attimo, ”ed è subito sera”.
Come è tipico della poesia ermetica la situazione descritta è del tutto interiore e esistenziale. Il componimento, nella sua essenziale brevità, esemplifica le intenzioni e i risultati della
ricerca ermetica anche dal punto di vista formale: l’espressione è segnata da significato profondo di ognuna delle parole utilizzate le quali istituiscono tra loro rapporti di intensa
collaborazione analogica ovvero un legame complesso di significati e significanti nel quale risiede il senso ultimo della poesia. Si riflette ad esempio su due parole, cuor e trafitto :
cuor richiama alla mente qualcosa di vivo , di pulsante, e ha un’accezione positiva mentre trafitto ha un’accezione negativa. La misura decrescente dei versi suggerisce il rapido
precipitare della situazione. Questa poesia in origine costituiva la strofa finale della poesia “Solitudini”.
Quasimodo pone l‘accento sulla fulminea immagine di solitudine esistenziale dell’uomo, siglata da fatale e rapido sopraggiungere della morte. Il poeta riesce e condensare in tre
versi tutta la tragedia della condizione umana:
La vita è breve
La sua luce è accecante e intensa
A subito arriva la sera, cioè la morte
Soprattutto, il poeta insiste sulla solitudine sconsolata e senza scampo che non è soltanto dell’uomo ma di ogni creatura. L’uomo viene così escluso da un mondo di sentimenti e di
valori cui è preteso nell'illusione di ritrovare frammenti di se stesso. Nel secondo verso il termine “sole” perde l’accezione positiva e si trasforma in strumento di dolore (trafitto)
mentre il termine “sera” è assunto a metafora della morte. In tal modo sia il sole sia la sera diventano allegoria della perdita e della sconfitta esistenziale.
La poesia Alle fronde dei salici è stata scritta da Quasimodo durante il periodo della guerra contro i nazisti. Quasimodo in questa poesia esprime tutto il suo odio verso gli
oppressori e il sacrificio che fa per voto di non scrivere poesie. Alle fronde infatti sono appese le cetre che i poeti hanno messo da parte per quel periodo in modo da chiedere al
Signore la grazia di far cessare il supplizio nazista.
ALLE FRONDE DEI SALICI: ANALISI
Tra i diversi significati simboli che troviamo in Alle fronde dei salici, c'è quello del "piede straniero", inteso come i soldati tedeschi che freddamente calpestano i sentimenti (il
cuore) di tutto il popolo. Quasimodo inserisce dei riferimenti alla religione, usando altri significati simbolici come la "madre ( Maria) che va incontro al figlio crocifisso (Gesù), oppure
quando usa "l'agnello" come animale per rappresentare i lamenti dei bambini.Quasimodo nelle sue poesie usa molto spesso i riferimenti al Vangelo; questo probabilmente significa
che ha vissuto una vita all'insegna della religiosità. Lo stesso fatto di "fare un voto" è simbolo di sottomissione a un dio, più precisamente, in questo caso, a Dio della religione
Cristiana. Per poi tornare alla realtà, nella poesia, inserisce un elemento che quasi "stona" con i riferimenti biblici: "il palo del telegrafo", messo quasi in antitesi con il "figlio
crocifisso", proprio per accentuare il legame tra il Vangelo e la vita moderna, grazie anche ad un enjambements che divide crocifisso da figlio per metterlo più vicino possibile al
"palo del telegrafo".
La poesia è scorrevole e l'italiano usato è quasi quotidiano, nonostante alcuni significati simbolici e alcune metafore che potrebbero bloccare la scorrevolezza della poesia. Anche la
struttura da una parte contribuisce a rendere immediato il messaggio, poiché essa è quasi assente: le frasi sono scollegate dal punto e immediate; dall'altra, per rispettare la
struttura, l'autore ha collegato insieme più concetti nella stessa frase, rendendola lunga e forse anche un po' di ostacolo alla scioltezza nella lettura.
Per esprimere idee e sensazioni, Montale adopera una tecnica specifica definita “correlativo oggettivo”. Essa consiste nel rappresentare sulla pagina una determinata sensazione o
emozione attraverso alcuni oggetti concreti che dovrebbero suscitare nel lettore ciò che prova il poeta. Il funzionamento del correlativo oggettivo fu spiegato per la prima volta da
Eliot nel saggio “il bosco sacro”, in cui l’autore parla di una situazione, una catena di eventi o una serie di oggetti che hanno la funzione di evocare un’emozione particolare. Montale
recupera la funzione simbolica del correlativo oggettivo, adoperandolo principalmente nelle sue due prime raccolte: “Ossi di seppia” e “Le Occasioni, in cui l’inquietudine
esistenziale del poeta si concretizza e si esprime attraverso i dati sensibili e materiali.
OSSI DI SEPPIA
Nel 1925, in un momento carico di minacciosi eventi storici, in un mondo che, ridisegnato artificiosamente dalla pace di Versailles, pare sul punto di sgretolarsi e dissolversi,
Montale firma il manifesto antifascista di Croce e pubblica il suo primo libro Ossi di seppia. Diversamente da quanto accade nell'opera di altri scrittori (Ungaretti, Gadda) deboli
tracce rimangono della storia, della guerra, nella sua lirica. Pur senza estraniarsi dal suo tempo, bensì andando al di là e al di fuori «di questo e quell’avvenimento storico»,
ponendosi al di sopra dei diversi schieramenti e delle eterogenee tendenze intellettuali, Montale vuole che argomento della sua poesia (e di ogni possibile poesia) sia «la
condizione umana in sé considerata». E materia della sua ispirazione diviene la disarmonia che l'uomo sente con la realtà naturale e storica che lo circonda.
In piena sintonia con la voce, disorientata ed angosciata dall'inettitudine della vita, della moderna cultura italiana ed europea (da Svevo a Pirandello, da Baudelaire al
contemporaneo Eliot), la sua poesia tenta di rompere «la campana di vetro» sotto cui vive il mondo, di spezzare quell'ingannevole schermo di apparenza che quotidianamente
nasconde la realtà e di entrare in rapporto con l'essenza nuda delle cose.
Così in Ossi di seppia il poeta si immerge nell'aspro e brullo paesaggio ligure, sentito «come universalismo» specchio dell'accartocciata e strozzata condizione umana, e con
perplessa e «triste meraviglia», ignorando l'eroica e disperata rivolta del romantico Leopardi, critica, corrode, ma soprattutto interroga «il male di vivere» facendo parlare gli oggetti,
non più le parole.
Trovandosi a respirare un'aria ormai satura di parole e di poesia, Montale, diversamente da Ungaretti e dagli ermetici, non ricerca una parola pura e naturale e non cerca di estrarre
dal linguaggio misteri e segreti nuovi; ma accostandosi alla poetica del «correlativo oggettivo» di Eliot (che troverà piena realizzazione in Arsenio e ne Le Occasioni), cattura gli
oggetti banali, quotidiani, usuali, e li trasforma non in simboli che rimandano a qualcosa d'altro, ma in emblematici equivalenti di un'emozione, di un'intuizione, di una condizione.
La poesia per Montale, infatti, «nasce dal cozzo della ragione contro qualcosa che non è ragione». Così, in Ossi di seppia, a ogni passo lo sguardo del poeta
«fruga d'intorno» ricercando nella realtà concreta, opaca e amara, immobile e fissa, «in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» che è la vita, «uno
sbaglio di Natura, /… l'anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità». Qualunque cosa, la più assurda imprevista e banale, il profumo
dei limoni, un volto che appare all'improvviso in uno specchio d'acqua, può miracolosamente far «balzar fuori» il segreto ultimo, più autentico e profondo dell'esistenza.
Montale, tuttavia, pienamente consapevole dei limiti storici e morali della civiltà contemporanea, dopo il crollo di tutte le verità e certezze positive, sente di appartenere alla «razza di
chi rimane a terra». Rifiuta, quindi, la poesia trionfalistica e celebrativa dei «poeti laureati» Carducci e D'Annunzio, e ogni facile ottimismo consolatorio. Torcendo il collo
all'eloquenza, attraverso un linguaggio in cui l'aulico cozza, secondo la lezione del crepuscolarismo di Gozzano, con il prosastico, Montale offre al lettore come unico messaggio:
«ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
I LIMONI
"I limoni" è la poesia che apre la sezione "Movimenti" della raccolta Ossi di Seppia ed è stata scritta tra il 1921 e il 1922 (COLLEGAMENTO CON MARCIA SU ROMA STORIA);
questa poesia è la prima della sezione d'apertura che si intitola con una metafora musicale. Come sappiamo la musica era molto gradita a Montale e molte delle sue poesie
ricalcano propriamente delle composizioni musicali. Questa poesia fondamentalmente è un manifesto, in quanto Montale dichiara, attraverso questi versi, il suo modo di scrivere, il
suo modo di fare poesia in contrapposizione agli altri poeti e agli altri letterati; è evidente la polemica nei confronti di D'Annunzio
Analisi del testo
Metrica: il componimento è formato da quattro strofe di versi liberi, molti dei quali sono endecasillabi e settenari; la rima è libera, talvolta vi sono delle rime al mezzo.
Montale afferma nella prima strofa di non essere un poeta laureato, incoronato dalla critica o depositario di un ruolo di maestro. Per spiegare la propria diversità, egli confronta il
paesaggio da lui prediletto con quello dei poeti laureati. Mentre costoro preferiscono piante dai nomi ricercati, a lui piace parlare di alberi comuni, come i limoni, nei loro ambienti
quotidiani: i fossi, le pozzanghere, le viuzze, i ciglioni.
La seconda strofa e la terza strofa descrivono il paesaggio in cui crescono i limoni e in cui il poeta si sente a proprio agio: un paesaggio silenzioso e deserto, attraversato da viottoli
di campagna. Qui all’improvviso, può accadere il miracolo: può apparire una presenza rivelatrice, si può incontrare il segreto dell’Essere.
Allora l’uomo ritorna in una sorta di età felice, quando nel mondo si aggirava qualche disturbata Divinità (v.36).
La quarta strofa evidenzia il carattere passeggero di questa illuminazione: il tedio invernale rende amara l’anima, allontana lo stato di grazia. Eppure non tutto è perduto: il finale
della poesia ripropone la possibilità del miracolo, legato all’improvvisa scoperta dei limoni oltre il portone di qualche cortile cittadino.
Il primo verso «Ascoltami, i poeti laureati» è un'invocazione che polemicamente si rifà a D'Annunzio; è chiara infatti l'allusione alla “Pioggia nel pineto” che inizia con «Taci».
Nel verso 22 abbiamo di nuovo un esordio polemico con D'Annunzio, in quanto Montale dice «Vedi», rifacendosi a « Odi» nella “Pioggia nel pineto”.
Nei versi 26-27 e seguenti vi sono alcuni termini interessanti «sbaglio di natura. Punto morto del mondo… anello che non tiene » sono tre termini che costituiscono un esempio
di correlativi oggettivi in quanto rimandano a significati nascosti e cioè a quello che la Natura può sbagliare e, quindi, conseguentemente aprire un varco per far comprendere
all'uomo qualche verità, qualche segreto.
Anche nel verso 28 «filo da di sbrogliare» c'è un richiamo, se vogliamo, alla classicità, al filo di Arianna, come nel verso 29 «verità», scritto con la v minuscola dà l’idea di una verità
non universale.
Il «malchiuso portone» nel verso 43 è di nuovo un correlativo oggettivo.
Commento
Siamo d’estate: il poeta è tornato a trascorrere un periodo di vacanze nelle Cinque Terre, il luogo dove passò i momenti più felici dell’infanzia. Questo ritorno gli ispira in primo luogo
la presa di distanza dai poeti laureati (Pascoli, Carducci, D'Annunzio), in particolare con D'Annunzio, poeta dal linguaggio altisonante e dal lessico scelto o dai paesaggi classici e
dal mito del superuomo. Ad egli Montale contrappone per la semplicità una pianta banale, mai trattata in poesia: il limone. Le parole adoperate dal poeta sono ricavate non dal
gergo della retorica ma dal linguaggio comune.
L'altro piano di lettura del testo è quello simbolista: i limoni rappresentano anche una pianta che è in grado di far interagire tutti i sensi: vista, udito, tatto e quindi un qualcosa che
permette una conoscenza quasi miracolosa della realtà.
Il paesaggio descritto da Montale è un paesaggio campestre, quasi deserto, silenzioso, attraversato da viottoli che coinvolge tutti nostri i sensi: la vista (il colore azzurro), l'udito (gli
uccelli ed il sussurro dei rami), l’olfatto, l'odore (di cui abbiamo diversi espressioni metaforiche). Questo paesaggio che Montale gradisce particolarmente rappresenta il modo di
entrare in una qualche conoscenza della realtà; e infatti adopera il termine «frugare indagare accordate disunire» e cioè quasi le quattro regole dettate da Cartesio il quale afferma:
«non accogliere come vero nulla che non sia stato conosciuto con evidenza, suddividere ciascuna difficoltà ed esaminare tutte le parti in cui è possibile necessario dividerla per
meglio risolverla; condurre con ordine di pensieri iniziando dagli oggetti più semplice più facili a conoscersi per salire progressivamente, come per gradi fino alla conoscenza di
quelli più complessi»;
quindi questi termini servono proprio a Montale per attuare quella operazione di scomposizione del reale per permettere all'uomo di arrivare a una sorta di sua conoscenza anche
se parziale; è un po' l'operazione che abbiamo visto fare a Pirandello per quanto riguarda la prosa “l'arte che scompone il reale” come vediamo nel famoso saggio dell'umorismo.
Figure retoriche:
Assonanza = "laureati / acanti" (vv. 1-3).
Enumerazione = "bossi ligustri o acanti" (v. 3).
Consonanza = piante / acanti (vv. 2-3).
Anastrofe = "agguantano i ragazzi" (v. 6).
Metafora = "le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall'azzurro" (vv. 11-12).
Assonanza = "gazzarre / azzurro" (vv. 11-12).
Metafora = "piove in petto una dolcezza inquieta" (v. 17).
Ossimoro = "dolcezza inquieta" (v. 17).
Metafora = "tace la guerra" (v. 19).
Anafora = "qui" (vv. 18-20).
Metafora = "Lo sguardo fruga" (v. 30).
Metafora = «la mente indaga accorda disunisce» (v. 31).
Metafora = "il giorno più languisce" (v. 33).
Metafora e allitterazione lettera "d" = "disturbata Divinità" (v. 36).
Iperbato = "Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose " (vv. 37-38-39).
Metonimia = "l'azzurro si mostra" (v. 39).
Allitterazione in "t" e assonanza in "a" = "il tedio dell'inverno sulle case, la luce si fa amara, amara l'anima» (vv. 41-42)
Chiasmo = "amara l’anima" (v. 42).
Metafora = "il gelo del cuore si sfa" (v. 46).
NON CHIEDERCI LA PAROLA
Schema metrico: tre quartine formate da versi di varia lunghezza e con rime ABBA, CDDC, EFEF. La rima D è imperfetta perché ipermetra (amico/canicola).
Il componimento è costruito con una struttura circolare. Le strofe 1 e 3 si corrispondono simmetricamente: il primo verso è costituito da un ottonario + un settenario, il secondo è un
doppio settenario, gli ultimi due sono endecasillabi; esse si oppongono perciò alla strofa 2, che si presenta con quattro versi disuguali, rispettivamente di 10-9-12-11 sillabe.
Temi: un paesaggio di aridità e di solitudine – il vuoto dei valori e la mancanza di certezze - l'errore di chi presume di aver capito tutto e di essere padrone della propria vita – il ruolo
della poesia: testimoniare la crisi.
La prima strofa mette in contrapposizione due modelli di poesia:
da una parte il modello della poesia retoricamente intonata dei poeti-vati ottocenteschi;
dall'altra parte, i poeti della nuova generazione caratterizzati da un animo informe: essi perciò non possono offrire una parola risolutiva (al v. 9 Montale riprenderà il concetto,
parlando di formula che mondi possa aprirti): infatti un animo informe non si lascia facilmente definire dalle parole.
Dunque la poesia non può avere una funzione consolatoria, non può più fornire immagini belle ma fini a se stesse, come il fiore splendido di colori in mezzo a un prato polveroso
dei vv. 3-4. I versi di Montale offriranno al lettore solo sillabe – neanche parole – storte e secche (il contrario del fiore lietamente colorato).
