Moduli Italiano
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Nella seconda metà dell'Ottocento si diffonde in Europa e in Italia una crisi del Romanticismo e si
fa strada una nuova tendenza più vicina ai problemi concreti della società: il Realismo. Questo
movimento prende il nome di Positivismo in filosofia; Naturalismo nella letteratura francese;
Verismo nella letteratura italiana.
REALISMO
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IL VERISMO ITALIANO
Anche in Italia la tendenza realistica generò una corrente letteraria che interessò la poesia, la
narrativa ed il teatro. Tale corrente va sotto il nome di Verismo e si sviluppa negli anni successivi
all’Unità e prosegue fino al primo decennio del Novecento, raggiungendo la piena maturità
nell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Il teorico del movimento fu Luigi Capuana, il quale,
richiamandosi al Naturalismo francese, faceva proprio il principio dell’“impersonalità dell’arte”, la
tendenza a fotografare la realtà e rappresentare il documento umano oggettivamente. A differenza
dei colleghi francesi, che denunceranno in tono polemico ma sempre fiducioso la degradazione del
proletariato industriale e lo squallore delle realtà urbane, i veristi descriveranno in tono più che mai
rassegnato la misera condizione degli umili nei piccoli ed arretrati paesi dell’Italia Meridionale, le
cui attività produttive principali erano l’agricoltura, la pesca e il lavoro nelle miniere. I punti
essenziali della poetica verista, sono espressi chiaramente nella prefazione di G. Verga alla novella
L’Amante di Gramigna (dalla raccolta Vita di campi). I tratti salienti e le caratteristiche della
corrente sono:
· accettazione delle leggi scientifiche che regolano la vita associata e i comportamenti: lo scrittore
cerca di scoprire le leggi che regolano la società umana, muovendo dalle forme sociali più basse
verso quelle più alte, come fa lo scienziato in laboratorio quando cerca di scoprire le leggi fisiche
che stanno dietro ad un fenomeno;
· piuttosto che raccontare emozioni, lo scrittore presenta la situazione quotidiana come una indagine
scientifica, ricercando le cause del suo evolversi, che sono sempre naturali e determinate
(determinismo o darwinismo sociale);
· necessità di una riproduzione obbiettiva ed integrale della realtà, secondo quel canone
dell’impersonalità che è l’applicazione in letteratura del principio scientifico della non interferenza
dell’osservatore sugli oggetti osservati (derivante dal Positivismo);
· il modo di scrivere cambia nel verismo dando spazio ai dialetti, eliminando tutte le forme di
raffinatezza retorica e accademica e introducendo la mimesi linguistica (mimetizzazione =
nascondersi nell’ambiente circostante in modo da risultare non visibile). La sintassi è semplice e
disadorna, e continuamente intercalata da espressioni popolari e proverbiali che mettono in luce
l’oggettività della narrazione;
· l’autore si mette nella pelle dei suoi personaggi, vede le cose con i loro occhi e le esprime con le
loro parole. In tal modo la sua mano « rimane assolutamente invisibile » nell’opera e il lettore ha
così l’impressione non di sentire un racconto di fatti, ma di assistere a fatti che si svolgono sotto i
suoi occhi;
· scomparsa del narratore onnisciente (modello manzoniano). Il lettore viene quindi introdotto nel
mezzo degli avvenimenti, senza che nessuno gli spieghi gli antefatti e gli tracci un profilo dei
personaggi. Questi ultimi si sveleranno da sé per mezzo delle loro azioni e in base a ciò che gli altri
personaggi diranno di loro.
DIFFERENZE TRA NATURALISMO E VERISMO
Il Naturalismo e il Verismo differiscono in alcuni punti:
• nei romanzi francesi è forte la denuncia delle ingiustizie sociali, accompagnata dalla fiducia in un
loro superamento; i problemi presentati sono comuni a tutto il popolo francese e hanno quindi un
carattere nazionale.
• nei romanzi italiani, invece, sono rappresentate le misere condizioni delle masse subalterne. Non
c’è però una precisa volontà di denuncia e non si intravede una possibilità reale di riscatto e di
miglioramento per gli umili.
I veristi vivono e scrivono in una società ancora arretrata, dove le plebi sono rassegnate, la
borghesia e l'aristocrazia sono chiuse nel loro mondo e sorde alle questioni sociali. I problemi
trattati, infine, hanno un carattere locale, meridionale, dialettale e non coinvolgono l'intera nazione.
CONTESTO STORICO
CARATTERISTICHE FONDAMENTALI
DIFFERENZE TRA
VERISMO NATURALISMO
non c’è una precisa volontà di denuncia denuncia le ingiustizie sociali
e non c’è una possibilità di riscatto degli con la speranza di superarle
umili
In essi nasce il desiderio di raccontare il “vero” e di far parlare “i fatti” anche quelli più
insignificanti e crudi
GIOVANNI VERGA
Catania 1840- Catania 1922
Studia legge ma non si laurea per Viaggia tra Firenze e Milano Ritorna a Catania
dedicarsi alla letteratura. Dove conosce molti letterati nel 1893 vivendo in
La famiglia è benestante. In particolare Capuana a Firenze volontario isolamento.
OPERE
Rientrano nel progetto del “CICLO DEI VINTI” che prevedeva la creazione di 5 romanzi nei quali
si affrontava il tema della incapacità dell’essere umano di cambiare destino. I romanzi dovevano
essere: I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’Onorevole Scipioni, L’uomo
di lusso. Di questi riuscì a scriverne solo i primi 3 e a pubblicare i primi due.
IL DECADENTISMO
Il Decadentismo può essere definito come un movimento culturale piuttosto vario che trova nella
critica al Positivismo e alla morale borghese un punto di coesione. Il termine “decadente”, coniato a
Parigi verso il 1880, ha, originariamente, una valenza negativa. La critica letteraria di fine
Ottocento, ispirandosi alla morale borghese allora dominante, definì “decadenti” quei poeti che
esprimevano lo smarrimento della coscienza di fronte ad una civiltà considerata in declino. Scrittori
e pittori che si riconoscevano nelle nuove idee si riunirono attorno ad una rivista letteraria “Le
Décadent” fondata nel 1886. Il Decadentismo è un fenomeno complesso, non esiste, come per il
Naturalismo o per il Romanticismo, una poetica a cui far riferimento. Abbiamo piuttosto una
proliferazione di poetiche che possiamo raccogliere in due distinti movimenti: il Simbolismo e
l’Estetismo.
IL DECADENTISMO IN ITALIA
Il Decadentismo si diffuse in Italia con un certo ritardo rispetto al resto d’Europa. Esso si espresse
in particolare nell’opera di Giovanni Pascoli (la poetica del “fanciullino”) e in quella di Gabriele
D’Annunzio (che probabilmente rappresenta il maggior esponente della cultura decadente italiana,
se non altro per il suo voler far coincidere arte e vita e per la sua completa adesione ai motivi
dell’estetismo e de superomismo). Il Decadentismo italiano presenterà spesso fenomeni di decisa
reazione e di rifiuto dei modelli europei. Tuttavia gli ambienti in cui tale rifiuto nasce hanno in
comune con il Decadentismo la cornice generale, vale a dire la sfiducia in qualunque certezza,
l’individualismo, l’isolamento dell’artista rispetto alla società. L’incertezza e la precarietà vengono
allora riconosciute come base della vita, e la “malattia” è accettata come condizione normale, alla
quale è possibile contrapporre solo una lucida, virile rassegnazione ad un destino di sconfitta.
Questa “coscienza della crisi”, che rifiuta ogni facile rifugio nei miti velleitari e consolatori del
superomismo, ha in Italia i suoi massimi esponenti in Italo Svevo e in Luigi Pirandello, due
scrittori la cui penetrante sensibilità umana e culturale precorreva i tempi, e la cui grandezza, non a
caso, ebbe proprio per questo un tardivo riconoscimento.
Per cogliere il senso profondo è necessario ricorrere al simbolo, gli oggetti, le parole, le immagini
diventano simboli che richiamano sentimenti, stati d’animo, idee, attraverso un misterioso legame
di analogia. La poesia diventa illuminazione, formata da immagini intense e brevi senza il supporto
di una adeguata trama narrativa (per questo aspetto l’Ermetismo deve molto alla poesia decadente).
In polemica con il realismo, il decadentismo mira a fornire impressioni soggettive anziché
descrizioni oggettive, e predilige gli aspetti misteriosi ed onirici della realtà, esprimendoli con le
figure retoriche dell'analogia (è una figura retorica che consiste nell'accostamento e la
comparazione, all'interno di un testo sia scritto sia orale, tra due o più parole simili per significato),
della metafora (una figura retorica che implica un trasferimento di significato. Si ha quando, al
termine che normalmente occuperebbe il posto nella frase, se ne sostituisce un altro. Differisce dalla
similitudine per l'assenza di avverbi di paragone o locuzioni avverbiali "come") e della sinestesia (è
una figura retorica che prevede l'accostamento di due parole appartenenti a due sfere sensoriali
diverse: es. ODORINO AMARO; SOFFI DI LAMPO).
GIOVANNI PASCOLI
(San Mauro di Romagna [Forlì]1855- Castelvecchio di Barga [Lucca] 1912)
LA VITA
Crebbe in campagna, in una famiglia patriarcale e agiata. Nel 1867, il padre venne assassinato in
circostanze misteriose; fu un delitto destinato a rimanere impunito e che sconvolse il sereno nido
familiare: la madre morì l’anno seguente e il fratello maggiore Giacomo si trasferì con il resto della
famiglia a Rimini. L’ossessione di ricostituire il nucleo familiare lo spinse a riunire attorno a sé le
sorelle Ida e Maria (detta Mariù) rinunciando a sposarsi. i; visse pertanto il matrimonio di Ida come
un tradimento. Nel 1895 a Castelvecchio di Barga (Lucca) prese in affitto una casa che in seguito
acquistò, facendone il suo nido definitivo assieme alla sorella Mariù. In questi anni travagliati
nacquero le raccolte poetiche più celebri: Myricae, Poemetti, Canti di Castelvecchio, Poemi
conviviali. Morì di cancro nel 1912.
2) Il nido
Il tema del nido simboleggia la famiglia e viene visto come un luogo caldo, protettivo e segreto.
Il nido difende chi vi sta dentro. In questa visione, il male più grande è la dispersione del nido, per
esempio,l’abbandono della casa, i lutti familiari o il fidanzamento della sorella Ida.
3)La regressione
La regressione, che si manifesta nel simbolo ricorrente del «nido» (luogo al riparo dalle insidie del
mondo sotto la protezione degli affetti familiari), prende tre diverse direzioni:
una regressione anagrafica (la fanciullezza, stagione dell’innocenza, della fantasia e della
spontaneità, come alternativa al mondo adulto dominato dal calcolo, dall’egoismo,
dall’insensibilità);
una regressione sociale (il mondo arcaico [antico] e armonico della campagna, regolato
dalle eterne leggi di natura, come alternativa all’universo alienante [che estranea dalla
realtà] della modernità tecnologica e cittadina);
una regressione storico-culturale (il mondo classico, ai primordi della civiltà occidentale,
come alternativa alla cultura borghese contemporanea).
PERCHÉ PASCOLI È UN CLASSICO?
Pascoli segna una svolta fondamentale nel processo di rinnovamento culturale e stilistico apertosi in
Italia tra l’Ottocento e il Novecento. In consonanza con quest’epoca di trasformazione (crisi del
Positivismo, crollo dei miti della scienza e del progresso), la sua opera fu caratterizzata da elementi
contraddittori, sia sul piano ideologico sia su quello delle scelte espressive. Nella formazione del
poeta sono evidenti, anzitutto, tracce della cultura positivista e classicista dell’Italia del tempo,
dominata dalla figura di Carducci (di cui Pascoli fu allievo), ma moderne sono la sua sensibilità e la
sua concezione della poesia come rivelazione dell’ignoto. Poeta di bozzetti naturali e descrittore di
contenuti umili, Pascoli scoprì il valore segreto delle «piccole cose» (primo elemento di
innovazione), viste come simboli della realtà che si cela al di là delle apparenze. Al linguaggio
generico e dotto della tradizione letteraria sostituì un lessico preciso e tecnico, aperto al dialetto e ai
termini stranieri, ma sempre con qualcosa di prezioso e raffinato, teso a sperimentare, in sintonia
con il gusto decadente, registri inesplorati (secondo elemento di innovazione).
LE OPERE
Un autore sincronico Pascoli fu autore sincronico: portava cioè avanti più opere
contemporaneamente, sicché la sua produzione può essere ricondotta a una medesima poetica, che
egli stesso ha illustrato nella prosa del Fanciullino. L’opera ebbe una lunga gestazione: uscita in
anteprima parziale nel 1897 (con il titolo Pensieri sull’arte poetica), solo nel 1903 fu pubblicata in
forma integrale (in 20 capitoli), anche se non definitiva (Pascoli pensava a ulteriori ampliamenti).
