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PRESENTAZIONE
Il corso intende discutere una concezione metodologica generale della didattica, che fa propria,
trattandola come una risorsa, l’intrinseca autonomia dei processi di apprendimento. Secondo tale
concezione i processi di apprendimento si autoregolano, per cui la didattica li può governare solo
La prima unità del corso è dedicata a presentare la concezione generale dell'apprendimento e del
gruppo come attore di tale processo. La seconda unità affronta il tema della relazione tra
apprendimento ed affettività. La terza unità ha per oggetto la relazione educativa e il suo governo.
L’ultima unità propone alcune metodiche e criteri operativi derivanti dalle teorizzazioni proposte
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
I Unità Didattica
LINEAMENTI DI TEORIA GENERALE DEI PROCESSI DI INSEGNAMENTO-APPRENDIMENTO
Lezione 1
Che cosa è un gruppo? Qual è il numero giusto di componenti per un gruppo? Cosa hanno in
ed il gruppo di selezione? Questo è in genere il tipo di domande sul gruppo cui la psicologia dei
gruppi cerca di dare risposta, nello sforzo di pervenire ad una definizione condivisa circa il modo
D'altra parte, le fenomenologie del gruppo variano notevolmente, secondo gli obiettivi che lo stesso
assume, così come delle condizioni organizzative entro cui si inscrive, al punto che risulta
quantomeno arduo riconoscere un qualche senso di unitarietà all’insieme di forme psicosociali cui
viene applicata tale categoria. Se dunque la psicologia dei gruppi cerca di definire il gruppo, di
descrivere le caratteristiche del suo funzionamento, così come i fattori che ne facilitano o
ostacolano il suo dispiegarsi, fa ciò a partire dal presupposto che al costrutto |gruppo| (qui ed in
seguito utilizziamo il segno "|" per indicare il riferimento al concetto, piuttosto che al fenomeno a
cui il concetto di riferisce) corrisponda una specifica e determinabile entità del mondo (nel nostro
caso: del mondo delle relazioni umane), dotata di una propria essenza cui ci si può riferire
indipendentemente dalla grande varietà di forme contingenti attraverso le quali essa si manifesta; in
altri termini a prescindere dalle configurazioni socio-simboliche, dagli obiettivi, dalle coordinate
fattualità gruppale.
In questa e nelle successive due lezioni svilupperemo alcune osservazioni lungo una linea
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Cornice epistemologica
Secondo la tesi proposta, che assume come presupposto un’epistemologia di matrice socio-
costruttivista (Gergen, 1985; Salvatore, 2003), il gruppo non va inteso come un oggetto naturale,
cioè quale stato della realtà dotato di proprietà strutturali e funzionali invarianti; bensì, come un
Il che significa che se si osserva un gruppo che funziona in un certo modo, ciò accade non in quanto
esperienza nei termini di ciò che il costrutto |gruppo| denota. Questa tesi implica, evidentemente, un
riconoscere il |gruppo| come il prodotto, piuttosto che la premessa, della osservazione psicologica e
Chi si occupa di |gruppo| converrà su quanto tale concetto abbia subito una deriva di senso: viene
sistematicamente mobilitato in chiave ideologica e valoriale, svuotato delle proprie valenze teoriche
definitiva: sistematicamente sottratto alla disciplina del pensiero scientifico ed assimilato alle
categorie del senso comune. A nostro avviso simile svuotamento di senso non deriva da un deficit di
teoria. Anche a volerci limitare al contesto italiano, la teoria psicologica intorno al gruppo è stata
feconda di indicazioni e di riflessioni critiche (Carli et al., 1988; Di Maria & Lo Verso; 1995, 2002;
Di Maria et al., 2002). La nostra idea è che il problema sia piuttosto di natura epistemologica,
generale, sviluppando un’analisi critica del concetto |gruppo|, volta ad evidenziare come esso sia
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sistematicamente impiegato in termini reificati.
Capita piuttosto frequentemente di imbattersi in resoconti in cui il concetto |gruppo| viene usato in
modo reificato: trattato in termini per così dire naturalistici, come uno stato della realtà che si dà
all’osservazione, esistendo comunque indipendentemente da essa. Tale modalità implica una sorta
di ontologizzazione del concetto: il gruppo come una particolare essenza presente nel mondo,
espressione.
Simile tendenza alla ontologizzazione del costrutto non va del resto considerata un limite da
presupposto ontologico come una caratteristica costitutiva del discorso intorno al gruppo,
rintracciabile nei principali interpreti di tale area del pensiero psicologico e pedagogico. In questa
sede non siamo nelle condizioni di argomentare in modo sistematico questa nostra affermazione. Ci
limitiamo a richiamare alcune citazioni, tratte dalla letteratura psicologico clinica, a supporto di
«...mi trovai seduto in una stanza con otto o nove persone, a volte di più, a volte di meno, a volte
malati, a volte no. Nei casi in cui i componenti del gruppo non erano malati, mi trovai spesso in
difficoltà del tutto particolari. Cercherò di descrivere come si svolgono le cose. All’ora convenuta
cominciano ad arrivare i membri del gruppo; le persone cominciano a parlare un po’ fra loro e,
quando se ne è riunito un certo numero, il silenzio cade sul gruppo. Dopo un po’ ricomincia una
conversazione sconnessa e poi si fa nuovamente silenzio. Diventa chiaro che, in qualche modo,
«Sette, otto, nove pazienti, adatti ad un comune approccio, si incontrano regolarmente una volta a
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settimana per un’ora e mezza con il terapista. Siedono comodamente, in una stanza adatta di
dimensioni adeguate, in modo da stare uno di fronte all’altro e di fronte al conduttore. L’atmosfera è
informale. Lo scopo dell’incontro è discutere i loro problemi. La quantità di sedute necessarie sarà
determinata dalle loro condizioni cliniche. Flessibilità e spontaneità sono le note chiave». (Foulkes,
«Un gruppo terapeutico è un ambiente ad hoc che creiamo artificialmente (...) sulla base di incontri
in accordo a certe regole, nel quale varie persone (da sei a otto) interagiscono, comunicano fra loro
e condividono delle norme. Gli incontri hanno luogo da una a più volte la settimana per un periodo
non predeterminato, anche se limitato e terminabile». (Puget et al., 1994, pag. 19).
«Il gruppo è ordinariamente composto da 17-35 persone, uomini e donne di età media, riuniti in una
sala che consente di formare un unico cerchio, in modo che ciascuno sia visibile a tutti gli altri. Il
conduttore siede fra loro, aiutato da uno o due colleghi. Del gruppo fanno parte, d’abitudine, anche
degli osservatori; questi solitamente non parlano, anche se, a un certo momento dell’iter gruppale,
può verificarsi che uno di loro possa prendere la parola. (...) Il gruppo è aperto, cioè continuo negli
anni, ed è pertanto suscettibile di ritiri e di nuove ammissioni. Il darsi del "tu" è una prescrizione».
Queste citazioni ci permettono di evidenziare due aspetti caratterizzanti un modo a nostro avviso
In primo luogo, in tutti i brani il gruppo è definito – o comunque implicitamente assunto, come nel
caso dei passi riferibili a Bion e Foulkes – in base e nei termini di una serie di elementi materiali: il
gruppo è fatto da persone, riunite in un certo momento spazio-temporale, in una certa numerosità.
Ci possiamo chiedere: in che modo e sotto quale punto di vista una simile definizione è differente
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da quella del linguaggio comune, così come la si può ad esempio trovare sistematizzata in un
interrogativo non può che essere: in nessun modo – un trombettista, un portiere di condominio, un
politico, una madre, un postino, un insegnante, un medico, ecc. utilizzano il termine |gruppo|
esattamente secondo la stessa accezione usata dagli eminenti autori appena citati. In quanto insieme
si voglia utilizzare), il gruppo non è un costrutto psicologico, ma la descrizione di uno stato del
mondo.
Il processo di oggettivazione, che Moscovici (1961) ha richiamato per caratterizzare il rapporto tra
la conoscenza scientifica e il suo utilizzo entro i contesti discorsivi quotidiani, viene qui ad essere
invertito, nel senso che in questo caso è la psicologia ad appropriarsi del linguaggio comune per
derivarne il proprio oggetto. Ed è a partire ed in ragione di tale oggetto, ma anche entro i vincoli
derivanti dalla fonte della sua costruzione, che poi andrà a sviluppare la propria teorizzazione. In
sintesi: le citazioni esaminate evidenziano come il gruppo non sia un costrutto generato
modellisticamente, ma un contenuto della vita quotidiana che viene successivamente fatto oggetto
In secondo luogo, nei passi citati sono richiamati parametri funzionali in quanto definitori o
comunque caratterizzanti l'oggetto gruppo ed il suo uso nel contesto clinico: la periodicità degli
appuntamenti, la prescrizione del "tu", il disporsi in circolo, il fatto che vi possano partecipare
Non è difficile rintracciare l'assunto implicito che fonda tali richiami: l'idea secondo la quale il
gruppo possieda una propria specifica modalità di funzionamento, una propria sintassi ed economia
interna, in rapporto alla quale vanno conformati i parametri che ne organizzano l'impiego entro
l'intervento. Si prenda in questo senso il caso della prescrizione a darsi del tu o la disposizione
circolare. E' evidente che tali parametri hanno senso nella misura in cui li si interpreta come modi
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per conformare la pratica del gruppo alla sua essenza. Per rimanere nell'esempio, è come se si
dicesse: dal momento che il gruppo è un contesto di vicinanza interpersonale, allora esso richiede
che le persone adottino organizzatori linguistici coerenti e funzionali a tale caratteristica (dunque
usino la seconda persona singolare nel rivolgersi reciprocamente); oppure: dal momento che il
gruppo è un contesto di scambi plurali e distribuiti, allora è necessario che la disposizione spaziale
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
Esplicito ab initio la mia posizione critica nei confronti dell'ontologizzazione del costrutto |gruppo|.
Molti sono gli argomenti che motivano in tal senso. In questa sede ne richiamerò due: uno di natura
epistemologica, l'altro di tipo teorico. Sul piano epistemologico, l'ontologizzazione implica una
visione ingenua del rapporto tra linguaggio e mondo ed in questo senso va interpretata come il
riflesso della incapacità del discorso psicopedagogico di svincolarsi dal senso comune. Il che mina
capacità della disciplina di fondare pratiche di intervento efficaci. Sul piano concettuale, il
contestuale dei processi psicosociali. Da questo punto di vista, dunque, quando si categorizza una
determinata situazione interumana con la mediazione della categoria |gruppo|, ipso facto la si
Approfondiamo di seguito questi due argomenti, che, per quanto strettamente intrecciati, preferiamo
successiva al secondo.
stabile e tendenzialmente biunivoca tra il linguaggio e il mondo. Chi si muove in quest’ottica ritiene
che il significato dei segni sia in ultima istanza legato alla cosa del mondo cui il segno stesso si
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estensionale attribuita a tale concezione epistemologica (Eco, 1975).
linguaggio è autonomo e chiuso, costituito da segni che si definiscono nelle relazioni semantiche e
sintattiche che mantengono reciprocamente, esattamente come accade nel caso di un vocabolario,
che esplicita il significato di un lemma non mostrando la cosa a cui il lemma si riferisce, ma
collegando il segno in questione ad altri segni (quelli usati per la definizione) (Rorty, 1989).
Non è questa la sede per entrare in una disputa filosofica che va avanti dal medioevo. La questione
per noi è più circoscritta, riguardando più specificamente il linguaggio scientifico. A proposito di
matrice positivista - circa l'inapplicabilità della logica estensionale. In altri termini, almeno sul
piano di principio, si è generalmente d’accordo nel riconoscere che i concetti scientifici non si
fondano sulla corrispondenza alla realtà, ma sulle teorie ed in quanto tali operano come
modellizzazioni della realtà (per una generalizzazione di questo principio ai processi mentali; cfr
Può essere per certi verso ironico ricordare come sia stata proprio la psicologia ad evidenziare il
processo di reificazione a cui i costrutti scientifici sono sottoposti da parte del senso comune.
Stiamo evidentemente pensando al fondamentale studio di Moscovici (Moscovici, 1961), che parla
dei costrutti scientifici (nel caso dello studio: della nozione di inconscio) estrapolandoli dal loro
L’oggettivazione non concerne tuttavia solo i costrutti che modellizzano processi latenti. La
tendenza alla reificazione è attiva ubiquitariamente nel nostro linguaggio quotidiano, al punto da
poterla considerare una qualità immanente del linguaggio, dunque del senso comune (Berger e
Luckman, 1969). La missione del pensiero scientifico si presta ad essere in questo senso definita
come lo sforzo di contrastare simile deriva, in modo da difendere l’autonomia delle idee rispetto ai
vincoli del mondo (o meglio, ai vincoli che le idee reificate del mondo di un certo momento storico
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culturale tendono ad imporre al tentativo di costruire ulteriori versioni del mondo, più utili e
Con ciò vogliamo dire che lo scopo della conoscenza scientifica è di costruire modelli che entrino in
dialettica con l’esperienza del mondo: siano adeguati rispetto ai vincoli che l’esperienza propone,
ma al contempo siano in grado di organizzare nuovi modi di guardare ai fenomeni. In questo senso,
la conoscenza scientifica è per definizione altra dal senso comune: a differenza di quest'ultimo, la
prima non può permettersi di istituire/stabilizzare un certo sistema di idee, rendendolo in definitiva
Si pensi alla fisica. Tale sistema di conoscenza ha creato una teoria per spiegare la caduta dei gravi.
Nel far questo non si è limitata a sottolineare che gli oggetti se sollevati e lasciati andare tendono a
Ora: nella nostra società siamo tutti abituati a spiegare il fenomeno della caduta dei gravi attraverso
l’esistenza della gravità; tuttavia, da un punto di vista teorico, non si può dire che la gravità "esista":
esiste senz’altro l’esperienza sistematica del precipitare dei corpi e del peso che associamo agli
oggetti fisici, ma la gravità in quanto tale non esiste: è un modello che deve la propria
sopravvivenza al fatto che si adatta ai e mantiene nei vincoli dell’esperienza, ma il suo significato e
la sua validità risiede nella coerenza che mantiene con l’apparato concettuale in cui si inscrive,
tant’è che in quanto costrutto scientifico è profondamente variato nei secoli in ragione del passaggio
dalla cornice newtoniana, a quella della relatività generale, fino alla teoria quantistica.
Qui sta la fondamentale differenza qualitativa tra la scienza ed il senso comune. Il senso comune ha
Se confrontiamo la psicologia e la pedagogia a scienze quali la fisica, non possiamo che giungere ad
una conclusione sconfortante: tali discipline sono ben lontane dal differenziarsi dal senso comune;
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al contrario essa tendono sistematicamente ad assumere le categorie dei mondi vitali come base,
contenuto e parametro del proprio esercizio. In altri termini, tali discipline - ed in particolare nella
loro versione mainstream, mutuano come propri oggetti, dimensioni definite dal senso comune
riconfezionate nel gergo specialistico – assunte come stati fattuali del mondo, per poi impegnarsi
quanto vincola gli spazi di possibilità della teorizzazione ai campi di significazione del senso
comune.
Nel caso della psicologia l’anaclitismo al senso comune è doppiamente critico. Così come per le
altre discipline scientifiche, esso vincola fortemente l’autonomia della conoscenza, ostacolandone
gli sviluppi innovativi; inoltre, nel caso della psicologia, l'anaclitismo mina alla radice la possibilità
E’ sufficiente osservare la performance di uno dei tanti psicologi da salotto per comprendere cosa
significhi e dove porti una psicologia analiticamente appoggiata sul senso comune: la
percorsi di senso già tracciati dalle direttici culturali del discorso condiviso, dunque continuamente
costretta a smarcarsi dal già detto per mezzo di retoriche valoriali e normative, prive di qualsiasi
capacità di incidenza, comunque legittimate a riprodursi fino a quando ciò che propongono rimane
come la teorizzazione psicopedagogica del gruppo poggi anacliticamente sul senso comune porta a
valutare l'incerto statuto semantico del costrutto sotto una diversa luce. Anche una veloce
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panoramica sulla letteratura di settore evidenzia come sia molto arduo definire i confini del concetto
Già a livello di definizione è difficile individuare anche una sola caratteristica definitoria che in
concetto.