La seconda strofa presenta la satira dell'uomo che procede sicuro per la sua strada, nonostante i turbamenti della storia. L’immagine ha almeno due valenze. Anzitutto una chiara
valenza politica (si ricordi che il componimento fu scritto nel 1923): la poesia montaliana divenne all'epoca un punto di riferimento per chi negava il fascismo e i suoi sterili
dogmatismi;
Ma l’immagine dell’uomo-ombra ha un valore anche esistenziale: neppure chi crede di essere agli altri ed a se stesso amico è preservato, in realtà, da un destino di lacerazione e di
fallimento.
Il poeta invece lo sa; egli è, per ora, l’unico consapevole del male di vivere, come Montale riassumerà in un altro osso breve della medesima serie.
Nella terza strofa sono rimasti famosi i due versi finali:
Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Non è più il tempo, dice Montale, dei miti consolatori o dei facili ammaestramenti; dobbiamo prendere coscienza della crisi storica in atto e della debolezza dell’arte stessa.
Sul piano tematico, la prima e la terza strofa affrontano il medesimo argomento, sottolineato dall'identico incipit negativo ( Non chiederci la parola che / Non domandarci la formula
che), mentre la seconda strofa presenta l’immagine (falsamente positiva) dell’uomo che se ne va sicuro.
Dal punto di vista dello stile, la lirica procede con un ritmo meditativo, da ragionamento in versi. Per enunciare la propria verità (la persuasione che non esiste alcuna verità certa) il
poeta utilizza un linguaggio prosastico. Rinuncia perciò alle immagini poetiche, o ne fa poco uso. Una delle metafore presenti nel testo è il " croco /perduto in mezzo a un polveroso
prato": un fiore solitario, che cresce nel deserto del mondo, e che richiama il fiore della ginestra leopardiana. Poetica è anche l’immagine della " storta sillaba e secca come un
ramo", una delle più intense espressioni dell’aridità montaliana.
Commento
Il componimento risale al 1923 e inaugura la sezione intitolata Ossi di Seppia: sono in tutto ventidue brevi liriche, scritte tra il 1921 e il 1925, che diedero poi il titolo all'intero libro.
La lirica è una dichiarazione di poetica; Montale dichiara, come tutti i poeti del 900, ed anche per questo parla al plurale, di non essere in grado di offrire all'uomo, al lettore, un
messaggio forte, un messaggio di certezza, di sicurezza, di verità. Per questo i poeti possono solamente parlare al negativo; possono solamente dare la testimonianza della
sofferenza, del disagio esistenziale che attraversa l'uomo contemporaneo. È da notare, come già abbiamo detto, l'uso del correlativo oggettivo, cioè l'oggetto che simboleggia la
condizione esistenziale del soggetto; inoltre c’è anche l'uso di suoni volutamente allitteranti, per dare l'idea di una sofferenza, di una fatica nell'espressione della propria intimità, del
proprio modo di essere.
Con il suo paesaggio di aridità, e con la sua parodia dell'uomo che se ne va senza problemi, sicuro e che evita di porsi le domande fondamentali, Non chiederci la parola illustra
con ammirevole sinteticità la condizione di solitudine e di amarezza spirituale in cui si muove l’umanità contemporanea. Non solo: Montale aggiunge che è finito il tempo in cui ai
poeti si riconosceva l’ultima parola o la possibilità di soluzioni positive. La poesia di oggi non può che presentarsi come nuda (e fraterna) testimonianza della crisi in atto.
Enjambements: vv. 3-4 (croco/perduto); 7-8 (canicola/stampa).
Metafora: "lettere di fuoco" (v. 2).
Similitudine: "risplenda come un croco" (v. 3).
Similitudine: "secca come un ramo" (v. 10).
Anafora: ripetizione di "Non" a inizio verso (vv. 1 e 9).
Allitterazione della "r": (chiederci, domandarci, croco).
Allitterazione della "p": (perduto, polveroso, prato).
Allitterazione della "s": (sì, storta, sillaba, secca).
Antitesi: "squadri" (v. 1) e "informe" (v. 2).
Antitesi: "croco" (v. 3) e "ramo" (v. 10).
Epifonema: "Codesto solo oggi possiamo dirti,ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Consiste nell'esprimere un motto sentenzioso che, solitamente, chiude con enfasi un
discorso.
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
Meriggiare pallido e assorto è una poesia di Eugenio Montale, scritta nel 1916 e pubblicata per la prima volta nel 1925 all’interno della raccolta Ossi di seppia (nella sezione “Ossi
brevi”).
Erroneamente considerato esponente dell’ermetismo (lo stesso poeta ne prese pubblicamente le distanze), Montale ricevette il premio Nobel per la letteratura nel 1975. Meriggiare
pallido e assorto è una delle sue poesie più famose e più studiate nei programmi scolastici (insieme a Spesso il male di vivere e Ho sceso dandoti il braccio).
Scopriamone insieme parafrasi, analisi metrica e retorica e commento al testo.
Meriggiare pallido e assorto è una delle prime poesie di Montale, scritta nel 1916 e contenuta nella raccolta Ossi di Seppia (1925). Il paesaggio di cui parla è quello
della Liguria estiva — arsa dal sole, bruciata, arida — e il suo tema centrale è quello della disarmonia rispetto alla natura: in questi elementi troviamo due motivi tipici dell’intera
raccolta.
L’ambientazione della poesia rappresenta la desolazione dell’esistenza umana e i versi costituiscono un continuo rimando alla solitudine della condizione umana: muri e confini
invalicabili, lungi dall’aprire la strada a un’immaginazione consolatoria (come accade nell’ Infinito di Leopardi), non hanno altro effetto che isolare ciascun individuo.
Il tema del male di vivere (cfr. Spesso il male di vivere), dominante in Ossi di seppia e centrale in Meriggiare pallido e assorto, rappresenta un rovesciamento
dell’Alcyone dannunziano: il rapporto con la natura non è di fusione panica e celebrazione, ma è fatto di distanze, incomunicabilità e rifiuto. Non a caso, il titolo della raccolta fa
riferimento proprio agli scheletri delle seppie, scarto inutile galleggiato in mare e trascinato a riva dalla corrente, dalle onde rifiutato.
Il poeta, di fronte al meriggio (protagonista anche di una poesia di D’Annunzio), non prova alcuna serenità, ma prova solo inquietudine. La sua condizione (e quella di ogni essere
umano) è una condizione di prigionia, solitudine e abbandono, di cui è impossibile liberarsi: il mare è lontano e irraggiungibile, la terra circoscritta da un muro invalicabile.
L’uomo è simile alle formiche rosse che osserva: costretto a vagare, in fila, disperdendosi, riordinandosi, senza avere effettivamente una meta, in un paesaggio ostile e con cui è
impossibile comunicare, che non può fornire alcuna risposta sul senso ultimo della propria vita.
Nemmeno la poesia può spingersi oltre il quotidiano; il poeta non può che rinunciare a travalicare la contingenza e abdicare al trascendentale (in questo, ancora una volta, Montale
si presenta come opposto alla concezione poetica dannunziana, che vede nel poeta un vate capace di comunicare al mondo una verità agli altri preclusa).
Per quanto riguarda la metrica, la poesia è costituita da quattro strofe (tre quartine e un’ultima strofa di cinque versi) di versi liberi (novenari, decasillabi ed endecasillabi).
Lo schema delle rime è così strutturato:
Un’altra caratteristica evidente della poesia è la sua ricercatezza fonica. Moltissime le allitterazioni presenti e, in particolare, gli scontri consonantici (con s, r, t, ch). La musicalità
aspra che ne deriva (e che presenta echi dell’Inferno dantesco) richiamare il tema trattato. A queste si aggiungono le molte assonanze (es. merli-serpi), le consonanze che
chiudono tutti i versi della quinta strofa e le onomatopee presenti ai vv. 4 o 11 (schiocchi, frusci, scricchi).
sinestesia: “osservare tra frondi il palpitare/ lontano di scaglie di mare” (vv. 9-10);
enjambements (vv. 5-6, 9-10, 11-12...);
ossimoro: “triste meraviglia” (v. 14);
metafora: la muraglia finale è metafora esplicita della vita;
paronomasia: “sterpi”-"serpi" (vv. 3-4);
analogia: “calvi picchi” (v. 12);
climax ascendente: struttura l’intera poesia, dalle crepe del suolo ai calvi picchi alla muraglia.
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO
La poesia è composta da due quartine di endecasillabi, escluso il verso finale composto da due settenari (il primo dei quali sdrucciolo). La rima della prima strofa è incrociata
(ABBA), la seconda stravolge lo schema prestabilito (CDDC) riportando all’ultimo verso la rima A. Il sistema complessivo è dunque: ABBA, CDDA.
La rottura data dalla rima finale spezza, insieme ad altri piccoli accorgimenti, la struttura simmetrica delle due quartine. Mentre identici sono la struttura complessiva (enunciazione
a cui seguono tre esempi) e l’enjambement presente in entrambe le strofe tra terzo e quarto verso ("foglia / riarsa" e “sonnolenza / del meriggio”), diverso è, oltre allo schema delle
rime, la distribuzione nei versi (l’enunciazione iniziale occupa nella seconda strofa due versi anziché uno) e la successione dei tre elementi presi ad esempio (nella seconda strofa
scompare l’anafora di “era” e gli elementi costituiscono una climax ascendente).
Sintetizzando:
In quello che è sicuramente uno tra i suoi più celebri componimenti, Montale esprime apertamente sia la sua concezione della vita sia quella della poesia; per il poeta la vita è un
accumularsi di dolori e la poesia non può far altro che raccontare questa sofferenza, senza avere la possibilità di porvi rimedio in alcun modo. La soluzione esistenziale definitiva
non c’è e, in questi versi, ciò viene espresso anche grazie al linguaggio, essenziale e scarno.
Questa poesia esprime perfettamente il correlativo oggettivo montaliano, cioè quel rapporto che la parola intesse con gli oggetti che nomina.
Stabilito ciò, è facile capire come la sofferenza di vivere sia rappresentata in maniera emblematica dal ruscello che fluisce faticosamente, dalle foglie che si accartocciano perché
riarse dal sole, dal cavallo che, esausto, stramazza.
Tutte queste vivide immagini vengono riproposte come aspetti della realtà e di un quotidiano segnato dalla sofferenza degli uomini. Il senso di fatica e quello di dolore sono espressi
magistralmente da Montale con l’accurata scelta dei vocaboli, crudi e duri nell’espressione del disagio (es. stramazzato, strozzato). Il fatto che siano parole in cui le lettere s e r si
ripetono costantemente non fa altro che accentuare ancor di più l’asprezza.
Una volta snocciolati i modi in cui il male si manifesta in tutto ciò che ci circonda in maniera costante, Eugenio Montale propone un’unica soluzione: la “divina Indifferenza”. La i
maiuscola non è, come facilmente intuibile, posta a caso. Lo scopo è quello di deificare il distacco e la freddezza, rappresentati in questa poesia da tre elementi: la statua (perché
insensibile), la nuvola (perché impalpabile e lontana) e il falco (perché libero nel cielo).
L’atmosfera, caratterizzata da immobilità ed estraneità, è percepibile anche attraverso il meriggio, momento sospeso tra torpore e stupore e caro a Montale e presente in altre due
opere, come ad esempio Meriggiare pallido e assorto.
Un significato particolare assume l'uso dei tempi verbali: il tempo presente indica la negatività del vivere, il passato remoto (entrò, sostò) è riferito alla donna e al tempo del ricordo,
e contrappone l'autenticità del passato alla precarietà del presente. Si tratta di una poesia che parla di un tentativo fallito di riportare alla memoria un’immagine. Il poeta cerca di
afferrare il filo del ricordo, la donna è distratta da altro tempo. La centralità del tema memoriale è scritta in modo chiaro in questa poesia.
L’opposizione interno/esterno è oggettivata nell’immagine della casa in cui ha vissuto felicemente in compagnia della donna ora lontana. La casa rappresenta un polo positivo, un
rifugio. La realtà esterna diventa il libeccio che sferza le vecchie mura: sono sconvolgimento e sofferenza che minacciano l’interno, è quindi il polo negativo (= identificabile con la
realtà storica del fascismo e della guerra). La casa rappresenta la condizione sociale dell’intellettuale appartato.
Il moto del tempo, oggettivato nel vento, si oppone all’immobilità della casa e ne distrugge il ricordo, l’unico legame in grado di unire il poeta alla donna amata.
v.7: il tempo che è passato fa si che il riso della donna non riesca più a dare gioia al poeta; vv.8-9: non è possibile trovare un punto di riferimento stabile nella vita, né a livello
razionale, né per il caso (l’ago della bussola impazzita e il calcolo dei dadi che non torna); vv.13-14: il ruotare della banderuola rappresenta l’impetuoso trascorrere del tempo; v.19:
il mare come negli Ossi è associato ad una possibile salvezza; v.22: dubbio assoluto: il poeta non riesce a capire chi fra i due sia partito veramente e chi invece sia restato.
In riferimento alla poesia (La casa dei doganieri) si osserva che, a differenza che nelle liriche degli Ossi di seppia, è qui meno insistito il suono aspro del tessuto fonico, se si
eccettua la frequenza delle r spesso accostate ad altra consonante (ricordi, strapiombo, irrequieto, sferza, ecc. fino a
varco), e a quella delle s e delle t. L’effetto che ne deriva è quello di un linguaggio senza dolcezza, che ha l’andamento del parlare quotidiano.
Il ritmo è per lo più lento. Anche qui compaiono molti oggetti che costituiscono il correlativo oggettivo e sono oggetti emblematici: la matassa aggrovigliata, la banderuola sul tetto,
la bussola impazzita, il calcolo dei dadi. Tutti si riferiscono all’impossibilità di trovare un senso alla vita e alla morte,nella ricerca di una via di scampo (Il varco è qui?).
Interpretazione
Uno dei temi fondamentali di questa lirica è quello del "varco", inteso come superamento della solitudine esistenziale alla ricerca di una vita autentica, ma che rimane una possibilità
irrealizzata.
L'affermazione iniziale Tu non ricordi ritorna ossessiva e angosciosa al v. 10 e nel penultimo verso, diventando il motivo conduttore che sottolinea la vanità di quel sogno del
passato e l'inutile attesa del futuro, a testimonianza del "male di vivere". L'inquietudine e il disorientamento esistenziale sono resi attraverso delle oggettivazioni: la bussola
impazzita, cioè la difficoltà dì trovare la strada giusta, il calcolo dei dadi che non torna, cioè la perdita di ogni punto di riferimento, la casa che s'allontana, simbolo di una sicurezza
irraggiungibile.
La fedeltà a quel ricordo appare inutile, eppure Montale vi si aggrappa con un'intensità tale da lasciarsi tentare da una speranza: Il varco è qui? L'approdo ad una vita serena era
forse in quella casa, in quell'amore e accanto a quella donna? Quell'amore poteva essere per entrambi la salvezza dal male del mondo? La luce all'orizzonte sembra un segno
di speranza, ma l'onda sempre uguale continua ad infrangersi sulla scogliera e gli ricorda che il tempo corrode ogni cosa (la banderuola affumicata gira senza pietà) e che non è
possibile rivivere i momenti perduti. Il poeta può solo proclamare la sua solitudine ed il suo smarrimento dinanzi agli eventi.
Al motivo del ricordo si accompagna quello della casa, dove il poeta e la donna trascorsero momenti felici (il tuo riso), ma ora è desolata e abbandonata: il poeta umanizza
l'oggetto-casa, attribuendogli lo squallore e la desolazione che sono nel suo animo. È vuota e sferzata dal libeccio, simbolo del tempo che spazza via ogni cosa, e la sua posizione
a strapiombo evoca un senso di precarietà.
Commento
"La casa dei doganieri" scritta nel 1930, viene pubblicata nel 1932 e poi inserita nella raccolta del '39 "Le occasioni". In questa poesia il paesaggio estivo della Liguria dell'infanzia e
dell'adolescenza del poeta ha acquisito una tinta oscura, tenebrosa e minacciosa. Lo stesso paesaggio delle prime poesie appare cambiato, privo di luce, se non di quella "rara" di
una petroliera. Si introduce una componente emblematica della poesia di Montale, il Tu a cui il poeta si rivolge. Questo Tu si riferisce a una donna realmente esistita, ma finisce per
allontanarsi dalla sua identità anagrafica per diventare un'istanza grammaticale assoluta, attraverso cui l'Io del poeta si confronta e si specchia. Gli oggetti e le ambientazioni
diventano emblemi della memoria e della mancanza di memoria. Montale canta l'oblio, l'impossibilità di trovare salvezza nel ricordo.
