Manuale Filosofia Del Diritto Jori Pintore
Manuale Filosofia Del Diritto Jori Pintore
Manuale Filosofia Del Diritto Jori Pintore
La filosofia del diritto è la filosofia che si occupa del diritto. Il libro parla di filosofia analitica, la
quale introduce una distinzione tra filosofie analitiche e filosofie non analitiche.
2. FILOSOFIE ANALITICHE (in senso ampio) Le filosofie analitiche sono filosofie che
presentano uno stile filosofico che parte dalla dedizione, dalla cura per il linguaggio; si ritiene che il
compito della filosofia sia di chiarire il metodo di linguaggio di altre discipline. Per fare ciò in
primo luogo la filosofia deve stare attenta al proprio linguaggio, deve chiarire il significato dei
termini filosofici, deve fornire le definizioni dei concetti filosofici che adopera. Per la filosofia
analitica è molto importante il metodo filosofico, un metodo che si fonda sul linguaggio ordinario.
Attualmente si adopera il metodo della filosofia analitica contemporanea, molto avanzato e si
discosta da quello delle altre filosofie, proprio per la sua chiarezza, per l’attenzione riposta o data
alla chiarezza del linguaggio che deve essere il linguaggio ordinario. La filosofia analitica ha
abbandonato il proposito di riformare il linguaggio che si adopera nella discussione filosofica,
trasformandolo in una sorta di linguaggio perfetto, cioè un linguaggio che sarebbe perfettamente
univoco, perfettamente logico, in grado di evitare, ogni tipo di fraintendimento, di aumentare la
precisione, la determinatezza del discorso: in generale il suo rigore. Questo proposito è stato
abbandonato dalla filosofia analitica, ma poi l'ha riadottato in una fase del suo sviluppo, perché ci si
è accorti che la nostra mente si forma sulla base del linguaggio ordinario, del linguaggio naturale:
quello che usiamo per es. per comunicare, per trasmettere informazioni. Il linguaggio naturale o
ordinario può essere utilizzato anche nell'ambito del dibattito filosofico, nella discussione
filosofica, che non è altro che un ragionamento. Questo non significa che, il linguaggio che
adoperiamo per esprimere i concetti debba essere povero; infatti la ricchezza del nostro linguaggio è
un valore in senso strumentale, perché ci permette di rappresentare la maniera più adeguata e anche
rigorosa dei concetti e dei fenomeni complessi. Una particolare attenzione al proprio linguaggio,
una particolare attenzione ai linguaggi che sono oggetto di studio della filosofia e una particolare
attenzione al linguaggio ordinario. Quando noi parliamo di particolare attenzione al linguaggio
ci stiamo riferendo all'approccio linguistico ai problemi, cioè si è notato che un modo proficuo per
risolvere delle questioni complesse dal punto di vista della discussione è quello di considerare
l’oggetto del nostro studio come un discorso, cioè considerare il diritto come un discorso, ovvero
come un fenomeno linguistico, in quanto abbiamo come oggetto di studio un discorso, in questo
caso il diritto, quindi il diritto è un discorso perché è fatto di parole.
3. FILOSOFIE ANALITICHE (in senso stretto) Per quanto riguarda le filosofie analitiche in
senso stretto, quindi non solo con riferimento al suo stile in generale, ma in riferimento alle sue
caratteristiche distintive, abbiamo l’assunzione di 4 principi fondamentali, che denotano le filosofie
analitiche, distinguendole dalle filosofie non analitiche. Ovvero:
Questi quattro principi costituiscono una sorta di metafisica della filosofia analitica. Metafisica
qui è intesa come l’insieme deipresupposti fondativi di un discorso, che in quanto presupposti non
sono dimostrabili all'interno di quel discorso.
4.1.GRANDE DIVISIONE TRA ESSERE E DOVER ESSERE . Cosa significa Grande divisione
tra essere e dover essere? Significa che nel nostro linguaggio, nei nostri discorsi dobbiamo
distinguere gli elementi descrittivi dagli elementi prescrittivi.
1
I discorsi descrittivi, detti anche indicativi o fattuali , sono tutti discorsi che descrivono, servono a
descrivere e servono a trasmettere delle informazioni sulla realtà. Questi discorsi sono verificabili o
falsificabili, cioè possiamo utilizzare vari criteri per dire “quella porta è chiusa”, o falsificare questi
discorsi, dicendo “no quella porta non è chiusa” e quindi l'affermazione della porta chiusa è falsa!
Questi criteri e questi metodi sono retti, in primo luogo dall'osservazione della realtà, e questo tipo
di conoscenza è una conoscenzaempirica, cioè basata sulla nostra esperienza osservativa dei
fenomeni. I discorsi prescrittivi, vanno distinti da quelli descrittivi perché sono rivolti a guidare la
condotta umana, es. dire "per favore chiudi la porta!" è un discorso prescrittivo perché cerca di
influenzare la condotta di un soggetto. Il diritto è prescrittivo, è un discorso che serve a guidare la
condotta degli individui attraverso una serie di meccanismi. È il discorso prescrittivo per eccellenza,
ma perfino la moda, il modo di vestire viene considerato un discorso prescrittivo nel senso che
influenza, attraverso le sue tendenze, il modo in cui le persone, per esempio, si vestono. Di solito,
nel linguaggio comune quando adoperiamo concetti descrittivi o prescrittivi non ce ne rendiamo
conto, passiamo molto facilmente da un tipo di discorso a un altro tipo di discorso, senza nemmeno
avvertire questo passaggio, perché chi accoglie la grande divisione sa che non si può transitare da
premesse di un tipo a conclusioni di un altro tipo: per es. io non passo da premesse descrittive, per
ricavare delle conclusioni prescrittive. Questo tipo di deduzione, non regge, perché da un punto di
vista logico è una fallacia che ha un nome e si chiama FALLACIANATURALISTICA.
I discorsi analitici, sono quegli enunciati che sono veri o falsi in base alla loro forma logica o del
loro significato. Per es. è analitico l’enunciato: “gli scapoli non sono sposati” questo discorso è vero
per definizione, perché la parola “scapolo” significa per l’appunto “non sposato”. I discorsi
sintetici, sono quegli enunciati che sono veri o falsi in virtù delle loro relazioni sul mondo. Per es. è
sintetico l’enunciato: “gli scapoli sonoinfelici” perché la verità o falsità dipende dall’effettiva
felicità o infelicità degli scapoli. La distinzionetra analitico e sintetico, coincide con la distinzione
tra conoscenza logica (discorsi analitici) e conoscenza empirica ( discorsi sintetici), vienecome
la pietra miliare dell’empirismo. E’ la stessa distinzione fatta da Kant nella Critica della Ragion
Pura, l’analista sostiene che solo l’esperienza empirica ci può dare informazioni nuove sui fatti,
e che queste non sono logicamente
necessarie, cioè non possono essere ricavate con il solo ragionamento logico dalle conoscenze già
possedute. Inoltre, sostiene che le conoscenze della logica sono tautologiche, cioè consistono nello
sviluppo rigoroso delle premesse del discorso.
2
di fatto viene usato il discorso oggetto. Il discorso di giustificazione è un’astrazione, in quanto
individua regole e strutture di regole (ragioni) che possono anche non essere sempre tra i motivi
che producono il discorso stesso. Ragioni e motivi non sono sinonimi. Le ragioni sono regole di
formazione del discorso (per es. le regole astratte della matematica ci dicono quando un operazione
è corretta o è scorretta). Il contesto sociologico-storico, non riguarda le ragioni ma riguarda i
motivi. Quindi, mentre sul contesto di giustificazione noi possiamo controllare quando un
operazione matematica è corretta o scorretta; sul contesto sociologico-storico, possiamo valutare,
per es. i motivi per cui una persona ha compiuto delle operazioni matematiche scorrette. I motivi,
quindi, sono elementi che riguardano delle contingenze particolari, riferite alle specifiche
circostanze che hanno causato la produzione di un determinato discorso.
