Manuale Filosofia Del Diritto Jori Pintore

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INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DEL DIRITTO

CAPITOLO 1. FILOSOFIA E TEORIA DEL DIRITTO 1. NOZIONI E PROBLEMI

La filosofia del diritto è la filosofia che si occupa del diritto. Il libro parla di filosofia analitica, la
quale introduce una distinzione tra filosofie analitiche e filosofie non analitiche.

2. FILOSOFIE ANALITICHE (in senso ampio) Le filosofie analitiche sono filosofie che
presentano uno stile filosofico che parte dalla dedizione, dalla cura per il linguaggio; si ritiene che il
compito della filosofia sia di chiarire il metodo di linguaggio di altre discipline. Per fare ciò in
primo luogo la filosofia deve stare attenta al proprio linguaggio, deve chiarire il significato dei
termini filosofici, deve fornire le definizioni dei concetti filosofici che adopera. Per la filosofia
analitica è molto importante il metodo filosofico, un metodo che si fonda sul linguaggio ordinario.
Attualmente si adopera il metodo della filosofia analitica contemporanea, molto avanzato e si
discosta da quello delle altre filosofie, proprio per la sua chiarezza, per l’attenzione riposta o data
alla chiarezza del linguaggio che deve essere il linguaggio ordinario. La filosofia analitica ha
abbandonato il proposito di riformare il linguaggio che si adopera nella discussione filosofica,
trasformandolo in una sorta di linguaggio perfetto, cioè un linguaggio che sarebbe perfettamente
univoco, perfettamente logico, in grado di evitare, ogni tipo di fraintendimento, di aumentare la
precisione, la determinatezza del discorso: in generale il suo rigore. Questo proposito è stato
abbandonato dalla filosofia analitica, ma poi l'ha riadottato in una fase del suo sviluppo, perché ci si
è accorti che la nostra mente si forma sulla base del linguaggio ordinario, del linguaggio naturale:
quello che usiamo per es. per comunicare, per trasmettere informazioni. Il linguaggio naturale o
ordinario può essere utilizzato anche nell'ambito del dibattito filosofico, nella discussione
filosofica, che non è altro che un ragionamento. Questo non significa che, il linguaggio che
adoperiamo per esprimere i concetti debba essere povero; infatti la ricchezza del nostro linguaggio è
un valore in senso strumentale, perché ci permette di rappresentare la maniera più adeguata e anche
rigorosa dei concetti e dei fenomeni complessi. Una particolare attenzione al proprio linguaggio,
una particolare attenzione ai linguaggi che sono oggetto di studio della filosofia e una particolare
attenzione al linguaggio ordinario. Quando noi parliamo di particolare attenzione al linguaggio
ci stiamo riferendo all'approccio linguistico ai problemi, cioè si è notato che un modo proficuo per
risolvere delle questioni complesse dal punto di vista della discussione è quello di considerare
l’oggetto del nostro studio come un discorso, cioè considerare il diritto come un discorso, ovvero
come un fenomeno linguistico, in quanto abbiamo come oggetto di studio un discorso, in questo
caso il diritto, quindi il diritto è un discorso perché è fatto di parole.

3. FILOSOFIE ANALITICHE (in senso stretto) Per quanto riguarda le filosofie analitiche in
senso stretto, quindi non solo con riferimento al suo stile in generale, ma in riferimento alle sue
caratteristiche distintive, abbiamo l’assunzione di 4 principi fondamentali, che denotano le filosofie
analitiche, distinguendole dalle filosofie non analitiche. Ovvero:

1. La GRANDE DIVISIONE TRA ESSERE E DOVER ESSERE; 2. La DISTINZONE TRA


ANALITICO E SINTETICO; 3. La DISTINZIONE TRA DISCORSI E META-DISCORSI; 4.
La DISTINZIONE TRA CONTESTO DI GIUSTIFICAZIONE E CONTESTO
SOCIOLOGICO-STORICO;

Questi quattro principi costituiscono una sorta di metafisica della filosofia analitica. Metafisica
qui è intesa come l’insieme deipresupposti fondativi di un discorso, che in quanto presupposti non
sono dimostrabili all'interno di quel discorso.

4.1.GRANDE DIVISIONE TRA ESSERE E DOVER ESSERE . Cosa significa Grande divisione
tra essere e dover essere? Significa che nel nostro linguaggio, nei nostri discorsi dobbiamo
distinguere gli elementi descrittivi dagli elementi prescrittivi.
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I discorsi descrittivi, detti anche indicativi o fattuali , sono tutti discorsi che descrivono, servono a
descrivere e servono a trasmettere delle informazioni sulla realtà. Questi discorsi sono verificabili o
falsificabili, cioè possiamo utilizzare vari criteri per dire “quella porta è chiusa”, o falsificare questi
discorsi, dicendo “no quella porta non è chiusa” e quindi l'affermazione della porta chiusa è falsa!
Questi criteri e questi metodi sono retti, in primo luogo dall'osservazione della realtà, e questo tipo
di conoscenza è una conoscenzaempirica, cioè basata sulla nostra esperienza osservativa dei
fenomeni. I discorsi prescrittivi, vanno distinti da quelli descrittivi perché sono rivolti a guidare la
condotta umana, es. dire "per favore chiudi la porta!" è un discorso prescrittivo perché cerca di
influenzare la condotta di un soggetto. Il diritto è prescrittivo, è un discorso che serve a guidare la
condotta degli individui attraverso una serie di meccanismi. È il discorso prescrittivo per eccellenza,
ma perfino la moda, il modo di vestire viene considerato un discorso prescrittivo nel senso che
influenza, attraverso le sue tendenze, il modo in cui le persone, per esempio, si vestono. Di solito,
nel linguaggio comune quando adoperiamo concetti descrittivi o prescrittivi non ce ne rendiamo
conto, passiamo molto facilmente da un tipo di discorso a un altro tipo di discorso, senza nemmeno
avvertire questo passaggio, perché chi accoglie la grande divisione sa che non si può transitare da
premesse di un tipo a conclusioni di un altro tipo: per es. io non passo da premesse descrittive, per
ricavare delle conclusioni prescrittive. Questo tipo di deduzione, non regge, perché da un punto di
vista logico è una fallacia che ha un nome e si chiama FALLACIANATURALISTICA.

4.2.DISTINZIONE TRA ANALITICO E SINTETICO. Qui dobbiamo distinguere i discorsi


analitici dai discorsisintetici.

I discorsi analitici, sono quegli enunciati che sono veri o falsi in base alla loro forma logica o del
loro significato. Per es. è analitico l’enunciato: “gli scapoli non sono sposati” questo discorso è vero
per definizione, perché la parola “scapolo” significa per l’appunto “non sposato”. I discorsi
sintetici, sono quegli enunciati che sono veri o falsi in virtù delle loro relazioni sul mondo. Per es. è
sintetico l’enunciato: “gli scapoli sonoinfelici” perché la verità o falsità dipende dall’effettiva
felicità o infelicità degli scapoli. La distinzionetra analitico e sintetico, coincide con la distinzione
tra conoscenza logica (discorsi analitici) e conoscenza empirica ( discorsi sintetici), vienecome
la pietra miliare dell’empirismo. E’ la stessa distinzione fatta da Kant nella Critica della Ragion
Pura, l’analista sostiene che solo l’esperienza empirica ci può dare informazioni nuove sui fatti,
e che queste non sono logicamente

necessarie, cioè non possono essere ricavate con il solo ragionamento logico dalle conoscenze già
possedute. Inoltre, sostiene che le conoscenze della logica sono tautologiche, cioè consistono nello
sviluppo rigoroso delle premesse del discorso.

4.3.DISTINZIONE TRA DISCORSI E METADISCORSI. Spiega che i discorsi possono avere


per oggetto non solo entità extra linguistiche, come il mondo, i fatti … ma anche altri discorsi. Sono
meta-discorsi i discorsi che vertono su altri discorsi detti appunto discorsi-oggetto . Il rapporto
meta-discorsivo può essere sia descrittivo, ad es. il linguista che descrive una lingua; che
prescrittivo, ad es. il grammatico che prescrive come si deve parlare correttamente. Oppure
ambedue i discorsi possono essere composti di norme: ad es. il discorso giuridico è fatto anche di
meta-norme, cioè norme che vertono su altre norme; es. le pre-leggi . La filosofia analitica ritiene
di essere un meta-discorso rivolto ad analizzare vari tipi di discorsi, tra cui quelli che descrivono la
realtà e quelli che prescrivono le azioni. Per questo le filosofie analitiche vengono chiamate filosofie
linguistiche o filosofie del linguaggio.

4.4.DISTINZIONE TRA CONTESTO DI GIUSTIFICAZIONE E CONTESTO


SOCIOLOGICO. È una distinzione riconosciuta solo dalle filosofie analitiche. Il contesto di
giustificazione, è il discorso che descrive le regole di formazione, giustificazione e controllo di un
discorso oggetto. Mentre, il contesto sociologico-storico, è dato dalla descrizione del modo in cui

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di fatto viene usato il discorso oggetto. Il discorso di giustificazione è un’astrazione, in quanto
individua regole e strutture di regole (ragioni) che possono anche non essere sempre tra i motivi
che producono il discorso stesso. Ragioni e motivi non sono sinonimi. Le ragioni sono regole di
formazione del discorso (per es. le regole astratte della matematica ci dicono quando un operazione
è corretta o è scorretta). Il contesto sociologico-storico, non riguarda le ragioni ma riguarda i
motivi. Quindi, mentre sul contesto di giustificazione noi possiamo controllare quando un
operazione matematica è corretta o scorretta; sul contesto sociologico-storico, possiamo valutare,
per es. i motivi per cui una persona ha compiuto delle operazioni matematiche scorrette. I motivi,
quindi, sono elementi che riguardano delle contingenze particolari, riferite alle specifiche
circostanze che hanno causato la produzione di un determinato discorso.

In base a queste 4 differenze possiamo affermare che: “la filosofia analitica del diritto è quella
filosofia che ha un particolare stile filosofico caratterizzato da questi elementi, dall'attenzione al
proprio linguaggio oggetto e al proprio linguaggio ordinario. È quella che riconosce quattro
fondamentali distinzioni, che sono dei presupposti filosofici che possiamo chiamare meta-fisici” . Le
filosofie sintetiche sonoquelle che non ammettono, neppure la rilevanza di tali principi. Sono
diverse tra di loro in quanto, a differenza delle filosofie analitiche che comunicano tra loro
attraverso un metodo condiviso, esse hanno un approccio radicalmente diverso ai problemi. Per es.
ci sono filosofie non analitiche che pretendono di ricavare l'essenza delle cose, senza servirsi del
linguaggio. Si tratta di filosofie che perseguono delle forme di conoscenza alternativa a quelle di
tutte le altre filosofie: ciascuna di queste filosofie si propone come unica e vera; molto spesso si
tratta di filosofie avvallate da religioni dogmatiche, che non ammettono differenza di opinione
proprio perché ritengono di avere accesso esclusivo alla realtà.

4. LA FILOSOFIA DEL DIRITTO Il primo problema della filosofia del diritto è il problema della
definizione del concetto di diritto. Il concetto di diritto è il luogo dove si cercano di risolvere i
problemi fondamentali della filosofia giuridica, problemi che possono essere metafisici;
epistemologici; metodologici e etico-politici. Tra gli altri problemi, ci sono le questioni principali
dell’epistemologia e della metodologiagiuridica. Si tende a raggruppare questi problemi, come
problemi centrali del diritto, di cui si occupa la Teoria generale del diritto, la quale va distinta
dalla Filosofia del diritto che si occupa dei problemifondamentali. Quindi, i problemi
fondamentali del diritto, sono i problemi epistemologici e metafisici. Mentre, possiamo chiamare
problemi centrali deldiritto, quelli che si incontrano nell'affrontare qualunque altro problema,
senza che essi siano peraltro il punto di partenza e il fondamento delle domande e delle risposte;

5. TEORIA GENERALE DEL DIRITTO La teoria generale del diritto è la disciplina che si
occupa degli aspetti generali del diritto, generali in senso debole. In questo caso diritto viene inteso
in senso oggettivo, ovvero come ordinamento giuridico. La distinzione tra definizione di teoria
generale dalla filosofia del diritto, solleva un problema, la cu importanza risulta anche dalla storia
di questa disciplina, che in origine si è affermata in contrapposizione alla filosofia del diritto, per
contrapporre un discorso generale fatto dai giuristi positivi, al discorso speciale condotto da filosofi
che si occupano anche del diritto. Per giustificare una distinzione significativa tra le due discipline
sarebbe necessario scoprire che si occupano di problemi diversi. Una distinzione diffusa attribuisce
alla filosofia del diritto il compito di occuparsi dei problemi assiologici, cioè del complesso di
questioni che attengono alla giustizia; alla teoria generale del diritto il compito di occuparsi di tutti
gli altri problemi generali del diritto e specialmente dell’esame degli aspetti generali dei
concetti giuridici. Per cui, la teoria generale del diritto , si occupa dell’esame degli aspetti
generali dei concetti e dei termini più rilevanti usati dai giuristi e dal diritto. Filosofia del diritto, si
occupa anche di concetti e termini che non necessariamente compaiono nel diritto, ma sono da
questa presupposti o sono comunque necessari al suo esame. Gli strumenti che la teoria generale
può utilizzare allo scopo di conoscere ciò che è generale nel diritto sono 2:

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• La comparazione dei singoli diritti (procedimento a posteriori); • La individuazione degli aspetti
che i diritti non possono non avere (procedimento a priori).

CAPITOLO 2. DEFINIZIONI E CONCETTI GIURIDICI 1. NOZIONI E PROBLEMI

Per “concetto” si intende il significato di un termine, o di una classe di termini sinonimi, il quale è
possibile indicare tramite “definizione”. Per es. il concetto di ‘gatto’ è il significato del temine gatto
e dei termini sinonimi nella nostra e nelle altre lingue. Mentre un concetto è giuridico, quando il
termine viene usato nei vari discorsi giuridici, per es. il termine “enfiteusi” indica un concetto usato
dal legislatore italiano, dalla dottrina e dalla giurisprudenza; il termine “norma” indica un concetto
usato dai giuristi e dai teorici del diritto.

2. DEFINIZIONI GIURIDICHE La definizione è intesa come enunciato che indica il significato


di un espressione linguistica; l’espressione da definire viene chiamata definiendum, l’espressione
addotta come sinonimo del definiendum è detta definiens; quindi possiamo affermare che le
definizioni sono sempre nominali, vertono cioè su parole. Abbiamo anche le definizioni reali, che
riguardano non le parole ma le cose designate dalle parole. La teoria analitica della definizione ha
due distinzioni analitiche:

• La distinzione tra uso e menzione del linguaggio, la quale emerge dalla caratterizzazione della
definizione come discorso che verte su parole, che menziona il definiendum.

• La distinzione tra discorso descrittivo e discorso prescrittivo, la quale porta ad individuare due
diverse definizioni: 1. La definizione lessicale, cioè che riproduce un uso linguistico diffuso presso
una data comunità di parlanti; lessicale è per es.

la definizione di ‘gatto’ in quanto esprime un significato comunemente ascritto a questa parola dai
parlanti italiano. Una definizione lessicale può essere considerata fedele o infedele agli usi
linguistici che pretende di riprodurre.

2. La definizione stipulativa, cioè propone un significato più o meno radicalmente innovativo


rispetto all’uso corrente, oppure crea un nuovo termine. Quando il significato è solo moderatamente
innovativo, si parla di : ✓ Definizione esplicativa, la quale è una stipulazione linguistica che
innova solo moderatamente rispetto agli usi linguistici

correnti. ✓ Ridefinizione.

Una definizione stipulativa o esplicativa, può essere considerata opportuna o inopportuna, in


relazione agli scopi che si prefigge chi la formula. Tutti questi tipi di definizione, sono casi di
definizioni esplicite , cioè di proposizioni dotate di una espressa formulazione linguistica. Inoltre
esistono le definizioni implicite , cioè le determinazioni del significato di un termine, che non sono
espresse tramite enunciati ma sono ricavate dall’uso che viene fatto del termine stesso. Mentre per
quanto riguarda le tecniche definitorie, possiamo parlare della definizione per genere prossimo e
differenza specifica, la quale era considerata la tecnica definitoria per eccellenza. Inoltre vi sono le:

• Tecniche definitorie dirette, cioè una definizione è diretta quando indica una parola o
un’espressione sinonimi del termine da definire. Ad es. quando si definisce il testamento come
“negozio giuridico unilaterale” si fornisce una definizione diretta della parola ‘testamento’.

• Tecniche definitorie indirette o contestuali, ovvero una definizione è indiretta o contestuale,


quando definisce non il termine, ma un enunciato in cui tale termine compare.

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1. DEFINIZIONI LEGISLATIVE Le definizioni, nell'ambito del diritto, hanno carattere
stipulativo. La maggior parte delle definizioni esplicite ha carattere esplicativo. Le definizioni
legislative, sono definizioni stipulative, sono determinazioni autoritative del significato di
espressioni usate in altre disposizioni di legge. Il legislatore, con una definizione legislativa ci sta
dicendo "guarda che il termine x tu lo devi intendere con questo significato qui" sta prescrivendo un
uso linguistico. Un es. è contenuto nell'art.812, 1°c. del C. Civile: infatti quando ci collochiamo
all'interno dell'ordinamento giuridico italiano e parliamo di beni immobili, non possiamo attribuire
a questo termine il significato che preferiamo, ma dobbiamo adoperare il concetto giuridico
esplicitato dal legislatore. L’uso di definizioni nella legge è un espediente di costruzione artificiale
di un linguaggio, che il legislatore, adopera per circoscrivere quella che si chiama, la
discrezionalità degli interpreti. Nessuna definizione può mai riuscire ad eliminare la libertà
dell’interprete. Cioè gli interpreti, che sono i giuristi che attribuiscono significato alle parole nel
mondo giuridico, non possono procedere liberamente in questa attività. Anzitutto, anche gli
enunciati definitori vanno interpretati e possono avere un significato incerto. Ci sono teorie che
ritengono che i significati definiti debbano corrispondere in un modo o nell’altro alla verità. Quindi
parliamo della definizione vera o falsa. Per es. ci sono teorici del diritto che ritengono di poter
cogliere l'essenza di concetti giuridici, come quello di "matrimonio", escludendo dal suo ambito di
significato, le unioni tra individui che abbiano lo stesso sesso. Questa unione detta
"matrimonioomosessuale" non è un vero matrimonio. Quindi se io definisco il matrimonio come
vincolo, diciamo, "unione tra due persone che possono avere anche lo stesso sesso" sto proponendo
una definizione falsa. Nella teoria nominalisticadella definizione, invece le definizioni in quanto
tali non possono essere vere o false. Possono essere proposte, come più o meno opportune, possono
essere elaborate o rilevate, come più o meno fedeli, ma non sono vere o false. In secondo luogo,
nessun diritto riesce a definire tutti i termini che adopera. Infatti i termini definiti sono una
minoranza. Infine non è sempre facile capire quando il legislatore sta introducendo una definizione
legislativa oppure sta introducendo una norma di condotta o una norma di competenza, quindi una
direttiva. Tant'è vero che le definizioni legislative le possiamo anche considerare come dei
frammenti di norme, che acquistano senso prescrittivo compiuto in connessione con le altre
disposizioni in cui il termine definito compare. Ci sono dei casi dati per es. dall'art.833 C.C. (se
leggiamo questo art. troviamo una rubrica, ovvero il titolo dell'articolo, cioè quello che indica il
tema su cui l'articolo interferisce) 3 0 0 AAtti di emulazione: Il proprietario non può fare atti i quali
non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri. 3 0 0 B L’art.833 sta
definendo gli atti di emulazione, precisando che nel concetto di atto di emulazione rientra questo
particolare obbligo. Noi quindi ricaviamo il significato di atto di emulazione, inteso come
definiendum. L'atto di emulazione è l'atto che ha lo scopo di recare molestia ad altre persone, ed è
un divieto che è imposto al proprietario. Ci sono state delle epoche storiche in cui la scienza
giuridica, agiva come una specie di surrogato del legislatore, cioè l'autorità degli esperti del diritto
era tale da influenzare anche formalmente il diritto. Essi ritenevano che, non fosse opportuno che il
legislatore desse delle definizioni giuridiche, perché è compito della scienza giuridica quello di
costruire un sistema completo e complesso di concetti normativi.

Il problema, in questo accostamento, è stato superato anche nella pratica perché il legislatore,
introduce delle definizioni legislative e ha sottratto il monopolio della definizione legislativa alla
classe dei giuristi. Sottratto nel senso che, le definizioni legislative sono prescritte da norme
giuridiche e il giurista che se ne discosti, semplicemente non fa bene il suo lavoro, perché i suoi
interessi risulteranno essere penalizzati in quanto tutti gli altri giudizi che compie saranno
considerati viziati, impugnabili ecc. Questo accostamento della scienza giuridica, ha un carattere
ideologico , cioè tende a sollecitare l’interprete a liberarsi dai vincoli concettuali imposti dal
legislatore.

3. CONCETTI GIURIDICI Per concetto si intende il significato di un termine e per concetto


giuridico si intende il significato di un termine appartenente al linguaggio giuridico. L’espressione
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linguaggio giuridico è abbastanza equivoca. Quando si parla di concetti giuridici si fa riferimento a
una categoria di termini tecnici giuridici. Sono infatti considerati giuridici o i termini tecnici,
peculiari del linguaggio giuridico (usucapione, peculato) o i termini appartenenti al linguaggio
ordinario(possesso, bene e persona). Questa concezione, non appartiene alla teoria giuridica
contemporanea, infatti molti giuristi e teorici del diritto credono che nei diritti positivi viga una
sorta di “principio di incorporazione”. In base a questo principio è sufficiente che tale termine
venga usato in una norma giuridica; il termine assumerebbe un significato giuridico, che potrebbe
coincidere col suo significato ordinario. L’altra idea di vedere il diritto, costituisce un sistema
autonomo. Quest’idea è diffusa tra i teorici del diritto di indirizzo giuspositivistico e tra la maggior
parte dei giuristi positivi. Per cui, la prima tesi semiotica, cioè la tesi dell’apertura, rappresenta la
scelta a favore di una definizione ampia del concetto di diritto e una prescrizione all’interprete di
ricorrere, ai significati ordinari; mentre la seconda tesi semiotica, cioè la tesi dell’autonomia,
rappresenta la scelta di una definizione stretta del concetto di diritto e la prescrizione di risolvere
tutti i problemi interpretativi con le risorse fornite dal sistema e dalla scienza giuridica. Esiste un
gruppo di termini e concetti giuridici che creano problemi semiotici e teorico-giuridici. Il problema
è che questi termini sembrano privi di un immediato riferimento empirico. Quindi se si ritiene
che tutti i concetti dotati di significato, sono solo quelli dotati di “controparte fattuale”, è ovvio che
concetti come “proprietà”, ad es. sono privi di significato: la proprietà non è un termine che si
riferisce ad un oggetto tangibile, ma è un altro tipo di concetto che dobbiamo immaginare in un
modo diverso. Questa è la tesi riduzionista. Nel campo della totale assenza di significato dei
concetti giuridici, facciamo riferimento a tesi illusorie, e abbiamo da esempio una tesi rappresentata
da un teorico del diritto svedese Olivecrona, che dice: i concetti giuridici sono si privi di
significato, i termini corrispondenti sono sostanzialmente delle parole vuote quindi “negozio
giuridico” “reato” “proprietà” “persona” sono parole prive di significato, però questi concetti
svolgono un'importante funzione sociale e psicologica; cioè questi concetti, a meno ché non
facciano riferimento a nulla di reale, sono in grado di influenzare i comportamenti delle persone. Le
persone si sentono obbligati, vincolati, sentono il loro comportamento come soggetto a una serie di
poteri, ma nulla di questo esiste realmente. Ross invece, sostiene che i concetti giuridici hanno la
peculiarità di essere sistematici, non servono a designare alcun fatto, ma solo a indicare la
connessione tra determinate fattispecie e conseguenze giuridiche. Secondo Alf Ross quando noi
parliamo, per es. di proprietà non stiamo designando direttamente alcun fatto, ma designiamo una
relazione tra determinati fatti, per es. quelli che determinano l'acquisto della proprietà da parte di un
determinato soggetto, e altri fatti, ossia le conseguenze di questa condizione, conseguenze anch’esse
fattuali; cioè chi si trova nella condizione di essere proprietario, si trova in una posizione in cui può
porre in essere una serie di rimedi, ad es. contro le azioni di disturbo di chi vuole interferire con il
suo diritto.