L'immagine più angosciosa e memorabile è quella della banderuola affumicata che gira senza pietà, l'impazzito segnavento sembra annunciare l'arrivo di qualcosa di terribile e
angoscioso.
Figure retoriche
Sin dal titolo compare il tema della casa insieme con l’opposizione, a esso collegata, interno\ esterno. L’interno è il luogo dell’autenticità, dell’interiorità psicologica e del ricordo;
l’esterno quello della vita falsa, della società di massa e del fascismo. D’altra parte il riferimento ai “doganieri”, addetti ai confini, introduce il motivo del limite e, appunto,
del confine che separa la vita vera dalla vita falsa (o non-vita) e la vita dalla morte.
La poetica della sofferenza in Montale si esprime anche attraverso l'irregolarità della forma metrica e la fusione del tono prosastico (Tu non ricordi,) con il lessico letterario (varco,
balza). Il ritmo è scandito da:
* iterazioni (Tu non ricordi, vv. 1, 10, 21; Ne tengo un capo, vv. 12, 15);
* assonanze (frangente/scoscende);
* rime che creano legami tra le strofe (irrequieto-lieto, vv. 5-7; scogliera-sera-petroliera, vv. 2-3-18) e tra le parole-chiave con richiami (non torna-frastorna) o mediante opposizioni
di significato (s'addipana-s'allontana).
Metro
Quattro strofe di cinque e sei versi alternativamente. I versi sono generalmente endecasillabi, unico il v.5 è un quinario. Le rime sono complesse e racchiudono tutto il
componimento, la prima strofa è legata alla seconda, la terza alla quarta e la prima all’ultima, all’interno delle varie strofe i versi rimano tra loro, tutti tranne quello legato alla strofa
precedente o che segue.
LA BUFERA E ALTRO
Analisi e commento:
Il terzo volume di Montale, La bufera e altro, pubblicato nel 1956, comprende un primo nucleo di liriche (Finisterre) concepite quale completamento delle Occasioni; a esse si
aggiunge in seguito un gruppo di testi più vario per tempi di stesura e tematiche. La novità del libro è che Montale introduce ora, nella sua poesia, accanto ai consueti richiami alle
vicende personali, anche nuove tematiche storiche. liriche confluite nella raccolta furono infatti concepite negli anni della guerra: la bufera che dà il titolo alla prima lirica del libro e
quindi all'intera raccolta è infatti la guerra, tregenda (tragedia) collettiva da cui nulla sembra salvarsi.
Soprattutto nelle prime poesie del libro, quella della sezione Finisterre, pubblicate nel 1943, i versi sembrano prendere vita in mezzo al fremere della battaglia, or che la lotta /dei
viventi più infuria (A mia madre), nell'ora della tortura e dei lamenti /che s'abbatté sul mondo (L'orto), mentre ronzano elitre fuori, ronza il folle /mortorio e sa che due vite non
contano (Gli orecchini).
La realtà come mitologia
La storia incalza con i suoi orrori, ma nel libro l'attualità è sempre indiretta, trasfigurata sullo sfondo di immagini allegoriche, di non semplice decifrazione. Gli episodi allusi, infatti,
non sono mai direttamente descritti; inoltre sono presentati come drammi sia collettivi sia personali, in un groviglio inestricabile. Scrisse Montale nel 1951: L'argomento della mia
poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel
mondo. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me le ragioni di infelicità che
andavano molto al di là e al di fuori di questi fenomeni. Perciò, se questo terzo libro di Montale segna un suo deciso avvicinamento alla storia e alla realtà, resta però la sede di una
realtà in forma di mito, cioè di una realtà cosmica, universale, da leggersi in senso esistenziale, non immediatamente storico o cronachistico.
Un altro tema tipico della Bufera è il dialogo con i propri cari scomparsi. Il padre e la madre defunti sono protagonisti di alcune liriche molto toccanti (L'arca, proda di Versilia, Voce
giunta con le folaghe).
Ebbene, il poeta intrattiene con loro un colloquio a distanza, che ci ricorda certe liriche di Pascoli, anche perché è dai defunti che il poeta cerca il senso dell'umana esistenza. Ma
appunto, il dialogo con loro è molto difficile; i defunti sono simili a ombre (certe atmosfere ricordano i mancanti abbracci di Dante con alcune anime dell'oltretomba nella Divina
Commedia) e non hanno messaggi da consegnare al poeta, se non la dolcezza dei ricordi e il rimpianto di un passato che non può tornare.
Il ruolo dominante della donna
L'unica a incarnare una speranza di salvezza, in questo modo cupo e ferito dall'odio, rimane la donna. La figura femminile in particolare colei che il poeta chiama Clizia, riveste un
ruolo dominante nella raccolta; quasi tutte le poesie della Bufera sembrano dettate al poeta (o meglio, alla sua memoria innamorata) da questo visiting angel (l'espressione è del
critico Angelo Marchese). Clizia funge da dolce-lontano messaggero che si rende presente al poeta, di quando in quando, con i suoi messaggi suggestivi, anche se oscuri.
Clizia sembra svolgere, in certi passaggi del libro, un ruolo salvifico (portare la salvezza agli uomini) simile a quello di altre famose ispiratrici, come la Beatrice di Dante e la Laura di
Petrarca. In liriche come Iride e La primavera hitleriana, Clizia pare incarnare, in chiave religiosa, la salvezza da lei stessa annunciata: la sua opera sembra continuare il sacrificio
supremo, quello di Cristo.
In realtà, però, nessuna salvezza può giungere neppure da Clizia: il dolore dell'esistenza non può essere redento né da lei né dalle sue sorelle, chiamate con i nomi di Mandetta o
Volpe. Montale rimane un poeta laico, anche se certamente la dimensione religiosa non lo lascia indifferente. La donna è una figura luminosa, sì, ma irrimediabilmente lontana
dall'uomo; in alcune liriche sembra patire personalmente le conseguenze terribili della guerra e in ogni caso non è in grado di portare al poeta, né tanto meno all'umanità, alcuna
compiuta salvezza.
PICCOLO TESTAMENTO
La poesia inizia con una prolessi dell’aggettivo “questo” che si riferisce al sostantivo lume del 5° verso. Questa piccola luce (idea ) che è tremolante all’interno della mia testa, come
la traccia luminescente della scia delle lumache o i riflessi debolissimi di un vetro smerigliato (correlativi oggettivi) non appartiene alle grandi filosofie di vita religiose o politiche che
servono ad alimentare dei sistemi, degli apparati di servitori rossi o neri (comunisti e preti). Posso lasciare solo questo piccolo brillare dell’occhio (iride = debole ma preziosa) a
testimonianza di una coerenza e di una fedeltà al mio pensiero che è stato criticato, e la sua speranza non è svanita ma ha bruciato lentamente negli anni come un duro ceppo che
brucia lentamente nel focolare.
“conservane la cipria nello specchietto” = correlativo oggettivo per indicare qualcosa di molto prezioso.
Conserva la polvere di questo mio pensiero dentro di te per il momento in cui ogni luce, ogni idea sarà spenta e saremo tutti presi in modo irrazionale da questo ballo infernale della
vita e un ombroso portatore di luce (ossimoro) cioè un demonio infernale scenderà su una nave (sineddoche) del Tamigi (Inghilterra), Hudson (America) e Senna (Francia),
muovendo le ali nere semi rotte (enjambement) dalla fatica per dirti “è la fine”. Ciò che io ti lascio non è l’eredità o qualcosa che può reggere agli attacchi dall’esterno o agli attacchi
del tempo che perde la memoria (filo di ragno), quindi niente di eterno però tutto è destinato a morire, a diventare cenere. L’unica certezza è che le cose continueranno a morire ,
che noi moriremo.
Quanto avevo detto all’inizio era giusto (non puoi avere la soluzione ad ogni male dalla poesia):
chi l’aveva capito non fa fatica a ritrovare chi la pensa come lui (unito da una certa ideologia).
ULTIMI 4 VERSI: moto d'orgoglio del poeta che non vuole imporre il suo pensiero e accusato di fuga = il mio orgoglio era dovuto al fatto che il mio pensiero doveva rimanere
lucido, il fatto di non prendere posizione da una parte o dall’altra era umiltà visto che la mia parola non poteva valere nulla a confronto di quella di tutti gli altri, l’idea nata laggiù (da
ossi di seppia) non era la tenue luce di un fiammifero!
“Piccolo testamento” è un testo poetico scritto nel 1953; questo contesto storico è dominato dalla Guerra Fredda, in cui il mondo era diviso in due blocchi contrapposti (in Italia c’era
la contrapposizione tra cattolici e comunisti).
Durante questo periodo, agli scrittori veniva chiesto insistentemente di schierarsi per poter dare un proprio contributo alla battaglia ideologica. Invece, Montale rifiuta di schierarsi,
non sceglie né il cattolicesimo né il comunismo.
Lo scopo di Montale era quello di contrapporre alle ideologie i valori di fede e di speranze che aveva cercato di mantenere più tempo possibile.
Nella poesia “Piccolo testamento”, Montale parla a un “tu”, una donna, alla quale sembra affidare la propria eredità spirituale, infatti, le dice di conservare la memoria di questa
speranza e riporla in un oggetto che porta sempre con sé. Montale continua dicendo che si spegneranno le luci delle ideologie e sul mondo si scatenerà un caos infernale.
Tuttavia, Montale lascia alla donna non un’eredità, bensì un portafortuna che può reggere all’urto dei monsoni, è come un filo di ragnatela esposto a questi venti, che rappresentano
la violenza degli avvenimenti storici; ciò che dura, nella storia degli uomini, è solo ciò che resta dopo la distruzione, ciò che rimane è solo la morte; nel segno della fede del poeta si
ritroveranno i pochi che ne sono partecipi, quelli che riconosceranno il “segno”, l’indicazione morale che lasciato; nei versi finali il poeta ribadisce il valore delle sue scelte personali,
la luce che lascia è qualcosa di più di un fiammifero strofinato (è dunque una cosa piccola e debole ma allo stesso tempo molto importante).
L'ULTIMO MONTALE
Satura è una raccolta di Eugenio Montale che vede la pubblicazione nel 1971. L’opera racchiude e presenta al pubblico gli scritti dell’autore composti tra il 1962 e il 1970, dopo anni
trascorsi dedicandosi alla professione di giornalista.
Satura è suddivisa in quattro sezioni, Xenia I e II e Satura I e II. La differenza tra le varie sezioni è molto importante dal punto di vista cronologico e, di conseguenza, tematico: se
nelle due sezioni di Xenia, scritte tra il 1962 e il 1966, Montale si concentra sul ricordo della moglie, Drusilla Tanzi, deceduta nel 1963, in Satura I e II, dove troviamo testi degli anni
1968-70, l’autore riflette in modo satirico su vicende legate al quotidiano. Le poesie acquistano così un sapore diaristico, in stretta connessione alla realtà e alla vita di ogni giorno.
In Xenia, titolo che rimanda agli epigrammi latini di Marziale, Montale porge in regalo alla moglie scomparsa le poesie che compongono queste prime due parti della raccolta.
L’universo femminile, dominato questa volta dalla consorte di Montale, chiamata affettuosamente con l’appellativo di "mosca" a causa della sua miopia, subisce un cambiamento: si
passa dall’immagine di una donna salvatrice ma sfuggevole a una donna che si manifesta come concreta compagna del poeta, che lo indirizza nella loro vita coniugale, grazie ad
un’acutezza di sguardo più profonda rispetto a quella del marito.
In Satura I e II, titolo che richiama invece il genere letterario latino della satira, caratterizzato dalla varietà degli argomenti trattati e del linguaggio scelto, assistiamo a una critica alla
Storia e al mondo contemporaneo del poeta. Lo stile di Satura oscilla continuamente tra la poesia e la prosa, mescolando al ritmo poetico un linguaggio più scorrevole e quotidiano.
HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO ALMNEO UN MILIONE DI SCALE
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale è una delle liriche tra le più conosciute di Eugenio Montale, la quale fa parte della raccolta poetica nota come Satura e
scritta nel 1967 in onore della moglie del poeta italiano Drusilla Tanzi. La poesia si articola in due strofe: la prima strofa è composta da sette versi, mentre la seconda invece è
composta da cinque versi. Il verso utilizzato è un verso di tipo libero e piano. Nel testo poetico Eugenio Montale, effettua un dialogo con la moglie Drusilla, rivolgendosi a lei in
maniera affettuosa.
Il poeta ricorda con affetto la vita coniugale, rievocata in particolare modo dal gesto dello scendere le scale insieme alla moglie. Si tratta di un gesto quotidiano semplice, ma
ricordato da Montale con affetto in quanto un'abitudine della giornata.
La metafora del viaggio : Il poeta traccia con tenerezza la figura della moglie in una dimensione di quotidianità, ricordandone l'accentuata miopia, il buon senso e la saggezza.
Montale offriva alla moglie il braccio per scendere le scale, metaforicamente condivideva con lei le difficoltà quotidiane nel viaggio della vita e ora, rimasto solo, ne sente la
mancanza.
Previdente ed accorta, era Mosca (il soprannome datole affettuosamente dal marito) a fargli da guida e le sue pupille offuscate erano le uniche a vedere: era lei, cioè, a cogliere con
gli occhi dell'anima il senso profondo del reale. La miopia della moglie assume un significato particolare nel momento in cui il poeta sottolinea la propria stanchezza esistenziale:
vivendo con lei, egli ha conquistato la capacità di vedere, non teme più gli inganni e gli insuccessi, e ora le preoccupazioni della vita gli, appaiono trappole prive di significato.
Attraverso la metafora del viaggio, Montale ribadisce la propria concezione dell'esistenza: la realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta di impegni
e casualità (coincidenze e prenotazioni), insidie e delusioni (trappole e scorni), ma è qualcosa che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l'uomo.
Le caratteristiche dello stile : Il lessico. La lingua prosastica e quasi d'uso comune (coincidenze e prenotazioni sono immagini legate alla metafora del viaggio) non è più spigolosa
come nei testi giovanili, il registro linguistico è semplice e colloquiale nell'evocare ricordi sollecitati dalle occasioni più disparate.
La trama fonica. La semplicità del linguaggio non esclude una sapiente struttura: la bipartizione delle strofe è sottolineata dalla ripresa dello stesso verso con una variante (vv. 1, 8),
i versi 5-6-7 sono endecasillabi, le rime (crede/vede, due/tue) legano gli ultimi versi di ogni strofa, le assonanze creano echi fonici tra le parole-chiave (scale/offuscate,
viaggio/braccio).
ANALISI: Questa lirica è scaturita dalla dolorosa solitudine dell'autore: egli solo ora comprende che proprio "Mosca", nonostante la miopia, sapeva scrutare ben più a fondo di lui il
mistero delle cose e dell'esistenza , dal momento che la realtà
autentica è quella che si vede. Nonostante le apparenze, dunque, non era lui, con il suo porgerle il braccio nello scendere le scale , a evitarle di incespicare : era "Mosca" a guidare
il viaggio di entrambi nella vita.
Questo componimento esprime, in tono commosso , il senso di vuoto e di inutilità che il poeta avverte dopo la morte della moglie, alla quale dedica il suo toccante omaggio poetico.
Nella poesia, il periodo trascorso insieme alla donna è espresso metaforicamente da una scale dagli innumerevoli gradini, discesi nel corso di un cammino comune che, troncato
dalla morte di lei, appare tuttavia drammaticamente breve a chi è rimasto solo e vede soltanto il vuoto davanti a sè. La metafora si propone nell'immagine dell'inutile viaggio solitario
del poeta , al quale le incombenze della quotidianità (le coincidenze, le prenotazioni) denunciano tutta la loro vacuità , e la vana apparenza viene spesso confusa con la realtà.
PRIMO LEVI (1919-1987)
Primo Levi nasce nel 1919 da famiglia ebrea a Torino dove compie gli studi fino alla laurea in chimica.
Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, perde l’impiego di chimico e dopo l’8 settembre 1943 si aggrega alle formazioni partigiane in Val d’Aosta.
Arrestato il 13 dicembre di quell’anno è inviato, per la sua condizione di ebreo, al campo di raccolta di Fossoli (Modena) e da qui, nel febbraio del 1944, viene deportato con altri
650 ebrei nel lager di Auschwitz, in Polonia. Salvato dalla camera a gas perché i tedeschi avevano bisogno di chimici, viene liberato nel gennaio del 1945 quando le truppe russe
costringono al ritiro quelle tedesche.
