Letteratura Scientifica e Tecnica in Grecia e Roma
Letteratura Scientifica e Tecnica in Grecia e Roma
Letteratura Scientifica e Tecnica in Grecia e Roma
GRECIA E A ROMA
ASTRONOMIA
LA STORIA DELL’ASTRONOMIA
La complementarità tra cosmo e vita umana è elaborata da un autore dell’antichità:
Asclepiade di Mirlea (II-I secolo a.C.) del quale conosciamo, attraverso una citazione
dai Sofisti a banchetto di Ateneo di Naucrati (scrittore egizio del III secolo), il saggio
di interpretazione allegorica dei versi relativi alla coppa di Nestore che Omero de-
scrive nell’Iliade. Asclepiade, interpreta le due colombe ageminate sulla coppa come
una trasposizione simbolica del gruppo stellare delle Pleiadi che al sorgere e al tra-
montare marcano l’inizio e la fine dei lavori agricoli, e propone che l’uso di trasporre
negli oggetti di uso comune le forme degli oggetti celesti (tavoli, tripodi, focacce ro-
tonde dette “lune”, coppe per bere) sia connaturato al legame dell’uomo con la volta
celeste e gli oggetti del cosmo. Il principio di complementarità è forse quello che marca
più di ogni altro il carattere dell’astronomia antica.
Nelle letterature di Grecia e Roma il popolo dei Caldei della Mesopotamia è conside-
rato il cultore e possessore del patrimonio di conoscenze astronomiche attraverso lo
studio del cielo e la predizione astrologica. Sebbene la finalità dello studio del cosmo
fosse relativo a quest’ultimo aspetto, il rinvenimento recente di tavolette cuneiformi e
la loro decifrazione mostra come le nozioni ivi contenute fossero puramente astrono-
miche. In piena età sumerica, intorno al 2200 a.C. abbiamo testimonianze dell’uso di
classificare le stelle del
cielo nella descrizione Ištar
della dea Nisaba, che pre-
siede alla scrittura e
all’agricoltura e che tiene
in mano uno stilo d’ar-
gento e sulle ginocchia
una tavoletta con le stelle
del cielo. È un patrimonio
antico la suddivisione
dello spazio nei quattro
punti cardinali e la misura
del tempo basata sui cicli
solari e lunari e anche sul Nisaba
ciclo del pianeta Venere
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nel quale la civiltà mesopotamica riconosce la dea
Inanna/Ištar. Il fatto che anche gli altri quattro pianeti
(Giove, Saturno, Marte e Mercurio) e molte costellazioni
abbiano nomi di derivazione sumerica suggerisce l’anti-
chità della loro identificazione. I veri e propri testi astro-
nomici sono databili all’ultimo periodo della dinastia ba-
bilonese e all’età della successiva ellenizzazione sotto la
dinastia dei Seleucidi. Le principali categorie di classifi-
cazione di questi testi comprendono le effemeridi in cui
sono registrate per ogni mese in colonne di numeri i valori
calcolati di diverse grandezze astronomiche: raccolte di
eclissi, almanacchi e testi matematico-astronomici dove il Mul-apin
movimento del Sole, della Luna e dei pianeti viene calco-
lato su base sessagesimale. Il testo più completo delle co- Kudurru
noscenze astronomiche babilonesi è il Mul-apin cioè
“stella-aratro”, redatto intorno al 1000 a.C.
Il processo di formazione dello Zodiaco, nella forma co-
nosciuta in Grecia, inizia in età sumerica, prosegue in età
paleo-babilonese e si compie in età neobabilonese con Na-
bucodonosor II (634 a.C. – 562 a.C.), quando si forma-
lizza il rapporto tra i dodici archi uguali di 30° di ampiezza
ciascuno e la divisione dell’anno in dodici mesi di trenta
giorni. Un’altra eredità che la cultura babilonese lascia alla
cultura greca è rappresentata dai kudurru, i cippi che se-
gnano i confini delle proprietà terriere, dove la raffigura-
zione delle costellazioni mette in evidenza il rapporto tra
microcosmo e macrocosmo.
IL PENSIERO GRECO
Il patrimonio di conoscenze astronomiche mesopotamico ha influenzato la formazione
del pensiero greco, così come su di esso hanno operato la matematica e la geometria
egiziane e il riflesso di cosmologie mitiche orientali. A tale formazione non può essere
estranea la strutturazione dei miti teogonici e cosmogonici che leggiamo nella Teogo-
nia di Esiodo (VIII-VII sec. a.C). La natura della realtà nella cultura greca assume due
caratteristiche diverse ma in essa intrinseche: la natura vera e propria, sfuggente a ogni
forma di controllo (φύσις) e il principio di ordine (ϰόσμος). Il processo per compren-
dere la trasformazione da φύσις a ϰόσμος sta alla base di tutto il pensiero naturalistico
della filosofia greca. Tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., ad opera di Talete
di Mileto (640/625 – 548/545 a.C), si assiste a una interpretazione della natura secondo
un principio unico (l’acqua). Inizia pertanto un lento processo di desacralizzazione
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della natura e di distacco della scienza dalla religione che diviene evidente nel pensiero
di Anassagora (496 - 428 a.C.) e degli atomisti.
Nei poemi omerici possiamo trovare un complesso di termini che presuppongono al-
cune nozioni di astronomia e meteorologia. Il cielo (ούρανός) è il luogo dove gli astri
si manifestano o si nascondono. Esiodo, nel poema Opere e giorni fa scandire i lavori
agricoli e la navigazione dalle levate e dai tramonti delle costellazioni. L'Astronomia
è perduta, tranne 8 frammenti, l'opera andava sotto i titoli di Astronomia o Astrologia:
Ateneo, che conserva i tre frammenti testuali del poema, lo chiama Astronomia, mentre
Plutarco e Plinio il Vecchio lo indicano come Astrologia. Il poema è ricordato come
illustre predecessore e iniziatore di questo genere letterario anche dal latino Manilio (I
sec. a.C. – I sec. d.C.). L’astronomia greca nasce dunque come osservazione delle stelle
e della loro distribuzione in gruppi, secondo le pratiche della vita quotidiana e sociale.
Se si prescinde da questa funzione l’osservazione del cielo diventa sospetta. La parola
αστρονομία compare per la prima volta nel V secolo a.C., nella commedia Le Nubi di
Aristofane (450 – 385 a.C.), il quale ironizza sull’insegnamento di questa disciplina.
Quasi contemporanea appare in Senofonte (430/425 – 355 a.C.) la parola αστρολογία
che sembrerebbe implicare una riflessione più complessa, ma che deve anch’essa ser-
vire alla navigazione, a conoscere le fasi della notte per le sentinelle e così via. La
prima data importante dell’astronomia greca risale a Talete di Mileto che avrebbe pre-
detto l’eclissi di sole del 585 a.C. e che provocò l’interruzione della battaglia fra Lidi
e Medi. A Talete viene attribuito un testo relativo ai suoi studi astronomici: l’Astrolo-
gia nautica. Callimaco (310 – 235 a.C.) ricorda che Talete aveva misurato le stelle
dell’Orsa Minore in riferimento alla prassi dei Fenici di tenere la rotta su questa costel-
lazione, mentre i Greci si servivano dell’Orsa Maggiore. Un altro filosofo della scuola
di Mileto, Anassimandro (610 – 546 a.C.), avrebbe scoperto lo gnomone. Ad Anas-
simandro si attribuisce anche la tesi della forma cilindrica della Terra, sospesa nello
spazio vuoto e che la luce della Luna non è propria ma proviene dal Sole. Un altro
filosofo della natura, Anassagora, fu processato e condannato a morte (ma salvato da
Pericle, secondo Diogene Laerzio) per aver affermato che il sole è una massa incande-
scente e rovente e che il cielo è una cupola dove si muovono le stelle.
Il conflitto con la religione ufficiale è evidente rispetto all’età di Talete e della prima
generazione di filosofi, perché con Anassagora, così come con Leucippo (V sec. a.C.)
e Democrito (460 – 370 a.C), alla ricerca del “principio primario”, viene sostituita
una struttura teorica generale.
Dalla Scuola pitagorica (VI sec. a.C.) è noto il concetto dell’universo governato
dall’armonia: ogni corpo celeste nel corso delle sue rivoluzioni, produce una nota par-
ticolare non udibile dall’uomo. Il numero non vale solo come parametro funzionale,
ma costituisce il principio primo della natura ed implica la formazione di una “aritmo-
logia sacra”. Pitagora (580/570 - 495 a.C.) fu il primo a chiamare il mondo ϰόσμος e
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la Terra globo, sebbene la forma sferica della terra sia attribuita da altri a Parmenide
di Elea (515/510 – 450 a.C.). Inoltre a Pitagora spetterebbe il merito di aver ricono-
sciuto l’identità tra la stella del mattino (Fosforo) e quella della sera (Espero) e di es-
sersi posto il problema del moto dei pianeti, interpretandolo come opposto a quello
delle stelle fisse. Un elemento di specificità è dovuto al fatto che questo corpus sapien-
ziale non procede secondo il consueto percorso di comunicazione con la polis, ma viene
trasmesso ad una élite attraverso un processo di iniziazione fortemente avversato dalle
poleis stesse. Infatti la setta pitagorica verrà sterminata a Crotone, la patria d’adozione
del filosofo. A Filolao di Crotone (470 – 390 a.C.), pitagorico contemporaneo di So-
crate, dobbiamo un primo sistema teorico che presuppone un “fuoco centrale” attorno
al quale ruotano nove corpi: i cinque pianeti, la Terra, la Luna, il Sole, il cielo delle
stelle fisse e in aggiunta un altro elemento del sistema, chiamato Antiterra, per arrivare
al numero dieci, considerato divino.
Nel giugno del 431 a.C. il filosofo Metone osserva il sole con uno strumento chiamato
heliotropion. Egli è conosciuto anche per aver introdotto nel 432 a.C. il ciclo meto-
nico, un ciclo di 19 anni basato sull'osservazione che 19 anni solari corrispondono
(quasi) esattamente a 235 mesi lunari, in modo che potesse essere di supporto al para-
pegma cioè alle tabelle astronomiche e agli almanacchi in cui erano indicate le date
delle levate e dei tramonti delle stelle unitamente ai solstizi e agli equinozi, utilizzate
da marinai, agricoltori e perfino medici. Il parapegma di Metone sarebbe in debito
verso gli astronomi babilonesi, dal momento che la tabella era organizzata secondo un
calendario zodiacale.