Secondo Pascoli, in ogni uomo si cela un «fanciullino», ovvero la capacità di guardare con stupore a
quanto lo circonda; ma gli uomini comuni, diventando adulti, tendono a perdere, a differenza del
poeta, questa particolare sensibilità dell’infanzia. Il «poeta fanciullo» vede tutto con meraviglia,
come per la prima volta; si sottrae alla logica ordinaria grazie all’attività fantastica, parla «alle
bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle», piange e ride «senza perché, di cose che
sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione», scopre legami inconsueti tra le cose, rovescia le
proporzioni e rimpicciolisce «per poter vedere» o ingigantisce «per poter ammirare». La poesia,
come ricordo del momento magico dell’età infantile non inventa nulla, ma scopre nelle cose
quotidiane gli echi dell’interiorità e delle inquietudini della coscienza. In altre parole, se la
formazione culturale positivista porta Pascoli a valorizzare la realtà concreta e a esprimerla con
esattezza linguistica, egli però rifiuta la visione scientifica del mondo (la scienza non è l’unica
possibile forma di conoscenza), per privilegiare la “vista” simbolica, carica di significati soggettivi
e allusivi: la poesia consiste «nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi» e il
poeta sa cogliere il mistero che avvolge la realtà. . Il poeta-fanciullino ha le caratteristiche del
veggente, ma proprio perché ha in sé questi tratti di superiorità che gli vengono dal dono poetico,
può ricoprire anche il ruolo di poeta-vate: la poesia, in altre parole, può avere una funzione
consolatoria, spingere gli uomini alla fratellanza, pacificare le tensioni sociali, fermare la corsa
affannosa verso il benessere materiale, propria della società capitalistica.
N.B. Il nazionalismo pascoliano In Pascoli emerge una forte contraddizione tra il suo utopico
socialismo umanitario e la sua adesione alla guerra colonialista in Libia: l’autore non guardava
all’Italia come a una possibile super-nazione, alla maniera di D’Annunzio; al contrario, l’Italia era
per lui una nazione povera costretta a espandersi territorialmente per dare pane e lavoro ai propri
figli e per arginare la piaga dell’emigrazione.
PASCOLI E D’ANNUNZIO
Pascoli e D’Annunzio sono i rappresentanti più significativi del Decadentismo italiano, ma
presentano notevoli differenze nel carattere, nello stile di vita, nel rapporto con la società letteraria.
Pascoli, riservato e schivo, bisognoso di protezione, si fece portatore di un’ideologia fondata sui
valori della famiglia, della casa, del lavoro; D’Annunzio, estroverso e mondano, amò far parlare di
sé, dare scandalo, si compiacque del bel gesto, del bel motto, e si propose quale figura pubblica in
cui la borghesia italiana potesse proiettare i propri desideri di affermazione o di trasgressione. Allo
stesso modo, anche le due poetiche appaiono radicalmente diverse. Sebbene entrambi tentino,
raccogliendo le istanze simboliste, di superare il linguaggio mimetico, gli esiti risultano opposti e
complementari. Il «fanciullino» di Pascoli è un invito ritornare bambini per riconquistare l’antico
pudore, in cui il linguaggio torni a essere tramite per intuizioni profonde, pre-logiche, simboliche di
verità nascoste alla razionalità. Al contrario il «superuomo» d’annunziano crea una nuova realtà:
come a voler piegare il mondo alla propria visione, nel tentativo di fondere l’individuo con la
totalità dell’esistente. Queste differenze riemergono nel diverso appropriarsi del ruolo di vate:
Pascoli cantò i successi della patria ponendosi sulla linea di un nazionalismo per nulla esasperato,
come estensione dei legami di sangue dalla famiglia alla nazione, dal nido privato al nido comune
(l’Italia); D’Annunzio, invece, si sentì chiamato a esortare la patria a tornare a essere la potenza
egemonica di un tempo.
Titolo e genere
Myricae è termine latino (preso a prestito dalla IV Bucolica di Virgilio) per indicare le tamerici,
umili arbusti comuni in area mediterranea, impiegati dai contadini per far ramazze (Scopa
grossolana fatta di rami sottili, usata per pulire strade, cortili, cucine...) o accendere il fuoco. Per
Pascoli simboleggiano il mondo umile delle piccole cose legate alla terra; inoltre rappresentano un
legame con il luogo natale perché particolarmente abbondanti proprio nei paraggi di San Mauro di
Romagna. La scelta del termine latino è carica di valori:
valore simbolico = vuole rappresentare gli aspetti più semplici, propri dell’umile mondo
bucolico
valore affettivo = le tamerici abbondano nella natia San Mauro ed il poeta parlerà delle
proprie poesie come di tamerici (anche nella prefazione ai “canti di Castelvecchio”, opera
che va letta in continuità con Myricae) e si augura che fioriscano intorno alla tomba della
madre.
Fin dalla Prefazione Pascoli suggerisce la chiave di lettura del libro, dominato dal tema funebre
della rievocazione dei lutti di famiglia: la morte, nel giro di dieci anni, del padre, della madre e di
tre fratelli. Ma la dimensione privata assurge a visione del mondo, in cui al bene assicurato da
madre natura si mescola il male provocato dalla malvagità dell’uomo. Il nido è il grande archetipo
(modello) attorno al quale ruota il mondo poetico pascoliano. Esso è il luogo degli affetti e il rifugio
contro la cattiveria degli uomini; ogni distacco dal nido è un trauma, così come ogni ritorno è una
regressione (un tornare indietro) alla beatitudine della prima infanzia (al nido il fanciullino guarda
come al grembo materno). Il nido è anche simbolo del riparo offerto dalla natura contro la violenza
della storia: pertanto è legato al polo positivo della campagna (ricco di risvolti ideologici, come la
celebrazione della piccola proprietà terriera e della serena semplicità della vita contadina),
contrapposto alla città (dove gli uomini si riuniscono solo per farsi del male). La tensione
drammatica che anima la raccolta è data dal fatto che anche nel nido la violenza si abbatte
comunque, trasformando lo spazio paradisiaco, meraviglioso, nel teatro di un dramma. Il nido
appare alla fine come il campo in cui il bene, la natura e la vita danno battaglia contro il male, la
storia e la morte.
TESTO PARAFRASI
San Lorenzo, io lo so perché tanto San Lorenzo (apostrofe - il Poeta si rivolge al santo celebrato il 10 agosto,
di stelle per l'aria tranquilla anniversario dell’assasinio del padre), io lo so perché così tante stelle (tanto
di stelle: per un particolare fenomeno astronomico, nella notte di San
arde e cade, perché si gran pianto Lorenzo le stelle cadenti sono molto più numerose del solito) ardono e
nel concavo cielo sfavilla. cadono nell’aria serena, perché un così grande pianto (gran pianto: le stelle
che cadono diventano metafora del pianto) si manifesta nella volta del cielo
Ritornava una rondine al tetto:
(concavo cielo – vista da terra appare come una smisurata cavità).
l'uccisero: cadde tra i spini; Mentre la rondine tornava al suo nido (al tetto - sineddoche): la uccisero:
ella aveva nel becco un insetto: cadde tra i cespugli spinosi (spini); ella aveva nel becco un insetto: la cena
dei suoi rondinini (la rondine era l'unica fonte di sostentamento per i
la cena dei suoi rondinini.
rondinini, così come Ruggero Pascoli lo era per la sua famiglia).
Ora è là, come in croce, che tende Ora è là, come in croce (la rondine abbattuta ha le ali aperte come se fosse
10. quel verme a quel cielo lontano; stata crocefissa) che tende quel verme (l’insetto del v.7) verso
il cielo lontano (metafora - aggettivo lontano utilizzato anche al v.20, in
11. e il suo nido è nell'ombra, che attende,
entrambi i casi vuole evidenziare l’indifferenza di Dio verso la sofferenza
12. che pigola sempre più piano. degli esseri viventi) e il suo nido (metonimia; il nido è emblema della gioia
13. Anche un uomo tornava al suo nido: familiare) è con il calare delle ombre della sera (nell'ombra l'ombra della sera
è anche metafora del dolore e della morte), in attesa (del cibo) che pigola
14. l'uccisero: disse: Perdono; sempre più piano (i rondinini rimasti senza la madre che provvedeva a
15. e restò negli aperti occhi un grido: portare il cibo sono ormai prossimi alla morte).
Anche un uomo (il padre del Poeta) stava tornando dalla sua famiglia (al suo
16. portava due bambole in dono...
nido - metafora): lo uccisero; disse: Perdono (prima di morire egli perdonò i
17. Ora là, nella casa romita, suoi assassini) e restò con gli occhi spalancati che dicevano il dolore che la
18. lo aspettano, aspettano in vano: voce ormai non poteva più esprimere (aperti occhi un grido: metafora -
Pascoli usa immagini incisive e molto suggestive per trasmettere la
19. egli immobile, attonito, addita
drammaticità della scena): portava due bambole in dono (metafora -
20. le bambole al cielo lontano. comunica l'idea della famiglia).
21. E tu, Cielo, dall'alto dei mondi Ora là, nella casa solitaria (romita – prostrata dalla desolazione),
lo aspettano (aspettano – anadiplosi - il verbo viene ripetuto per indicare
22. sereni, infinito, immortale,
l’attesa piena di angoscia) inutilmente: egli immobile e attonito (stupito dalla
23. oh! d'un pianto di stelle lo inondi malvagità umana), indica le bambole a Dio (al cielo lontano).
24. quest'atomo opaco del Male! E tu cielo, dall’alto dei tuoi mondi sereni (perchè non conoscono il male e il
dolore, lontani dalle miserie umane), infinito e immortale, di un pianto di
stelle cospargi questo oscuro atomo del male (quest'atomo...Male: la terra,
oscuro frammento - nella vastità dell'Universo - dominato dal Male).
Analisi e commento
Questa poesia fu pubblicata sulla rivista “Marzocco” nel 1896 e poi inclusa nella quarta edizione di
Myricae.
La lirica rievoca uno degli eventi più doloroso e drammatico della vita di Pascoli, la morte violenta
del padre. Il giorno di San Lorenzo, ovvero il 10 agosto Pascoli, il padre di Pascoli venne
assassinato a colpi di fucile, per mano di ignoti, mentre tornava a casa sul suo calesse.
Attraverso la poesia il poeta vuole comunicare al lettore la sua tristezza per la mancanza del padre
assassinato e la accentua mettendo a confronto una rondine abbattuta col cibo nel becco per i suoi
rondinini e il padre che ritornava a casa portando due bambole alle figlie, in modo tale da
sottolineare l’ingiustizia e il male che prevalgono sulla terra.
La leggenda popolare identifica le stelle cadenti, che proprio nella notte del 10 agosto hanno la loro
massima manifestazione nel corso dell’anno, con le lacrime di San Lorenzo. Pascoli varia questa
simbologia, e il fenomeno astrale viene interpretato come il pianto che le stelle versano sulla
malvagità degli uomini e sull’ingiustizia del mondo.
Attraverso le analogie egli riesce a dilatare il dolore personale, facendolo diventare universale.
Ritorna il tema caro a Pascoli del “nido” unico rifugio al male e al dolore del mondo esterno.
Nel titolo, il “X” della data è utilizzato simbolicamente per trasmettere l’idea della croce.
2) I CANTI DI CASTELVECCHIO
La raccolta, dedicata alla memoria della madre, descrive sempre l’umile vita campagnola e il
mondo della natura, privilegiando in questo caso la realtà della Garfagnana (il poeta dal 1895
risiede a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca).
TEMATICHE DELLA RACCOLTA
La celebrazione del mondo della Natura
Dal punto di vista tematico, i Canti di Castelvecchio si avvicinano a Myricae nell'attenzione
riservata al mondo naturale, che si fa portatore e simbolo del valore delle cose semplici e umili,
intese spesso come uno “schermo”, una protezione contro i lutti e i dolori del mondo, e come un
universo protetto dove ricostruire il proprio “nido” familiare.
La prospettiva rispetto a Myricae è però in parte diversa: se nella prima raccolta Pascoli descriveva
un microcosmo misterioso (si pensi a L’assiuolo o Lavandare) qui si privilegia il ciclo naturale delle
stagioni, con l’alternarsi delle diverse stagioni. La scelta per Pascoli ha valore simbolico: all’eterno
ritorno del mondo naturale, che si rinnova e rinasce, si contrappone il tema pascoliano della morte e
l’angoscia della vita individuale (come ne La mia sera).
La morte, la poesia e il cosmo
La percezione della morte spinge da un lato il poeta a rifugiarsi nella dimensione del ricordo e della
giovinezza, spesso evocati sulla pagina con sapore nostalgico e malinconico; dall’altro acquistano
più rilievo i toni lirici, che, rispetto a Myricae, sono ben più numerosi di quelli narrativi o
descrittivi. L’incupirsi delle proprie prospettive esistenziali conduce Pascoli ad assegnare uno
specifico compito alla poesia, che ora deve esorcizzare (scongiurare/allontanare) il pensiero della
morte o consolare il dolore individuale, data anche l’insufficienza delle risposte assicurate dalla
fede religiosa.