Tornato in Italia alla fine del 1945, narra la sua drammatica esperienza nei libri autobiografici Se questo è un uomo (1947) e La tregua (1963).
Continua a lavorae nell’industria fino al 1975 e alterna il suo lavoro di chimico con quello di narratore pubblicando romanzi e raccolte tra cui Le storie naturali (pubblicate con lo
pseudonimo di Damiano Malabaila), Il sistema periodico, La chiave a stella, I sommersi e i salvati. Muore suicida l’11 aprile 1987.
SE QUESTO è UN UOMO
Se questo è un uomo è il capolavoro di Primo Levi scritto, come ha affermato l’autore stesso, nella prefazione del libro, per soddisfare “il bisogno di raccontare agli altri, di fare gli
altri partecipi” l’esperienza della sua deportazione nel Lager di Auschwitz in quanto ebreo. Primo Levi scrive questo libro di getto nel 1946, subito dopo essere rientrato a Torino
nell’ottobre del 1945 sopravvissuto alla prigionia, obbedendo all’esigenza di far conoscere a tutti l’esperienza atroce dell’internamento.
TRAMA
Levi racconta in prima persona la sua deportazione a partire da quando, fatto prigioniero in Italia (13 dicembre 1943), viene condotto prima nel campo di concentramento di Fossoli,
in Emilia, e poi ad Auschwitz (nel gennaio del 1944), in Polonia, nel campo di concentramento di Buna Monowitz, attraverso un allucinante viaggio su carri-bestiame. Al campo i
deportati sono adibiti a lavori durissimi e patiscono stenti e violenze di ogni genere. I nazisti ne hanno previsto lo sterminio ma prima vogliono sfruttare le loro capacità e la loro
forza-lavoro.
Il racconto si focalizza sulla feroce e programmatica violazione della dignità umana compiuta dai nazisti, per annientare i prigionieri prima di ucciderli. I nazisti hanno creato un
sistema mostruoso di sopraffazione con una gerarchia basata sul pregiudizio razziale per cui gli ebrei sono gli ultimi dopo i criminali e i prigionieri politici.
I prigionieri ridotti a larve umane entrano in feroce competizione anche tra di loro. La legge spietata della sopravvivenza permette solo a chi è abbastanza astuto da eludere la
disciplina del campo, anche a spese dei compagni di prigionia più deboli, di avere qualche speranza di salvezza.
Gli stessi prigionieri da vittime diventano aguzzini e per sopravvivere mettono in atto meschinità, sotterfugi e violenza nei confronti di altri prigionieri, ed i nazisti se ne servono per
aver garantito il controllo del campo e prevenire ribellioni. In tal modo i prigionieri diventano doppiamente perseguitati, in quanto vittime non solo dei nazisti ma anche di se stessi
perché si trasformano in aguzzini dei propri consimili.
Dopo alcuni mesi Levi riesce ad avere un trattamento meno duro, grazie al fatto di essere laureato in chimica riesce ad essere preso a lavorare nel laboratorio della fabbrica. Ciò
oltre ad altre piccole circostanze favorevoli (come l’ammalarsi di scarlattina nell’ultimo periodo e perciò essere stato abbandonato, in quanto malato, dai nazisti in fuga) gli
permettono di sopravvivere, insieme a pochi altri compagni, fine alla fine della guerra e alla liberazione da parte di soldati russi il 27 gennaio del 1945.
ANALISI
E’ un testo autobiografico che viene scritto di getto, sull’onda dei ricordi della terribile esperienza vissuta. Levi mette in luce come in un contesto di simile crudeltà ogni prigioniero
sia ferocemente solo e veda dissolversi i principi della convivenza civile e delle regole morali.
La narrazione segue in ordine cronologico le tappe cruciali dell’esperienza del Lager a decorrere dal febbraio 1944 al gennaio 1945. L’ordine con cui sono stati scritti i 17
capitoli non è stato dettato da una successione logica ma piuttosto da una necessità “di urgenza”, per esempio: l’ultimo capitolo, “Storia di dieci giorni”, venne scritto per primo.
Nonostante questo impeto d’urgenza l’opera Se questo è un uomo ha una scrittura chiara e composta, di grande forza comunicativa.
E’ un testo che è stato definito “racconto commentato” in quanto si sviluppa su una alternanza di narrazione e riflessione:
Narrazione: la descrizione pone particolare rigore nell’aderire ai fatti e nell’oggettività;
Riflessione: l’esposizione dei fatti, che non cade mai nel patetico o nel macabro, viene commentata dall’autore-testimone nel tentativo di capire le ragioni che stanno alla base degli
orrori raccontati.
L’autore vuole capire e come un naturalista cerca di analizzare scientificamente quel nuovo mostruoso ambiente, le percosse senza ragione, il trattamento da schiavi, gli ordini urlati
in una lingua ai più incomprensibile, la selezione per le camere a gas, la guerra di tutti contro tutti, la sopraffazione. Comprendere fino in fondo non è possibile e Levi concludendo
l’opera non può che affermare l’impossibilità di capire ed anzi sottolinea che forse è giusto che sia così, “perché comprendere è quasi giustificare”.
TITOLO
Il titolo del libro è un drammatico interrogativo che Levi rivolge ai lettori. Egli riflette sulle conseguenze dell’annientamento dell’identità e della dignità dell’uomo operato
sistematicamente dai nazisti e domanda se possano definirsi uomini questi prigionieri privati di tutto e resi incapaci di difendersi e di reagire.
STILE
Lo stile è conciso e asciutto, senza compiacimenti descrittivi ed abbandoni emotivi, nonostante la drammaticità dell’argomento. Il linguaggio semplice e comunicativo è proprio di chi
vuole, più che esprimere un giudizio, trasmettere il messaggio ad un vasto pubblico e creare un rapporto diretto con il lettore.
Alle parti narrativo-descrittive si intercalano a volte brevi pause riflessive sulla condizione di annullamento della dignità di questi uomini a cui è stato tolto tutto, identità, ricordi,
pensieri, opinioni.
Il lessico è accurato e fa ricorso anche termini tecnici e vocaboli in lingua tedesca. In particolare le espressioni in tedesco indicano solitamente i comandi impartiti all’improvviso in
modo feroce e mettono in rilievo lo straniamento e lo stato di allerta continuo patito dai prigionieri che dovevano eseguire ordini imprevedibili e incomprensibili.
Il narratore è interno e onnisciente, è sia personaggio che voce narrante.
L’uso del presente storico e di avverbi deittici (ora, adesso, eccomi, ecc) hanno lo scopo di attualizzare il racconto (descrivere gli avvenimenti nel momento in cui accadono) ed
anche testimoniare che l’esperienza del lager per chi lo ha vissuto continua ad incombere.
Il ricorso al polisindeto (uso ripetuto di congiunzioni all’interno della stessa frase) vuole esprimere l’incalzare dei ricordi e delle sensazioni provate dai personaggi.
Le figure retoriche a cui Levi ricorre più di frequente sono: le anafore, le enumerazioni, le iterazioni e le anadiplosi, utilizzate per scandire le varie fasi della realtà descritta.
SHEMA'
La poesia Shemà di Primo Levi è un testo di 23 versi liberi che fa da apertura all’opera memorialistica di Primo Levi Se questo è un uomo, pubblicata per la prima volta nel 1947. In
questa celebre opera, la più famosa tra i libri dell’autore, vengono descritti l’internamento e la prigionia di Levi nei campi di Auschwitz e Monowitz, dal gennaio del 1944 al gennaio
del 1945.
Il titolo della poesia, Shemà, altro non è che una parola in ebraico che vuol dire “ascolta”. La poesia è datata 10 gennaio 1946, quindi a poco meno di un anno dopo la liberazione
da Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945. Già dalle parole di apertura del libro, quindi, risuona forte e chiaro l’appello che Primo Levi sta rivolgendo al lettore. Vediamo
insieme testo, parafrasi e analisi di Shemà di Primo Levi.
L’intenzione di Levi è quindi lampante: quest’unica parola, Shemà, costituisce un richiamo fortissimo e un appello deciso nei confronti del lettore, perché legga sin dalle prime parole
il romanzo con la mente aperta e prestando la massima attenzione alla testimonianza agghiacciante e tremenda di un’esperienza che, ancor prima di essere raccontata, bisogna
avere la certezza che non ricapiti mai più.
L’intera poesia si fonda sull’aspro confronto tra la vita normale e quella nel campi di concentramento; la contrapposizione tra la vita “calda” e “sicura” condotta fuori rispetto a quella
disumana e in perenne sofferenza è evidente.
Nel campo di concentramento si può morire in qualsiasi momento per un sì o per un no, per ragioni totalmente arbitrarie. Nel campo di concentramento si lotta sempre, anche solo
per avere un tozzo di pane.
Terminato il confronto, il lettore è esplicitamente chiamato in causa da Primo Levi: egli obbliga, in un certo qual modo, a ricordare — la perentorietà della richiesta è veicolata da
una serie di imperativi: “considerate” (vv. 5 e 10), “meditate” (v. 15), “scolpitele” (v. 17) e “ripetetele” (v. 20). Chiunque stia leggendo deve ricordare, perché la possibilità di negare e
dimenticare ciò che è accaduto durante lo sterminio nazista non deve essere data mai a nessuno.
L’invito di Levi è anche quello di tramandare alle nuove generazioni, ai figli, la memoria e il ricordo di quanto accaduto. Col passare del tempo le memorie possono sbiadire, ma il
senso del racconto è proprio quello di far sì che anche chi non abbia conosciuto gli orrori delle persecuzioni in prima persona possa conservarne anche solo delle immagini, per non
ripetere mai più gli stessi errori.
Il poeta chiude il suo testo e comincia il suo romanzo con parole di vera e propria minaccia per chiunque voglia dimenticare: tragedie e castighi divini dovranno abbattersi su coloro
che non ricorderanno l’accaduto.
Metrica e retorica
La poesia posta in apertura al romanzo Se questo è un uomo è composta, come già detto, da 23 versi di varia misura, privi di uno schema metrico. L’intero testo non presenta
alcuna rima, ma al suo interno si possono trovare diverse assonanze (es. “pane”-"pace", “grembo”-"inverno", “parole”-"cuore") e consonanze.
Sono presenti inoltre numerose allitterazioni, in particolare delle lettere v (presente fin dal primo verso “Voi che vivete”), s, r, t e che con i loro suoni aspri supportano dal punto di
vista fonico il tema del componimento.
Per la sua natura di orazione perentoria, direttamente rivolta al lettore, il testo si configura come un’apostrofe, evidente fin dal primo verso ("Voi che vivete sicuri").
anafore: “voi che” (vv. 1 e 3); “considerate se” (vv. 5 e 10); “che” (vv. 6-9), “senza” (vv. 11-12).
similitudine: “come una rana d’inverno” (v. 14)
parallelismo: “considerate se questo è un uomo” / “considerate se questa è una donna” (vv. 5 e 10)
enumerazione: vv. 6-9, vv. 18-19
Il canto di Ulisse - cap.11
Sintesi
Titolo capitolo: Il canto di Ulisse
Capitolo: Undicesimo
Romanzo: Se questo è un uomo
Autore: Primo Levi
Argomento: Levi cerca di ricordare le terzine del canto XXVI dell’Inferno di Dante, quello di Ulisse
RIASSUNTO
Mentre Levi è impegnato insieme ai suoi compagni di Kommando a raschiare e pulire una cisterna arriva Jean, il più giovane del Kommando Chimico che era stato nominato Pikolo,
cioè fattorino-scritturale a cui competeva la pulizia della baracca e delle gamelle, la consegna degli attrezzi e la contabilità delle ore di lavoro.
Jean è uno studente alsaziano che parla correttamente francese e tedesco, forte e scaltro ma nello stesso tempo mite e amichevole. E’ molto benvoluto nel Kommando, dove è
riuscito con perseveranza a conquistarsi la fiducia del Kapo e a mantenere rapporti umani con i compagni meno privilegiati di lui.
Il Kapo, Alex, uomo violento e ignorante, disprezza gli ebrei e li tratta con crudeltà, è servile invece con i civili e amichevole con le SS. Jean (Pikolo) è riuscito ad entrare nelle sue
grazie attraverso un’opera lenta e cauta, rendendosi utile per la stesura del registro del Kommando e del rapportino quotidiano delle prestazioni, che tanto intimidiscono e mettono
in difficoltà il Kapo.
Tra le incombenze di Jean c’è anche quella di prelevare il rancio per il Kommando chimico. Per il trasporto della pesante marmitta egli può scegliere tra i deportati una persona e
una mattina egli decide di chiedere a Levi di accompagnarlo.
Si tratta di andare fino alle cucine, ad un chilometro di distanza, e poi tornare trasportando una marmitta di cinquanta chili. E’ un lavoro faticoso ma che permette di fare la
camminata di andata all’aria aperta senza carico facendo un lungo giro senza destare sospetti. Camminando i due parlano di varie cose, le loro case, gli studi, le loro madri, e poi
Jean dice che gli piacerebbe imparare l’italiano. Levi vuole insegnarglielo e per farlo fa una scelta metodologica significativa: ricorrere al canto XXVI dell’Inferno di Dante, quello di
Ulisse.
Levi recita qualche terzina e poi tenta di tradurle, e continua di strofa in strofa, tra lacune e dimenticanze, continuando a volte in prosa frettolosamente perché nel frattempo stanno
per arrivare alle cucine.
Il canto diventa così un modo per evadere dall’ambiente brutale del Lager, per ritrovare se stessi e l’umanità, per ricordare la vita da libero. Il faticoso far tornare alla memoria i versi
danteschi si intreccia con la memoria del vissuto di ognuno di loro, il mare, le montagne, il passato. Levi si sforza di recitare la conclusione del canto ma gli tornano alla memoria
altri versi, si sforza di ricostruire le rime ma ormai non c’è più tempo, sono arrivati alle cucine.
, presente e futura come le poesie “ANGELI” “ALBERO” “ACQUSMORTA” DOLORE DI COSE CHE IGNORO “MAI TI
VINSE NOTTE COSI’ CHIARA”, “RIFUGIO D’UCCELLI NOTTURNI”, “ANCHE MI FUGGE LA MIA COMPAGNIA” e “IN ME
SMARRITA OGNI FORMA” e “ED E’ SUBITO SERA”.
Il terzo gruppo contiene le poesie che trattano il suo rapporto con Dio come nelle poesie “SI CHINA IL GIORNO”
“NESSUNO”.
Il quarto gruppo contiene le poesie che esprimono i sentimenti del poeta verso una donna come nelle poesie “E LA
TUA VESTE È BIANCA”, “ANTICO INVERNO”, “S’UDIVANO STAGIONI AEREE PASSARE”.
Il quinto gruppo contiene le poesie che riguardano la descrizione di alcuni ambienti naturali come le poesie:
“RIFUGIO DI UCCELLI NOTTURNI”, “FRESCA MARINA” e “SPECCHIO”.
Molte poesie di ACQUE E TERRE rievocano e rimpiangono la sua fanciullezza passata in Sicilia, che è il tema
prevalente e diffuso dell’intera opera. Il linguaggio delle poesie è abbastanza moderno, ma piegato al rimo e ai versi,
pieni di figure retoriche che già fa intravedere l’arte e la tecnica ermetica. Il tono emotivo delle poesie è malinconico,
mesto e triste sia per il rimpianto per la Sicilia e per la fanciulla perduta sia per il pessimismo che circola anche sulle
poesie che parlano del presente e del futuro. Il messaggio dell’opera poetica consiste nell’esprimere il dolore e la
tristezza che si provano nell’esilio e nella lontananza dalla terra nativa e nella solitudine della vita presente. L’esilio
del poeta è attenuato dalla presenza di un amore presente ed è mitigato dal ricordo di un amore lontano nel tempo
che rischiara e attenua la solitudine dell’esule emigrato dalla Sicilia. Si riscontrano pochissime reminiscenze
letterarie: tracce di Leopardi, Pascoli e Sergio Corazzini come nella poesia “NESSUNO”. Le poesie più belle e celebri,
secondo me, sono: “ED È SUBITO SERA”, “VENTO A TINDARI” “VICOLO” e “I RITORNI”.
ED E' SUBITO SERA
Spiegazione:
‘’Ed è subito sera’’ è una poesia del 1942 scritta da Salvatore Quasimodo, noto poeta italiano del ‘900.