A ciò si aggiungano le svariate modalità e significati con cui viene utilizzato: in alcuni casi con
|gruppo| ci si vuole riferire ad un oggetto/stato del mondo - |gruppo| come insieme a numerosità
limitata di soggetti riuniti in uno stesso spazio in interazione tra loro; in altri casi il concetto è
impiegato per connotare una specifica qualità che determinate strutture di attività posseggono ad un
collettivo (si pensi a frasi quali: "questa classe non è ancora un gruppo", "questo reparto è un
gruppo molto unito", "bisogna diventare gruppo"...); in altri casi ancora |gruppo| assume il
Inoltre, queste accezioni non sono chiaramente differenziate, ma si intrecciano senza chiare
il carattere proteiforme, polisemico del termine, carattere che lo avvicina più ad una famiglia di
l'incerto statuto del concetto il riflesso del pluralismo presente in letteratura, o al limite il sintomo di
un deficit circoscritto di elaborazione teorica (relativo cioè alla concettualizzazione del costrutto)
esso va considerato conseguenza del problema epistemologico più generale che abbiamo
richiamato, cioè del fatto che la teoria assuma a proprio oggetto un ente definito dal senso comune
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
Veniamo ora al secondo argomento, portatore di una critica sul piano concettuale alla concezione
reificata del gruppo. Vale la pena partire anche in questo caso da un riferimento teoretico generale.
Il pensiero scientifico tradizionale ha orientato la scienza moderna allo studio di quelle "strutture
permanenti, immutabili ed universali" (Gergen, 1994) costitutive del nostro mondo; di contro,
l'ottica post-moderna (Vattimo, 1987) sottolinea come i dispositivi che sostanziano ed orientano i
processi simbolici non sono strutture di stampo kantiano, riflesso di qualità invarianti ed universali.
Se, dunque, il punto di vista moderno della scienza dispone ad una concettualizzazione del mondo
quale risultato di una struttura nascosta, conoscibile in base a misurazioni oggettive e leggi generali
che la regolano, il pensiero post-moderno porta a trattare le forme socio-simboliche, gli artefatti
In questa sede ci interessa evidenziare un fondamentale principio euristico, implicato in tale shift
dei processi psicosociali. Secondo tale principio, gli eventi di interesse psicologico, in quanto in
ultima istanza qualificabili come dinamiche di co- costruzione di senso, assumono forme specifiche
in ragione dei contesti socio-simbolici entro cui ed in ragione dei quali si dispiegano (Salvatore,
semplificazione che per quanto possa avere qualche funzione di carattere comunicativo e di
semplificazione euristica, si scontra con limiti insuperabili nel momento in cui la si assume come
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modello normativo di conoscenza.
Il riconoscimento del carattere contestuale dei processi psicosociali rende cogente la dialettica tra
e Valsiner (2005) parlano di scienza idiografica, per evidenziare come il riconoscimento del
carattere contestuale e specifico dei fenomeni psicologici non vada considerato come il limite della
configurare i metodi di costruzione delle conoscenze sui fenomeni e sulla loro combinazione.
L’approccio idiografico di analisi non implica dunque una rinuncia alla quantificazione e più in
ciò che lo qualifica è il riconoscimento della necessità di assumere come unità di analisi la relazione
tra caso individuale (che ovviamente non coincide necessariamente con la singola persona) e
psicosociale si organizza in ragione delle condizioni di contesto locale in cui si inscrive, allora va
riconosciuto che un qualsiasi assetto di relazione interumana può assumere un numero se non
infinito (i contesti sono comunque espressione di dimensioni di significato che la cultura conserva
entro un numero per quanto ampio, comunque vincolato) quantomeno ampio di forme e parametri
ragione della funzione e della posizione che l'assetto di relazione umana assume entro il sistema di
attività che lo motiva. Di conseguenza, modellizzare tali forme nei termini di invarianza e
addirittura stereotipali.
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Il gruppo classe
Prendiamo in considerazione più specificamente la classe scolastica. Dal punto di vista che stiamo
classe. Al contrario la classe è tale assetto, in quanto la classe altro non è se non il significato che
motiva, media e opera come cornice di senso della relazione tra gli allievi: altro non vi è, se non
come produzione discorsiva degli attori sul loro essere classe, dunque come operazione di scissione
e reificazione della loro realtà organizzativa in ragione di modelli idealizzati di rappresentazione del
loro rapporto. In altri termini, una classe può anche essere definita o autodefinirsi "gruppo". Ma non
per questo è un gruppo: è una classe che usa il segno |gruppo| per parlare di se stessa attraverso e
nei termini della reificazione di una dimensione relazionale idealizzata (il gruppo) generante una
Possiamo dunque riconoscere come rappresentare la classe come un gruppo implica interpretare
implica non riconoscere il carattere contingente e istituito delle dinamiche psicosociali, operando un
doppio movimento di scissione e reificazione che da un lato separa la relazione umana dalla sua
inscrizione contestuale, cioè dal suo essere sempre e comunque un sistema di attività - una
relazionalità dotata di vita propria, in quanto tale alimento/fondamento psicologico dei sistemi di
significato istituito regolativo del sistema di attività che sostanzia l'assetto di rapporto tra gli allievi,
si ipostatizza una forma pura (la relazione in quanto tale), assumendola a specifico fenomeno di
pertinenza psicosociale, come se fosse dotato di esistenza autonoma - dunque di regole, di modalità,
di proprietà funzionali e strutturali peculiari, indipendenti dal sistema di attività, per questo motivo
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Per concludere
In definitiva, il senso di quanto fin qui detto consiste nella seguente conclusione: non esiste un
gruppo in quanto modalità specifica ed autonoma di funzionamento dei collettivi umani – dunque
realizzazione.
Ciò ha una evidente ricaduta nel campo della didattica. Significa infatti che l’insegnante non ha
necessità di attribuire alcuni aspetti del comportamento della classe a variabili relazionali
indipendenti dalla didattica (cioè a fattori connessi al gruppo come variabile psicosociale
separata), e può dunque provare ad interpretare tutto quanto accade, dunque ad intervenire su
E’ in ciò il senso del titolo di questo corso - “tecniche di gestione didattica dei gruppi di
una-attività (apprendere)
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
Negli ultimi due decenni si è sviluppata una rinnovata attenzione intorno ai processi di
apprendimento. Sotto la spinta delle proposte concettuali della psicologia culturale e del socio-
ricoperto negli anni ’70 e ’80; sicché l’attuale pensiero psicopedagogico si presenta come un
discorso aperto, privo di una cornice paradigmatica unitaria. E’ indicativo in questo senso quanto
scrive Pontecorvo, nel capitolo introduttivo al diffuso Manuale di Psicologia dell’educazione da lei
“Un lettore avveduto si potrà chiedere come mai né in questo né in altro capitolo
della specificità di dominio, sono presenti come riferimento rilevante in alcuni dei
capitoli che seguono (…). Tuttavia ne manca una presentazione generale e soprattutto
non vengono riconosciute come guida per impostare un discorso psicoeducativo che
La ragione profonda è che chi scrive, insieme a molti che hanno contribuito a
questa opera, non ritengono di poterla considerare come teoria generale di riferimento,
come era sembrato possibile tra gli anni ’70 e gli anni ’80, quando si era pensato che il
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(…)
psicologico quale quello esposto in questo capitolo che fosse capace di interpretare e
sociocostruttivista, con il recupero che propone delle dimensioni del contesto e del significato,
porta con sé una concezione fortemente innovativa dell’apprendimento. Una concezione che
generale veicolate dal contesto. Al contrario, l’allievo costruisce il proprio conoscere elaborando le
informazioni nei termini ed in funzione dei propri modelli mentali e di conoscenza (schemi,
conoscenze, sistemi di credenze, categorie). Non sono dunque i dati in se stessi ad avere potere
informativo; il ruolo preminente l’hanno i modelli che presidiano il modo con cui tali dati sono
elaborati.
Questa idea è parte di una visione epistemologica più generale, relativa al rapporto tra soggetto e
oggetto della conoscenza. Secondo tale visione, l’informazione non sta nella stimolazione
ambientale, ma nel sistema di categorie e più in generale nei dispositivi interni (i cosiddetti fattori
intellettuali) del soggetto attraverso cui e nei termini dei quali la stimolazione stessa è trattata e
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organizzata. Il che in altri termini significa che il soggetto “costruisce” l’ambiente, attribuendogli
significato in funzione delle categorie che possiede. Come dicono Maturana e Varela (1980): “tutto
adeguatezza, piuttosto che di una rappresentazione che tenda ad avvicinarsi sempre più al vero.
Riportiamo quanto afferma von Glasersfeld (1981) a proposito del modello costruttivista.
realtà indipendente ed assoluta alla quale non abbiamo accesso, questo modello
sostituisce la relazione di ‘adatto’, nel senso evoluzionista, secondo cui alle nostre
di verità corrispondente ad uno stato di cose ontologico, viene sostituita dal concetto di
deriva tuttavia dal fatto che essa propone un cambiamento radicale nella concezione
rappresentazione.Ciò significa che la relazione non deve essere intesa come analoga al
modo in cui un’immagine si può rapportare a ciò che si ritiene che essa rappresenti, ma
quale ha trovato il suo corso. Il fiume si forma ovunque il paesaggio consenta all’acqua
esempio, il fatto che essa debba formare una superficie orizzontale e non può scorrere
dal basso verso l’alto) e la topologia del terreno. Sia l’una che l’altra impongono vincoli
al corso del fiume e lo fanno in maniera inseparabile. In nessun caso si potrebbe dire, ad
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esempio, che il fiume gira a destra ‘perché’ c’è una collina, senza presupporre
basso. Il fiume così non rappresenta il paesaggio, ma si ‘adatta’ in esso, nel senso che
trova il suo corso fra i vincoli che si impongono, non a partire dal paesaggio o dalla
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
L’organizzazione mentale possiede un’intrinseca valenza sociale. E ciò da almeno tre diversi e
In primo luogo, la mente è costitutivamente sociale in quanto, se è vero che i concetti sono teorie
(Neisser, 1987), è altrettanto vero che tali teorie sono elaborate collettivamente (Grasso, Salvatore,
1997). Diversamente da quanto vorrebbe quell’ampio e per altri veri variegato ventaglio di
posizioni che va dallo strutturalismo piagetiano al neocartesianesimo alla Fodor (1983), passando
1987; Reed, 1986; Pessa, Penna, 2000), il culturalismo sottolinea come i modelli mentali (Johnson-
Laird, 1983) che sostanziano l’organizzazione del pensiero siano repertori di significati negoziati,
culturali (Bruner, 1986). Merito di questo punto di vista il recupero della visione vygotskijana della
mente come interiorizzazione dei dispositivi simbolici posti a mediazione del rapporto tra società e
opinioni, i giudizi, i significati che le persone producono nella quotidianità non sono, dunque,
(Harrè, Gilet, 1994; Ligorio, 2004), orientato dall’esigenza degli attori di proporre e sollecitare
l’adesione alle visioni del mondo proposte. Ritorna qui la lezione del secondo Wittegenstein
(Edwards, Potter, 1992; Billig, 1996; Bonaiuto, Sterponi 1997; De Grada, Bonaiuto, 2003), dei
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giochi linguistici come strumento ed espressione delle “forme di vita”, dei modi con cui gli attori
che significa che il Sè è dialogico (Gergen, 1991; 1999), costruito e ricostruito come precipitato
apprendimento. Sotto la spinta anche della riscoperta del pensiero di Vygotskij, un numero
infatti, avviene entro ed attraverso lo scambio dialogico che si instaura nel gruppo degli allievi e
prossimale, che sta ad indicare le capacità prossime e potenziali che il soggetto può esprimere in
ragione dell’aiuto di un soggetto più competente. Alla nozione di zona di sviluppo prossimale si
nei confronti del bambino impegnato in una determinata attività, funzione che viene
il compito.
L’apprendimento, inoltre, si realizza per il tramite delle risorse cognitive e di senso proprie del
gruppo sociale. Inoltre ancora, non esiste in sé, ma in quanto processo (luogo ed insieme strumento)
“Aggregazioni informali (…) definite non solo dai loro membri, ma dal condividere i modi con cui
si fanno le cose e si interpretano gli eventi (…) nelle comunità di pratiche le relazioni sociali si
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creano attorno alle attività, le attività prendono forma attraverso le relazioni e particolari
“La comunità di pratiche è una condizione intrinseca di esistenza della conoscenza, e non
pratiche culturali nelle quali prende forma ogni conoscenza è un principio epistemologico
dell’apprendimento.” (Lave, Wengen, 1991; cit. in: Zucchermaglio, 1999, pag. 330).
Abbiamo già fatto riferimento ad alcuni aspetti legati alla contingenza dell’apprendere. Ne
richiamiamo uno ulteriore, che alimenta in modo rilevante il dibattito psicopedagogico: il tema della
La questione può essere sintetizzata con il seguente interrogativo: posto che la conoscenza si
La risposta della teoria della specificità di dominio a questo interrogativo riflette una concezione
modulare del funzionamento della mente (Fodor, 1983). Secondo tale concezione, l’apparato
cognitivo è un sistema differenziato; i sottosistemi in cui si articola operano in modo chiuso (Fodor
utilizza il termine “incapsulato”) o comunque con ridotta comunicazione. (In realtà, il riferimento di
questa teoria a Fodor va inteso essenzialmente in termini analogici. Infatti, Fodor considera
incapsulato soltanto una parte del sistema mentale: i sistemi di elaborazione dell’input. La teoria
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della specificità di dominio, invece, propone un’idea generalizzata della modularità).
Illustriamo questa linea di pensiero prendendo a riferimento il lavoro di Cole, uno dei principali
esponenti dell’approccio culturale (Cole, 1996). Lo studioso differenzia i due orientamenti in gioco
cognitivo. Secondo la tesi opposta, della specificità di dominio, gli stimoli di apprendimento
ciascuno specifico per un determinato ambito di compito cognitivo. Ad esempio, alcune ricerche, a
cui lo stesso Cole ha partecipato, sul rapporto tra alfabetizzazione, scolarizzazione e sviluppo delle
abilità cognitive (Scribner, Cole, 1978; 1981, cfr. in Boscolo, 1997), hanno mostrato che la capacità
ricerche in oggetto sono state realizzate presso una popolazione della Liberia, al cui interno
della scrittura. Ebbene, i risultati della ricerca hanno mostrato che solo nel caso in cui sia appresa
entro il contesto formale della scolarizzazione la scrittura produce effetti cognitivi. D’altra parte,
come mostra un ulteriore risultato di questi ricercatori, l’alfabetizzazione non sembra produrre
effetti cognitivi generali neanche nell’ambito più specifico dell’abilità metalinguistica (la capacità,
cioè, del soggetto di rappresentarsi e monitorare la propria produzione linguistica). Nel loro
complesso questi studi hanno mostrato come l’apprendimento della scrittura si traduca nello
sviluppo di abilità cognitive specifiche, piuttosto che di competenze cognitive generali, connesse a
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compiti intellettuali trasversali ai diversi campi di esperienza.
“L’analisi di Scribner e Cole va considerata da due punti di vista. Da un lato, essa rappresenta
che caratterizza l’approccio socioculturale: la cultura non è una variabile indipendente dalla
cognizione, ma è l’insieme delle situazioni, attività, contesti e strumenti con cui la gente
interagisce e svolge le varie funzioni cognitive. Dall’altro lato, quell’analisi è una disconferma
dell’ipotesi ‘forte’ dell’alfabetizzazione, secondo cui la scrittura è stata, nella storia della
civiltà, responsabile di nuove forme di discorso e di pensiero.” (Boscolo, 1997, pag. 79)
Le ricerche di Scribner e Cole non sono le uniche ad aver mostrato la limitata generalizzabilità delle
competenze cognitive acquisite. A titolo di esempio, per il loro carattere emblematico, si possono
citare le ricerche sulla cosiddetta “matematica di strada”. In una serie di studi di campo condotti su
un campione di bambini e ragazzi brasiliani dediti al piccolo commercio (Carraher, et al., cit. in
utilizzare nozioni matematiche anche complesse, necessarie per svolgere la loro attività
commerciale “di strada”, mentre registravano elevate percentuali di insuccesso nella soluzione di
problemi di livello analogo di tipo scolastico. Un altro ambito di ricerca che porta elementi a favore
della tesi della specificità è rappresentato dagli studi sull’expertise professionale (Zucchermaglio,
2002), che mostrano come l’esperto si differenzi dal novizio non sul piano delle
strategie/competenze cognitive globali, ma per il modo con cui organizza la specifica base di
La tesi della specificità non è tuttavia esente da problemi. Il più rilevante è evidentemente quello
rappresentato dal transfer. E’ innegabile, infatti, che le persone utilizzano alcune abilità in modo
trasversale rispetto ai contesti. La teoria della specificità di dominio deve offrire una spiegazione a
25
questo fatto. In altri termini: in che modo la mente diventa capace di trasferire abilità apprese entro
determinati contesti, anche in altri domini? La risposta che Cole (1996) dà a questo interrogativo
Lo studioso, infatti, per spiegare il transfer dell’apprendimento sposta l’attenzione dai processi
intrapsichici al contesto, inteso come sistema di attività entro e nei termini del quale più individui
ogni contesto corrisponde uno schema, cioè una rappresentazione della conoscenza relativa a tale
contesto.