Poesia tratta dai “Canti di Castelvecchio”
Titolo della poesia: La cavalla storna
TESTO PARAFRASI
Nella Torre il silenzio era già alto. Il silenzio era già assoluto presso la Torre.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto. I pioppi del Rio Salto sussurravano al vento.
I cavalli normanni alle lor poste I cavalli normanni, nelle loro stalle,
frangean la biada con rumor di croste. masticavano la biada con un sonoro ruminio.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia, Laggiù c’era la cavalla selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia; nata fra i pini di una spiaggia salata,
che nelle froge avea del mar gli spruzzi e questa sulle mucose del naso aveva ancora
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi. gli spruzzi del mare, e negli orecchi le urla stridenti.
Con su la greppia un gomito, da essa Mia madre, a fianco a lei, le teneva un gomito
era mia madre; e le dicea sommessa: sul dorso; e le diceva con voce bassa:
“O cavallina, cavallina storna, “O cavallina, cavallina pezzata di grigio,
che portavi colui che non ritorna; che portavi con te chi non tornerà più;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto! tu che capivi i suoi gesti e i suoi comandi!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto; Lui ha lasciato un orfano di pochi anni;
il primo d’otto tra miei figli e figlie; [lui] è il primo dei miei figli e delle mie figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie. e lui non ha mai preso delle briglie in mano.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano Tu [cavallina] che senti ai tuoi fianchi il caos
tu dai retta alla sua piccola mano. del delitto e ti fidi della sua piccola mano.
Tu ch’hai nel cuore la marina brulla, Tu che hai nel cuore le erbe del mare.
tu dai retta alla sua voce fanciulla” tu che ti fidi della sua voce da bambino”.
La cavalla volgea la scarna testa La cavalla girava la testa piccola e magra
verso mia madre, che dicea più mesta: verso mia madre, che diceva ancor più triste:
“O cavallina, cavallina storna, “O cavallina, cavallina grigia,
che portavi colui che non ritorna; che portavi con te chi non può tornare più;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte! come so bene che l’amavi tantissimo!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte. Con lui, c’eravate solo tu e la morte.
O nata in selve tra l’ondate e il vento, O tu, nata in un bosco tra il vento e le onde,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento; tu hai tenuto stretto nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso, quando hai sentito allentarsi il morso in bocca,
nel cuor veloce tu premesti il corso: hai preso a galoppare nel tuo cuore:
adagio seguitasti la tua via, lentamente hai seguito la strada verso casa,
perché facesse in pace l’agonia…”. perché Ruggero morisse in pace…”.
La scarna lunga testa era daccanto La magra testa della cavallina era a fianco
al dolce viso di mia madre in pianto. al viso dolce di mia madre, rigato dalle lacrime.
“O cavallina, cavallina storna, “O cavallina, cavallina pezzata,
che portavi colui che non ritorna; che portavi con te chi non c’è più;
oh! due parole egli dové pur dire! oh! lui avrà dovuto pur dire qualcosa!
E tu capisci, ma non sai ridire. Tu l’hai capito, ma non lo puoi ripetere.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe, Tu, con le briglie che ti cadono tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe, con lingue di fuoco dentro gli occhi,
con negli orecchi l’eco degli scoppi, con l’eco dei colpi di fucile negli orecchi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi: hai seguito la strada tra i filari dei pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole, tu riportavi a casa Ruggero al tramonto,
perché udissimo noi le sue parole”. affinché noi udissimo le sue parole”.
Stava attenta la lunga testa fiera. La lunga testa della cavallina stava attenta e fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera. Mia madre le strinse la criniera.
“O cavallina, cavallina storna, “O cavallina, cavallina dal manto grigio,
portavi a casa sua chi non ritorna! tu conducevi con te chi non può tornare!
a me, chi non ritornerà più mai! a me [portavi] chi non tornerà mai a casa!
Tu fosti buona... Ma parlar non sai! Sei buona… ma non puoi parlare!
Tu non sai, poverina; altri non osa. Tu non sai [parlare], poveretta; altri non osano farlo.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa! Oh! Ma devi svelarmi una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise: Tu hai visto il volto dell’assassino:
esso t’è qui nelle pupille fise. esso è qui, fissato nelle tue pupille
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome. Chi è stato? Chi è? Ti dirò un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”. Tu fai un cenno - Dio ti dirà come”
Ora, i cavalli non frangean la biada: Ora, i cavalli non mangiavan più la biada:
dormian sognando il bianco della strada. dormivano, sognando strade bianche.
La paglia non battean con l’unghie vuote; Non picchiavano con lo zoccolo sulla paglia;
dormian sognando il rullo delle ruote. dormivano sognando il rotolio delle ruote dei carri.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: Mia madre, nel silenzio del mondo, alzò un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito disse un nome… s’alzò un nitrito nel cielo.
Analisi e commento
Lo sfondo poetico, come in numerose poesie della produzione pascoliana, è quello della campagna
romagnola; siamo infatti nei pressi di San Mauro. Il paesaggio agreste (di campagna), così familiare
al poeta, è tuttavia avvertito in termini simbolisti: il mondo di Natura, anziché rappresentare un
luogo pacifico e sereno, estraneo ai turbamenti della realtà, diventa, secondo la poetica del
fanciullino, il tramite per alludere (riferirsi) ad una realtà misteriosa, celata (nascosta) alla maggior
parte di noi ed indicata solo da ambigui segnali. L'atteggiamento della cavallina (e le tragiche
circostanze dell'episodio narrato dal poeta) sono allora il punto di partenza per una deformazione
quasi allucinata della realtà. Il tema affrontato è ancora una volta quello dell'assassinio del padre,
evento drammatico che colpisce profondamente l'esistenza del poeta e ne segna a lungo la poetica,
ossessivamente attraversata dalla percezione della morte, del dolore e della provvisorietà del “nido”
familiare. L’ambientazione del testo e la scena descritta contribuiscono all’atmosfera di angoscia e
di strazio dell’evento: la fedele cavalla del padre (detta “storna” in riferimento al manto grigio e
chiazzato) torna a casa trainando il calesse con il corpo del defunto, mentre la madre le si rivolge
quasi fosse un essere umano, cercando di scoprire chi abbia ucciso il marito. Il paesaggio naturale -
siamo ormai a sera inoltrata, contribuisce a creare un senso di inquietante mistero, come se dal
mondo esterno giungessero segnali indecifrabili della tragedia che s’è compiuta. In tal senso,
l’umanizzazione della cavallina, evidente soprattutto nelle parole che la madre del poeta le rivolge,
è un elemento fondamentale: essa infatti è l'unica testimone dell'omicidio di Ruggero, e deve
svelare il nome dell'assassino. Il dialogo tra la madre e la cavallina sfocia allora, in una scioccante
rivelazione finale, durante la quale la cavalla sembra indicare l'identità dell'omicida, nitrendo al
suono del suo nome (come detto nel distico conclusivo: "Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: |
disse un nome... Sonò alto un nitrito"). Attraverso il silenzio dell’animale e la sua sofferta
“confessione” a gesti e nitriti (v. 50: “Tu fosti buona... Ma parlar non sai!”) si esplicita la visione del
mondo di Pascoli: un segnale ambiguo e misterioso, carico di angoscia, che fa intravedere ed intuire
al di sotto della realtà le relazioni inedite tra le cose del mondo.
GABRIELE D’ANNUNZIO
(Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera [Brescia], 1º marzo 1938)
LA VITA
Appartiene ad una famiglia borghese e agiata; è uno studente brillante e diligente, vuole distinguersi
dalla massa e per farlo ricorre ad eventi eclatanti, come quello di divulgare il falso annuncio della
sua morte per attirare l’attenzione. D’Annunzio non prenderà mai la laurea distratto dalla vita
mondana della capitale a cui partecipa intensamente frequentando l’alta società . L’attività di poeta
e prosatore lo porta ad un immediato successo letterario ed a crearsi quel prestigio artistico grazie al
quale viene ammesso nel giro esclusivo delle case aristocratiche. D’Annunzio conduce una vita
molto dispendiosa e sofisticata. Il culto degli oggetti che lo spinge ad acquistare oggetti esotici e
raffinati lo porta a spendere grandi somme accumulando in breve tempo molti debiti. Ha anche
molte amanti, nonostante sia sposato ed abbia tre figli. Consapevolmente D’Annunzio mostra
l’immagine del peccaminoso, rendendosi protagonista di scandali mondani, quasi costruiti a
tavolino.
Agli inizi degli anni ’90 D’Annunzio legge Nietzsche e scopre l’ideale del superuomo, capisce che
per incidere sul mondo reale deve comunicare con le masse per indirizzarne gusti e scelte.
Prende parte alla vita politica come deputato dell’estrema Destra nel 1997, per passare poi nel 1900,
a seguito degli eventi storici legati al Governo Pelloux, alla Sinistra.
Tra i numerosi tradimenti, si può annoverare la relazione sentimentalmente con Eleonora Duse,
principale attrice del teatro italiano del ‘900, insieme alla quale si trasferisce a Firenze. Nel 1910
Gabriele D’Annunzio fugge in Francia per sfuggire ai creditori, ai debiti ed evitare di finire in
carcere.
Nel 1915 torna in Italia, le denuncie a suo carico vengono ritirate perché riesce a pagare tutti i suoi
debiti. D’Annunzio inizia una lunga tournée oratoria a favore dell’interventismo per l’entrata in
guerra dell’Italia. Partecipa attivamente alla guerra in qualità di aviatore arruolandosi come
volontario all’età di 53 anni. Crea la sigla dei reparti d’assalto italiani M.A.S. (MEMENTO
AUDERE SEMPER: ricorda di osare sempre). Prende parte ad eclatanti e pericolose azioni di
guerra: l’incursione aerea su Pola, il volo su Vienna, l’occupazione di Fiume. L’esito della guerra lo
delude e conia il termine di vittoria mutilata, per la rinuncia alla rivendicazione di Fiume e della
Dalmazia. Negli ultimi anni della sua vita D’Annunzio si ritira in una sorta di esilio dorato nella sua
fastosa villa di Gardone Riviera, sul lago di Garda, che trasforma in un museo delle sue gesta e della
sua attività, il Vittoriale. Qui D’Annunzio consolida il suo mito di poeta "vate".
Nel 1924 viene insignito del titolo di Principe di Montenevoso.
Muore per emorragia cerebrale il 1° marzo 1938.
LA POETICA DANNUNZIANA
La produzione letteraria di Gabriele D’Annunzio non può essere disgiunta dalla sua vita, è molto
ampia e si divide in 3 categorie:
ESTETISMO: idea della vita come opera d’arte. La vita deve essere colta, raffinata, esclusiva
e incarnare in sé l’opera d’arte. Per D’Annunzio la bellezza è al di sopra di tutto, è un valore
assoluto.
PANISMO: deriva da Pan, dio greco della natura e indica l’idea di una condizione di fusione
con la natura, dove il rapporto soggetto-oggetto viene superato.
SUPEROMISMO: deriva dal termine “superuomo”, introdotto da Nietzsche in filosofia. Il
superuomo di D’Annunzio è una figura per la quale non valgono i valori della gente comune, è
un personaggio legato all’idea dell’eroe tradizionale, al di sopra della morale comune e delle
regole imposte dal mondo.
Analisi
L’elemento di grande importanza di questo romanzo è dato dal fatto che con esso viene introdotto in
Italia la figura dell’eroe decadente già presente nella letteratura straniera (vedi Dorian Gray di Oscar
Wilde, in Inghilterra). Il protagonista, Andrea Sperelli, è l’incarnazione dell’eroe decadente:
raffinato, aristocratico, dandy, freddo, cultore solo del bello.
Nel Piacere si trovano ancora tracce della tradizione naturalistica:
è soprattutto l’impianto narrativo e strutturale che risente ancora di modi di rappresentazione che
appartengono al naturalismo (per es. narratore esterno onnisciente), mentre lontano dal naturalismo
è l’utilizzo del discorso indiretto libero, l’analisi psicologica dei personaggi, il ricorso al flash-back
ed anche il registrare in presa diretta il punto di vista del protagonista o di altri personaggi (una
parte della narrazione è per esempio affidata al diario di Maria).
Il racconto non segue il corso cronologico degli accadimenti ma avanza per blocchi discontinui,
infatti spesso ci sono flash-back (scarto temporale con il quale si interrompe la narrazione al
presente e si parla di un evento passato) legati ai ricordi di Andrea ed avvenimenti passati, che
mescolano passato e presente.