La poesia è formata da tre versi liberi, frutto di un lungo lavoro di sintesi ed esclusione, che rappresentano la parte
conclusiva della lirica ‘‘Solitudini’’, che è lunga più di venti versi.
In questa lirica Quasimodo riflette sulla condizione umana e le da una definizione attraverso una riflessione arguta e
pungente. Nella perfezione stilistica e nella raffinatezza si può avvertire l’influenza dei classici greci e latini, ma per la
concisione e concentrazione delle parole e per la profondità e centralità dei temi esistenziali la poesia si può definire
appartenente alla scuola ermetica, della quale Quasimodo è stato uno dei massimi esponenti. La lirica intende
esprimere il significato della vita di ogni uomo sulla qual incombe minacciosa la morte.
La tematica che emerge nel primo verso è la solitudine che ognuno prova a causa dell’impossibilità di comunicare
come si vorrebbe, nonostante sia circondato di gente; successivamente Quasimodo introduce le illusioni e la ricerca
di una felicità spesso apparente rappresentate dal raggio di sole che anziché evocare vitalità, è simbolo di dolore. La
morte evocata nella sera chiude il componimento rendendo la lirica non solo testimone di solitudine, ma anche di
fugacità e brevità di ciò che ci circonda.
temi
Il componimento è un brevissima illuminazione lirica che racchiude in pochi, famosissimi versi, il senso della
condizione umana.
Metro: versi liberi :il primo è di dodici sillabe, il secondo è un novenario, il terzo un settenario. Il componimento è
inserito della prima raccolta “ Acque e terre” .Il tema affrontato è quello della solitudine dell’uomo, solo nonostante
l’illusione di essere “ sul cuor della terra” di dominare il mondo e l’universo, un’illusione rafforzata dal “raggio di
sole” che lo colpisce nascondendogli la verità della sua condizione; ma è un attimo, ”ed è subito sera”.
Come è tipico della poesia ermetica la situazione descritta è del tutto interiore e esistenziale. Il componimento, nella
sua essenziale brevità, esemplifica le intenzioni e i risultati della ricerca ermetica anche dal punto di vista formale:
l’espressione è segnata da significato profondo di ognuna delle parole utilizzate le quali istituiscono tra loro rapporti
di intensa collaborazione analogica ovvero un legame complesso di significati e significanti nel quale risiede il senso
ultimo della poesia. Si riflette ad esempio su due parole, cuor e trafitto : cuor richiama alla mente qualcosa di vivo , di
pulsante, e ha un’accezione positiva mentre trafitto ha un’accezione negativa. La misura decrescente dei versi
suggerisce il rapido precipitare della situazione. Questa poesia in origine costituiva la strofa finale della poesia
“Solitudini”.
Quasimodo pone l‘accento sulla fulminea immagine di solitudine esistenziale dell’uomo, siglata da fatale e rapido
sopraggiungere della morte. Il poeta riesce e condensare in tre versi tutta la tragedia della condizione umana:
La vita è breve
La sua luce è accecante e intensa
A subito arriva la sera, cioè la morte
Soprattutto, il poeta insiste sulla solitudine sconsolata e senza scampo che non è soltanto dell’uomo ma di ogni
creatura. L’uomo viene così escluso da un mondo di sentimenti e di valori cui è preteso nell'illusione di ritrovare
frammenti di se stesso. Nel secondo verso il termine “sole” perde l’accezione positiva e si trasforma in strumento di
dolore (trafitto) mentre il termine “sera” è assunto a metafora della morte. In tal modo sia il sole sia la sera
diventano allegoria della perdita e della sconfitta esistenziale.
Leggendo l’intera lirica emerge il pensiero poetico dell’autore:
Percezione della solitudine, acuita dall’incertezza dei contorni notturni e nebbiosi.
Nostalgia della figura femminile donatrice per eccellenza, la madre.
Coscienza dello svanire del suo ricordo
Analogia fra madre e casa natia
Mancanza di una casa, una qualsiasi in cui riconoscere attività e suoni familiari (tessitura e pulizia della casa)
Mancanza di un luogo sicuro, che rende straniero e alieno ogni canzone, racconto, viso o luogo.
GIORNO PER GIORNO
Il poema "Giorno per giorno" è stato scritto da Giuseppe Ungaretti, e fa parte della raccolta Il dolore. È dedicato
all'immatura scomparsa del figlio Antonietto e, attraverso queste parole, esprime un dolore profondamente privato
e personale.
Analisi del testo
Metrica: endecasillabi e settenari liberamente alternati, in strofe-sezioni di varia lunghezza (la n. 8 è costituita da un
solo endecasillabo).
È una silloge di 17 liriche.
Il titolo "Giorno per giorno" sta ad indicare che i verso sono scritti in forma di diario lirico e, non a caso, il titolo
originario era appunto "Diario".
Primo frammento = parla di Antonietto (figlio di Ungaretti) che è molto sofferente per il malessere e, il primo verso, è
una frase che egli rivolge alla mamma e che è rimasta impressa al poeta. Il volto del figlio è spento ma i suoi occhi
sono ancora vivi, dice il poeta; entrambi si trovano al davanzale della finestra a dare le briciole ai passeri festosi e
così facendo riusciva a distrarre il bambino dai pensieri più bui.
Secondo frammento = il bimbo muore e il poeta si rende conto che tutte le cose più tenere che gli riserbava, come
baciargli le mani in segno di fiducia, da ora in poi potrà farlo solo in sogno. Ma la vita va avanti, anche dopo un lutto,
e il poeta si chiede come è possibile essere in grado di sopportare un dolore così grande.
Terzo frammento = Il poeta è pessimista sul suo futuro e sospetta che ci saranno altre sofferenze per lui (altri tragici
lutti familiari). Inoltre dice che qualunque orrore gli sarebbe capitato, gli sarebbe stato sufficiente avere il figlio
accanto per sentirsi consolato (e ora non può più contare nemmeno su questo).
Quarto frammento = ci sono momenti in cui il poeta si sente triste e senza speranza ed è proprio in questi casi che
immagina di rivedere il proprio figlioletto, sotto forma di ombra, venuto per confortarlo (come un angelo custode).
Quinto frammento = Il poeta ripensa a quando il suo bimbo stava bene e correva per la casa e la sua voce risuonava
dolcemente in ogni stanza. E mentre adesso la terra si nutre del suo corpo (lo deteriora), c'è una parte di lui che
nessuno potrà mai toccare ed è custodita nel ricordo del poeta. Ne parla come se si trattasse di una favola del
passato.
Sesto frammento = il poeta dice che quando ripensa al proprio figlio e riesce a immaginare la sua voce, perde
interesse verso chiunque altra persona parli vicino a lui o gli rivolge parola.
Settimo frammento = il poeta dice che ogni volta che guarda il cielo cerca di rivedere il suo volto (può darsi che
intenda nella forma delle nuvole). I suoi occhi non hanno interesse per nessun altra cosa in particolare. E resteranno
aperti finché Dio vorrà...
Ottavo frammento = dice che lo vuole bene, un bene infinito, ma è una disperazione continua.
Nono frammento = qui spiega la distanza che lo separa dal figlio defunto ma che il ricordo lo fa sembrare vicino a sé.
Decimo frammento = il poeta dice di essere ritornato a Roma, città che sente sua perché la conosce molto bene
(perfino lo spostamento dell'aria gli è familiare). Tuttavia questo non basta per fargli tornare il buon umore perché
queste sensazioni le avrebbe avuto provare insieme al figlio. Si tratta di un dolore che lo trafigge ad ogni respiro.
Undicesimo frammento = qui il poeta dice che il tempo passa, le primavere passano, e anche lui passerà... a miglior
vita.
Dodicesimo frammento = continua a parlare per metafore, ma l'argomento è sempre la sua sofferenza.
Tredicesimo frammento = Il poeta dice che le stagioni non gli trasmettono più nulla, né la vivacità dell'estate, né i
colori della primavera, di certo non l'autunno che è una stagione inutile di per sé... solo l'inverno si salva perché è più
simile al suo stato d'animo.
Quattordicesimo frammento = dice di sentirsi appassito, paragonandosi alla natura insecchita nella stagione
autunnale.
Quindicesimo, sedicesimo e diciassettesimo frammento = riprende a parlare per metafore alternando sentimenti
dolci a uno stato d'animo distrutto... solo in forma poetica è possibile descrivere questo mix di dolore e ingiustizia.
Commento
La morte di un figlio è una delle prove più dure, se non la più dura, che un genitore possa affrontare nella vita.
Nessun genitore si aspetta di sopravvivere ai propri figli e quando questo capita ci si sente in colpa per il solo fatto di
essere vivi, al punto da non riuscire più a continuare a vivere come si faceva prima: l'angoscia è tale da non riuscire
più a parlare, a lavorare, a fumare, a svolgere le più classiche delle azioni quotidiane.
A San Paolo, morirà il figlio Antonietto nel 1939, all'età di nove anni, per un'appendicite mal curata, lasciando il
poeta in uno stato di acuto dolore e d'intensa prostrazione interiore, evidente in molte delle sue poesie successive,
raccolte ne Il Dolore, del 1947, e in Un Grido e Paesaggi, del 1952.
Nonostante lo "schianto", cioè l'impatto che questo avvenimento ha avuto nella sua vita, il poeta non si lascia
sopraffare dal dolore (non del tutto). Il dolore è una sofferenza insopportabile, Ungaretti lo trasforma in qualcosa di
meno atroce, trovando consolazione col fatto che sente la presenza del figlio sempre accanto e crede fortemente
che un giorno, quando anche la sua vita finirà, potrà ricongiungersi al proprio caro. In sintesi, vuole far credere (più a
se stesso) che la perdita del figlio è superabile grazie al ricordo e alla speranza di poterlo un giorno riabbracciare
(quando anche egli si spegnerà), ma questo non basta di certo per colmare un dolore così atroce, e la tristezza dei
versi finali ne sono la dimostrazione più evidente.
ALLE FRONDE DEI SALICI
COMMENTO
La poesia Alle fronde dei salici è stata scritta da Quasimodo durante il periodo della guerra contro
i nazisti. Quasimodo in questa poesia esprime tutto il suo odio verso gli oppressori e il sacrificio che fa per voto di
non scrivere poesie. Alle fronde infatti sono appese le cetre che i poeti hanno messo da parte per quel periodo in
modo da chiedere al Signore la grazia di far cessare il supplizio nazista.
ALLE FRONDE DEI SALICI: ANALISI
Tra i diversi significati simboli che troviamo in Alle fronde dei salici, c'è quello del "piede straniero", inteso come i
soldati tedeschi che freddamente calpestano i sentimenti (il cuore) di tutto il popolo. Quasimodo inserisce dei
riferimenti alla religione, usando altri significati simbolici come la "madre (Maria) che va incontro al figlio crocifisso
(Gesù), oppure quando usa "l'agnello" come animale per rappresentare i lamenti dei bambini.Quasimodo nelle sue
poesie usa molto spesso i riferimenti al Vangelo; questo probabilmente significa che ha vissuto una vita all'insegna
della religiosità. Lo stesso fatto di "fare un voto" è simbolo di sottomissione a un dio, più precisamente, in questo
caso, a Dio della religione Cristiana. Per poi tornare alla realtà, nella poesia, inserisce un elemento che quasi
"stona" con i riferimenti biblici: "il palo del telegrafo", messo quasi in antitesi con il "figlio crocifisso", proprio per
accentuare il legame tra il Vangelo e la vita moderna, grazie anche ad un enjambements che
divide crocifisso da figlio per metterlo più vicino possibile al "palo del telegrafo".
La poesia è scorrevole e l'italiano usato è quasi quotidiano, nonostante alcuni significati simbolici e alcune metafore
che potrebbero bloccare la scorrevolezza della poesia. Anche la struttura da una parte contribuisce a rendere
immediato il messaggio, poiché essa è quasi assente: le frasi sono scollegate dal punto e immediate; dall'altra, per
rispettare la struttura, l'autore ha collegato insieme più concetti nella stessa frase, rendendola lunga e forse anche
un po' di ostacolo alla scioltezza nella lettura.
«non accogliere come vero nulla che non sia stato conosciuto con evidenza, suddividere ciascuna difficoltà ed
esaminare tutte le parti in cui è possibile necessario dividerla per meglio risolverla; condurre con ordine di pensieri
iniziando dagli oggetti più semplice più facili a conoscersi per salire progressivamente, come per gradi fino alla
conoscenza di quelli più complessi»;
quindi questi termini servono proprio a Montale per attuare quella operazione di scomposizione del reale per
permettere all'uomo di arrivare a una sorta di sua conoscenza anche se parziale; è un po' l'operazione che abbiamo
visto fare a Pirandello per quanto riguarda la prosa “l'arte che scompone il reale” come vediamo nel famoso saggio
dell'umorismo.
Figure retoriche:
Assonanza = "laureati / acanti" (vv. 1-3).
Enumerazione = "bossi ligustri o acanti" (v. 3).
Consonanza = piante / acanti (vv. 2-3).
Anastrofe = "agguantano i ragazzi" (v. 6).
Metafora = "le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall'azzurro" (vv. 11-12).
Assonanza = "gazzarre / azzurro" (vv. 11-12).
Metafora = "piove in petto una dolcezza inquieta" (v. 17).
Ossimoro = "dolcezza inquieta" (v. 17).
Metafora = "tace la guerra" (v. 19).
Anafora = "qui" (vv. 18-20).
Metafora = "Lo sguardo fruga" (v. 30).
Metafora = «la mente indaga accorda disunisce» (v. 31).
Metafora = "il giorno più languisce" (v. 33).
Metafora e allitterazione lettera "d" = "disturbata Divinità" (v. 36).
Iperbato = "Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose" (vv. 37-38-39).
Metonimia = "l'azzurro si mostra" (v. 39).
Allitterazione in "t" e assonanza in "a" = "il tedio dell'inverno sulle case, la luce si fa amara, amara l'anima» (vv. 41-
42)
Chiasmo = "amara l’anima" (v. 42).
Metafora = "il gelo del cuore si sfa" (v. 46).
NON CHIEDERCI LA PAROLA
Schema metrico: tre quartine formate da versi di varia lunghezza e con rime ABBA, CDDC, EFEF. La rima D è
imperfetta perché ipermetra (amico/canicola).
Il componimento è costruito con una struttura circolare. Le strofe 1 e 3 si corrispondono simmetricamente: il primo
verso è costituito da un ottonario + un settenario, il secondo è un doppio settenario, gli ultimi due sono
endecasillabi; esse si oppongono perciò alla strofa 2, che si presenta con quattro versi disuguali, rispettivamente di
10-9-12-11 sillabe.
Temi: un paesaggio di aridità e di solitudine – il vuoto dei valori e la mancanza di certezze - l'errore di chi presume di
aver capito tutto e di essere padrone della propria vita – il ruolo della poesia: testimoniare la crisi.
La prima strofa mette in contrapposizione due modelli di poesia:
da una parte il modello della poesia retoricamente intonata dei poeti-vati ottocenteschi;
dall'altra parte, i poeti della nuova generazione caratterizzati da un animo informe: essi perciò non possono offrire
una parola risolutiva (al v. 9 Montale riprenderà il concetto, parlando di formula che mondi possa aprirti): infatti un
animo informe non si lascia facilmente definire dalle parole.
Dunque la poesia non può avere una funzione consolatoria, non può più fornire immagini belle ma fini a se stesse,
come il fiore splendido di colori in mezzo a un prato polveroso dei vv. 3-4. I versi di Montale offriranno al lettore solo
sillabe – neanche parole – storte e secche (il contrario del fiore lietamente colorato).
La seconda strofa presenta la satira dell'uomo che procede sicuro per la sua strada, nonostante i turbamenti della
storia. L’immagine ha almeno due valenze. Anzitutto una chiara valenza politica (si ricordi che il componimento fu
scritto nel 1923): la poesia montaliana divenne all'epoca un punto di riferimento per chi negava il fascismo e i suoi
sterili dogmatismi;
Ma l’immagine dell’uomo-ombra ha un valore anche esistenziale: neppure chi crede di essere agli altri ed a se stesso
amico è preservato, in realtà, da un destino di lacerazione e di fallimento.
Il poeta invece lo sa; egli è, per ora, l’unico consapevole del male di vivere, come Montale riassumerà in un altro osso
breve della medesima serie.