Le opere in cui Platone (428/427 – 348/347 a.C.) espone il mito cosmologico dell’in-
telligenza divina che costruisce l’ordinamento celeste sono il Fedone e il Timeo. Il
Timeo fu composto dopo la fondazione dell’Accademia (385 a.C.) e ha un tono meno
visionario e un andamento più articolato verso una esposizione scientifica. Il concetto
platonico che il disordine del mondo trovi spiegazione nell’ordine ideale e intelligibile
del cielo, configura la contrapposizione fra corpo e anima. Il contenuto del Timeo che
appare come un discorso di orientamento scientifico costituisce la base anche per una
visione religiosa che si realizza nell’Epinomide, attribuita a Filippo di Opunte (410 –
336 a.C.), discepolo e segretario di Platone. Il Timeo fu tradotto in latino da Cicerone
(106 – 43 a.C.).
Il trattato Sul cielo di Aristotele (384/383 – 322 a.C.), a completamento della sua Fi-
sica, oltre a essere un’esposizione scientifica sul cosmo, è anche una polemica sulla
cosmologia del Timeo di Platone, del quale non condivide il mito dell’anima divina
che modella l’ordine celeste. Aristotele separa il cielo dalla Terra in virtù della loro
differente natura. Il cielo non generato e non corruttibile, è sferico, così come tutti gli
astri e si muove senza sosta con moto circolare. L’incoerenza generalmente ricono-
sciuta nell’opera Sul cielo è avvalorata dalla dipendenza di Aristotele dai trattati degli
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astronomi di professione, per l’ordine degli
astri e dei loro movimenti egli rimanda ai
dati dell’astronomia.
ASTRONOMIA E LETTERATURA ASTRONO-
MICA NEI SECOLI IV – III A.C.
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astronomica non sia destinata solo agli scienziati, bensì a un pubblico più vasto. Come
accaduto con Esiodo, nasce con Arato il cosiddetto poemetto didascalico che avrà
grande fortuna nella letteratura romana. Alcuni studiosi sostengono che l’intera parte
astronomica del poema sia una progressiva rivelazione della funzione di misuratore del
tempo dello Zodiaco. Accanto alle costellazioni fissate da Zeus come segni celesti, si
accenna alle stelle vere e proprie che segnalano i limiti delle stagioni. Sono le stelle
dunque e non le costellazioni ad assolvere la funzione pratica per gli agricoltori e i
naviganti. Ovviamente questi dati hanno significato solo se rapportati al movimento
del Sole lungo l’eclittica. Nella biografia di Arato, si dice che egli fu sollecitato dal
sovrano di Macedonia Antigono Gonata a mettere in versi l’opera di Eudosso, questo
conferma la collusione dell’astronomia con la vita politica, come se nell’astronomia i
sovrani ellenistici vedessero una disciplina capace di consolidare il loro potere.
Nell’opera di Arato si osserva un certo grado di indipendenza nella scelta degli argo-
menti, ad esempio Arato omette di riferire l’esistenza di una stella collocata proprio sul
Polo Nord, il che induce a pensare che egli volesse emendare la dichiarazione di Eu-
dosso che quella zona del cielo fosse vuota, contraddetta infatti dalle più recenti osser-
vazioni di Pitea di Massalia (380 – 310 a.C.). Nell’opera di Arato le costellazioni sono
elencate per “pezzatura”, cioè una dopo l’altra a partire da quelle boreali, a differenza
di quanto fa Eratostene che le elenca a partire dalle costellazioni concentriche all’Orsa
Maggiore. Arato introduce alcuni elementi di geometria rappresentati dai circoli della
sfera: i due tropici, l’equatore, lo Zodiaco e la Via Lattea. I Fenomeni è totalmente
privo di contenuti matematici e per tale motivo ebbe una larghissima fortuna, come
testimoniano le varie versioni poetiche degli scrittori latini. Non mancano infine i
catasterismi (trasformazioni mitologiche degli dei in astri), come quello di Dike che
abbandona la frequentazione degli uomini per stabilirsi in cielo dove diviene la costel-
lazione della Vergine.
Eratostene di Cirene (276 – 194 a.C.) fu attivo
ad Alessandria nella seconda metà del III secolo
ove si reca su invito di Tolemeo III Evergete. Era-
tostene fonde gli interessi letterari con quelli
scientifici. Nell’opera Catasterismi fornisce al
lettore l’intero panorama delle trasformazioni in
astri presenti nella mitografia greca. Calcolò la
lunghezza della circonferenza terrestre con ot-
tima approssimazione in base alla distanza ango-
lare tra Alessandria e Siene. Egli presenta le co-
stellazioni in rapporto a una serie di circonferenze
concentriche intorno all’Orsa Maggiore. Ad Era-
tostene vanno ascritti due poemetti: Ermete ed
Erigone. Nel primo viene esposta la nascita e le
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imprese di Ermes, tra cui l’invenzione della Lira, accenno all’armonia del moto delle
sfere celesti, quindi ascende al cielo sotto forma di pianeta. L’Erigone doveva esporre
il ciclo mitico di Dioniso: la Vergine (Erigone figlia di Icario) diviene costellazione
per intercessione divina. Il racconto riflette un mito rurale, dovuto alla coincidenza
della vendemmia con la levata della costellazione. Il motivo della trasformazione in
astro acquisisce nella storia della letteratura greca un valore politico e propagandistico
definito con il racconto della traslazione in cielo di un ricciolo della chioma della regina
Berenice, offerto agli dei per il ritorno del marito Tolemeo III dalla guerra in Siria.
Questo racconto conclude il IV libro de Le cause di Callimaco. Il rapporto tra astro-
nomia e potere politico nella Roma imperiale è molto stretto e apprende le tecniche di
propaganda del mondo ellenistico. La leggenda alessandrina della Chioma di Berenice
aveva spostato nella realtà attuale un racconto di metamorfosi pensato per le età eroiche
del mito; con questa operazione Conone di Samo (440 – 390 a.C.), si propone di enun-
ciare non solo una scoperta scientifica, ma di trasmettere un messaggio che fa pensare
alle attuali comunicazioni di massa. Egli asserì, nel 245 a.C., di aver ritrovato il ricciolo
della chioma della regina Berenice - giustificandone così la sparizione dal tempio di
Arsinoe Zefritide - in cielo, assimilando ad esso un gruppo di stelle situate tra la co-
stellazione della Vergine, del Leone e di Boote; conseguentemente, Conone impose
alla costellazione il nome di Βερενίκης πλόκαμος, in latino Coma Berenices. Tale
episodio ispirò una delle composizioni elegiache di Callimaco, di cui ci restano fram-
menti dell'originale e la traduzione che ne fece Gaio Valerio Catullo nel carme LXVI.
Nella sua elegia Callimaco afferma che Conone aveva spiegato il moto degli astri. Co-
none fu famoso nell'antichità anche per i suoi studi sulle eclissi solari. Tramite Probo,
grammatico latino del I secolo a.C. e tramite Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) che ne accenna
nel libro VII delle Quaestiones naturales, sappiamo che scrisse un'opera astronomica
in 7 libri (menzionata come De Astrologia), che non ci è pervenuta, ma dalla quale
deriva certamente lo sviluppo del concetto di parapegma, il calendario astronomico e
meteorologico caratteristico della cultura greca. Quanto alla sua opera come matema-
tico, tramite Apollonio di Perga che lo considerava un precursore della propria opera,
sappiamo che Conone si occupò delle intersezioni e della tangenza tra le coniche nello
scritto Πρός Θρασυδαίον (Contro Trasideo).
Il III secolo a.C. rappresenta l’età in cui i rapporti tra matematica e astronomia si le-
gano indissolubilmente, a cominciare dalla sferica, cioè lo studio delle figure geome-
triche disegnate sulla sfera. In questo campo i primi scritti significativi si trovano in
due opuscoli di Autolico di Pitane (360 – 290 a.C.), intitolati Sulla sfera rotante e Sul
sorgere e tramontare degli astri e il trattato di sferica dello stesso Euclide, intitolato
anch’esso Fenomeni.
Aristarco di Samo (310 a.C. – 230 a.C.) è tra i primi ad usare metodi trigonometrici
per calcolare la maggiore distanza del Sole dalla Terra, rispetto a quella della Luna
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dalla Terra, in rapporto di 18/20, mentre il rapporto tra le distanze medie è in realtà
circa 400. Le stime di Aristarco sono correttamente dedotte dal valore da lui assunto
per l'angolo Sole-Terra-Luna all'atto della quadratura, ma l'angolo era stato misurato
con scarsa precisione. La grandezza apparente del Sole e della Luna è perciò simile (i
cerchi del Sole e della Luna che vediamo nel cielo sembrano essere uguali). Nel trattato
Sulla grandezza e sulla distanza del Sole e della Luna, redatto intorno al 260 a.C. egli
propone un sistema eliocentrico, anticipando di oltre un millennio e mezzo Copernico.
Ipparco di Nicea (200 a.C. – 120 a.C.) è uno dei maggiori astronomi dell’antichità.
Egli usa principi trigonometrici per individuare un metodo di proiezione stereografica
della sfera celeste. Ipparco redige un Catalogo di stelle (circa 850), in base a una rete
di circonferenze graduate, ponendosi a metà tra l’approccio per “pezzatura” di Eudosso
e la sistematica dell’Almagesto di Claudio Tolemeo. Ad Ipparco dobbiamo il perfezio-
namento dei dati di alcune costanti astronomiche, come la durata del mese e
dell’anno, l’angolo di obliquità dell’eclittica e il fenomeno della precessione degli
equinozi. L’opera di Ipparco doveva prevedere un livello espositivo più scientifico,
ma l’unica sua opera rimasta appartiene alla categoria didattica, è il trattato di rettifica
dei Fenomeni di Arato (e Eudosso), dal titolo Spiegazioni dei Fenomeni di Arato e di
Eudosso. Cicerone riporta che l’opera Lo Specchio attribuita a Eudosso, fosse in realtà
un manufatto della sfera celeste da questi costruito, sebbene obietti che Eudosso non
possedeva ancora un sistema di coordinate per realizzarlo, per le quali occorrerà aspet-
tare Ipparco.
La tendenza alla divulgazione produce frutto con L’introduzione ai Fenomeni di Ge-
mino di Rodi (I sec. a.C.). Questo breve opuscolo con un calendario in appendice,
costituisce una trattazione elementare del patrimonio di nozioni astronomiche
dell’epoca. Scegliendo come
punto di partenza lo Zodiaco,
Gemino mostra di essere in-
fluenzato dall’astrologia cal-
dea. Gemino accenna al movi-
mento dei pianeti, che posseg-
gono un moto loro proprio e in-
verso a quello dell’universo e si
sofferma sulle levate e i tra-
monti, distinguendoli in quoti-
diani ed eliaci. L’opuscolo si
conclude con una trattazione
del periodo al termine del quale
Luna e Sole si trovano nella
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stessa posizione iniziale; anche questa parte potrebbe dipendere dai calcoli babilonesi.