D’Annunzio utilizza uno stile molto ricercato e dotto, la prosa è levigata e preziosa, l’italiano
utilizzato è ricco e raffinato, lo scrittore sceglie infatti con grande accuratezza parole rare e preziose,
intenzionalmente non alla portata di tutti in cui le parole sono ordinate secondo un preciso schema
metrico. Nonostante la componente autobiografica il romanzo è scritto in terza persona.
Il Piacere affascina più per le atmosfere che per la vera e propria storia. L’autore vi esalta la sua
esperienza di vita salottiera, mondana, preziosa.
Per Andrea Sperelli l’arte è un valore assoluto e la vita stessa viene concepita come arte: “Bisogna
fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”, questo l’insegnamento trasmessogli dal padre.
La massima fondamentale dell’eroe decadente, data dall’equazione vita = opera d’arte: la meta da
raggiungere è la raffinatezza e la bellezza ad ogni costo e ciò implica a livello sociale un’innalzarsi
al di sopra degli altri ed a livello personale un affinamento del gusto. Personaggi
D’Annunzio dedica alla descrizione dei personaggi particolare attenzione, soprattutto per quanto
riguarda i pensieri del protagonista Andrea Sperelli, che vengono illustrati in maniera precisa e
minuziosa dal narratore.
Personaggi
L’incipit (inizio) del romanzo fornisce immediatamente il dato cronologico, è l’ultimo giorno
dell’anno e, sapremo dalle pagine successive, che si tratta del 1886.
Andrea Sperelli attende di rivedere l’antica amante, Elena Muti, che egli non vede da circa due
anni, dopo la fine del loro amore e che ora trova sposata con il ricco e vizioso inglese, Lord
Heathfield. Dopo una prima descrizione dell’ambiente, D’Annunzio segue i pensieri del
protagonista che attraverso il flash-back rievoca l’ultimo incontro con la donna e la brusca
interruzione della relazione voluta da Elena. Poi il racconto ritorna sul presente e sull’attesa di
Andrea il quale sentirà rinascere in sé la passione e il desiderio di riannodare i rapporti con la
donna.
A questo punto la narrazione fa un nuovo passo indietro, ricostruendo le vicende della passata
relazione, il ricordo di come Andrea abbia conosciuto Elena ad una festa e del successivo
appuntamento per il giorno successivo ad una corsa di cavalli, dove Andrea è riuscito a strappare un
invito nel suo appartamento.
Conclusione del romanzo
Il romanzo si conclude sulle conseguenze dall’effetto devastante dello scambio di persona tra le due
amanti (Elena e Maria) e registra il fallimento del protagonista e del suo progetto di vita come opera
d’arte.
L’esteta infatti, volendo subordinare tutto all’arte, in una società di massa dove invece, domina la
volgarità economica e che rimane ostile o indifferente all’arte, è inevitabilmente destinato a fallire.
Temi
Le tematiche che emergono dal romanzo Il Piacere sono:
la critica alla società alto borghese di fine ottocento, completamente vuota di contenuti e
sentimenti.
La decadenza di questo tipo di società che ha mercificato tutto finalizzando ogni fervore al
profitto e trascurando il senso del bello;
affermazione della figura dell’esteta intellettuale inquieto, che vive in un mondo tutto suo,
dominato dal culto della bellezza.
La riflessione sui diversi tipi di amore: da quello finalizzato al puro piacere, il cui
raggiungimento diventa una vera e propria ossessione, all’amore puro e spirituale.
I vari temi vengono introdotti direttamente dal personaggio di Andrea Sperelli attraversi i suoi
pensieri e le sue passioni.
Seconda sezione
L’ambientazione si sposta in Versilia, durante il mese estivo di Luglio. L’uomo si abbandona alla
bellezza della natura fino a fondersi con essa (vedi liriche “Le Stirpi canore” e “La pioggia nel
pineto”).
Terza sezione
Anche in questa parte dell’opera si celebra la stagione estiva nella sua pienezza, e qui il panismo si
armonizza perfettamente con la teoria del “Superuomo”, di cui il poeta si fa portavoce.
Quarta sezione
Compaiono i primi assaggi autunnali, l’estate sta per finire. Dal punto di vista simbolico, il poeta
intende affermare che, così come si assiste al tramonto della stagione estiva, così tramontano i miti
improntati sulla ricchezza e i beni strettamente materiali. Ciò che rimane per sempre sono invece
l’Arte e la Poesia.
Quinta sezione
Questa parte del libro, intitolata Sogni di terre lontane, è dedicata interamente al mese di Settembre,
quando l’estate volge al termine lasciando il posto all’autunno. Nel testo si trova anche una dedica
al poeta Pascoli ed un saluto a Carducci. Qui è presente la poesia “I pastori“.
La vicenda narrativa è alquanto semplice e scorrevole, D’Annunzio ci tiene più che altro a
descrivere i diversi stati d’animo che si alternano durante la stagione estiva. I luoghi descritti dal
“Vate” si trovano in Toscana, ma si ispirano a quelli della Grecia arcaica e classica. Le donne di cui
si parla all’interno dell’opera sono piuttosto sfuggevoli, quasi creature eteree e mitologiche, tutte
rappresentate dalla figura dell’attrice Eleonora Duse.
Gli argomenti principali che ritroviamo nell’Alcyone sono tre:
1.il Recupero del mito (D’Annunzio restituisce alla Natura la verginità e la vitalità che il mondo
moderno ha distrutto);
2.lo scambio tra Uomo e Natura (l’uomo riesce ad identificarsi con gli elementi naturali giungendo
a diventare quasi un vegetale. In alcuni casi l’identificazione avviene con creature animali;
3.esaltazione della parola: attraverso questa gli uomini possono creare altri miti e indagare i misteri
più profondi della natura.
L’Alcyone fa parte del più ambizioso progetto letterario di D’Annunzio, intitolato “Laudi del cielo,
del mare, della terra e degli eroi”: più precisamente, l’Alcyone è il terzo dei quattro libri.
Testo Parafrasi
Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo Taci. All’ingresso del bosco non sento più alcuna parola che tu possa
parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove considerare umana; ma odo parole più nuove che gocce e foglie
dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini pronunciano in lontananza. Ascolta. Piove dalle nuvole rade. Piove sulle
scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori tamerici piene di sale e seccate dal sole, piove sui pini con la corteccia a
accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri vólti silvani, scaglie e gli aghi pungenti, piove sui mirti sacri a Venere, sulle ginestre
piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi risplendenti per i fiori dalla corolla chiusa, sui ginepri intricati di bacche
pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che diffondono il loro profumo, piove sui nostri visi ormai parte
che oggi m’illude, o Ermione . Odi? La pioggia cade su la solitaria integrante del bosco, piove sulle nostre mani nude, sulle nostre vesti
verdura con un crepitìo che dura e varia nell’aria secondo le fronde più leggere, sui freschi pensieri che l’anima rinnovata dalla pioggia rivela in
rade, men rade. Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il maniera inedita, sul sogno che ieri ti ha illuso, che oggi mi illude, o
pianto australe non impaura, né il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il Ermione. Senti? La pioggia cade sulle foglie solitarie creando un crepitio
mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto che si diffonde costante e si modifica nell’aria a seconda che le fronde
innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea siano più o meno fitte. Ascolta. Risponde alla pioggia che scende come
vita viventi; e il tuo vólto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le lacrime il canto delle cicale che né la pioggia portata dal vento Austro né
tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai il cielo grigio spaventano. E il pino ha un suo suono, e il mirto un altro,
nome Ermione. Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree cicale a poco a ed il ginepro un altro ancora, [e tutte le piante sono come] strumenti
poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce musicali differenti sotto un numero infinito di dita. E noi siamo immersi
più roco che di laggiù sale, dall’umida ombra remota. Più sordo, e più nello spirito del bosco, e condividiamo la stessa vita degli alberi; ed il tuo
fioco s’allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, volto inebriato è bagnato dalla pioggia come una foglia, e i tuoi capelli
trema, si spegne. Non s’ode voce dal mare. Or s’ode su tutta la fronda profumano come le ginestre splendenti, o creatura terrestre che hai nome
crosciare l’argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la Ermione. Ascolta, ascolta. Il canto concorde delle cicale che stanno sugli
fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria è muta; ma la alberi a poco a poco diventa più sordo ed attenuato con l’aumentare
figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, dell’intensità della pioggia; ma un canto si unisce più cupo e sordo che si
chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere alza da là in fondo, dall’intricata vegetazione lacustre. Più sordo e più
sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par sfumato [questo suono] diminuisce, si spegne. Solo una unica nota
da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è ancora vibra, si ferma, riprende, vibra ancora, si tace del tutto. Non si
come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe, i sente alcuna voce dal mare. Ora si sente su tutte le fronde scrosciare la
denti negli alvèoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in pioggia argentata che purifica, lo scroscio che si modifica in base al
fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli fogliame che incontra più o meno folto. Ascolta. La cicala è muta; ma la
c’intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti figlia del fango lontana, la rana, canta dove le ombre sono più fitte,
silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su chissà dove, chissà dove! E piove sulle tue ciglia, Ermione. Piove sulle
i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri tue ciglia nere così che sembra che tu stia piangendo, ma di piacere; e
m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione. pare che tu esca, non bianca ma quasi di colore verde, dalla corteccia di
un albero. E tutta la vita in noi è fresca e profumata, il cuore nel petto è
come una pesca non ancora còlta, gli occhi tra le tue palpebre sono
sorgenti d’acqua tra le zolle d’erba, i denti nelle gengive sono come
mandorle acerbe. E andiamo tra i cespugli, ora insieme ora separati (e la
forza selvaggia e primitiva degli arbusti ci lega le caviglie ci stringe le
ginocchia) chissà dove, chissà dove! E piove sui nostri volti ormai parte
integrante del bosco, piove sulle nostre mani nude, sulle nostre vesti
leggere, sui freschi pensieri che l’anima rinnovata dalla pioggia ci rivela,
sulla favola bella che ieri ti ha illuso, che oggi mi illude, o Ermione.
Analisi
Questa composizione poetica, che è una delle più note di D’Annunzio, si caratterizza per la spiccata
sonorità, poiché sembra tradurre in parole il suono della pioggia che scroscia, il canto delle cicale, il
verso di una rana che fa capolino dopo l’acquazzone. Inoltre, in questa bellissima poesia l’autore è
molto abile nel descrivere la vegetazione (ad esempio lo fa riportando spesso l’uso della parola
“colore verde” all’interno dei versi). La lirica presenta la scena del poeta intento a passeggiare in
compagnia della sua donna, Ermione appunto, in un bosco sul litorale toscano. Lui la invita a
mettersi in ascolto del meraviglioso suono della pioggia estiva che batte sul fogliame degli alberi.
La coppia si lascia andare alle sensazioni inebriandosi del suono della pioggia e di quelli della
natura circostante, e finisce con l’identificarsi a tal punto con essa da sentirsi simili a creature
vegetali. Nella “Pioggia del pineto” ritroviamo, molto più che in altri componimenti del poeta,
l’ideale tipico del decadentismo, il “Panismo” (che esprime la fusione completa tra l’uomo e gli
elementi della natura). Ogni strofa di questa poesia finisce con il nome dell’amata, Ermione: si
tratta di un tipico riferimento classico utilizzato dai poeti per rendere immortali le donne amate. In
questa famosa poesia si fonde l’amore umano e passionale (quello che lega D’Annunzio alla Duse)
e quello per la natura con la sua bellezza e la pace che arriva dritto al cuore delle persone più
sensibili e predisposte. In questo D’Annunzio si ispira al Simbolismo francese. Per D’Annunzio, in
questa poesia, non esiste confine tra l’uomo e la natura, che finiscono per fondersi con meravigliosa
armonia ed equilibrio: la stessa Ermione diventa, man mano che le strofe si susseguono, parte della
natura bagnata dall’improvvisa pioggia estiva.
ITALO SVEVO
(Trieste, 1861 – Motta di Livenza [Treviso], 1928)
Italo Svevo come Pirandello esce dalla crisi letteraria e filosofica da cui era nato il Decadentismo,
con posizioni molto diverse rispetto a Pascoli e a D’Annunzio, approdando ad una visione dell’arte
molto più problematica di quella del Decadentismo. Se con i poeti simbolisti e con gli stessi Pascoli
e D’Annunzio era ammessa una sorta di verità, pur se non univoca e granitica ma utile a dare
spiegazione dell’esistere, con Svevo e Pirandello la possibilità di arrivare a una qualsiasi verità
viene negata. La realtà è multi-prospettica e dinamica, in assidua evoluzione e mutazione, pertanto
la verità non esiste, ma esistono tante verità possibili e l’arte non può rappresentare la realtà ma sta
al lettore dare una propria interpretazione e la costruzione di un senso.