In base a queste 4 differenze possiamo affermare che: “la filosofia analitica del diritto è quella
filosofia che ha un particolare stile filosofico caratterizzato da questi elementi, dall'attenzione al
proprio linguaggio oggetto e al proprio linguaggio ordinario. È quella che riconosce quattro
fondamentali distinzioni, che sono dei presupposti filosofici che possiamo chiamare meta-fisici” . Le
filosofie sintetiche sonoquelle che non ammettono, neppure la rilevanza di tali principi. Sono
diverse tra di loro in quanto, a differenza delle filosofie analitiche che comunicano tra loro
attraverso un metodo condiviso, esse hanno un approccio radicalmente diverso ai problemi. Per es.
ci sono filosofie non analitiche che pretendono di ricavare l'essenza delle cose, senza servirsi del
linguaggio. Si tratta di filosofie che perseguono delle forme di conoscenza alternativa a quelle di
tutte le altre filosofie: ciascuna di queste filosofie si propone come unica e vera; molto spesso si
tratta di filosofie avvallate da religioni dogmatiche, che non ammettono differenza di opinione
proprio perché ritengono di avere accesso esclusivo alla realtà.
4. LA FILOSOFIA DEL DIRITTO Il primo problema della filosofia del diritto è il problema della
definizione del concetto di diritto. Il concetto di diritto è il luogo dove si cercano di risolvere i
problemi fondamentali della filosofia giuridica, problemi che possono essere metafisici;
epistemologici; metodologici e etico-politici. Tra gli altri problemi, ci sono le questioni principali
dell’epistemologia e della metodologiagiuridica. Si tende a raggruppare questi problemi, come
problemi centrali del diritto, di cui si occupa la Teoria generale del diritto, la quale va distinta
dalla Filosofia del diritto che si occupa dei problemifondamentali. Quindi, i problemi
fondamentali del diritto, sono i problemi epistemologici e metafisici. Mentre, possiamo chiamare
problemi centrali deldiritto, quelli che si incontrano nell'affrontare qualunque altro problema,
senza che essi siano peraltro il punto di partenza e il fondamento delle domande e delle risposte;
5. TEORIA GENERALE DEL DIRITTO La teoria generale del diritto è la disciplina che si
occupa degli aspetti generali del diritto, generali in senso debole. In questo caso diritto viene inteso
in senso oggettivo, ovvero come ordinamento giuridico. La distinzione tra definizione di teoria
generale dalla filosofia del diritto, solleva un problema, la cu importanza risulta anche dalla storia
di questa disciplina, che in origine si è affermata in contrapposizione alla filosofia del diritto, per
contrapporre un discorso generale fatto dai giuristi positivi, al discorso speciale condotto da filosofi
che si occupano anche del diritto. Per giustificare una distinzione significativa tra le due discipline
sarebbe necessario scoprire che si occupano di problemi diversi. Una distinzione diffusa attribuisce
alla filosofia del diritto il compito di occuparsi dei problemi assiologici, cioè del complesso di
questioni che attengono alla giustizia; alla teoria generale del diritto il compito di occuparsi di tutti
gli altri problemi generali del diritto e specialmente dell’esame degli aspetti generali dei
concetti giuridici. Per cui, la teoria generale del diritto , si occupa dell’esame degli aspetti
generali dei concetti e dei termini più rilevanti usati dai giuristi e dal diritto. Filosofia del diritto, si
occupa anche di concetti e termini che non necessariamente compaiono nel diritto, ma sono da
questa presupposti o sono comunque necessari al suo esame. Gli strumenti che la teoria generale
può utilizzare allo scopo di conoscere ciò che è generale nel diritto sono 2:
3
• La comparazione dei singoli diritti (procedimento a posteriori); • La individuazione degli aspetti
che i diritti non possono non avere (procedimento a priori).
Per “concetto” si intende il significato di un termine, o di una classe di termini sinonimi, il quale è
possibile indicare tramite “definizione”. Per es. il concetto di ‘gatto’ è il significato del temine gatto
e dei termini sinonimi nella nostra e nelle altre lingue. Mentre un concetto è giuridico, quando il
termine viene usato nei vari discorsi giuridici, per es. il termine “enfiteusi” indica un concetto usato
dal legislatore italiano, dalla dottrina e dalla giurisprudenza; il termine “norma” indica un concetto
usato dai giuristi e dai teorici del diritto.
• La distinzione tra uso e menzione del linguaggio, la quale emerge dalla caratterizzazione della
definizione come discorso che verte su parole, che menziona il definiendum.
• La distinzione tra discorso descrittivo e discorso prescrittivo, la quale porta ad individuare due
diverse definizioni: 1. La definizione lessicale, cioè che riproduce un uso linguistico diffuso presso
una data comunità di parlanti; lessicale è per es.
la definizione di ‘gatto’ in quanto esprime un significato comunemente ascritto a questa parola dai
parlanti italiano. Una definizione lessicale può essere considerata fedele o infedele agli usi
linguistici che pretende di riprodurre.
correnti. ✓ Ridefinizione.
• Tecniche definitorie dirette, cioè una definizione è diretta quando indica una parola o
un’espressione sinonimi del termine da definire. Ad es. quando si definisce il testamento come
“negozio giuridico unilaterale” si fornisce una definizione diretta della parola ‘testamento’.
4
1. DEFINIZIONI LEGISLATIVE Le definizioni, nell'ambito del diritto, hanno carattere
stipulativo. La maggior parte delle definizioni esplicite ha carattere esplicativo. Le definizioni
legislative, sono definizioni stipulative, sono determinazioni autoritative del significato di
espressioni usate in altre disposizioni di legge. Il legislatore, con una definizione legislativa ci sta
dicendo "guarda che il termine x tu lo devi intendere con questo significato qui" sta prescrivendo un
uso linguistico. Un es. è contenuto nell'art.812, 1°c. del C. Civile: infatti quando ci collochiamo
all'interno dell'ordinamento giuridico italiano e parliamo di beni immobili, non possiamo attribuire
a questo termine il significato che preferiamo, ma dobbiamo adoperare il concetto giuridico
esplicitato dal legislatore. L’uso di definizioni nella legge è un espediente di costruzione artificiale
di un linguaggio, che il legislatore, adopera per circoscrivere quella che si chiama, la
discrezionalità degli interpreti. Nessuna definizione può mai riuscire ad eliminare la libertà
dell’interprete. Cioè gli interpreti, che sono i giuristi che attribuiscono significato alle parole nel
mondo giuridico, non possono procedere liberamente in questa attività. Anzitutto, anche gli
enunciati definitori vanno interpretati e possono avere un significato incerto. Ci sono teorie che
ritengono che i significati definiti debbano corrispondere in un modo o nell’altro alla verità. Quindi
parliamo della definizione vera o falsa. Per es. ci sono teorici del diritto che ritengono di poter
cogliere l'essenza di concetti giuridici, come quello di "matrimonio", escludendo dal suo ambito di
significato, le unioni tra individui che abbiano lo stesso sesso. Questa unione detta
"matrimonioomosessuale" non è un vero matrimonio. Quindi se io definisco il matrimonio come
vincolo, diciamo, "unione tra due persone che possono avere anche lo stesso sesso" sto proponendo
una definizione falsa. Nella teoria nominalisticadella definizione, invece le definizioni in quanto
tali non possono essere vere o false. Possono essere proposte, come più o meno opportune, possono
essere elaborate o rilevate, come più o meno fedeli, ma non sono vere o false. In secondo luogo,
nessun diritto riesce a definire tutti i termini che adopera. Infatti i termini definiti sono una
minoranza. Infine non è sempre facile capire quando il legislatore sta introducendo una definizione
legislativa oppure sta introducendo una norma di condotta o una norma di competenza, quindi una
direttiva. Tant'è vero che le definizioni legislative le possiamo anche considerare come dei
frammenti di norme, che acquistano senso prescrittivo compiuto in connessione con le altre
disposizioni in cui il termine definito compare. Ci sono dei casi dati per es. dall'art.833 C.C. (se
leggiamo questo art. troviamo una rubrica, ovvero il titolo dell'articolo, cioè quello che indica il
tema su cui l'articolo interferisce) 3 0 0 AAtti di emulazione: Il proprietario non può fare atti i quali
non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri. 3 0 0 B L’art.833 sta
definendo gli atti di emulazione, precisando che nel concetto di atto di emulazione rientra questo
particolare obbligo. Noi quindi ricaviamo il significato di atto di emulazione, inteso come
definiendum. L'atto di emulazione è l'atto che ha lo scopo di recare molestia ad altre persone, ed è
un divieto che è imposto al proprietario. Ci sono state delle epoche storiche in cui la scienza
giuridica, agiva come una specie di surrogato del legislatore, cioè l'autorità degli esperti del diritto
era tale da influenzare anche formalmente il diritto. Essi ritenevano che, non fosse opportuno che il
legislatore desse delle definizioni giuridiche, perché è compito della scienza giuridica quello di
costruire un sistema completo e complesso di concetti normativi.