Dobbiamo attendere il II secolo d.C. con l’Almagesto di Claudio Tolemeo (100 – 175
d.C.) per arrivare a un vero e proprio trattato istituzionale di astronomia. Il titolo
originale era Collezione matematica, che nel Medioevo divenne grandissima (μεγίστη)
e, tradotta in arabo, Tabrir al magesthi. Nessun altro testo astronomico possiede lo
spessore scientifico e la mole di questo trattato in tredici libri. Scopo dell’opera è quello
di prevedere la posizione di ogni corpo celeste in un dato momento. L’opera, nella
sua complessità, mira anche ad uno scopo didattico. Dopo il proemio, con un richiamo
alla filosofia aristotelica, vengono esposte le tesi principali dell’astronomia dell’an-
tichità: la sfericità del cielo, la centralità e immobilità della Terra. Vengono poi
richiamate le conoscenze geometriche euclidee e integrate con la trigonometria. Nei
libri successivi vengono definiti il movimento del Sole, della Luna, delle stelle fisse e
dei cinque pianeti. La sequenza metodologica dell’autore consiste in sette passaggi: 1)
il punto di partenza cioè i valori numerici delle principali periodicità dei sette astri; 2)
le tavole dei moti medi per tutti i periodi; 3) i modelli geometrico-cinematici di riferi-
mento (teoria degli eccentrici e degli epicicli); 4) la quantificazione dei valori numerici
dei modelli con l’ausilio della trigonometria; 5) i controlli e l’introduzione di eventuali
complicazioni; 6) le tavole di passaggio dai moti medi a quelli reali; 7) le istruzioni per
il calcolo sulla base delle tavole. Tolemeo tiene conto del moto di precessione degli
equinozi e ricorre alle coordinate ellittiche in modo da conferire al suo catalogo un
valore perpetuo, così che gli astronomi futuri
possano calcolare movimenti e posizioni dei
corpi celesti a partire dalle tavole matemati-
che e dalla data in cui vengono fissati, cioè il
138 d.C., inizio del regno di Antonino Pio.
Il catalogo delle stelle procede dalle costella-
zioni Zodiacali, quindi da quelle boreali, fino
alle costellazioni australi. Il capitolo III del
libro VIII è dedicato alla fabbricazione di
una sfera stellare con l’indicazione
dell’eclittica graduata e altre due semicir-
conferenze, anch’esse graduate, in modo da
ricostruire la posizione delle stelle e delle fi-
gure delle costellazioni.
LETTERATURA ASTRONOMICA LATINA
Gli storici della scienza concordano che il
contributo teorico di ascendenza romana
all’astronomia non è significativo, i dati
sull’osservazione del cielo sono in genere
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eterogenei e volti alla elaborazione di tavole a fini funzionali. Non è un caso quindi che
il primo romano ad esporre pubblicamente la teoria (ratio) delle eclissi di Sole e di
Luna sia, nel 166 a.C. un tribuno militare: Sulpicio Galo che ne parla alle truppe per
evitare attacchi di panico superstizioso. Anche una persona dalle doti intellettuali come
Cesare deve ricorrere all’astronomo alessandrino Sosigene per la determinazione del
nuovo calendario da lui istituito. Roma non poteva non essere compresa nel quadro
complessivo delle osservazioni del cielo nell’età imperiale, come ci conferma l’Alma-
gesto, dal quale conosciamo il nome greco di un certo Menelao che risiede a Roma e
funge da corrispondente di Tolemeo per l’Urbe. Quanto detto non significa che non si
possa parlare di una letteratura astronomica in latino. Anzi, a partire dal I secolo
a.C., età che coincide con l’ingresso delle Disciplinae a Roma, tramite il trattato enci-
clopedico di Varrone (116 – 27 a.C.), l’astronomia costituisce un ingrediente indi-
spensabile soprattutto per i testi poetici. Il solo trattato propriamente astronomico in
lingua latina, giunto fino a noi completo, è il De astronomia, in quattro libri, del bi-
bliotecario di Augusto Igino. Esiste una produzione di letteratura astronomica latina in
versi: gli Aratea di Cicerone, di cui è rimasta una buona parte che l’autore stesso ri-
porta nel suo De natura deorum; i Phaenomena di Ovidio (43 a.C. – 18 d.C.): egli
intendeva illustrare le feste religiose e le ricorrenze varie del calendario romano intro-
dotto da Cesare. Si tratta di un'opera di carattere erudito, ispirata al gusto alessandrino;
Ovidio narra aneddoti, favole, episodi della storia di Roma, impartisce nozioni di astro-
nomia, spiega usanze e tradizioni popolari; gli Arati Phaenomena di Germanico (15
a.C. – 19 d.C.), di lui ci restano 725 esametri di una libera versione in latino del I libro
del poema greco sull'astronomia e cinque frammenti di una versione del poema Diose-
meia (I segni del tempo), entrambi di Arato. I fenomeni sono dedicati a Tiberio, chia-
mato imperatore e genitor, padre adottivo, la versione interessa per una certa emozione
che Germanico mostra per i fenomeni celesti e per il suo scetticismo nei confronti dei
culti religiosi che a quei fenomeni si accompagnano. Germanico modella il racconto
del mito di Dike con toni diversi da quelli di Arato. Significativa appare anche la pre-
messa di dedicare l’opera alle “arcane musae”, cioè ai i pianeti. Gli Aratea di Avieno
(IV sec. d.C.), rappresentano la sua opera più importante; essa ha già un valore intrin-
seco, dal momento che è l'unica traduzione latina dell'opera di Arato pervenutaci com-
pleta. Anche Cicerone ne aveva improntata una, ma a noi ne sono giunti soltanto 480
versi. Il poemetto di Arato è considerato alla stregua di trattato astronomico di base
per la conoscenza delle costellazioni. Catullo (84 a.C. – 54 a.C.) con la traduzione
della Chioma di Berenice di Callimaco apre, nella letteratura latina, il genere alessan-
drino dei catasterismi. I Fasti di Ovidio costituiscono un esperimento interessante di
inserimento nel corpus del poema di riferimenti astronomici su levate e tramonti di
stelle con l’aggiunta di miti astrali. La trattazione astronomica compare anche all’in-
terno di molti trattati scientifici ed enciclopedici: i Disciplinarum libri IX di Varrone.
L’opera Astronomica di Manilio si divide in cinque libri; egli parla di simpatia
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cosmica che salda il cosmo nelle sue parti e che unisce l'uomo, la mente umana alla
mente divina che sono l'espressione di un tutto organico; il De re rustica di Columella
(4 – 70 d.C.) che include il calendario astronomico per gli agricoltori; Vitruvio (80 –
15 a.C.) ritiene indispensabili le nozioni di astronomia per un buon architetto nella sua
opera De Architectura; Plinio dedica spazio alle tematiche astronomiche nei libri II e
XVIII della Naturalis Historia e infine Marziano Capella (V-IV sec.) con il libro VIII
del De nuptis Philologiae et Mercurii: l'opera è peculiare per il suo impianto allego-
rico, con l'ascesa al cielo di Filologia accompagnata dalle arti liberali per sposare Mer-
curio, ovvero l'Eloquenza. Lo stesso poemetto degli Aratea di Avieno (IV sec.) può
considerarsi parte di un progetto all’interno del quale troviamo la trattazione della geo-
grafia delle terre (Descriptio orbis terrae) e delle coste (Ora maritima).
A Roma, la classe senatoria aveva conservato per lunghi secoli la gestione del calen-
dario e lo aveva manipolato in funzione politica con vistosi sfalsamenti tra calendario
astronomico e calendario civile. Come emerge dalla corrispondenza di Cicerone, uno
dei più significativi atti di Cesare, e il più duraturo, fu la riforma del calendario, con
l’introduzione del calendario giuliano. Il giovane Ottaviano, per consolidare il pro-
prio ascendente politico, identificò la cometa del 44 a.C. con l’anima di Cesare che
viene divinizzato. I cicli astronomici hanno importanza per la vita quotidiana in virtù
del fatto che l’imperatore, come Giove in cielo, garantisce la pace in Terra. Virgilio
(70 – 19 a.C.), nelle Bucoliche, accenna al “sidus Iulium”, nel proemio delle Georgi-
che immagina a sua volta il catasterismo di Augusto. Anche Germanico nel suo poe-
metto descrive la traslazione in cielo di Augusto nella costellazione del Capricorno. La
scelta di proiettare la Terra sulla volta celeste si trasforma anche nel tentativo di far
scendere il cielo in Terra, come nel caso della Domus Aurea di Nerone, che intende
riprodurre il movimento di rotazione celeste nella sala da banchetto: “la sala principale,
circolare, con moto perpetuo diurno e notturno ruotava vice mundi”. Il palazzo impe-
riale si propone come riproduzione della volta celeste.
GEOGRAFIA
LA GEOGRAFIA GRECA
Le esperienze della colonizzazione greca arcaica (VIII-VI sec. a.C.) e i rapporti econo-
mici e culturali fra i greci e le popolazioni del vicino Oriente e dell’Italia meridionale,
costituiscono i presupposti per la nascita della geografia descrittiva dell’ecumene. Per
primo Ecateo di Mileto (550 a.C. – 476 a.C.) ebbe l’idea di sistemare il complesso di
informazioni nell’ordine dettato dalla contiguità geografica lungo le coste del Mediter-
raneo. Lo schema descrittivo del suo Giro della Terra ricalca in senso orario il litorale
mediterraneo, con inizio e ritorno alle Colonne d’Ercole, popoli, città, fiumi, vengono
menzionati nella loro successione topografica, da cui si evince l’interesse dello storico
per i costumi e le tradizioni mitico-storiche dei luoghi. I marinai greci e fenici avevano
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elaborato da tempo una
carta mentale dei settori
del Mediterraneo orien-
tale e centrale, dove le
condizioni storiche e
geografiche favorirono le
comunicazioni marit-
time. Non è certo se Eca-
teo abbia veramente per-
fezionato il disegno del
primo mappamondo
greco tracciato da Anas-
simandro.