La modernità della visione di Svevo sta nell’idea di fare della coscienza di un personaggio il centro
del romanzo, coscienza considerata nell’ottica della psicanalisi di Freud, si tratta quindi di una
coscienza problematica, contraddittoria, in cui la parte istintiva e la parte razionale si contrastano in
continuazione. E’ una coscienza che mente, a se stessa e agli altri, che distoglie lo sguardo dalle
vere cause del proprio disagio.
Si definisce il personaggio che rappresenta la figura centrale per molta letteratura europea del ‘900,
un uomo inetto alla vita, “malato” di una malattia morale che spegne ogni spinta all’azione e ogni
impulso vitale o ideale
LA VITA
Il suo vero nome è Ettore Schmitz: Lo pseudonimo di Italo Svevo viene scelto da questo grande
scrittore per sottolineare la sua appartenenza a due tradizioni culturali differenti, quella italiana
(Italo) e quella germanica (Svevo).
Fa parte di un’agiata famiglia borghese ma nel 1880, in seguito ad un investimento industriale
sbagliato, l’azienda paterna fallisce e Svevo si trova a vivere l’esperienza della declassazione
sociale passando dall’agio borghese ad una condizione di ristrettezza. Italo Svevo è costretto a
cercare lavoro e ad impiegarsi presso la filiale triestina della Banca di Vienna, presso cui rimane per
un ventennio.
Parallelamente coltiva la sua passione letteraria cominciando a scrivere. A proprie spese, nel 1892
Svevo pubblica il suo primo romanzo Una vita e nel 1898 Senilità.
Una vita e Senilità raccontano le storie di due sconfitti, anzi di due predestinati alla sconfitta, di due
mediocri, di due inetti. La voluta banalità delle loro vicende contrasta rispetto al gusto prevalente
dell’epoca in cui prevalevano figure di tipo d’annunziano, eroi scaltri e dall’indole combattiva.
Anche per questo motivo queste due opere non incontrano i gusti del pubblico e della critica di quei
tempi e non trovano un editore disposto a puntare su di loro.
Lo scarso successo di questi primi due romanzi induce Italo Svevo ad abbandonare l’attività
letteraria.
Svevo giura a se stesso che non avrebbe mai più dedicato del tempo al "vizio" della letteratura. Nel
1896 Italo Svevo sposa la cugina Livia Veneziani, molto più giovane di lui e l’anno successivo
nasce la sua unica figlia, Letizia.
I suoceri sono ricchi industriali, ciò permette a Svevo di lasciare l’impiego in banca per entrare
come dirigente nella ditta dei suoceri ed uscire definitivamente dalla situazione di ristrettezza
economica.
A decenni di distanza da Senilità e Una vita, due eventi inducono Italo Svevo a riprendere l’attività
letteraria:
l’incontro nel 1905 con James Joyce, il celebre scrittore irlandese, che viveva allora a Trieste e
che diede dei giudizi lusinghieri sui due romanzi pubblicati in precedenza da Svevo.
l’incontro con la psicoanalisi e con le opere di Freud, ancora sconosciuti in Italia, che avviene
tra il 1908 e il 1910. L’occasione è data dal cognato di Svevo che in quegli anni aveva sostenuto
una terapia a Vienna con Freud.
Nel 1919, Svevo inizia il suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno, che viene pubblicato nel 1923.
Come per i due precedenti romanzi, l’opera passa inosservata.
Grazie a James Joyce, a cui Svevo invia il romanzo, l’opera, tradotta in francese, conosce
immediatamente una larga fama in Francia, dove, all’epoca, Joyce si era trasferito a vivere, e
successivamente in Europa. L’Italia continua invece ad ignorare il valore di Svevo e l’unica voce a
suo favore è quella di un giovane poeta, Eugenio Montale, che entusiasta del romanzo gli dedica un
ampio saggio su una rivista letteraria.
Italo Svevo, già in condizioni di salute precarie, muore il 13 settembre 1928 a causa di un collasso a
seguito di un incidente automobilistico, nell’ospedale di Motta di Livenza.
PRODUZIONE LETTERARIA
Italo Svevo fa parte di quella generazione di autori, Proust, Joyce, Woolf, Pirandello, che, all’inizio
del Novecento rinnovano totalmente la struttura narrativa. I fatti narrati nei suoi romanzi, incentrati
sulla crisi della società borghese e sulla mancanza di certezze, acquistano significato in relazione
alle emozioni e ai pensieri dei personaggi, la cui psicologia viene scandagliata con i nuovi strumenti
psicoanalitici.
L’origine triestina di Svevo costituisce un fattore determinante per la sua produzione letteraria,
infatti Trieste è una città aperta agli influssi delle correnti europee, il che comporta il distacco dal
verismo regionalistico nostrano, la struttura psicologica dei suoi romanzi e lo stile antiletterario.
La Trieste del tardo Ottocento è un ambiente dinamico dove un’attivissima borghesia
imprenditoriale e la mescolanza di popoli, lingue e culture diverse, contribuiscono a farne un centro
culturale cosmopolita (chi riconosce il mondo intero come patria) e mitteleuropeo (letteralmente
dell’Europa di mezzo), che si distacca dalle tendenze e dai problemi della contemporanea cultura
italiana.
STILE LETTERARIO
Svevo vede nella letteratura e nella scrittura degli strumenti di conoscenza della realtà. Per lui la
letteratura deve essere libera da formalismi, retorica e perfezione linguistica.
Il lessico di Svevo è essenziale e povero, utilizza una sintassi elementare, usa termini tecnici e
dialettalismi triestini. Il suo stile riflette, il mondo reale e le assurdità e contraddizioni della vita di
ogni giorno.
Svevo ricorre ad una nuova tecnica narrativa in cui il protagonista tramite il ricordo si auto-analizza.
Il narratore non è più esterno e onnisciente (come per la narrativa ottocentesca) ma interno e
partecipe.
Le categorie spazio-temporali si dissolvono, lo spazio diventa secondario, vi è una rinuncia alla
ricostruzione dettagliata dello scenario storico e sociale, il tempo è quello della coscienza che
prevale nettamente sulla narrazione dei fatti che segue il flusso della coscienza (come per Joyce) e
porta all’analisi dell’interiorità problematica del personaggio e al monologo interiore. Quindi la
narrazione non segue l’ordine cronologico dei fatti.
OPERA
La coscienza di Zeno
Il protagonista è Zeno Cosini, un benestante borghese triestino, che scrive un diario, seguendo il
consiglio del suo psicanalista, in cui narra gli episodi basilari e significativi della sua vita.
Il romanzo si struttura in otto capitoli, o meglio una Prefazione e sette capitoli:
Capitolo 1 - Prefazione:
Il primo capitolo del romanzo "La coscienza di Zeno" consiste nella prefazione scritta dal dottor S.,
lo psicanalista, di scuola freudiana, che ha avuto in cura Zeno, che in poche righe spiega che ha
deciso di divulgare le memorie del suo paziente per vendetta, dato che quest'ultimo ha abbandonato
la cura.
Capitolo 2 - Preambolo:
Da questo capitolo in poi la narrazione è fatta da Zeno che è dunque sia il protagonista che il
narratore.
Il secondo capitolo del romanzo rappresenta l’introduzione del protagonista in cui Zeno raccoglie
l’invito del suo psicanalista, Dott. S. di scrivere la sua autobiografia come cura, in modo da
facilitare la riemersione dei ricordi remoti e, dopo aver letto un libro sulla psicoanalisi, decide di
scrivere le sue memorie in cui rievoca i passi significativi della sua vita.
Non si tratta di un vero diario perché il tema della narrazione non è la vita del protagonista ma la
storia della sua malattia, e le tappe che Zeno ripercorre sono quelle della sua malattia dell’anima.
La malattia che lo affligge è l’inettitudine che qui assume le peculiarità di una patologia
psicologica, una nevrosi che si manifesta attraverso il senso di insoddisfazione costante, l’angoscia,
la paura incontrollabile, il conflitto costante con l’ambiente che lo circonda.
Capitolo 3 – Il fumo
Zeno inizia il suo diario partendo dal vizio del fumo che mette in evidenza la sua nevrosi basata sul
continuo rinviare ciò che si ripromette di fare.
Zeno da giovane è stato il classico perdigiorno, appartiene ad una famiglia borghese benestante, ed
è animato da buoni propositi, quali studiare seriamente e sistemarsi, che naturalmente vengono
sempre disattesi e rinviati. Questo aspetto della nevrosi di Zeno, il dilazionare e rimandare, è la
materia del capitolo sul fumo.
Il protagonista, fumatore incallito, fin da giovanissima età, racconta del proprio pigro dipendere dal
vizio del fumo, e dei suoi ricorrenti, quanto inutili, tentativi di liberarsene. Ogni sigaretta, si
ripromette Zeno sarà l’ultima e riempie di questo suo buon proposito, con le scritte “ultima
sigaretta”, il suo taccuino. In realtà, ogni volta, dopo aver assaporato con estremo piacere e
soddisfazione, proprio per il fatto che sarà quella definitiva, l’ultima sigaretta, a quella ne seguono
altre in un rincorrersi di decisioni prese e subito dopo disattese, emblematiche della sua vita
improntata sulla mancanza di volontà e sull’incapacità di perseguire fino in fondo un proposito.
Emergono in questo capitolo i temi fondamentali del romanzo: la continua irresolutezza, la malattia
della volontà, lo smascheramento degli artifici dell’inconscio, l’inettitudine, l’autoironia.
Capitolo 4 – La morte del padre
Il capitolo “La morte del padre” racconta del rapporto conflittuale con il padre, ricco di silenzi e
fraintendimenti.
La figura paterna in quanto figura che incarna la maturità suscita odio in Zeno, anche se egli non lo
confessa neppure a se stesso, rimuovendo, nell’accezione freudiana, questo sentimento per
adeguarsi alle convenzioni borghesi in base alle quali il sentimento filiale deve essere
inevitabilmente di amore e rispetto.
Zeno si sofferma con particolare attenzione sugli ultimi giorni di vita del genitore, quando in punto
di morte, per un equivoco, questi colpisce con uno schiaffo il figlio, sigillando con un ultimo
malinteso il legame tra i due.
Zeno interpreta l’episodio come intenzionale volto a infliggergli un’ultima punizione. Questa
interpretazione trova la spiegazione nel senso di colpa di Zeno per l’avere desiderato la morte del
padre, nonostante Zeno non voglia ammetterlo.
La coscienza di Zeno non è, come potrebbe apparire a prima vista, un’autobiografia di Zeno, ma è
la storia della sua malattia. La narrazione verte infatti sulla malattia del protagonista-narratore, e
non sulla sua vita. Di conseguenza la materia narrativa segue un percorso basato sulla specificità del
tema: la vicenda non ripercorre le tappe cronologiche della vita dell’uomo (infanzia, fanciullezza,
maturità), ma quelle della “malattia dell’anima”. La malattia in questione altri non è se non
l’inettitudine che assume le caratteristiche di una vera e propria nevrosi, una patologia di natura
psicologica che si manifesta in diversi modi: senso di insoddisfazione costante, angoscia, paura
incontrollabile, conflitto costante con l’ambiente in cui il soggetto vive, sensazione di
inadeguatezza, ecc. Le cause, in base alla psicoanalisi freudiana, vanno ricercate nei traumi e nei
conflitti irrisolti dell’infanzia che hanno impedito la piena maturazione psicologica dell’individuo.
L’utilizzo della psicoanalisi, nonostante Svevo non abbia alcuna fiducia nel suo potere terapeutico, è
strumentale perché ritenuto dallo scrittore molto efficace in campo letterario per le possibilità che
apre nella comprensione dei meccanismi che regolano il comportamento dell’individuo.
Stile
Zeno utilizza un lessico moderno: il testo è pervaso di un sottile umorismo ed è scritto con un
linguaggio semplice e vivace, vicino al parlato in cui, qua e là, si inseriscono espressioni tecniche,
ripetizioni, metafore, similitudini e giochi di parole che danno un tono ironico alla narrazione.
L’ironia è una componente stilistica fondamentale: ogni avvenimento presenta aspetti ironici.
L’elemento tecnico-stilistico più originale è il discorso indiretto libero che è alla base del monologo
interiore del protagonista.
Innovazioni formali:
Il romanzo si articola per capitoli a tema e non cronologici, la struttura narrativa non segue più
il modello del romanzo ottocentesco basato sul resoconto cronologico di una vicenda. I fatti
vengono narrati attraverso una continua alternanza di piani temporali (il passato e il presente)
che rappresenta quindi una novità rispetto all’andamento cronologico dei romanzi tradizionali.
E’ una tecnica narrativa in linea con quella utilizzata dai grandi scrittori contemporanei di Svevo
(Proust, Joyce, Woolf, Pirandello) in cui il tempo si relativizza in base alla percezione che ne ha
il personaggio: è il tempo interiore della coscienza.