Il problema, in questo accostamento, è stato superato anche nella pratica perché il legislatore,
introduce delle definizioni legislative e ha sottratto il monopolio della definizione legislativa alla
classe dei giuristi. Sottratto nel senso che, le definizioni legislative sono prescritte da norme
giuridiche e il giurista che se ne discosti, semplicemente non fa bene il suo lavoro, perché i suoi
interessi risulteranno essere penalizzati in quanto tutti gli altri giudizi che compie saranno
considerati viziati, impugnabili ecc. Questo accostamento della scienza giuridica, ha un carattere
ideologico , cioè tende a sollecitare l’interprete a liberarsi dai vincoli concettuali imposti dal
legislatore.
• I concetti fattuali sono quelli che designano entità, proprietà, a delle cose di puro fatto, cioè
individuabili indipendentemente da ogni riferimento a norme; noi non abbiamo bisogno di far
6
riferimento a norme se vogliamo per es. definire il concetto di “bosco” questi sono tutti, oggetti o
concetti che possiamo definire in altro modo e non facendo riferimento a delle norme giuridiche.
I diritti umani sono quei diritti che soddisfano i bisogni essenziali degli esseri umani, oggi sono li
troviamo proclamati nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” ‘48. Mentre i diritti
fondamentali sono quelli riconosciuti nei vari ordinamenti statali da norme costituzionali. Per il
giusnaturalista la titolarità di diritti naturali è elemento costitutivo del concetto di persona umana.
Le persone , in senso morale, sono considerate come enti meritevoli di protezione in virtù della loro
natura umana. Protezione che viene data dai diritti naturali. Non possono mai essere oggetto di uso
esclusivamente strumentale: non possiamo adoperare gli esseri umani come mezzo per ottenere
qualcos'altro. I giusnaturalisti rispondono propugnando una meta-etica oggettivista, cioè ritengono
che dalla descrizione di un certo stato di cose, ad es. la natura o la ragione umana, si possono
ricavare dei valori morali, oggettivamente validi: oggettivismo etico significa proprio questo. Il
giuspositivismo è l'accostamento inverso, perché si basa su una tesi metaetica meno universalistica
che si chiama non oggettivismo etico, quindi, i valori e diritti non possono essere dimostrati né
ricavati oggettivamente dalla conoscenza e dalla descrizione dei fatti. La posizione fondamentale
del giuspositivista è che ciascuno sceglie i suoi valori in base a una scelta consapevole,
responsabile. Una scelta morale che è individuale: quindi la mia etica è fatta dalle mie scelte, ciò
che per me è buono e giusto può non coincidere completamente con quella di ciascuno di voi, ma
ciascuno di voi forma la sua etica sulla base delle sue scelte consapevoli e responsabili. Sulla base
di un atteggiamento meta-etico di questo tipo, cioè non oggettivista, arriviamo a un'altra tesi che si
chiama: la separazione tra il diritto e la morale. In base alla quale dobbiamo tenere separato il
problema della descrizione del diritto dal problema della descrizione della morale. Può ritenersi
diritto anche il diritto che noi reputiamo immorale, il diritto ingiusto. Questo atteggiamento che si
chiama giuspositivista o accostamento giuspositivistico al diritto è tipico di buona parte della
cultura giuridica contemporanea. Ci sono delle posizioni come quella dei utilitaristi, che ritengono
7
di avere risolto il problema della dimostrazione dell'etica: è buono tutto ciò che è utile e abbiamo i
criteri per determinare di fatto l'utilità delle azioni, delle pratiche sociali e quant'altro. Kelsen, è un
giurista che traccia la concezione più classica del giuspositivismo e dice: che i diritti soggettivi
sono tutti quelli che il diritto oggettivo considera come tali. Questa è la posizione, in materia di
diritti soggettivi del giuspositivismo. Kelsen considera del tutto irrilevante la questione se esistano
diritti naturali e quale sia il loro rapporto storico-fattuale col diritto positivo, in quanto i valori
morali sono arbitrari e non conoscibili. Per Kelsen, il diritto soggettivo è un meccanismo
normativo, che consiste nell’attribuire al privato la facoltà di mettere in moto il procedimento
giudiziario di accertamento della violazione di un obbligo. Nei diritti soggettivi giuridici,
possiamo osservare che questi in quanto dotati di esistenza preesistente ed indipendente dal diritto
positivo, non sono mai riducibili ad esso. I diritti, sono quindi dotati di eccedenza deontologica.
Mentre per Hohfeld (giurista statunitense del ‘900) il diritto soggettivo viene usato per designare
quattro situazioni soggettive diverse:
1. Di diritti intesi come pretese, cioè posizioni giuridiche soggettive correlate ad obblighi, x es. il
diritto di credito; 2. Di diritti intesi come privilegi o libertà o permessi di fare e non fare, cioè
posizioni giuridiche soggettive correlate alla
mancanza di pretese altrui, ad es. la libertà di passeggiare in strada; 3. Di diritti nel senso di
competenze o poteri, cioè capacità attribuite dal diritto di alterare la situazione giuridica di un’altra
persona con o senza il suo consenso, ad es. il potere di stipulare contratti; 4. Infine di diritti nel
senso di immunità, cioè non soggetti al mutamento della propria situazione giuridica per iniziativa
unilaterale
• Una parte che rappresenta l’azione prescritta e include la determinazione del destinatario, cioè il
frastico; • Una parte che invece indica, che tale azione è considerata come un modello di
comportamento da tenere, cioè neustico
Nel linguaggio giuridico corrente, il neustico delle norme, è espresso con l’uso di espressioni
deontiche, x es. “si deve, si può, si ha lafacoltà, si è tenuti”. La nozione di diritto soggettivo è stata
analizzata e i risultati di queste analisi hanno portato all’elaborazione di una serie di tavole delle
modalità giuridiche, cui autore principale è Hohfeld ma poi questi studi sono stati sviluppati da
Alf Ross. I logici, per costruire una tavola di modalità deontiche, assumono una modalità primitiva
e indefinita, da dove poi ricavano tutte le altre; così si assume come modalità giuridica
fondamentale il concetto di obbligo e il permesso insieme. In questa tavola, sono indicate le
posizioni giuridiche soggettive che possono essere interpretate da due soggetti di un rapporto
giuridico, A e B, riguardo a un comportamento C . Se parliamo, x es. di diritti come pretese ci
rendiamo conto che la pretesa del soggetto B nei confronti di A in relazione al comportamento C,
corrisponde sempre all'obbligo del soggetto A nei confronti di B nel comportamento C. Se x es. io
ho una pretesa nei confronti di Tizio, Tizio ha un obbligo nei miei confronti. Stesso discorso per
quanto riguarda la modalità del permesso, cioè il permesso di non fare, ad es. di non tenere il
comportamento C che A ha nei confronti di B, equivale a non pretesa di B nei confronti di A per il
comportamento C. Il concetto di permesso è usato anche per indicare quelle condotte umane che
non sono state qualificate normativamente come obbligatorie o vietate e che vanno considerate
permesse. Parliamo di libertà, la quale nel diritto è intesa come una delle modalità giuridiche. Il
concetto di libertà viene anche usato per indicare quelle situazioni in cui esiste anche un obbligo di
8
fornire l’opportunità di esercitare la libertà. Nelle norme di competenza, la modalità corrispondente
all’obbligo e la soggezione, definita come l’obbligo di obbedire alle norme create con l’esercizio di
una competenza. La competenza, è la capacità di creare norme giuridiche e di dar luogo a effetti
giuridici in capo ad altri soggetti. L’immunità invece è la contraddittoria della soggezione, la quale
infatti risulta essere il suo contrario e la sua negazione, cioè l’assenza in capo a un soggetto
dell’obbligo di obbedire alle norme emanate dalla persona priva di competenza, ovvero l’incapace.