Erodoto (484 a.C. – 425
a.C.), oltre a essere con-
siderato il “padre della
Storia”, ebbe un ruolo di
primo piano anche come
geografo, poiché la sua
ricerca (ιστορίη) non si
rivolge solo ai fatti poli-
tico-militari, ma anche ai
loro quadri geografici ed
etnografici. La separa-
zione tra la geografia e la storia avverrà solo quando Eratostene definirà le basi mate-
matico-astronomiche della geografia. I libri I-IV delle Storie di Erodoto illustrano la
fondazione dell’impero achemenide. Nella prima parte i grandi affreschi etnico-geo-
grafici si susseguono nell’ordine con cui i vari popoli (Lidi, Babilonesi, Egiziani) ven-
gono assoggettati dai Persiani. Da Erodoto si ricavano le prime attestazioni dirette delle
piene estive del Nilo, dei mutamenti geologici, i limiti e la forma dell’ecumene e la
divisione dei continenti. Nel libro IV evidenzia l’importanza della verifica empirica
dell’estensione e della forma delle terre emerse, in contrapposizione alla descrizione
geometrica dell’ecumene come circondato interamente dall’oceano. La circumnaviga-
zione africana dei Fenici e il periplo asiatico di Scilace (VI sec. a.C.) dimostravano che
la terra era bagnata dall’oceano solo sul versante meridionale e, in parte su quelli orien-
tale e occidentale, ma nessuno poteva pronunciarsi sui limiti settentrionali dell’Europa.
La geometria sferica nel IV sec. a.C. presenta un alto grado di elaborazione; si ritiene
che la sfericità terrestre fosse acquisita dal V sec. a.C. (Parmenide di Elea). Il rico-
noscimento della sfericità terrestre esigeva che si spiegasse la collocazione del globo e
la sua reale dimensione. Sembra che Eudosso di Cnido (408 – 355 a.C.) per primo
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abbia stabilito la latitudine di alcune città allo scopo di fissare la loro posizione sulla
carta. Presentando la divisione del globo terrestre in cinque zone (Meteorologia), Ari-
stotele colloca l’ecumene nella zona abitabile dell’emisfero settentrionale. La volontà
di contestare la concezione epica del fiume Oceano, con le sue implicazioni mitico-
cosmologiche, portò Erodoto a negare che il Caspio fosse un golfo del Mare esterno. Il
trattato Gheographiká di Eratostene si apriva con uno sguardo retrospettivo sulle co-
noscenze dei predecessori e in particolare di Omero. Eratostene circoscriveva alla Gre-
cia e al Mediterraneo orientale la geografia del mondo epico. Si deve al calcolo della
circonferenza terrestre e alle sue competenze matematico-astronomiche se Eratostene
viene generalmente considerato il fondatore della geografia scientifica. Dei tre libri
della Gheographiká, purtroppo perduti, possiamo leggerne in Strabone (60 a.C. –
21/24 d.C.). Eratostene sembra preferire l’approccio problematico ad una trattazione
sistematica, le trasformazioni della storia geologica (alluvioni, terremoti) trovano po-
sto accanto alla riflessione sulla geografia omerica. Egli collega la rivoluzione lunare
al fenomeno dell’alternarsi delle correnti nello stretto di Messina. Nel terzo libro
elabora i criteri per il disegno della terra abitata. Consapevole delle conoscenze geo-
grafiche determinate dalle conquiste di Alessandro e dalla navigazione di Pitea (380 –
310 a.C.), Eratostene è un convinto sostenitore della superiorità dei moderni sugli an-
tichi seguito, ma solo in questo, da Polibio (206 – 118 a.C.). Nella costruzione della
carta dell’ecumene di Eratostene, possiamo apprezzare il tentativo di assicurare una
base scientifica ai dati della geografia empirica. Si tratta di una cartografia pre-geode-
tica che presenta, nella rete di intersezioni di meridiani e paralleli, gli stessi condizio-
namenti che caratterizzano le rappresentazioni geografiche di età classica. La cartogra-
fia antica, da Eratostene a Tolemeo, mostra la permanente interazione tra due istanze
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contraddittorie e al tempo stesso complementari. Da un lato l’esigenza di fondare il
disegno dell’ecumene sul maggior numero possibile di dati astronomici e matematici,
dall’altro la necessità di sopperire alla loro scarsezza utilizzando informazioni molte-
plici e discordanti della geografia empirica. In assenza di osservazioni astronomiche,
la latitudine di un sito poteva essere stabilita mediante il calcolo secondo la geometria
della sfera oppure, con molta approssimazione, sulla base di analogie del clima o della
vegetazione. I principi teorici per il calcolo della longitudine erano noti, ma mancavano
gli strumenti necessari. Eratostene sapeva che la carta dell’ecumene esigerebbe la
proiezione convergente della sfera sul piano, ma per comodità adottò la proiezione
ortogonale. La maggiore quantità di dati geometrici disponibili consente di ricostruire
in maniera attendibile la griglia su cui poggia l’ecumene. Eratostene si è avvalso delle
distanze marittime aggiornate da Timostene di Rodi (III sec. a.C.); l’esperienza seco-
lare della navigazione costiera e delle traversate aveva stabilito alcuni allineamenti fra
paesi che si affacciavano sui versanti opposti del mare interno. Su tali elementi, Erato-
stene traccia i due meridiani che attraversano il Mediterraneo: Rodi-Alessandria e
Roma - Cartagine. Tolemeo (100 – 175) dovrà mettere in guardia dal collocare sullo
stesso meridiano i luoghi che nell’esperienza nautica si presentavano come opposti. Le
innovazioni riguardano il settore nord-occidentale dell’Europa, per il quale Eratostene
valorizza il secondo viaggio di Pitea, e soprattutto il disegno dell’Asia, tracciato su un
sistema di figure geometriche che riflettono le distanze fornite dagli storici alessandrini
e dai primi Seleucidi. Sulle orme di Dicearco (350 – 290 a.C.) l’asse longitudinale, che
a partire dalle Colonne d’Ercole attraversa il Mediterraneo, si salda al sistema orogra-
fico dell’Asia, che prolunga la catena del Tauro anatolico fino all’Hindu Kush e
all’Himalaya, passando per l’Armenia. Meridiani e paralleli vengono tracciati a inter-
valli regolari sui due assi principali, la griglia della carta poggia sulle maggiori città
del mondo ellenistico, qui è già operante il principio elaborato secoli dopo da Stra-
bone, secondo il quale le linee tracciate dal cartografo devono toccare luoghi ben noti.
Nel secolo successivo dovettero confrontarsi con Eratostene sia lo scienziato Ipparco
(200 a.C. – 120 a.C.), che lo storico Polibio, uno dei mille nobili achei che nel 166 a.C.
furono inviati quali ostaggi a Roma, a causa della sua neutralità durante la terza guerra
macedonica, ove rimase per diciassette anni. Ipparco sviluppò in una monografia una
critica sistematica alla carta di Eratostene, contestando le esigue basi matematico-astro-
nomiche e i procedimenti empirici approssimativi. Nella seconda redazione delle Sto-
rie, Polibio inserì alcune riflessioni sul rapporto geografia-storia, le prime del genere
della letteratura greca. Anche Polibio è un convinto assertore della superiorità della
geografia moderna rispetto a quella degli antichi. Da ciò deriva l’esortazione a mettere
da parte le tradizioni mitico-epiche greche per valorizzare la dimensione contempora-
nea della “corografia” (descrizione di una zona sulla carta). Per Polibio la geografia,
in quanto parte della storia, ha una finalità pratica nell’attività politico-militare, per
questo egli critica la separazione della terra abitata in una parte settentrionale e una
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meridionale dal parallelo che passa per Rodi come una separazione eseguita a “tavo-
lino” che non tiene conto del contesto storico. L’apporto di Polibio innovatore va cer-
cato nella sua capacità di cogliere la geografia regionale, come mostra la sua celebre
descrizione dell’Italia. Le schematizzazioni come il triangolo dell’Italia e della Cisal-
pina richiamano analoghi procedimenti cartografici.
Strabone ha scritto 43 libri di Commentari storici (perduti) che proseguivano le storie
di Polibio. Ma egli assegna grande importanza alla sua monumentale opera geografica
in 17 libri, la sua descrizione dell’ecumene è dettata dall’andamento canonico del
periplo mediterraneo che parte dal versante iberico delle Colonne d’Ercole per farvi
ritorno sul versante africano. Egli osserva che per raffigurare adeguatamente
l’ecumene occorre una sfera di diametro maggiore di 10 piedi (circa 3 m). In quanto
confini naturali, i fiumi e le montagne
concorrono a segnare, insieme alla
morfologia costiera, le divisioni interne
dell’ecumene. Anche quando alcune
porzioni dell’ecumene non si lasciano
facilmente tradurre in forma geometrica
piana, Strabone si sforza di
caratterizzarne la fisionomia nella stretta
associazione tra lo spazio geografico e la
sua immagine cartografica, che è ormai
parte anche del nostro modo di pensare.
La piena adesione ai motivi ideologici
del nuovo ordine fondato da Augusto si
esprime nella funzione pacificatrice e
civilizzatrice svolta dai Romani nel
mondo. L’interesse di Strabone si
rivolge a quei paesi dell’ecumene in cui gli ordinamenti delle città e dei popoli
assicurano il pieno dispiegamento delle attività umane, o con i quali si intrattengono
facilmente relazioni e commerci. Nei due preamboli dei Prolegomena, dobbiamo a
Strabone la più elaborata riflessione che l’antichità ci abbia lasciato sulla natura della
geografia e sui compiti del geografo. Egli si impegna a teorizzare i fondamenti
matematici, fisici e geometrici della geografia, ponendo però l’accento sulla sua
operatività politico-militare.
LA GEOGRAFIA ROMANA
L’espansione dello Stato romano fece progredire le conoscenze sui popoli e i Paesi
dell’Occidente, tuttavia le esigenze politico-amministrative alimentarono la produ-
zione di testi tecnico-pratici (catasti, agrimensura, carte itinerarie) piuttosto che scien-
tifici (astronomia e cartografia). Il nuovo impulso alla geografia descrittiva negli ultimi
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due secoli della Repubblica e all’inizio del Principato si deve soprattutto ad autori di
formazione e cultura greca (Polibio, Artemidoro, Posidonio, Strabone).
La Porticus Vipsania nel Campo Marzio ospitò una grande carta dell’ecumene, pro-
gettata da Marco Vipsanio Agrippa (63 a.C. – 12 a.C.) e realizzata dopo la sua morte
da Augusto. Lo scopo della realizzazione della carta monumentale è il suo carattere
celebrativo e spettacolare che doveva mostrare il “Mondo” alla “Città” (orbem Urbi
spectandum). Questa simbologia politica, da strumento scientifico diventa uno degli
apparati celebrativi dell’impero e che aprirà la strada al simbolismo della cartografia
cristiana.