A differenza del romanzo ottocentesco in cui il narratore si caratterizzava per la sua credibilità
(narratore oggettivo), nel romanzo di Svevo la voce narrante appare inattendibile, è insicuro e
incerto nell’interpretare le vicende del proprio passato e può solo immaginare ed avanzare delle
ipotesi interpretative.
LUIGI PIRANDELLO
(Agrigento 1867 - Roma 1936)
LA VITA
Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 a Girgenti (poi Agrigento) da Stefano Pirandello, di
origine ligure, garibaldino, e da madre siciliana, Caterina Ricci Gramitto, figlia di un esponente
della rivoluzione siciliana del 1848-49.
La famiglia è di tradizione garibaldina e antiborbonica ed è proprietaria di alcune zolfare.
Fin da ragazzo, Luigi Pirandello, ha difficoltà di comunicazione coi genitori e soffre d’insonnia.
Incoraggiato dalla madre manifesta molto giovane la sua vocazione letteraria.
L'allagamento di una miniera di zolfo porta la famiglia Pirandello ad un grave dissesto economico.
La moglie di Luigi Pirandello, manifesta i primi segni della malattia psichica di cui soffrirà per tutta
la vita. Pirandello si avvicina alle teorie della psicanalisi di Freud per studiare i meccanismi della
mente umana e poter essere d’aiuto alla moglie.
Per arrotondare l’esiguo stipendio universitario, Pirandello impartisce lezioni private ed intensifica
la sua collaborazione a riviste e a giornali.
Nel 1924 Pirandello aderisce al Fascismo, con un telegramma a Mussolini: “se mi stima degno di
entrare nel Partito nazionale Fascista pregierò come massimo onore tenermi il posto del più umile
gregario”.
Nel 1925 Pirandello firma il Manifesto degli Intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile, ma
presto si manifestano dei dissapori con le autorità fasciste così nel 1927 strappa la tessera del partito
e dichiara la propria apoliticità.
Si ammala di polmonite e muore nella sua casa romana il 10 dicembre 1936.
OPERA
Il Fu Mattia Pascal
E’ il primo romanzo di Luigi Pirandello, pubblicato nel 1904. L’opera gli da la fama mondiale.
(Pirandello scrive questo romanzo in un momento della sua vita di grande difficoltà in cui assiste la
moglie malata).
Trama
E’ la storia paradossale, in diciotto capitoli, di un piccolo borghese, Mattia Pascal, protagonista di
una vicenda di morte e reincarnazione.
La storia comincia dalla fine.
I primi due capitoli costituiscono la premessa di tutta la storia, una premessa duplicata. Il
protagonista afferma che la sua è una vicenda particolarmente strana e difficile da raccontare e che
riguarda le sue prime due morti. L’amico che gli ha suggerito di scrivere la sua strana storia è il
reverendo Don Eligio Pellegrinotto, col quale collabora nella piccola biblioteca del paesino di
Miragno e al quale egli affida il suo manoscritto che potrà essere letto solo 50 anni dopo quella che
lui definisce la sua terza, e definitiva, morte. Dopo un’invettiva contro Copernico, a suo parere
colpevole con la sua scoperta della terra che gira attorno al sole di aver sconvolto il modo di pensare
fino ad allora in auge basato sull’antropocentrismo e quindi di aver scardinato la convinzione che
l’uomo fosse il centro del mondo e con essa le sue pretese di conoscenza certa e di verità
rendendole assurde e relative, ha inizio con il terzo capitolo il racconto vero e proprio.
I capitoli dal III al VI riguardano il racconto della vita di Mattia Pascal ed ha inizio quando all’età
di quattro anni Mattia Pascal perde il padre. La gestione economica familiare passa nelle mani di un
amministratore-ladro, Batta Malagna detto “la talpa”, la cui amministrazione impoverisce anno
dopo anno la famiglia di Pascal per arricchire la propria. Per fargli un dispetto Mattia Pascal seduce
Romilda, la donna da cui Malagna vorrebbe avere un figlio, e la mette incinta. La situazione si
complica perché Mattia Pascal ingravida anche Oliva, la seconda moglie dell’amministratore.
Mentre Malagna riconosce come proprio il figlio di Oliva, Mattia Pascal deve accettare le nozze
riparatrici con Romilda. La vita coniugale si rivela un inferno anche perché nel frattempo Pascal è
economicamente caduto in disgrazia.
Mattia Pascal è dunque un personaggio imprigionato nella trappola di un matrimonio infelice e di
una sventurata condizione economica e sociale. A seguito di nuove disgrazie familiari, la morte
delle sue due bambine (le gemelle) e della madre, egli fugge da casa e si reca al Casinò di
Montecarlo, dove inaspettatamente realizza una cospicua vincita alla roulette.
Il Capitolo VII segna un cambiamento radicale per Mattia Pascal. Durante il viaggio di rientro a
casa Mattia Pascal legge su un giornale del ritrovamento, presso il paese dove abita, del corpo di un
suicida annegato che la moglie e la suocera hanno identificato in lui. Il caso ha fatto sì che egli si
trovi improvvisamente nella condizione di poter essere un uomo libero e padrone di sé,
economicamente autosufficiente. Decide allora di utilizzare questa morte per liberarsi della sua vita
passata.
Nei capitoli dal VIII al XVI Mattia Pascal si costruisce un’identità nuova, sotto il falso nome di
Adriano Meis, nome scelto ascoltando sul treno dei frammenti di una conversazione tra passeggeri.
Pascal cerca di trasformare il suo aspetto: si taglia la barba, indossa un paio di occhiali scuri per
coprire lo strabismo, una giacca lunga a doppio petto e un cappello a larghe tese.
Inizia a viaggiare per l’Italia e per l’Europa, senza una meta prestabilita, senza uno scopo preciso se
non quello di godere appieno dell’inaspettata libertà. Ad un certo punto però comincia ad avvertire
il peso della solitudine e sente la necessità di riallacciare quella rete di rapporti sociali che in
passato lo soffocava e condizionava. Dopo un soggiorno a Milano e l’esperienza della modernità in
questa metropoli industriale, va a vivere a Roma nella pensione di Anselmo Paleari, pensione che
ospita strani personaggi appassionati di scienze occulte e di spiritismo. Si innamora della figlia del
padrone di casa, la dolce Adriana, con la quale potrebbe iniziare una vita diversa e autentica. Si
rende conto che in realtà il nuovo nome e il personaggio che impersona non esistono per la società e
lo stato civile e che non può realizzare nessun progetto di vita futura. Vive con il timore che venga
scoperta la sua vera identità, per non farsi riconoscere si fa operare all’occhio strabico e tuttavia
quando viene derubato, durante una seduta spiritica, si rende conto che non può neppure denunciare
il furto perché è una persona inesistente per lo Stato. Si sente così ridotto ad un’ombra. Sfidato a
duello da un pittore spagnolo per questioni di gelosia, Adriano Meis, alias Mattia Pascal, in quanto
privo di identità non è neanche in grado di procurarsi i padrini necessari per battersi, decide quindi
di abbandonare Roma e Adriana e di far perdere le sue tracce facendo credere ad un suicidio per
annegamento.
Nei capitoli conclusivi, XVII e XVIII, il protagonista cerca quindi di rientrare nella sua vecchia
identità, “risorgendo” come Mattia Pascal. Torna al suo paese natale, Miragno, ma scopre che la
moglie si è formata una nuova famiglia, si è risposata ed ha avuto una figlia con il suo amico
Pomino, da sempre innamorato di Romilda ed a cui Pascal l’aveva portata via. Rinuncia allora a
vendicarsi della moglie e ad avvalersi della legge in base alla quale è ancora lui il marito legittimo,
ma in tal modo non gli resta altro che adeguarsi a vivere una condizione sospesa di “forestiere della
vita”, “come fuori della vita”, che osserva gli altri dall’esterno, cosciente di non essere più
“nessuno”, o meglio, di essere “fu Mattia Pascal”. Aspettando la terza definitiva morte, si
accontenta di vivere nella biblioteca in cui aveva svogliatamente lavorato da giovane, scrivendo la
propria storia.
Incipit
L’incipit (inizio) del romanzo vede Mattia Pascal dichiarare di avere un’unica certezza quella di
chiamarsi Mattia Pascal ma di non essere Mattia Pascal. Emerge in questa dichiarazione
l’inettitudine del personaggio, cioè la sua incapacità di liberarsi della “zavorra” dell’identità, e
conseguentemente delle convenzioni e della forma, nonostante ne abbia avuto l’occasione, grazie al
duplice colpo di fortuna di una vincita consistente al casinò di Montecarlo e la sua presunta morte.
Nonostante abbia scoperto che il nome è una triste convenzione sociale, una maschera vuota ed una
gabbia soffocante che imbriglia il flusso vitale, Pascal commette l’errore di darsi una seconda
identità, chiudendosi in un’altra trappola. rivela di aver conservato tutto il suo carattere piccolo
borghese, il bisogno della casa, del tepore della famiglia.
Conclusione
Il romanzo si chiude con un paradosso: morto due volte e senza più la possibilità di avere
un’identità sociale, il protagonista può vivere solo come “il fu Mattia Pascal”, cioè come un
defunto, una persona morta, scomparsa per sempre.
Alla fine, dopo aver capito che la vita è una finzione alienante e tragica e che la realtà non è
riducibile a un’unica prospettiva e a un unico significato, il protagonista deve accettare di vivere la
condizione del “forestiere della vita”, ossia in una condizione di passività ed accettazione, nella
stasi totale. Ha intuito infatti che un’identità vera non esiste e neppure può essere conferita da
norme sociali false che riducono l’uomo a un nome e a una maschera.
Tematiche
Il Fu Mattia Pascal è il romanzo allegorico della crisi dell’uomo moderno e ciò emerge dalle varie
tematiche che affronta:
La famiglia, viene vista sia come un nido, riferita alla famiglia originaria, soprattutto nel
rapporto di tenerezza con la madre, sia come una prigione da cui evadere, relativamente al
rapporto coniugale e con la suocera;
Il relativismo espresso attraverso il gioco d’azzardo che mette in rilievo la casualità degli
eventi e il potere della sorte, e sottolineando i limiti della volontà e della ragione
confermano la teoria della relatività della condizione umana affermata da Pirandello; e lo
spiritismo, raccontato nell’episodio della seduta spiritica del Cap.XIV (evento presente
anche nella Coscienza di Zeno di Svevo), serve per sottolineare la crisi del razionalismo
positivista e affermare che il potere della ragione umana è limitato.
L’inettitudine. Come i personaggi di Svevo anche Mattia Pascal è un inetto incapace di
adattarsi alla vita e dalla quale sogna un’evasione impossibile, è uno sconfitto dalla vita ed
un anti-eroe che finisce con il guardarsi vivere e con l’adeguarsi ad accettare l’estraneità nei
confronti della vita e di se stesso.
La crisi dell’identità. Mattia Pascal non riesce a rapportarsi non solo con la propria anima
ma anche con il proprio corpo, ne è un sintomo il suo occhio strabico che guarda sempre
altrove. La perdita dell’identità viene evidenziata anche attraverso il tema del doppio: vi è
un brano del libro in cui l’ombra del protagonista viene posta in primo piano come doppio di
Adriano Meis, rappresenta infatti la memoria e l’anima di Mattia Pascal, da cui il
protagonista non riesce a staccarsi e di cui anzi è prigioniero.
Tutto il romanzo è improntato sulla duplicità, sul raddoppiamento delle situazioni: Mattia
Pascal seduce sia Romilda che Oliva; finge due volte il suicidio; si dà due diverse identità,
Adriano Meis e poi Fu Mattia Pascal, ecc.
La maschera e la negazione dell’identità sociale. L’identità è una necessità sociale, ognuno
di noi indossa una maschera per rapportarsi agli altri, non mostra la sua vera persona e
quando Mattia Pascal prende coscienza di ciò capisce di essere passato da una situazione di
maschera a quella di maschera nuda, consapevole dell’impossibilità di qualsiasi identità, si
limita a guardarsi e guardare gli altri vivere.
Perchè Mattia Pascal rappresenta l'inetto?
Perché non è in grado di sostenere fino in fondo la condizione di libertà assoluta, a cui
idealmente aspirava, dal peso delle convenzioni e dalla trappola della forma;
Mattia Pascal si rivela non all’altezza delle proprie ambizioni, è destinato al fallimento.
Infatti la conclusione è negativa: Mattia Pascal si riduce a vivere una non-vita,
rassegnandosi ad una condizione di paralisi e stasi. Pur non essendo morto fisicamente, di
fatto vive in una condizione di estraneità alla vita, con l’atteggiamento distaccato di chi ha
capito come funziona il gioco ed assiste dall’esterno al meccanismo della finzione ed alla
messinscena della vita.
Stile
Il Fu Mattia Pascal rivela una grande originalità strutturale, riassumibile in 3 aspetti:
E’ una narrazione retrospettiva in prima persona. L’impianto narrativo si basa infatti sul
racconto del protagonista stesso ed ha una struttura circolare e simmetrica, inizia a vicenda
terminata e si conclude tornando all’inizio.