Dunque, l’incapacità è la negazione della competenza o potere. Possiamo quindi affermare che la
competenza è sinonimo di potere. Il potere o competenza, può avere natura pubblica o privata.
Un es. di competenza privata o potere privato, è quella del proprietario, di disporre del bene di sua
proprietà. Dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, la competenza diviene una tecnica di
produzione di norme, e si dice che la persona o organo sono un autorità competente. La teoria delle
modalità giuridiche è considerata come uno strumento importante di una concezione del diritto
come norma e della norma come entità linguistico-semiotica.
Il concetto di diritto è il significato del termine “diritto” e dei termini sinonimi. Il diritto è uno
strumento che serve agli individui per regolare, in modo pacifico i loro rapporti, le loro relazioni,
evitando di arrivare a scontri violenti o arbitrali. Il diritto è un fenomeno coattivo, è qualcosa che ha
a che fare con l'attuazione (intesa come forza) organizzata regolata attraverso l'ordinamento
giuridico. Quindi, dobbiamo sempre cercare di istituire una sorta di corrispondenza tra i termini e la
realtà, senza la pretesa attualmente di coglierne l'essenza. Non possiamo neanche dire che una
definizione è vera o falsa, possiamo dire che una definizione è fedele o infedele. Fedeli o infedeli
rispetto agli usi linguistici diffusi, infatti non dobbiamo allontanarci troppo dal senso comune
altrimenti diamo delle cattive definizioni che magari sono funzionali e ai nostri obiettivi pratici, ai
nostri obiettivi etico-politici, ma hanno un elemento quantomeno discutibile perché si allontanano
troppo dal pensiero comune, dal pensiero ordinario, dal linguaggio che serve per comunicare.
Anche le definizioni devono essere formulate attraverso il linguaggio ordinario. Esiste anche la
possibilità che possa esistere un unico linguaggio ideale e perfetto, rappresentato dal
neopositivismo che scarta l’essenzialismo per continuare la sua ricerca di un unico linguaggio
idoneo a rappresentare la realtà empirica.
A. Perché presuppone che queste scelte fondamentali, ci siano e siano rilevanti; B. Che possano e
debbano essere esplicitate; C. Possano e debbano essere coerenti tra loro e con le altre idee
rilevanti di chi le sostiene.
• Come si ritiene che si debba parlare di diritto (metodo); • Quali aspetti del diritto devono essere
descritti e messi in luce e come (teoria); • Quali aspetti del diritto è importante valutare e in che
modo (etica e politica).
Il giurista e il filosofo però, confondono questi tre tipi di problemi e scelte, e la distinzione è resa
difficile dal fatto che molti altri problemi generali stanno in una posizione intermedia tra lo studio
del diritto positivo e la filosofia del diritto. Per questa ragione questi ultimi possono essere chiamati
10
problemi centrali: ovvero problemi che presuppongono la soluzione delle questioni metodiche,
metafisiche e di fondazione dei valori, e quindi non possono essere considerati fondamentali o
primitivi. I più rilevanti problemi teorici hanno questa natura centrale: vale a dire che
costituiscono un applicazione delle idee filosofiche di fondo ed una precisazione del loro significato.
Nel diritto dei problemi centrali si occupa prevalentemente la teoria generale del diritto,
specialmente quando fatta “dalbasso” a partire dal punto di vista dei giuristi positivi.
2. C'è un operazione successiva di diritto comune. Qual è il diritto qui e ora? È l’operazione di
individuazione del diritto vigente. Questa è un operazione che possono svolgere tutte le persone
sane di mente. Attraverso il riferimento al senso comune, attraverso una serie di indizi periferici,
capiamo che un certo diritto vige qui e ora, che determinate regole della coazione sociale sono
attualmente vigenti ed eventualmente e coattivamente applicate, sono indizi periferici come x es. "la
presenza di determinate autorità che si proclamano tali e che non vengono contestate" questi sono
dei sintomi di diritto vigente. Quando ci sono questi sintomi siamo propensi a pensare che viga un
certo diritto qui e ora. Quando non ci sono, non abbiamo un diritto vigente, x es. "chiamo la polizia
e questa non viene,.. mi affaccio dalla finestra e vedo delle macchine incendiate" è in corso una
situazione di anarchia. Questa è un operazione di individuazione che svolgiamo sempre attraverso il
senso comune e attraverso il riferimento a una serie di indizi e sintomi.
3. La terza operazione è quella di determinazione del diritto, non può essere compiuta dall'uomo
della strada, non è un operazione di senso comune, richiederebbe delle conoscenze specialistiche.
Essa presuppone le precedenti due operazioni; quindi precedentemente deve essere già stato
identificato il diritto e individuato come diritto vigente, in questo modo è possibile determinare
quali sono le norme che appartengono al diritto, e lo facciamo attraverso l'esame di una serie di
regole il cui contenuto si trova nelle fonti del diritto, cioè le regole che ci dicono quali sono le
norme giuridiche, quali sono le altre regole che noi dobbiamo applicare e considerare giuridiche.
Cioè sono dei criteri con cui il diritto si auto-precisa, si auto-delimita e si autodefinisce. Questo
compito spetta ai giuristi, i quali non sono solo in grado di dire "quale è il diritto sulla base dei
criteri di auto appartenenza fissate delle norme dell'ordinamento", ma sono anche in grado di dire
"che cosa decide il diritto." Questa è un ulteriore operazione di determinazione. Operazioni che
sono compiute dai giuristi perché il comune cittadino conosce una porzione ridotta del contenuto
delle norme giuridiche. La differenza tra il cittadino comune e il giurista, è data dal fatto che solo
quest'ultimo sa compiere le operazioni di determinazione del diritto.
11
Il concetto o la concezione di dirittoè considerato come uno strumento fondamentale della cultura
giuridica, è il luogo concettuale dove si possono trovare riassunte, le fondamentali tesi giuridiche di
una cultura, di una corrente di pensiero o di una persona. Si tratta di tesi metafisiche,
epistemologiche, eticopolitiche, che spesso si trovano implicite nei discorsi dei filosofi del diritto,
come fondamenti, come giustificazione delle loro scelte metodologiche. Non tutte le concezioni del
diritto contemporanee prestano la stessa attenzione agli stessi fattori. È importante rendersi conto
del livello a cui diverse concezioni del diritto formulano le proprie caratteristiche e scelgono di
distinguersi, o opporsi alle altre: per alcune si tratta di una distinzione a livello di problemi filosofici
fondamentali (Giusnaturalismo, Giuspositivismo, Giusrealismo, Marxismo ); per altre a livello
di tesi centrali, ma non fondamentali: come le concezioni descritte in questa voce che individuano
un componente ultimo del diritto e norma, rapporto giuridico, imperativo o istituzione (cioè
Normativismo, Teoria del rapporto giuridico, Imperativismo,Istituzionalismo): infatti queste
concezioni sono componenti di una concezione dei problemi fondamentali cui si appoggiamo.