Il primo opuscolo di geografia latina che ci è pervenuto è quello di Pomponio Mela
(44 d.C.). si tratta della più antica opera geografica conservata della letteratura latina,
pervenuta nei codici con vari titoli: De Chorographia (descrizione dei luoghi), Cosmo-
graphia (descrizione del mondo) ovvero anche De situ orbis (posizione della terra).
L'opera, come si può già evidenziare dai suoi titoli, intende descrivere il mondo cono-
sciuto. La carta è priva di coordinate geografiche, nel testo manca qualsiasi indicazione
delle distanze relative dei luoghi sulla Terra abitata. L’eliminazione di ogni aspetto
astronomico-matematico sembra riflettere il disinteresse dell’autore. La Terra abitata
descritta da Mela si presenta con una fisionomia squadrata. Delle singole regioni che
si affacciano sul Mediterraneo e sull’Oceano vengono descritte la forma, le caratteri-
stiche fisiche, gli abitanti, i loro usi e costumi, ma la volontà di capire e di spiegare,
che costituiscono il pregio dell’etnografia e dell’antropologia ellenistica, lasciano il
posto a un elenco di usi e costumi insoliti agli occhi dell’autore. Pomponio Mela è uno
dei più antichi scrittori che parla dell'antica Cina.
L’inclinazione all’inventario caratterizza anche l’ampia sezione di geografia descrit-
tiva nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Grazie all’esperienza militare e am-
ministrativa acquisita al servi-
zio dell’imperatore Vespa-
siano (9 – 79), emerge ripetu-
tamente nella geografia pli-
niana un’attenzione per l’at-
tualità assente nell’opuscolo
di Mela. Inoltre Plinio è molto
accurato nell’indicare luoghi,
distanze e le fonti utilizzate
che vengono, fatto unico nella
letteratura antica, elencate nel
sommario generale che oc-
cupa l’intero libro I. Nella
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sezione dedicata ai quadranti solari e ai dati gnomonici non viene presa in considera-
zione la loro applicazione cartografica. È curioso l’accostamento dei profili geografici
delle varie regioni a elementi naturali (il Peloponneso a una foglia di platano, il Ponto
a un arco scitico, il Golfo Persico al profilo di una testa umana, l’Italia a una foglia di
quercia). Il contributo originale dato da Plinio alla geografia descrittiva sta nell’inte-
resse che rivolge all’organizzazione amministrativa dell’impero. Nella caratterizza-
zione delle regioni interne o esterne all’impero, Plinio indica la loro estensione misu-
rando latitudo e longitudo che niente hanno a che vedere con il significato moderno
che diamo a questi termini, ma indicano solo due distanze itinerarie stimate di cui la
prima è maggiore della seconda. Vengono considerati anche i mutamenti della geogra-
fia fisica, ad esempio la differenza fra l’originaria collocazione della linea costiera
della città di Carace alle foci del Tigri e l’avanzamento alluvionale della costa docu-
mentato da ambasciatori arabi e da mercanti. Egli preferisce attingere agli autori che
hanno esperienza diretta dei luoghi, i racconti dei negotiatores o le relazioni ufficiali
delle campagne militari.
Le spedizioni romane in Africa e i rapporti commerciali con l’Estremo Oriente hanno
ampliato le conoscenze geografiche e hanno condotto ad aggiornare l’estensione
dell’ecumene al di là dell’equatore fino al paese della seta. Questo compito venne as-
solto tra il 107 e il 114/115 d.C. da Marino di Tiro. Tutto ciò che sappiamo su
quest’opera di revisione cartografica deriva dalla critica rivolta da Tolemeo. Per rea-
lizzare le sue carte Marino aveva usato una semplice proiezione cilindrica equidi-
stante, nella quale meridiani e paralleli sono rappresentati con segmenti che formano
un reticolo quadrato. Questa scelta sarà considerata accettabile da Tolomeo solo per le
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carte regionali e non per la carta generale del mondo abitato. L’ecumene di Marino si
estende per 225° ad est del meridiano delle Isole Fortunate (le Canarie), mentre la mas-
sima estensione in latitudine è compresa fra il parallelo di Tule (63° N) e quello a 24°
S. Nella sua Guida al disegno della terra, Tolemeo fornisce le coordinate geografi-
che alle città e ai luoghi di tutta la Terra abitata. Riduce l’estensione dell’ecumene a
16° S e la sua massima longitudine a 177°). Anche Tolemeo adotta la misura minima
della circonferenza terrestre a 180.000 stadi assegnata da Posidonio (135 – 50 a.C.),
dove un grado di meridiano corrisponde a 500 stadi. La concezione insulare del mondo
abitato lascia il posto alla continuità delle masse continentali che si prolungano a
nord, est e sud nelle terrae incognitae. Il modello matematico per il disegno della carta
raggiunge un livello di elaborazione mai raggiunto. Nel libro VIII, sulla base di un
diverso procedimento matematico vengono delineate le 26 carte regionali. Per la
prima volta troviamo in Tolemeo la chiara distinzione fra carte geografiche e carte
corografiche. Non si tratta solo di una differenza di scala. Nella carta corografica do-
minano infatti gli aspetti qualitativi, in quella geografica i rapporti quantitativi.
BOTANICA
La botanica, come tutte le scienze naturali, si afferma come tale in seguito alle conqui-
ste di Alessandro Magno. Stimolata dalla raccolta e dalla diffusione e conoscenza delle
piante esotiche, la disciplina ebbe come suo più alto cultore nell’antichità il discepolo
di Aristotele: Teofrasto (371 – 287 a.C.). Egli organizzò sistematicamente le cono-
scenze botaniche in due trattati: Historia plantarum in dieci libri, De causis plantarum
in otto libri. L’Historia ha una organizzazione precisa, i problemi di carattere generale
sono illustrati nei libri I e II, quelli relativi alle singole piante nei libri II (piante dome-
stiche), III (piante selvatiche), VI (cespugli), VII (erbe, leguminose), VIII (cereali). I
libri IV – VI parlano del legno e della sua lavorazione. Il De causis plantarum è orga-
nizzato secondo le cause prime dello sviluppo delle piante: il I libro tratta delle diverse
specie e della germinazione annuale; il II dell’influsso dell’ambiente, i frutti e i semi;
il III tratta delle coltivazioni e della viticoltura; il IV considerazioni singole sui semi;
il V delle trasformazioni e malattie delle piante; il VI tratta delle resine, delle linfe e
degli umori.
L’impiego di piante a scopi terapeutici è attestato nei Theriaka e nei Alexipharmaca
di Nicandro (II sec. a.C.), e nel Rhizostomicon del medico di Mitridate Krateus (I
sec. a.C.) citato da Aulo Cornelio Celso che ne descrive la ricetta detta Mitridaticum.
Troviamo materiale botanico nel De materia medica di Pediano Dioscoride (I sec. a.
C.), nel quale è redatta una lista alfabetica di nomi di piante, in greco e in arabo, per-
siano e turco. L’apporto della cultura araba alla botanica è testimoniato dal Lexicon
ton Sarakenon dove sono messi a confronto nomi di piante arabi e greco-bizantini.
Nozioni botaniche sono contenute nei libri IV-XII dei Geoponica di Cassiano Basso
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(VI secolo d.C.), che ha subito l'influenza delle varie
compilazioni sull'agricoltura del mondo romano, in
particolare del lavoro di un altro compilatore "agri-
colo", Vindanio Anatolio (IV sec. a.C.). L’opuscolo
Perì trofon dynameon di Simeone Seth (1035 – 1110)
contiene un raggruppamento di 228 piante ed animali.
Nel XII secolo si segnalano le quattro composizioni
botaniche su grano, vite e melograno di Manuele File
(1275 – 1345). Sempre nel XII secolo Massimo Pla-
nude traduce in greco la versione in arabo e in latino
dello scritto pseudo-aristotelico Perì phyton di Nico-
lao Damasceno (I sec. a. C.).
A Roma il primo autore di botanica di cui abbiamo no-
tizia è Emilio Macro (43 – 16 a.C.), autore del poema
didascalico De herbis; per quanto concerne il poema sugli uccelli, è attestato il titolo
Ornithogonia, mentre un Theriaca, in due libri, era dedicato ai serpenti ed alle erbe
medicamentose ricordati da Ovidio: se ne può avere un'idea in base ad una sezione
della Pharsalia di Lucano (39-65). Infatti, all'interno del nono libro del poema, la parte
che tratta dei serpenti velenosi di Libia è indicata dai commenti antichi come influen-
zata proprio da Macro. Teofrasto sembra essere la fonte di Vitruvio nel De architec-
tura dove passa in rassegna diverse specie di piante utili per la falegnameria. Plinio,
nella sua Naturalis historia, offre una grande quantità di materiale botanico, esotico o
proveniente dall’agricoltura, in allestimento di ricettari medici. L’organizzazione ri-
calca l’opera di Teofrasto. Possiamo enucleare varie forme classificatorie delle piante
(per situs, per foglie, per distinzione tra alberi selvatici e “civili”). Notizie botaniche
assieme a quelle mediche fanno parte del trattato De hortis di Gargilio Marziale (III
secolo); della sua opera dedicata alla coltivazione di alberi e vegetali e alle loro pro-
prietà medicamentose, sono conservati ampi estratti nella Medicina Plinii (un anonimo
manuale di ricette mediche, basato sulla Naturalis Historia di Plinio, probabilmente
redatto nel IV secolo). Al tardo-antico possiamo datare il De herba vettonica liber
dello Pseudo-Antonio Musa (IV sec.) dedicata a M. Vipsanio Agrippa, l’Herbarius
dello Pseudo-Apuleio (IV sec.). La tradizione botanica pliniana e quella tardo-antica
confluiscono negli Herbarii medievali, la cui trattazione verte sulle piante medicinali.
MEDICINA
MEDICINA PREIPPOCRATICA
Durante la sua permanenza terrena, Asclepio ha una prole numerosa, guarisce ogni
malattia, Igea (forse la moglie) è incaricata della sanità pubblica e della nutrizione dei
serpenti sacri. I suoi figli: Telesforo, raffigurato come un bambino, protettore dei
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convalescenti, Podalirio medico militare e psichiatra, Macaone chirurgo che cade sul
campo.
La distinzione tra chirurgo e medico risale ad Arctino di Mileto (VIII secolo a.C.).