Nella terza strofa sono rimasti famosi i due versi finali:
Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Non è più il tempo, dice Montale, dei miti consolatori o dei facili ammaestramenti; dobbiamo prendere coscienza
della crisi storica in atto e della debolezza dell’arte stessa.
Sul piano tematico, la prima e la terza strofa affrontano il medesimo argomento, sottolineato dall'identico incipit
negativo (Non chiederci la parola che / Non domandarci la formula che), mentre la seconda strofa presenta
l’immagine (falsamente positiva) dell’uomo che se ne va sicuro.
Dal punto di vista dello stile, la lirica procede con un ritmo meditativo, da ragionamento in versi. Per enunciare la
propria verità (la persuasione che non esiste alcuna verità certa) il poeta utilizza un linguaggio prosastico. Rinuncia
perciò alle immagini poetiche, o ne fa poco uso. Una delle metafore presenti nel testo è il "croco /perduto in mezzo a
un polveroso prato": un fiore solitario, che cresce nel deserto del mondo, e che richiama il fiore della ginestra
leopardiana. Poetica è anche l’immagine della "storta sillaba e secca come un ramo", una delle più intense
espressioni dell’aridità montaliana.
Commento
Il componimento risale al 1923 e inaugura la sezione intitolata Ossi di Seppia: sono in tutto ventidue brevi liriche,
scritte tra il 1921 e il 1925, che diedero poi il titolo all'intero libro. La lirica è una dichiarazione di poetica; Montale
dichiara, come tutti i poeti del 900, ed anche per questo parla al plurale, di non essere in grado di offrire all'uomo, al
lettore, un messaggio forte, un messaggio di certezza, di sicurezza, di verità. Per questo i poeti possono solamente
parlare al negativo; possono solamente dare la testimonianza della sofferenza, del disagio esistenziale che attraversa
l'uomo contemporaneo. È da notare, come già abbiamo detto, l'uso del correlativo oggettivo, cioè l'oggetto che
simboleggia la condizione esistenziale del soggetto; inoltre c’è anche l'uso di suoni volutamente allitteranti, per dare
l'idea di una sofferenza, di una fatica nell'espressione della propria intimità, del proprio modo di essere.
Con il suo paesaggio di aridità, e con la sua parodia dell'uomo che se ne va senza problemi, sicuro e che evita di porsi
le domande fondamentali, Non chiederci la parola illustra con ammirevole sinteticità la condizione di solitudine e di
amarezza spirituale in cui si muove l’umanità contemporanea. Non solo: Montale aggiunge che è finito il tempo in
cui ai poeti si riconosceva l’ultima parola o la possibilità di soluzioni positive. La poesia di oggi non può che
presentarsi come nuda (e fraterna) testimonianza della crisi in atto.
Enjambements: vv. 3-4 (croco/perduto); 7-8 (canicola/stampa).
Metafora: "lettere di fuoco" (v. 2).
Similitudine: "risplenda come un croco" (v. 3).
Similitudine: "secca come un ramo" (v. 10).
Anafora: ripetizione di "Non" a inizio verso (vv. 1 e 9).
Allitterazione della "r": (chiederci, domandarci, croco).
Allitterazione della "p": (perduto, polveroso, prato).
Allitterazione della "s": (sì, storta, sillaba, secca).
Antitesi: "squadri" (v. 1) e "informe" (v. 2).
Antitesi: "croco" (v. 3) e "ramo" (v. 10).
Epifonema: "Codesto solo oggi possiamo dirti,ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Consiste nell'esprimere un
motto sentenzioso che, solitamente, chiude con enfasi un discorso.
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
Meriggiare pallido e assorto è una poesia di Eugenio Montale, scritta nel 1916 e pubblicata per la prima volta nel
1925 all’interno della raccolta Ossi di seppia (nella sezione “Ossi brevi”).
Erroneamente considerato esponente dell’ermetismo (lo stesso poeta ne prese pubblicamente le distanze), Montale
ricevette il premio Nobel per la letteratura nel 1975. Meriggiare pallido e assorto è una delle sue poesie più famose e
più studiate nei programmi scolastici (insieme a Spesso il male di vivere e Ho sceso dandoti il braccio).
Scopriamone insieme parafrasi, analisi metrica e retorica e commento al testo.
Meriggiare pallido e assorto è una delle prime poesie di Montale, scritta nel 1916 e contenuta nella raccolta Ossi di
Seppia (1925). Il paesaggio di cui parla è quello della Liguria estiva — arsa dal sole, bruciata, arida — e il
suo tema centrale è quello della disarmonia rispetto alla natura: in questi elementi troviamo due motivi tipici
dell’intera raccolta.
L’ambientazione della poesia rappresenta la desolazione dell’esistenza umana e i versi costituiscono un continuo
rimando alla solitudine della condizione umana: muri e confini invalicabili, lungi dall’aprire la strada a
un’immaginazione consolatoria (come accade nell’Infinito di Leopardi), non hanno altro effetto che isolare ciascun
individuo.
Il tema del male di vivere (cfr. Spesso il male di vivere), dominante in Ossi di seppia e centrale in Meriggiare pallido e
assorto, rappresenta un rovesciamento dell’Alcyone dannunziano: il rapporto con la natura non è di fusione panica e
celebrazione, ma è fatto di distanze, incomunicabilità e rifiuto. Non a caso, il titolo della raccolta fa riferimento
proprio agli scheletri delle seppie, scarto inutile galleggiato in mare e trascinato a riva dalla corrente, dalle onde
rifiutato.
Il poeta, di fronte al meriggio (protagonista anche di una poesia di D’Annunzio), non prova alcuna serenità, ma prova
solo inquietudine. La sua condizione (e quella di ogni essere umano) è una condizione di prigionia, solitudine e
abbandono, di cui è impossibile liberarsi: il mare è lontano e irraggiungibile, la terra circoscritta da un muro
invalicabile.
L’uomo è simile alle formiche rosse che osserva: costretto a vagare, in fila, disperdendosi, riordinandosi, senza avere
effettivamente una meta, in un paesaggio ostile e con cui è impossibile comunicare, che non può fornire alcuna
risposta sul senso ultimo della propria vita.
Nemmeno la poesia può spingersi oltre il quotidiano; il poeta non può che rinunciare a travalicare la contingenza e
abdicare al trascendentale (in questo, ancora una volta, Montale si presenta come opposto alla concezione poetica
dannunziana, che vede nel poeta un vate capace di comunicare al mondo una verità agli altri preclusa).
Per quanto riguarda la metrica, la poesia è costituita da quattro strofe (tre quartine e un’ultima strofa di cinque
versi) di versi liberi (novenari, decasillabi ed endecasillabi). Lo schema delle rime è così strutturato:
la prima strofa ha rime baciate (AABB)
la seconda rime alternate (CDCD)
la terza di nuovo rime baciate (EEFF)
la quarta termina con rime e consonanze (abbaglia-meraviglia-travaglio-muraglia-bottiglia) e ha uno schema del tipo
GHIGH.
Il componimento è caratterizzato da un uso insistito dell’infinito (meriggiare, ascoltare, osservare, etc.). Questa
continuità, spezzata solo da un gerundio, priva di un effettivo soggetto, universalizza la poesia e le riflessioni dell’io
lirico.
Un’altra caratteristica evidente della poesia è la sua ricercatezza fonica. Moltissime le allitterazioni presenti e, in
particolare, gli scontri consonantici (con s, r, t, ch). La musicalità aspra che ne deriva (e che presenta echi dell’Inferno
dantesco) richiamare il tema trattato. A queste si aggiungono le molte assonanze (es. merli-serpi),
le consonanze che chiudono tutti i versi della quinta strofa e le onomatopee presenti ai vv. 4 o 11 (schiocchi, frusci,
scricchi).
sinestesia: “osservare tra frondi il palpitare/ lontano di scaglie di mare” (vv. 9-10);
enjambements (vv. 5-6, 9-10, 11-12...);
ossimoro: “triste meraviglia” (v. 14);
metafora: la muraglia finale è metafora esplicita della vita;
paronomasia: “sterpi”-"serpi" (vv. 3-4);
analogia: “calvi picchi” (v. 12);
climax ascendente: struttura l’intera poesia, dalle crepe del suolo ai calvi picchi alla muraglia.
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO
La poesia è composta da due quartine di endecasillabi, escluso il verso finale composto da due settenari (il primo dei
quali sdrucciolo). La rima della prima strofa è incrociata (ABBA), la seconda stravolge lo schema prestabilito (CDDC)
riportando all’ultimo verso la rima A. Il sistema complessivo è dunque: ABBA, CDDA.
La rottura data dalla rima finale spezza, insieme ad altri piccoli accorgimenti, la struttura simmetrica delle due
quartine. Mentre identici sono la struttura complessiva (enunciazione a cui seguono tre esempi) e
l’enjambement presente in entrambe le strofe tra terzo e quarto verso ("foglia / riarsa" e “sonnolenza / del
meriggio”), diverso è, oltre allo schema delle rime, la distribuzione nei versi (l’enunciazione iniziale occupa nella
seconda strofa due versi anziché uno) e la successione dei tre elementi presi ad esempio (nella seconda strofa
scompare l’anafora di “era” e gli elementi costituiscono una climax ascendente).
Sintetizzando:
Aspetti simmetrici: struttura complessiva del discorso ed enjambement
Aspetti che rompono la simmetria: rima e distribuzione degli aspetti del discorso.
Nel giorno del 125° anniversario della nascita di Eugenio Montale, rileggiamo insieme la poesia Spesso il male di
vivere ho incontrato, pubblicata per la prima volta nel 1925 nell’omonima sezione della raccolta Ossi di Seppia.
In quello che è sicuramente uno tra i suoi più celebri componimenti, Montale esprime apertamente sia la
sua concezione della vita sia quella della poesia; per il poeta la vita è un accumularsi di dolori e la poesia non può far
altro che raccontare questa sofferenza, senza avere la possibilità di porvi rimedio in alcun modo. La soluzione
esistenziale definitiva non c’è e, in questi versi, ciò viene espresso anche grazie al linguaggio, essenziale e scarno.
Questa poesia esprime perfettamente il correlativo oggettivo montaliano, cioè quel rapporto che la parola intesse
con gli oggetti che nomina.
Stabilito ciò, è facile capire come la sofferenza di vivere sia rappresentata in maniera emblematica dal ruscello che
fluisce faticosamente, dalle foglie che si accartocciano perché riarse dal sole, dal cavallo che, esausto, stramazza.
Tutte queste vivide immagini vengono riproposte come aspetti della realtà e di un quotidiano segnato dalla
sofferenza degli uomini. Il senso di fatica e quello di dolore sono espressi magistralmente da Montale con l’accurata
scelta dei vocaboli, crudi e duri nell’espressione del disagio (es. stramazzato, strozzato). Il fatto che siano parole in
cui le lettere s e r si ripetono costantemente non fa altro che accentuare ancor di più l’asprezza.
Una volta snocciolati i modi in cui il male si manifesta in tutto ciò che ci circonda in maniera costante, Eugenio
Montale propone un’unica soluzione: la “divina Indifferenza”. La i maiuscola non è, come facilmente intuibile, posta
a caso. Lo scopo è quello di deificare il distacco e la freddezza, rappresentati in questa poesia da tre elementi: la
statua (perché insensibile), la nuvola (perché impalpabile e lontana) e il falco (perché libero nel cielo).
L’atmosfera, caratterizzata da immobilità ed estraneità, è percepibile anche attraverso il meriggio, momento sospeso
tra torpore e stupore e caro a Montale e presente in altre due opere, come ad esempio Meriggiare pallido e
assorto.
Anafora: “era” (vv. 2, 3 e 4)
Climax ascendente: “statua”, “nuvola” e “falco” sono disposti in modo che il distacco dalla terra sia sempre
maggiore (la statua vi si poggia, le nuvole sono inconsistenti e statiche, il falco può volare libero)
Anastrofe: “bene non seppi” (v. 5)
Metafora: “divina Indifferenza”
Allitterazioni e richiami sonori: la prima strofa, incentrata sulla sofferenza, è percorsa da lettere e nessi aspri
(es. s, r, rg, tr, str, rt, rs...); la seconda, invece, è caratterizzata da una maggiore apertura e insiste sempre più sulle
vocali (specie nella chiusa: “falco alto levato”)
IL SECONDO MONTALE: LE OCCASIONI (1939)
Libro compatto e armoniosamente ricco, dal titolo quanto mai emblematico, Le occasioni è costituito da
cinquantasette testi. Un filo conduttore lega questo secondo canzoniere alle liriche aggiunte nella seconda edizione
de Ossi di seppia (1928). Principale interlocutore non è più il Mediterraneo, che scompare come soggetto lirico. La
vita non è più colta e auscultata nei suoi aspetti naturali; il descrittivismo degli Ossi pare assorbito ed eliminato in
favore di qualcosa di meno inerte, di un'inquietudine che a volte raggiunge livelli di vero e proprio pathos.
Permane il motivo fondamentale della disarmonia e del dolore esistenziale, ma cambiano alcuni elementi. Il
paesaggio, come si è detto, è posto in secondo piano in favore della dimensione temporale e memoriale, di una
poesia fondata sul motivo dell'assenza e della privazione della donna amata, interlocutrice prediletta chiamata col
nome di Clizia.
La situazione storica si è fatta più buia, il regime dittatoriale si è inasprito e all'orizzonte si addensano minacciose
nuvole di guerra. Gli unici segnali di salvezza possibile, seppur vaghi e incertissimi, sono affidati a Clizia, che è
presentata con moduli quasi stilnovistici. Proprio tali segnali sarebbero "le occasioni" del titolo. Se gli ossi esprimono
la consapevolezza del "male di vivere", ne Le Occasioni sono rappresentati quegli istanti fatali dell'esistenza, durante
i quali è possibile intravedere una realtà diversa. Istanti solenni, espressi in testi in cui il valore simbolico degli oggetti
si accentua e si assolutizza: negli Ossi alla rappresentazione dell'oggetto seguiva quasi sempre la "spiegazione"di
esso; qui Montale ricerca qualcosa di nuovo, esprimendo l'oggetto ma tacendo l'occasione-spinta. Il risultato è una
poesia che può apparire oscura al lettore, in quanto rappresentazione pura e semplice di oggetti poetici che
racchiudono in sé valori simbolici non esplicitati. Questo è il motivo per cui esce di scena il paesaggio, l'attenzione
passa dal "fuori" al "dentro”, le occasioni-spinta sono evocazioni che non hanno comunque sostanza concreta,
poiché è possibile parlarne solo in funzione della loro assenza. La figura femminile, che in questa raccolta fa il suo
fondamentale ingresso nella poetica di Montale, è anch'essa assente, il poeta la rivede solo in apparizioni che
riescono a illuminare per un attimo l’oscurità esistenziale, e potrà vivere solo nel ricordo di quelle apparizioni.
Emerge qui la fondamentale importanza in questa raccolta della dimensione memoriale, espressa appieno in poesie
come La casa dei doganieri.
La raccolta si presenta in definitiva come il prodotto di un'introspezione che non teme di affrontare il rischio
dell'oscurità, in cui la vita sembra specchiarsi senza lasciare altra immagine, se non quella della non-appartenenza. Si
tratta di una volontà di rispondere al male col silenzio, di affidare a una facoltà asservita, quale quella poetica, la
possibilità di cavare un senso dalla realtà e il miracolo di conferire una ragione alla vita.
LA CASA DEI DROGANIERI
Parole chiave e lessico
Un significato particolare assume l'uso dei tempi verbali: il tempo presente indica la negatività del vivere, il passato
remoto (entrò, sostò) è riferito alla donna e al tempo del ricordo, e contrappone l'autenticità del
passato alla precarietà del presente. Si tratta di una poesia che parla di un tentativo fallito di riportare
alla memoria un’immagine. Il poeta cerca di afferrare il filo del ricordo, la donna è distratta da altro tempo. La
centralità del tema memoriale è scritta in modo chiaro in questa poesia.
L’opposizione interno/esterno è oggettivata nell’immagine della casa in cui ha vissuto felicemente in compagnia
della donna ora lontana. La casa rappresenta un polo positivo, un rifugio. La realtà esterna diventa il libeccio che
sferza le vecchie mura: sono sconvolgimento e sofferenza che minacciano l’interno, è quindi il polo negativo (=
identificabile con la realtà storica del fascismo e della guerra). La casa rappresenta la condizione sociale
dell’intellettuale appartato.