Alcune di queste concezioni (tranne quelle effettivamente opposte, es. Giusnaturalismo e
Giuspositivismo) sono tra loro compatibili e componibili.
1. Una concezione assoluta, oggettiva e/o statica della morale; 2. Una tendenza a giudicare sulla
legittimità di un diritto e ad attribuirgli tale titolo in base alla morale.
La prima questione, se esista una morale oggettiva è molto importante: perché è fondamentale
stabilire se esistono criteri oggettivi ed eterni di giudizio morale, e se esistono stabilire se possono
essere conosciuti, permettendo quindi di dichiarare veri (o falsi) i nostri giudizi morali. È ovvio che
su questo punto, cioè il problema della dimostrazione dei valori, i giusnaturalisti hanno l’onere di
presentare criteri di prova adeguati: essi non manifestano grande accordo a riguardo, spaziando da
prove quali l’autoevidenza dei principi del diritto naturale, all’intuizione o senso morale di ciascun
soggetto; infine alcuni sostengono che è naturale ciò che è costante nelle diverse situazioni e
società, per cui sarebbero diritto naturale tutte le norme che risultano presenti in tutte le società
storiche. La seconda questione è una mera questione terminologica: non ha infatti grande
importanza definire un particolare diritto “diritto ingiusto” o “non-diritto-perché-ingiusto”.
Attualmente il criterio a cui il giusnaturalismo fa riferimento è la natura razionale dell’uomo:
diritto naturale vuol dire qui diritto razionale, che è dimostrato essere giusto oggettivamente dalla
ragione dell’uomo. Una parte della critica contemporanea ha sostenuto che i principi eterni del
diritto naturale che risulterebbero auto-evidenti alla ragione (come i principi classici del diritto
romano: dare a ciascuno il suo, non danneggiare nessuno), sono in realtà vuoti e formali, perché
non è possibile stabilire esattamente il significato di tali espressioni Sul piano psicologico e del
senso comune si può dire che il giusnaturalismo estremo ha dalla propria parte la costante
esigenza di certezza e di una fondazione sicura delle scelte morali, e per questo viene riproposto in
12
modi più o meno nuovi. Contro di sé, ha la grandissima variabilità delle opinioni morali nella storia,
e l’esperienza del fatto che qualunque sistema di filosofia morale ha suscitato nel tempo sia
adesione che opposizione qualificate e ragionate. Queste critiche all’esistenza dei diritti naturali
sono importanti perché mettono in forse una dottrina (giusnaturalismo) le cui idee hanno forgiato
la storia e lo stato: in primo luogo l’idea dei diritti inalienabili dell’individuo. Questi diritti
soggettivi sono nati come diritti soggettivi naturali, sorti in polemica con i diritti positivi
considerati insufficienti ed ingiusti. Anche se sono stati recepiti dai diritti positivi, come garanzie
costituzionalie diritti dei cittadini, molti li ritengono come diritti naturali e inalienabili,
indipendenti e prioritari rispetto al diritto positivo, in un mondo in cui molti stati non li tutelano
adeguatamente. Tuttavia, la discussione teorico-filosofica non può essere decisa in base al bisogno
di certezza e alla variabilità dei valori; la difficoltà del giusnaturalismo sta proprio nella difficoltà di
una fondazione teorica e razionale della propria teoria. Dunque la critica più grave che si può
rivolgere al giusnaturalismo è di tipo metodologico e gnoseologico: essa prende la forma dello
scetticismo rispetto alla facoltà umana di conoscere e descrivere oggettivamente i valori morali.
Questa concezione cognitiva dell’etica è accusata dai non cognitivista di fallacia naturalistica
(vedi voce in: Giustizia), cioè di voler indebitamente derivare conclusioni prescrittive dalla
descrizione dei fatti. Mentre l’esigenza della fondazione obbiettiva dell’etica è difesa anche da altre
teorie come l’utilitarismo e contrattualismo, una difesa flessibile del giusnaturalismo è tentata da
chi abbandona un modello di morale statica per passare a parlare di diritto naturale mutevole: si
sostiene che esiste un modo oggettivo di individuare il diritto naturale, ma che esso muta nello
spazio e nel tempo, andando sempre a coincidere con la morale positiva di un dato tempo e un
dato luogo. Molti critici hanno dubbi riguardo questo metodo, perché è difficile individuare una
morale positiva univoca, con confini e fattezze sufficientemente precisi, in una data situazione
spazio-temporale: quando questa precisione viene raggiunta i critici sospettano che tale omogeneità
sia derivata da un elemento semplificatore e prescrittivo, ossia le scelte morali del filosofo stesso.
Oggi l’imperativismo in questa sua forma originaria è criticato dai teorici del diritto, perché non
riesce a spiegare molti fenomeni giuridici che non sono qualificabili come comandi: x es. il diritto
internazionale (Austin lo considera come un caso di morale positiva). La teoria
dell’interpretazione come atto di volontà appare poco realistica e impossibile da applicare quando
gli organi produttivi di norme sono corpi collettivi come i parlamenti, ovvero quando le norme
giuridiche sopravvivono ai loro produttori (morti o non più in carica). Il problema è che solo una
piccola parte dei fenomeni giuridici è spiegata dal modello imperativistica, sostanzialmente
soltanto certi aspetti del diritto penale. È vero che i concetti di minaccia e di abitudine
all’obbedienza offrono alla teoria del comando una certa capacità di spiegare l’insorgere e la
persistenza di rapporti sociali non meramente occasionali di obbedienza e sottomissione, ma è
anche vero che la capacità esplicativa del modello imperativistico diminuisce quando viene a
mancare non solo la situazione concreta del comando, ma anche le persone concrete del
13
comandante e del comandato. Il diritto infatti è un insieme di rapporti sociali in larga misura
impersonali, spesso puramente potenziali tra persone non attualmente in contatto tra loro; per
questo le nozioni di comandante e comandato si applicano per lo più solo metaforicamente: il più
frequente di questi usi è quello per cui i giuristi parlano di un legislatore come se fosse una persona
dotata di una volontà; in realtà esso è un’istituzione complessa, retta essa stessa da norme
impersonali. In realtà il legislatore non è neppure un comandante vero e proprio, poiché emana
norme impersonali applicate da terzi. È stato il realismo giuridico scandinavo a mettere in luce i
pericoli nascosti dietro la metafora: Olivecrona ha avanzato la teoria del diritto come composto di
imperativiindipendenti, cioè impersonali. Molti critici dell’imperativismo e del giuspositivismo, tra
cui Olivecrona, tendono a identificare l’imperativismo col positivismo giuridico giudicandoli
logicamente interdipendenti: essi ritengono che ogni confutazione dell’imperativismo lo sia anche
del giuspositivismo; tuttavia ci sono alcune versioni del giuspositivismo che non sono
imperativistiche, e concezioni imperativistiche che non sono giuspositivistiche. Tuttavia
l’importanza attuale dell’imperativismo sta proprio nella sua influenza enorme e persistente sulle
concezioni non articolare dei giuristi positivi: mentre come concezione filosofica è ormai poco
popolare, esso è probabilmente la concezione implicita della normatività giuridica più diffusa tra i
giuristi.
Si è ritenuto che il giuspositivismo dovrebbe essere diviso in questi due elementi: l’uno, l’esigenza
di una scienza dei fatti giuridici, dovrebbe essere ricondotto alla sociologia del diritto; l’altro, cioè il
normativismo, dovrebbe ammettere di essere un’ideologia politica favorevole alle norme effettive,
un’ideologia conformista. Chi ha avanzato queste critiche sostiene che il giuspositivismo
normativista nasconde un’adesione o accettazione di fondo del diritto stesso: nonostante il
giuspositivismo non richiede nessun atteggiamento morale verso il diritto positivo, sia favorevole o
sfavorevole.