L’estendibilità di uno schema dal contesto iniziale in cui è stato elaborato ad altri contesti, dipende
dalla coerenza/omogeneità tra tali contesti . D’altra parte, tale omogeneità è un precipitato culturale,
in quanto i diversi contesti di attività sono partecipi di una stessa cultura, la quale ha a disposizione
diversi dispositivi simbolici (primo fra tutti il linguaggio) per assicurare la regolarità tra i contesti,
viene interpretato come epifenomeno della regolarità dei contesti di attività, generato
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
II Unità Didattica
EMOZIONI E SENSO NEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO
Lezione 1
Premessa
Per avanzare nella direzione ora indicata, ci sono utili alcune premesse.
Come abbiamo già avuto modo di affermare, secondo la prospettiva socio-costruttivista nelle
Da questo vertice interpretativo, sia le pratiche (il loro orientamento, le modalità con cui sono
realizzate, gli scopi verso cui sono dirette, le identità e intersoggettività che le mobilitano e
motivano), che gli oggetti della conoscenza, sono fondati e mediati dai dispositivi semiotici attivi
entro il contesto formativo (Pontecorvo, 1990; Cole, 1996). Inoltre, secondo l’ottica psicodinamica,
tali dispositivi semiotici - le interpretazioni e i significati che essi permettono di realizzare - sono a
significa considerare la dimensione affettiva come fondamentale processo di semiosi che definisce
(istituisce) la cornice di senso (contesto) a sua volta fonte e riferimento della co-costruzione di
l’insegnamento-apprendimento.
34
quattro differenti dimensioni contestuali, intese come altrettante componenti che intervengono a
il posizionamento socio-discorsivo degli attori implicati nelle pratiche formative (il chi);
Intendiamo queste dimensioni come coordinate di riferimento utili per definire uno spazio
quindi essere definita dalla sua posizione (se si vuole: dai valori di coordinata) su tali dimensioni.
Possiamo a questo punto fare un ulteriore, ultimo passaggio. Ciascuna delle quattro dimensioni ora
richiamate incontra la dimensione inconscia e così facendo genera un piano, che descrive una
Gli attori implicati in una attività di insegnamento-apprendimento sono impegnati a dare senso alla
apprendimento e il più ampio spazio di vita entro cui tale pratica si inscrive.
Da un lato, l’esperienza formativa viene connotata in ragione dei significati che il soggetto
contesto di apprendimento si configura come un testo interpretato secondo codici propri di universi
35
simbolici altri e diversi da quelli scolastici (la famiglia, il quartiere, il gruppo di amici, i domini di
fruizione massmediale…).
Allo stesso tempo, tuttavia, prendere parte ad una pratica formativa si configura come un atto, in
quanto tale dotato di un valore performativo (Austin, 1962): portatore di una valenza di
E’ entro questo circolo ermeneutico, dove scuola e mondo diventano ciascuno reciprocamente fonte
di senso - significante e significato dell’altro - che gli attori partecipi di un ambito formativo
Si pensi a come possa essere diversa l’esperienza scolastica di uno studente che si rappresenta
l’ambiente circostante (il territorio, il futuro) come caotico, chiuso, inaffidabile, impermeabile agli
investimenti ed al progetto, rispetto all’esperienza di uno studente che vive il mondo come spazio
all’interlocuzione.
In un caso, la scuola potrà essere vista come rifugio o come un luogo dove agire l’impotenza
sperimentata nei confronti del mondo; nell’altro come percorso progettuale di investimento su
quelle competenze e/o su quelle ritualità di appartenenza fondanti l’inscrizione nel mondo degli
adulti.
partecipazione scolastica di uno studente che ha dato a tale partecipazione il valore di adesione alla
norma familiare, rispetto a quella dello studente che le ha attribuito il significato di un atto di sfida,
o di affrancamento dall’autorità.
36
In sintesi la partecipazione ad una attività formativa è mediata dal senso che gli attori co-
costruiscono entro e in ragione dello spazio transazionale che si stabilisce tra contesto formativo e
ambiente di vita. La nostra tesi è che simile processo di co-costruzione di senso non si realizzi
salienza di dinamiche di simbolizzazione affettiva, fondate sul modo di essere inconscio della
che sono segni peculiari e distintivi dell'emozionalità e degli affetti (Salvatore, 2004a).
Per chiarire ed argomentare quanto ora affermato, nella prossima lezione ricorreremo
all’illustrazione di un caso.
Un caso esemplificativo
Richiamiamo come esemplificativa una situazione che abbiamo raccolto in qualità di responsabile e
Marco è uno studente di 26 anni, iscritto al corso di laurea in giurisprudenza. Si rivolge al servizio di
consultazione in quanto sente di star sprecando il proprio tempo, di non riuscire a studiare e a dare esami
come vorrebbe. Si sente e si dichiara impotente: incapace di dare impulso ed orientamento al proprio
percorso di studio, soggiogato dal peso di una distanza e di una contraddizione che avverte sempre più
ampia, lacerante e irrisolvibile tra il desiderio di laurearsi, l’interesse per i contenuti dello studio, da un lato,
e l’incapacità di impegnarsi in modo sistematico, di mettersi sui libri a studiare, dall’altro. Si rivolge al
servizio di consultazione con la richiesta e la speranza di essere aiutato, di essere fortificato nella propria
motivazione, di essere sostenuto e rinsaldato nel suo impegno, nel suo tentativo di mantenersi orientato al
compito.
Nello sviluppo dei colloqui di consulenza, diventa via via più chiaro un aspetto della posizione di Marco: il
37
senso performativo della sua lamentata impotenza; in altri termini, la sua esigenza di connotare in termini di
fallimento gli aspetti dialettici del percorso formativo. Sulla base di questa ipotesi interpretativa, Marco e il
consulente elaborano un’ulteriore ipotesi sul senso attribuito all’esperienza universitaria, così sintetizzabile:
“il mio fallire negli studi è la mia vittoria contro il potere annichilente dei miei genitori”.
caso. L’abbiamo proposto per la sua valenza esemplificativa relativamente ad una serie di aspetti
Marco arriva alla consulenza con un determinato senso soggettivo della propria esperienza
universitaria. Ovviamente “soggettivo” non va qui inteso come equivalente a “individuale”. L’idea
di Marco di essere improduttivo, incapace di stare al passo, è una categoria di senso intrinsecamente
sociale. Sociale in quanto si configura in ragione di tutta una serie di premesse normative che sono
evidentemente parte del contesto culturale e intersoggettivo in cui Marco è inscritto. Sociale,
inoltre, in quanto tale idea è comunque elaborata entro lo scambio dialogico intersoggettivo (tanto
diretto ed agito, tanto sedimentato nelle ritualità, nei modi di dire, di fare e di pensare che danno
Il senso che Marco dà alla propria attività di studente diventa al contempo campo ed oggetto della
negoziazione con il consulente, non diversamente di quanto accada con gli altri attori (studenti,
docenti, familiari…).
Tuttavia, per la specifica funzione rivestita, il consulente non si mantiene con il consultante sul
piano della negoziazione semantica, ma persegue l’obiettivo di espandere l’area dei significati, di
Ad esempio, oltre la premessa secondo la quale se uno studente è in ritardo con gli esami sta
perdendo tempo; così come la premessa secondo la quale se qualcuno vive con frustrazione una
certa condizione allora significa che non la desidera/non la persegue. Su questa base, la coppia di
38
consultazione si mette nelle condizione di focalizzare le valenze affettive del discorso di
(l’esperienza di insuccesso nel percorso di studio sta per - e si trasforma nel - vissuto totalizzante di
possibilità che i significati che configurano l’identità locale (quella di studente, nel caso) siano
In definitiva la possibilità che si possa volere ciò che non si desidera e desiderare ciò che si rifugge
e che tutto ciò conviva con la capacità razionale e progettuale; anzi, la fonda e permette.
Il fatto che l’esempio proposto riguardi un individuo potrebbe indurre a pensare che la dimensione
affettiva attenga alle singole persone (in linea con la concezione tradizionale che tratta le emozioni
come la componente idiosincratica degli individui). In realtà, l’idea di affetto ed emozione come
deficit di razionalità è molto lontana dalla visione che qui si sta proponendo. Torna dunque utile un
ulteriore riferimento, questa volta direttamente centrato sulla dimensione affettiva di una dinamica
culturale.
Una recente ricerca sulle culture professionali dei docenti della scuola italiana (Salvatore et al.,
2004) ha permesso di enucleare sei differenti raggruppamenti di docenti, ciascuno dei quali
portatore di una specifica e differenziale cultura professionale, dunque di una identità di ruolo.
Ciascuno di tali modelli può in questo senso essere considerato una semantica: una particolare
modalità di dare significato all’esperienza di ruolo, agli aspetti che la qualificano (concezione
Allo stesso tempo, in ragione della metodologia di analisi adottata, la ricerca ha permesso di
39
individuare lo spazio simbolico di cui le diverse semantiche enucleate costituiscono altrettanti
corrispondono ad altrettante espressioni di ciò che in questa sede abbiamo definito simbolizzazione
affettiva (o inconscia). In particolare, dall’indagine è emerso che l’universo simbolico dei docenti
della scuola italiana si organizza in primo luogo nei termini della dialettica emozionale ritiro da vs
investimento sull’ambiente/alterità.
In altri termini, secondo una connotazione del contesto buono/cattivo, che costituisce la prima e
culture professionali, ciascuna delle quali può in questo senso essere interpretata come una
In quest’ottica, lo spazio simbolico, ovvero la dimensione inconscia del senso, si costituisce come
la matrice dei significati, il codice condiviso generativo della cultura. La varietà delle produzioni
discorsive, delle affermazioni assiologiche, la molteplicità dei punti di vista e dei processi di
costruzione di significato messi in gioco dagli attori costituiscono altrettante espressioni contingenti
connetterli dal punto di vista ermeneutico - due differenti livelli del significato:
• il piano semantico delle idee, delle rappresentazioni e dei valori che gli attori adottano come
40
criteri di categorizzazione, narrazione e negoziazione del contesto e delle identità;
41
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
negoziale. Sono tali significati condivisi a configurare le “regole del gioco” che definiscono il
reciproco posizionamento (Harrè, Gillet, 1994) dei partecipanti entro l’attività formativa.
Allo stesso tempo, i partecipanti concorrono incessantemente, dall’interno e per mezzo del proprio
agire, a consolidare, reinterpretare, elaborare e far evolvere tali significati, dunque il loro contesto
discorsivo e di attività. Solo in parte questi significati regolativi sono codificati ed oggetto di
modalità dell’agire, copioni; come norme, assetti ed artefatti materiali; come presupposti dati per
scontati che orientano ragionamenti, aspettative, valutazioni; ancora, come criteri di canonicità e
In un loro lavoro, Perret-Clermont e Iannaccone (2005) riportano quanto accaduto in una scuola
produzione. L’apparecchio costituiva dunque, almeno nelle intenzioni (nelle interpretazioni) dei
docenti, una risorsa preziosa per gli studenti, finalizzata allo sviluppo di abilità qualificate ed
appetibili. Il macchinario della scuola presentava tuttavia un’unica differenza rispetto a quello
utilizzato nei processi di produzione: per permettere di visualizzarne e capirne il funzionamento, era
inserito in una struttura trasparente. Tale differenza fece sì che il macchinario fosse percepito dagli
studenti come un gioco, come una simulazione lontana dalla realtà. In altri termini, gli studenti
42
attribuirono un significato all’oggetto (questa macchina è una finzione!) conflittuale rispetto a
ermeneutico delle attività di insegnamento-apprendimento. Allievi e docenti (ma anche gli altri
di come interpretano (dialogicamente) tali processi, dunque dei significati che attribuiscono ai
diversi elementi/oggetti/interlocutori che articolano la loro esperienza. Tutto ciò che è esperito è
motivo ed oggetto di semiosi: le forme dello spazio e del tempo scolastico, i criteri e le norme
apprendimento è per sua natura dialettica e negoziale. I significati non sono attribuiti, non sono cioè
predefiniti e dunque applicati. Al contrario, sono sistematicamente ricreati entro e in ragione dei
contesti di azione. Si torni al conflitto intorno al macchinario a scopo didattico della scuola
svizzera: è un giocattolo o uno strumento tecnologico innovativo? Chi lo usa fa solo finta di
prepararsi ad un mestiere o è quanto mai vicino alla prestazione professionale sulla quale sta
investendo?
La negoziazione può essere conflittuale (come accade tra i docenti e gli allievi della scuola
svizzera) o improntata alla cooperazione e alla ricerca di equilibri tra le proprie intenzioni e
l’attribuzione di intenzioni altrui (come invece accade a Marco e al consulente al quale si rivolge) o,
ancora, conflittuale e cooperativa insieme (come spesso accade nella vita quotidiana).
Quale che sia il modo con cui si realizza, essa rimane comunque il luogo e la modalità attraverso
43
cui le interpretazioni di configurano e riproducono intersoggettivamente.
In primo luogo, va evidenziato come la negoziazione dei significati trovi il proprio vettore nella
valenza performativa delle pratiche. Ciò che si vuol dire è che i partecipanti ad una interazione
educativa non negoziano significati e regole del gioco in momenti diversi e separati rispetto al loro
agire quotidiano. Certo, possono in certi momenti sospendere tale agire e metacomunicare su di
esso. Tuttavia, si tratta di momenti rari: in genere i significati sono scambiati indirettamente, in
quanto implicazioni che si reificano attraverso gli atti a cui sono legati. Il che in altri termini
significa che le modalità di partecipazione se da un lato sono espressione delle interpretazioni che
gli attori negoziano, allo stesso tempo affermano i significati che li alimentano, in questo modo
realizzando (reificando) ciò che implicano. E’ a questo meccanismo semiotico che ci si riferisce
negoziazione delle differenze è possibile nella misura in cui su un altro piano gli attori condividono
delle premesse, cioè dei modelli interpretativi generali che in ultima istanza fondano il valore di
Si sta dunque dicendo che l’intersoggettività richiede un fondamento di codice condiviso, che
strutturi una primitiva interpretazione del contesto: una cornice di senso (Perret-Clermont,
Iannaccone, 2005) che qualifica ciò che può così essere considerato ovvio, dato per scontato,
La cornice di senso condivisa funziona come istituito (Mehan, 1997), convenzione reificata in dato-
1
. Si veda anche il concetto di prolessi proposto da Cole (1996).
44
di-fatto, in quanto tale a sua volta capace di istituire significati. In definitiva, pensare/negoziare
Le considerazioni fin qui svolte ci portano ad individuare il ruolo della dimensione affettiva.
Secondo la nostra proposta, la cornice di senso che si costituisce come istituito della negoziazione è
Ritorna dunque il carattere duplice della semiosi a cui abbiamo in precedenza fatto riferimento. Nei
termini della presente discussione, possiamo così precisarlo: gli attori istituiscono il senso del loro
rapporto/attività sul piano inconscio, come costruzione di uno spazio simbolico affettivo condiviso;
tale spazio simbolico condiviso si costituisce come matrice delle successive pratiche interpretative,
che si realizzano sul piano semantico, della negoziazione dialogica dei significati.
45
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
Il carattere costruttivo dell’apprendimento non si esprime solo a livello del processo, ma investe
anche l’oggetto su cui il processo si dispiega. Il che è un altro modo per affermare che il contenuto
della conoscenza non sia dato, ma costituisca un costrutto intersoggettivo (Bruner, 1996; Grossen,
L’apprendimento consiste nel costruire concetti attraverso la mediazione di altri concetti. Inoltre, i
concetti non sono entità astratte e fisse, ma modi di entrare in rapporto con il mondo, che
qualificano la loro forma in maniera contingente, in ragione del modo con cui sono utilizzati entro
le pratiche discorsive (Wittgenstein, 1953), in ragione del modo con cui operano in quanto
mediatori dell’intersoggettività.
un processo che si realizza a partire da premesse fondanti che a loro volta, circolarmente, sono
generate entro ed attraverso il processo stesso. Il che in altri termini significa che la costruzione
dell’oggetto della conoscenza (per restringere il campo all’elemento che in questa sede ci interessa)
apprendimento. Senza alcuna pretesa di sistematicità, richiamiamo di seguito alcuni processi socio-
Ricerche e concettualizzazioni ormai classiche, pur da prospettive e con intenti differenti, hanno
46
evidenziato come le rappresentazioni su cui il pensiero opera implicano, da un lato, operazioni di
capaci di andare oltre l’informazione disponibile (Beyond the Information Given - BIG) e/o anche
di operare senza informazione disponibile (Without the Information Given - WIG) (Ausubel, 1968).