La verità della narrazione viene posta in discussione e il lettore viene sollecitato a
interpretare quanto raccontato con spirito critico e con diffidenza (anche Svevo nel suo
romanzo La coscienza di Zeno ha dato un’impostazione analoga).
E’ un romanzo soliloquio che utilizza spesso interiezioni, esclamazioni, interrogazioni,
domande retoriche ecc.
In questi aspetti si evidenzia il superamento in Pirandello dei meccanismi narrativi propri del
romanzo naturalista e verista. L’inattendibilità della voce narrante che è nello stesso tempo il
protagonista delle vicende raccontate, si contrappone all’oggettività della narrazione in terza
persona del romanzo naturalistico e verista che basandosi sul racconto di un narratore esterno e
superiore al piano del narrato è perfettamente attendibile.
Al punto di vista oggettivo e verosimigliante della narrazione naturalistica, Pirandello sostituisce il
punto di vista soggettivo di un personaggio la cui unità è frantumata in tre diverse incarnazioni:
Mattia Pascal, Adriano Meis, il fu Mattia Pascal, ciascuna delle quali interviene sul racconto
presentando un punto di vista diverso.
Il fu Mattia Pascal unisce racconto e riflessione teorica e per questo assume i connotati del
romanzo-saggio, un genere narrativo, tipico del Novecento, in cui i momenti di riflessione teorica e
filosofica si intrecciano alla narrazione delle vicende.
MAPPA CONCETTUALE
DECADENTISMO
in Francia DECADENT
NASCE
deriva dalla
parola francese
inizi del ‘900 Poeti maledetti
Senso di angoscia/solitudine/noia/vuoto
CARATTERISTICHE Isolamento dalla società nella quale non si riconoscono
AUTORI Pascoli
D’Annunzio
Svevo
Pirandello
Necessità di costruire:
Pascoli e D’Annunzio
FASI DEL DECADENTISMO ITALIANO
Dando per certa la crisi della realtà si tenta
di indagarla in modo critico e lucido: Svevo e
Pirandello
POST-DECADENTISMO
Le principali correnti che si sviluppano dal Decadentismo sono
SIMBOLISMO ESTETISMO
Descrizione della realtà in modo
soggettivo Esaltazione del gusto del bello.
attraverso l'uso di simboli, analogie, metafore.
In Italia l'esponente per eccellenza di questa PANISMO
corrente è - Mescolarsi dell’uomo con la natura
SUPEROMISMO
- Nascita del mito del superuomo,
ovvero di colui che grazie alla cultura
si pone come modello per gli altri
In Italia il maggiore esponente è
GIOVANNI PASCOLI
San Mauro in Romagna, (Forlì)1855- Bologna, 1912
OPERE
POESIA STUDIATA
X AGOSTO
GABRIELE D’ANNUNZIO
Pescara 1863- 1938
LE LAUDI IL PIACERE
la raccolta è divisa in E’ un romanzo diviso
5 libri. La poesia studiata in 4 sezioni ed è
è contenuta nel terzo libro espressione dell’estetismo
che si chiama ALCYONE d’annunziano
TEMI
POESIA STUDIATA
DIFFERENZE TRA
PASCOLI E D’ANNUNZIO
Invita ad accontentarsi delle piccole cose perché Vuole una vita straordinaria
solo così si sfugge alla crudeltà della vita
ITALO SVEVO
Trieste 1861- 1928
EVENTI Il suo vero nome fu Hector Schmitz. Per lavoro viaggiò molto
BIOGRAFICI conoscendo un mondo molto diverso dal suo. Dopo il
fallimento dell’azienda familiare, andò a lavorare con i suoceri
che producevano vernici per navi. Conobbe James Joyce e
grazie a lui ebbe successo come scrittore. Fu Joyce a far
conoscere la sua opera (La Coscienza di Zeno) in Francia e poi
attraverso Montale arrivò il successo anche in Italia.
LA COSCIENZA DI ZENO
LUIGI PIRANDELLO
Agrigento 1867- Roma 1936
EVENTI BIOGRAFICI Sposò una donna dal fragile equilibrio psicologico. La famiglia
subì un grave disastro economico cui seguì un
peggioramento delle condizioni della moglie (che sprofonda
nella follia): il figlio venne rapito durante la 1° guerra
mondiale e successivamente ucciso. Aderì al Fascismo e poi se
ne allontanò evitando però posizioni di aperto dissenso. Vinse
il premio Nobel per la letteratura.
OPERA
IL FU MATTIA PASCAL
MODULO III ITALIANO
Prof.ssa Valentina Chiavazzo
Si tratta di movimenti culturali e artistici che rifiutano la mentalità ed i rapporti sociali borghesi e puntano ad una
radicale trasformazione dell’idea di arte attraverso uno sperimentalismo continuo. Esse si pongono come negazione e
distruzione di ogni legame con la tradizione, la memoria, i valori del passato; come rifiuto del presente del gusto e dei
valori dominanti. Su questo piano esse spesso, ma non sempre, si incontrano con le avanguardie politiche (così accade
per esempio in Unione Sovietica durante e dopo la rivoluzione, o in Germania nel primo dopoguerra, mentre i cubisti
non ebbero interessi politici).
Nate nei primi due/tre decenni del Novecento, le Avanguardie, vengono dette storiche per distinguerle dalle
neoavanguardie della seconda metà del Novecento e sono:
L’Espressionismo
Il Dadaismo
Il Surrealismo
Il Crepuscolarismo
Il Futurismo
Il Cubismo
1
rivoluzione stilistica che parte dal rifiuto della retorica (disciplina del parlare o dello scrivere) e del linguaggio
poetico della tradizione.
Caratteri formali: sinteticità, rapidità, simultaneità, paratassi [Costruzione del periodo fondata prevalentemente su un
criterio di coordinazione (parlava e rideva), contrapposta alla ipotassi (parlando, rideva)], periodi nominali, lessico
anti-accademico (che si oppone alle forme, alle norme proprie del gusto e della cultura ufficiale o tradizionale).
L’Espressionismo influenza parzialmente Francia ( Ferdinand Céline) e Irlanda (James Joyce).
In Italia risentono dell’Espressionismo i “vociani” Rebora, Campana e Tozzi , Gadda e in parte Pirandello.
N.B. I vociani Si definiscono scrittori vociani quegli scrittori che durante il primo Novecento dimostrarono il desiderio
di provare una nuova sperimentazione di linguaggio che superasse la tradizione dell'Ottocento.
Il termine “vociani” proveniva dall'esperienza della rivista La voce e si riconoscevano nel suo programma che esaltava
il rinnovamento della cultura e delle lettere; molti di loro si riconoscevano per le proprie posizioni interventiste e
cercarono di vivere la prima guerra mondiale non solo attivamente ma anche a livello letterario. Costoro, spinti dalla
necessità di abbandonare tutti gli schemi tradizionali della narrazione dell'Ottocento, sperimentano un tipo di scrittura
frammentata e di breve misura.
DADAISMO
Il movimento Dada, nacque a Zurigo nel 1916. Massimo esponente e teorico il rumeno Tristan Tzara (1896 – 1963)
La parola Dada ha una valenza polisemia: in rumeno e in russo significa “sì sì”, nel linguaggio infantile francese
significa “ cavallo” in swahili significa “sorella”; oppure è semplicemente un suono pronunciato dai bambini ad
indicare il rifiuto dell’utilità dell’opera d’arte e la spontaneità assoluta dell’artista che gioca e si esprime come un
neonato (rifiuto di ogni regola e ogni razionalità sino alla negazione nichilista di ogni tradizione)
Scopo del Dadaismo è la distruzione sistematica di qualsiasi possibilità di comunicazione convenzionale “Dada
non significa nulla” . In letteratura il linguaggio dei dadaisti tendeva alla dissoluzione della sintassi fino alla
distruzione di ogni legame logico del discorso, alla deformazione del lessico fino alla definizione di una scrittura
rivoluzionaria, formata di suoni e di fonemi in libertà. I dadaisti non propongono la demolizione della civiltà
borghese (questo avrebbe comportato una proposta alternativa, mente loro sono nichilisti, cioè non offrono nessuna
indicazione in positivo), quanto piuttosto la constatazione del suo fallimento.
La mancanza di progetti, il distacco abissale dal pubblico di massa, portarono rapidamente il movimento ad
esaurirsi(1923). Molti artisti dadaisti confluirono nel Surrealismo.
SURREALISMO
La nascita del Surrealismo (1924 – pubblicazione del Manifesto del Surrealismo di Andrè Breton) è da mettere in
relazione alla crisi del movimento Dada e della sua spinta anarchica ed eversiva e coinvolge narratori, poeti,
pittori, scultori, registi di teatro e cinema. Proprio in opposizione al Dadaismo, i primi surrealisti svilupperanno un
atteggiamento più costruttivo, volto a sperimentare in modo rigoroso e quasi scientifico, un nuovo strumento di
conoscenza di territori fino ad allora inesplorati: l’inconscio, il sogno, la follia, gli stati allucinatori, il rovescio,
cioè, di tutto ciò che è logico. Tale strumento conoscitivo, in campo letterario è la scrittura automatica,un tipo di
scrittura che si propone di esprimere il reale funzionamento del pensiero, al di fuori di ogni preoccupazione di tipo
formale, estetica o morale e al di fuori di ogni controllo esercitato dalla ragione.
Obiettivo dei Surrealisti è la liberazione totale dell’uomo e l’instaurazione della “surrealtà”, ovvero una realtà
assoluta nella quale la scissione tra coscienza ed inconscio, tra realtà ed immaginario sia definitivamente superata.
Liberare l’inconscio, significa liberare l’uomo da tutti quei condizionamenti ai quali le imposizioni sociali lo
costringono. Coerentemente con questo progetto, molti poeti surrealisti si avvicinarono al comunismo.
CREPUSCOLARISMO
Il termine nasce nel 1910. Antonio Borghese, critico letterario, lo userà per la prima volta per indicare il tono
grigio e spento delle composizioni di alcuni poeti. Borghese indicava così una poesia che si collocava ai margini
della grande tradizione ottocentesca, in una zona appartata, dove, in contrapposizione alla poesia aulica e solenne,
si prediligono temi quotidiani e malinconici, gli oggetti polverosi e dimessi della sonnolente vita di provincia. Il
Crepuscolarismo non è una corrente organizzata, ma è un clima psicologico dimesso e malinconico da cui discende
una particolare poesia e rientra nel clima del Decadentismo (la corrente che decreta la morte dell’arte). E’ una delle
risposte alla crisi della ragione e dell’io e consiste nella consapevolezza di essere giunti al crepuscolo della grande
produzione letteraria.
I crepuscolari, con il loro atteggiamento dimesso e autoironico, apparentemente molto lontano dalla tensione delle
avanguardie, ne anticipano alcuni importanti elementi: il rifiuto della tradizionale immagine del poeta “vate” o
“genio”, il rifiuto della tradizione rappresentata da Carducci, Pascoli e D’Annunzio, l’introduzione nella poesia di
nuovi temi e tecniche espressive.
Il crepuscolarismo interessa solo la poesia e si sviluppa in un periodo molto circoscritto: dal 1903, anno della
pubblicazione delle prime raccolte di Covoni e Palazzeschi, al 1911, anno di pubblicazione del secondo ed ultimo
libro in versi di Gozzano.
2
Tra i massimi esponenti: Guido Gozzano (Aldo Palazzeschi, Corrado Covoni, già nel 1910 aderiranno al
Futurismo).
L’Arte si fonde con la vita (come per D’Annunzio), ma con una vita povera ed imperfetta ed è una compensazione
alle frustrazioni sociali ed esistenziali. La poesia non è più un valore, un segno d’elezione come per i simbolisti e
non conduce a nessuna conoscenza. Essa è solo un anacronismo ed esprime, in una società di massa, valori
sorpassati ed inutili. La letteratura è il luogo della consapevolezza dell’inutilità della letteratura stessa. Tecnica
utilizzata per esprimere questi concetti è quella dell’autoironia.
Nei crepuscolari manca del tutto l’idea di progresso e, benché si sia all’inizio di un secolo, essi non vedono
l’avanzare, ma un lento spegnersi. Viene a cadere l’intensità del sentire: non vi sono slanci, ma nemmeno angosce
tenebrose, non vi sono entusiasmi, ma nemmeno tragedie. Il loro tono è malinconico e molto lontano dal
maledettismo.
Linguaggio: povero, dimesso, basso impoetico, ai confini con la prosa.
Temi ricorrenti: continuo lamento, autocompiacimento del proprio ingrigirsi, il crogiolarsi entro il senso della crisi.