1. CONCETTI GIURIDICI FATTUALI E NORMATIVI Un tipo di costruzione dei concetti


giuridici, va dato alle tesi non riduzioniste. Secondo Hart i concetti giuridici dovrebbero definirsi
attraverso definizioni contestuali o indirette; cioè un concetto come “diritto soggettivo” non
andrebbe definito direttamente, “per diritto soggettivo si intende...”, ma ci si dovrebbe concentrare
sul contesto in cui ricorre l'espressione; per es. “Tizio ha un diritto soggettivo...” , questo enunciato
si raffronterebbe ad un altro enunciato, che noi sappiamo si chiama definiens, che serve per
spiegare il significato. Dunque il concetto giuridico è un concetto normativo, dotato di significato
e non fa riferimento solo a dei fatti ma a delle realtà di fatto che sono qualificate, in quanto
produttive di effetti giuridici, da una qualche norma. Per cui nasce la distinzione tra concetti
fattuali e normativi. Umberto Scarpelli ha contribuito con un lavoro che si chiama “Contributo alla
semantica del linguaggio normativo” del ’59, sviluppando una teoria hartiana. Secondo la quale:

• I concetti fattuali sono quelli che designano entità, proprietà, a delle cose di puro fatto, cioè
individuabili indipendentemente da ogni riferimento a norme; noi non abbiamo bisogno di far

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riferimento a norme se vogliamo per es. definire il concetto di “bosco” questi sono tutti, oggetti o
concetti che possiamo definire in altro modo e non facendo riferimento a delle norme giuridiche.

• I concetti normativi o qualificatori consentono di trarre conclusioni normative in base al


raffronto tra norme e asserzioni.

4. QUALIFICAZIONE GIURIDICA La qualificazione giuridica è la relazione tra una norma


giuridica e la materia da essa regolata. Il diritto può qualificare oggetti, comportamenti, stati di cose
e attribuisce a tutte queste entità uno specifico significato giuridico. Le qualificazioni giuridiche dei
comportamenti sono dette modalità giuridiche, e posso essere usate: Sia da norme di condotta, le
quali qualificano comportamenti privi di effetti normativi; sia da norme di competenza, le quali
qualificano comportamenti che hanno effetti normativi, spesso denominati atti giuridici, x es.
disciplinano l’attività di concludere un negozio giuridico. I concetti fondamentali e generali usati
per esprimere le qualificazioni di fatti e atti da parte di norme sono “rilevante” e “irrilevante”. I
concetti fondamentali e generali usati per esprimere la qualificazione di norme da parte di altre
norme sono “valido” e “invalido”. Per gli atti giuridici, invece possiamo usare i termini “valido o
invalido” oppure, “efficace” e “inefficace”, o “legittimo” e “illegittimo”.

5. DIRITTO SOGGETTIVO Il concetto di diritto soggettivo è un problema centrale della


filosofia del diritto. Il primo problema è dato dal rapporto tra diritto soggettivo e oggettivo. Il
diritto oggettivo è quello che siamo abituati a designare quando parliamo di diritto; x es. diritto
italiano è un sinonimo di ordinamento giuridico italiano. Il diritto soggettivo è il diritto degli
individui. Mentre il giusnaturalismo, prende in considerazione la priorità logica soprattutto del
concetto e l'altra che appartiene a una tradizione filosofica nota come giuspositivismo. I
giusnaturalisti ritengono che viene prima il diritto soggettivo, mentre i giuspositivisti ritengono
che viene prima il diritto oggettivo. Una tradizione filosofica dice che esistono i diritti naturali.
L’idea dei diritti naturali viene fatta risalire al giusnaturalismo moderno, razionalista e
individualista. I diritti naturali sono diritti che gli esseri umani posseggono per natura.

I diritti umani sono quei diritti che soddisfano i bisogni essenziali degli esseri umani, oggi sono li
troviamo proclamati nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” ‘48. Mentre i diritti
fondamentali sono quelli riconosciuti nei vari ordinamenti statali da norme costituzionali. Per il
giusnaturalista la titolarità di diritti naturali è elemento costitutivo del concetto di persona umana.
Le persone , in senso morale, sono considerate come enti meritevoli di protezione in virtù della loro
natura umana. Protezione che viene data dai diritti naturali. Non possono mai essere oggetto di uso
esclusivamente strumentale: non possiamo adoperare gli esseri umani come mezzo per ottenere
qualcos'altro. I giusnaturalisti rispondono propugnando una meta-etica oggettivista, cioè ritengono
che dalla descrizione di un certo stato di cose, ad es. la natura o la ragione umana, si possono
ricavare dei valori morali, oggettivamente validi: oggettivismo etico significa proprio questo. Il
giuspositivismo è l'accostamento inverso, perché si basa su una tesi metaetica meno universalistica
che si chiama non oggettivismo etico, quindi, i valori e diritti non possono essere dimostrati né
ricavati oggettivamente dalla conoscenza e dalla descrizione dei fatti. La posizione fondamentale
del giuspositivista è che ciascuno sceglie i suoi valori in base a una scelta consapevole,
responsabile. Una scelta morale che è individuale: quindi la mia etica è fatta dalle mie scelte, ciò
che per me è buono e giusto può non coincidere completamente con quella di ciascuno di voi, ma
ciascuno di voi forma la sua etica sulla base delle sue scelte consapevoli e responsabili. Sulla base
di un atteggiamento meta-etico di questo tipo, cioè non oggettivista, arriviamo a un'altra tesi che si
chiama: la separazione tra il diritto e la morale. In base alla quale dobbiamo tenere separato il
problema della descrizione del diritto dal problema della descrizione della morale. Può ritenersi
diritto anche il diritto che noi reputiamo immorale, il diritto ingiusto. Questo atteggiamento che si
chiama giuspositivista o accostamento giuspositivistico al diritto è tipico di buona parte della
cultura giuridica contemporanea. Ci sono delle posizioni come quella dei utilitaristi, che ritengono
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di avere risolto il problema della dimostrazione dell'etica: è buono tutto ciò che è utile e abbiamo i
criteri per determinare di fatto l'utilità delle azioni, delle pratiche sociali e quant'altro. Kelsen, è un
giurista che traccia la concezione più classica del giuspositivismo e dice: che i diritti soggettivi
sono tutti quelli che il diritto oggettivo considera come tali. Questa è la posizione, in materia di
diritti soggettivi del giuspositivismo. Kelsen considera del tutto irrilevante la questione se esistano
diritti naturali e quale sia il loro rapporto storico-fattuale col diritto positivo, in quanto i valori
morali sono arbitrari e non conoscibili. Per Kelsen, il diritto soggettivo è un meccanismo
normativo, che consiste nell’attribuire al privato la facoltà di mettere in moto il procedimento
giudiziario di accertamento della violazione di un obbligo. Nei diritti soggettivi giuridici,
possiamo osservare che questi in quanto dotati di esistenza preesistente ed indipendente dal diritto
positivo, non sono mai riducibili ad esso. I diritti, sono quindi dotati di eccedenza deontologica.
Mentre per Hohfeld (giurista statunitense del ‘900) il diritto soggettivo viene usato per designare
quattro situazioni soggettive diverse:

1. Di diritti intesi come pretese, cioè posizioni giuridiche soggettive correlate ad obblighi, x es. il
diritto di credito; 2. Di diritti intesi come privilegi o libertà o permessi di fare e non fare, cioè
posizioni giuridiche soggettive correlate alla

mancanza di pretese altrui, ad es. la libertà di passeggiare in strada; 3. Di diritti nel senso di
competenze o poteri, cioè capacità attribuite dal diritto di alterare la situazione giuridica di un’altra

persona con o senza il suo consenso, ad es. il potere di stipulare contratti; 4. Infine di diritti nel
senso di immunità, cioè non soggetti al mutamento della propria situazione giuridica per iniziativa
unilaterale

altrui, ad es. l’immunità da arresti arbitrari.

6. MODALITA’ GIURIDICHE Per modalità giuridiche, si intendono quelle qualificazioni


normative della condotta umana operate dal diritto; negli enunciati usati per esprimere norme
giuridiche si possono paragonare due elementi:

• Una parte che rappresenta l’azione prescritta e include la determinazione del destinatario, cioè il
frastico; • Una parte che invece indica, che tale azione è considerata come un modello di
comportamento da tenere, cioè neustico

Nel linguaggio giuridico corrente, il neustico delle norme, è espresso con l’uso di espressioni
deontiche, x es. “si deve, si può, si ha lafacoltà, si è tenuti”. La nozione di diritto soggettivo è stata
analizzata e i risultati di queste analisi hanno portato all’elaborazione di una serie di tavole delle
modalità giuridiche, cui autore principale è Hohfeld ma poi questi studi sono stati sviluppati da
Alf Ross. I logici, per costruire una tavola di modalità deontiche, assumono una modalità primitiva
e indefinita, da dove poi ricavano tutte le altre; così si assume come modalità giuridica
fondamentale il concetto di obbligo e il permesso insieme. In questa tavola, sono indicate le
posizioni giuridiche soggettive che possono essere interpretate da due soggetti di un rapporto
giuridico, A e B, riguardo a un comportamento C . Se parliamo, x es. di diritti come pretese ci
rendiamo conto che la pretesa del soggetto B nei confronti di A in relazione al comportamento C,
corrisponde sempre all'obbligo del soggetto A nei confronti di B nel comportamento C. Se x es. io
ho una pretesa nei confronti di Tizio, Tizio ha un obbligo nei miei confronti. Stesso discorso per
quanto riguarda la modalità del permesso, cioè il permesso di non fare, ad es. di non tenere il
comportamento C che A ha nei confronti di B, equivale a non pretesa di B nei confronti di A per il
comportamento C. Il concetto di permesso è usato anche per indicare quelle condotte umane che
non sono state qualificate normativamente come obbligatorie o vietate e che vanno considerate
permesse. Parliamo di libertà, la quale nel diritto è intesa come una delle modalità giuridiche. Il
concetto di libertà viene anche usato per indicare quelle situazioni in cui esiste anche un obbligo di
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fornire l’opportunità di esercitare la libertà. Nelle norme di competenza, la modalità corrispondente
all’obbligo e la soggezione, definita come l’obbligo di obbedire alle norme create con l’esercizio di
una competenza. La competenza, è la capacità di creare norme giuridiche e di dar luogo a effetti
giuridici in capo ad altri soggetti. L’immunità invece è la contraddittoria della soggezione, la quale
infatti risulta essere il suo contrario e la sua negazione, cioè l’assenza in capo a un soggetto
dell’obbligo di obbedire alle norme emanate dalla persona priva di competenza, ovvero l’incapace.
Dunque, l’incapacità è la negazione della competenza o potere. Possiamo quindi affermare che la
competenza è sinonimo di potere. Il potere o competenza, può avere natura pubblica o privata.
Un es. di competenza privata o potere privato, è quella del proprietario, di disporre del bene di sua
proprietà. Dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, la competenza diviene una tecnica di
produzione di norme, e si dice che la persona o organo sono un autorità competente. La teoria delle
modalità giuridiche è considerata come uno strumento importante di una concezione del diritto
come norma e della norma come entità linguistico-semiotica.

CAPITOLO 3. CONCETTO DI DIRITTO 1. NOZIONE E PROBLEMI

Il concetto di diritto è il significato del termine “diritto” e dei termini sinonimi. Il diritto è uno
strumento che serve agli individui per regolare, in modo pacifico i loro rapporti, le loro relazioni,
evitando di arrivare a scontri violenti o arbitrali. Il diritto è un fenomeno coattivo, è qualcosa che ha
a che fare con l'attuazione (intesa come forza) organizzata regolata attraverso l'ordinamento
giuridico. Quindi, dobbiamo sempre cercare di istituire una sorta di corrispondenza tra i termini e la
realtà, senza la pretesa attualmente di coglierne l'essenza. Non possiamo neanche dire che una
definizione è vera o falsa, possiamo dire che una definizione è fedele o infedele. Fedeli o infedeli
rispetto agli usi linguistici diffusi, infatti non dobbiamo allontanarci troppo dal senso comune
altrimenti diamo delle cattive definizioni che magari sono funzionali e ai nostri obiettivi pratici, ai
nostri obiettivi etico-politici, ma hanno un elemento quantomeno discutibile perché si allontanano
troppo dal pensiero comune, dal pensiero ordinario, dal linguaggio che serve per comunicare.
Anche le definizioni devono essere formulate attraverso il linguaggio ordinario. Esiste anche la
possibilità che possa esistere un unico linguaggio ideale e perfetto, rappresentato dal
neopositivismo che scarta l’essenzialismo per continuare la sua ricerca di un unico linguaggio
idoneo a rappresentare la realtà empirica.

1.1. CONCETTO E CONCEZIONI DI DIRITTO Si può intendere il concetto di diritto come un


elemento semantico generalissimo che ricorre nella formulazione dei discorsi che parlano di diritto.
Il primo significato è quello del senso comunee minimale di «diritto» (la definizione lessicale di
diritto), in cui il diritto è il fenomeno sociale della coazione organizzata e regolata. Qui la parola
diritto fa parte di una pratica sociale, la pratica giuridica, che può esistere solo se azioni e
credenze dei partecipanti convergono almeno in una certa misura, basti pensare alla “”pratica
sociale del saluto” , essa sussiste solo se i suoi partecipanti sono coscienti di quello che fanno,
altrimenti si arriverebbe in un sistema in cui anziché un saluto si scambierebbero gesti e parole
strane. Ricollegandoci al senso comune della concezione del diritto, possiamo anche chiamare tali
concezioni come idiosincratiche del diritto, le quali sono esplicitamente proposte da individuali
pensatori o usate implicitamente da individui o gruppi e correnti di pensiero ed interesse. Gli
obiettivi della manipolazione concettuale idiosincratica non sono solo descrittivi, infatti
dobbiamo ricordarci che i concetti nelle mani degli uomini o gruppi, sono un possibile strumento di
manipolazione della realtà sociale e delle pratiche sociali. Dunque, il concetto di diritto secondo
tale definizione lessicale è il minimo comune denominatore, in una cultura degli elementi che
attribuiscono alla parola «diritto» un significato comprensibile da tutti. Mentre, le concezioni del
diritto divergono per alcuni aspetti che non tutti i parlanti condividono. Sia tesi epistemologiche ,
riguardanti il modo di descrivere il diritto, che tesi etico-politiche o metafisiche, riguardanti
elementi primitivi del pensiero, influenzano tali concezioni. Inoltre sia un concetto o una
concezione, non rispecchiano la realtà, ma servono a costruire un linguaggio che potrà servire a
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descrivere la realtà, o per altri scopi, per es. prescrittivi. Parliamo allora di operazioni di
ridefinizione. Le ridefinizioni non possono innovare a piacimento il senso ordinario del termine «
diritto», ma possono sperare di avere successo solo se il teorico introduce modifiche parziali,
innovando e precisando il concetto di senso comune in modo da rimanere comprensibile,
producendo quindi una concezione idiosincratica. Si tratta di una ridefinizione la quale viene usata
per convincere che il diritto ha certi aspetti o caratteristiche che il ri-definitore considera importanti.
Il concetto di diritto è l’insieme delle tesi fondamentali di ciascun approccio al diritto, esso è il
luogo delle scelte di ciascuna concezione del diritto. Queste tesi, non sono solo epistemologiche,
cioè che riguardano il modo di conoscere il diritto, ma anche etiche e politiche. Quindi il concetto di
diritto, non è un approccio neutrale e da tutti accettabile:

A. Perché presuppone che queste scelte fondamentali, ci siano e siano rilevanti; B. Che possano e
debbano essere esplicitate; C. Possano e debbano essere coerenti tra loro e con le altre idee
rilevanti di chi le sostiene.

Ma è un approccio illuministico, dunque si tratta di esplicitare quali sono i presupposti etico-


politici; cioè un teorico del diritto dovrebbe esplicitare quali sono le sue premesse etico-politiche
generali, all’interno di un discorso. Dunque definiamo il diritto come fenomeno sociale della
coazione applicata in modo sistematico e organizzato. La filosofia giuridica di indirizzo
giuspositivista integra a questa definizione, elementi esterni, come l’effettività e la giustizia.
L'effettività è una caratteristica che si discosta dal diritto inteso dal senso comune, in quanto il
termine si applica anche a diritti estinti, quindi non effettivi. Vale lo stesso per la giustizia, in
quanto è provato dalla storia l’esistenza di lamentele sull’ingiustizia dei diritti. Il senso comune
pertanto afferma che il diritto è ingiusto ed ineffettivo, per cui questi caratteristiche non
dovrebbero essere tali del diritto.

2. DEFINIZIONI IDIOSINCRATICHE DI DIRITTO Abbiamo già la definizione lessicale di


diritto, cioè quella descrittiva dell’uso ordinario del termine diritto e del concetto, cioè anche delle
espressioni e dei termini sinonimi. Pochi filosofi si sono accontentati di prendere atto della
definizione minima. Il giurista britannico Williams, nel saggio pionieristico dell’approccio analitico
al diritto, “Il diritto internazionale e la controversia della parola diritto (1945)” sostiene che il
problema del concetto di diritto deve essere ridotto a quello di scegliere il senso con cui si
preferisce usare la parola diritto: si tratta per Williams di un problema privo di interesse intrinseco,
a parte la necessità di una chiarezza terminologica. La tesi di Williams è ispirata alla fase cosiddetta
“eroica” della filosofica linguistica o analitica, in cui si riteneva che tutti i problemi filosofici
potessero essere risolti attraverso la costituzione di un linguaggio rigoroso. Non tutte le discussioni
filosofiche sono dovute ad equivoci sul senso delle parole: pertanto la definizione di diritto, se
aderisce al senso comune, può al massimo individuare l’area entro cui una cultura colloca il
concetto e il fenomeno di diritto; se riformulata in tutto o in parte, può invece essere usata per
precisare l’idea di giuridicità al di là del senso ordinario. Questa operazione si chiama definizione
esplicativa, e non risolve solo questioni terminologiche, perché non è vero che qualunque scelta
definitoria sia equivalente: infatti, con la definizione di diritto, il filosofo del diritto e il giurista
pongono le basi del loro approccio al diritto, da un punto di vista teorico, metodologico e etico-
politico. Definendo il concetto di diritto si possono annunciare le proprie scelte, e quindi:

• Come si ritiene che si debba parlare di diritto (metodo); • Quali aspetti del diritto devono essere
descritti e messi in luce e come (teoria); • Quali aspetti del diritto è importante valutare e in che
modo (etica e politica).

Il giurista e il filosofo però, confondono questi tre tipi di problemi e scelte, e la distinzione è resa
difficile dal fatto che molti altri problemi generali stanno in una posizione intermedia tra lo studio
del diritto positivo e la filosofia del diritto. Per questa ragione questi ultimi possono essere chiamati

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problemi centrali: ovvero problemi che presuppongono la soluzione delle questioni metodiche,
metafisiche e di fondazione dei valori, e quindi non possono essere considerati fondamentali o
primitivi. I più rilevanti problemi teorici hanno questa natura centrale: vale a dire che
costituiscono un applicazione delle idee filosofiche di fondo ed una precisazione del loro significato.
Nel diritto dei problemi centrali si occupa prevalentemente la teoria generale del diritto,
specialmente quando fatta “dalbasso” a partire dal punto di vista dei giuristi positivi.

3. DIRITTO VIGENTE Quando noi ci accostiamo al fenomeno giuridico, compiamo tre


operazioni differenti, di cui due appartengono al senso comune, cioè possono capirle tutti, la terza
può essere compiuta solo dai teorici del diritto, cioè gli specialisti del diritto.

1. In primis, quando ci accostiamo al diritto lo identifichiamo, cioè assumiamo un qualche concetto


di diritto, per quanto minimale, di senso comune. Quindi l'operazione di identificazione del
diritto è quella che ci consente di parlare di diritto attraverso il riferimento a un concetto minimale,
allora quando noi identifichiamo il diritto, facciamo riferimento ad un area di fenomeni sociali,
contraddistinta dalla coazione organizzata, regolata e sistematica. È questa la prima operazione di
senso comune che facciamo quando noi vogliamo capire se qualcosa ha una rilevanza giuridica o
meno su un comportamento, un ufficio ecc.. facciamo riferimento all'area della coazione
organizzata, e questo è il concetto di diritto di senso comune che utilizziamo per identificare il
diritto in generale, ovvero il diritto vigente. Questo vale per il diritto italiano, diritto francese,
diritto internazionale. Per cui identificazione significa che siamo disposti a riscontrare diritto
soltanto all'interno dell'area della coazione organizzata.

2. C'è un operazione successiva di diritto comune. Qual è il diritto qui e ora? È l’operazione di
individuazione del diritto vigente. Questa è un operazione che possono svolgere tutte le persone
sane di mente. Attraverso il riferimento al senso comune, attraverso una serie di indizi periferici,
capiamo che un certo diritto vige qui e ora, che determinate regole della coazione sociale sono
attualmente vigenti ed eventualmente e coattivamente applicate, sono indizi periferici come x es. "la
presenza di determinate autorità che si proclamano tali e che non vengono contestate" questi sono
dei sintomi di diritto vigente. Quando ci sono questi sintomi siamo propensi a pensare che viga un
certo diritto qui e ora. Quando non ci sono, non abbiamo un diritto vigente, x es. "chiamo la polizia
e questa non viene,.. mi affaccio dalla finestra e vedo delle macchine incendiate" è in corso una
situazione di anarchia. Questa è un operazione di individuazione che svolgiamo sempre attraverso il
senso comune e attraverso il riferimento a una serie di indizi e sintomi.

3. La terza operazione è quella di determinazione del diritto, non può essere compiuta dall'uomo
della strada, non è un operazione di senso comune, richiederebbe delle conoscenze specialistiche.
Essa presuppone le precedenti due operazioni; quindi precedentemente deve essere già stato
identificato il diritto e individuato come diritto vigente, in questo modo è possibile determinare
quali sono le norme che appartengono al diritto, e lo facciamo attraverso l'esame di una serie di
regole il cui contenuto si trova nelle fonti del diritto, cioè le regole che ci dicono quali sono le
norme giuridiche, quali sono le altre regole che noi dobbiamo applicare e considerare giuridiche.
Cioè sono dei criteri con cui il diritto si auto-precisa, si auto-delimita e si autodefinisce. Questo
compito spetta ai giuristi, i quali non sono solo in grado di dire "quale è il diritto sulla base dei
criteri di auto appartenenza fissate delle norme dell'ordinamento", ma sono anche in grado di dire
"che cosa decide il diritto." Questa è un ulteriore operazione di determinazione. Operazioni che
sono compiute dai giuristi perché il comune cittadino conosce una porzione ridotta del contenuto
delle norme giuridiche. La differenza tra il cittadino comune e il giurista, è data dal fatto che solo
quest'ultimo sa compiere le operazioni di determinazione del diritto.