Egli dice che Asclepio aveva dato a Macaone mani abili, a Podalirio di portare guari-
gione. È in quest’epoca che cominciano ad essere eretti templi in onore di Asclepio
(asclepiei) e inizia a diffondersi la tradizione dei serpenti che, come rappresentanti di
forze ctonie, avevano avuto grande importanza nella medicina magica. I più celebri
sono quelli di Epidauro, di Cnido, di Coo, di Pergamo, di Atene e di Cirene. I malati
sono ammessi nell’abaton, un portico aperto, durante una cerimonia propiziatoria dove
vengono fatti sdraiare su pelli di montone. La cura consiste in una cosiddetta “incuba-
zione” fondata sul sonno, durante il quale i sacerdoti si aggirano tra i malati, seguiti
dai serpenti che leccano le loro piaghe. Alla fine della terapia, i malati dedicano al dio
il cosiddetto “anatema”, una tavola d’oro, d’argento o di marmo con la raffigurazione
della parte guarita, oppure gettano delle monete in una fontana sacra.
Aristofane (V-IV sec. a.C.) si sofferma divertito su queste pratiche, nella commedia
Pluto. I medici assumono prestigio dal VI secolo. Per poter esercitare, gli asclepiadi
chiedono autorizzazione a un’assemblea che la rilascia dopo valutazione della serietà
della scuola da essi frequentata. Essi possono pertanto avere un proprio ambulatorio,
detto iatreion spesso sono aiutati dal rizotomo, preparatore di radici essiccate al sole e
dagli erboristi. Di minor stima godevano i medici ambulanti, i periodeuti. Prima che
sorgessero le scuole, la professione medica si trasmetteva da padre a figlio. Le basi
della medicina scientifica furono gettate dalla scuola filosofica che Aristotele chiama
italica (Magna Grecia).
Filistione di Locri (VI sec. a.C.) è considerato il maggior esponente della scuola italica
pre-ippocratica. Egli dà risalto ai quattro elementi della cosmologia di Empedocle di
Agrigento (V sec. a.C.): secco della terra, umido dell’acqua, freddo dell’aria, caldo del
fuoco. Lo stato di salute coincide con l’equilibrio di
questi elementi, la malattia insorge dal loro squili-
brio. Ogni malattia va curata con il suo contrario
(contraria contrariis curantur), avversata dalla
scuola ippocratica ma successivamente rielaborata
attraverso la “Teoria dei quattro umori”. In questo
schema l’umidità è posseduta dal sangue, il freddo
dal flegma, il caldo dalla bile gialla, il secco dalla
bile nera. A Filistione è verosimilmente da ricon-
durre Il breve trattato Sul cuore, opera anonima in-
serita nel Corpus Hippocraticum.
20
IPPOCRATE (460 – 367 A.C.)
Nell’isola di Cos, nel Dodecaneso, nel periodo aureo dell’antica Grecia, il medico non
interroga più gli astri, non pronuncia formule rituali, ma studia l’uomo e la sua soffe-
renza. Alla civiltà greca va ascritto il merito di aver compiuto il primo tentativo, con
Ippocrate, di studiare i fenomeni mentali abnormi su un piano medico-scientifico. Egli
rivendica la natura fisica dei disturbi mentali e dà alla psicologia basi anatomico-fisio-
logiche. La cultura antropologica e la τέχνη di Ippocrate sono legate all’ambiente na-
turale, geomarino e climatico, ma i presupposti culturali del Corpus Hippocraticum,
che risale ai secoli VI-V a.C., vanno ricercati nell’eredità scientifica derivata in parte
dai sacerdoti di Asclepio. Talete, Anassimandro, Anassimene furono gli scienziati
che, per primi, indagarono sui principi, ἀρχή, della natura, assieme ad Empedocle di
Agrigento. Occorre citare anche Alcmeone di Crotone (VI-V sec.a.C.), fondamentale
per la scienza fisiologica e Democrito (460-370 a.C.), studioso di dietetica, igiene,
fisiologia. Nella nuova scienza di Ippocrate si fondono un nuovo metodo scientifico di
indagine, nozioni anatomo-fisiologiche e terapeutiche. L’equilibrio somatico è ele-
mento fondamentale dello stato di salute, è isonomia, equilibrio degli elementi, insi-
diato dalla monarchia o prevalenza di un solo elemento sugli altri. Il Giuramento ha
tono sacrale e allude all’arte medica, nel Libro dell’arte è scritto:
per quanto riguarda l’arte della medicina (…) credo che lo scopo di essa sia allontanare le sofferenze del malato oppure
alleviare queste sofferenze: la medicina è davvero potente se si dimostra che anche quelli che a quest’arte non credono,
possono da essa venire salvati.
Secondo Ippocrate il corpo umano ha i mezzi per guarire. Nel Libro Delle Epidemie si
legge: “la natura è il vero medico delle malattie”.
Empedocle riteneva il mondo formato da quattro elementi primordiali. La sua filosofia
è un tentativo di combinazione delle precedenti dottrine ioniche, pitagoriche, eracli-
tee e parmenidee. Da quest'ultime accoglie la tesi dell'immutabilità e dell'eternità
dell'Essere ovvero che nulla nasce e nulla muore. Dalle altre accetta l'idea del divenire,
del continuo e incessante mutamento delle cose. Empedocle – e come lui anche gli
altri fisici pluralisti – cerca di risolvere questa contraddizione distinguendo la realtà
che ci circonda, mutevole, dagli
elementi primi, immutabili, che la
compongono. Empedocle chiama
tali elementi radici, non nate ed
eternamente uguali e afferma che
sono in tutto quattro, associando
ognuno di essi a un partico-
lare dio della mitologia greca,
sulla base di concezioni orfi-
che e misteriche proprie dei riti
iniziatici allora in uso presso la Si-
cilia orientale. I quattro elementi
sono: fuoco (Zeus); aria (Era);
terra (Ade); acqua (Nesti).
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SCUOLA DI ALESSANDRIA
Ad Alessandria, sede ideale dell’irradiamento del patrimonio culturale e scientifico, il
seme sparso per il mondo dalla scuola medica di Cos dà i suoi frutti soprattutto in due
campi trascurati dagli ippocratici, cioè l’anatomia e la fisiologia. Con Erofilo e Era-
sistrato (III secolo a.C.) vengono studiati anche i vasi sanguigni. Erofilo si dedica allo
studio del cervello e per primo ne indica il centro del pensiero. Distingue i nervi sensori
da quelli motori. Nella scatola cranica osserva le meningi. La medicina moderna usa
ancora due termini coniati da Erofilo: prostata e duodeno. Erofilo afferma la superio-
rità, in medicina, dell’esperienza sulla teoria, si occupa di terapia e dà importanza alla
dieta e alla ginnastica. Queste grandi conquiste della conoscenza medica sono ottenute
da Erofilo perché più cinico degli altri anatomisti, non tiene conto del culto dei defunti
e, come afferma Galeno (129 – 201), è il primo a praticare dissezioni del corpo umano.
Nel De medicina, Celso (25 a.C. – 45 d.C.) sostiene che Erofilo e Erasistrato prati-
carono la dissezione su carcerati vivi, che si facevano consegnare su autorizzazione del
re. Erasistrato compì molti studi sulla circolazione del sangue e descrisse le valvole
cardiache. Forse Erasistrato anticipò il concetto di metabolismo. I suoi scritti più ce-
lebri riguardano lo studio delle febbri. Può essere considerato il fondatore della fisio-
logia. Ebbe numerosi allievi, tra cui Teofrasto. La scuola di Erasistrato si mantenne a
Roma, dopo la decadenza della scuola alessandrina, fino al II secolo d.C.
SCUOLA DOGMATICA
Le fonti principali di questa setta sono Celso e Galeno. Ciò che caratterizza i dogmatici
o razionali è il valore attribuito al ragionamento come ricerca di cause universali. È
importante evidenziare il contrasto ideologico-dottrinario con gli empirici. La scuola
dogmatica crede in due tipi di cause: causae occultae e causae evidentes. La radice
della malattia è nelle “cause nascoste” che celano il male, le “cause manifeste” invece,
lo evidenziano. Queste ultime sono quelle che colpiscono i sensi, caldo, freddo, stan-
chezza; ma alle cause vere, quelle “nascoste” si può giungere soltanto attraverso il
dogma. Alla scuola dogmatica appartengono Diocle di Caristo (375- 295 a.C.) e Pras-
sagora di Coo (fine IV sec. a.C.).
SCUOLA EMPIRICA
Fonti fondamentali per la setta empirica sono Plinio e Galeno. Rifiutando la vivise-
zione in ogni suo aspetto Celso ne afferma la totale inutilità. Non è ben noto dalle fonti
antiche chi sia il vero fondatore della scuola empirica, se Filino di Cos (III sec. a.C.)
o Serapione di Alessandria (III – II sec. a.C.). I principi teorici fondamentali di questa
scuola presuppongono che è conoscibile solo ciò che pertiene al mondo dell’espe-
rienza; ciò che trascende l’esperienza dei sensi è inconoscibile. L’esperienza si fonda
sul celebre tripode: esperienza diretta, esperienza indiretta, passaggio da simile a si-
mile, cioè “analogia”. Al “tripode” è legata direttamente l’individuazione della
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patologia. Si attribuisce grande importanza a: diagnosi, terapia, cura e prognosi. La
terapia è fondata sui medicamenti. A questa scuola appartengono Sesto Empirico
(160 – 210 d.C.) e Marcello Empirico (IV – V sec. d.C.).
MEDICINA ROMANA E GRECA DI PRIMA ETÀ IMPERIALE
A Roma, la classe medica è rappresentata, almeno fino all’età di Alessandro Severo
(III secolo), da stranieri greci appartenenti ai ceti inferiori dei liberti o degli schiavi.