• La norma di riconoscimento; • Le norme di mutamento, che istituiscono gli organi deputati alla
creazione e abrogazione delle norme; • Le norme di giudizio, che attribuiscono ai giudici il potere di
irrogare sanzioni per la violazione delle norme primarie.
In tema di interpretazioneHart rifiuta sia il formalismo che lo scetticismo semiotico. Per lui,
l’interprete crea il significato delle disposizioni giuridiche, in quanto il diritto usa gli stessi termini
che sono in uso nella lingua naturale. Questi termini hanno un area di significato piuttosto certa ma
circondata da un are di “penombra”. Gli sviluppi di Hart, sono però criticati dal filosofo
nordamericano Dworkin, noto esponente del neocostituzionalismo. Secondo Dworkin, Hart e il
giuspositivismo sarebbero incapaci di spiegare i principi giuridici, i quali vanno considerati come
tali non per la fonte che li ha prodotti, ma per il loro contenuto. Dworkin ha proposto una
concezione del diritto come integrità, in cui il diritto è la semplice esplicazione di valori morali
culminante e nel generalissimo valore della uguale considerazione e rispetto degli individui. Il
giurista che adotti questo atteggiamentointerpretativo sarà in grado di conseguire, almeno
idealmente, la giusta risposta ad ogni questione giuridica. La risposta del giuspositivismo
posthartiano ha preso due direzioni, ovvero il giuspositivismo inclusivo e
giuspositivismoesclusivo. Secondo il giuspositivismo inclusivo: niente preclude che un diritto
incorpori valori morali o principi di giustizia, come in fanno gli ordinamenti costituzionali
contemporanei, ma ciò non è necessario. Quando la conformità a un principio morale è richiesta
come criterio di validità delle norme giuridiche, la validità giuridica di una norma dipenderà dal suo
contenuto morale. Per il giuspositivismo esclusivo, i principi morali non possono mai diventare
parte del diritto e non possono essere criteri di individuazione di ciò che diritto.Ciò che il diritto è
dipende non dalla morale ma da fatti sociali.L’esistenza e il contenuto di un diritto possono essere
determinati con riferimento alle sue fonti, senza dover far ricorso ad argomenti morali, che sono
sempre intrinsecamente controversi. Quando il diritto contiene un riferimento a principi morali,
questi non divengono parte dell’ordinamento giuridico: ci si limita ad attribuire ai giudici il potere
di creare nuovo diritto attingendo a criteri morali extragiuridici. Concludendo , possiamo parlare di
giuspositivismo quando ci sono due aspetti: Atteggiamento ideologico-politico: concezione
strumentale del diritto, visto come mezzo di controllo sociale mediante la coazione distribuita
mediante norme generali e astratte, per qualunque fine e valore che le società, o le persone o classi,
si pongano. Aspetto descrittivo: idea secondo cui è possibile descrivere le norme generali e
astratte, trasmettendone il contenuto senza interventi normativi che ne stravolgano il senso da parte
di chi descrive. 4. NEOCOSTITUZIONALISMO Il neocostituzionalismo rappresenta concezioni
di diritto fondate sul superamento del modello ottocentesco di costituzionalizzazione dello stato di
diritto e sull’affermazione del modello dello stato costituzionale, caratterizzato da alcuni elementi:
16
in primo luogo da una costituzione scritta e rigida, cioè sovraordinata alla legge. In secondo luogo
lo stato costituzionale di diritto prevede diversi meccanismi che rimettono le leggi a un sindacato
di costituzionalità, cioè le leggi possono essere annullate qualora non siano conformi dal punto di
vista dei contenuti, con la costituzione. Questi, diciamo, sono aspetti formali che
contraddistinguono lo stato costituzionale di diritto. C'è poi l'aspetto sostanziale che riguarda i
contenuti delle norme che caratterizzano questi ordinamenti a livello costituzionale; vengono infatti
attribuiti agli individui, alcuni diritti fondamentali. Questi diritti fondamentali sono inviolabili e
questa inviolabilità è garantita anche nei confronti del legislatore, cioè il legislatore non può andare
contro i diritti fondamentali perchè sono garantiti dalla costituzione. Nel diritto costituzionalizzato i
rapporti tra diritto e morale, hanno assunto una configurazione inedita. Infatti la morale penetra
all’interno del diritto attraverso i principi costituzionali e ne diventa un elemento costitutivo
imprescindibile. C’è da dire che i neocostituzionalisti non invocano un diritto naturale, anzi c’è
proprio un superamento dell’idea di diritto naturale. I diritti naturali sono positivizzati nella
costituzione, assieme a una serie di valori morali di portata generalissima, e diventano diritti
fondamentali. Essi, condividono con il giusnaturalismo la fiducia nella controllabilità
intersoggettiva delle argomentazioni morali, e dunque la convinzione di poter ottenere sempre la
risposta giusta anche alle questioni giuridiche più spinose. Da alcune idee, la costituzione diviene
una tavola dei valori da cui desumere un modello complessivo di società giusta. Si trae dunque:
• Completezza o almeno completabilità del diritto, perché si ritiene possibile trovare nella
costituzione la risposta giuridica a ogni problema di conflitto sociale;
• La distinzione tra norme e principi giuridici, questi ultimi intesi come standards defettibili, che
necessitano di un bilanciamento; • Una concezione sintetica tendenzialmenteespansiva, sia del
contenuto che del catalogo dei diritti fondamentali, che si ritiene
possano essere anche solo implicite nel testo costituzionale; • Giudici visti come custodi ultimi dei
valori costituzionali; • La possibilità di arrivare a risultati interpretativi univoci sulla base di una
lettura dei valori morali incorporati nelle costituzioni; • Ruolo imprescindibile della morale delle
argomentazioni giuridiche le quali anzi, secondo qualcuno, rappresenterebbero solo
4.4.REALISMO GIURIDICO (in senso lato) Realismo giuridico o giusrealismo è qui inteso in
senso molto ampio, per comprendere un gruppo di concezioni anche molto diverse tra loro, che
hanno in comune il fatto di prestare particolare attenzione all’effettività del diritto, all’esistenza del
diritto nella società e nei comportamenti sociali: in special modo all’attività dei tribunali. Se si
caratterizza il realismo giuridico in modo così generico rientrano al suo interno varie concezioni: il
giusrealismo americano e quello scandinavo (i cosiddetti “realismi giuridici in senso stretto”), ma
anche la giurisprudenza sociologica, il giusliberismo, l’istituzionalismo e la teoria del rapporto
giuridico. Gli elementi comuni alle varie forme di realismo giuridico risultano più chiari se visti
sullo sfondo del giuspositivismo e in opposizione ad esso: specie al giuspositivismo implicito nella
17
mentalità dei giuristi del nostro secolo. Tutte queste concezioni hanno in comune, oltre
all’attenzione per l’effettività, anche la loro opposizione al formalismo giuridico e al legalismo,
presenti soprattutto nel giuspositivismo. Queste concezioni realistiche del diritto propongono un
elenco di fonti del diritto più ampio di quello dei giuristi positivi: per essi vi rientrano anche le
consuetudini sociali, le regolamentazioni derivate da interessi protetti ecc. Si potrebbe pensare che
questa concezione del diritto sia senz’altro più scientifica di quella giuspositivista, perché considera
più fatti ed è maggiormente attenta alla società e alle concrete situazioni sociali: in realtà si tratta di
una diversa valutazione etico-politica nei confronti del diritto e non di una sua diversa descrizione
empirico-fattuale: si ritiene opportuno che il diritto venga definito in modo da includere anche certe
norme effettive che la concezione tradizionale e giuspositivista tendono ad escludere. Ogni
valutazione, positiva o negativa, si dia di questo tipo di realismo giuridico, non si può considerarlo
scienza: alcuni chiamano giurisprudenzasociologica questo ramo del realismo giuridico con forti
componenti etico-politiche, per distinguerlo dalla sociologia del diritto, la scienza del diritto
empirico-fattuale. Alcune correnti del realismo giuridico favoriscono una concezione predittiva
della giurisprudenza, che dovrebbe occuparsi del diritto chevive ed opera soprattutto nei tribunali,
oltre al diritto scritto su carta: sarebbe da coltivare la previsione dei comportamenti delle corti,
secondo alcuni perché è utile al giurista pratico, secondo altri perché fonda una scienza di tipo