CAPITOLO 4. CONCEZIONI DEL DIRITTO 1. NOZIONE E PROBLEMI

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Il concetto o la concezione di dirittoè considerato come uno strumento fondamentale della cultura
giuridica, è il luogo concettuale dove si possono trovare riassunte, le fondamentali tesi giuridiche di
una cultura, di una corrente di pensiero o di una persona. Si tratta di tesi metafisiche,
epistemologiche, eticopolitiche, che spesso si trovano implicite nei discorsi dei filosofi del diritto,
come fondamenti, come giustificazione delle loro scelte metodologiche. Non tutte le concezioni del
diritto contemporanee prestano la stessa attenzione agli stessi fattori. È importante rendersi conto
del livello a cui diverse concezioni del diritto formulano le proprie caratteristiche e scelgono di
distinguersi, o opporsi alle altre: per alcune si tratta di una distinzione a livello di problemi filosofici
fondamentali (Giusnaturalismo, Giuspositivismo, Giusrealismo, Marxismo ); per altre a livello
di tesi centrali, ma non fondamentali: come le concezioni descritte in questa voce che individuano
un componente ultimo del diritto e norma, rapporto giuridico, imperativo o istituzione (cioè
Normativismo, Teoria del rapporto giuridico, Imperativismo,Istituzionalismo): infatti queste
concezioni sono componenti di una concezione dei problemi fondamentali cui si appoggiamo.
Alcune di queste concezioni (tranne quelle effettivamente opposte, es. Giusnaturalismo e
Giuspositivismo) sono tra loro compatibili e componibili.

2. GIUSNATURALISMO Il giusnaturalismo è l’insieme delle concezioni del diritto che si


fondano sull’esistenza di un diritto naturale. Esse sono spesso diverse tra loro, tanto quanto sono
diversi i sensi del diritto naturale a cui fanno riferimento e diversi sono i modi proposti per
individuarlo. Nelle forme più estreme di giusnaturalismo il diritto naturale è un insieme di norme
assolute e sempre giuste, oggettivamente esistenti come tali indipendentemente dal fatto di essere
accettate da qualcuno, e indipendentemente dalla loro accettazione o recezione da parte del diritto
positivo. Il diritto naturale, in questo senso, è una parte della morale, considerata come
oggettivamente assoluta ed eterna, e che riguarda anche il campo delle azioni giuridiche. Secondo
questa concezione, quando il diritto positivo non corrisponde al diritto naturale, sorge un conflitto
che toglie legittimità alla pretesa di obbedienza avanzata dal diritto positivo, che viene considerato
un non-diritto.Sull’atteggiamento da assumere verso tale non- diritto ingiusto i giusnaturalisti
hanno posizioni discordi: rivolta e rivoluzione, resistenza attiva individuale, resistenza passiva,
obbedienza passiva ecc. In questa versione estrema del giusnaturalismo convivono due elementi
caratteristici:

1. Una concezione assoluta, oggettiva e/o statica della morale; 2. Una tendenza a giudicare sulla
legittimità di un diritto e ad attribuirgli tale titolo in base alla morale.

La prima questione, se esista una morale oggettiva è molto importante: perché è fondamentale
stabilire se esistono criteri oggettivi ed eterni di giudizio morale, e se esistono stabilire se possono
essere conosciuti, permettendo quindi di dichiarare veri (o falsi) i nostri giudizi morali. È ovvio che
su questo punto, cioè il problema della dimostrazione dei valori, i giusnaturalisti hanno l’onere di
presentare criteri di prova adeguati: essi non manifestano grande accordo a riguardo, spaziando da
prove quali l’autoevidenza dei principi del diritto naturale, all’intuizione o senso morale di ciascun
soggetto; infine alcuni sostengono che è naturale ciò che è costante nelle diverse situazioni e
società, per cui sarebbero diritto naturale tutte le norme che risultano presenti in tutte le società
storiche. La seconda questione è una mera questione terminologica: non ha infatti grande
importanza definire un particolare diritto “diritto ingiusto” o “non-diritto-perché-ingiusto”.
Attualmente il criterio a cui il giusnaturalismo fa riferimento è la natura razionale dell’uomo:
diritto naturale vuol dire qui diritto razionale, che è dimostrato essere giusto oggettivamente dalla
ragione dell’uomo. Una parte della critica contemporanea ha sostenuto che i principi eterni del
diritto naturale che risulterebbero auto-evidenti alla ragione (come i principi classici del diritto
romano: dare a ciascuno il suo, non danneggiare nessuno), sono in realtà vuoti e formali, perché
non è possibile stabilire esattamente il significato di tali espressioni Sul piano psicologico e del
senso comune si può dire che il giusnaturalismo estremo ha dalla propria parte la costante
esigenza di certezza e di una fondazione sicura delle scelte morali, e per questo viene riproposto in
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modi più o meno nuovi. Contro di sé, ha la grandissima variabilità delle opinioni morali nella storia,
e l’esperienza del fatto che qualunque sistema di filosofia morale ha suscitato nel tempo sia
adesione che opposizione qualificate e ragionate. Queste critiche all’esistenza dei diritti naturali
sono importanti perché mettono in forse una dottrina (giusnaturalismo) le cui idee hanno forgiato
la storia e lo stato: in primo luogo l’idea dei diritti inalienabili dell’individuo. Questi diritti
soggettivi sono nati come diritti soggettivi naturali, sorti in polemica con i diritti positivi
considerati insufficienti ed ingiusti. Anche se sono stati recepiti dai diritti positivi, come garanzie
costituzionalie diritti dei cittadini, molti li ritengono come diritti naturali e inalienabili,
indipendenti e prioritari rispetto al diritto positivo, in un mondo in cui molti stati non li tutelano
adeguatamente. Tuttavia, la discussione teorico-filosofica non può essere decisa in base al bisogno
di certezza e alla variabilità dei valori; la difficoltà del giusnaturalismo sta proprio nella difficoltà di
una fondazione teorica e razionale della propria teoria. Dunque la critica più grave che si può
rivolgere al giusnaturalismo è di tipo metodologico e gnoseologico: essa prende la forma dello
scetticismo rispetto alla facoltà umana di conoscere e descrivere oggettivamente i valori morali.
Questa concezione cognitiva dell’etica è accusata dai non cognitivista di fallacia naturalistica
(vedi voce in: Giustizia), cioè di voler indebitamente derivare conclusioni prescrittive dalla
descrizione dei fatti. Mentre l’esigenza della fondazione obbiettiva dell’etica è difesa anche da altre
teorie come l’utilitarismo e contrattualismo, una difesa flessibile del giusnaturalismo è tentata da
chi abbandona un modello di morale statica per passare a parlare di diritto naturale mutevole: si
sostiene che esiste un modo oggettivo di individuare il diritto naturale, ma che esso muta nello
spazio e nel tempo, andando sempre a coincidere con la morale positiva di un dato tempo e un
dato luogo. Molti critici hanno dubbi riguardo questo metodo, perché è difficile individuare una
morale positiva univoca, con confini e fattezze sufficientemente precisi, in una data situazione
spazio-temporale: quando questa precisione viene raggiunta i critici sospettano che tale omogeneità
sia derivata da un elemento semplificatore e prescrittivo, ossia le scelte morali del filosofo stesso.

3. IMPERATIVISMO L’imperativismo è una concezione del diritto che configura la norma


giuridica come imperativo, cioè comando di fare o astenersi dal fare: più che di una concezione
del diritto si tratta di una componente di varie concezioni giuridiche più ampie. L’imperativismo ha
avuto la suadeterminazione più classica da parte di John Austin, autore di La determinazione del
campo dellateoria del diritto (1832): Austin secondo il suo metodo analitico, definisce il diritto
come norma, e la norma come comando, cioèmanifestazione della volontà espressa in forma
imperativa e sostenuta dalla minaccia di una sanzione. Il diritto è dunque considerato come un
insieme di comandi emanati da un sovrano, cioèda chi possiede il potere supremo di dare gli ordini
e non dovere ubbidire a nessuno (nel caso inglese il Parlamento), che vieneabitualmente obbedito
perché i suoi comandi sono sanzionati. L’imperativismo si accompagnaal formalismo
interpretativo, cioè la teoria per cui esiste sempre un’interpretazione corretta e vera delle leggi, ed
eventuali divergenze di interpretazione vanno imputate ad errori emancanza di conoscenze
adeguate. La controversia sulla norma andrebbe risolta facendo leva sulla volontà del legislatore.

Oggi l’imperativismo in questa sua forma originaria è criticato dai teorici del diritto, perché non
riesce a spiegare molti fenomeni giuridici che non sono qualificabili come comandi: x es. il diritto
internazionale (Austin lo considera come un caso di morale positiva). La teoria
dell’interpretazione come atto di volontà appare poco realistica e impossibile da applicare quando
gli organi produttivi di norme sono corpi collettivi come i parlamenti, ovvero quando le norme
giuridiche sopravvivono ai loro produttori (morti o non più in carica). Il problema è che solo una
piccola parte dei fenomeni giuridici è spiegata dal modello imperativistica, sostanzialmente
soltanto certi aspetti del diritto penale. È vero che i concetti di minaccia e di abitudine
all’obbedienza offrono alla teoria del comando una certa capacità di spiegare l’insorgere e la
persistenza di rapporti sociali non meramente occasionali di obbedienza e sottomissione, ma è
anche vero che la capacità esplicativa del modello imperativistico diminuisce quando viene a
mancare non solo la situazione concreta del comando, ma anche le persone concrete del
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comandante e del comandato. Il diritto infatti è un insieme di rapporti sociali in larga misura
impersonali, spesso puramente potenziali tra persone non attualmente in contatto tra loro; per
questo le nozioni di comandante e comandato si applicano per lo più solo metaforicamente: il più
frequente di questi usi è quello per cui i giuristi parlano di un legislatore come se fosse una persona
dotata di una volontà; in realtà esso è un’istituzione complessa, retta essa stessa da norme
impersonali. In realtà il legislatore non è neppure un comandante vero e proprio, poiché emana
norme impersonali applicate da terzi. È stato il realismo giuridico scandinavo a mettere in luce i
pericoli nascosti dietro la metafora: Olivecrona ha avanzato la teoria del diritto come composto di
imperativiindipendenti, cioè impersonali. Molti critici dell’imperativismo e del giuspositivismo, tra
cui Olivecrona, tendono a identificare l’imperativismo col positivismo giuridico giudicandoli
logicamente interdipendenti: essi ritengono che ogni confutazione dell’imperativismo lo sia anche
del giuspositivismo; tuttavia ci sono alcune versioni del giuspositivismo che non sono
imperativistiche, e concezioni imperativistiche che non sono giuspositivistiche. Tuttavia
l’importanza attuale dell’imperativismo sta proprio nella sua influenza enorme e persistente sulle
concezioni non articolare dei giuristi positivi: mentre come concezione filosofica è ormai poco
popolare, esso è probabilmente la concezione implicita della normatività giuridica più diffusa tra i
giuristi.

4. POSITIVISMO GIURIDICO 4.1.METODO SCIENTIFICO E SEPARAZIONE TRA


DIRITTO E MORALE

Il positivismo giuridico o giuspositivismo, è la concezione del diritto come diritto positivo. È


importante però ricordare che cosa si intenda per diritto positivo, e che molto dipende soprattutto
dal modo in cui il giuspositivista intende descriverlo o conoscerlo. È bene precisare che: il
giuspositivismo fa riferimento al diritto positivo come diritto posto da un individui umani; quindi
non ha rapporti diretti col positivismo filosofico. Infatti il positivismo filosofico in campo giuridico
ha sostenuto un approccio sociologico e non giuspositivistico, dando luogo alla sociologia del
dirittoe alla giurisprudenzasociologica (la giurisprudenza sociologica ritiene che il diritto sia più
ampio dei codici e delle leggi e debba essere attento alla realtà sociale e ai suoi interessi).
Nonostante la diversa origine e impostazione, il giuspositivismo ha in comune con la sociologia del
diritto la pretesa di essere un approccio scientifico descrittivo e fattuale al diritto, lasciando le
questioni prescrittive su come il diritto dovrebbe essere alla politica del diritto. Quindi, da una
parte c’è la giurisprudenza descrittiva e scientifica, che si occupa di conoscere il diritto; dall’altra
la giurisprudenzavalutativa, che si occupa della critica etico-politica del diritto: l’approccio
descrittivo e quello valutativo al diritto vengono chiamati giurisprudenza espositiva e
giurisprudenza censoria nella classica terminologia di Bentham. Questa distinzione deve essere
applicata con uguale scrupolo sia nell’interpretazione che nell’applicazione del diritto: da una
parte ci sono le operazioni basate sull’obbedienza al diritto, in quanto le prescrizioni di questo
sono accertabili con la descrizione scientifica; dall’altra c’è il campo della discrezionalità del
giurista e del giudice dove l’interprete è costretto ad operare scelte pratiche all’interno della cornice
fornita dal diritto chiaro e certo. Il positivismo giuridico non afferma l’obbligo di obbedire al diritto
positivo: è vero che la concezione giuspositivistica identifica il diritto con la forza, ma non è vero
che sostiene il dovere morale di obbedire a tale diritto identificato con la forza: l’accuso di reductio
ad Hitlerumche viene mossa al giuspositivismo (cioè di incoraggiare l’asservimento ai regimi
totalitari) è infondata. Queste tesi costituiscono la teoria giuspositivistica fondamentale, cioè la
separazione tra diritto e morale, per cui il diritto può e deve essere separato dalla morale: i
contrasti col giusnaturalismo sono evidenti. La possibilità di una conoscenza del diritto è
fondamentale nel giuspositivismo, perché senza il giurista non potrebbe applicare il diritto, neanche
volendolo: infatti se nessun giurista fosse in grado di conoscere e descrivere il diritto in modo
obbiettivo, sarebbe costretto a ricrearlo dal nulla in ogni atto applicativo, lo volesse o meno e ne
fosse consapevole o meno. (L’idea che il diritto sia liberamente ricreato ad ogni applicazione è
sostenuta dal giusliberismo). Quest’esigenza di conoscenza viene soddisfatta dal giuspositivista
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mediante una scienza giuridicaassai peculiare, che si occupa del diritto non in quanto realtà
sociale, ma per quello che prescrive.

4.2.IL GIUSPOSITIVISMO KELSENIANO A parecchie di queste critiche ha risposto la


versione normativistica del giuspositivismo, il cui massimo esponente è Hans Kelsen, il più
grande filosofo del diritto del ‘900, autore de la Dottrina pura del diritto (in due edizioni: 1934 e
1960). Il giuspositivismo normativistakelseniano (chiamato da Kelsendottrina pura del diritto),
presenta il diritto non più come un insieme di norme impersonali, collegate a una volontà normativa
metaforica, che si riduce alsignificato oggettivo attribuito ad atti e situazioni da norme giuridiche.
Queste sono collegate traloro da altre norme giuridiche in un ordinamento giuridico. Le leggi
statali risultano essere solo un tipo di norma giuridica; sono norme giuridiche anche le norme
superiori alle leggi (costituzioni) o inferiori (regolamenti, sentenze, contratti): in ordinamenti
primitivi possono essere norme giuridiche anche norme di origine non statale, in primo luogo quelle
derivanti dalla consuetudine. L’interpretazione è considerata dalla dottrina pura del diritto come
attività in parte conoscitiva e descrittiva dei significati posseduti dalle norme, e in parte anche
creativa, nell’area di vaghezza che ogni norma generale/astratta abbandona alla discrezionalità
dell’interprete. Per il giuspositivismo kelseniano il diritto è un mezzo particolare di controllo
sociale: infatti il diritto è sempre coattivo, perché il diritto è regolamentazione della coazione,
dunque è una tecnica per ottenere qualunque fine: questa tesi è importante, perché attribuisce al
diritto la natura di mezzo, indica che esso non è caratterizzato da alcun fine specifico. Inoltre il
normativismo kelseniano si occupa di descrivere le norme nella loro dimensione normativa, che
Kelsen chiama la loro esistenza specifica, senza preoccuparsi della loro effettività: ciò non
significa che per Kelsen l’effettività di un diritto non abbia alcuna importanza, altrimenti non
sarebbe possibile distinguere gli ordinamenti reali da quelli immaginari o non più in vigore.
L’ordinamento normativo privo di effettività cessa di esistere, come avviene per i diritti del passato,
studiati dal diritto e non dalla giurisprudenza. Le conseguenze di questa concezione del diritto sono
profonde sia per la teoria del diritto che per la scienza giuridica: secondo Kelsen infatti tutto il
diritto deve essere ricondotto a norme sanzionanti: ciò implica anche i diritti soggettivi e le
modalità giuridiche. Anche questa versione del giuspositivismo è stata oggetto di critiche radicali:
infatti in esso si troverebbero riuniti due elementi incompatibili, uno conoscitivo e uno ideologico,
quest’ultimo nascostamente valutativo: nel primo il diritto è considerato come fatto (norme
socialmente effettive), nel secondo è considerato normativamente (norme socialmente effettive).

Si è ritenuto che il giuspositivismo dovrebbe essere diviso in questi due elementi: l’uno, l’esigenza
di una scienza dei fatti giuridici, dovrebbe essere ricondotto alla sociologia del diritto; l’altro, cioè il
normativismo, dovrebbe ammettere di essere un’ideologia politica favorevole alle norme effettive,
un’ideologia conformista. Chi ha avanzato queste critiche sostiene che il giuspositivismo
normativista nasconde un’adesione o accettazione di fondo del diritto stesso: nonostante il
giuspositivismo non richiede nessun atteggiamento morale verso il diritto positivo, sia favorevole o
sfavorevole.

4.3.HART E IL GIUSPOSITIVISMO POST-HARTIANO Hart ha influenzato il giuspositivismo


della seconda metà del secolo scorso, specie nel mondo anglo americano con la sua opera “Il
concetto di diritto” del ’61. Hart è un filosofo analitico inglese, e il concetto di diritto che analizza
è quello effettivamente presente nel pensiero e linguaggio ordinario, secondo cui è imprescindibile
considerare l’atteggiamento di coloro che partecipano alla pratica giuridica, in particolare i
funzionari giuridici, quello che Hart chiama punto di vista interno. Nonostante diritto e morale
debbano essere separati, il diritto ha sempre un contenuto minimo di diritto naturale, senza il
quale non potrebbe favorire quello scopo minimo di sopravvivenza che gli uomini hanno quando si
associano tra loro. Gli esseri umani presentano infatti alcune caratteristiche contingenti ma basilari,
come la moralità e la vulnerabilità fisica: per questo solitamente si proibiscono l’uccisione o
danni corporali. È dunque necessario un’organizzazione per esercitare la coazione nei confronti di
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coloro che tentassero di ottenere i vantaggi del sistema senza sottomettersi agli obblighi che ne
derivano. Hart critica l’imperativismo di Austin, affermando che al diritto non si obbedisce
esclusivamente per timore della sanzione. Il diritto è visto da questo punto di vista interno, ma
questa prospettiva non riesce a cogliere l’essenziale dimensione normativa presente nelle azioni e
nei discorsi giuridici. Il diritto è fatto di norme che si differenziano dalle abitudini e regolarità di
comportamento perché hanno un aspettointerno; infatti vengono trattate dai loro destinatari come
criteri comuni di condotta e usate per giustificare le richieste di conformità. Hart si riallaccia a
Kelsen e afferma che: il diritto è un ordinamento normativo di carattere essenzialmente coercitivo,
ma rigetta la tesi che tutte le norme prevedono una sanzione: non lo fanno le norme che
conferiscono poteri, che hanno la funzione di fornire ai singoli strumenti per la realizzazione dei
propri scopi. L’ordinamento è individuato dalla norma di riconoscimento, che fissa i criteri ultimi
di validità che servono a determinare le altre norme. Questa è una norma positiva, ed esiste solo
perché è socialmente accettata dai funzionari giuridici. Hart inoltre, distingue le norme di ogni
diritto dotato di minima complessità in due categorie: Le norme primarie, che fissano obblighi di
condotta. e Le norme secondarie, che sono metanorme concernenti le norme primarie e sono a loro
volta di tre tipi:

• La norma di riconoscimento; • Le norme di mutamento, che istituiscono gli organi deputati alla
creazione e abrogazione delle norme; • Le norme di giudizio, che attribuiscono ai giudici il potere di
irrogare sanzioni per la violazione delle norme primarie.

In tema di interpretazioneHart rifiuta sia il formalismo che lo scetticismo semiotico. Per lui,
l’interprete crea il significato delle disposizioni giuridiche, in quanto il diritto usa gli stessi termini
che sono in uso nella lingua naturale. Questi termini hanno un area di significato piuttosto certa ma
circondata da un are di “penombra”. Gli sviluppi di Hart, sono però criticati dal filosofo
nordamericano Dworkin, noto esponente del neocostituzionalismo. Secondo Dworkin, Hart e il
giuspositivismo sarebbero incapaci di spiegare i principi giuridici, i quali vanno considerati come
tali non per la fonte che li ha prodotti, ma per il loro contenuto. Dworkin ha proposto una
concezione del diritto come integrità, in cui il diritto è la semplice esplicazione di valori morali
culminante e nel generalissimo valore della uguale considerazione e rispetto degli individui. Il
giurista che adotti questo atteggiamentointerpretativo sarà in grado di conseguire, almeno
idealmente, la giusta risposta ad ogni questione giuridica. La risposta del giuspositivismo
posthartiano ha preso due direzioni, ovvero il giuspositivismo inclusivo e
giuspositivismoesclusivo. Secondo il giuspositivismo inclusivo: niente preclude che un diritto
incorpori valori morali o principi di giustizia, come in fanno gli ordinamenti costituzionali
contemporanei, ma ciò non è necessario. Quando la conformità a un principio morale è richiesta
come criterio di validità delle norme giuridiche, la validità giuridica di una norma dipenderà dal suo
contenuto morale. Per il giuspositivismo esclusivo, i principi morali non possono mai diventare
parte del diritto e non possono essere criteri di individuazione di ciò che diritto.Ciò che il diritto è
dipende non dalla morale ma da fatti sociali.L’esistenza e il contenuto di un diritto possono essere
determinati con riferimento alle sue fonti, senza dover far ricorso ad argomenti morali, che sono
sempre intrinsecamente controversi. Quando il diritto contiene un riferimento a principi morali,
questi non divengono parte dell’ordinamento giuridico: ci si limita ad attribuire ai giudici il potere
di creare nuovo diritto attingendo a criteri morali extragiuridici. Concludendo , possiamo parlare di
giuspositivismo quando ci sono due aspetti: Atteggiamento ideologico-politico: concezione
strumentale del diritto, visto come mezzo di controllo sociale mediante la coazione distribuita
mediante norme generali e astratte, per qualunque fine e valore che le società, o le persone o classi,
si pongano. Aspetto descrittivo: idea secondo cui è possibile descrivere le norme generali e
astratte, trasmettendone il contenuto senza interventi normativi che ne stravolgano il senso da parte
di chi descrive. 4. NEOCOSTITUZIONALISMO Il neocostituzionalismo rappresenta concezioni
di diritto fondate sul superamento del modello ottocentesco di costituzionalizzazione dello stato di
diritto e sull’affermazione del modello dello stato costituzionale, caratterizzato da alcuni elementi:
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in primo luogo da una costituzione scritta e rigida, cioè sovraordinata alla legge. In secondo luogo
lo stato costituzionale di diritto prevede diversi meccanismi che rimettono le leggi a un sindacato
di costituzionalità, cioè le leggi possono essere annullate qualora non siano conformi dal punto di
vista dei contenuti, con la costituzione. Questi, diciamo, sono aspetti formali che
contraddistinguono lo stato costituzionale di diritto. C'è poi l'aspetto sostanziale che riguarda i
contenuti delle norme che caratterizzano questi ordinamenti a livello costituzionale; vengono infatti
attribuiti agli individui, alcuni diritti fondamentali. Questi diritti fondamentali sono inviolabili e
questa inviolabilità è garantita anche nei confronti del legislatore, cioè il legislatore non può andare
contro i diritti fondamentali perchè sono garantiti dalla costituzione. Nel diritto costituzionalizzato i
rapporti tra diritto e morale, hanno assunto una configurazione inedita. Infatti la morale penetra
all’interno del diritto attraverso i principi costituzionali e ne diventa un elemento costitutivo
imprescindibile. C’è da dire che i neocostituzionalisti non invocano un diritto naturale, anzi c’è
proprio un superamento dell’idea di diritto naturale. I diritti naturali sono positivizzati nella
costituzione, assieme a una serie di valori morali di portata generalissima, e diventano diritti
fondamentali. Essi, condividono con il giusnaturalismo la fiducia nella controllabilità
intersoggettiva delle argomentazioni morali, e dunque la convinzione di poter ottenere sempre la
risposta giusta anche alle questioni giuridiche più spinose. Da alcune idee, la costituzione diviene
una tavola dei valori da cui desumere un modello complessivo di società giusta. Si trae dunque:

• Completezza o almeno completabilità del diritto, perché si ritiene possibile trovare nella
costituzione la risposta giuridica a ogni problema di conflitto sociale;

• La distinzione tra norme e principi giuridici, questi ultimi intesi come standards defettibili, che
necessitano di un bilanciamento; • Una concezione sintetica tendenzialmenteespansiva, sia del
contenuto che del catalogo dei diritti fondamentali, che si ritiene

possano essere anche solo implicite nel testo costituzionale; • Giudici visti come custodi ultimi dei
valori costituzionali; • La possibilità di arrivare a risultati interpretativi univoci sulla base di una
lettura dei valori morali incorporati nelle costituzioni; • Ruolo imprescindibile della morale delle
argomentazioni giuridiche le quali anzi, secondo qualcuno, rappresenterebbero solo

un caso speciale di argomentazione morale; • Infine, la critica dell’ideale giuspositivista del


giurista scienziato distaccato e avalutativo ; al contrario è caldeggiata l’attiva

partecipazione del giurista alla costruzione dell’ordine sociale delineato in costituzione,


all’attuazione dei valori costituzionali o alla denuncia della loro inattuazione.