L’attestazione molto antica del termine medicus e le disposizioni della prima legisla-
zione scritta dei Romani (La legge delle XII tavole del V secolo a.C.) e della Lex Aqui-
lia (III secolo a.C.) prevedevano pene severe per il medico che, per negligenza, avesse
causato la morte del paziente. A Roma la lotta contro le malattie esercitava un ruolo
sociale molto importante, così come importante era la cura dell’igiene. Un breve qua-
dro dell’introduzione della medicina a Roma è fornito da Plinio il Vecchio nella sua
Naturalis historia. La medicina romana, specie quella del I secolo d.C., potrebbe
essere definita medicina greca in lingua latina. L’avvento della medicina greca a Roma
era avvenuto seicento anni dopo la fondazione della città, intorno al 219 a.C. con Ar-
cagato. La presenza di lingue tecniche come quella medica, colorita di volgarismi spe-
cifici, ci fornisce un esempio concreto di una cultura che non è solo greca o latina, ma
spesso greco-latina. Lo studio del linguaggio medico costituisce un punto di vista pri-
vilegiato per lo studio della lingua latina. Esempio paradigmatico è la lingua di Scri-
bonio Largo (44 a.C.), autore in età giulio-claudia del primo manuale farmacologico-
medico in latino che avrà influssi sulla letteratura medica fino a Galeno. Nella medi-
cina del I secolo d.C. a Roma il problema delle sètte mediche è rilevante. Sulla scuola
metodica le testimonianze più significative sono quelle di Celso, di Galeno e di So-
rano di Efeso. Questa setta viene accostata all’atomismo antico.
SCUOLA METODICA
Asclepiade di Prusa (130 – 40 a.C.) pare abbia posto le basi della scuola metodica.
Egli avversa la concezione umorale di Ippocrate e sostiene che sia necessario combat-
tere le malattie senza fidarsi dell’azione incerta della natura e afferma la dottrina ato-
mistica di Democrito e di Erasistrato. Divide per primo le malattie in acute e croni-
che, descrive per primo l’idropisia, il tetano, la malaria. È un chirurgo abilissimo ed è
il primo medico greco a praticare la medicina con concetti razionali e scientifici. È
Temisone di Laodicea (I sec. a.C.) che ne ha codificato il metodo. Terzo rappresen-
tante della scuola è Tessalo (V – IV sec. a.C.). I metodici non si curano dell’eziologia.
Essi mettono in dubbio i metodi basilari della dottrina ippocratica, come l’osservazione
clinica e la teoria degli umori. Salute e malattia dipendono dalle interrelazioni tra atomi
e pori, esse sono conseguenza della “strettezza” o “larghezza” dei pori. Le terapie si
riducono pertanto alla somministrazione di astringenti o rilassanti. Terzo metodo è la
profilassi utilizzata per eliminare veleni o vermi. I metodici nella pratica terapeutica
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sono più concreti degli empirici. Concetto importante della scuola metodica è quello
di “comunità” che indica la negazione del rapporto tra causa e cura, in favore dell’os-
servazione degli elementi “comuni”.
SCUOLA PNEUMATICA
La scuola pneumatica fu fondata da Ateneo di Attalea (I sec. d.C.). Questa scuola
introduce lo pneuma. La salute consiste nell’equilibrio tra lo pneuma e le sue quattro
qualità: umido, secco, freddo, caldo. Solo l’unione caldo-umido è positiva, tutte le altre
combinazioni producono la malattia. Lo pneuma è la forza vivificante, è alimentato
dall’aria che si respira, è introdotto nel corpo attraverso la respirazione; raffredda il
calore, si distribuisce uniformemente per mezzo delle arterie e fuoriesce attraverso i
pori. Lo squilibrio dello pneuma dà luogo alla malattia. Per quanto riguarda la terapeu-
tica, la scuola pneumatica si rifà ai rimedi blandi della scuola metodica. Con il nome
di scuola episintetica si intende il sistema dottrinale col quale gli antichi medici cer-
cavano di conciliare la terapia scientifica con quella empirica.
SCRIBONIO E CELSO
Quintiliano (35 – 96) attesta che Aulo Cornelio Celso (25 – 45 d.C.) seguì l’indirizzo
etico dei Sestii (scuola filosofica, fondata a Roma intorno al 40 a.C. da Quinto Sestio
e continuata dal figlio, il medico Sestio Nigro, attiva fino all'anno 19 d.C.), quando fu
chiusa a seguito del decreto dell'imperatore Tiberio che proibiva i riti stranieri. Essa fu
forse l'unica scuola filosofica ispirata alla concezione tipicamente romana di valoriz-
zare la pratica dell'esercizio concreto delle virtù piuttosto che la speculazione teorica.
È incerto se Celso sia medico, Plinio lo cita spesso tra le sue fonti tra gli auctores
interni. È autore delle Artes o De Artibus, un’ ampia raccolta enciclopedica; sono con-
servati gli otto libri delle sezioni dedicate alla medicina, di valore fondamentale per la
conoscenza della medicina antica romana. Il De medicina di Celso si differenzia da
qualsiasi altra opera latina dello stesso genere per qualità e completezza della scienza:
dietetica, igiene, semeiotica, patologia, terapia, medicina preventiva, oculistica, odon-
toiatria, urologia, ostetricia, psichiatria, traumatologia, chirurgia. Per Celso, il medico
deve possedere doti umane e morali. Nel proemio Celso propone una storia dell’arte
medica dalla guerra di Troia fino ad Asclepiade di Prusa. Negli altri libri egli passa in
rassegna la semeiotica secondo Ippocrate e la patologia, quindi passa alla descrizione
di varie malattie e poi ai medicamenti e all’analisi del trattamento delle ferite, il libro
7 parla della chirurgia generale e il libro 8 della chirurgia delle ossa. L’opera di Celso
rimane una fonte essenziale per la storia della medicina dopo Ippocrate. La presenza in
Celso di elementi del parlato e di termini tecnici riconduce la sua opera nell’alveo co-
mune delle lingue dei mestieri che presentano caratteristiche importanti per lo studio
della lingua latina, tecnicismi, grecismi e frequenti neologismi. Ignorato a lungo nel
Medioevo, il De Medicina fu riscoperto da Guarino Veronese nel 1426.
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L’affermazione dell’unità della medicina, identica in Celso e in Scribonio, è fondata su
un ideale enciclopedico del sapere ereditato da Alessandria ma tipicamente romano.
Dopo il I secolo d.C. si ha una maggiore tendenza alla specializzazione.
La preparazione istituzionale di Scribonio Largo (43-44 d.C.) è fatta risalire al tempo
dell’imperatore Tiberio. La fortuna di Scribonio si può documentare in età tardoantica
e medievale soprattutto in un genere di letteratura medica: i ricettari. Come emerge
dalle Compositiones e da tutta la trattatistica contemporanea a Scribonio, le sostanze
per la preparazione dei medicamenti provenivano da regioni lontane dell’impero, di
difficile reperibilità e conservazione, quindi costosissime, al punto che nella pratica
medica si usavano alternative meno efficaci. Le Compositiones sono articolate in due
blocchi nella sequenza a capite ad calcem che si pone come modello per la letteratura
medica successiva. Delle ricette è spesso citato l’autore, alcuni sono composti inventati
da Scribonio stesso. Egli desume le sue ricette non solo da medici di fama, ma anche
da non medici, purché siano di sicuro effetto. Cita continuamente guarigioni di perso-
naggi noti. La concezione morale dell’Ars medica è un’esaltazione della medicina e
una difesa della dignità professionale. Ben più di quello di Celso, il latino di Scribonio
presenta caratteri importanti, latino-greci e volgari, e offre un punto di osservazione
privilegiato per lo studio della lingua latina. Con il richiamo della tradizione ippocra-
tica e di Erofilo emergono punti di contatto con la grande scuola medica di Alessandria.
Nell'opera sono citate 249 sostanze vegetali, 45 minerali e 36 animali, tutte provenienti
dal bacino del Mediterraneo, dal Vicino Oriente o dall'Africa. Spesso i rimedi vegetali
consigliati da Scribonio avevano realmente un effetto terapeutico: si ricorda l'analge-
sico per l'angina della madre dell'imperatore Claudio. L'opera godette di enorme suc-
cesso per tutta l'età imperiale e tardo-imperiale, tanto che la maggior parte delle ricette
fu ripresa, nel V secolo d.C., da Marcello Empirico, che la utilizzò per redigere la sua
opera De medicamentis empiricis, physicis, et rationabilibus di grande valore per la
comprensione del testo di Scribonio Largo.
PLINIO IL VECCHIO
Plinio (23 - 79) è il massimo erudito romano del secolo. Egli ebbe importanti incarichi
militari e civili. L’edizione pervenutaci della Naturalis historia in 37 libri curati dal
nipote Plinio il Giovane, si apre con l’Epistula di Praefatio, seguono gli indici generali,
quindi i libri di argomento cosmografico (II), geografico ed etnografico (III-VI), an-
tropologico e fisiologico (VII), la zoologia (VIII-XI), la botanica (XII-XIX), la medi-
cina (XX-XXXII), la mineralogia, lavorazione dei metalli e delle pietre (XXXIII-
XXXVIII). Nell’opera compare la polemica di Plinio contro la medicina, della quale
condanna i guadagni leciti e illeciti. Plinio dichiara le fonti a cui attinge: gli Auctorum
indices. L’opera, considerata come la più ampia enciclopedia dell’antichità, è un docu-
mento insostituibile della civiltà e della scienza antiche. Va messo in rilievo il grande
numero di neologismi e tutte le possibilità descrittive della lingua latina da Plinio
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valorizzate, che fanno della Naturalis historia una fonte per la storia della lingua e
dello sforzo fatto dai traduttori latini, da Lucrezio ai traduttori di Oribasio per impa-
dronirsi delle forme del pensiero scientifico greco e per dare espressione a tutte le espe-
rienze scientifiche del mondo romano.
IGIENE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA A ROMA
La medicina scientifica è nata a Roma con l’arrivo di Asclepiade di Prusa (129 – 40
a.C.), ma l’Europa deve a Roma l’organizzazione delle pratiche igieniche e la diffu-
sione dell’organizzazione sanitaria (terme, acquedotti, vigilanza su fogne e canali,
smistamento e controllo dell’annona, sepoltura o cremazione dei defunti). L’organiz-
zazione comprendeva i medici valetudinari, riservati a schiavi, atleti e gladiatori, il
medico degli schiavi aveva il titolo di medicus commensalis, il medico dei gladiatori
era il vulnerarius, il medico di alta categoria era l’archiatra. C’erano i medici per i
meno abbienti, i medici populares che curavano i malati gratuitamente. Gli strumenti
chirurgici, ritrovati in scavi archeologici, erano simili a quelli odierni: forcipi, scalpelli,
uncini, sonde, ventose, tenaglie, ferri a “V”).