Il moto del tempo, oggettivato nel vento, si oppone all’immobilità della casa e ne distrugge il ricordo, l’unico legame
in grado di unire il poeta alla donna amata.
v.7: il tempo che è passato fa si che il riso della donna non riesca più a dare gioia al poeta; vv.8-9: non è possibile
trovare un punto di riferimento stabile nella vita, né a livello razionale, né per il caso (l’ago della bussola impazzita e
il calcolo dei dadi che non torna); vv.13-14: il ruotare della banderuola rappresenta l’impetuoso trascorrere
del tempo; v.19: il mare come negli Ossi è associato ad una possibile salvezza; v.22: dubbio assoluto: il poeta non
riesce a capire chi fra i due sia partito veramente e chi invece sia restato.
In riferimento alla poesia (La casa dei doganieri) si osserva che, a differenza che nelle liriche degli Ossi di seppia, è qui
meno insistito il suono aspro del tessuto fonico, se si eccettua la frequenza delle r spesso accostate ad altra
consonante (ricordi, strapiombo, irrequieto, sferza, ecc. fino a
varco), e a quella delle s e delle t. L’effetto che ne deriva è quello di un linguaggio senza dolcezza, che ha
l’andamento del parlare quotidiano.
Il ritmo è per lo più lento. Anche qui compaiono molti oggetti che costituiscono il correlativo oggettivo e sono
oggetti emblematici: la matassa aggrovigliata, la banderuola sul tetto, la bussola impazzita, il calcolo dei dadi. Tutti si
riferiscono all’impossibilità di trovare un senso alla vita e alla morte,nella ricerca di una via di scampo (Il varco è
qui?).
Interpretazione
Uno dei temi fondamentali di questa lirica è quello del "varco", inteso come superamento
della solitudine esistenziale alla ricerca di una vita autentica, ma che rimane una possibilità irrealizzata.
L'affermazione iniziale Tu non ricordi ritorna ossessiva e angosciosa al v. 10 e nel penultimo verso, diventando
il motivo conduttore che sottolinea la vanità di quel sogno del passato e l'inutile attesa del futuro, a testimonianza
del "male di vivere". L'inquietudine e il disorientamento esistenziale sono resi attraverso delle oggettivazioni:
la bussola impazzita, cioè la difficoltà dì trovare la strada giusta, il calcolo dei dadi che non torna, cioè la perdita di
ogni punto di riferimento, la casa che s'allontana, simbolo di una sicurezza irraggiungibile.
La fedeltà a quel ricordo appare inutile, eppure Montale vi si aggrappa con un'intensità tale da lasciarsi tentare da
una speranza: Il varco è qui? L'approdo ad una vita serena era forse in quella casa, in quell'amore e accanto a quella
donna? Quell'amore poteva essere per entrambi la salvezza dal male del mondo? La luce all'orizzonte sembra un
segno di speranza, ma l'onda sempre uguale continua ad infrangersi sulla scogliera e gli ricorda che il tempo corrode
ogni cosa (la banderuola affumicata gira senza pietà) e che non è possibile rivivere i momenti perduti. Il poeta può
solo proclamare la sua solitudine ed il suo smarrimento dinanzi agli eventi.
Al motivo del ricordo si accompagna quello della casa, dove il poeta e la donna trascorsero momenti felici (il tuo
riso), ma ora è desolata e abbandonata: il poeta umanizza l'oggetto-casa, attribuendogli lo squallore e
la desolazione che sono nel suo animo. È vuota e sferzata dal libeccio, simbolo del tempo che spazza via ogni cosa, e
la sua posizione a strapiombo evoca un senso di precarietà.
Commento
"La casa dei doganieri" scritta nel 1930, viene pubblicata nel 1932 e poi inserita nella raccolta del '39 "Le occasioni".
In questa poesia il paesaggio estivo della Liguria dell'infanzia e dell'adolescenza del poeta ha acquisito una tinta
oscura, tenebrosa e minacciosa. Lo stesso paesaggio delle prime poesie appare cambiato, privo di luce, se non di
quella "rara" di una petroliera. Si introduce una componente emblematica della poesia di Montale, il Tu a cui il poeta
si rivolge. Questo Tu si riferisce a una donna realmente esistita, ma finisce per allontanarsi dalla sua identità
anagrafica per diventare un'istanza grammaticale assoluta, attraverso cui l'Io del poeta si confronta e si specchia. Gli
oggetti e le ambientazioni diventano emblemi della memoria e della mancanza di memoria. Montale canta l'oblio,
l'impossibilità di trovare salvezza nel ricordo.
L'immagine più angosciosa e memorabile è quella della banderuola affumicata che gira senza pietà, l'impazzito
segnavento sembra annunciare l'arrivo di qualcosa di terribile e angoscioso.
Figure retoriche
Sin dal titolo compare il tema della casa insieme con l’opposizione, a esso collegata, interno\ esterno. L’interno è il
luogo dell’autenticità, dell’interiorità psicologica e del ricordo; l’esterno quello della vita falsa, della società di
massa e del fascismo. D’altra parte il riferimento ai “doganieri”, addetti ai confini, introduce il motivo del limite e,
appunto, del confine che separa la vita vera dalla vita falsa (o non-vita) e la vita dalla morte.
La poetica della sofferenza in Montale si esprime anche attraverso l'irregolarità della forma metrica e la fusione
del tono prosastico (Tu non ricordi,) con il lessico letterario (varco, balza). Il ritmo è scandito da:
* iterazioni (Tu non ricordi, vv. 1, 10, 21; Ne tengo un capo, vv. 12, 15);
* allitterazioni (desolata t'attende dalla sera);
* assonanze (frangente/scoscende);
* rime che creano legami tra le strofe (irrequieto-lieto, vv. 5-7; scogliera-sera-petroliera, vv. 2-3-18) e tra le parole-
chiave con richiami (non torna-frastorna) o mediante opposizioni di significato (s'addipana-s'allontana).
Metro
Quattro strofe di cinque e sei versi alternativamente. I versi sono generalmente endecasillabi, unico il v.5 è
un quinario. Le rime sono complesse e racchiudono tutto il componimento, la prima strofa è legata alla seconda, la
terza alla quarta e la prima all’ultima, all’interno delle varie strofe i versi rimano tra loro, tutti tranne quello legato
alla strofa precedente o che segue.
LA BUFERA E ALTRO
Analisi e commento:
Il terzo volume di Montale, La bufera e altro, pubblicato nel 1956, comprende un primo nucleo di liriche (Finisterre)
concepite quale completamento delle Occasioni; a esse si aggiunge in seguito un gruppo di testi più vario per tempi
di stesura e tematiche. La novità del libro è che Montale introduce ora, nella sua poesia, accanto ai consueti richiami
alle vicende personali, anche nuove tematiche storiche. liriche confluite nella raccolta furono infatti concepite negli
anni della guerra: la bufera che dà il titolo alla prima lirica del libro e quindi all'intera raccolta è infatti la guerra,
tregenda (tragedia) collettiva da cui nulla sembra salvarsi.
Soprattutto nelle prime poesie del libro, quella della sezione Finisterre, pubblicate nel 1943, i versi sembrano
prendere vita in mezzo al fremere della battaglia, or che la lotta /dei viventi più infuria (A mia madre), nell'ora della
tortura e dei lamenti /che s'abbatté sul mondo (L'orto), mentre ronzano elitre fuori, ronza il folle /mortorio e sa che
due vite non contano (Gli orecchini).
La realtà come mitologia
La storia incalza con i suoi orrori, ma nel libro l'attualità è sempre indiretta, trasfigurata sullo sfondo di immagini
allegoriche, di non semplice decifrazione. Gli episodi allusi, infatti, non sono mai direttamente descritti; inoltre sono
presentati come drammi sia collettivi sia personali, in un groviglio inestricabile. Scrisse Montale nel 1951:
L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo
o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo. Non nego che il fascismo
dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me le
ragioni di infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di questi fenomeni. Perciò, se questo terzo libro di
Montale segna un suo deciso avvicinamento alla storia e alla realtà, resta però la sede di una realtà in forma di mito,
cioè di una realtà cosmica, universale, da leggersi in senso esistenziale, non immediatamente storico o cronachistico.
Un altro tema tipico della Bufera è il dialogo con i propri cari scomparsi. Il padre e la madre defunti sono protagonisti
di alcune liriche molto toccanti (L'arca, proda di Versilia, Voce giunta con le folaghe).
Ebbene, il poeta intrattiene con loro un colloquio a distanza, che ci ricorda certe liriche di Pascoli, anche perché è dai
defunti che il poeta cerca il senso dell'umana esistenza. Ma appunto, il dialogo con loro è molto difficile; i defunti
sono simili a ombre (certe atmosfere ricordano i mancanti abbracci di Dante con alcune anime dell'oltretomba nella
Divina Commedia) e non hanno messaggi da consegnare al poeta, se non la dolcezza dei ricordi e il rimpianto di un
passato che non può tornare.
Il ruolo dominante della donna
L'unica a incarnare una speranza di salvezza, in questo modo cupo e ferito dall'odio, rimane la donna. La figura
femminile in particolare colei che il poeta chiama Clizia, riveste un ruolo dominante nella raccolta; quasi tutte le
poesie della Bufera sembrano dettate al poeta (o meglio, alla sua memoria innamorata) da questo visiting angel
(l'espressione è del critico Angelo Marchese). Clizia funge da dolce-lontano messaggero che si rende presente al
poeta, di quando in quando, con i suoi messaggi suggestivi, anche se oscuri.
Clizia sembra svolgere, in certi passaggi del libro, un ruolo salvifico (portare la salvezza agli uomini) simile a quello di
altre famose ispiratrici, come la Beatrice di Dante e la Laura di Petrarca. In liriche come Iride e La primavera
hitleriana, Clizia pare incarnare, in chiave religiosa, la salvezza da lei stessa annunciata: la sua opera sembra
continuare il sacrificio supremo, quello di Cristo.
In realtà, però, nessuna salvezza può giungere neppure da Clizia: il dolore dell'esistenza non può essere redento né
da lei né dalle sue sorelle, chiamate con i nomi di Mandetta o Volpe. Montale rimane un poeta laico, anche se
certamente la dimensione religiosa non lo lascia indifferente. La donna è una figura luminosa, sì, ma
irrimediabilmente lontana dall'uomo; in alcune liriche sembra patire personalmente le conseguenze terribili della
guerra e in ogni caso non è in grado di portare al poeta, né tanto meno all'umanità, alcuna compiuta salvezza.
PICCOLO TESTAMENTO
La poesia inizia con una prolessi dell’aggettivo “questo” che si riferisce al sostantivo lume del 5° verso. Questa piccola
luce (idea ) che è tremolante all’interno della mia testa, come la traccia luminescente della scia delle lumache o i
riflessi debolissimi di un vetro smerigliato (correlativi oggettivi) non appartiene alle grandi filosofie di vita religiose o
politiche che servono ad alimentare dei sistemi, degli apparati di servitori rossi o neri (comunisti e preti). Posso
lasciare solo questo piccolo brillare dell’occhio (iride = debole ma preziosa) a testimonianza di una coerenza e di una
fedeltà al mio pensiero che è stato criticato, e la sua speranza non è svanita ma ha bruciato lentamente negli anni
come un duro ceppo che brucia lentamente nel focolare.
“conservane la cipria nello specchietto” = correlativo oggettivo per indicare qualcosa di molto prezioso.
Conserva la polvere di questo mio pensiero dentro di te per il momento in cui ogni luce, ogni idea sarà spenta e
saremo tutti presi in modo irrazionale da questo ballo infernale della vita e un ombroso portatore di luce (ossimoro)
cioè un demonio infernale scenderà su una nave (sineddoche) del Tamigi (Inghilterra), Hudson (America) e Senna
(Francia), muovendo le ali nere semi rotte (enjambement) dalla fatica per dirti “è la fine”. Ciò che io ti lascio non è
l’eredità o qualcosa che può reggere agli attacchi dall’esterno o agli attacchi del tempo che perde la memoria (filo di
ragno), quindi niente di eterno però tutto è destinato a morire, a diventare cenere. L’unica certezza è che le cose
continueranno a morire , che noi moriremo.
Quanto avevo detto all’inizio era giusto (non puoi avere la soluzione ad ogni male dalla poesia):
chi l’aveva capito non fa fatica a ritrovare chi la pensa come lui (unito da una certa ideologia).
ULTIMI 4 VERSI: moto d'orgoglio del poeta che non vuole imporre il suo pensiero e accusato di fuga = il mio orgoglio
era dovuto al fatto che il mio pensiero doveva rimanere lucido, il fatto di non prendere posizione da una parte o
dall’altra era umiltà visto che la mia parola non poteva valere nulla a confronto di quella di tutti gli altri, l’idea nata
laggiù (da ossi di seppia) non era la tenue luce di un fiammifero!
“Piccolo testamento” è un testo poetico scritto nel 1953; questo contesto storico è dominato dalla Guerra Fredda, in
cui il mondo era diviso in due blocchi contrapposti (in Italia c’era la contrapposizione tra cattolici e comunisti).
Durante questo periodo, agli scrittori veniva chiesto insistentemente di schierarsi per poter dare un proprio
contributo alla battaglia ideologica. Invece, Montale rifiuta di schierarsi, non sceglie né il cattolicesimo né il
comunismo.
Lo scopo di Montale era quello di contrapporre alle ideologie i valori di fede e di speranze che aveva cercato di
mantenere più tempo possibile.
Nella poesia “Piccolo testamento”, Montale parla a un “tu”, una donna, alla quale sembra affidare la propria eredità
spirituale, infatti, le dice di conservare la memoria di questa speranza e riporla in un oggetto che porta sempre con
sé. Montale continua dicendo che si spegneranno le luci delle ideologie e sul mondo si scatenerà un caos infernale.
Tuttavia, Montale lascia alla donna non un’eredità, bensì un portafortuna che può reggere all’urto dei monsoni, è
come un filo di ragnatela esposto a questi venti, che rappresentano la violenza degli avvenimenti storici; ciò che
dura, nella storia degli uomini, è solo ciò che resta dopo la distruzione, ciò che rimane è solo la morte; nel segno
della fede del poeta si ritroveranno i pochi che ne sono partecipi, quelli che riconosceranno il “segno”, l’indicazione
morale che lasciato; nei versi finali il poeta ribadisce il valore delle sue scelte personali, la luce che lascia è qualcosa
di più di un fiammifero strofinato (è dunque una cosa piccola e debole ma allo stesso tempo molto importante).
L'ULTIMO MONTALE
Satura è una raccolta di Eugenio Montale che vede la pubblicazione nel 1971. L’opera racchiude e presenta al
pubblico gli scritti dell’autore composti tra il 1962 e il 1970, dopo anni trascorsi dedicandosi alla professione di
giornalista.
Satura è suddivisa in quattro sezioni, Xenia I e II e Satura I e II. La differenza tra le varie sezioni è molto importante
dal punto di vista cronologico e, di conseguenza, tematico: se nelle due sezioni di Xenia, scritte tra il 1962 e il
1966, Montale si concentra sul ricordo della moglie, Drusilla Tanzi, deceduta nel 1963, in Satura I e II, dove troviamo
testi degli anni 1968-70, l’autore riflette in modo satirico su vicende legate al quotidiano. Le poesie acquistano così
un sapore diaristico, in stretta connessione alla realtà e alla vita di ogni giorno.
In Xenia, titolo che rimanda agli epigrammi latini di Marziale, Montale porge in regalo alla moglie scomparsa le
poesie che compongono queste prime due parti della raccolta. L’universo femminile, dominato questa volta dalla
consorte di Montale, chiamata affettuosamente con l’appellativo di "mosca" a causa della sua miopia, subisce un
cambiamento: si passa dall’immagine di una donna salvatrice ma sfuggevole a una donna che si manifesta come
concreta compagna del poeta, che lo indirizza nella loro vita coniugale, grazie ad un’acutezza di sguardo più
profonda rispetto a quella del marito.
In Satura I e II, titolo che richiama invece il genere letterario latino della satira, caratterizzato dalla varietà degli
argomenti trattati e del linguaggio scelto, assistiamo a una critica alla Storia e al mondo contemporaneo del poeta.
Lo stile di Satura oscilla continuamente tra la poesia e la prosa, mescolando al ritmo poetico un linguaggio più
scorrevole e quotidiano.
HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO ALMNEO UN MILIONE DI SCALE
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale è una delle liriche tra le più conosciute di Eugenio Montale,
la quale fa parte della raccolta poetica nota come Satura e scritta nel 1967 in onore della moglie del poeta italiano
Drusilla Tanzi. La poesia si articola in due strofe: la prima strofa è composta da sette versi, mentre la seconda invece
è composta da cinque versi. Il verso utilizzato è un verso di tipo libero e piano. Nel testo poetico Eugenio Montale,
effettua un dialogo con la moglie Drusilla, rivolgendosi a lei in maniera affettuosa.
Il poeta ricorda con affetto la vita coniugale, rievocata in particolare modo dal gesto dello scendere le scale insieme
alla moglie. Si tratta di un gesto quotidiano semplice, ma ricordato da Montale con affetto in quanto un'abitudine
della giornata.
La metafora del viaggio : Il poeta traccia con tenerezza la figura della moglie in una dimensione di quotidianità,
ricordandone l'accentuata miopia, il buon senso e la saggezza. Montale offriva alla moglie il braccio per scendere le
scale, metaforicamente condivideva con lei le difficoltà quotidiane nel viaggio della vita e ora, rimasto solo, ne sente
la mancanza.
Previdente ed accorta, era Mosca (il soprannome datole affettuosamente dal marito) a fargli da guida e le sue pupille
offuscate erano le uniche a vedere: era lei, cioè, a cogliere con gli occhi dell'anima il senso profondo del reale. La
miopia della moglie assume un significato particolare nel momento in cui il poeta sottolinea la propria stanchezza
esistenziale: vivendo con lei, egli ha conquistato la capacità di vedere, non teme più gli inganni e gli insuccessi, e ora
le preoccupazioni della vita gli, appaiono trappole prive di significato. Attraverso la metafora del viaggio, Montale
ribadisce la propria concezione dell'esistenza: la realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i
sensi, fatta di impegni e casualità (coincidenze e prenotazioni), insidie e delusioni (trappole e scorni), ma è qualcosa
che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l'uomo.
Le caratteristiche dello stile : Il lessico. La lingua prosastica e quasi d'uso comune (coincidenze e prenotazioni sono
immagini legate alla metafora del viaggio) non è più spigolosa come nei testi giovanili, il registro linguistico è
semplice e colloquiale nell'evocare ricordi sollecitati dalle occasioni più disparate.
La trama fonica. La semplicità del linguaggio non esclude una sapiente struttura: la bipartizione delle strofe è
sottolineata dalla ripresa dello stesso verso con una variante (vv. 1, 8), i versi 5-6-7 sono endecasillabi, le rime
(crede/vede, due/tue) legano gli ultimi versi di ogni strofa, le assonanze creano echi fonici tra le parole-chiave
(scale/offuscate, viaggio/braccio).
ANALISI: Questa lirica è scaturita dalla dolorosa solitudine dell'autore: egli solo ora comprende che proprio "Mosca",
nonostante la miopia, sapeva scrutare ben più a fondo di lui il mistero delle cose e dell'esistenza , dal momento che
la realtà
autentica è quella che si vede. Nonostante le apparenze, dunque, non era lui, con il suo porgerle il braccio nello
scendere le scale , a evitarle di incespicare : era "Mosca" a guidare il viaggio di entrambi nella vita.
Questo componimento esprime, in tono commosso , il senso di vuoto e di inutilità che il poeta avverte dopo la morte
della moglie, alla quale dedica il suo toccante omaggio poetico. Nella poesia, il periodo trascorso insieme alla donna
è espresso metaforicamente da una scale dagli innumerevoli gradini, discesi nel corso di un cammino comune che,
troncato dalla morte di lei, appare tuttavia drammaticamente breve a chi è rimasto solo e vede soltanto il vuoto
davanti a sè. La metafora si propone nell'immagine dell'inutile viaggio solitario del poeta , al quale le incombenze
della quotidianità (le coincidenze, le prenotazioni) denunciano tutta la loro vacuità , e la vana apparenza viene
spesso confusa con la realtà.
PRIMO LEVI (1919-1987)
Primo Levi nasce nel 1919 da famiglia ebrea a Torino dove compie gli studi fino alla laurea in chimica.
Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, perde l’impiego di chimico e dopo l’8 settembre 1943 si aggrega alle formazioni
partigiane in Val d’Aosta.
Arrestato il 13 dicembre di quell’anno è inviato, per la sua condizione di ebreo, al campo di raccolta di Fossoli
(Modena) e da qui, nel febbraio del 1944, viene deportato con altri 650 ebrei nel lager di Auschwitz, in Polonia.
Salvato dalla camera a gas perché i tedeschi avevano bisogno di chimici, viene liberato nel gennaio del 1945 quando
le truppe russe costringono al ritiro quelle tedesche.
Tornato in Italia alla fine del 1945, narra la sua drammatica esperienza nei libri autobiografici Se questo è un uomo
(1947) e La tregua (1963).
Continua a lavorae nell’industria fino al 1975 e alterna il suo lavoro di chimico con quello di narratore pubblicando
romanzi e raccolte tra cui Le storie naturali (pubblicate con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Il sistema
periodico, La chiave a stella, I sommersi e i salvati. Muore suicida l’11 aprile 1987.
SE QUESTO è UN UOMO
Se questo è un uomo è il capolavoro di Primo Levi scritto, come ha affermato l’autore stesso, nella prefazione del
libro, per soddisfare “il bisogno di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi” l’esperienza della sua deportazione
nel Lager di Auschwitz in quanto ebreo. Primo Levi scrive questo libro di getto nel 1946, subito dopo essere rientrato
a Torino nell’ottobre del 1945 sopravvissuto alla prigionia, obbedendo all’esigenza di far conoscere a tutti
l’esperienza atroce dell’internamento.
TRAMA
Levi racconta in prima persona la sua deportazione a partire da quando, fatto prigioniero in Italia (13 dicembre
1943), viene condotto prima nel campo di concentramento di Fossoli, in Emilia, e poi ad Auschwitz (nel gennaio del
1944), in Polonia, nel campo di concentramento di Buna Monowitz, attraverso un allucinante viaggio su carri-
bestiame. Al campo i deportati sono adibiti a lavori durissimi e patiscono stenti e violenze di ogni genere. I nazisti ne
hanno previsto lo sterminio ma prima vogliono sfruttare le loro capacità e la loro forza-lavoro.
Il racconto si focalizza sulla feroce e programmatica violazione della dignità umana compiuta dai nazisti, per
annientare i prigionieri prima di ucciderli. I nazisti hanno creato un sistema mostruoso di sopraffazione con una
gerarchia basata sul pregiudizio razziale per cui gli ebrei sono gli ultimi dopo i criminali e i prigionieri politici.
I prigionieri ridotti a larve umane entrano in feroce competizione anche tra di loro. La legge spietata della
sopravvivenza permette solo a chi è abbastanza astuto da eludere la disciplina del campo, anche a spese dei
compagni di prigionia più deboli, di avere qualche speranza di salvezza.
Gli stessi prigionieri da vittime diventano aguzzini e per sopravvivere mettono in atto meschinità, sotterfugi e
violenza nei confronti di altri prigionieri, ed i nazisti se ne servono per aver garantito il controllo del campo e
prevenire ribellioni. In tal modo i prigionieri diventano doppiamente perseguitati, in quanto vittime non solo dei
nazisti ma anche di se stessi perché si trasformano in aguzzini dei propri consimili.
Dopo alcuni mesi Levi riesce ad avere un trattamento meno duro, grazie al fatto di essere laureato in chimica riesce
ad essere preso a lavorare nel laboratorio della fabbrica. Ciò oltre ad altre piccole circostanze favorevoli (come
l’ammalarsi di scarlattina nell’ultimo periodo e perciò essere stato abbandonato, in quanto malato, dai nazisti in
fuga) gli permettono di sopravvivere, insieme a pochi altri compagni, fine alla fine della guerra e alla liberazione da
parte di soldati russi il 27 gennaio del 1945.
ANALISI
E’ un testo autobiografico che viene scritto di getto, sull’onda dei ricordi della terribile esperienza vissuta. Levi mette
in luce come in un contesto di simile crudeltà ogni prigioniero sia ferocemente solo e veda dissolversi i principi della
convivenza civile e delle regole morali.
La narrazione segue in ordine cronologico le tappe cruciali dell’esperienza del Lager a decorrere dal febbraio 1944 al
gennaio 1945. L’ordine con cui sono stati scritti i 17 capitoli non è stato dettato da una successione logica ma
piuttosto da una necessità “di urgenza”, per esempio: l’ultimo capitolo, “Storia di dieci giorni”, venne scritto per
primo.
Nonostante questo impeto d’urgenza l’opera Se questo è un uomo ha una scrittura chiara e composta, di grande
forza comunicativa.
E’ un testo che è stato definito “racconto commentato” in quanto si sviluppa su una alternanza di narrazione e
riflessione:
Narrazione: la descrizione pone particolare rigore nell’aderire ai fatti e nell’oggettività;
Riflessione: l’esposizione dei fatti, che non cade mai nel patetico o nel macabro, viene commentata dall’autore-
testimone nel tentativo di capire le ragioni che stanno alla base degli orrori raccontati.
L’autore vuole capire e come un naturalista cerca di analizzare scientificamente quel nuovo mostruoso ambiente, le
percosse senza ragione, il trattamento da schiavi, gli ordini urlati in una lingua ai più incomprensibile, la selezione per
le camere a gas, la guerra di tutti contro tutti, la sopraffazione. Comprendere fino in fondo non è possibile e Levi
concludendo l’opera non può che affermare l’impossibilità di capire ed anzi sottolinea che forse è giusto che sia così,
“perché comprendere è quasi giustificare”.
TITOLO
Il titolo del libro è un drammatico interrogativo che Levi rivolge ai lettori. Egli riflette sulle conseguenze
dell’annientamento dell’identità e della dignità dell’uomo operato sistematicamente dai nazisti e domanda se
possano definirsi uomini questi prigionieri privati di tutto e resi incapaci di difendersi e di reagire.
STILE
Lo stile è conciso e asciutto, senza compiacimenti descrittivi ed abbandoni emotivi, nonostante la drammaticità
dell’argomento. Il linguaggio semplice e comunicativo è proprio di chi vuole, più che esprimere un giudizio,
trasmettere il messaggio ad un vasto pubblico e creare un rapporto diretto con il lettore.
Alle parti narrativo-descrittive si intercalano a volte brevi pause riflessive sulla condizione di annullamento della
dignità di questi uomini a cui è stato tolto tutto, identità, ricordi, pensieri, opinioni.
Il lessico è accurato e fa ricorso anche termini tecnici e vocaboli in lingua tedesca. In particolare le espressioni in
tedesco indicano solitamente i comandi impartiti all’improvviso in modo feroce e mettono in rilievo lo straniamento
e lo stato di allerta continuo patito dai prigionieri che dovevano eseguire ordini imprevedibili e incomprensibili.
Il narratore è interno e onnisciente, è sia personaggio che voce narrante.
L’uso del presente storico e di avverbi deittici (ora, adesso, eccomi, ecc) hanno lo scopo di attualizzare il racconto
(descrivere gli avvenimenti nel momento in cui accadono) ed anche testimoniare che l’esperienza del lager per chi lo
ha vissuto continua ad incombere.
Il ricorso al polisindeto (uso ripetuto di congiunzioni all’interno della stessa frase) vuole esprimere l’incalzare dei
ricordi e delle sensazioni provate dai personaggi.
Le figure retoriche a cui Levi ricorre più di frequente sono: le anafore, le enumerazioni, le iterazioni e le anadiplosi,
utilizzate per scandire le varie fasi della realtà descritta.
SHEMA'
La poesia Shemà di Primo Levi è un testo di 23 versi liberi che fa da apertura all’opera memorialistica di Primo Levi Se
questo è un uomo, pubblicata per la prima volta nel 1947. In questa celebre opera, la più famosa tra i libri
dell’autore, vengono descritti l’internamento e la prigionia di Levi nei campi di Auschwitz e Monowitz, dal gennaio
del 1944 al gennaio del 1945.
Il titolo della poesia, Shemà, altro non è che una parola in ebraico che vuol dire “ascolta”. La poesia è datata 10
gennaio 1946, quindi a poco meno di un anno dopo la liberazione da Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945. Già
dalle parole di apertura del libro, quindi, risuona forte e chiaro l’appello che Primo Levi sta rivolgendo al lettore.
Vediamo insieme testo, parafrasi e analisi di Shemà di Primo Levi.
Metrica e retorica
La poesia posta in apertura al romanzo Se questo è un uomo è composta, come già detto, da 23 versi di varia misura,
privi di uno schema metrico. L’intero testo non presenta alcuna rima, ma al suo interno si possono trovare
diverse assonanze (es. “pane”-"pace", “grembo”-"inverno", “parole”-"cuore") e consonanze.
Sono presenti inoltre numerose allitterazioni, in particolare delle lettere v (presente fin dal primo verso “Voi
che vivete”), s, r, t e che con i loro suoni aspri supportano dal punto di vista fonico il tema del componimento.
Per la sua natura di orazione perentoria, direttamente rivolta al lettore, il testo si configura come un’apostrofe,
evidente fin dal primo verso ("Voi che vivete sicuri").
Tra le altre figure retoriche presenti, citiamo:
anafore: “voi che” (vv. 1 e 3); “considerate se” (vv. 5 e 10); “che” (vv. 6-9), “senza” (vv. 11-12).
similitudine: “come una rana d’inverno” (v. 14)
parallelismo: “considerate se questo è un uomo” / “considerate se questa è una donna” (vv. 5 e 10)
enumerazione: vv. 6-9, vv. 18-19
Il canto di Ulisse - cap.11
Sintesi
Titolo capitolo: Il canto di Ulisse
Capitolo: Undicesimo
Romanzo: Se questo è un uomo
Autore: Primo Levi
Argomento: Levi cerca di ricordare le terzine del canto XXVI dell’Inferno di Dante, quello di Ulisse
RIASSUNTO
Mentre Levi è impegnato insieme ai suoi compagni di Kommando a raschiare e pulire una cisterna arriva Jean, il più
giovane del Kommando Chimico che era stato nominato Pikolo, cioè fattorino-scritturale a cui competeva la pulizia
della baracca e delle gamelle, la consegna degli attrezzi e la contabilità delle ore di lavoro.
Jean è uno studente alsaziano che parla correttamente francese e tedesco, forte e scaltro ma nello stesso tempo
mite e amichevole. E’ molto benvoluto nel Kommando, dove è riuscito con perseveranza a conquistarsi la fiducia del
Kapo e a mantenere rapporti umani con i compagni meno privilegiati di lui.
Il Kapo, Alex, uomo violento e ignorante, disprezza gli ebrei e li tratta con crudeltà, è servile invece con i civili e
amichevole con le SS. Jean (Pikolo) è riuscito ad entrare nelle sue grazie attraverso un’opera lenta e cauta,
rendendosi utile per la stesura del registro del Kommando e del rapportino quotidiano delle prestazioni, che tanto
intimidiscono e mettono in difficoltà il Kapo.
Tra le incombenze di Jean c’è anche quella di prelevare il rancio per il Kommando chimico. Per il trasporto della
pesante marmitta egli può scegliere tra i deportati una persona e una mattina egli decide di chiedere a Levi di
accompagnarlo.
Si tratta di andare fino alle cucine, ad un chilometro di distanza, e poi tornare trasportando una marmitta di
cinquanta chili. E’ un lavoro faticoso ma che permette di fare la camminata di andata all’aria aperta senza carico
facendo un lungo giro senza destare sospetti. Camminando i due parlano di varie cose, le loro case, gli studi, le loro
madri, e poi Jean dice che gli piacerebbe imparare l’italiano. Levi vuole insegnarglielo e per farlo fa una scelta
metodologica significativa: ricorrere al canto XXVI dell’Inferno di Dante, quello di Ulisse.
Levi recita qualche terzina e poi tenta di tradurle, e continua di strofa in strofa, tra lacune e dimenticanze,
continuando a volte in prosa frettolosamente perché nel frattempo stanno per arrivare alle cucine.
Il canto diventa così un modo per evadere dall’ambiente brutale del Lager, per ritrovare se stessi e l’umanità, per
ricordare la vita da libero. Il faticoso far tornare alla memoria i versi danteschi si intreccia con la memoria del vissuto
di ognuno di loro, il mare, le montagne, il passato. Levi si sforza di recitare la conclusione del canto ma gli tornano
alla memoria altri versi, si sforza di ricostruire le rime ma ormai non c’è più tempo, sono arrivati alle cucine.