Possiamo dunque affermare che il neocostituzionalismo è un intreccio di tesi teoriche e etico-


politiche. Queste ultime sono connotate da un atteggiamento di intensa approvazione del modello
dello stato costituzionale. Mentre le tesi teoriche, sono viziate da un eurocentrismo e da una
miopia nei confronti della storia del diritto. L’incorporazione o il rinvio a idee o valori morali non
rappresentano una novità storica, ma sono una costante tutti i diritti. Ad es. si diceva che il codice
civile incorporasse il diritto naturale. 5. REALISMO GIURIDICO

4.4.REALISMO GIURIDICO (in senso lato) Realismo giuridico o giusrealismo è qui inteso in
senso molto ampio, per comprendere un gruppo di concezioni anche molto diverse tra loro, che
hanno in comune il fatto di prestare particolare attenzione all’effettività del diritto, all’esistenza del
diritto nella società e nei comportamenti sociali: in special modo all’attività dei tribunali. Se si
caratterizza il realismo giuridico in modo così generico rientrano al suo interno varie concezioni: il
giusrealismo americano e quello scandinavo (i cosiddetti “realismi giuridici in senso stretto”), ma
anche la giurisprudenza sociologica, il giusliberismo, l’istituzionalismo e la teoria del rapporto
giuridico. Gli elementi comuni alle varie forme di realismo giuridico risultano più chiari se visti
sullo sfondo del giuspositivismo e in opposizione ad esso: specie al giuspositivismo implicito nella
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mentalità dei giuristi del nostro secolo. Tutte queste concezioni hanno in comune, oltre
all’attenzione per l’effettività, anche la loro opposizione al formalismo giuridico e al legalismo,
presenti soprattutto nel giuspositivismo. Queste concezioni realistiche del diritto propongono un
elenco di fonti del diritto più ampio di quello dei giuristi positivi: per essi vi rientrano anche le
consuetudini sociali, le regolamentazioni derivate da interessi protetti ecc. Si potrebbe pensare che
questa concezione del diritto sia senz’altro più scientifica di quella giuspositivista, perché considera
più fatti ed è maggiormente attenta alla società e alle concrete situazioni sociali: in realtà si tratta di
una diversa valutazione etico-politica nei confronti del diritto e non di una sua diversa descrizione
empirico-fattuale: si ritiene opportuno che il diritto venga definito in modo da includere anche certe
norme effettive che la concezione tradizionale e giuspositivista tendono ad escludere. Ogni
valutazione, positiva o negativa, si dia di questo tipo di realismo giuridico, non si può considerarlo
scienza: alcuni chiamano giurisprudenzasociologica questo ramo del realismo giuridico con forti
componenti etico-politiche, per distinguerlo dalla sociologia del diritto, la scienza del diritto
empirico-fattuale. Alcune correnti del realismo giuridico favoriscono una concezione predittiva
della giurisprudenza, che dovrebbe occuparsi del diritto chevive ed opera soprattutto nei tribunali,
oltre al diritto scritto su carta: sarebbe da coltivare la previsione dei comportamenti delle corti,
secondo alcuni perché è utile al giurista pratico, secondo altri perché fonda una scienza di tipo
sociologico. Dunque le correnti giusrealiste possono essere descritte in quelle che hanno
un’impostazione soprattutto empirica e descrittiva, e quelle che hanno un impostazione prescrittiva
ed etico-politica. Va notato che le prime condividono di solito un’etica non cognitivista, le seconde
credono nella possibilità di soddisfare valori obbiettivi, anche se legati alla realtà sociale. I
giusrealisti hanno poi opinioni diverse circa l’influenza effettiva delle norme giuridiche sui
comportamenti giudiziari; infatti alcuni sono normativisti e altri no: i primi credono che le norme
generali e astratte abbiano notevole influenza sul diritto vero e proprio (quello dei tribunali), i
secondi considerano ben più importanti indagini su fatti più direttamente influenti, quali le tendenze
giurisprudenziali. Tutti i giusrealisti hanno un’interpretazione piuttosto scettica dell’interpretazione
giuridica: sottolineano infatti l’indeterminatezza ineliminabile delle norme generali e astratte e la
natura creativa della loro applicazione ai casi concreti: la misura di questo scetticismo è connessa
con la possibilità per il giusrealismo di essere o meno normativistico. Le concezioni di estremo
scetticismo interpretativo negano l’influenza delle norme generali nella loro applicazione
giuridica: ogni interpretazione viene considerata come interamente creativa. Le concezioni più
moderate ammettono un nucleo di certezza nella norma ed un’area di discrezionalità lasciata
all’interprete. Tutte queste correnti giusrealiste si caratterizzano per ciò a cui si oppongono: il
formalismo interpretativo del giuspositivismo e la metafisica del giusnaturalismo (anzi alle due cose
insieme, perché il giuspositivismo viene considerato una variante subdola e ideologica del
giusnaturalismo). Una valutazione equilibrata del complesso di tesi che vanno sotto il nome di
giusrealismo richiede che in conclusione vengano esaminati separatamente i suoi aspetti etico-
politici e i suoi aspetti scientifici: quanto al programma politico della giurisprudenza sociologica e
del giusliberismo va osservato che esso non si presenta come un obbiettivo autonomo, ma come
correttivo del legalismo e del formalismo giuspositivista. Quanto all’esigenza scientifica e
previsione del realismo giuridico, va osservato che essa è certamente legittima in una scienza del
diritto che voglia essere empirica allo stesso modo delle scienze sociali: tuttavia c’è da chiedersi se
essa non sia troppo riduttiva verso la funzione prescrittiva del diritto; il diritto infatti non è uno
strumento predittivo, stabilito per permettere a uno scienziato di prevedere i comportamenti dei
giudici, ma una prescrizione di comportamenti che si vogliono in tal modo controllare. È proprio
perché il diritto prescrive questi comportamenti che può anche servire a prevederli: di conseguenza i
più coerenti tra i giusrealisti sembrano ammettere anch’essi una natura significante del linguaggio
giuridico, come linguaggio prescrittivo di comportamenti.

4.5.REALISMO GIURIDICO (in senso stretto) Il giusrealismo americano ha l’obbiettivo dare


una descrizione del diritto che permetta di prevedere il più efficacemente possibile le decisioni
giudiziarie concrete. Questi realisti sostengono che al centro del diritto non stanno le norme generali
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e astratte, ma piuttosto la somma del singole decisioni giudiziarie: si tratta pertanto di un tipo di
decisionismo. Essi sostengono che le norme abbiano al più una funzione predittiva, cioè
permettono di prevedere quale sarà il vero diritto, quello dei tribunali. È meno chiara di quanto
sembri la ragione per cui le decisioni giudiziarie abbiano una posizione così privilegiata in questa
concezione del diritto: probabilmente perché il diritto a livello dell’applicazione giudiziaria sembra
essere realmente effettivo; va però notato che le decisioni dei giudici hanno particolare importanza
nel sistema di common law in vigore negli Stati Uniti.

Gli esponenti della corrente giusrealista americana sono Jerome Frank e Karl Llewellyn. In
particolare Llewellyn formula le idee fondamentali del giusrealismo: egli nega la capacità delle
norme giuridiche generali e astratte di determinare significativamente le azioni giuridiche (in specie
i processi); sostiene che la giurisprudenza scientifica deve limitarsi a cercare di prevedere il
comportamento delle corti; e nutre idee scettiche sull’interpretazione, che avrebbe sempre elementi
di creatività nascosti ma decisivi. Ha inoltre in comune con gli altri giusrealisti l’interesse per
l’effettività delle norme, che spinge di solito i giusrealisti a occuparsi molto di sociologia
dell’attività giudiziaria. Il giusrealismo scandinavo è un’altra corrente del realismo giuridico in
senso stretto. Essa parte dalla critica epistemologica del tradizionale discorso dei giuristi positivi, e
in particolare della tradizionale scienza giuridica; la critica si estende al modello giuspositivistico e
kelseniano della scienza giuridica. Il realismo giuridico scandinavo ha in comune con la corrente
nordamericana un interesse prevalente per l’effettività del diritto. A differenza della controparte
americano non è però sempre antinormativista sul piano teorico, nel senso che non sempre nega
le importanze delle norme giuridiche generali e astratte per la previsione e comprensione dei
fenomeni giuridici e soprattutto giudiziari. I giusrealisti scandinavi sostengono che i giuristi
positivi, anche giuspositivisti, producono una scienza che è incompatibile con il modello delle
scienze empiriche e sociali contemporanee e fanno inoltre uso di un linguaggio normativo intessuto
di presupposti metafisici e di termini astratti e privi di senso, come: diritto soggettivi, rapporti
giuridici, validità eccetera. In tal modo la giurisprudenza tradizionale e giuspositivista fornisce la
descrizione di come le norme dovrebbero essere applicate, non di come esse sono applicate di fatto:
e questa è senz’altro un’operazione ideologica. I giusrealisti scandinavi vogliono ridurre la scienza
giuridica a discorso empirico predittivo dei comportamenti giuridici, adeguandola all’obbiettivo
che viene attribuito anche alla sociologiadel diritto. Come si vede, su questa concezione, americani
e scandinavi si trovano d’accordo. Per isostenitori più moderati di queste posizioni, i termini
giuridici astratti non sono necessariamente daeliminare dal discorso giuridico, purché li si consideri
come mezzi per riassumere e formulare lenorme giuridiche (senza attribuire però ad essi una vera
“entità giuridica”): in questo il giusrealismoscandinavo viene a trovarsi molto vicino alle tesi
normativistiche kelseniane. Le critiche precedenti hanno stretti rapporti con la critica al formalismo
interpretativo: anche il giusrealismo scandinavo è scettico riguardo alla teoria dell’interpretazione e
sottolinea l’estrema libertà interpretativa concessa all’interprete dalla formulazione generale e
astratta delle norme giuridiche.Da parte di queste correnti del giusrealismo è stata prestata grande
attenzione ai problemi di fondazione dei valori, e si trova spesso sostenuta una teoria relativistica o
non cognitivistica deivalori : ovvero si nega la possibilità di conoscenza e fondazione oggettiva dei
valori, dei giudizi etici e in particolare di quelli di giustizia.I valori vengono da questi giusrealisti
empiricamente considerati come fatti sociali tra gli altri, il cui influsso sul diritto può essere
certamente descritto, ma non può essere approvato o disapprovato. A differenza di quanto avviene
per il giusrealismo americano, il fondamento del giusrealismo scandinavo è soprattutto filosofico e
metodologico: si tratta infatti di purificare il discorso dei giuristi dai suoi elementi mitici e
ideologici, e di produrre una vera scienza giuridica empirica e non nascostamente valutativa. I due
filosofi del giuriamo scandinavo più importanti sono Olivecrona e Alf Ross, autore di Diritto e
giustizia (1953) e Direttive e norme (1968). Con Olivecrona e con Ross, e soprattutto con
quest’ultimo, che fu anche allievo di Kelsen, il realismo giuridico affronta alcuni dei problemi
fondamentali della teoria giuridica contemporanea, affrontati anche da Kelsen; soprattutto la
separazione della questione della giustizia da quella dell’individuazione e descrizione del diritto. Il
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maggior punto di distacco tra questo realismo e Kelsen sta proprio nella concezione della scienza
del diritto: per giusrealisti infatti la scienza giuridica tradizionale e giuspositivistica è
irrimediabilmente ideologica, compromessa da una nascosta scelta etico-politica a favore del diritto
descritto; mentre una vera scienza del diritto deve essere sociologica e revisionale e occuparsi
dell’effettività del diritto (tribunali..). Ross respinge l’idea di una specifica validità a priori del
diritto, e sostiene, in polemica con Kelsen, che le norme non hanno alcuna specifica realtà e non
esistono a meno che non vengono osservate e sentite come vincolanti dai loro destinatari. Ross è
inoltre d’accordo con Kelsen sul fatto che le norme di competenza siano riconducibili a norme di
condotta, e che norme giuridiche vere e proprie siano solo quelle che disciplinano i comportamenti
umani osservabili. Infine, sul compito e la natura della scienza giuridica, Ross la qualifica come
empirica e predittiva: essa dovrebbe indagare sulle tendenze decisionali giudiziarie e formulare
previsioni concernenti il comportamento futuro dei tribunali.

4.6.ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO L’analisi economica del diritto si sviluppa negli
Stati Uniti negli anni’60 del secolo scorso e si propone di applicare i concetti della teoria
economica all’esame dei problemi giuridici, soprattutto al fine di analizzare l’influenza delle norme
delle istituzioni giuridiche sui comportamenti dei singoli e di prevedere in quale modo gli individui
adotteranno la propria condotta ai mutamenti del diritto. Il diritto è concepito come uno strumento
finalizzato a conseguire l’obiettivo dell’efficienza economica. L’efficienza economica è di solito
intesa come la massimizzazione della ricchezza sociale complessiva, ossia il valore di tutti i beni e
servizi materiali e immateriali presenti in una data società. Questo valore è determinato non sulla
base di criteri oggettivi, bensì sulla base di valutazioni individuali. L’efficienza economica è
massimizzata quando le risorse della società risultano allocate in modo tale che la somma di tutte le
valutazioni individuali si a la più alta possibile. L’efficienza economica è quindi calcolata in
funzione del benessere dei singoli. Gli individui sono raffigurati come agenti razionali mossi
dall’obiettivo di massimizzare la soddisfazione del proprio interesse personale e capaci di
rispondere razionalmente ai mutamenti esterni quali ad es. quelli determinati dalle norme
giuridiche. Le norme del diritto sono dunque essenzialmente strumenti per offrire incentivi o
disincentivi agli individui, e vanno analizzate solo in questa prospettiva strumentale. Due correnti
distinte: Analisi economica positiva: privilegia la descrizione del diritto secondo le categorie
economiche ed è interessata ad analizzare gli effetti delle norme giuridiche sul funzionamento del
sistema economico; mira alla migliore comprensione del sistema giuridico e alla previsione di come
gli individui agiranno nelle interazioni reciproche tenendo conto delle norme giuridiche. Analisi
economica normativa: fornisce ai legislatori, giudici e alla pubblica amministrazione, le direttive
per strutturare le istituzioni giuridiche, emanare le norme generali e decidere sui casi individuali in
modo da promuovere lo scopo dell’efficienza; mira a fornire ai decisori giuridici gli strumenti di
politica del diritto più idonei a perseguire il fine dell’efficienza economica. Su questa base, è
importante studiare le influenze reciproche tra diritto e mercato. È politicamente opportuno che un
legislatore avveduto si ponga il problema di valutare l’impatto economico delle misure normative
che intende adottare, sebbene calcoli del genere siano generalmente influenzati da un enorme
numero di variabili, talvolta occulte. Sul piano descrittivo, possono essere sollevati dubbi sulla
razionalità degli esseri umani e sul loro intento esclusivo di massimizzare la soddisfazione dei
propri interessi. Occorrerebbe tener conto dei deficit cognitivi e in generale dei limiti della
razionalità umana. Il diritto non è ordinariamente concepito come un sistema di incentivi/
disincentivi, ma come un meccanismo che guida le azioni stabilendo che cosa si può, si deve e non
si deve fare. La distruzione di un bene comporta un danno economico. Tuttavia è importante
distinguere la

distruzione operata nell’esercizio di un diritto da quella compiuta in violazione di un dovere (si


pensi alla distruzione di un’autovettura da parte del suo proprietario oppure di un terzo), oppure la
ricorrenza della colpa (si pensi alla distruzione di un’autovettura altrui per negligenza oppure per
caso fortuito). I concetti dell’analisi economica del diritto, in primis quello di efficienza, sono intrisi
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di scelte normative nascoste: infatti, l’efficienzaeconomica è solo uno dei fine a cui il diritto può
tendere.Fare dell’efficienza economica e il perno di una intera concezione del diritto, equivale a
elevarla a criterio ultimo di giustizia, scelta nient’affatto scontata.Occorre inoltre definire il fine
dell’efficienza economica puntualizzando alcuni aspetti relativi alla distribuzione della ricchezza.
Se infatti la si definisce soltanto come massimizzazione della ricchezza di una società, essa entra
facilmente in conflitto rispetto ad altri principi: merito, bisogno ecc.

6.4. GIURISPRUDENZA SOCIOLOGICA E GIUSLIBERISMO La concezione del diritto


libero è un movimento di pensiero che attribuisce ai giuristi il potere, o il dovere, di ricercare
«liberamente» il diritto, al di là di quelle che sono considerate fonti del diritto dalle concezioni più
ristrette, come ad es. il giuspositivismo. Le soluzioni giuridiche date dai giusliberisti dovrebbero
risultare più ricche e più adatte alle esigenze sociali di quelle date da giuristi che seguono un
metodo «meno libero»: questi ultimi, sono polemicamente chiamati formalisti dai sostenitori del
giusliberismo. Il movimento si è sviluppato tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, soprattutto in
Germania. Ha il carattere di un atteggiamento giuridico-culturale parzialmente comune a diverse
teorie del diritto. Si articola in movimento del diritto libero, giurisprudenza degli interessi e
sociologica. Secondo la giurisprudenza sociologica, l'operatore giuridico (giurista e giudice) non si
deve limitare alla ricerca e applicazione delle leggi statali, ma deve prendere le proprie decisioni su
una base più ampia, considerando come fonti del diritto anche fatti sociali normativi diversi dalla
legislazione. Come si vede si tratta di una tesi politico-giuridica. La maggior parte delle correnti
anti-formalistiche del pensiero giuridico contemporaneo; specie la scuola del diritto libero;
sostengono che accanto al diritto statale e legislativo esiste un diritto di uguale o maggiore
importanza, fatto di consuetudini e norme effettive, anche se non formalmente emanate. Questa tesi
è da considerare sia descrittiva che prescrittiva. Il precursore della giurisprudenza sociologica è
Rudolf Jhering, giurista e storico del diritto tedesco, nonché fondatore della giurisprudenza degli
interessi. Jhering sostiene che la scienza del diritto deve seguire il metodo teleologico, cioè deve
ricercare gli interessi o scopi che permeano oggettivamente la società e che costituiscono il
principio unificatore del diritto. Il maggior esponente della giurisprudenza degli interessi è il
tedesco Heck, il quale sostiene che la giurisprudenza e la scienza del diritto devono occuparsi non
solo delle norme giuridiche, ma anche degli interessi che le norme mirano a tutelare. A questo
movimento, appartiene anche il polacco Hermann Kantorowicz, con l'opera “La lotta per la
scienza del diritto” (1906). Egli sostiene che accanto alle leggi dello Stato e alle norme che possono
essere da queste ricavate mediante operazioni logiche, esiste un diritto sociale, prodotto da giuristi,
che precede il diritto statale e non ne dipende. Il diritto legislativo e statale inoltre non è completo:
le lacune possono e devono essere colmate attraverso una interpretazione creativa (o libera). Uno
dei più significativi esponenti del movimento giusliberista è il francese François Gény, che
teorizza il metodo della libera ricerca del diritto, il quale supera la considerazione delle sole fonti
legali e formali del diritto, per individuare la natura delle cose, i concreti rapporti sociali che sono
diritto anch'essi. Il giusliberista rifiuta lo statualismo (la tesi che il diritto è tutto di provenienza
statale), e rifiuta anche il principio della supremazia della legge (statale) sulle altre fonti del diritto.
Per il giusliberista la legge non può fornire un’indicazione sicura per risolvere le controversie:
infatti, per il giusliberista, il diritto è creato dalla decisione giudiziaria, ed è la volontà, non la
ragione, a guidare il giudice nella scelta, sia tra le disposizioni legislative, sia tra i significati che
possono essere attribuiti a queste a posteriori per giustificare la decisione.

6.5. ISTITUZIONALISMO L’istituzionalismo è una teoria giuridica che definisce il diritto come
organizzazionee istituzione. Questa teoria ha fra i suoi principali esponenti il francese Maurice
Hariou , e il giurista giuspubblicista italiano Santi Romano. L’istituzionalismo critica la pretesa
del normativismo di fare della norma l’elemento fondamentale e primario del diritto. Ciò che è
prioritario, per l’istituzionalismo, è l’elemento dell’organizzazione sociale, la quale non solo
preesiste alle norme, ma costituisce anche lo sfondo che ne permette l’interpretazione e ne colma le
lacune; inoltre costituisce in qualche modo il limite alla validità delle norme, che possono essere in
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ogni momento superate dalle norme derivate dalle due grandi fonti del diritto non scritto: la
consuetudinee la necessità. Una critica immediata all’istituzionalismo è: cosa può formare
un’organizzazione se non l’insieme delle norme? Ci si può chiedere, riguardo alle pretese fonti del
diritto non scritto, quali criteri individuino la consuetudine giuridica e la necessità giuridica nel
marasma delle consuetudini e forze sociali. In realtà la concezione istituzionalistica è abbastanza
moderata e risente soprattutto dalla maggiore inclinazione di Romano verso il diritto pubblico
rispetto al diritto privato, e ne deriva un’impostazione prevalentemente statualistica: il diritto
pubblico è infatti diritto statale. Nascosta sotto l’istituzionalismo moderato esiste una concezione
assai più radicale, che respinge il normativismo in modo radicale, vedendo le norme superate dalla
realtà dei rapporti sociali: gli uomini e le loro decisioni fanno la realtà, non le norme: questo
decisionismo estremo è un atteggiamento conoscitivo e un punto di vista eticopolitico. L’idea del
governo delle leggi piuttosto che il governo degli uomini è solo un’ideologica credenza
consolatrice: l’ideologia dello Stato di diritto va osteggiata perché sacrifica alla certezza l’ideale
della giustizia. Il tedesco Carl Schmitt, sviluppa una teoria con la quale teorizza la concezione
concreta dell’ordinamento e giunge fino ad appoggiare l’antinormativismo del nazionalsocialismo;
opponendo alla vuota astrazione del mondo normativo che sarebbe propria di molte concezioni del
diritto la concretezza delle decisioni del potere. Il decisionismo è un’idea filosoficamente profonda e
inquietante per ogni giurista contemporaneo; è diciamo, il sospetto con cui ogni giurista pratico e
teorico deve fare i conti. Pertanto il decisionismo è incorporato, in forme più o meno apparenti, in
molte teorie giuridiche, e in particolare in molte forme di realismo giuridico.

6.6. TEORIA DEL RAPPORTO GIURIDICO Rapporto giuridico è qualunque rapporto


regolato dal diritto; diciamo la concezione di chi ritiene che certi rapporti sociali producano da sé la
propria regolamentazione giuridica. Alcune concezioni del diritto come rapporto sono critiche
soprattutto verso il normativismo, poiché negano che le norme siano l'elemento centrale e
qualificante del fenomeno giuridico. Tali teorie danno grande importanza al momento sociale della
vita giuridica e tendono a vedere diritto in ogni gruppo e rapporto sociale stabile: ben al di là quindi
del diritto statale. Ci si chiede come sia possibile parlare di rapporto giuridico senza che questo dia
luogo a norme che attribuiscono al rapporto stesso una qualificazione normativa (ad es. lo
qualifichino come obbligatorio, vietato o come l'esercizio di un potere); e senza un qualche
criterioprescrittivo (metanorma) che permetta di distinguere tra i rapporti normativi giuridici e gli
altri rapporti normativi, per es. le valutazioni normative che derivano dai costumi sociali.