Una circostanza dove ben è evidente la valenza selettiva dell’apprendimento è nella presa di
appunti. Per certi versi, ciascun studente tende a selezionare in modo idiosincratico le informazioni
da incorporare nella propria rappresentazione della lezione; allo stesso tempo, la variabilità dei
modi con cui i dati trovano organizzazione (concettualmente, logicamente, ma anche spazialmente e
ironicamente - si pensi alle sottolineature, all’uso di colori diversi per segnale le relazioni di
priorità, di implicazione, ecc.) evidenzia la presenza di una molteplicità di strategie finalizzate alla
selezione delle informazioni pertinenti, ciascuna delle quali volta a costruire una particolare
Classe di ragazzi di 12 anni. Lezione di matematica. L’insegnante ha appena terminato la spiegazione della
procedura che permette di verificare se un numero è divisibile per 3 o per 9. Nel corso della spiegazione ha
anche precisato quali sono gli altri numeri per i quali è stata individuata una prova del genere. Si passa ad
alcuni esercizi dimostrativi e di consolidamento della comprensione. Gli allievi seguono e si applicano agli
esercizi con interesse, incuriositi da quella che appare una formula in qualche modo alchemica, quasi fosse
Fermiamoci per un momento sul senso di fascinazione, se non di vero e proprio stupore, che
avvolge la classe.
Da che cosa è alimentato, quale ne è la fonte? In linea generale, possiamo dire che evidentemente
47
esso riflette il carattere non atteso, insolito della regola aritmetica; in altri termini la capacità della
regola di perturbare lo schema cognitivo degli allievi; se si vuole, il suo proporsi come violazione di
canonicità.
Ma, ci si può allora chiedere: su cosa poggia tale canonicità? Evidentemente su una
rappresentazione degli artefatti matematici a cui la regola in questione viene assimilata. Si potrebbe
in questo caso fare l’ipotesi che la canonicità attesa stia nel fatto che non vi sia rapporto tra qualità
individuale delle cifre che compongono i numeri e le proprietà dei numeri generati dalle cifre
proprietà di 12). Ebbene, nel caso in esame tale attesa è contraddetta: una numero è divisibile per 3
o per 9 se la somma delle cifre che lo compongono è divisibile rispettivamente per 3 e per 9.
oggetto di apprendimento (nel caso: le caratteristiche e i vincoli delle regole matematiche associate
alle operazioni aritmetiche) non si limiti alla registrazione passiva dei dati, ma implichi operazioni
di inferenza e di generalizzazione che portano ad andare “oltre l’informazione data” (nel caso:
l’inclusione della regola aritmetica in questione nella classe generale delle regole che sottendono al
principio della mancanza di rapporto tra cifre componenti ed entità numeriche composte).
La valenza costruttiva esercitata sui contenuti del lavoro formativo si esprime anche in un altro,
complementare modo: attraverso una funzione di connotazione, che attribuisce significati agli
oggetti e alle attività su di essi. Gli elementi del sapere (le operazioni su di essi) sono infatti
ultima istanza riflettono e veicolano il tentativo dei soggetti (della comunità) di regolare la relazione
insegnamento-apprendimento.
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Il papà chiede a Carlo: “Che cosa hai fatto oggi a scuola?”
“Per un po’ la maestra ci ha fatto lavorare: abbiamo imparato le lettere dell’alfabeto. Mamma mia che fatica!
Siamo stati bravi, e così siamo andati in giardino a giocare”, è la risposta del bambino di 5 anni.
“Prima abbiamo giocato a dare i nomi alle piante; poi, abbiamo cantato la filastrocca dell’alfabeto”.
Ecco un esempio insieme minimale e lampante di connotazione. Il contenuto di una pratica didattica
|lavoro non-scolastico|) che segmenta e scandisce il fluire dell’esperienza, così da generare contesti
che si propongono agli attori formativi come ambiti di esperienza (lo stare in classe come lavoro vs
lo stare in giardino come gioco): quadri costituiti da regole del gioco (gli assetti intersoggettivi che
mediano i contesti di lavoro e i contesti di gioco; ad es. parlare uno alla volta quando si lavora;
valori (l’erogazione di impegno che legittima il merito; il ruolo premiante della maestra…), vissuti
La connotazione
predicare caratteristiche di argomenti già definiti, pre-costituiti entro lo spazio culturale dei soggetti
formativo.
insegnamento-apprendimento.
49
Possiamo aggiungere che la connotazione, nel momento in cui inscrive/attualizza gli artefatti entro
didattico (la domanda di lavoro cognitivo, le euristiche impiegate, le modalità di analisi, i criteri di
Si pensi in proposito in questo senso a come possa variare il modo di entrare in rapporto cognitivo
con un oggetto di apprendimento a seconda se esso venga connotato come |familiare| o |non
possono essere le forme di connotazione, così come gli ancoraggi che le alimentano. Un argomento
di apprendimento può essere interpretato in quanto |parte del programma non ancora fatto|, oppure
come |irrilevante|; |noioso|; |non interessante per il docente|; su un altro piano: |da imparare a
memoria|; |da studiare bene, perché l’insegnante ci tiene|; ancora: |è un compito su cui non sono
Per illustrare questo punto, ci sia permesso citare la lezione di matematica sulla regola della
L’insegnante ad un certo punto deve interrompere la lezione ed assentarsi per qualche minuto. Per mantenere
gli allievi sul compito e tenere sotto controllo i comportamenti della classe nel periodo di assenza, propone:
“Bene, vedo che l’argomento vi sta interessando. Debbo assentarmi per qualche minuto. Nel frattempo
perché non provate a trovare una soluzione che permetta di verificare la divisibilità del numero per 13?”
Gli allievi accettano con entusiasmo, impegnandosi per tutto il tempo dell’assenza dell’insegnante in ipotesi
via via più fantasiose, inesorabilmente destinate all’insuccesso, tuttavia capaci di catalizzare l’interesse e
l’attenzione collettiva.
50
L’aspetto su cui richiamiamo l’attenzione del lettore è il seguente. Malgrado il fatto che nel corso
della lezione sia stata data l’informazione utile in tal senso, gli studenti hanno connotato il problema
risolvibile.
E’ plausibile ritenere che ciò che ha sollecitato, orientato e permesso simile connotazione sia stata
del compito scolastico (i compiti scolastici sono per definizione risolvibili…). Il che ci porta a
Ciò che ai fini del nostro discorso ci preme sottolineare, comunque, è anche un altro punto: al di là
delle ragioni che possono aver alimentato la connotazione di |risolvibilità|, una volta istituita, tale
gruppo) e cognitivo (ha orientato il ragionamento in termini di strategia per prove ed errori).
Il ruolo dell’inconscio
Fin qui abbiamo richiamato alcuni dei processi costruttivi e connotativi che configurano le
dinamiche di insegnamento-apprendimento. Vogliamo ora porre anche entro questa area della nostra
di insegnamento-apprendimento sono per loro natura cognitivi e discorsivi. Tuttavia, anch’essi sono
51
In primo luogo, in via preliminare, è utile richiamare una fondamentale caratteristica del
Dal punto di vista dell’inconscio, gli oggetti simbolizzati sono sempre e comunque oggetti animati,
dotati cioè di una intenzionalità di rapporto. Gli oggetti mentali generati dalla semiosi affettiva sono
animati da un dinamismo relazionale rivolto verso il soggetto simbolizzante. Il che in altri termini
significa che le emozioni, in quanto significati predicati dal codice inconscio, sono per definizione
modelli di esperienze di relazione (inter alia, Stern, 1985; Fonagy, Target, 2001). Si pensi in questo
senso alle culture animiste, che attribuiscono intenzionalità agli eventi naturali, leggendoli come
segni della presenza di forze soprannaturali. Ancora, si pensi al bambino che dà del “cattivo” allo
Il carattere antropomorfizzante della semiosi inconscia investe anche gli oggetti della conoscenza: i
saperi, gli elementi della conoscenza, le informazioni. Dal punto di vista della teoria psicodinamica,
si potrebbe dire che proprio per questa ragione gli oggetti assumono la valenza di contenuti mentali,
diventano cioè pensabili. Nella misura in cui si accetta questa tesi fondamentale, se ne deduce che
anche gli oggetti di conoscenza sono in primo luogo - e, in certo senso, propedeuticamente -
in altre parole, come qualità relazionali proiettate entro modelli fantasmatici di rapporto.
E’ questo il punto centrale del modello qui proposto: gli elementi di conoscenza, per poter essere
E’ utile a questo punto richiamare in che senso si parla, in questo contesto, di simbolizzazione
affettiva (o emozionale). In termini generali, la simbolizzazione affettiva può essere intesa come un
modo del pensiero che opera attraverso categorizzazioni generalizzate e generalizzanti, che
52
proiettano gli oggetti su classi di significato tendenzialmente infinite (Matte Blanco, 1975), dunque
Dal punto di vista inconscio, dunque, rappresentare un oggetto (sia esso una persona, un elemento
del mondo materiale, un’idea, un evento, un artefatto simbolico) significa predicarlo (simbolizzarlo)
con categorie di significato altamente generalizzate, organizzate intorno alle forme fondamentali di
53
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
omogeneizzazione della simbolizzazioni affettiva in ciascuno degli esempi a cui ci siamo riferiti
Si potrebbe ad esempio evidenziare come nella presa d’appunti i processi costruttivi messi in
meccanismi di generalizzazione che non necessariamente implicano relazioni semantiche tra gli
elementi cognitivi e tra questi e gli obiettivi che guidano la computazione, anzi, spesso operano
lezione volta a proporre agli allievi un determinato contenuto didattico. Ovviamente questo
contenuto si caratterizzerà per una propria struttura interna di relazioni concettuali, che stabiliscono
ciò che è primario e ciò che è complementare, ciò che è implicato e ciò che è implicante, ecc.
Ovviamente, anche la lezione sarà organizzata secondo una struttura discorsiva e temporale (che
cosa viene detto prima, che cosa dopo, quali aspetti vengono ripetuti, quali proposti in modo
sbrigativo, quali solo evocati, ecc.). Ebbene, si può ipotizzare che quanto più nel contesto classe
prevalga una forma di attivazione emozionale, tanto più risulterà pregnante il processo di
54
dell’enunciato, con la conseguente tendenza degli allievi a riorganizzare il contenuto in funzione
della forma della lezione, piuttosto che della struttura interna del suo contenuto.
apprendimento. Basti in questo senso pensare a quell’ampia evidenza empirica, che conferma del
resto l’esperienza di ognuno, circa la tendenza ad attribuire valore (a secondo dei casi: di credibilità
cui è stata prodotta (chi l’ha prodotta, entro quale contesto). Ciò che in questa sede ci interessa
segnalare è che tale processo è attivo ed organizza in modo pregnante anche l’insegnamento-
simbolizzazione affettiva non è un fattore interveniente, ma la fonte stessa della costruzione socio-
Gli esempi che abbiano proposto evidenziano, inoltre, la salienza del meccanismo di
Si torni alla canonicità e alla sua rottura nell’episodio della prova di divisibilità. E’ facile
riconoscere alla base di tale circostanza l’attività del meccanismo di generalizzazione, in ragione del
quale viene assunta come assoluta e ubiquitaria la caratteristica della incommensurabilità tra
proprietà dei numeri e proprietà delle cifre. Nel caso della segmentazione operata da Carlo, tra
momento del lavoro e momento del gioco, la generalizzazione si mostra nel suo effetto speculare:
essa genera una categorizzazione emozionale dell’esperienza di tipo dicotomico, che separa ciò che
L’esempio offre indizi per avanzare una congettura circa la fonte e la direzione di tale
55
dicotomizzazione: la differenziazione dentro-fuori. Richiamandoci a Carli e Paniccia (2003)
riconosciamo in tale categoria affettiva una fondamentale matrice della simbolizzazione inconscia:
grande/piccolo). Nel caso, le attività che vengono proiettate nella categoria |dentro| (le attività che si
svolgono all’interno, al chiuso della struttura scolastica) sono: a) tra loro omogeneizzate; b) dunque
connotate attraverso la loro associazione alla classe di significati riassumibile nella coppia
|lavoro|/|scuola|; c) in questo modo separate dalle attività proiettate sulla (in altri termini:
simbolizzate nei termini della) opposta categoria |fuori|, a cui si áncora la coppia di connotati:
|gioco|/|non-scuola|.
Dal canto loro, gli allievi che si impegnano nel cercare la regola di verifica della divisibilità del
numero 13 lo fanno in base al fatto che hanno categorizzato in termini generalizzanti tale esercizio,
proiettandolo nella classe dei |compiti-scolastici| per definizione assunti come risolvibili. Tale
categorizzazione segnala il proprio carattere emozionale non solo in quanto implica una “rinuncia”
all’informazione disponibile (l’insegnante aveva in precedenza precisato che per il numero 13 non
era disponibile una regola di verifica della divisibilità), ma anche e soprattutto in quanto si basa
Sintesi
Proviamo di seguito a sintetizzare quanto detto in queste tre lezioni sulla costruzione degli oggetti
della conoscenza:
affettiva (inconscia);
il modo di essere inconscio, è la forma antropomorfizzante del pensiero, che tende a trattate
2
. Equazione simbolica che a sua volta può essere interpretata assumendo come sfondo la simbolizzazione del
docente come genitore che nutre e fa crescere (Carli, Mosca, 1980; Gentile, Salvatore, 2001; Salvatore et al., 2004), per
definizione buono, dunque privato della proprietà semiotica di dare agli allievi-figli cose cattive - come può esserlo un
problema irrisolvibile.
56
gli oggetti rappresentati (quale ne sia la loro natura e sostanza) come dotati di intenzionalità
di rapporto;
la simbolizzazione inconscia mentalizza gli oggetti della conoscenza, e nel fare ciò li dota di
una determinata forma categoriale; in altri termini li significa in chiave affettiva nei termini
di significati emozionali, che rimandano alle forme fondamentali di esperienza del legame
sociale;
Il significato emozionale con cui l’oggetto assume valore di oggetto mentale può essere
costruttiva.
Nella prossima lezione rivolgeremo la nostra attenzione alle modalità cognitive e discorsive delle
pratiche di insegnamento-apprendimento.
57
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
La discussione su questo punto potrebbe portarci lontano, intersecandosi con un campo vastissimo
interessati come siamo a mettere in evidenza in termini globali la funzione degli affetti come
ciò avviene.
A tal fine prendiamo in considerazione il concetto di “elaborazione primaria” (Sanford, 1987), che
Il concetto rimanda a quell’approccio più generale che evidenzia come i processi di elaborazione
dell’informazione sono inferenziali e per tale ragione guidati da modelli mentali, intesi come forme
Esemplificativo in questo senso il modo con cui viene concettualizzata la comprensione dei testi
semantiche utili a vincolare la decodifica della frase. Per estrarre il significato della frase, il
58
soggetto è chiamato a realizzare inferenze, guidate dalla conoscenza del mondo a cui la frase fa
riferimento.
Si prenda ad esempio la frase: “Giovanni sta andando alla festa di compleanno di Mario; spera che
Giovanni che il dono che egli sta portando a Mario per onorare la ricorrenza di quest’ultimo possa
essere accolto con favore da colui a cui è destinato (Mario). Questa interpretazione ci risulta ovvia.
Tuttavia essa non è contenuta nel testo. Di per sé la frase si presta ad essere interpretata anche nel
seguente modo: “Giovanni spera di gradire il regalo che si aspetta di ricevere da Mario, in
prenda la seguente frase equivalente sul piano sintattico alla precedente, ottenuta modificando due
solo termini aventi la stessa funzione grammaticale: “Giovanni sta andando alla festa di matrimonio
di Mario; spera che la bomboniera gli piaccia”. Anche in questo caso non abbiamo dubbi
nell’interpretare la speranza di Giovanni, guidati come siamo dalla conoscenza del fatto che nel
nostro contesto culturale è l’ospite del ricevimento nuziale colui a cui compete ricevere la
bomboniera.
L’aspetto che in questa sede vogliamo richiamare è il seguente. L’elaborazione primaria non è
ancoraggio, infatti, implica, sia come premessa che come conseguenza, processi di simbolizzazioni
Riconosciuta la funzione vincolante del modello di conoscenza sul mondo, rispetto alla capacità di
venire interpretativamente a patti con l’intrinseca ambiguità dell’input, diventa rilevante chiedersi
59
che cosa istituisce tali modelli come vincolo delle possibilità ermeneutiche del pensiero.