FUTURISMO
E’ il più vistoso movimento artistico – culturale italiano del primo Novecento. Viene fondato nel 1909 da
Tommaso Marinetti che pubblica sulla rivista francese “Le Figaro” Il manifesto del Futurismo influenzando
pittura, scultura, architettura, poesia, teatro, moda e musica.
E’ il primo movimento del ‘900 che esprime chiaramente i propri scopi e i mezzi per raggiungerli. Alla crisi della
ragione e dell’io, i futuristi contrappongono il mito del progresso tecnico e l’esaltazione dell’individualismo
assoluto, della violenza, dell’aggressività, della guerra. Predicano l’abbandono e la distruzione del passato,
scagliandosi contro i simboli della tradizione: musei, biblioteche, accademie, per proiettarsi verso il futuro
esaltando le novità della società industriale (velocità, macchine, tecnologie), ma non hanno nulla a che vedere con
una ripresa del positivismo e della valorizzazione della razionalità scientifica, anzi, rappresentano un ‘altra faccia
della crisi della ragione, in quanto propongono uno slancio volontaristico e irrazionalistico verso il futuro fatto di
velocità, macchine, energia aggressiva e violenta che diventano i nuovi idoli del presente.
Il loro obiettivo è quello di rinnovare l’arte e la concezione della vita;
La bellezza della civiltà moderna si fonda sulla macchina e sulla velocità contrapposte polemicamente alla
tradizione artistica e all’ordine del perbenismo borghese, dunque l’arte si deve adeguare alla nuova realtà in tutte le
sue forme. Con riferimento specifico alla letteratura, nel 1912 fu pubblicato il “Manifesto tecnico della letteratura
futurista” , dove sono esaltate le parole in libertà, vi è il rifiuto della sintassi, degli avverbi, degli aggettivi e della
punteggiatura. La poesia deve essere immediata e l’impressione comunicata analogicamente dall’autore al lettore.
(influenza del simbolismo francese di fine Ottocento) I futuristi rivoluzionarono anche la struttura tipografica della
pagina disponendo le parole in modo da formare composizioni grafiche.
I futuristi trovarono nelle riviste un apporto fondamentale per diffondere le proprie idee (in particolare “Lacerba”,
“Roma futurista” e “ L’Italia futurista” (Milano - Firenze 1909 – 1919)
Nel movimento i programmi e le teorie artistiche e anche poetiche furono più importanti delle opere realizzate
Il movimento si politicizzò fortemente con l’avvicinarsi della Prima guerra mondiale. Dopo il 1920 la maggior
parte dei futuristi aderì al fascismo e lo stesso Martinetti accettò la nomina alla fascista Accademia d’Italia, ma il
movimento, pur sopravvivendo fino agli anni Trenta, non ebbe una reale incidenza nella realtà culturale e politica
italiana.
CUBISMO
Nato a Parigi fra il 1906 ed il 1908 grazie a Pablo Picasso e Georges Braque, scompone lo spazio in piani diversi
tutti contemporaneamente presenti nell’opera.
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MODULO IV ITALIANO
Prof.ssa Valentina Chiavazzo
A.s. 2019-2020 Corso AFM
L’ERMETISMO
Prof.ssa Valentina Chiavazzo
L’Ermetismo è una corrente letteraria che ha visto la luce agli inizi del Novecento in Italia. Questo
movimento ha interessato essenzialmente la letteratura più che le altre arti figurative. Le quali però
erano investite comunque da una condizione di rinnovamento grazie all’avvento della rivoluzione
delle Avanguardie, all’inizio del secolo. Il termine Ermetismo è stato utilizzato per la prima volta
per indicare un gruppo di poeti vicini ad alcune riviste letterarie. Tra queste: «Solaria» e «Il
Frontespizio». Tali poeti erano strettamente legati da una comune poetica, e attivi a Firenze tra gli
anni Trenta e gli anni Quaranta del Novecento. Manifesto della poesia ermetica è considerato il
saggio di Carlo Bo, Letteratura come vita. In esso l’autore dichiara che letteratura e vita coincidono
perché sono entrambe impegnate ad interrogarsi sull’enigma dell’esistenza.
La poesia ermetica
Con gli Ermetici, la poesia non era denuncia del male da vivere, ma espressione dell’intimità
dell’autore, che si interrogava sul mistero della vita. Essi avevano sviluppato una sorta di
indifferenza verso le vicende storiche contemporanee. Le liriche ermetiche, infatti, si erano
concentrate sul soggetto e spesso erano ambientate in paesaggi onirici (irreali, che riguardano il
sogno), molto distanti dalla realtà. Questo tipo di poesia aveva la caratteristica fondamentale di
esprimersi in forme elaborate e complesse e di essere rivolta solo ad un pubblico elitario e ristretto.
Essi riprendevano il concetto di poesia pura di Ungaretti. Utilizzavano analogie (relazione di
somiglianza fra due o più cose per alcune caratteristiche comuni ) difficili da comprendere,
sinestesie ( Fusione in un'unica sfera sensoriale delle percezioni di sensi distinti ) e metafore
(Sostituzione di un termine proprio con uno figurato). La poesia ermetica ricercava l’essenzialità,
anche da un punto di vista grafico. Venivano utilizzati molti spazi, aboliti gli articoli e i nessi
temporali. Da un punto di vista metrico i versi erano liberi ed erano presenti molti richiami sonori.
L’Ermetismo e il fascismo
Il tutto per giungere una ricerca dell’essenzialità e al tentativo di trascrivere su carta le verità della
vita. Gli ermetici spesso sono stati attaccati per non aver contrastato il regime fascista. Va detto,
però, che la loro fu una rivoluzione silenziosa. Fu soprattutto una condanna totale a quella cultura
massificatrice dei regimi totalitari.
Essi sono stati in grado di mostrare, anche se con termini complessi, le loro tormentate vicende
interiori e possono considerarsi testimoni preziosi di un periodo turbolento.
L’albero mutilato
Il poeta, immerso nel buio della notte, si trova vicino, come aggrappato a un albero mutilato,
colpito dai mortai, abbandonato come l’albero stesso nel vuoto malinconico di una desolata dolina,
e contempla il passaggio quieto delle nuvole sulla luna (vv. 1-8);
Analisi e commento
Giuseppe Ungaretti scrive Di Luglio nel 1931, al termine di un periodo difficile per la crisi
spirituale che lo aveva travagliato e il suo trasferimento a Roma avvenuto tra evidenti difficoltà
economiche. L’ambiente che lo circonda gioca un ruolo fondamentale nel suo animo che,
inevitabilmente, si riflette nello stile. Per sua stessa ammissione, il trasferimento a Roma gli infonde
un linguaggio barocco non sperimentato precedentemente e tutto proteso ad un effetto di durezza ed
immediatezza del testo. È un barocco reinterpretato da Ungaretti, dove la natura viene vista come
qualcosa di mitico e animato, distante anni luce dalla prosa ridondante, ad esempio, di D’Annunzio
(al quale viene, talvolta, accostato) e dove: …“tanto la sensualità dannunziana era ricca, prepotente
e straripante quanto quella di un poeta come Ungaretti appare estenuata, ridotta al suo diagramma
essenziale, scavata alla radice, incline ad esprimersi nei suoi strati più sottili e impalpabili”16 Ecco
riaffiorare, nella poesia, la memoria autobiografica del poeta, il ricordo della sua fanciullezza
trascorsa in Egitto dove l’estate si presenta non con i colori sgargianti e il rigoglio della natura ma,
come furia distruttrice, diviene metafora del tempo che dissolve ogni cosa e, per antonomasia, della
storia intesa come continua metamorfosi. L’incipit è spiazzante. L’estate non viene subito nominata
ma vengono descritti i suoi effetti devastanti sul mondo. È “Lei” (v. 1) che rende tristi anche le
foglie colorate, che sgretola le rocce ed evapora le acque. L’estate è furia che si ostina, “è
l’implacabile” (v. 6) che, trascendendo la dimensione spaziale, impedisce di distinguere le linee di
divisione e di contorno fino a dissolvere interamente l’immagine del reale. Il pensiero del poeta
ricorre all’immagine del deserto, da lui sicuramente conosciuto e in cui la luce abbagliante dilata
l’orizzonte e impedisce di vedere gli spazi nei loro giusti confini. La tensione creata nei primi versi
si stempera, finalmente, con l’indicazione del soggetto, il ritmo si allenta e la vetta emotiva
raggiunta nel verso “sparge spazio, acceca mete” (v. 7) si placa e subentra la considerazione degli
effetti che quest’azione ha prodotto nel suo cammino secolare. Il senso della Morte conclude la
poesia. L’ormai lento fluire del discorso devia verso una fissità macabra (quasi espressionistica) che
parte dagli “occhi calcinanti” (v. 9) dell’Estate-Morte per terminare nello “scheletro” (v. 10)
dissepolto e scarnificato della natura. Visti in chiave allegorica, questi versi, secondo i critici Getto
e Portinari, potrebbero rappresentare “una stagione della vita umana, la maturità che, esplodendo,
già si spoglia e consuma” per dissolversi nell’eterno. Analizzando la poesia, il primo verso, che si
traduce nell’uso di un verbo “forte” associato a particelle monosillabiche (“…su ci si butta lei”,
v.1), preceduto da un ineluttabile “Quando…” (v. 1), introduce un ritmo aggressivo e spezzato come
se, prima dell’arrivo della furia disgregatrice, tutto fosse incorruttibile. Si apprezza il periodare
breve, basato su sequenze rapidissime, sull’unione stringente fra un verbo d’azione e il suo
complemento oggetto. La continua tensione è ottenuta ponendo il soggetto, “è l’estate”, soltanto
all’ottavo verso e ad esso segue l’insieme della descrizione degli effetti dell’arsura estiva resi
attraverso un linguaggio incalzante. I versi “Strugge forre (v.4) […] acceca mete” (v.7), accentuano
ciò che il poeta intende comunicare usando un linguaggio impetuoso e devastante per voler
trasferire al lettore gli effetti dirompenti che l’estate provoca sulla natura. Dopo i primi quattro
versi, la furia dell’estate sembra come dissolversi e inizia il riferimento alle realtà naturali, le forre, i
fiumi, gli scogli e all’intera dimensione spaziale (spazio e mete). Come anticipato, lo stile di
Ungaretti sembra avvicinarsi alla poesia dannunziana, ma alla vitalità e alla sensualità di questa fa
da contraltare il prevalere di un destino, umano e spirituale, di dissoluzione e morte. Una costante
perplessità esistenziale ed una incertezza di fronte al mistero delle cose.
3) Il Dolore
La raccolta fu scritta piangendo. «Il dolore è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni
orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di
straziarmi» Nel denso e pregnante universo letterario del Novecento, la tematica del dolore diviene
centrale per molti dei più importanti esponenti della cultura decadente. In Giuseppe Ungaretti tale
topos e’ oggetto di una riflessione matura, basata sulla personale esperienza e sulla elaborazione di
tale sentimento. Il dolore del poeta è causato soprattutto dalle disgrazie familiari che hanno colto
impreparata l’intera famiglia Ungaretti; a tale condizione si aggiunge la lacerante esperienza dalla
visione di Roma occupata dell'Italia straziata dalla guerra. Ma il quotidiano prevale sugli eventi
storici: la morte del figlio e’ un evento sconvolgente, e le altre perdite parvero voler fare da
corollario ad una lenta, inesorabile cancellazione di quella sorta di residuo edenico che è l'età
infantile. Col fratello muore infatti l'ultimo testimone dell'infanzia del poeta, e col figlio la speranza
di rivivere di riflesso quest'esperienza. Insieme l'anomalia della morte di un bimbo di nove anni lo
porta a considerare la natura sotto un aspetto nuovo. Gli si configura così in modo preciso la
violenza che la vita stessa comporta e l'ineluttabilità di essa. Per esprimere l'angoscia di tale
scoperta e la sofferenza nella sopportazione della vita, Ungaretti modula il suo canto su un tono
nuovo utilizzando la parola gridata o l'affanno reso con dei puntini di sospensione. Non si può
tuttavia parlare di autocommiserazione, in quanto il suo non è atteggiamento passivo, ma
espressione di forza; anche nel dolore personale Ungaretti non si isola, ma s'immedesima nel ruolo
di cantore dell'umano dolore, non solo del proprio. E in tal senso, anche nelle composizioni ad
oggetto più intimo e personale, si avverte il senso di solidarietà che unisce i sofferenti singoli.
MAPPA CONCETTUALE
ERMETISMO
da Ermes, dio del mistero (parola coniata da Francesco Flora)
Poesia dal linguaggio difficile, I testi sono composti Ricerca del significato
ambiguo e misterioso. da poche parole ricche della vita attraverso
No punteggiatura di simbolismi l’indagine interiore della
Verso libero propria esistenza. Visione
pessimista della vita
GIUSEPPE UNGARETTI
(Alessandria d’Egitto1888- Milano 1970)
RACCOLTE POETICHE
I FIUMI DI LUGLIO