La teoria del rapporto giuridico sembra cadere nella fallacianaturalistica. Qui il teorico del
rapporto giuridico sembra presupporre il giudizio di valore per cui è bene che le regole diffuse nella
società ottengano un riconoscimento giuridico. Da questi giudizi di valore, egli ricava una
descrizione del diritto: “Il diritto deve essere così,dunqueil diritto ècosi”. Va anche considerato che
le regole e gli interessi sociali sono quasi sempre in conflitto e confusi; occorre quindi un'opera di
scelta politico- giuridica per favorire alcuni tra di essi a preferenza degli altri: un compito che il
giuspositivismo lascia compiere al legislatore politicamente legittimato. Invece, la teoria del
rapporto giuridico, mediante la propria definizione di diritto, demanda questo compito al giudice
che «interpreta» il senso dei rapporti sociali. 6. MARXISMO E DIRITTO Anzitutto occorre
distinguere tra il pensiero di Marx (ed Engels) e quello dei suoi seguaci: si usa distinguerli
chiamando marxiano il pensiero di Marx ed Engels e marxista quello dei seguaci. Marx fu un
filosofo politico, e questi suoi interessi politici influenzano profondamente la sua concezione del
diritto: egli non considera il diritto un fattore storico autonomo. Secondo Marx la filosofia non deve
limitarsi a interpretare la realtà, ma deve trasformarla radicalmente. La storia è per lui movimento
dialettico di ciò che per Hegel era materia (cioè solo una parte della realtà in quanto Spirito), che
per Marx è la vera realtà, costituita dal sistema dei rapporti di produzione dei beni. La filosofia di
Marx si auto-denomina dunque materialismo in senso hegeliano. Gli altri fattori sociali sono per il
materialista solo una parte della sovrastruttura, realtà derivata e dipendente. Ciascuno stadio dei
rapporti di produzione produce un certo tipo di sovrastruttura (morale, politica). Il metodo di
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produzione industriale capitalistica genera per Marx il diritto borghese europeo del XIX secolo. La
storia è per Marx essenzialmente lotta di classe, infatti i rapporti economici sono sempre rapporti
di sfruttamento di una classe sulle altre. Il diritto in Marx fa parte della sovrastruttura, quindi è
impossibile cercare di giudicarlo o comprenderlo in isolamento: il diritto di ciascun periodo storico
è la volontà della classe dominante, ed è rivolto a mantenere lo sfruttamento di classe. Anche l’etica
e i giudizi di giustizia sono sovrastruttura. Il solo giudizio scientifico per Marx è quello relativo al
mutamento dialettico: è considerato positivo ciò che facilità il movimento dialettico, negativo ciò
che lo ostacola. Secondo Marx la società è destinata a cambiare, cioè a rovesciarsi a causa della
rivolta delle classi sfruttate contro la borghesia sfruttatrice. Nascerà così per Marx, la società
comunista, senza sfruttamento, senza classi e senza false rappresentazioni quali l’idea di giustizia.
Pertanto si tende a parlare di diverse teorie marxiste del diritto, diverse tra loro sotto molti aspetti.
Un elemento che le accomuna è la visione del diritto come prodotto di una società divisa in classi
sociali antagonistiche; dove sarebbe impiegato dalla classe dominante come strumento per
consolidare e proteggere il proprio dominio sulle classi sottomesse. Il diritto non è però un elemento
autonomamente decisivo nella lotta di classe; infatti è considerato elemento della sovrastruttura, che
è determinata dai fattori fondamentali della realtà sociale, quelli economici. La sovrastruttura , cioè
il dominio ideologico (politico, culturale e giuridico), si limiterebbe a rafforzare il dominio
economico sui mezzi di produzione, il solo essenziale e decisivo: può modificare la fondamentale
dinamica sociale, ma non sovvertirla. È sempre lo specchio di una certa struttura economica. Queste
tesi sono oggetto di molte varianti. Alcuni pongono l'accento sulla critica all'ideologia borghese,
dove la critica all’ideologia giuridica ne diventa un aspetto particolare. Come accadeva soprattutto
nei teorici del diritto sovietici, infatti dobbiamo tener conto dei problemi della legittimazione del
potere e dell'attività giuridica nei paesi del «socialismo reale»: in questo caso si incontrava la grave
difficoltà di dare una valutazione positiva dello stato e del diritto «socialisti». Allora, si è cercato di
sfruttare la teoria della progressiva estinzione dello Stato e del diritto nella «vera» società
comunista; secondo Marx lo stato e il diritto dovrebbero venire meno quando venisse meno lo
sfruttamento e classi sociali a cui il diritto è funzionale. Alcuni pensatori sovietici, tra cui Nikolaj
Lenin, cercano di risolvere i gravi problemi interni del pensiero marxista sul diritto e il problema
non meno difficile della giustificazione dal punto di vista marxista della sopravvivenza del diritto e
dello stato in una società socialista quale pretende di essere quella sovietica. Un altro limite della
filosofia giuridica marxista viene dal fatto che sui temi specifici che oggi vengono comunemente
ritenuti rilevanti per una teoria del diritto, il pensiero marxista e marxiano, non ha dato significativi
contributi. Per il marxista sono i fatti della struttura economica della società che determinano le
caratteristiche dei diritti e non viceversa: per questo il pensiero marxista non ha attribuito dignità
autonoma ai problemi della teoria giuridica rispetto a quelli di teoria politica e dello Stato: la
maggior parte dei marxisti ha continuato a ritenere di poter spiegare tutto ciò che è importante nei
fenomeni politici e giuridici mediante l'analisi economica dei rapporti di produzione. Gli approcci
marxisti hanno dunque cercato di spiegare il diritto come un momento di una più generale
interpretazione della società: si è così creata una situazione strana. Infatti il fallimento delle
previsioni di Marx sull’evoluzione della società, ha spinto i marxisti a rilanciare la nozione di lotta
di classe applicandola ai rapporti internazionali e alla politica mondiale.

7.1. CRITICAL LEGAL STUDIES Il critical legal studies, è un movimento composito che si
sviluppa negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70 del secolo scorso. Tra le fonti
d’ispirazione, spicca il pensiero di Marx, quello di Gramsci, e del filosofo tedesco Nietzsche. Per
molti giuristi di questo movimento, in base alle tesi dello scetticismo semiotico, le norme generali e
astratte non sono in grado di predeterminare le decisioni sui casi concreti. Inoltre, il diritto
incorpora sempre concetti antinomici: soggettivo/oggettivo, individuo/ comunità. La circostanza di
dover scegliere tra ciascuna di queste polarità rende l’attività dell’interprete inevitabilmente
politica. Il modello liberale dello stato di diritto nel quale comandano le leggi e non gli uomini è
una colossale mistificazione. Tutto il diritto è una gigantesca opera di mistificazione e
occultamento delle diseguaglianze e dei rapporti di potere, uno strumento per perpetuare lo
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sfruttamento e l’oppressione non solo economica, ma anche di genere, razza e orientamento
sessuale. Compito dei giuristi critici è demistificare il modo in cui la dottrina, l’insegnamento del
diritto e la pratica delle istituzioni accademiche sostengono questo sistema diffuso di rapporti
oppressivi e non egualitari. I critical legal studies, sono più interessati alla critica etico-politica che
alla descrizione del diritto. Tale critica è praticata col metodo “decostruzionista”, ovvero una
modalità di lettura di testi volta a ribaltare l’ordine gerarchico consolidato tra i concetti. Non è
chiaro se la critica si focalizzi su contenuti degli ordinamenti giuridici occidentali contemporanei, o
sul diritto e il metodo giuridico come tali; e non è chiaro quali siano i rivolgimenti auspicati dai
giuristi critici, anche se ricorre frequentemente un’aspirazione alla emancipazione individuale dalle
strutture di potere che perpetuano le disparità di classe, sesso, razza ecc. Il movimento è segnato in
parte dal nichilismo: un atteggiamento radicalmente anti-teorico che consiste nella convinzione che
nessun discorso, incluso il proprio, possa essere esente da ideologia e aspirare all’oggettività.
CAPITOLO 5. NORMA GIURIDICA

1. NOZIONI E PROBLEMI Sotto il profilo linguistico, una norma è una prescrizione di condotta
, un significato atto a guidare il comportamento dei suoi destinatari. Una norma è giuridica quando
fa parte di un ordinamento giuridico.

2. LE NORME GIURIDICHE COME ENTITA’ SEMIOTICHE

La parola “norma” viene usata per designare quelle prescrizioni che riguardano una pluralità di
azioni, che sono dette prescrizioni generali e astratte e che sopravvivono ai singoli atti di
adempimento; non viene chiamata norma la prescrizione a una singola persona di compiere una
singola azione. Tuttavia, è detta normaconcreta, e viene chiamata norma perché è collegata alle
norme astratte con importanti nessi formali e sostanziali. Le norme giuridiche, non sono fenomeni
solo linguistici; quasi tutte le concezioni contemporanee del diritto sottolineano l’aspetto della
norma giuridica come realtà sociale che si crea intorno alle prescrizioni effettivamente seguite
all’interno di un gruppo sociale. Il realismo giuridico, considera le norme giuridiche solo le norme
trattate socialmente. La distinzione tra enunciato normativo e il suo significato è indicata con le
espressioni di disposizione e norma. Tale distinzione, è importante in quanto una medesima
formulazione linguistica può esprimere molteplici differenti significati normativi. La norma, non è
dunque l’enunciato linguistico, ma il contenuto di significato di un enunciato formulato o almeno
formulabile. Quindi si può parlare di norme giuridiche a proposito di significati normativi sprovvisti
di formulazione linguistica espressa. Nel diritto, non hanno formulazione linguistica, le
normeconsuetudinarie, i principi impliciti ricavabili con induzione dalle norme, le prescrizioni
derivabili tramite deduzione logica da altre norme. In base, al principio di esprimibilità, deve
essere possibile esprimere con parole i significati normativi.

3. NORMA E ORDINAMENTO GIURIDICO La teoria secondo cui il diritto sia composto di


norme è chiamato normativismo. Questa concezione, è condivisa da studiosi che si ispirano a
orientamentifilosofico-giuridici differenti tra loro; ad es. sono normativisti sia un giuspositivista
come Kelsen che un giusrealista come Ross. Il normativismo di Kelsen, è stato criticato perché
nella sua “dottrina pura del diritto” le norme giuridiche sembrano essere entità realmente esistenti
in una sfera della realtà diversa da quella fisica e materiale, esistono nel mondo del dover essere, e
sono conoscibili attraverso una scienza «normativa», la scienza giuridica. Kant, ha distinto gli
imperativi morali, considerati autonomi, posti dal destinatario medesimo della prescrizione, da
tutti gli altri imperativi, compresi quelli giuridici, che sarebbero invece eteronomi, cioè posti da
soggetti diversi dal destinatario. Questi tentativi di distinzione, non hanno avuto esito, in quanto si
sono potuti facilmente addurre controesempi di norme che pur essendo giuridiche sono autonome o
categoriche ed esprimono prescrizioni positive. Per cui le norme giuridiche non corrispondano a un
certo modello di norma. Oggi, si ritiene che il diritto sia un ordinamento normativo , dotato di
caratteristiche specifiche, come l’effettività e la coattività, ma non è detto che le norme che fanno
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parte dell’ordinamento abbiano queste caratteristiche. Infine è corretto dire che una norma è
giuridica perché appartiene a un ordinamento giuridico; non è corretto dire che un ordinamento è
giuridico perché è composto da norme che vanno considerate giuridiche per loro caratteristiche
intrinseche. La teoria della norma giuridica, è parte integrante della teoria generale delle norme.
Essa ha carattere interdisciplinare perché sta a mezza strada tra la semiotica e le scienze sociali. Il
filosofo inglese Hart ha fornito una teoria secondo cui una norma esiste quando un gruppo di
individui tiene un determinato comportamento, considerandolo un criterio generale di condotta
quest’atteggiamento è denominato “punto di vista interno” e consente di distinguere tra le norme e
le mere abitudini di comportamento.

4. SEMANTICA E PRAGMATICA DELLE NORME GIURIDICHE In ogni norma, come in


ogni prescrizione, si distingue tra una componente semantica referenziale e una
componentedeontica. La prima, viene chiamata frastico, la seconda neustico. Il frastico, è la
componente semantica che le norme hanno in comune con le descrizioni e che fa riferimento alla
realtà extralinguistica. Il frastico delle norme, consiste nella rappresentazione astratta di un
comportamento umano. Per es. il frastico della prescrizione di fermarsi al semaforo rosso è quella
parte della prescrizione in cui viene rappresentata l’azione di “fermarsi al semaforo rosso”. Il
neustico, è quella parte dell’enunciato che indica che il comportamento in questione è inteso come
un modello da seguire, in quanto esprime la funzione pragmatica che l’enunciato può esplicare sul
terreno della comunicazione effettiva, che nel caso delle prescrizioni è quella di guidare la condotta
e, rappresenta l’elemento che distingue le prescrizioni dalle descrizioni. La distinzione tra frastico e
neustico, dà la possibilità di precisare le nozioni di osservanza e violazione delle norme. Dire che,
una norma è osservata dai suoi destinatari equivale a considerare vera un asserzione con il frastico
uguale al frastico della norma, per es. “i pedoni devono attraversare la strada sulle strisce
pedonali”, è una norma osservata, se è vera l’asserzione con identico frastico “i pedoni attraversano
la strada sulle strisce pedonali”. Dire che una norma è violata, equivale a considerare falsa
l’asserzione avente un frastico identico a quello della norma; nell’es. equivale a considerare falsa
l’asserzione “i pedoni attraversano la strada sulle strisce pedonali”, o equivale a considerare vera
un asserzione che ha un frastico incompatibile con il frastico della prima asserzione. Affinché una
norma possa essere osservata o violata, quindi possa esplicare sul terreno pragmatico la sua
funzione di guida dei comportamenti, deve essere possibile eseguirla. La non eseguibilità, dipende
da fattori linguistici o da fattori extralinguistici. Una norma, non è eseguibile per ragioni
linguistiche, quando presenta difetti logici, per es. prescrive 2condotte tra loro incompatibili, come
camminare e arrestarsi, ovvero difetti semantici. Una norma, non è eseguibile per ragioni
extralinguistiche quando, pur essendo “a posto” dal punto di vista logico e semantico, prescrive
comportamenti che sono fattualmente impossibili, per es. prescrive di volare o vieta di respirare,
queste norme sono ineseguibili per necessità empirica. Quindi, possiamo dedurre che una norma, è
ineseguibile per ragioni extralinguistiche, quando, manca un presupposto fattuale o giuridico della
sua eseguibilità.

5. ELEMENTI DELLA NORMA GIURIDICA Nel frastico di una norma si distinguono,


3elementi : il destinatario della prescrizione, ossia colui che deve eseguire l’azione prescritta;
l’insieme delle circostanze in cui la prescrizione deve essere eseguita e il comportamento
oggetto della prescrizione. La distinzione, tra questi 3elementi è artificiale. Infatti, la
determinazione del destinatario della norma può anche essere costruita come la descrizione di una
delle circostanze nelle quali la norma va eseguita, ad es. in una norma indirizzata a “tutti coloro che
esercitano un’attività commerciale” l’indicazione dell’attività esercitata può essere classificata o
come una caratteristica del destinatario della norma, o come un aspetto della situazione nella quale
la prescrizione va eseguita. In generale, le norme si distinguono dalle altre prescrizioni per il loro
carattere impersonale, ciò vuol dire che l’indicazione del loro autore non è parte del significato
degli enunciati normativi stessi. Nel diritto, non tutte le norme provengono da un autore
determinato. Quindi le norme giuridiche, sono imperativi indipendenti o direttive impersonali.
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Queste considerazioni rappresentano una critica decisiva dell’imperativismo, la concezione che
considera la norma giuridica come un comando, e il rapporto giuridico come un rapporto
personale tra un comandante e un comandato.

6. GENERALITA’ E ASTRATTEZZA DELLE NORME GIURIDICHE Le norme si


classificano in astratte e concrete, a seconda che disciplinino una pluralità di azioni o una singola
azione. È astratta la norma che prescrive di pagare le imposte; concreta la norma che impone una
singola e determinata prestazione pecuniaria. Inoltre, si distinguono le norme in generali e
singolari, a seconda che si rivolgano a una pluralità di destinatari o a un singolo individuo. Per es. è
generale, la norma che imponga a tutti i percettori di reddito di pagare le imposte; è singolare, la
norma che imponga solo a Tizio, di pagare le imposte. Possiamo combinare una distinzione tra:
generali e stratte, generali e concrete, singolari e astratte e singolari e concrete.

Inoltre, c’è la classificazione precisata con l’ausilio del concetto di classe logica chiusa o aperta:
una norma è astratta quando disciplina una classe aperta di azioni, ossia quando disciplina delle
occorrenze di azioni umane non individuate una volta per tutte. Una norma è concreta quando
disciplina una classe chiusa di azioni, ossia quando disciplina delle azioni individuate una volta per
tutte, attraverso una determinazione spaziale o temporale. Generalità e astrattezza sono
caratteristiche essenziali delle norme giuridiche. Questa dottrina, intende esprimere l’esigenza etico-
politica che il diritto realizzi i valori positivi che si accompagnano alla generalità e all’astrattezza,
ossia l’uguaglianza e la certezza giuridica.

7. TIPI DI NORME GIURIDICHE È necessario, che in un ordinamento giuridico alcune norme


istituiscano obblighi, positivi o negativi e molti teorici del diritto ritengono, che tutte le norme
significanti di un ordinamento giuridico debbano poter essere logicamente riducibili a norme
obbliganti. Ovvero, le norme che conferiscono permessi. Sono norme permissive deroganti, quelle
che hanno la funzione di far venir meno completamente, abrogare o di limitare parzialmente cioè
derogare l’ambito di applicazione di una norma obbligante, per es. la norma che permette di
asportare all’estero valuta nazionale elimina del tutto il divieto preesistente di esportazione di
valuta, mentre, la norma che permette di esportare all’estero valuta nazionale fino a 20mila € limita
solo parzialmente tale divieto. Sono, norme permissive precludenti quelle norme che hanno la
funzione di impedire per il futuro l’emanazione di norme obbliganti, per es. la norma costituzionale
che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero può essere intesa come un divieto indirizzato
al legislatore di introdurre in futuro disposizioni che limitino questa libertà. Le norme possono
essere distinte in base al livello linguistico su cui si collocano in: norme di primo livello, che
disciplinano direttamente comportamenti umani, e metanorme, che riguardano in vario modo le
norme di primo livello. La categoria delle metanorme è molto eterogenea e nel diritto comprende
vari tipi di norme, tutte accumunate dal fatto di “parlare” di altre norme. Anche la terminologia
usata è varia, e si parla di normeprimarie e norme secondarie. Un tipo di metanorma è quello
delle norme di competenza, che conferiscono poteri ai privati cittadini o agli organi pubblici, un
es. di potere privato è il potere di stipulare contratti; un es. di potere pubblico è il potere del
parlamento di emanare norme di legge. Alcune teorie riducono le norme di competenza all’unico
modello della norma obbligante; per cui le norme di competenza sarebbero semplicemente delle
norme di condotta. A questa tesi riduzionista, si oppone la tesi sostenuta da Hart, in cui le norme di
competenza sarebbero irriducibili alle ordinarie norme di condotta obbliganti o permissive. Un’altra
distinzione è quella tra norme regolative, le quali disciplinano comportamenti umani “naturali” o
“bruti”, che possono essere descritti dalle stesse norme giuridiche che li regolano; e norme o regole
costitutive, le quali non hanno questa caratteristica. Alcune di esse, producono immediatamente
l’effetto che nominano, senza richiedere un intervento umano, ad es. le norme abrogative come
quella che stabilisce “la legge x è abrogata”, la quale produce l’effetto abrogativo nominato.
Inoltre, si parla di fatti o atti istituzionali, contrapponendoli ai fatti bruti , e si dice che questo tipo
di regole costitutive creano e rendono possibili nuovi tipi di attività umane. I teorici ritengono che le
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norme costitutive siano riducibili a mere norme regolative della condotta umana. Le regole
costitutive di attività istituzionali, non potrebbero essere violate, perché un’attività difforme da
quella delineata dalla regola semplicemente fuoriesce dal campo di azione della regola medesima.

8. TEORIE MONISTE E TEORIE PLURALISTE Nella teoria contemporanea del diritto c’è
l’idea che le norme giuridiche possano e debbano essere ricondotte all’unico modello della
prescrizione di condotta. Bisogna, però distinguere 3versioni di decrescente radicalità: Secondo la
prima versione, la più estrema, il diritto è un insieme di norme indirizzate agli organi dello stato e
disciplinanti l’esercizio della coazione, In base alla seconda versione , il diritto è un insieme di
norme che regolano le condotte istituendo obblighi. In base alla terza versione, la meno estrema, il
diritto è un insieme di norme che regolano la condotta umana, non tramite obblighi o previsioni di
sanzioni. Questa versione, può ammettere la coesistenza di una pluralità di tipi di norme giuridiche
che, sono però tutte norme di condotta. Il fautore della riduzione del diritto a norma sanzionante,
ritiene che il comportamento consistente nell’infliggere la sanzione ai trasgressori rappresenti il
vero momento di contatto del mondo normativo giuridico astratto con la realtà empirica. Per Kelsen
e per Ross, la “vera” norma giuridica completa è quella che disciplina l’uso della forza fisica da
parte degli organi statali; tutte le altre norme sono frammenti, dotati di senso prescrittivo compiuto
solamente se letti in congiunzione con le atre parti del diritto che disciplinano la coazione. Il
riduzionismo , è stato criticato sotto 2profili. In primo luogo, il teorico che riduce tutto il diritto a
norme obbliganti o a norme sanzionatorie pone in luce la funzione obbligante o coattiva del diritto
ed occulta altre funzioni sociali che il diritto esplica. Secondo Hart, le norme conferiscono poteri,
ad es. il potere di stipulare contratti, fare testamento.. avrebbero la funzione di fornire agli individui
strumenti per la realizzazione dei loro desideri. In secondo luogo, il riduzionismo non soddisfa
l’esigenza teorica di fornire una descrizione del diritto che sia la più semplice possibile. Infatti,
ridurre tutto un diritto a norme obbliganti, comporterebbe un lavoro di riformulazione molto
complesso, di scomposizione e ricomposizione dei suoi vari elementi. Il prodotto finale di tali
operazioni, consisterebbe in norme gigantesche, infatti, ogni singola norma completa dovrebbe
raccogliere tutto il materiale normativo rilevante ad ogni singolo caso concreto, dalla costituzione
alle norme procedurali applicabili.. ecc. Secondo il critico, il riduzionismo renderebbe necessario
anche un mutamento radicale del mondo in cui i giuristi usualmente ragionano e parlano. In base a
queste 2critiche, si è sostenuto, in primo luogo che è sbagliato ascrivere alle norme giuridiche una
funzione sociale in modo aprioristico; infatti, sollo le ricerche empiriche possono riconoscere quali
sono le funzioni sociali delle norme. In secondo luogo, la riduzione del diritto a norma obbligante,
permette il controllo della incidenza delle norme, tale controllo è possibile solo se le norme
giuridiche vengono ricostruite e riformulate come norme di condotta che istituiscono obblighi. Si
può sostenere quindi che il giurista è interessato a stabilire la qualificazione giuridica dei
comportamenti nei singoli casi concreti, ed è pertanto avvezzo a ricostruire con operazioni
concettuali l’insieme del materiale normativo per regolare il caso reale o ipotetico. Le norme
giuridiche non sono entità che esistono in rebus, cioè oggetti che si offrano spontaneamente alla
percezione. Viceversa, il concetto di norma giuridica è sempre il frutto dell’applicazione, effettuata
con maggiore o minore consapevolezza, di principi chiamati di individuazione. Essi, costituiscono
una formulazione sintetica delle scelte che il teorico del diritto e il giurista devono compiere in vari
campi prima di descrivere un diritto.