A questo punto della trattazione la nostra risposta apparirà scontata: i contesti semantici assunti
ragione delle culture attive entro il contesto discorsivo, dunque delle dinamiche di simbolizzazione
I teorici dell’elaborazione primaria non si occupano del fondamento culturale dei modelli mentali:
essi sono interessati a studiare come tali modelli funzionano da organizzatori cognitivi. D’altra
parte, gli esempi richiamati in precedenza rendono facilmente ragione di come i modelli siano
artefatti contesto-specifici: è un dato culturale della nostra società la regola del gioco che presidia la
distribuzione degli obblighi tra i ruoli previsti in una festa di compleanno. Ciò che la nostra
discussione intende aggiungere è il fatto che tali modelli culturali non sono proprietà/artefatti statici
Chi scrive ha avuto modo, nell’ambito della propria attività di consulenza ai docenti dei vari ordini
di scuola, di raccogliere diversi esempi della validità del principio ora affermato. In molte occasione
cognitivi ed interpretativi innovativi passa quasi inevitabilmente per la loro capacità di riconoscere
e di riflettere sulle premesse emozionali del loro posizionamento discorsivo (Paniccia, 2003). In
diverse occasioni gli insegnanti con cui ho lavorato mi hanno segnalato come ciò accada anche
nelle loro classi scolastiche. D’altra parte, quella della fondazione affettiva delle premesse è un
principio psicodinamico generale, che informa la teoria della tecnica psicoanalitica sia nel lavoro di
I risultati della ricerca sulle culture professionali dei docenti della scuola italiana, richiamati in
precedenza (Salvatore et al., 2004), così come diverse altre analisi di sistemi culturali basate
60
sull’approccio psicodinamico qui descritto (inter alia Salvatore, 2000, 2004a; Carli et al., 2004)
mostrano che i modelli mentali, intesi come mappature semantiche del mondo, si fondano ed al
di categorizzazione emozionale.
Conclusioni
La discussione sviluppata in questa Unità Didattica offre lo spunto per alcune considerazioni
conclusive.
In primo luogo, va osservato che la dimensione simbolica non si aggancia ad un qualche tipo di
fenomeno3, ma ad una classe generale di processi, tra cui l’insegnamento, definita in ragione e nei
Ciò evidentemente riflette una specifica opzione epistemologica, che in ultima istanza riconosce la
psicologia come scienza in quanto disciplina che costruisce, sulla base delle proprie categorie e dei
Il che in altri termini significa pensare alla psicologia come ad un sapere metodologico, capace di
ecc.).
3
. In questa sede con il termine “fenomeno” intendiamo un certo stato del mondo così come è rilevato e
qualificato dal senso comune. Sono fenomeni, dunque, il disagio, la dispersione, la malattia mentale, l’indisciplina, la
demotivazione, ecc. In questa prospettiva, distinguiamo “fenomeno” da “processo”, termine quest’ultimo con il quale
intendiamo denotare la dinamica psicologica che permette di interpretare in chiave psicologica il fenomeno. Il processo
è dunque il modello psicologico che interpreta, secondo le categorie che la teoria psicologica ha a disposizione, il
fenomeno. Il processo non è uno stato del mondo, ma un costrutto. Tra fenomeno e processo corre dunque la stessa
differenza che sussiste, ad esempio, tra il peso (fenomeno definito entro il linguaggio del senso comune) e la forza di
gravità (modellizzazione scientifica del fenomeno).
61
Come abbiamo visto in questo ciclo di lezioni, la funzione psicologica può farsi carico di
problematiche che sono in parte le stesse su cui insistono anche altre professionalità. La distinzione
di campo va dunque operata su un piano metodologico: il modo con cui i problemi e i temi vengono
Il che in altri termini significa che le diverse professioni, alle prese con gli stessi fenomeni
individuare la specificità della logica psicologica di intervento su vari livelli. Ad un primo livello la
logica che stiamo proponendo si differenzia da altre (ad esempio quelle di ispirazione pedagogica)
• l’azione si focalizza primariamente sui modelli categoriali, sul loro sviluppo, piuttosto che ai
• concepisce lo sviluppo dei modelli di categorie come una dinamica endogena, derivante
ulteriori punti di specificità della modalità attraverso la quale stiamo discutendo la dimensione
Da un lato, il riferimento ad una concezione contestualista della mente, che porta a leggere i modelli
4
. Per dirla con la terminologia di Rorty (1989), è interessata più ai vocabolari che alle produzioni linguistiche
che dall’uso di tali vocabolari derivano.
62
2004a).
Dall’altro, l’ipotesi psicodinamica fondamentale del doppio registro, razionale ed emozionale, dei
processi di significato, per un verso rientranti nella logica diurna del pensiero intenzionale, per
Il convergere di queste due concezioni si traduce sul piano metodologico nell’idea fondamentale
secondo la quale lo sviluppo dei modelli culturali e simbolici è primariamente connesso alla
capacità di elaborazione delle valenze simbolico affettive dei modelli stessi, dunque alla possibilità
per gli attori di attivare funzioni riflessive volte ad esplorare i presupposti categoriali del
discorso/attività in cui sono posizionati. Dal che deriva la concezione dei setting di intervento come
pratiche discorsive volte alla pensabilità delle loro stesse matrici categoriali
Simile modello si muove entro quella particolare (ed innovativa) prospettiva di psicologia dinamica
che condivide con il socio costruttivismo lo stesso “postulato fondamentale” (Salvatore, et al., 2003;
Salvatore, Ligorio, 2003; Ligorio, Salvatore, 2004; Salvatore, 2004a): il principio secondo il quale
propongono una declinazione peculiare, nel momento in cui assumono il significato, nelle sue
valenze semantiche e simboliche, come il fondamentale mediatore del rapporto tra mente e società,
Abbiamo quindi provato a declinare tale concezione generale nel campo specifico delle pratiche
formative. Il nostro tentativo riflette l’intenzione più ampia di contribuire alla definizione di una
63
teoria psicodinamica dell’apprendimento. In ambito psicoanalitico il tema dell’insegnamento-
In questo senso la psicoanalisi non ha un proprio punto di vista sistematico sul processo di
incommensurabile e dunque irrilevante. Non che non venga attribuito un ruolo alla componente
Le diverse prospettive convergono senza difficoltà nel riconoscere rilevanza a questo tipo di fattori.
Tuttavia, gli affetti vengono considerati come una dimensione altra da quella cognitiva, dunque
come una variabile esterna che interviene a condizionare o comunque ad agire sul processo di
possono anche guadagnare assoluta pregnanza nel determinare gli esiti del processo di
abbiamo a più riprese provato ad evidenziare nel corso delle lezioni proposte, la nostra prospettiva è
come esaustivo ed autosufficiente, quanto piuttosto come un contribuito che integra e potenzia la
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 1
Introduzione
Lo scenario odierno confronta gli attori scolastici (i docenti in primis), con un basilare
elemento di criticità/sviluppo della relazione educativa: il problema metodologico-
organizzativo di come praticare i processi formativi in ragione di un fruitore non più
assumibile come dato, in conseguenza della radicale trasformazione del contesto socio-
culturale. Il presente modulo intende discutere una tesi fondamentale: tale scenario, implica
e sollecita una trasformazione strutturale della professione docente: da sistema di azione
funzionante in rapporto a contesto dato (istituito) a sistema di azione funzionante a contesto
intrinsecamente variabile.
Il setting istituito
La maggior parte delle professioni non necessitano di costruire il senso della propria
funzione per esercitare la propria competenza tecnica. Nell’azione di rivolgersi a un medico, a un
avvocato, a un commercialista, è già implicito il significato di tale consultazione: si tratta di
occuparsi, a seconda dei casi, della propria salute, della propria situazione giudiziaria, economica,
finanziaria… Ciò consente al medico, ad esempio, di dare per scontato la condivisione del
significato della propria attività con il paziente, dunque la comprensione dei reciproci ruoli ed
aspettative. Il perché dell’incontro è implicito nella tecnica.
Il profano si rivolge all’esperto assumendo da un lato di non avere le competenze tecniche
per affrontare autonomamente l’oggetto del proprio interesse, dall’altro che tali competenze siano
possedute dal suo interlocutore, il quale è anche disponibile, a determinate condizioni (es.
pagamento dell’onorario), a trasmetterle o a farsi carico sostitutivamente del processo che il cliente
è chiamato a gestire per ottenere un determinato risultato. L’uno si configura come colui che manca
di, l’altro come colui che provvederà a trasmettere cosa all’altro manca. E vi è un’uniformità tra
esperto e profano in quanto a punti di vista su chi ricopra l’una o l’altro ruolo.
68
La competenza tecnica dell’esperto è in definitiva sufficiente in questi casi sia a spiegare il
senso della richiesta che a regolare il rapporto tra tecnico e profano (Carli, Paniccia, Lancia, 1998).
Il contenuto tecnico della prestazione non dipende peraltro dalla qualità di questa rapporto,
che può essere considerato una semplice cornice per il dispiegamento dell’azione professionale: il
medico non userà due principi attivi diversi per curare due persone che presentano la stessa
malattia, l’ingegnere non modificherà i calcoli in funzione di chi è il suo cliente. La tecnica in
questi casi funziona, ha validità, indipendentemente dalle circostanze contestuali in cui si dispiega.
69
studente, dalla propria posizione e seguendo un altro criterio interpretativo, categorizza come
difficile o noioso. Ciò tuttavia non impedisce loro di essere in rapporto, sulla base di premesse
condivise di secondo ordine (cioè: sovraordinate) che organizzano e coordinano le interpretazioni,
generando uno spazio di consensualità sul senso da attribuire al sistema di attività in cui sono
implicati - dunque anche alla variabilità delle posizioni e degli atteggiamenti individuali.
Senza il comune riferimento a tali premesse di secondo ordine, il processo di insegnamento
non potrebbe dispiegarsi: gli allievi si autorizzerebbero a presentarsi in classe seguendo criteri
soggettivi, potrebbero decidere autonomamente cosa studiare, il docente potrebbe affidare loro lo
svolgimento della lezione o la verifica dell’apprendimento realizzato (una volta venuto meno, ad
esempio, la premessa di II ordine che riconosce nel docente colui che sa e nell’allievo colui che
deve essere guidato, disciplinato e formato).
In questo senso la relazione educativa può essere configurata, al pari di altre relazioni
professionali, come un setting istituito (Mehan, 1978), che pone come dato l’accordo
su chi, cosa, come, perché si insegna. “Dato” nel senso che tale accordo opera come
un’insieme di presupposti non dichiarati che rendono sensato ciò che si fa a scuola e
configurano le “regole del gioco” definenti il reciproco posizionamento (Harrè,
Gillet, 1994) dei partecipanti all’attività formativa.
In quanto istituiti, questi significati regolativi non sono - per definizione - oggetto di
conoscenza dichiarativa. Vengono utilizzati in quanto tali; in questo senso: applicati, agiti e
affermati attraverso i segni (discorsi, comportamenti) scambiati nella interazione educativa. In
questo senso, gli atti discorsivi e comportamentali hanno valore performativo (Salvatore & Pagano,
2005): per il fatto stesso che si esercitano e si istituiscono come realtà data la cornice di senso che li
informa.
Ad esempio, nel proporre un contenuto didattico, nell’atto stesso di esporlo in un certo
modo, l’insegnante afferma ciò che è utile trasmettere/apprendere, ciò che è secondario, ciò che
deve essere sottolineato o solo evocato; cosa può essere dato per scontato e cosa ha bisogno di
spiegazioni; attribuisce in definitiva lo statuto d’evento e carattere di pregnanza a certi fatti, mentre
lo rifiuta ad altri; così facendo definisce il quadro semiotico di riferimento che orienta il processo di
interpretazione (dunque di pertinentizzazione, di selezione, di categorizzazione) che qualifica la
fruizione del messaggio da parte dell’allievo, dunque l’ambito di significazione entro il quale egli è
chiamato a muoversi.
70
La definizione di tale ambito d’altra parte, se da un lato pone dei vincoli all’interpretazione
soggettiva della situazione, dall’altro non ne prescrive il significato, che risulterà dall’autonoma
attività interpretativa dagli interlocutori, dispiegata entro ed in virtù della negoziazione
intersoggettiva. Così, ad esempio, se uno studente entra in classe 10 minuti dopo il suono della
campanella che segna l’inizio delle lezioni, entro una comune definizione della sua azione come
ritardo, si potrà riconoscere in tale circostanza il segno ora della sua pigrizia (interpretandolo
dunque come atto che parla delle caratteristiche personali dell’allievo), ora del suo disinteresse
(interpretandolo come atto che parla del suo rapporto con il docente e/o con la scuola tutta), ecc.
Ciò che rende ad un setting formativo il suo carattere istituito non è dunque la fissità dei
significati attribuiti agli oggetti/eventi che caratterizzano il sistema di attività, ma il fatto di
assumere che vi sia un accordo su modo di interpretarli, come se il loro valore comunicativo fosse
immanente, impermeabile rispetto al tempo e allo spazio.
71
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 2
Insegnante : Allora ragazzi oggi io intendo interrogare qualcuno. Giovanni? Dovrei interrogare: Claudio
vieni per favore, Carlo.
Carlo: Si
Insegnante: Adesso vediamo voi due. Sirigatti, non c’è?
Gruppo di studenti: No, non c’è, c’era Maria ma è andata via.
Insegnante: Adesso vediamo voi, poi nel frattempo vediamo. Magari Giovanna. Dai Claudio.
Gruppo di studenti: Geometria?
Gruppo di studenti: No, matematica..
Gruppo di studenti: Matematica o Geometria?
Insegnante: La geometria fa sempre parte della matematica, non è un’altra cosa…Allora iniziamo dalla
geometria, mi date un libro per favore?
Gruppo di studenti: Ah… di geometria?
Allora, ragazzi: l’appellativo implica ed attiva un modello di rapporto. Nel caso, il senso di
una relazione informale, sostanziata in chiave di prossimità. I “ragazzi” non sono gli
“studenti”, sono un oggetto acontestuale; si potrebbe dire, ciò che resta degli studenti una
volta che questi siano alleggeriti del loro contenuto di ruolo, delle ragioni funzionali per cui
sono in rapporto tra loro e con il docente.
io intendo: qui è la dimensione soggettiva ad essere assunta come principio regolativo dello
scambio. L’insegnante áncora la decisione ad una propria intenzione/volontà personale,
72
piuttosto che, ad esempio, ad un criterio di utilità (“verifichiamo l’apprendimento prima di
introdurre altri concetti”), o normativo (“devo interrogare”): trova senso, da questo punto di
vista, il “per favore” che porta ad interpretare anche la decisione dello studente di
avvicinarsi o no alla cattedra per essere interrogato come espressione di una volontà
personale, regolata da criteri soggettivi, piuttosto che, ad esempio, funzionali e di ruolo. In
definitiva, in questo modo si veicola l’idea di un atto di volontà del docente che sollecita una
risposta di accettazione dello studente di una attività che va subita in ragione e grazie alla
mediazione della relazione interpersonale.
interrogare: è una dimensione costitutiva della tradizionale lezione didattica, volta alla
verifica dell’apprendimento realizzato; la parola merita tuttavia una sottolineatura dal
momento che della verifica rende rilevante la dimensione asimmetrica in ragione della quale
c’è qualcuno che pone le domande in funzione di controllo e qualcun altro che è chiamato a
rispondere; è dunque un atto che suggerisce uno specifico modo di configurare/interpretare
il momento valutativo (diverso, ad esempio, dal dire: “vediamo se ci ricordiamo di cosa
abbiamo parlato nelle ultime lezioni”).
qualcuno: il riferimento ad un soggetto generico afferma il punto di vista per cui la
centratura è sull’attività (qualcuno verrà interrogato) più che sul chi è chiamato a svolgerla;
l’insegnante sembra in questo modo interpellare lo studente come strumento per lo
svolgimento del proprio progetto, piuttosto che, ad esempio, come soggetto concreto, con
una propria agentività, rispetto alla quale perseguire uno specifico scopo.
“Sirigatti non c’è?” - “No, non c’è, c’era Maria ma è andata via. In primo luogo, si può
ipotizzare che con la sua risposta lo studente locutore attenuta la potenziale rottura
dell’assetto di prossimità veicolata dall’uso del cognome, dal passaggio. Si può tuttavia
aggiungere che la risposta allo stesso tempo riproduce un asseto di senso condiviso:
evocando Maria in contiguità con Sirigatti, la si assimila ed al contempo si mobilita una
categoria più generale come referente dell’interrogazione. In altri termini, si costruisce il
senso dell’interrogazione come azione non finalizzata al singolo studente, in quanto
funzione di regolazione del suo processo di apprendimento, ma come procedura adempitiva
rivolta al collettivo indifferenziato – in quanto materiale che ne consente l’esercizio (per cui
Maria o Sirigatti, è lo stesso, purchè qualcuno).