DIOSCORIDE
Pedanio Dioscoride (40 - 90) ha posto le fondamenta della farmacologia antica e
moderna e rappresenta fino al Rinascimento, per 1400 anni, la Bibbia della farmacolo-
gia e farmacognosia. Dioscoride raccoglie il materiale per i suoi scritti attraversando
l’Europa al seguito delle legioni romane. Il suo nome è legato all’opera De materia
medica. In Dioscoride abbiamo una tripartizione delle cure, tratta dai tre regni della
natura e accostano Dioscoride a Plinio. Nel primo libro egli tratta delle spezie, degli
oli, degli unguenti e profumi, degli alberi e dei prodotti da essa derivati; nel secondo
libro tratta dei rimedi ricavati
dagli animali (miele, latte,
grasso); nel terzo e quarto libro
tratta dei rimedi derivati dalle
erbe e dalle radici, nel quinto
delle varie specie di vino, delle
bevande e dei minerali. L’au-
tore riunisce i vari medica-
menti a seconda del loro uso e
delle sue caratteristiche orga-
nolettiche, ad esempio rag-
gruppando i farmaci astrin-
genti, quelli diuretici e così
via. Altre opere attribuite a Pagine con cumino e aneto della versione araba del
Dioscoride sono i due libri Sui 1334 del De materia medica, British Museum.
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veleni e i due Sui medicamenti semplici. Su Dioscoride si basa il secondo libro del
canone della Medicina di Avicenna.
MEDIO E TARDO IMPERO ROMANO
La medicina, nel tardo impero romano, tra II e V secolo d.C. è caratterizzata dalla ri-
nuncia alla ricerca scientifica originale e alla produzione e diffusione di traduzioni di
opere compendiarie, ricettari e manuali in cui viene organizzata la produzione scienti-
fica e letteraria precedente. Talvolta l’autore di compendi cerca di ampliare il lavoro
dei predecessori o si propone intenti divulgativi. Questa crisi di originalità scientifica
è specchio della crisi economica e culturale dell’impero. In campo religioso si registra
la diffusione di correnti filosofiche e misteriosofiche e, in una ricerca di valori univer-
sali, si va affermando il cristianesimo. Da Alessandro Severo (208-235) in poi, si dif-
fondono le scuole mediche pubbliche. In questo periodo troviamo opere di raccolta:
la Medicina Plinii e la Physica Plinii; Il De medicamentis liber di Marcello Empirico,
in cui confluiscono opere di Scribonio, Plinio, Pseudo-Apuleio; Celio Aureliano (V
sec.) con le Celeres sive acutae passiones, le Tardae sive chronicae passiones e la
Genetia, si tratta della traduzione latina, con poche aggiunte, della Ginecologia di So-
rano di Efeso (II sec.) e così pure il libro De morbis acutis et chronicis si attiene
pedestremente a quello del medesimo autore che porta lo stesso titolo. Ciò nondimeno
l'opera di Celio è importante perché in essa sono raccolte e conservate le dottrine della
celebre scuola medica dei metodici derivante dalla scuola filosofica degli epicurei. Con
Aureliano si ha, per la prima volta, una descrizione sistematica delle patologie, con
«enfasi alla problematica della diagnostica differenziale». Aureliano si interessò anche
di malattie mentali; propose di abbandonare le cure coercitive in voga alla sua epoca e
sostenne l'idroterapia. È il primo autore a citare l'angina pectoris; dobbiamo citare in-
fine Cassio Iatrosofista con le Quaestiones medicae et problemata physica di cui ci
sono pervenuti solo frammenti e Adamanzio (V sec.) con il trattato De ventis e Phy-
siognomica.
GALENO (129 – 200)
Galeno stesso ci fornisce ampie notizie su se stesso e sulla sua opera nel De libris
propriis. Nasce a Pergamo nel 129 d.C., figlio dell’architetto Nicone, che lo indirizza
negli studi, prima filosofici alle scuole platoniche e aristoteliche, poi alle scuole dog-
matica, empirica e pneumatica di medicina a Pergamo e a Smirne dove Galeno si de-
dica a ricerche anatomiche, quindi ad Alessandria dove approfondisce studi di anato-
mia e farmacologia. Nel 162 si reca a Roma dove acquisisce grande fama presso gli
aristocratici. Nel 166, a causa di una grave epidemia scoppiata in Italia, torna a Per-
gamo, viene poi richiamato da Marco Aurelio a Roma nel 169. Rimane a corte di
Marco Aurelio e del suo successore, Lucio Vero fino alla morte, nel 200. La produzione
scientifica di Galeno è molto ampia e diversificata (gli sono attribuite non meno di
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quattrocento opere). Egli ha fama di essere, dopo Ippocrate, il più insigne medico
dell’antichità. Molti suoi libri furono distrutti dall’incendio del Tempio della Pace nel
169. Le sue opere sono suddivise, da Galeno stesso, in sette gruppi: anatomia, pato-
logia, terapeutica, diagnostica e prognostica, commentari al Corpus Hippocrati-
cum, filosofia e grammatica-filologia. Oltre cento scritti sono giunti fino a noi, per la
maggior parte in greco, alcuni in traduzioni latine o arabe. Fanno parte del Corpus
Galenicum in lingua latina il De empirica subfiguratione, il De Hippocratis scriptis
genuinis, il De experentia medica. Tra le opere più importanti in greco sono la
Θεραπευτικέή μέθοδος e la Τεχνη ίατριϰή, nota come Microtechne, in cui è conden-
sato tutto il sistema di Galeno che ha rappresentato per secoli il testo fondamentale
dell’insegnamento medico. Gli elementi fondamentali del corpus di Galeno sono i prin-
cipi di Ippocrate, della filosofia di Platone, dell’aristotelismo di Posidonio di Rodi (135
– 50 a.C.), oltre ai fondamenti delle scuole mediche. Quella di Galeno è una nuova
filosofia della scienza, un nuovo metodo: la ricerca ha fondamenti dottrinali, ma si
fonda sull’esperienza. I meriti di Galeno nel campo dell’anatomia sono importantis-
simi, avendo egli ripetutamente studiato tecniche di preparazione anatomica e le ossa
di animali per poi applicare queste conoscenze all’uomo. Egli è il primo a descrivere i
nervi cerebrali e i nervi motori e sensori. Le nozioni sulla circolazione del sangue
sono imperfette, ma dobbiamo a lui la descrizione dei vasi sanguigni, della struttura
tissutale delle pareti di vene e arterie. I meriti più importanti su cui si fonda la fama di
Galeno sono la sua intuizione dell’orientamento sperimentale e analitico della medi-
cina, le sue doti di osservatore e di critico. Raccoglie sistematicamente tutto ciò che si
conosce sulla scienza medica, afferma la necessità dell’analisi e dell’opportunità di
individuare la terapia corretta sulla base della conoscenza della malattia e delle sue
cause. A differenza di Ippocrate non considera la malattia come uno squilibrio, una
discrasia, ma come un’alterazione dei singoli organi. In Galeno è fondamentale la teo-
ria del pneuma. Secondo l’ideologia monoteista che si afferma nella sua età, il corpo è
uno strumento dell’anima, il che spiega perché il sistema di Galeno sia rimasto immu-
tato fino al Rinascimento. Galeno deve essere considerato il fondatore della medicina
sistematica.
ALTRI AUTORI DEL MEDIO E TARDO IMPERO
Oribasio di Pergamo opera tra la prima metà e la fine del IV secolo. Si forma alla
scuola di Zenone Ciprio e diviene medico personale dell’imperatore Giuliano l’Apo-
stata e da cui viene nominato questore di Bisanzio. Tra gli autori medici di lingua greca
è il nome più illustre del suo secolo e sarà fonte preziosa per i futuri medici bizantini.
Tra i suoi scritti ci sono pervenute le Collectiones medicae (una enciclopedia del sapere
medico in settanta libri), la Synopsis ad Eustathium (la sintesi delle Collectiones de-
dicata al figlio Eustazio) e gli Euporista (una ulteriore semplificazione per i profani).
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Aviano Vindiciano vive e opera in Africa nella seconda metà del IV secolo. Si sono
conservati alcuni estratti: Epistula Vindiciani comitis archiatrorum ad Valentinia-
num conservata nel De medicamentis liber di Marcello Empirico; il De expertis reme-
diis, Gynaecia, Epitome altera.
Di Quinto Sereno Sammonico (III secolo d.C.) ci è pervenuto il Liber medicinalis,
un ricettario di 1107 versi, contiene un numero di rimedi popolari, presi in prestito da
Plinio e Dioscoride, e varie formule magiche, tra cui la famosa Abracadabra, per la
cura della febbre, compresa quella malarica. Fu un'opera molto in uso durante il Me-
dioevo e di valore per la storia antica della medicina popolare.
Di Teodoro Prisciano (IV secolo d.C.) si sono conservati un compendio terapeutico:
Euporista in tre libri: Phenomenon (contro le affezioni esterne), Logicus (contro le
affezioni interne), Gynaecia (contro i disturbi ginecologici), e il trattato Physica.
A partire dal IV secolo vengono compilate delle opere di argomento terapeutico (far-
macologico e dietetico) destinate ai profani, in cui il lato teorico, caro alla medicina
galenica, viene trascurato a favore del rimedio, della ricetta. In questo periodo vengono
redatti i prontuari, forma che rimarrà negli scritti di medicina altomedievale. Ad An-
tonio Musa (I sec. a.C. – I sec. d.C.), medico di Augusto è attribuita l’opera De herba
vettonica una raccolta di ricette illustranti l’uso della betonica (Stachys officinalis)
usata nella cura di una vasta gamma di affezioni.
L’opera più tarda è la Sextii Placiti de medicina ex animalibus, pecoribus et bestis vel
avibus di Sesto Placito (IV secolo) sui rimedi tratti dagli animali.
Per quanto concerne all’argomento, importante, della dietetica, possiamo segnalare il
De observazione ciborum, epistola redatta dal medico Antimo tra il 511 e il 533,
giunto in Italia con Teoderico da Bisanzio, fornisce dettagliate istruzioni per la prepa-
razione di alcuni piatti tipici della cucina bizantina.
Isidoro di Siviglia (560 – 636), dottore della Chiesa, scrive l’opera enciclopedica, che
resterà incompiuta, Etymologiarum sive originum libri XX in cui tentò di raccogliere
tutto lo scibile dei suoi tempi unificandolo secondo il criterio etimologico. A causa del
peccato, la storia e il tempo degradano la realtà, allontanandola dalla sua originaria
pienezza. Solo il nome, quando se ne ricostruisce il significato etimologico, ne rivela
l’essenza. Sotto questo punto di vista nel libro IV viene trattata la medicina come se-
cunda philosophia. Gli storici e i critici non sono ancora riusciti a ricostruire nella sua
complessità il corpus delle fonti cui Isidoro attinse: scrittori classici e della tarda ro-
manità, autori ecclesiastici, precedenti florilegi e lessici.
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