9. PRINCIPI GIURIDICI I principi giuridici sono norme generali, indeterminate e generiche, il


cui contenuto prescrittivo esprime i valori o gli scopi più importanti in un ordinamento giuridico. Le
critiche al giuspositivismo si basano sulla nozione di principio giuridico e sulla distinzione tra
norme e principi giuridici. I critici, sostengono che il positivismo giuridico è sbagliato perché
ignora la presenza nel diritto, dei principi, che sarebbero diversi dalle norme. In realtà, i principi
giuridici possono essere considerati un tipo di norme; si tratta però di norme molto generali e
generiche, il cui contenuto prescrittivo esprime direttamente valori o scopi ritenuti importanti in un
diritto. I principi possono essere espressi o impliciti, ossia dotati di formulazione linguistica. I
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principi giuridici espressi, si dicono tali in quanto hanno una formulazione linguistica autoritativa
o canonica, come ad es. quelli contenuti in una carta costituzionale o in un Bill of Rights.

Questi principi, si distinguono dalle altre norme, solo per il loro contenuto prescrittivo generale e
perché esprimono dei valori o indicano gli scopi a cui le altre norme si devono ispirare, ad es.
dichiarano inviolabile la libertà personale. Il testo canonico è quello a cui il diritto prescrive di far
sempre riferimento per ricavarne il significato normativo; non può essere modificato se non nei
modi fissati dal diritto. I principi giuridici impliciti, sono norme, e sono sprovvisti di formulazione
linguistica. I giuristi ritengono che il contenuto prescrittivo delle singole norme possa essere inteso
come una semplificazione di contenuti prescrittivi più generali, ossia appunto di principi impliciti,
infatti, i principi esprimono i valori o gli obbiettivi a cui si ispirano dette norme, e quindi “vivono”
all’interno delle norme che essi ispirano. Il ragionamento che fa ricorso ai principi impliciti è simile
al ragionamento per analogia e viene chiamato analogia juris, in entrambi i casi si compie infatti
l’induzione della ratio sottostante a una norma o a un gruppo di norme, in entrambi i casi la norma
o il principio così ricavati fungono da criteri di interpretazione e di integrazione delle lacune di un
ordinamento giuridico. L’art.12 delle“Disposizioni sulla legge in generale premesse al Cod. Civ.
italiano” stabilisce che, esaurite le altre modalità interpretative, l’interprete debba ricorrere ai
principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Tale norma, è stata intesa come un
rimando a contenuti prescrittivi già presenti nelle norme valide; ma alcuni hanno ritenuto che i
principi dell’art.12 fossero di diritto naturale e che il richiamo ad essi, fatto dal nostro ordinamento
rappresentasse un’apertura del diritto italiano al giusnaturalismo e alla eterointegrazione. La
distinzione tra norme e principi non è assoluta, infatti i principi giuridici possono avere un
fondamento di validità identico a quello di altre norme, e distinguersi da queste solo per la
generalità del contenuto prescrittivo e per il fatto di esprimere direttamente valori o scopi.
Nell’ordinamento giuridico italiano, l’es. più importante è quello dai principi costituzionali. Però i
principi possono essere anche solo impliciti e coincidono con quella che viene chiamata la ratio
delle norme, cioè con il valore o con lo scopo che costituisce la ragion d’essere, il fondamento
giustificativo di una singola norma o di un gruppo di norme giuridiche. Questi, vengono ricavati
dalle norme con ragionamento induttivo, dalla prescrizione meno generale della norma o dal gruppo
di norme è possibile ricavare, con un processo di progressiva generalizzazione e astrazione, la
prescrizione più generale costituita dal principio. Il ragionamento induttivo, a differenza di quello
deduttivo, non è logicamente stringente e lascia notevole libertà a chi lo compie. Inoltre, dalle
norme del diritto italiano, si può ricavare il principio della tutela della volontà e il principio opposto
alla tutela della dichiarazione dei contraenti. I principi non possono essere applicati ai casi concreti,
a differenza delle norme. Per cui si parla di bilanciamento e sussunzione. Sussumere significa
ricondurre un caso concreto sotto una norma. Ad es. la descrizione della uccisione per
avvelenamento di Tizio da parte di Caio viene sussunta sotto la fattispecie astratta dell’omicidio
prevista dal codice penale. L’operazione di sussunzione, è quella schematizzata nel «sillogismo
normativo». Questa operazione non può essere compiuta con i principi, che si limitano a proclamare
un valore da tutelare (x es. la dignità umana) senza indicare le modalità specifiche con cui quel
valore va tutelato. Per applicare un principio a un caso concreto, occorre tradurlo in una norma che
sia giustificata da tale principio. Tale operazione comporta amplissimi margini di discrezionalità
perché un principio può giustificare molte norme diverse tra loro. I conflitti giuridici interferiscono
reciprocamente dando luogo a conflitti; ad es. il conflitto tra libertà di manifestazione del pensiero e
il diritto alla riservatezza. Si arriva cosi al bilanciamento, l’operazione con la quale, in caso di
conflitto tra due o più principi giuridici, viene stabilito quale tra essi sia più importante e debba
orientare la decisione. L’espressione «bilanciamento» è ingannevole nella misura in cui suggerisce
che i principi abbiano un peso che può essere determinato oggettivamente. Si tratta invece di
un’attività largamente discrezionale con cui l’autore del bilanciamento istituisce tra i principi una
gerarchia di valore chiamata «gerarchia assiologica». Il principio soccombente in questo
bilanciamento non perde la propria validità ma viene accantonato nel caso di specie, salvo essere
applicato successivamente in altri casi. I principi vengono trattati come standard normativi soggetti
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a eccezioni implicite, risultanti dai loro conflitti con altri principi. La defettibilità, è quindi un
ragionamento di coloro che interpretano le disposizioni che li esprimono.

10. SANZIONE Le sanzioni, rappresentano una risposta dell’ordinamento ai comportamenti


difformi, cioè sanzioni negative o a quelli conformi, cioè sanzioni positive. Di solito, nei diritti
moderni, il destinatario della sanzione è lo stesso autore del comportamento oggetto di reazione
normativa. Dal punto di vista sociologico, le sanzioni appartengono alla categoria delle tecniche dix
controllo della condotta umana e forniscono al destinatario della norma un motivo addizionale per
osservarla. Le sanzioni si distinguono per il loro carattere di risposte ai comportamenti trasgressivi,
cioè illeciti, peccati, o conformi, cioè atti eroici. Una distinzione importante è quella tra sanzioni
negative e positive. Quelle negative, mirano a rafforzare l’osservanza delle norme tramite
scoraggiamento dell’inosservanza, ad es. tramite la previsione di castighi o pene, o la privazione
della vita. La tecnica di queste sanzioni è usata per scoraggiare la violazione delle norme
obbligatorie, come i divieti. Mentre, le sanzioni positive mirano a rafforzare l’osservanza delle
norme con l’incoraggiamento dell’osservanza stessa, per es. con la previsione di premi o incentivi.
Nel diritto sorge, il problema di stabilire quando una conseguenza giuridica sia da considerare
sanzione. Come ad es. alla distinzione tra ammenda e tassa; la tassa può essere considerata una
sanzione negativa tendente a scoraggiare il consumo di un dato bene? Alcune teorie per risolvere
tale problema di identificazione delle sanzioni giuridiche, si basano sulla funzione sociale delle
sanzioni positive. Le sanzioni positive o negative, di cui fanno uso i diritti contemporanei, non si
differenziano dalle sanzioni non giuridiche per caratteristiche strutturali o funzionali proprie. Infatti,
non è possibile isolare nell’ambito della categoria generale delle sanzioni, quelle che sono
giuridiche sulla base di caratteristiche intrinseche. Le sanzioni giuridiche non si distinguono da
quelle nongiuridiche neanche per il fatto di consistere nell’uso della forza, infatti molte sanzioni
adoperate in ambiti non giuridici comportano l’uso della forza. Inoltreè stato osservato che un tratto
comune alle sanzioni, nei diritti moderni è la istituzionalizzazione. Quindi il diritto, regola la
natura, l’entità, i presupposti, i modi di applicazione e gli organi competenti ad applicare le
sanzioni. L’istituzionalizzazione, non rappresenta una peculiarità delle sanzioni giuridiche, perché
caratterizza anche altri ordinamenti normativi.

CAPITOLO 6. ORDINAMENTO GIURIDICO 1. NOZIONE E PROBLEMI

Un ordinamento è un insieme di norme individuate da altre norme, dette norme di struttura, o


meta-norme, cioè norme che riguardano altre norme, in questo caso la scelta di altre norme. I
giuristi e i teorici, parlano anche di normesuperiori e norme inferiori e di strutturagerarchica e di
struttura a gradi degli ordinamenti giuridici. I gradi sono caratteri possibili ma non necessari degli
ordinamenti normativi, che non coincidono con il rapporto tra norme e metanorme. L’ordinamento
coincide con i suoi criteri di scelta. Possiamo parlare di un’unica normafondamentale o norma di
riconoscimento, intendendola in 2sensi diversi. In senso stretto , si tratta di una specifica
metanorma, anzi meta-metanorma che individua tutte le altre metanorme di ogni ordinamento. In
senso lato, si tratta della somma di tutte le metanorme dell’ordinamento.

2. ESISTENZA DI UN ORDINAMENTO

Vi sono 2sensi principali in cui un ordinamento può “esistere” e corrispondono a 2discorsi: 6. un


discorso normativo e un discorso sociologico e storico.

Nel discorso normativo, si può descrivere un ordinamento come un meccanismo semiotico per la
giustificazione di scelte d’azione; qui le norme e gli ordinamenti sono considerati possibili ragioni,
che sorreggono un ragionamento giustificativo di scelte. Dunque, dire che una norma esiste, o
appartiene a un ordinamento, significa affermare che nel ragionamento giustificativo, se accettiamo
l’ordinamento e la sua norma fondamentale, allora accettiamo anche le norme valide

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nell’ordinamento. Trovar posto in un ragionamento è un esistenza “astratta” perché un
ragionamento è un’astrazione. Un ragionamento, è ciò che chiunque può dimostrare sulla base di
particolari principi e regole. Le ragioni o norme giuridiche e il ragionamento giustificativo che si
serve di esse possono essere descritti e usati indipendentemente dal fatto che tale meccanismo
mentale sia realmente usato dalla gente; le norme possono essere usate per qualificare azioni anche
quando esse non costituiscono uno dei motivi, o cause psichiche, per cui la gente effettivamente
decide cosa fare. Quindi, si parla di un punto di vista normativo, dotato di componente descrittiva,
consistente nel conoscere norme e ordinamenti con lo scopo di proporli al giudizio pratico,
all’accettazione o rifiuto di essi come possibili guide all’azione. Un’effettività delle norme e degli
ordinamenti è invece richiesta, in una prospettiva fattuale, per poterli descrivere come fatti sociali
e come fattori efficaci nella realtà sociale o storica. In etica, per es. possiamo descrivere
storicamente la morale positiva di un certo gruppo sociale in un certo spazio e tempo, invece,
assumendo il punto di vista normativo, possiamo descrivere normativamente un ordinamento
etico nelle sue articolazioni, per accettarlo o rigettarlo come guida d’azione. Una teoria
dell’ordinamento deve distinguere, tra concettodidiritto e norme fondamentali. Il primo, è uno
strumento concettuale con il quale intraprendiamo le nostre ricerche, e indica la direzione verso cui
siamo disposti a cercare il diritto; le seconde, le possiamo trovare in nell’area in cui ci ha indirizzati
la nostra definizione di diritto, nei vari tempi e luoghi e situazioni. L’atteggiamento prescelto,
normativo o fattuale, ci fornirà delle ragioni per preferire una definizione di diritto a un’altra, e
sulla base di tale definizione vediamo se esiste un ordinamento giuridico in una determinata realtà
sociale.

3. ORDINAMENTO E SISTEMA NORMATIVO Il concetto di ordinamento normativo, è più


ampio di quello di sistema normativo. Sono sistemi normativi quegli ordinamenti in cui le norme
sono individuate dalle metanorme in base al loro contenuto prescrittivo, che deve essere deducibile
dal contenuto delle metanorme, per es. ama il tuo prossimo, quindi ama sia i tuoi amici e nemici.
Questi sistemi, sono detti sistemi o ordinamenti statici perché si sostiene che le loro norme non
potrebbero cambiare senza mutare l’ordinamento stesso; sono contrapposti agli ordinamenti
dinamici, nei quali le metanorme condizionano l’appartenenza all’ordinamento o la validità di
queste ultime al verificarsi di atti o fatti determinati. Per Kelsen, il diritto si distingue dagli
ordinamenti normativi morali per il suo carattere dinamico, infatti le sue norme sono valide perché
sono prodotte da autorità competenti in base alla norma fondamentale. Negli ordinamenti
dinamici, si parla di creazione o produzione delle norme giuridiche , quindi solo che chi accetta
l’ordinamento deve accettare anche le norme “prodotte”. Nella determinazione di queste tecniche di
formazione di ordinamenti non è stato richiesto che gli “atti” produttivi fossero di una particolare
natura, infatti potrebbero essere eventi di altro tipo, come x es. il passare del tempo. Non si è
parlato di volontà. Le norme e gli ordinamenti, per avere significato devono prescrivere
comportamenti, guidare nelle scelte d’azione, ma non necessariamente ciò ha a che fare con la
volontà. Gli ordinamenti “statici”, possono cambiare le proprie norme; in due casi:

• Nel primocaso, con l’indeterminatezza delle norme, le formulazioni linguistiche restano ferme, ma
il loro significato può cambiare attraverso l’interpretazione. Si ha il secondo caso, quando le norme
contengono meccanismi semantici di adeguamento, cioè fanno riferimento a concetti mutevoli. Si
tratta di norme in bianco di rinvio, ad altri ordinamenti giuridici.

I meccanismi ordinamentali, “dinamici” come la legislazione, possono essere in tutto o in parte


bloccati, impedendo così i cambiamenti. Si pensi al caso della sentenza giudiziaria, il cui contenuto
è dedotto dal contenuto della legge, ma è anche prodotto secondo le competenze e procedure
previste. Infatti si parla di aspetti statici e dinamici, degli ordinamenti. La natura logica e deduttiva
del rapporto tra norme negli ordinamenti giuridici è compatibile, con l’esistenza di margini di
discrezionalità e incertezza interpretativa nel compiere tali operazioni. Questi margini sono
ineliminabili in molti casi.
30
4. VALIDITA’ La validità, e l’appartenenza di una norma a un ordinamento o sistema normativo.
La norma giuridica valida è una norma che risponde ai criteri di appartenenza che il singolo
ordinamento stabilisce. La validità di una norma dipende dalle sue relazioni con altre norme, ovvero
le metanorme di validità, con la norma fondamentale o di riconoscimento che riassume i criteri di
validità dell’ordinamento in questione. Il teorico della validità, è Kelsen, secondo il quale, la
validità è l’esistenza specifica di una norma. All’interno della struttura dell’ordinamento giuridico
kelseniano, questi sensi di validità sono legati. Infatti, una norma esiste se è stata prodotta
conformemente a una norma superiore. Kelsen, con questa tesi, confonde 2questioni che
andrebbero tenute separate. La concezione sostanzialmente kelseniana di Hart, distingue le
2questioni: ovvero la nozione di validità come appartenenza riportata nella definizione iniziale e la
norma fondamentale kelseniana che diviene la norma diriconoscimento di Hart, una norma
giuridica positiva che stabilisce i criteri di validità in un ordinamento e di cui non ha senso chiedersi
se è valida o meno. Per Ross, il discorso sulla validità come appartenenza deve essere ricondotto in
modo più diretto. Il concetto e il termine di validità sono usati nella teoria giuridica, per applicarli
agli atti giuridici, infatti, si parla di atto giuridico valido o invalido. In primo luogo, vediamo se sia
possibile e opportuno elaborare un concetto generale di validità che copra anche questi usi. In
secondo luogo, si nota che i giuristi positivi usano una serie di termini e concetti che in qualche
modo sembrano collegarsi con la nozione di validità, ovvero efficacia, esistenza, perfezione, nullità,
annullabilità e giuridicità. Le possibilità aperte alla teoria generale sono due:

1. La prima è quella di moltiplicare i concetti di validità, introducendo una validità come perfezione
o una validità come effetti nell’ordinamento, oltre alla validità-appartenenza all’ordinamento.
Questa soluzione lascia aperto il problema del coordinamento tra questi concetti;

2. La seconda consiste nel sostenere che gli atti e norme “menomati”, non sono validi e non
possono avere effetti diretti; gli effetti che tali atti e norme, come atto viziato, sembrano derivare
dall’applicazione di altre norme valide, che “salvano” alcuni effetti degli atti e norme invalidi.

5. LE NORME GIURIDICHE COME PARTI DI ORDINAMENTI In una teoria


dell’ordinamento giuridico, disposizioni giuridiche apparentemente autonome sono considerate
incomplete, all’interno di un ordinamento. Le singole disposizioni normative vengono considerate
frammenti di norme . In primo luogo, sono considerate incomplete o frammentarie le disposizioni
giuridiche che non prescrivono un comportamento umano e le norme che non prescrivono un
comportamento perché producono un effetto giuridico, per es. quelle che stabiliscono, la nullità di
un contratto.

Kelsen o Ross, hanno osservato che molte norme giuridiche riguardano azioni umane, prive di
senso, e sono norme secondarie. Per es. una norma procedurale non ha scopo, perché la procedura
produce una norma individuale che regola un comportamento esterno, non interno al processo, ed è
una norma primaria. Le norme secondarie, non sarebbero norme autonome, ma frammenti di
norme giuridiche primarie, le cui prescrizioni finali contribuiscono a precisare e a produrre. Teorie
più riduttive ritengono che tutto ciò che nel diritto non si traduce, vada spostato nel campo della
morale e degli obblighi morali. Quindi, tutte le norme di un ordinamento, sarebbero frammenti di
norme giuridiche più ampie che regolano l’applicazione della coazione. Gli ordinamenti giuridici,
sono visti come fasci di norme coattive, ciascuna delle quali prescrive ai giudici di applicare le
sanzioni a certe condizioni, complesse e articolate. La singola “vera” norma comprenderebbe una
parte di norme costituzionali, che hanno permesso la creazione della legge. Questa concezione,
descrive il diritto come un insieme di norme che regolano l’applicazione della sanzione coattiva.
Hart, nega che questo sia l’unico approccio possibile al diritto, che svolge anche altre funzioni
nella vita sociale non riducibili ai comportamenti sanzionati. Questo approccio è chiamato da
Kelsennomostatica, cioè l’ordinamento è dato come già esistente ed è visto come un insieme di
norme che impongono la sanzione. Secondo Kelsen, invece, nomodinamica è l’approccio
31
all’ordinamento visto come insieme di norme e relativi atti di produzione, all’ordinamento nel
momento in cui viene prodotto. Nella nomodinamicakelseniana, le norme giuridiche sono quelle
che permettono la produzione di altre norme giuridiche. Bisogna distinguere, tra un senso di
ordinamento inteso come ordinamento diacronico, cioè la somma di tutte le trasformazioni nel
tempo di un gruppo di norme, individuato come tale dalla permanenza della sue norma
fondamentale, nonché dall’assenza di una rivoluzione giuridica. E un senso più stretto, di
ordinamento momentaneo o sincronico, che è poi un ordinamento normativo diacronico preso
in un singolo momento della sua esistenza. Entrambi i sensi, sono usati dai teorici e giuristi positivi.

6. ASPETTI DEGLI ORDINAMENTI GIURIDICI I teorici e giuristi sostengono che un “vero”


ordinamento giuridico è sempre coerente e/o completo. Ciò significa adottare una definizione di
ordinamento e di diritto, per cui le caratteristiche della completezza e coerenza vengono incorporate
nei concetti stessi di diritto e ordinamento. La teoria della completezza e della coerenza del diritto
ha avuto importanza nella cultura giuridica moderna e ha costruito un punto centrale del processo
di codificazione; i codici apparivano coerenti e completi. Bisogna considerare completezza e
coerenza come proprietà contingenti e possibili di ordinamenti giuridici, dipendenti dal contenuto di
un determinato ordinamento, e la loro forma più realistica è data dalla metanorma giuridica positiva
che prescrive di interpretare o modificare le norme in modo da raggiungere tali obbiettivi.
L’espressione usata per indicare questo tipo di norme che assicurerebbero la completezza è norme
di chiusura. Nella teoria dell’ordinamento giuridico è norma superiore la metanorma e norma
inferiore la norma derivata, cioè prodotta nei modi previsti dalla prima. Per cui, possiamo parlare di
norme di livello diverso , cioè superiore o inferiore. Le norme a livello diverso sono anche in
rapporto gerarchico quando ci sono norme che istituiscono un autorità e una procedura per la
creazione di altre norme, e le prime norme non possono essere modificate dall’autorità. Inoltre, un
altro concetto di Kelsen, prevede che una struttura gerarchica di un ordinamento giuridico
contemporaneo non coincida concettualmente con la sua struttura a gradi. Essa, consiste in una
generalizzazione del rapporto gerarchico ad ogni settore di un ordinamento giuridico, che risulta
composto di gradi “orizzontali”, dotati di un loro proprio loro nome. Tutte le norme di questo tipo di
ordinamento, appartengono a un determinato grado, come costituzione, legge costituzionale, ecc..
Quindi, l’esistenza di rapporti gerarchici e la struttura a gradi sono entrambi aspetti contingenti di
un ordinamento normativo, a differenza del rapporto tra norma e metanorma, che è un rapporto
necessario perché si abbia un ordinamento.

7. NORMA FONDAMENTALE La norma fondamentale è la norma da cui dipende la validità di


tutte le altre norme di un ordinamento giuridico. Il concetto e il termine “norma fondamentale” sono
stati introdotti nella teoria del diritto da Kelsen; nel suo lessico rappresenta la condizione
trascendentale di pensabilità del diritto. Secondo Kelsen, la norma fondamentale avrebbe la
seguente formulazione: “La coazione deve essere posta nelle condizioni e nel modo che è
determinato dal primo costituente o dagli organi da lui delegati”. Egli, con questa definizione, lega
la nozione di norma fondamentale alla propria concezione dell’ordinamento giuridico, cioè
nomostatica, come insieme di norme sanzionanti. Kelsen, chiarisce che la scienza del diritto può
presupporre solo quella norma fondamentale che conferisca validità ad un ordinamento giuridico
nel suo complesso socialmente effettivo. Hart ha modificato la nozione kelseniana di norma
fondamentale. Egli ritiene che ogni ordinamento giuridico possieda una norma di riconoscimento,
che individua le altre norme dell’ordinamento. Secondo Hart, questa norma non ha bisogno di
essere presupposta dalla scienza giuridica, perché è una norma giuridica positiva e deve inoltre
esistere come un fatto sociale. La discussione sulla natura positiva o presupposta della norma
fondamentale, dimostra che sia Kelsen che i suoi critici hanno compresso in quest’unico concetto
due momenti distinti del pensiero giuridico; il primo è il momento della formulazione del concetto
di diritto, nel quale il pensiero giuridico “postula” le caratteristiche che un dato fenomeno deve
avere per essere considerato giuridico; il secondo è il momento della ricerca della norma

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fondamentale, sulla base di quel concetto, nel quale si rinvengono gli ordinamenti che posseggono
le caratteristiche così postulate.