sociologico. Dunque le correnti giusrealiste possono essere descritte in quelle che hanno
un’impostazione soprattutto empirica e descrittiva, e quelle che hanno un impostazione prescrittiva
ed etico-politica. Va notato che le prime condividono di solito un’etica non cognitivista, le seconde
credono nella possibilità di soddisfare valori obbiettivi, anche se legati alla realtà sociale. I
giusrealisti hanno poi opinioni diverse circa l’influenza effettiva delle norme giuridiche sui
comportamenti giudiziari; infatti alcuni sono normativisti e altri no: i primi credono che le norme
generali e astratte abbiano notevole influenza sul diritto vero e proprio (quello dei tribunali), i
secondi considerano ben più importanti indagini su fatti più direttamente influenti, quali le tendenze
giurisprudenziali. Tutti i giusrealisti hanno un’interpretazione piuttosto scettica dell’interpretazione
giuridica: sottolineano infatti l’indeterminatezza ineliminabile delle norme generali e astratte e la
natura creativa della loro applicazione ai casi concreti: la misura di questo scetticismo è connessa
con la possibilità per il giusrealismo di essere o meno normativistico. Le concezioni di estremo
scetticismo interpretativo negano l’influenza delle norme generali nella loro applicazione
giuridica: ogni interpretazione viene considerata come interamente creativa. Le concezioni più
moderate ammettono un nucleo di certezza nella norma ed un’area di discrezionalità lasciata
all’interprete. Tutte queste correnti giusrealiste si caratterizzano per ciò a cui si oppongono: il
formalismo interpretativo del giuspositivismo e la metafisica del giusnaturalismo (anzi alle due cose
insieme, perché il giuspositivismo viene considerato una variante subdola e ideologica del
giusnaturalismo). Una valutazione equilibrata del complesso di tesi che vanno sotto il nome di
giusrealismo richiede che in conclusione vengano esaminati separatamente i suoi aspetti etico-
politici e i suoi aspetti scientifici: quanto al programma politico della giurisprudenza sociologica e
del giusliberismo va osservato che esso non si presenta come un obbiettivo autonomo, ma come
correttivo del legalismo e del formalismo giuspositivista. Quanto all’esigenza scientifica e
previsione del realismo giuridico, va osservato che essa è certamente legittima in una scienza del
diritto che voglia essere empirica allo stesso modo delle scienze sociali: tuttavia c’è da chiedersi se
essa non sia troppo riduttiva verso la funzione prescrittiva del diritto; il diritto infatti non è uno
strumento predittivo, stabilito per permettere a uno scienziato di prevedere i comportamenti dei
giudici, ma una prescrizione di comportamenti che si vogliono in tal modo controllare. È proprio
perché il diritto prescrive questi comportamenti che può anche servire a prevederli: di conseguenza i
più coerenti tra i giusrealisti sembrano ammettere anch’essi una natura significante del linguaggio
giuridico, come linguaggio prescrittivo di comportamenti.
Gli esponenti della corrente giusrealista americana sono Jerome Frank e Karl Llewellyn. In
particolare Llewellyn formula le idee fondamentali del giusrealismo: egli nega la capacità delle
norme giuridiche generali e astratte di determinare significativamente le azioni giuridiche (in specie
i processi); sostiene che la giurisprudenza scientifica deve limitarsi a cercare di prevedere il
comportamento delle corti; e nutre idee scettiche sull’interpretazione, che avrebbe sempre elementi
di creatività nascosti ma decisivi. Ha inoltre in comune con gli altri giusrealisti l’interesse per
l’effettività delle norme, che spinge di solito i giusrealisti a occuparsi molto di sociologia
dell’attività giudiziaria. Il giusrealismo scandinavo è un’altra corrente del realismo giuridico in
senso stretto. Essa parte dalla critica epistemologica del tradizionale discorso dei giuristi positivi, e
in particolare della tradizionale scienza giuridica; la critica si estende al modello giuspositivistico e
kelseniano della scienza giuridica. Il realismo giuridico scandinavo ha in comune con la corrente
nordamericana un interesse prevalente per l’effettività del diritto. A differenza della controparte
americano non è però sempre antinormativista sul piano teorico, nel senso che non sempre nega
le importanze delle norme giuridiche generali e astratte per la previsione e comprensione dei
fenomeni giuridici e soprattutto giudiziari. I giusrealisti scandinavi sostengono che i giuristi
positivi, anche giuspositivisti, producono una scienza che è incompatibile con il modello delle
scienze empiriche e sociali contemporanee e fanno inoltre uso di un linguaggio normativo intessuto
di presupposti metafisici e di termini astratti e privi di senso, come: diritto soggettivi, rapporti
giuridici, validità eccetera. In tal modo la giurisprudenza tradizionale e giuspositivista fornisce la
descrizione di come le norme dovrebbero essere applicate, non di come esse sono applicate di fatto:
e questa è senz’altro un’operazione ideologica. I giusrealisti scandinavi vogliono ridurre la scienza
giuridica a discorso empirico predittivo dei comportamenti giuridici, adeguandola all’obbiettivo
che viene attribuito anche alla sociologiadel diritto. Come si vede, su questa concezione, americani
e scandinavi si trovano d’accordo. Per isostenitori più moderati di queste posizioni, i termini
giuridici astratti non sono necessariamente daeliminare dal discorso giuridico, purché li si consideri
come mezzi per riassumere e formulare lenorme giuridiche (senza attribuire però ad essi una vera
“entità giuridica”): in questo il giusrealismoscandinavo viene a trovarsi molto vicino alle tesi
normativistiche kelseniane. Le critiche precedenti hanno stretti rapporti con la critica al formalismo
interpretativo: anche il giusrealismo scandinavo è scettico riguardo alla teoria dell’interpretazione e
sottolinea l’estrema libertà interpretativa concessa all’interprete dalla formulazione generale e
astratta delle norme giuridiche.Da parte di queste correnti del giusrealismo è stata prestata grande
attenzione ai problemi di fondazione dei valori, e si trova spesso sostenuta una teoria relativistica o
non cognitivistica deivalori : ovvero si nega la possibilità di conoscenza e fondazione oggettiva dei
valori, dei giudizi etici e in particolare di quelli di giustizia.I valori vengono da questi giusrealisti
empiricamente considerati come fatti sociali tra gli altri, il cui influsso sul diritto può essere
certamente descritto, ma non può essere approvato o disapprovato. A differenza di quanto avviene
per il giusrealismo americano, il fondamento del giusrealismo scandinavo è soprattutto filosofico e
metodologico: si tratta infatti di purificare il discorso dei giuristi dai suoi elementi mitici e
ideologici, e di produrre una vera scienza giuridica empirica e non nascostamente valutativa. I due
filosofi del giuriamo scandinavo più importanti sono Olivecrona e Alf Ross, autore di Diritto e
giustizia (1953) e Direttive e norme (1968). Con Olivecrona e con Ross, e soprattutto con
quest’ultimo, che fu anche allievo di Kelsen, il realismo giuridico affronta alcuni dei problemi
fondamentali della teoria giuridica contemporanea, affrontati anche da Kelsen; soprattutto la
separazione della questione della giustizia da quella dell’individuazione e descrizione del diritto. Il
19
maggior punto di distacco tra questo realismo e Kelsen sta proprio nella concezione della scienza
del diritto: per giusrealisti infatti la scienza giuridica tradizionale e giuspositivistica è
irrimediabilmente ideologica, compromessa da una nascosta scelta etico-politica a favore del diritto
descritto; mentre una vera scienza del diritto deve essere sociologica e revisionale e occuparsi
dell’effettività del diritto (tribunali..). Ross respinge l’idea di una specifica validità a priori del
diritto, e sostiene, in polemica con Kelsen, che le norme non hanno alcuna specifica realtà e non
esistono a meno che non vengono osservate e sentite come vincolanti dai loro destinatari. Ross è
inoltre d’accordo con Kelsen sul fatto che le norme di competenza siano riconducibili a norme di
condotta, e che norme giuridiche vere e proprie siano solo quelle che disciplinano i comportamenti
umani osservabili. Infine, sul compito e la natura della scienza giuridica, Ross la qualifica come
empirica e predittiva: essa dovrebbe indagare sulle tendenze decisionali giudiziarie e formulare
previsioni concernenti il comportamento futuro dei tribunali.