Geometria o matematica?. Questa domanda per certi versi banale, veicola una potente
proposta performativa: la distinzione tra le due materie, come due attività portatrici di una
diversa struttura di conoscenze. L’interrogativo in questione può dunque essere interpretato
come un atto attraverso il quale gli studenti reificano entro ed attraverso lo scambio
73
comunicativo (dunque istituitiscono come dato di realtà) una premessa generativa
dell’oggetto di esperienza (la geometria come oggetto specifico, in quanto distinto dalla
matematica).
La geometria fa sempre parte della matematica, non è un’altra cosa: L’insegnante non
interagisce con l’atto implicato nella domanda sul piano della sua funzione performativa
(cioè in quanto premessa generativa di senso); piuttosto, la negozia nel suo contenuto
semantico immediato, opponendo ad esso un diverso ordine semantico, basato sul proprio
sistema culturale di riferimento (il modello epistemologico di riferimento che propone
l’unità di geometria e matematica). Qui troviamo una espressione sufficientemente evidente
della cultura docente che assume il setting in quanto istituito. L’insegnante propone il
proprio modello in quanto norma, cioè criterio di verità in ragione del quale dare significato
al discorso degli allievi. Ciò evidentemente implica considerare tale discorso come uno
scarto rispetto alla realtà data attesa, piuttosto che come espressione di un diverso codice
culturale, costitutivo di un diverso oggetto di esperienza, in definitivo di un diverso mondo
di significato – nel caso: la distinzione tra geometria e matematica in quanto vissuti non
come forme dello scibile, ma come segmenti discreti dell’attività scolastica (articolata in
ragione dei libri differenti, così come, probabilmente, della distinzione delle ore di lezione,
ecc…).
“Iniziamo da geometria. Mi date un libro?”E’ interessante osservare che nella situazione di
interazione esaminata la proposta di senso avanzata performativamente dagli studenti per
quanto contrastata sul piano dichiarativo dall’insegnante, nei fatti viene fatta propria come
regolativa sul piano degli atti. L’insegnante, infatti, assume gli ancoraggi materiali (il libro)
ed i marcatori lingiustici (“iniziamo da”) veicolati dalla proposta semiotica degli studenti, in
questo modo diventando parte del contesto discorsivo costruttivo della geometria come
segmento dell’attività di studio (piuttosto che ambito dello scibile).
74
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 3
Ancora un esempio
Insegnante: Vediamo, qualche definizione per esempio. Carlo dammi una definizione di poligono. Intanto,
come lo definiresti un poligono? Allora…
Carlo: …. (rimane in silenzio)
Insegnante: Allora…Carlo.. un poligono. Disegnalo, disegna un poligono. Vediamo dalla rappresentazione
grafica di capire come potremo definirlo, disegna un poligono qualsiasi, disegnalo.
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studente al proprio ruolo, dunque l’interpretazione degli scarti in chiave di
impossibilità/incapacità, piuttosto che di uscita dal ruolo.
Disegnalo, disegna un poligono. Vediamo dalla rappresentazione grafica di capire come
potremo definirlo, disegna un poligono qualsiasi, disegnalo. Questa iniziativa discorsiva si
presta ad un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, sembrerebbe conseguente alla
precedente sollecitazione e volta a rinforzarne il senso. E’ come se l’insegnante assumesse ed
agisse – realizzandola tramite l’azione - un’idea di questo tipo: “Carlo accetta di essere
interrogato, ne comprende il significato; se sta in silenzio è perché si riconosce non in grado di
produrre la performance che egli stesso considera adeguata al ruolo”. Il silenzio di Carlo in
questo modo assume il valore di un’adesione al ruolo, al contempo assoluta e paradossale: Carlo
è così identificato con il ruolo che si impedisce di parlare in quanto sente di non avere nulla da
dire di adeguato. Ovviamente sono possibili anche altre letture di questo pattern comunicativo.
Tuttavia, quella che stiamo perseguendo risulta coerente con il successivo sviluppo
dell’iniziativa discorsiva dell’insegnante. Interviene infatti un doppio salto, che nei fatti
modifica il frame precedente, sostanziato dalla routine dell’interrogazione. Il primo salto
avviene con il recupero di una diversa procedura/area dell’identità di ruolo. La sollecitazione a
disegnare, infatti, modifica il senso stesso dell’interazione, che a questo punto non si configura
più come un controllo sull’apprendimento acquisito relativamente ad una capacità/conoscenza
discreta e circoscritta, ma come induzione di un processo di costruzione di conoscenza. Se si
vuole, si è prodotta un’uscita dal frame |interrogazione|; oppure, si è trasformato tale frame in
modo che incorpori un diverso contenuto di attività. Tale salto si associa all’emergere di un
nuovo posizionamento, richiamato dall’uso della prima persona plurale e di una formulazione
aperta, esortativa piuttosto che imperativa (Vediamo come potremo definirlo). A questo punto
non vi è più un insegnante opposto ad uno studente di cui controllare il possesso di una certa
qualità, ma un soggetto collettivo (un noi) che sta impegnandosi in uno sforzo condiviso volto
ad ottenere un risultato il cui incerto riscontro (si veda in proposito l’uso del “potremo” in
chiave condizionale) attesta ulteriormente il valore dell’investimento esercitato.
Qualche commento
Ciò che ci sembra interessante è il fatto che il processo di coordinamento della reciprocità
che abbiamo testè analizzato viene messo in atto attraverso procedure di microregolazione del
significato che non implicano negoziazioni esplicite del senso, ma piuttosto si esercitano attraverso
76
l’incessante, non intenzionale ed implicita attribuzione performativa di valore comunicativo al
posizionamento dell’altro.
Ad esempio, come abbiamo visto, l’insegnante ridefinisce il frame non come risposta al
contenuto comunicativo di Carlo (il suo silenzio), ma in ragione della propria riorganizzazione del
senso nei termini della quale incorpora nel proprio sistema di significati la condotta dell’allievo. In
definitiva, ogni attore è al contempo chiuso nella propria autoreferenzialità interpretativa ed al
contempo capace di entrare in rapporto microregolativo con l’altro.
Per quanto limitati, i due esempi discussi in questa e nella precedente lezione
illustrano in modo sufficientemente chiaro come la cultura educativa implicata in
questo scambio tratti la soggettività dei partecipanti (intesa in senso lato come
l’insieme dei mondi di significato che mediano/organizzano l’esperienza che essi
fanno del setting formativo e della loro partecipazione al suo interno) come
eteroregolabile ed allo stesso tempo come una componente data del format didattico
(Salvatore, Scotto di Carlo, 2005).
77
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 4
Come è stato da più punti di vista osservato, nella società “complessa” (Luhmann, De
Giorgi, 1992) e iperdiferrenziata, a venir meno non sono solo gli a priori culturali fondanti l’agire
educativo, ma i sistemi di significato che fondano l’agire sociale e l’investimento sui principi, le
regole, i domini di valore di cui le istituzioni (anche quelle scolastiche) sono in parte espressione.
La scuola si confronta con un’utenza composita e differenziata nelle sue attese, caratteristiche e
modalità di declinare la partecipazione alla vita scolastica (Carli, 2001), come a quella comunitaria
più ampia (Ferrari Occhionero, 2001); differenze che evidenziano come la categoria |studente| sia
un’astrazione che non rende conto della pluralità dei sistemi di senso che l’attraversano ed
organizzano l’identità dei soggetti che tramite tale classe di significato sono denotati; sistemi di
78
senso che spesso appaiono incompatibili con le tradizionali regole del gioco fondanti i processi di
apprendimento e di lavoro collettivo.
Il dibattito accesosi attorno all’opportunità o meno di mantenere il crocifisso nelle aule
scolastiche, è solo uno degli indizi che informano sulla difficoltà ad assumere lo studente in termini
di radicale alterità, tale non necessariamente in quanto diverso da un punto di vista etnico o
religioso, ma perché difficilmente riducibile alle condizioni istituite del setting di insegnamento-
apprendimento.
79
piuttosto considerati dei contenuti attraverso cui i locutori interagiscono, esercitano i propri modelli
formativi e di rapporto in ragione della contingenza delle circostanze in cui sono iscritti.
Discuteremo nel prossimo paragrafo i presupposti teorici che motivano l’assunzione di una
tale prospettiva, per poi suggerire quali modelli formativi la possano sostanziare.
Il modello del setting istituente fa proprio il punto di vista – sostenuto da diverse aree del
pensiero psicologico contemporaneo – secondo cui il processo di insegnamento-apprendimento non
può essere configurato come un semplice processo di trasmissione-acquisizione di dati: la mente
non elabora pacchetti informativi ma significati (Bruner, 1990); significati che non sono proprietà
degli oggetti ma del loro incontro con i dispositivi semiotici degli attori che li interpretano, li
qualificano, li utilizzano e in questo senso li generano, in modo particolare ed idiosincratico
(piuttosto che riproduttivo ed universalistico), in ragione dei contesti locali di identità e attività in
cui sono inscritti (Harré, Gillett, 1994; Valsiner, Van der Veer 2000).
L’insegnante, da questo punto di vista, può offrire condizioni e modalità di esercizio alla
funzione di apprendimento (definendo/selezionando/organizzando le condizioni su cui il processo
ermeneutico si dispiegherà) ma non ne definisce gli esiti (Salvatore, Scotto di Carlo, 2003). Così ad
esempio, la proposta attivabile da parte di un docente di lavorare in gruppo, non esiterà, in due
classi differenti, necessariamente in uno stesso tipo di lavoro di gruppo, dipendendo dal senso con
cui la classe, cui la proposta è rivolta, interpreterà questo mandato.
E’ rilevante osservare che - come evidenziato da una molteplicità di fonti di letteratura
psicologica tale senso non è sostanziato dal significato attribuito all’oggetto discreto
80
dell’esperienza; al contrario, tale significato è il riflesso del valore più generale di connotazione
globale del contesto interpersonale, organizzativo, sociale, istituzionale entro cui ed in ragione del
quale si realizza l’esperienza dell’oggetto. Ad esempio, una rappresentazione della propria
esperienza di studente – dunque dell’ambiente didattico nel suo complesso- come insieme di
adempimenti favorirà una interpretazione di ciò che in esso si incontra e si fa nei termini di attività
o regole cui aderire o non aderire, piuttosto che, ad esempio, nei termini di operazioni su cui
investire in funzione dell’utilità che rivestono.
Ai fini del nostro discorso, è utile evidenziare come la tesi della contestualità e situatività dei
significati abbia importanti implicazioni metodologiche nel processo di insegnamento-
apprendimento:
viene meno l’idea di una istruttività intrinseca dello stimolo didattico (Salvatore,
Scotto Di Carlo, 2005): i contenuti trasmessi dall’insegnante non vengono ricevuti e acquisiti dagli
allievi con gli stessi criteri e la stessa intenzionalità con cui sono messi in campo; lo studente si
rapporta infatti a qualsiasi segno prodotto dal docente attraverso la mediazione dei sistemi di
significato (modelli culturali, simbolici, cognitivi) di cui dispone;
viene meno l’idea di saperi e tecniche il cui valore d’uso e la cui applicabilità siano
senza tempo e senza luogo - validi dunque per tutti, ubiquitariamente e per sempre,
indipendentemente dal contesto (interpersonale, organizzativo, sociale, istituzionale) e dalla
dinamica di scambio in cui il loro impiego viene proposto.
In sintesi, il riconoscimento del carattere contingente del significato rende assai incerta
l’efficacia di una strategia formativa fondata su di una concezione istruttiva o procedurale del
processo di insegnamento: la prima, che si declina in termini informativi, non tiene in debito conto
l’autonomia interpretativa dei fruitori; la seconda, che si configura come correzione degli schemi
che presiedono la selezione e l’organizzazione delle informazioni, ignora la natura contesto-
specifica del valore dei modelli che vengono proposti ad oggetto dell’apprendimento.
Il docente si trova in un situazione peculiare, per certi versi paradossale: da una parte è sua
funzione specifica (istituzionalizzata dal mandato sociale) quella di creare apprendimento; non può
dunque inscrivere la propria azione professionale all’interno dei modelli e delle premesse di cui gli
allievi sono portatori, assimilandosi cioè al loro universo simbolico, rincorrendo le loro fantasie e
attese di rapporto; dall’altra, allo stesso tempo, non può operare malgrado il proprio “cliente” (e i
sistemi di appartenenza cui si riferisce), imponendo in modo normativo il proprio punto di vista
81
educativo su cosa e su come sia utile/opportuno/necessario pensare, essere, fare entro il setting
formativo. Come diverse aree disciplinari (non solo pedagogia, ma anche epistemologia,
antropologia, sociologia, psicologia, biologia) hanno evidenziato, non è possibile infatti prescrivere
i modelli simbolici che governano il modo degli attori di interpretare il proprio ruolo e il contesto in
cui sono inscritti.
In questa sede non vogliamo limitarci a segnalare simile paradosso, del resto sperimentato
quotidianamente dagli insegnanti in termini di incertezza, insoddisfazione, senso di impotenza. Per
individuare una prospettiva di sviluppo è d’altra parte opportuno tenere in conto un principio
teorico-metodologico generale: l’attività semiotica di interpretazione-costruzione di significato
degli attori se da un lato è autonoma, dall’altro è comunque vincolata ed esercitata entro, a partire
e nei termini delle categorie che il contesto culturale mette a disposizione. In altri termini, se va
riconosciuto che ogni individuo pensa e parla in ragione dal proprio universo interpretativo, è
altrettanto opportuno rilevare che per esercitarli utilizza le categorie (cognitive ed affettive) e i
registri narrativi che trova disponibili entro il contesto. L’autonomia semiotica del soggetto si
alimenta di risorse simboliche che il soggetto si abilita ad utilizzare in ragione del proprio essere
parte di un sistema di appartenenza (dunque di una cultura).
In questo senso il modo dello studente di rappresentar(si), connotar(si), narrar(si)
l’esperienza, è sempre rappresentazione/narrazione di secondo grado, vincolata agli ambiti di
significazione e ai gradi di libertà che l’insegnante, attraverso i dispositivi organizzativi (i contenuti
dei compiti richiesti, il modo di presentarli, le forme di rapporto che propone agli allievi,
l’organizzazione spazio-temporale dei lavori, ecc) gli mette a disposizione.
Come abbiamo provato ad evidenziare nell’analisi del trascritto proposte nelle precedenti
lezioni, l’azione didattica del docente si pone infatti non solo come veicolo ma come inveramento di
criteri di adeguatezza e di interpretazione del ruolo. Si pensi al silenzio di Carlo, lo studente cui
l’insegnante di matematica chiede la definizione di poligono. Interpretarlo, attribuendogli un
significato nei termini del proprio frame interpretativo è una delle azione che il docente aveva a
disposizione; un’alternativa, in alcuni casi meritevole di esplorazione, è di assumere come oggetto
del discorso il discorso stesso; in altri termini non agire il significato derivante dall’assimilazione
della posizione dell’altro, ma usare tale segno (nel caso: il silenzio) come un pretesto che permetta
di sviluppare il livello di negoziazione condivisa del senso di ciò che sta avvenendo, dunque più in
generale del contesto che organizza tale senso.
82
Si tratta in definitiva di svolgere fino in fondo l’implicazione legata al riconoscimento del
carattere negoziale e situato del significato. La conoscenza non è un lavoro o un bagaglio cognitivo
individuale ma un prodotto che emerge in spazi specifici (situati) di intersoggettività, dove
relazionalmente e discorsivamente gli attori costruiscono versioni e rappresentazioni condivise di
quanto stanno facendo e realizzando insieme. Il contesto educativo – da questo punto di vista - è
esso stesso un evento di costruzione sociale, cui anche l’insegnante partecipa, proponendo,
incoraggiando, alimentando, convalidando (in un modo o nell’altro) premesse e criteri di rapporto.
Può essere allora un importante spazio di lavoro per il docente la creazione di dispositivi che
consentano di promuovere i segni scambiati nella relazione educativa nella loro qualità di
significato compatibile con gli obiettivi di apprendimento che il progetto formativo intende
veicolare.
83
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 5
L’insegnante può sviluppare la salienza simbolica del setting formativo nella misura
in cui lo configura come veicolo non solo di pensieri-già-pensati ma da pensare,
ovvero nel momento in cui organizza situazioni e stimoli, che oltre a funzionare da
contenitore delle pratiche di insegnamento/apprendimento, operino come pre-testi
per generare significati e contesti di riflessione. Il che significa valorizzare e porre
attenzione non solo al testo da apprendere, ma anche al contesto in cui e attraverso
cui esso viene appreso; non solo all’esito ma anche al processo che genera
apprendimento, dando voce alla relazione in cui si inscrive.