8. FONTI DEL DIRITTO Le fonti del diritto sono gli atti o i fatti da cui “scaturisce” il diritto.
Secondo le concezioni normativistiche del diritto, le fonti del diritto sono norme, che stabiliscono i
criteri di appartenenza e i modi di produzione delle altre norme dell’ordinamento. La nozione
normativistica delle fonti del diritto come norme su norme ha acquistato particolare rilevanza in
seguito all’evoluzione del diritto moderno, con il processo di giuridicizzazione delle stesse attività
di creazione del diritto che in altre culture giuridiche appariva indistinguibile dall’attività politica,
ciò è evidente, quando esiste una costituzione rigida e scritta. Ciò ha rafforzato la tesi che il
processo di produzione del diritto a livello generale e astratto, non sia qualitativamente diverso dal
processo di applicazione dello stesso a livello particolare e concreto. La tecnica costituzionale
moderna ha trasformato la normativa sulle fonti nello Statocontemporaneo in una parte
relativamente determinata. La metafora delle fonti del diritto si accompagna alla metafora della
produzione o creazione del diritto; entrambe devono essere risolte dalla teoria generale del diritto,
quindi l’approccio normativistico compie la prima parte di questa riduzione parlando di metanorme
che fissano criteri di appartenenza di norme a un ordinamento giuridico, cioè la validità.

9. RIVOLUZIONE GIURIDICA Una rivoluzione giuridica è l’abbattimento di un ordinamento


giuridico e l’instaurazione di un nuovo ordinamento, avviene quando si produce un nuovo diritto in
modi non previsti dal precedente ordinamento e rispetto ad esso illegittimi, ma consistenti con
nuove regole. Quindi, non è necessario che una rivoluzione giuridica si accompagni agli
sconvolgimenti politici e sociali che caratterizzano le nozioni di rivoluzione politica e rivoluzione
sociale.

La nozione giuridica di rivoluzione, è diversa dalla nozione sociale, in quanto non ha ad oggetto di
indagine le cause e gli aspetti sociali della rivoluzione. Il concetto di rivoluzione giuridica,
presuppone che un certo grado di effettività sia richiesto dal concetto di diritto. La norma
fondamentale, sarà quella che farà riferimento alle forme e modi per porre diritto stabiliti dalla
nuova autorità e/o con le nuove procedure costituenti rivoluzionarie. Dunque, è necessario che il
nuovo ordinamento venga non solo proclamato, ma anche instaurato. ottenendo obbedienza diffusa.
Il tema della rivoluzione giuridica, mette in evidenza le scelte tacite che il giurista positivo
contemporaneo compie nella scelta e determinazione del proprio oggetto. L’incertezza delle ragioni,
politiche o scientifiche, che spingono il giurista risulta evidente nei momenti in cui una rivoluzione
giuridica si accompagna a una “vera” rivoluzione politica o sociale.

10. FORMALISMO PRATICO Il formalismo giuridico, è la posizione che da maggiore


importanza alla “forma” che non alla “sostanza” delle questioni giuridiche. Il senso frequente è
quello di formalismo interpretativo, cioè l’idea che gli enunciati abbiano un’unica interpretazione
corretta; il senso più importante è quello di formalismo pratico , cioè il fatto che i giuristi non
decidono in base al merito di ogni singolo fatto, ma seguendo criteri formali generali e astratti, in
base a norme. Le critiche al formalismo del diritto si appuntano sulla tecnica con cui i giuristi
scelgono le ragioni pratiche mediante le quali giustificare le scelte d’azione: tali ragioni sono norme
che operano le scelte in modo generale e astratto; cioè non prendono in considerazione le singole
azioni concrete, bensì classi di azioni. Il formalismo pratico dei giuristi risulta essere una tecnica di
scelta di azione e decisione alla quale si accompagnano svantaggi e vantaggi. Però, vantaggi e
svantaggi vengono “moltiplicati” dal fatto che le norme sono stabilite in base ad altre norme che
prescrivono i criteri di scelta (metanorme): una norma infatti, rientra in un ordinamento perché è
coerente con l’intero sistema. Il formalismo pratico, non è esclusivo dei giuristi: morale, religione
e politica si servono allo stesso modo di questo strumento di standardizzazione e facilitazione delle
scelte pratiche. In questo caso, il diritto è il campo in cui questa tecnica ha avuto il suo massimo
sviluppo: il diritto contemporaneo è determinato non solo da ciò che contiene, ma anche da ciò che
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esclude, cioè dall’essere un sistema chiuso di giustificazioni normative; dal fatto che qualunque
argomento a favore di qualunque scelta non viene assunto in base ai suoi meriti, ma solo se risponde
ai criteri di accesso nell’ordinamento giuridico. Questi criteri fanno riferimento a requisiti di
procedura e di competenza.

• I requisiti di procedura stabiliscono che una norma può entrare in vigore solo se è stata “creata”
o “posta” nei modi previsti; • I requisiti di competenza, sono connessi a quelli di procedura:
infatti, la norma è valida solo se è “posta” da certe persone o

gruppi di persone, che divengono in tal caso delle autorità giuridiche. Questi requisiti, sono
considerati dai non-giuristi come quelli più inutilmente formalisti. In realtà l’utilità del formalismo
consiste nell’evitare che si protraggano indefinitamente sia le controversie su quale sia la migliore
scelte delle norme giuridiche (l’esercizio del potere legislativo è riservato all’autorità cui viene
affidato, cioè al legislatore); sia le controversie sulla migliore applicazione di queste norme generali
(l’esercizio dei poteri esecutivo e giudiziario sono riservati ad altre autorità predeterminate). Questa
concezione dell’ordinamento normativo permette di considerarlo in linea astratta come una
macchina razionale per prendere decisioni, a funzionamento deduttivo. Questa natura deduttiva è
stata spesso negata, poiché se è vero che è possibile dedurre i contenuti di una norma da una norma
più generale, ciò non vale per i rapporti dinamici, perché non è possibile dedurre il contenuto delle
leggi dal regolamento parlamentare che fissa le procedure di approvazione. In questo caso si può
dire che il rapporto deduttivo esiste comunque nel senso che è valida solo la norma che segue
determinate procedure ed è emanata dalle relative competenze. Validità qui significa che chi accetta
l’ordinamento deve per forza accettare le norme da esso deducibili. Quindi, chiunque accetti una
autorità deve accettare anche le norme che essa produce legittimamente; accettare una autorità
significa accettare di regolare il proprio comportamento secondo le decisioni di tale autorità. Il
formalismo giuridico è stato inteso anche come formalismo interpretativo: in questo caso si tratta
di una teoria dell’interpretazione giuridica, che sostiene che esiste l’interpretazione corretta o
propria di ogni aspetto del diritto. Il formalismo interpretativo ha la connessione con il formalismo
pratico come tecnica decisionale: esso dà al giurista l’illusione che le parole di un testo normativo
possano guidare le scelte pratiche; al contrario, tali scelte sono inevitabili, data la relativa e voluta
indeterminatezza di qualunque testo normativo.

CAPITOLO 9. INTERPRETAZIONE 1. NOZIONE E PROBLEMI

L’interpretazione è l’attività di determinazione del significato degli enunciati linguistici e anche il


risultato di tale attività. C’è chiaccoglie una definizione più ampia, comprendo anche
interpretazione di cose differenti dailinguaggi (di un comportamento, dei sogni ecc.). In teoria del
diritto una simile nozione lata di interpretazione tende ad accompagnarsi a concezioni aperte del
diritto, che annoverano fra i fenomeni giuridici anche la realtà sociale, i valori, icostumi ecc. Nel
diritto l’interpretazione è il procedimento di determinazione del contenuto prescrittivo giuridico:
essa è intesa come l’identificazionedelle norme giuridiche, cioè delsignificato degli enunciati
normativi giuridici. Questa nozione presuppone che il diritto siacomposto di norme intese come
significati, e che vadano ricavati da specifici ed individuabili enunciati: chiamati disposizioni. Si
parla di interpretazione dottrinale in riferimento agli studiosi di diritto non dotati di particolare
autorità giuridica. Si parla di interpretazione giudiziaria in riferimento ai giudici nell’applicazione
del diritto.

2. DUE TEORIE ESTREME DELL’INTERPRETAZIONE Un enunciato normativo può avere


più di un significato (ambiguità) o un significato incerto (vaghezza); inoltre, enunciati differenti
possono avere lo stesso significato (in tal caso si dicono sinonimi). Mentre gli enunciati giuridici
sembrano facilmente individuabili mediante lo studio empirico delle espressioni linguistiche
considerate giuridiche, i loro significati sembrano variabili, inafferrabili e privati, cose esistenti solo

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nella mente degli interpreti. Sullo sfondo della maggior parte delle teorie contemporanee
dell’interpretazione c’è l’assunto che individuare gli enunciati giuridici sia molto più facile che
individuare i loro significati: questo fatto per il diritto moderno è corretto. Infatti nessun enunciato,
in nessuna lingua o discorso, può essere individuato senza l’applicazione e l’interpretazione delle
principali regole semiotiche rilevanti. Per quanto riguarda l’individuazione degli enunciati che
costituiscono disposizioni giuridiche, è necessario interpretare le regole che individuano come tali
le altre norme giuridiche, comunemente dette fonti del diritto. Sono le specifiche caratteristiche del
diritto contemporaneo occidentale che rendono semplice l’operazione di individuazione degli
enunciati giuridici, perché le norme giuridiche che regolano le fonti del diritto, hanno in questo
diritto raggiunto un grado di grande precisione. Certe teorie dell’interpretazione giuridica si
fondano sulla tesi che ogni individuazione di significato sia una creazione di significato nuovo.
Questa tesi è detta scetticismo interpretativo. La sua versione più estrema sostiene che la
concordia degli interpreti non possa mai realizzarsi, almeno in materie complesse come il diritto.
Nel diritto lo scetticismo interpretativo ha il merito di aver criticato il cosiddetto formalismo
interpretativo, teoria antitetica, che sostiene che sia possibile trovare l’interpretazione giusta
opropria di ciascun enunciato giuridico, adatta a risolvere in modo giuridicamente esatto ciascun
caso concreto. Tuttavia anche lo scetticismo linguistico è criticabile come teoria unilaterale
dell’interpretazione, specie nelle sue versione estreme: in primo luogo perché esso ripone
un’eccessiva fiducia nella possibilità di individuare empiricamente, gli enunciati normativi
indipendentemente dal loro significato. La semiotica contemporanea ha mostrato che un enunciato,
senza un’interpretazione minima del suo significato, non è nemmeno individuabile. In secondo
luogo dato che tutte le espressioni linguistiche, quindi anche gli enunciati giuridici, abbiano
normalmente un nucleo certodi significato, che l’interprete comprende e può descrivere, a cui si
accompagnano sempre aree di vaghezza e incertezza, riguardo alle quali egli opera le sue scelte
interpretative. Ciò che le norme non riescono a predeterminare viene comunemente chiamato area
didiscrezionalità che il diritto lascia e non può evitare di lasciare a chi lo interpreta. 3.
PROBLEMI SINTATTICI E SEMANTICI DI INTERPRETAZIONE I problemi di significato
degli enunciati giuridici possono essere affrontati solo risolvendone i problemi sintattici: si tratta
di problemi che il nostro legislatore, nell’art.12 delle Disposizioni preliminari al Cod. Civ.
chiama di “connessione delleparole”; se diamo di sintassi una nozione ampia, comprendente anche
la logica, vi rientreranno anche problemi logici di coordinamento delle norme tra loro. Tra i primi
problemi spiccano le difficoltà di accertamento della natura sintattica degli enunciati (in enunciati
spesso assai complessi e poco curati dal punto di vista formale). Tra i secondi è importante il
problema delle antinomie, cioè l’incompatibilità logica di alcune norme dello stesso ordinamento.
Il problema dell’accertamento e attribuzione di significato giuridico è un problema semantico in
senso stretto, cioè lessicale: In primo luogo si tratta della attribuzione di significato ai singoli
termini del discorso giuridico, ed è quindi un problema di definizioni, anche se implicite nell’uso
dei termini; In secondo luogo assumere un termine nel suo significato lessicale può causare
vaghezza e ambiguità pertanto il termine va interpretato in base al suo significato nell’uso ordinario,
per evitare ciò l’interpretazione non può essere meramente lessicale, ma innovativa o esplicativa.
La possibilità che i termini giuridici siano usati nel loro significato ordinario solleva per chi
interpreta il diritto due problemi:

1. sapere quando si è ricorso al linguaggio ordinario 2) sapere in che misura si fa ricorso ad


esso Quanto al primo (sapere quando ciò avviene), bisogna tenere presente che è raro che il diritto
affermi esplicitamente di far riferimento al senso ordinario del termine; e talora non è neppure
agevole capirlo in base al contesto. Quanto al secondo (sapere in che misura ciò avviene), esso
riguarda la necessità o meno della recezione, insieme ai termini nel significato ordinario, anche dei
valori presupposti comunemente dal loro uso: assumere un linguaggio significa infatti, assumere
non solo un dizionario ma una enciclopedia, cioè i suoi principali presupposti culturali psicologici,
teorici e morali. Ma il diritto può anche utilizzare un termine nel suo significato scientifico, che è
quello che possiede in una disciplina scientifica non giuridica come medicina, psichiatria, ecc: in
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questo caso ci sui chiede se l’interpretazione debba essere compiuta da un esperto di diritto o di
quella disciplina. Infine, il diritto può imporre un significato tecnico-giuridico, ma ciò può
avvenire anche secondo una definizione implicita nell’uso del termine: per evitare equivoci sarebbe
necessario chiarire sempre il significato con una definizione esplicativa, ma non sempre ciò
avviene. Il sorgere di un lessico e di un linguaggio tecnico-giuridico non avviene però ex novo, nel
vuoto di una costruzione artificiale o immaginata: infatti quando il diritto legislativo si allontana dal
lessico comune o della sua interpretazione ordinaria lo fa piuttosto per fare riferimento alla
tradizione giuridica e alla cultura giuridica degli specialisti, e incorpora nel diritto anche molti dei
loro presupposti concettuali, piuttosto che forgiare liberamente un sistema di concetti e termini.
Quindi si conclude che non è possibile dare un’interpretazione letterale dei termini giuridici, se
con questo si intende un’interpretazione che faccia riferimento al solo termine in isolamento, perché
significherebbe privarlo della stessa natura di segno e quindi della possibilità di avere un significato.
Infatti, l’interpretazione in isolamento è in realtà impossibile, in quanto il linguaggio isolato è
incomprensibile; per questo la tesi dell’isolamento si presenta in forma attenuata, parlando di un
interpretazione che considera solo la prima e immediata reazione dell’interprete di fronte a una
disposizione. Per cui interpretazione letterale significa, immediata reazione dell’interprete. Il
problema dell’analisi lessicale del significato dei termini è una delle parti fondamentali della
semiotica, ma non è la sola che sia rilevante per il diritto: non è infatti ipotizzabile che
l’interpretazione del diritto consista unicamente nel sommare le interpretazioni delle singole parole
dei discorsi giuridici. In primo luogo, l’analisi del significato non può essere ridotta allo studio
lessicale, infatti i vari termini sono portatori di una gamma disignificati fra i quali la scelta dipende
essenzialmente dal contesto in cui sono posti; inoltre, anche la semantica, come studio del
significato in senso stretto, gode essa stessa di una relativa autonomia dalle altre considerazioni
semiotiche, cioè sintattiche e pragmatiche. Tra i problemi semiotici che riguardano il significato non
solo delle singole parole, ma degli enunciati normativi, in primo luogo deve essere affrontato e
risolto quello di individuare gli enunciatinormativi compiuti, cioè in grado di regolare
compiutamente casi concreti, in questo caso gli enunciati esprimono norme giuridiche compiute. È
evidente che questa entità linguistica non corrisponde esattamente alla divisione più facilmente
percepibile del testo giuridico, cioè quella sintattica, per es. il singolo comma, articolo o legge.
Interpretare il diritto vuol dire dunque, comporre e collegare i significati rilevanti di moltissime
disposizioni giuridiche, fino a individuare la regolamentazione compiuta del caso effettivo o
ipotetico. L’interpretazione e applicazione giuridica richiedono dunque l’identificazione di una rete
vastissima di interconnessioni di significato.

Si comprende meglio la ragione per cui il linguaggio giuridico tende a diventare un linguaggio
comprensibile solo da specialisti e professionisti di diritto: infatti, per comprendere una norma
bisogna collocarla nelle rete di disposizioni di cui fa parte, il che è possibile unicamente per chi
possiede una preparazione giuridica generale, cioè i giuristi di professione.

4. PROBLEMI PRAGMATICI E TECNICHE INTERPRETATIVE La distinzione fra problemi


semantici e logico-sintattici è solo un artificio analitico, dal momento che tutti i fenomeni
linguistici, e quindi anche quelli giuridici, vanno considerati nella loro interezza. Quando si cerca di
comprendere un discorso giuridico vanno affrontati insieme non solo i problemi sintattici e
semantici, ma anche quelli pragmatici dell’interpretazione: questi ultimi sono legati al fatto che il
diritto deve poter svolgere la propria funzione comunicativa, che si tratterà principalmente di una
funzione di guida dei comportamenti in certi contesti tipici o normali. La considerazione di tali
contesti è necessaria alla determinazione dei significati, perché porta all’esclusione di quelle
interpretazioni che sarebbero sì semanticamente e sintatticamente possibili, ma pragmaticamente
assurde o strane. La prima regola pragmatica di interpretazione è il buon senso generico, che fa sì
che si interpreti l’enunciato giuridico in quanto enunciato prescrittivo sensato, che sia cioè in grado
di svolgere una qualche funzione di direzione dei comportamenti e secondo lo scopo che
presumibilmente può essere attribuito alle norme in una situazione “normale”. Per es, se una norma
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ci dice che a 18anni si diviene maggiorenni, il buon senso ci porta a concludere che sotto quest’età
non si sia maggiorenni: si tratta di un significato ovvio, anche se non presente nel senso letterale
dell’enunciato. Altre volte il buon senso generico non riesce a risolvere i problemi di interpretazione
(o non lo fa in modo soddisfacente per l’interprete): in questi casi si ricorre al buon senso
giuridico, cioè il buon senso “specializzato” del giurista che ha familiarità con le norme giuridiche
ed i problemi del diritto. I due tipi di buon senso possono configgere in molti modi. I complessi
argomenti del buon senso generico e giuridico sono spesso sviluppati dai giuristi in vere e proprie
tipologie di argomenti interpretativi, o tecniche di interpretazione: talora tali tecniche si limitano
ad usare più sistematicamente e coerentemente argomenti pragmatici di buon senso. I principali
argomenti interpretativi sono: l’argomento della coerenza (il diritto va interpretato in modo da
renderlo il più possibile coerente); l’argomento economico (il diritto va interpretato in modo che
ogni disposizione risulti non inutile e ridontante); l’argomento a contrario (come nel caso del
raggiungimento della maggiore età – il caso non regolato va regolato in modo difforme da quello
simile ma esplicitamente regolato); l’argomento a simili (estende la regolamentazione di una norma
ai casi simili a quelli regolati). Alcuni di questi argomenti sono tradizionalmente detti argomenti
oggettivi, perché si concentrano sul testo oggetto di interpretazione; altri sono detti argomenti
soggettivi, perché cercano di utilizzare le intenzioni o altre circostanze che accompagnano
l'introduzione del testo in questione nel diritto o momenti successivi e fanno quindi riferimento a
attività dei soggetti giuridici. Il problema nell’uso di queste tecniche è la mancanza di un criterio di
scelta tra di esse, e il fatto che ciascuna è suscettibile di condurre a risultati diversi e spesso
contrastanti (si pensi agli argomenti a simili e a contrario). Pertanto l’area in cui operano questi
argomenti spesso rimane area di grande discrezionalità interpretativa, salvo che non intervengano
norme specifiche (cioè metanorme), norme diinterpretazione di altre norme. Una norma giuridica
può infatti determinare, almeno in parte, ciò che le regole linguistiche della lingua naturale usata dal
diritto non riescono a determinare, prescrivendo un’interpretazione di determinate altre norme
giuridiche (es. il termine “x” nella disposizione “y” va interpretato nel senso di “z”). Sono norme di
interpretazione le cosiddette interpretazioni autentiche, che il legislatore può dare su una legge
controversa mediante una ulteriore legge. Questo strumento è relativamente poco usato; sono invece
molto più rilevanti altri tipi di norme provenienti da organi diversi dal legislatore: x es. le
interpretazioni giuridicamentevincolanti, fornita da una autorità inferiore nell'ambito dell'attività
normativa ad essa delegata, x es. vari organi amministrativi. Il caso centrale è però il precedente
giudiziario. Nel diritto moderno basato sulla creazione legislativa delle norme, il precedente ha
importanza come un meccanismo per indirizzare l'interpretazione delle leggi. Nei diritti come il
nostro, il precedente non è obbligatorio per i giudici. Infatti, essi sono giuridicamente autorizzati a
emanare sentenze in contrasto con quelle di corti superiori, però se lo fanno le loro sentenze
verranno riformate in appello.

5. NORME SULL’INTERPRETAZIONE Es. di metanorma generale sull’interpretazione delle


altre norme giuridiche è l’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale del Cod. Civ. del 42,
che recita: «Interpretazione dellalegge. Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro
senso che quello fatto palese dalsignificato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e
dalla intenzione del legislatore» lanorma prosegue indicando il ricorso all’analogia e ai principi
generali dell’ordinamento giuridico. Norme di questo genere sono state tradizionalmente guardate
con diffidenza da giuristi e giudici: ai primi sembrano sconfinare sul terreno della scienza, di
pertinenza dello studioso e non dell’autorità giuridica; ai secondi esse sembrano una limitazione
eccessiva della discrezionalità considerata opportuna per l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Vanno poi considerate un caso intermedio tra le norme sulla interpretazione e quelli di
interpretazione le definizioni giuridiche contenute nelle norme: esse infatti dicono come si deve
intendere un termine in tutte le disposizioni di quel diritto o almeno di un suo settore a cui la
definizione si applica.

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6. CASI FACILI E CASI DIFFICILI L'analisi delle operazioni interpretative alla luce della
semiotica induce a considerare problematica la tradizionale tripartizione delle interpretazioni in
base al risultato: interpretazione dichiarativa (che si limiterebbe a riconoscere il significato
letterale delle norme); interpretazione estensiva (che amplierebbe questo significato);
interpretazione restrittiva (che lo restringerebbe). Per avere una immagine equilibrata dei
problemi dell’interpretazione giuridica bisogna ricordare che è sempre possibile trovare casi che
mettano in crisi l’interprete: si tratta dei cosiddetti casi difficili, indicati con l’espressione HARD
CASES. Tuttavia è bene tenere presente che la maggior parte delle situazioni giuridiche rientra
pacificamente nella regolamentazione giuridica, e proprio per questo tali casi “facili” sono meno
discussi. È dunque possibile, sul piano semiotico, far dire a qualunque testo qualunque cosa voglia
l’interprete? Dalla risposta a questa domanda dipendono molte delle nostre fondamentali istituzioni
giuridico-politiche: coma la distinzione tra applicazione e creazione del diritto e tra i relativi organi;
il valore della certezza del diritto, e in definitiva la stessa esistenza non illusoria dello Stato di
diritto. Molte concezioni della semiotica giuridica ritengono teoricamente possibile che il
linguaggio normativo possa dirigere significativamente le azioni umane, per cui data un’azione si
può dire se essa viola o meno una norma senza compiere con questo un giudizio interamente
arbitrario; tuttavia anche queste concezioni riconoscono che il margine di discrezionalità
interpretativa lasciato all’interprete dipenderà alla fin fine dal modo i cui sono formulati i testi
giuridici e da una serie di altri fattori.

7. ANALOGIA Analogia in diritto è una particolare somiglianza tra situazioni o fatti, considerata
rilevante dall’interprete; essa è alla base di una operazione chiamata “ragionamento per analogia”
o “estensioneanalogica” o “interpretazioneanalogica”. Queste diverse espressioni nascondono la
polemica fra chi ritiene che analogia ed interpretazione estensiva siano operazioni diverse tra loro, e
chi invece le assimila.