84
riconoscimento. Il suo prodotto cognitivo e relazionale è la pratica socio-semiotica dell'estraneità.
Dove per “estraneità” intendiamo un modello di relazione simbolica con l'oggetto che lo tratta come
non immediatamente dato, scontatamente ri-conoscibile (Montesarchio, Crotti, 1993; Paniccia,
2003).
Evidentemente, la pratica del setting istituente richiede metodologie di lavoro specifiche,
strutturanti ed al contempo flessibili, che permettano al setting stesso di configurarsi come un testo
“aperto”, da costruire, da esplorare, sperimentare, costantemente passibile di ristrutturazione. In
questo senso il processo educativo è insieme progetto ed esperienza. In quanto progetto, è
caratterizzato da finalità, che lo sottraggono alla causalità; in quanto esperienza, è un viaggio non
scontatamente prescritto da regole date, continuamente passibile di revisione, in funzione di ciò che
appare utile, interessante o significativo in quel momento, in quel contesto
In quest’ottica ci pare di poter leggere l’insistenza oggi sulla necessità di una cultura dei
processi formativi che si apra ai vissuti e alle narrazioni (Montesarchio, Marzella, 2002;
Montesarchio, Venuleo, 2003; Freda, 2004; Di Vita, Granatella, 2006), intese non come spazio altro
dall’apprendimento, ma come riconoscimento del ruolo giocato dai dispostivi semiotici degli allievi
e della possibilità di procedere attraverso e non malgrado le teorie sulla relazione, sul ruolo di
studente, di insegnante, sull’uso del processo formativo, che la loro domanda esprime.
Esplicitare tali teorie- gli assunti posti in premessa - non è operazione fine a se stessa;
significa creare un contesto in cui i codici di riferimento possano essere attraversati, elaborati,
pensati. E ciò a partire dal punto di vista per cui il processo di insegnamento ha valenza formativa
non solo nella misura in cui in esso si mobilitano determinati contenuti, ma in quanto capace di
configurarsi come contesto di produzione di senso, dunque dispositivo interpretante della
esperienza di presenza nel mondo degli attori implicati non solo interpretabile.
Il setting negoziale non implica insomma un appiattimento sui linguaggi contestuali degli
studenti; se così fosse, pur promovendo la loro partecipazione, verrebbe meno nella sua principale
valenza di motore di sviluppo dei loro modelli di conoscenza. Esso fa proprio piuttosto il punto di
vista per cui l’efficacia del processo di insegnamento è legata alla sua capacità di incrementare la
pensabilità/rappresentabilità/narrabilità dell’esperienza scolastica e dell’identità di ruolo dello
studente, operando come contesto di natura perturbativa, che permetta al contempo di:
85
• sfidare la tenuta delle premesse che ne fondano l’organizzazione (le condizioni di
validità/felicità, le implicazioni);
• sostenere metodologicamente i tentativi di ristrutturazione concettuale con i quali essi
rispondono alla perturbazione del precedente assetto (Salvatore, Scotto Di Carlo, 2005).
• In quest’ottica, l’azione dell’insegnante si muove entro i vincoli delle premesse
(cognitive, affettive, simboliche) proposte dal formando e ne promuove al contempo lo
sviluppo, rendendo visibili, parlabili, dialogabili le risorse simboliche che lo possono
alimentare.
Prospettive formative
È questa un’operazione culturalmente nuova per la scuola e la funzione docente. Può essere
infatti osservato come fino a qualche tempo fa, all’insegnante non competeva trattare il contesto di
declinazione della propria azione professionale; tale contesto poteva costituire un fattore di disturbo
o di vincolo del processo di insegnamento; tuttavia non era, per “mandato” oggetto di regolazione
86
da parte del docente cui competeva il controllo degli esiti di quanto insegnato, non la responsabilità
dei risultati raggiunti (Cfr. Morozzo della Rocca, 1993). L’insegnante era legittimato a ragionare in
termini di contesto istituito (Mehan, 1978).
87
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica - Bibliografia
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90
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 1
Secondo quanto discusso nella seconda unità, i saperi non sono costituiti da repertori di
conoscenze, ma dal modo con cui i soggetti organizzano le informazioni entro modelli di
rappresentazione della realtà e di attribuzione di senso all’esperienza. La conoscenza, in questi
termini, non risiede nei dati, ma nel rapporto tra dati e soggetto.
Questa concezione costruttivista critica la logica incrementalista dell’insegnamento come
azione volta a produrre/favorire l’accumulo di informazioni nella mente/contenitore del discente
(De Beni 1994). Ricordiamo come a tale concezione classica si contrappone la visione
dell’insegnamento come azione di stimolazione ed al contempo di supporto agli allievi impegnati
nella costruzione e organizzazione delle conoscenze.
Il soggetto discente apprende non solo e non tanto aggiungendo nuovi elementi al proprio
bagaglio di saperi, ma ristrutturando ricorsivamente le rappresentazioni del mondo e dell’esperienza
che possiede e che utilizza come mediatori semantici della relazione con l’ambiente di vita. I nuovi
elementi di sapere non si inscrivono, dunque, in un vuoto; ma entrano nel sistema di conoscenze più
complessivo proprio dell’allievo. Il rapporto tra modelli mentali (la semantica propria dell’allievo) e
i saperi proposti dall’insegnamento è dunque dialettico: da un lato i modelli mentali definiscono il
significato delle informazioni, assimilandole secondo i criteri semantici che li contraddistinguono;
dall’altro, l’input, per il fatto stesso che diviene oggetto di assimilazione, può costituirsi come fonte
di ristrutturazione del sistema di conoscenze.
In quest’ottica, l’insegnamento è concepito come azione indiretta. Viene meno l’idea di una
istruttività intrinseca dello stimolo didattico (in altri termini, la fiducia nell’idea secondo la quale
l’azione didattica funzionerebbe da vettore che trasporta l’informazione nello spazio mentale, in
precedenza libero, del soggetto). Diversamente da questa visione tradizionale, la didattica
predispone situazioni di stimolazione di natura perturbativa volti a sollecitare lo sviluppo
dall’interno dell’organizzazione concettuale dell’allievo. In altri termini, situazioni pensate al
contempo per: mobilitare i sistemi di conoscenza degli allievi, sfidare la tenuta dei presupposti che
ne fondano l’organizzazione; sostenere metodologicamente i tentativi di ristrutturazione concettuale
91
con i quali gli allievi rispondono alla perturbazione del precedente assetto.
Stiamo pensando in primo luogo al tema del senso dell’esperienza di apprendimento, inteso
come oggetto, metodo ed obiettivo dell’insegnamento (De Vecchi, Carmona Magnaldi, 1996). Nella
concezione costruttivista i soggetti sono visti come operatori costantemente alle prese con
l’esigenza di dare significato all’esperienza. L’apprendimento, in quest’ottica, è in se stesso
l’espressione di questa tensione ed allo stesso tempo il suo risultato. La riorganizzazione delle
conoscenze è la risposta che il soggetto produce per dare senso al dato di esperienza con cui si
incontra/scontra. In definitiva è il senso che egli attribuisce a tale dato: il nuovo rapporto semantico
che istituisce con quel determinato segmento di esperienza/realtà.
Sulla motivazione
Val la pena per inciso evidenziare come questa concezione inscriva nella struttura stessa del
processo/esperienza di apprendimento la dimensione motivazionale. Essa in questo senso implica
una critica netta di due approcci al tema della motivazione che trovano ampia diffusione nel
comune sentire didattico. Da un lato, l’idea della necessità di integrare/diluire il lavoro di
apprendimento con momenti compensativi (di tipo ludico/espressivo) pensati con finalità
motivazionali. Una idea, questa, che presuppone il carattere intrinsecamente non motivante (se non
demotivante) dell’esperienza di apprendimento scolastico, per questo motivo da equilibrare con
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iniezioni di elementi di gratificazione extradidattica, volte a riprodurre (dunque contenere) entro il
processo di insegnamento-apprendimento l’esperienza di uscita dal contesto scolastico. Dall’altro,
una visione strumentale dell’apprendimento, in base alla quale può risultare sensato per l’allievo
solo quella conoscenza e quei processi di apprendimento che risultino spendibili entro lo spazio di
vita dell’allievo.
Queste due idee di motivazione sono tra loro evidentemente diverse. Esse tuttavia
condividono un assunto comune: l’idea che il senso non sia immanente all’apprendimento e che per
questa ragione vada alimentato in maniera vicariante, vuoi come indotto delle componenti
prosociali e/o ludiche - comunque extradidattiche - dei contesti scolastici, vuoi come connotazione
di spendibilità dei suoi risultati.
Per certi versi, si potrebbe dire che lo stesso costrutto di motivazione presupponga e si
giustifichi sulla base di questa frattura tra senso e apprendimento: si può infatti parlare di
motivazione all’apprendere nel momento in cui in sé l’apprendimento non è un processo
intenzionale, cioè immanentemente legato al suo oggetto (forse non a caso, in semiotica questa
relazione immanente tra significante e significato viene definita “motivazione”).
Come si vede, alla base di diverse di queste modalità vi è una strategia volta a permettere
all’allievo di confrontarsi con i limiti dei propri modelli, in modo da provocare una rottura
dell’assetto cognitivo dato, un indebolimento della sua forza assimilativa, come presupposto per il
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raggiungimento di un livello più competente di equilibrio.
L’errore
L’interesse si sposta in questo senso dalla valutazione della distanza tra comportamento
atteso e comportamento reso, alla comprensione del modo con cui l’allievo organizza la propria
rappresentazione della realtà, per come essa si riflette nella performance.
In altri termini, l’errore viene ad essere interpretato come presenza di uno specifico modello
implicito di conoscenza, i cui presupposti orientano le modalità e gli esiti (per quanto idiosincratici
possano essere) dell’elaborazione dei saperi di cui il discente è protagonista.
Operare in tale direzione significa muoversi su un doppio registro: da un lato, con una
funzione decostruttiva, volta a favorire l’esplorazione da parte del discente dei limiti semantici del
suo modello di conoscenza. A tal fine il docente proporrà situazioni di impasse, di rottura, che
sollecitano l’attivazione dei presupposti critici, e al contempo permettono di evidenziarne la
fallacia; dall’altro, con una funzione costruttiva, volta a sostenere la ristrutturazione da parte
dell’allievo del campo di conoscenze e della sua organizzazione concettuale (Maccario, 1999).
L’approccio metodologico ora delineato presuppone una visione “a salti”
dell’apprendimento. La conoscenza secondo una sequenza di rotture e ristrutturazioni, dove
l’equilibrio raggiunto non sostituisce, ma potenzia la condizione precedente.
Merita di essere segnalato, come indicativo di questo approccio, il concetto di campo di
validità (De Vecchi, Carmona Magnaldi, 1996): ogni fenomeno, naturale o storico, può essere
teorizzato a diversi livelli di concettualizzazione.
Piuttosto che in rapporto ad un criterio di verità assoluto, ciascuna teoria (per quanto ci
interessa, qualsiasi teoria proposta dall’allievo) può essere interpretata come un livello di
formulazione dotato di un determinato campo di validità.
Il campo di validità costituisce dunque allo stesso tempo il vincolo e il senso della teoria
formulata. Da un punto di vista, infatti, esso è interpretabile come l’ambito di coerenza entro cui
può legittimamente muoversi il ragionamento dell’allievo, per come viene ad essere definito dai
presupposti impliciti da cui egli parte.
Da un punto di vista complementare, tuttavia, il campo di validità di una formulazione è
dato dal rapporto che si stabilisce tra l’allievo e le esigenze/domande cognitive del contesto
(compiti di apprendimento, forme di esperienza, modalità cognitive).
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In questo senso, il campo di validità di una formulazione sta nel tipo di operazioni
semantiche che tale formulazione permette al discente di realizzare, nella coerenza tra queste
operazioni e le richieste del contesto. Come si può vedere, il concetto di campo di validità
sostituisce ad un criterio “ortopedico” assoluto di verità, una visione contingente, funzionale e
dinamica della conoscenza.
Contingente, in quanto parametra le performance del discente al contesto entro cui ed in
funzione del quale si realizzano; funzionale, in quanto adotta come criterio di validità la capacità
della formulazione di sostenere la presenza nel mondo del soggetto; dinamica, in quanto concepisce
l’apprendimento come processo di approssimazioni successive, cadenzato dall’acquisizione di
livelli progressivi di organizzazione concettuale.
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 2
In questa lezione esponiamo alcuni principi metodologici e criteri operativi utilizzabili dagli
insegnanti per organizzare e gestire in chiave negoziale l’attività formativa. Quanto discusso
nella precedente unità costituisce lo sfondo concettuale di riferimento per i suggerimenti in
questa sede proposti.
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Un contesto di attività si rende interpretante se è strutturato in modo che ciò che si
realizza in ed attraverso di esso ha un valore-di-vita per gli attori in esso implicati.
Riferendoci in particolare al mondo della scuola, lo sviluppo del valore-di-vita delle
attività del contesto di insegnamento-apprendimento implica tre componenti di
processo.
Non è sufficiente motivare gli atti. E’ anche necessario promuovere una rappresentazione di
questi secondo un modello motivazionale funzionale. A tal fine vanno contrastate tre tendenze che
tendono a caratterizzare la microcultura dei contesti di apprendimento. Bisogna in primo luogo
evitare la connotazione in chiave adempitiva degli atti, sia quelli prodotti dall’insegnante, sia quelli
attesi a carico dello studente. In altri termini, l’ambiente di insegnamento-apprendimento deve
essere quanto più possibile libero da logiche del tipo: “mettiamo in atto questo comportamento
perché così è scritto che si faccia e noi dobbiamo assolvere a tale prescrizione”.
L’adempitività è uno strumento simbolico potente nell’organizzare i comportamenti nel
breve periodo, in quanto risolve alla radice il problema del senso da dare ai comportamenti. Ma ha
una controindicazione particolarmente insidiosa: deresponsabilizza gli attori della relazione
educativa, in quanto ancora il significato di quanto accade entro tale relazione ad un principio di
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autorità esterno, al quale tanto il docente che gli allievi sono tenuti ad aderire. In questo senso, in
definitiva ritualizza le attività e disarma il docente della sua capacità di organizzare il setting
formativo.
L’altra tendenza da evitare è quella di trattare in chiave di potere la relazione educativa.
Anche il potere è uno strumento, in alcune circostanza assolutamente necessario. Ma ovviamente
laddove la relazione educativa è organizzata in chiave di potere non vi è spazio per la negoziazione
e più in generale per dare senso condiviso a quanto accade entro il setting formativo. Vanno del
resto operate una serie di distinzioni. In primo luogo, va distinta la motivazione di potere dalle
circostanze in cui il docente usa il proprio potere di ruolo per rafforzare la propria proposta didattica
ed organizzativa.
In altri termini, vi è una notevole differenza tra un atteggiamento del tipo: “si fa così perché
così ho io deciso” (il potere come sostanza della motivazione) ed uno del tipo: “si fa così per questi
motivi, che sono disposto ad esplicitare, ma che una volta definiti io ho la facoltà di considerare
vincolanti”. In questo secondo caso il potere del docente non è la motivazione della sua decisione,
ma uno strumento organizzativo per realizzarla. In secondo luogo, vale la pena evidenziare come vi
sia una differenza tra l’autorità del docente esercitata in termini promozionali o vincolanti.
Abbiamo già chiarito che cosa intendere per performatività: ogni atto del docente – così
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come degli allievi – non veicola solo il significato che contiene e che intende proporre, ma anche un
senso più generale concernente le premesse implicite su cui esso si fonda.
L’analisi dello scambio comunicativo tra docente e classe proposta nella precedente unità
dovrebbe aver chiarito questo punto. Inoltre, tale senso più generale non necessariamente, anzi
quasi mai è esplicito e chiaro a chi lo propone e chi lo riceve. Al contrario, in genere è implicito e
viene raccolto inconsapevolmente, anche se risulta un organizzatore potente della relazione
educativa.
Da qui la necessità per il docente di controllare ed analizzare in modo sistematico le
implicazioni performative del proprio agire, così come quelle dei propri allievi. Per fare ciò
l’insegnante dovrà chiedersi: “Quali presupposti che tendo a considerare ovvi rendono quanto sto
facendo e dicendo sensato?”. Sono appunto tali presupposti a rappresentare il senso performativo.
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 3
Ulteriori criteri
Spesso i docenti non esplicitano le ragioni che sono alla base delle loro decisioni e dei loro
comportamenti in classe. Per un verso ciò è dovuto al fatto che nella quotidianità delle attività
scolastiche si definiscono routine e modi di fare che tendono ad essere esercitate in modo quasi
automatizzato; per altri versi, ciò dipende dal fatto che l’insegnante può considerare tali ragioni
legate alla propria professionalità, riflesso delle procedure operative organizzanti la didattica,
dunque non attinenti la relazione con gli allievi.
Tuttavia, esplicitando e motivando le proprie decisioni in modo sistematico – anche se non
necessariamente capillare – l’insegnante potrà perseguire due obiettivi complementari: da un lato,
sul piano performativo, veicolerà l’idea della vita scolastica come di un mondo sensato, dove le
azioni sono governate da criteri sistematici al contempo pubblici ed ostensibili; dall’altro, favorirà
l’implicazione degli allievi nella relazione educativa, rendendo maggiormente comprensibile il
contesto della loro esperienza, al contempo diminuendo la possibilità di interpretazioni distorte,
elaborate dagli allievi in modo autonomo, secondo i modelli di significato propri della loro cultura.
Spesso gli insegnanti pensano alla relazione educativa e alla gestione dei processi formativi
in modo puntuale e diretto. In altri termini, si aspettano che le configurazioni attese di tali processi
debbano discendere da loro interventi ed essere in connessione diretta, se non immediata, con le
loro azioni in tal senso. In realtà il gruppo classe è un sistema complesso, difficilmente governabile
secondo simile logica lineare. Il docente deve dunque operare tenendo conto anche di una diversa
possibilità metodologica: in diverse circostanze, i comportamenti e le condizioni che l’insegnante
ritiene utile perseguire possono essere non il risultato immediato della sua azione, ma la
conseguenza di processi comunicativi ed organizzativi che egli/ella può mettere in moto.
Facciamo un esempio: l’insegnante può ritenere necessario selezionare un certo allievo per
un determinato compito. Secondo la logica lineare, andrà ad individuare direttamente l’allievo in
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questione, esplicitando o meno i criteri della selezione. Secondo la logica che stiamo qui
sottolineando, può sollecitare una discussione tra gli allievi, lasciando a loro la decisione, al
contempo fornendo loro i criteri sulla base dei quali operare la scelta.
La possibilità per la classe di dare senso all’esperienza è legata in modo rilevante a quanto
tale esperienza si renda disponibile ai soggetti in modo comprensibile. Tale comprensibilità è
ovviamente in parte, come abbiamo detto, il frutto della capacità dei docenti di chiarire i criteri che
organizzano l’organizzazione delle attività; allo stesso tempo, dipende dalla sistematicità e
prevedibilità dell’ambiente di apprendimento.
Il docente deve dunque avere cura di individuare parametri, principi e criteri che rimangano
stabile sia tra le diverse circostanze e soggetti che nel tempo; al contempo dovrà rendere evidente
tale sistematicità, mettendo in luce come anche in circostanze che sembrano differenziarsi vadano
interpretate come espressione/riflesso degli stessi principi. Allo stesso modo, è utile che
l’organizzazione delle attività sia pensata su scale temporali differenti e complementari, in modo
che gli allievi abbiamo un’idea chiara sia di come le attività si andranno a dispiegare nel medio
termine, così come nel breve. La mancanza di prevedibilità dei contesti è infatti un fattore di perdita
di senso e passivizzazione molto potente.
La negoziazione
Ovviamente non tutto quanto accade entro un setting formativo può essere oggetto di
negoziazione tra docente e discenti. Ciò tuttavia non toglie la possibilità per l’insegnante di
individuare in ogni circostanza aspetti che possono essere concordati con il gruppo classe e/o con
gli studenti interessati. Nessuna circostanza è infatti monolitica: è sempre organizzabile e
rappresentabile in modo da lasciare spazio ad aspetti sui quali può esercitarsi la discrezionalità ed
intenzionalità degli allievi.
Tale principio si presta ad essere applicato a tutti i livelli scolastici, ovviamente in modi
differenziati in ragione dell’età degli allievi. Ad esempio, immaginiamo un’attività che l’insegnante
ha necessità di realizzare per perseguire gli obiettivi programmati. E’ chiaro che se tale attività è
indispensabile, la sua realizzazione non può essere oggetto di negoziazione, ma solo di
102
esplicitazione delle motivazioni (vedi dopo).
Tuttavia, la predisposizione di simile attività implica anche la definizione dei tempi, delle
modalità, delle forme operative con cui realizzarla. Sarà dunque cura dell’insegnante individuare
all’interno di questi aspetti gli elementi che possono essere concordati con gli allievi.
L’esplicitazione
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aspetto interessante, anche perché dal mio punto di vista non è così. Come mai la pensi in questo
modo? Vogliamo provare ad approfondire questo punto”.
104
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 4
In questa e nella prossima lezione presentiamo alcuni criteri che gli insegnanti possono
utilizzare nell’osservazione ed interpretazione dei processi che intervengono nell’attività didattica,
ed in particolare nel caso di eventi critici che interrompono il normale funzionamento del setting,
proponendosi come problemi da comprendere e sui quali intervenire.
In questa lezione ci soffermiamo su alcuni criteri di tipo procedurale. Si tratta di principi
relativi alla logica dell’analisi del caso:
distinzione tra dato e ipotesi;
distinzione tra explicans/explicandum;
prova del giornalista;
distinzione tra descrizione funzionale, spiegazione, interpretazione;
criterio della variabilità;
E’ questo un criterio tanto ovvio quanto poco utilizzato entro le analisi dei casi. In linea
generale, si tratta di non confondere la lettura di un determinato fenomeno con il fenomeno stesso.
Infatti, se è vero, in un’ottica costruttivista, che non esistono dati ma interpretazioni, è altrettanto
vero che alcune interpretazioni esprimono un livello di inferenza meno accentuato di altre; se si
vuole, rimangono più vicine all’esperienza.
Nella maggior parte dei casi, il resoconto di casi critici connessi a comportamenti e
circostanze psicosociali è giocato in termini di costrutti, spesso legati a dimensioni interne, tuttavia
utilizzati in modo reificato, come se si trattasse di stati di realtà autoevidenti. Si pensi al riferimento
a concetti quali: “essere legato a”, “non stare alle regole”, “essere aggressivo”, “non avere voglia di
studiare”, “assumere un comportamento provocatorio”. Concetti che vengono spesso utilizzati come
descrittori, mentre in realtà costituiscono generalizzazioni, fondate su interpretazioni, che
raccolgono ed omogeneizzano un insieme anche diversificato di circostanze.
105
Distinzione tra explicans/explicandum
Questo criterio è complementare al precedente. Accade non di rado che dinanzi al tentativo
di giungere ad una ipotesi interpretativa di un determinato comportamento o circostanza, si
individui come soluzione una descrizione generalizzata del comportamento stesso, attribuendole lo
statuto di causa esplicativa. Ad esempio, è come se si dicesse che una persona si comporta
aggressivamente perché è aggressiva, oppure che non va a scuola perché demotivato; così facendo,
attraverso la traduzione linguistica del dato fenomenico in una condizione disposizionale, si
trasforma ciò che deve essere spiegato (la descrizione funzionante da explicandum) in ciò che
spiega (l’ipotesi funzionante da explicans).
Spesso la distinzione tra descrizione e interpretazione non è agevole. Ciò è particolarmente
evidente nei casi in cui la descrizione non coincide con la mera presentazione del dato di fatto, ma
con una sua iniziale elaborazione (ad esempio in termini di sintesi, di recupero di aspetti impliciti).
In casi del genere, è facile attribuire a tali descrizioni valenze esplicative; in altri termini, trattarle da
quasi-interpretazioni.
Chi scrive ha verificato in diverse circostanza di supervisione questo slittamento logico-
metodologico; uno slittamento che spesso prende la forma di una trasformazione del dato
comportamentale in descrizione di uno stato interno corrispondente, dunque in una assunzione di
tale descrizione come fattore determinante. Del tipo: “il gruppo ha attaccato il suo membro X
(comportamento) perché sentiva verso di lui aggressività (riferimento a stato interno)”.
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ulteriormente l’analisi. Il docente è infatti chiamato a formulare interpretazioni che vadano al di là
del senso comune.
Si tratta di un principio generale, che tuttavia può essere di utile riferimento nell’analisi dei
casi.
Con spiegazione si vuole qui intendere la logica di analisi volta a ricercare cause -
disposizionali o situazionali che siano - determinanti del fenomeno.
La descrizione funzionale è invece orientata alla ricerca della funzione che assolve il
fenomeno nell’economia complessiva del sistema sottoposto ad esame; una sua
variante è l’analisi che ricerca i moventi intesi come scopi/piani perseguiti dai
soggetti. Con interpretazione intendiamo invece l’analisi volta a rilevare il
significato che determinati atti/fenomeni hanno per chi li produce e/o per gli altri
attori implicati.
Prendiamo ad esempio un caso di uno studente che abbandona la scuola. Ipotizzare che tale
evento sia legato alla mancanza di prerequisiti nello studente, è, secondo la tipologia appena
proposta, una spiegazione, cioè: l’individuazione di una causa di cui l’abbandono costituisce
l’effetto. Ipotizzare che il comportamento di uscita serva al soggetto per evitare la frustrazione di un
inserimento in un contesto fortemente normativo, costituisce una descrizione funzionale, in quanto
indicativa della funzione svolta dal comportamento entro il rapporto studente-scuola. Leggere
nell’abbandono il senso di un riconoscimento dell’ estraneità del contesto scolastico rispetto al
proprio contesto di identità e di appartenenza costituisce invece un’interpretazione, cioè una
modellizzazione del fenomeno come espressione di un significato connotante la partecipazione del
soggetto al contesto scolastico.
Come ha mostrato l’esempio, la distinzione tra i tre modelli di analisi è per certi versi sottile
e comunque implica una elaborazione del senso comune, portato a confonderle. La distinzione,
d’altra parte, non comporta una preferenza per uno dei modelli: si tratta piuttosto di mantenere
coerenza nel procedere dell’analisi.
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Criterio della variabilità
Questo principio propone di verificare la stabilità del fenomeno oggetto del caso critico, in
modo da vedere quali siano le condizioni di contesto che si associano ad esso e che dunque possono
essere assunte dall’analisi. Alla base di questo criterio vi è l’idea che raramente un determinato
fenomeno comportamentale si presenta in modo stabile ed invariante tra le diverse circostanze; di
conseguenza, cogliere come un determinato fenomeno vari nel tempo e nello spazio è un modo per
relativizzare le ipotesi, dunque per spostare le interpretazioni dall’evento in sé al rapporto tra
l’evento e il suo contesto.
Facciamo un esempio: si pensi agli insegnanti che pongono come problema critico
l’aggressività di alcuni degli studenti della classe, rivolta verso un altro sottogruppo della classe.
Sulla base di questo criterio, tali insegnanti proveranno ad analizzare le diverse situazioni di
funzionamento della classe, in modo da rilevare se i comportamenti aggressivi siano costanti tra i
contesti e le circostanze, o se, al contrario, si presentano in modo variabile, associandosi
prevalentemente ad alcune piuttosto che altre circostanze.
Riconoscere la variabilità del fenomeno in funzione del contesto offre una pista di analisi
che permette di orientare la ricerca delle ipotesi nella direzione della comprensione dei fattori
differenzianti i contesti a cui ricondurre la variabilità rilevata.
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 5
Questo tipo di criteri riguarda le chiavi di lettura che sostanziano il processo interpretativo.
Di seguito ci soffermiamo in particolare sui seguenti principi:
ricerca delle presenze;
lettura comunicazionale;
ricerca delle premesse condivise;
autoimplicazione delle ipotesi.
L’idea alla base di questo principio è per certi versi ovvia: i fenomeni sono legati a -
dipendenti da - eventi e situazioni attive, piuttosto che da assenze; in altre parole, ciò che accade
dipende da ciò che accade, e non da ciò che non accade. Questo principio viene spesso di fatto
contraddetto dalla tendenza a ricercare spiegazioni e interpretazioni definite in termini negativi,
come assenza di qualcosa di atteso.
Il prototipo di questo tipo di interpretazioni/spiegazioni è la demotivazione. Il “de” privativo
indica per l’appunto il fatto che tale concetto denoti l’assenza di qualcosa di assunto come
desiderabile (la motivazione). Ora, ipotizzare che alcuni problemi della scuola (ad esempio lo
scarso rendimento scolastico, gli abbandoni, il deterioramento delle modalità di partecipazione degli
studenti alla vita scolastica) siano la conseguenza della demotivazione degli studenti, significa
attribuire una capacità generativa all’assenza. Ma questa modalità di spiegazione è critica sul piano
logico, non fosse altro perché implica l’impossibilità di differenziare l’assenza di un determinato
fenomeno dall’assenza di qualsiasi altro fenomeno (tutti i fenomeni sono uguali nella loro
caratteristica di essere assenti).
Lettura comunicazionale
109
un comportamento o un insieme di comportamenti - come un atto comunicativo. In questo modo il
fenomeno non viene più ad essere considerato nel suo contenuto fattuale, dunque parametrato in
termini di realtà, ad esempio in relazione ai costi sociali e/o morali connessi, ma in quanto
espressione di un significato veicolato da un soggetto ad altri soggetti, con il primo implicato nel
contesto.
Questa chiave di lettura è particolarmente utile nei casi in cui il fenomeno da analizzare si
presenta con valenze di allarme sociale (indesideribilità-odiosità). Si pensi, ad esempio, agli episodi
di vandalismo o bullismo a scuola. E’ ovvio che tali episodi suscitino reazioni di indignazione e di
condanna sociale e morale. Tuttavia, ai fini dell’analisi, dunque dell’intervento, è utile procedere
“senza memoria e senza desiderio” (per riprendere la felice espressione di uno psicoanalista - Bion),
in modo da pervenire ad una interpretazione dell’evento quanto più possibile autonoma rispetto alle
pur legittime attese normative fondate sui valori socialmente condivisi.
In quest’ottica, torna utile leggere l’atto vandalico o di bullismo come un significante
veicolante un contenuto (un senso) rivolto al contesto (alla scuola, alla classe, ai docenti); in
questo modo si può riuscire a “mettere tra parentesi” il valore sociale del gesto per approfondirne il
significato psicologico.
Quanto fin qui detto ci porta a segnalare un aspetto a nostro avviso rilevante. Spesso
i docenti tendono a considerare più o meno problematico un determinato evento in
ragione dei costi sociali ed umani ad esso connesso. Ad esempio, un atto vandalico
che produce danni ingenti sarà, in questa logica, considerato più grave e critico di un
atto vandalico che ha prodotto danni contenuti. A nostro avviso, questa
sovrapposizione tra valutazione di senso comune (economica, etica, sociale)
dell’evento critico e valutazione psicosociale è fuorviante; anzi, concettualmente
problematica. Infatti, nella misura in cui si assume che il valore comunicativo e
dunque psicopedagogico di un atto sta nel suo significato, e che tale significato è in
rapporto aleatorio con i modi con cui viene espresso (il tipo di significante utilizzato)
(Salvatore, Scotto di Carlo), se ne deve dedurre che il valore sociale dell’espressione
non è un indicatore adeguato della valenza psicologica del suo contenuto. Se ci è
consentito l’estremizzazione, confondere/unire i due piani (significante e contenuto)
è come pensare che una certa opera letteraria (contenuto-testo) abbia valore in
ragione del valore del libro su cui è stampata (vettore materiale del contenuto-testo).
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Ricerca delle premesse condivise
Chi scrive ha più volte sperimentato quanto sia complicato utilizzare questo principio,
apparentemente semplice. Esso suggerisce ai docenti di considerare le ipotesi interpretative del caso
(in particolare le prime formulazioni) non come forme di elaborazione del caso stesso, ma come
espressione del fenomeno. In altri termini, il ragionamento e i pensieri sollecitati dal tentativo di
analizzare il caso prima di essere considerati forme di riflessione sul fenomeno, possono essere
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concepiti - ed utilizzati - come parte del fenomeno, dunque come ulteriori elementi del repertorio di
dati. E’ in questo senso che parliamo di autoimplicazione: anche il pensiero sul caso è - soprattutto
nelle prime fasi dell’analisi - parte del caso.
Sul piano operativo ciò significa che dinanzi ad una ipotesi, docenti e consulente possono
utilmente chiedersi: “Il fatto che ci sia venuta in mente come prima ipotesi questa certa spiegazione,
che segnale è; che cosa ci dice del caso che stiamo trattando?”
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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica - Bibliografia
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