L’analogia è dunque un mezzo per colmare le lacune degli ordinamenti giuridici con elementi
interni ad essi (autointegrazione): per chi crede nella capacità dell’analogia di colmare le lacune
diviene più facile credere nella completezza degli ordinamenti stessi, che si otterrebbe dopo che
l’interprete è intervenuto colmandone le lacune. Per i giuristi la somiglianza è considerata rilevante
quando i due casi hanno in comune le caratteristiche che si pensa abbiano motivato la
regolamentazione giuridica del caso già regolato. Tutto ciò si chiama comunemente RATIO LEGIS,
la ragione per cui è stata posta quella norma giuridica. La RATIO LEGISè in altri termini il
principio giuridico che sta alla base della norma: l’analogia è dunque possibile quando per entrambi
i casi vale la stessa RATIO LEGIS. Il problema dell’analogia è che la RATIO LEGISè spesso
incerta, poiché l’individuazione di una RATIO LEGISè una scelta profondamente intrisa di scelte di
valore: la ratio sarebbe il fine, dunque il valore che, secondo l’interprete, la norma dovrebbe
perseguire. Per questo indubbiamente il ricorso all’analogia lascia molta discrezionalità
all’interprete e applicatore, e per questo è visto con diffidenza dal positivismo giuridico. Per la
stessa ragione l’analogia è esclusa dalla maggior parte dei diritti penali odierni. L’art.14 delle
preleggi recita: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione alle regole generali o ad altre leggi
non si applicano oltre i casi e i tempi considerati”. È possibile sostenere che la ratio dei due divieti
è diversa: per le leggi penali è un’estrinsecazione del principio di stretta legalità, a tutela dei
cittadini, e si collega al principio di riservadilegge (nullum crimen sine lege), per cui la materia può
essere regolata solo per legge. Per le leggi eccezionali esso è stato criticato, perché non si vede la
ragione per la quale non si debba applicare l’analogia a casi che presentano la stessa RATIO
LEGIS“eccezionale” di quelli regolati. In ogni caso questo ostacolo è facilmente aggirabile con
un’interpretazione estensiva, che non è invece mai vietata.

8. LACUNE Lacuna in diritto è la mancanza della regolamentazione di un caso, che di solito si


presenta all’attenzione come caso concreto in sede di controversia giudiziaria, ma può essere anche
un casoipotetico. L’esistenza di lacune del diritto è negata da varie teorie giuridiche, che sostengono
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che il diritto è completo (tesi della completezza dell’ordinamento giuridico): ciò può sembrare
assurdo di fronte all’effettiva esistenza di lacune, ma in realtà questa tesi sarebbe possibile dalle
cosiddette normegenerali di chiusura. Tra queste ha particolare importanza la c.d. norma
generale esclusiva, che qualifica come permessi tutti i comportamenti non qualificati come
obbligatori o vietati dalle singole norme. L’introduzione di una norma generale esclusiva riesce
forse ad eliminare le lacune, ma non elimina ogni problema: rimane il problema di decidere se
applicare o meno l’analogia (che infatti è talora chiamata norma generale inclusiva; si ha cioè non
mancanza ma eccesso di norme, ovvero si tratta di un’antinomia di 2° grado. I sostenitori della
completezza degli ordinamenti giuridici concludono che le lacune che appaiono agli occhi dei
giuristi sono lacune apparenti o lacune ideologiche: esse in realtà consisterebbero nella mancanza
di una norma che secondo l’interprete dovrebbe essere presente in una divergenza tra il diritto reale
e ciò che l’interprete considera diritto ideale. Altro fenomeno sono poi le lacune tecniche: ciò
avviene quando ad es. una norma fa riferimento alle norme di formazione di un organo che però non
sono state emanate. Per i sostenitori della completezza qui si ha un caso in cui il legislatore lascia
alla discrezionalità dell’interprete il completamento della norma. Alcuni teorici dell’interpretazione
hanno sottolineato la differenza tra discrezionalità intenzionale e discrezionalità non
intenzionale, dell’interprete. Si dice che l'indeterminatezza alla base della discrezionalità può
essere intenzionale quando il legislatore ha ritenuto imoossibile o iinopportuno regolare
minutamente un comportamento; ma può essere anche non intenzionale; quest’ultimo è un aspetto
ineliminabile di ogni attribuzione di significato: ogni norma giuridica comporta una
discrezionalità di questo genere. Quanto alla prima essa richiede che sia possibile appurare la
volontà del legislatore, cosa non sempre agevole. Tuttavia è palese che i moltissimi casi di delega
all’interprete e applicatori sono indiscutibili casi di discrezionalità intenzionali; si pensi ad esempio
al diritto amministrativo. Le lacune cui non ritenga di applicare una norma generale di chiusura
possono essere colmate con vari procedimenti, sia di autointegrazione sia di eterointegrazione degli
ordinamenti. La scelta tra queste procedure spesso dipende dall’adozione di una specifica
concezione del diritto, ad es. dal possibile ricorso a qualche diritto naturale. Va ricordato che il
diritto italiano (art.12 Disp. prel.) prevede il ricorso ai principi generali: si è discusso se tali
principivadano considerati fra i mezzi di autointegrazione o di eterointegrazione; la seconda tesi
èsostenuta da qualche teorico giusnaturalista e in tal caso si tratterebbe ovviamente di principi
deldiritto naturale. Il testo dell’art.12 incoraggia poco questa tesi, si parla infatti di “principi
generalidell’ordinamento giuridico dello Stato”. Comunque un interpretazione di parte
giusnaturalistica potrebbeincludervi anche il diritto naturale, che per questa dottrina fa parte
dell’ordinamento giuridico; ungiusrealista vi comprenderà invece una parte degli interessi sociali;
per un legalista si limiterà alle parole delle leggi.Insomma, l’interpretazione in genere e
l'integrazione delle lacune in specie sono i luoghi cruciali in cui spesso divergono le concezioni del
diritto dei giuristi contemporanei, che fanno riferimento al medesimo diritto.

CAPITOLO 10. LOGICA GIURIDICA 1. NOZIONE E PROBLEMI

La logica giuridica è la logica del diritto e nel diritto. 2. LOGICA DEONTICA

Deontica è l’espressione abbreviata per dire logica deontica, la logica che si occupa e si applica al
discorso deontico, cioè alle norme o direttive. Secondo alcuni il linguaggio direttivo, non essendo
vero o falso, non sarebbe governato dalla logica. Il problema, se la logica si applichi al diritto, sorge
perché il diritto si compone di direttive, cioè di enunciati differenti dagli enunciati indicativi.
Mentre la logica è nata e si è sviluppata occupandosi, del modo corretto di combinare enunciati
indicativi, che possono essere veri o falsi. Oggetto della logica tradizionale o logica aletica sono
solo gli enunciati indicativi, capaci di essere veri o falsi. Per risolvere il problema all’applicabilità
della logica al diritto per quanto riguarda le norme e il fatto che non possono essere ne vere ne false,
nasce la logica deontica o logica delle norme agli inizi degli anni ’50 ad opera del teorico
finlandese Geor H. von Wright. I problemi maggiori fra i cultori di logica delle norme riguardano,
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la possibilità di formulare inferenze normative, cioè la possibilità di derivare in maniera stringente
una conclusione normativa da premesse a loro volta normative; la possibilità di contraddizioni
logiche fra norme; le peculiarità della negazione nei discorsi normativi; la struttura logica delle
proposizioni normative, e l’identificazione delle modalità deontiche. Si distingue, tra logica delle
norme in senso stretto, che si occupa degli enunciati che sono normativi, e la logica deontica, che si
occupa degli enunciati indicativi concernenti norme.

L’opinione, sostenuta anche da Kelsen dice che, tra coloro che negano l’applicabilità della logica
alle norme, c’è chi ammette che questa possa applicarsi almeno indirettamente, cioè agli enunciati
che fanno riferimento a norme. Per es. se si ritiene che la logica non possa applicarsi alle norme, tra
la norma “vietato fumare negli edifici pubblici” e la norma “permesso fumare negli edifici pubblici”
non vi potrebbe essere un rapporto di diretta contraddizione logica. Vi sarebbe contraddizione se, tra
l’asserzione “nel diritto italiano esiste una norma che vieta di fumare negli edifici pubblici” e
l’asserzione “nel diritto italiano esiste una norma che permette di fumare negli edifici pubblici” in
questo modo, se fosse vera, l’altra dovrebbe essere falsa e viceversa. Per ritenere applicabile, la
logica alle norme si prova a trovare un valore analogo al valore di verità/falsità degli indicativi.
Infatti, mentre gli indicativi hanno la proprietà di essere veri o falsi, le direttive hanno la proprietà
di essere valide o invalide, e la logica deontica opera proprio su questi valori, fissando le condizioni
attraverso le quali una norma valida può essere ricavata da premesse normative valide. Però, anche
questa soluzione non risolve il problema della natura del rapporto di incompatibilità tra 2 norme,
entrambe valide in un ordinamento. Per es. pensiamo a una norma di legge, come “tutti i ladri
devono essere puniti”. Se fosse vero che la logica deontica si occupa della validità, in questo senso
occorrerebbe dire che dalla validità di tale norma “Arturo è un ladro” e si dovrebbe ricavare la
conclusione che “Arturo deve esserepunito”. Ma il diritto, non fa dipendere la validità della norma
“Arturo deve essere punito”, ma richiede anche che tale norma sia stata prodotta da un’autorità
competente, come un giudice tramite un processo. La validità giuridica è questione di potere e ciò
che conta ai fini di una validità di una norma, è il suo essere frutto di un atto di decisione. Questa
conclusione negativa confligge con le intuizioni linguistiche comuni e col modo in cui il linguaggio
normativo sembra funzionare. Ma alcuni filosofi del diritto sono giunti alla conclusione opposta,
cioè che la logica si applichi alle norme e al diritto, infatti: In primo luogo, è sbagliato ritenere che
la logica si occupi della verità degli enunciati; per quanto riguarda i discorsi indicativi, la logica non
si occupa delle condizioni alle quali gli enunciati indicativi sono veri o falsi, ma delle condizioni
alle quali essi possono essere portatori di un significato descrittivo e quindi sul terreno pragmatico,
essere trattati come veri o falsi e usati per trasmettere informazioni sulla realtà. Dunque, la logica si
occupa della validità delle inferenze, cioè dei modi in cui è possibile combinare enunciati
significanti per ottenere discorsi significanti. Qui, si fa uso della parola validità, in cui la logica si
applica anche alle inferenze direttive, indipendentemente dal fatto che queste riguardino o meno
norme valide-in-senso-giuridico in un ordinamento. Tuttavia, la logica si occupa delle condizioni
alle quali norme e combinazioni tra norme sono in grado di fungere da guida della condotta di chi le
accetti. Quindi, gli enunciati normativi “è vietato fumare” e “è permesso fumare” sono fra loro in
contraddizione logica, come lo sono gli enunciati indicativi “piove” e “non piove”. Infatti, la logica
si occupa di astrazioni semiotiche, non si occupa del modo in cui il linguaggio viene usato, ma
delle condizioni che i discorsi devono rispettare per poter essere adoperati coerentemente nella
comunicazione. Per cui, c’è differenza tra validità logica e giuridica, infatti la prima è la corretta
concatenazione di enunciati in un ragionamento; laseconda è l’appartenenza di una norma ad un
ordinamento sulla base dei criteri di appartenenza previsti dall’ordinamento. I logici deontici,
ritengono che, la logica potrebbe applicarsi solo agli enunciati giuridici già interpretati. Le
operazioni con le quali giuristi e giudici danno significato agli enunciati normativi sono in parte
arbitrarie. Infine, bisogna ricordare, le opinioni della nuova retorica o teoria dell’argomentazione,
la corrente filosofica nata intorno agli scritti del logico belga Perelman, che sostiene che i
ragionamenti giuridici non sono ragionamenti logici, e non possono essere sottoposti al controllo
della logica; essi ricadono nell’ambito della retorica, scienza del verisimile e del ragionevole.
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Dunque, i discorsi giuridici vanno trattati come discorsi persuasivi, rivolti ad un uditorio reale o
ideale. Non possono essere giudicati come scorretti o corretti, ma come forti o deboli, cioè come più
o meno persuasivi. Il diritto, con la nuova retorica sembra allontanarsi dalla razionalità; secondo
Perelman, si tratta di un passo realistico, che evita di dover abbandonare il campo degli argomenti
per trovarsi in quello dei fatti e della violenza. Così la nuova retorica si presenta come una
metodologia descrittiva degli argomenti giuridici e specialmente di quelli giudiziari. In particolare
non è certo che il metodo neoretorico sia di natura descrittiva.

3. ANTINOMIE Per antinomia, si intende l’incompatibilità logica tra 2 norme che siano tra loro
contrarie, o contraddittorie. Affinché l’antinomia abbia pratica rilevanza le 2norme devono
appartenere allo stesso ordinamento o devono avere un ambito di applicazione spaziale, temporale,
personale e materiale identico, o almeno parzialmente coincidente. Si possono distinguere 3casi di
antinomia:

1. Antinomia totale-totale, quando in ogni caso di applicazione di una delle 2norme si ha conflitto
con l’altra (es. è vietato fumare/ è permesso fumare);

2. Antinomia totale-parziale, quando una delle 2 norme ha un ambito di validità (spaziale o


personale) più ampio della seconda norma, infatti la sua applicazione a quest’ambito non da luogo a
conflitto con quest’ultima norma (es. è permesso fumare a tutti/è vietato fumare ai minori);

3. Antinomia parziale-parziale, in cui ciascuna delle 2 norme ha un ambito di applicazione che


non si sovrappone a quello dell’altra e quindi non da luogo a conflitti (es. è vietato fumare sigarette
e sigari/è permesso fumare il sigaro e la pipa).

Nella cultura giuridica, è diffusa l’idea che il diritto sia per sua natura coerente. È un idea che viene
affermata nella teoria del diritto, dove, le antinomie non potrebbero mai nascere in un diritto perché
2 norme antinomiche non possono essere entrambe valide.

La dottrina giuridica ha elaborato 3 criteri di soluzione delle antinomie, ovvero: 1. Il criterio


cronologico, dove la norma temporalmente successiva prevale sulla precedente. Esso è la
mutevolezza della volontà del

legislatore, e va considerato vincolante l’atto legislativo più recente, da cui le norme precedenti
incompatibili risultano abrogate; 2. Il criterio gerarchico, dove la norma superiore nella gerarchia
delle fonti prevale sull’inferiore. Esso rispecchia la gerarchia delle

fonti di produzione delle norme, anche la produzione da parte una fonte gerarchicamente sopra-
ordinata, di norme in conflitto con altre prodotte da una fonte sotto-ordinata determina
l’abrogazione di queste ultime;

3. Il criterio della specialità, dove la norme speciale prevale su quella generale. Essa è il rapporto
tra 2 norme, di cui una regola una parte della materia regolata dall’altra, come tale una norma non è
speciale in assoluto, ma più o meno speciale rispetto ad un'altra.

Oggi, molti teorici del diritto, anche giuspositivisti sono disposti ad ammettere che la coerenza del
diritto è solo un ideale che non rispecchia la realtà dei diritti contemporanei, spesso caratterizzati da
una produzione normativa caotica ed incontrollabile. I tre criteri delle antinomie, non sono criteri
logici, ma giuridico-positivi, nei limiti in cui un diritto li preveda. Essi non sono sempre risolutivi,
in quanto esistono casi di antinomie ai quali non può essere applicati; cioè sussiste una lacuna nei
criteri di soluzione delle antinomie, come nel caso di un’antinomia tra 2 norme contemporanee, di
pari generalità e livello. Poi, vi sono casi in cui possono essere applicati più criteri, che entrano in
conflitto tra loro, generando un’antinomia di secondo grado, ad es. un’antinomia tra una norma
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speciale di grado inferiore e una norma generale di grado superiore, in cui entrano in conflitto il
criterio gerarchico e quello di specialità.

4. SILLOGISMO PRATICO

Il sillogismopratico è il sillogismo in cui una delle 2 premesse e la conclusione sono enunciati


normativi. Il sillogismo più importante nel diritto, è quello formulato dal giudice nell’applicazione
della legge, in questo caso ha come premessa maggiore un enunciato normativo generale e astratto,
come premessa minore un enunciato indicativo e un enunciato normativo individuale, cioè la
sentenza. Quando si sostiene la possibilità di rappresentare il ragionamento giudiziario applicativo
del diritto tramite lo schema sillogistico, non si vuole affermare che i processi mentali che hanno
luogo nella mente del giudice assumano le fattezze del sillogismo. La teoria del ragionamento
giuridico si propone di ricostruire ed esplicitare l’insieme delle ragioni che possono fungere da
giustificazione della decisione e non di descrivere ciò che accade effettivamente nella psiche dei
giudici. Illuministi come Beccaria, ritenevano che per garantire il carattere meccanico dell’attività
giudiziaria fosse sufficiente ricondurre il ragionamento decisionale del giudice al modello
sillogistico. Secondo Beccaria, il giudice si sarebbe dovuto limitare a formare un sillogismo
perfetto, in cui la premessa maggiore fosse rappresentata dalla legge, la premessa minore dai fatti
del caso, la conclusione dalla condanna o assoluzione. Bisogna, ricordare che lo schema sillogistico
non risolve i problemi di indeterminatezza delle norme e di incertezza riguardo ai fatti del caso, ma
presuppone la soluzione. Il sillogismo “conclusivo”, con il quale il giudice applica il diritto ai fatti
del caso, ricavando la norma sentenza, presuppone altri ragionamenti di ordine logicamente
superiore. Bisogna per cui, distinguere tra quella che è chiamata giustificazione interna e la
giustificazione esterna della decisione giudiziaria. La giustificazione interna è il ragionamento col
quale viene giustificata la decisione, per es. il sillogismo normativo. La giustificazione esterna è il
ragionamento elaborato per giustificare le premesse del sillogismo che funge da giustificazione
interna. Le teorie più interessanti della giustificazione razionale elaborate di recente, rinunciano a
formulare dei principi che possano fungere da fondazione ultima sostanziale del ragionamento
pratico, e vanno alla ricerca di modelli procedurali di argomentazione, questi modelli sono un
elenco di regole che dovrebbero governare le modalità di svolgimento di ogni argomentazione,
giuridica e non giuridica, e garantirne così l’accettabilità, come il parallelismo con le teorie
procedurali della giustizia come il neocontrattualismo.

5. MOTIVAZIONE La motivazione, è quella parte della sentenza che si aggiunge al dispositivo.


Nel dispositivo, il giudice enuncia la conclusione giuridica, cioè la norma singolare che regola il
caso in giudizio, mentre nella motivazione egli fornisce la ragioni giuridiche di fatto e di diritto che
giustificano la conclusione stessa. In senso giuridico, la motivazione è una giustificazione e non la
descrizione del cammino mentale seguito dal giudice nel giungere alla decisione, questo cammino
mentale, è irrilevante al diritto. La motivazione giudiziaria non contiene un’illustrazione di motivi
in senso psicologico, ma di ragioni che nell’ordinamento giuridico in questione possono giustificare
la scelta del giudice. Per questo la base di ogni motivazione giuridica, giudiziaria o meno, è un
elenco di norme giuridiche. Alcune concezioni del diritto, come la nuova retorica e l’ermeneutica si
caratterizzano proprio per il rifiuto di distinguere tra ragioni e motivi. Tale rifiuto, è determinato da
una teoria scettica dell’interpretazione, ossia dalla convinzione che gli enunciati normativi non
siano in grado di predeterminare le decisioni, che queste siano determinate da fattori diversi dalle
norme. In molti diritti, esiste l’obbligo giuridico di fornire una motivazione non elusiva di alcuni
tipi di decisione giuridica, specialmente dalle decisioni giudiziarie. Quindi, la motivazione deve
essere sufficientemente dettagliata da permettere il controllo e l’eventuale revisione della decisione
da parte di organi superiori. È ovvio che si tratta di un complessoprocesso logico, in cui le
motivazioni di fatto devono risultare vere o almeno verosimili alla luce delle regole giuridiche sulla
prova dei fatti; le motivazioni di diritto devono risultare valide e correttamente interpretate. Il tutto
deve risultare coerente e corrispondente alla decisione.
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6. PROVA DEI FATTI L’obbiettività della decisione giudiziaria è legata all’obbiettività
dell’accertamento dei fatti oggetto di giudizio. Un fatto può essere considerato giuridico, quando
deve essere possibile, considerare il fatto in questione come una specifica istanza della descrizione
astratta, cioè fattispecie astratta, contenuta nella norma giuridica. Ad es. l’azione compiuta da
Tizio può essere qualificata come (istanza di..) omicidio solo se è possibile sussumerla sotto la
fattispecie astratta qualificata come omicidio dall’art.575 del cod. penale italiano “chiunque
cagiona la morte di un uomo..”. Solo in questo caso, si potranno ricollegare all’azione di Tizio le
conseguenze che il diritto riconnette all’omicidio. I problemi che concernono la fattispecie
astratta, sono chiamati questioni di diritto, quæstio juris; i problemi che concernono i fatti del
caso e in generale la premessa minore del sillogismo sono questioni di fatto, quæstio facti. Nei
primi, la distinzione serve a separare le competenze dei giudici di merito dai giudici di legittimità
come la Corte di Cassazione; nei secondi, la distinzione serve a tracciare un confine tra le
competenze dalla giuria, che si occupa solo di questioni di fatto, e del giudice, che si occupa di
questioni di diritto. In questa distinzione, vi sono ad es. dei problemi, di classificazione giuridica ,
che possono essere indifferentemente costruiti come questioni di fatto sia come questioni di
diritto. Anche l’accertamento dei fatti del caso è punteggiato da incertezze. Infatti, il giudizio
concerne per lo più fatti accaduti nel passato, e perciò non più suscettibili di prova diretta, ma solo
di ricostruzione indiretta tramite documenti, testimonianze ecc. Vanno ricordati, gli innumerevoli
limiti giuridici all’accertamento processuale, rappresentati ad es. dalle regole sulle nullità
processuali, sulle condizioni ecc. Molti di questi vincoli, sono ispirati all’esigenza di pervenire a
una decisione entro tempi ragionevoli, cioè a un valore che è sempre potenzialmente in conflitto con
il valore dell’accertamento della verità dei fatti.

CAPITOLO 11. GIUSTIZIA 1. NOZIONE E PROBLEMI

Giustizia è un valore positivo che può essere riferito sia ai comportamenti e alle scelte pratiche sia
alle ragioni addotte per giustificare questi e quelle. Chiamiamo giusta una scelta oun’azione, ma
anche la loro giustificazione; inoltre chiamiamo giuste anche le persone e leistituzioni.Nel valore
della giustizia è compreso il valore dell’uguaglianza: giusto è il trattamento uguale di casi uguali
per gli aspetti considerati rilevanti dalla particolare concezione della giustizia che si accoglie; è
altresì giusto trattare casi diseguali in modo diseguale.

2. FORMULE DI GIUSTIZIA La giustizia è stata definita come la più giuridica delle virtù: tra
tutte le possibili valutazioni morali del diritto e dei vari diritti positivi, quella di giustizia è la
principale. Spesso si è ritenuto che la filosofia del diritto dovesse occuparsi essenzialmente del
concetto di giustizia; recentemente questo è stato chiamato problema assiologico, per distinguerlo
da questioni meno fondamentali considerate anch’esse di pertinenza del filosofo del diritto. Alcuni
teorici tendono a descrivere le secolari discussioni filosofico-giuridiche sulla giustizia come una
storia di sterilidispute generate dall’illusoria convinzione di poter cogliere l’essenza della giustizia e
formularne la definizione reale; specie per i giuspositivisti la pretesa di cogliere l’essenza della
giustizia tramite una definizione è destinata al fallimento: tutte le definizioni tradizionali del
concetto di giustizia, sono formulevuote, prive di contenuto prescrittivo e atte a fungere da
strumenti di giustificazione o critica di qualsiasi diritto. Tuttavia, neppure i più accaniti critici delle
formule di giustizia giungono a trattare come del tutto inutile la ricerca di una definizione del
concetto di giustizia. C’è la sensazione che vi sia qualcosa in comune tra le varie definizioni di
giustizia, un significatocostante e minimo del termine “giustizia” in tutti i suoi infiniti e mutevoli
usi.

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