4.6.ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO L’analisi economica del diritto si sviluppa negli
Stati Uniti negli anni’60 del secolo scorso e si propone di applicare i concetti della teoria
economica all’esame dei problemi giuridici, soprattutto al fine di analizzare l’influenza delle norme
delle istituzioni giuridiche sui comportamenti dei singoli e di prevedere in quale modo gli individui
adotteranno la propria condotta ai mutamenti del diritto. Il diritto è concepito come uno strumento
finalizzato a conseguire l’obiettivo dell’efficienza economica. L’efficienza economica è di solito
intesa come la massimizzazione della ricchezza sociale complessiva, ossia il valore di tutti i beni e
servizi materiali e immateriali presenti in una data società. Questo valore è determinato non sulla
base di criteri oggettivi, bensì sulla base di valutazioni individuali. L’efficienza economica è
massimizzata quando le risorse della società risultano allocate in modo tale che la somma di tutte le
valutazioni individuali si a la più alta possibile. L’efficienza economica è quindi calcolata in
funzione del benessere dei singoli. Gli individui sono raffigurati come agenti razionali mossi
dall’obiettivo di massimizzare la soddisfazione del proprio interesse personale e capaci di
rispondere razionalmente ai mutamenti esterni quali ad es. quelli determinati dalle norme
giuridiche. Le norme del diritto sono dunque essenzialmente strumenti per offrire incentivi o
disincentivi agli individui, e vanno analizzate solo in questa prospettiva strumentale. Due correnti
distinte: Analisi economica positiva: privilegia la descrizione del diritto secondo le categorie
economiche ed è interessata ad analizzare gli effetti delle norme giuridiche sul funzionamento del
sistema economico; mira alla migliore comprensione del sistema giuridico e alla previsione di come
gli individui agiranno nelle interazioni reciproche tenendo conto delle norme giuridiche. Analisi
economica normativa: fornisce ai legislatori, giudici e alla pubblica amministrazione, le direttive
per strutturare le istituzioni giuridiche, emanare le norme generali e decidere sui casi individuali in
modo da promuovere lo scopo dell’efficienza; mira a fornire ai decisori giuridici gli strumenti di
politica del diritto più idonei a perseguire il fine dell’efficienza economica. Su questa base, è
importante studiare le influenze reciproche tra diritto e mercato. È politicamente opportuno che un
legislatore avveduto si ponga il problema di valutare l’impatto economico delle misure normative
che intende adottare, sebbene calcoli del genere siano generalmente influenzati da un enorme
numero di variabili, talvolta occulte. Sul piano descrittivo, possono essere sollevati dubbi sulla
razionalità degli esseri umani e sul loro intento esclusivo di massimizzare la soddisfazione dei
propri interessi. Occorrerebbe tener conto dei deficit cognitivi e in generale dei limiti della
razionalità umana. Il diritto non è ordinariamente concepito come un sistema di incentivi/
disincentivi, ma come un meccanismo che guida le azioni stabilendo che cosa si può, si deve e non
si deve fare. La distruzione di un bene comporta un danno economico. Tuttavia è importante
distinguere la
6.5. ISTITUZIONALISMO L’istituzionalismo è una teoria giuridica che definisce il diritto come
organizzazionee istituzione. Questa teoria ha fra i suoi principali esponenti il francese Maurice
Hariou , e il giurista giuspubblicista italiano Santi Romano. L’istituzionalismo critica la pretesa
del normativismo di fare della norma l’elemento fondamentale e primario del diritto. Ciò che è
prioritario, per l’istituzionalismo, è l’elemento dell’organizzazione sociale, la quale non solo
preesiste alle norme, ma costituisce anche lo sfondo che ne permette l’interpretazione e ne colma le
lacune; inoltre costituisce in qualche modo il limite alla validità delle norme, che possono essere in
21
ogni momento superate dalle norme derivate dalle due grandi fonti del diritto non scritto: la
consuetudinee la necessità. Una critica immediata all’istituzionalismo è: cosa può formare
un’organizzazione se non l’insieme delle norme? Ci si può chiedere, riguardo alle pretese fonti del
diritto non scritto, quali criteri individuino la consuetudine giuridica e la necessità giuridica nel
marasma delle consuetudini e forze sociali. In realtà la concezione istituzionalistica è abbastanza
moderata e risente soprattutto dalla maggiore inclinazione di Romano verso il diritto pubblico
rispetto al diritto privato, e ne deriva un’impostazione prevalentemente statualistica: il diritto
pubblico è infatti diritto statale. Nascosta sotto l’istituzionalismo moderato esiste una concezione
assai più radicale, che respinge il normativismo in modo radicale, vedendo le norme superate dalla
realtà dei rapporti sociali: gli uomini e le loro decisioni fanno la realtà, non le norme: questo
decisionismo estremo è un atteggiamento conoscitivo e un punto di vista eticopolitico. L’idea del
governo delle leggi piuttosto che il governo degli uomini è solo un’ideologica credenza
consolatrice: l’ideologia dello Stato di diritto va osteggiata perché sacrifica alla certezza l’ideale
della giustizia. Il tedesco Carl Schmitt, sviluppa una teoria con la quale teorizza la concezione
concreta dell’ordinamento e giunge fino ad appoggiare l’antinormativismo del nazionalsocialismo;
opponendo alla vuota astrazione del mondo normativo che sarebbe propria di molte concezioni del
diritto la concretezza delle decisioni del potere. Il decisionismo è un’idea filosoficamente profonda e
inquietante per ogni giurista contemporaneo; è diciamo, il sospetto con cui ogni giurista pratico e
teorico deve fare i conti. Pertanto il decisionismo è incorporato, in forme più o meno apparenti, in
molte teorie giuridiche, e in particolare in molte forme di realismo giuridico.
La teoria del rapporto giuridico sembra cadere nella fallacianaturalistica. Qui il teorico del
rapporto giuridico sembra presupporre il giudizio di valore per cui è bene che le regole diffuse nella
società ottengano un riconoscimento giuridico. Da questi giudizi di valore, egli ricava una
descrizione del diritto: “Il diritto deve essere così,dunqueil diritto ècosi”. Va anche considerato che
le regole e gli interessi sociali sono quasi sempre in conflitto e confusi; occorre quindi un'opera di
scelta politico- giuridica per favorire alcuni tra di essi a preferenza degli altri: un compito che il
giuspositivismo lascia compiere al legislatore politicamente legittimato. Invece, la teoria del
rapporto giuridico, mediante la propria definizione di diritto, demanda questo compito al giudice
che «interpreta» il senso dei rapporti sociali. 6. MARXISMO E DIRITTO Anzitutto occorre
distinguere tra il pensiero di Marx (ed Engels) e quello dei suoi seguaci: si usa distinguerli
chiamando marxiano il pensiero di Marx ed Engels e marxista quello dei seguaci. Marx fu un
filosofo politico, e questi suoi interessi politici influenzano profondamente la sua concezione del
diritto: egli non considera il diritto un fattore storico autonomo. Secondo Marx la filosofia non deve
limitarsi a interpretare la realtà, ma deve trasformarla radicalmente. La storia è per lui movimento
dialettico di ciò che per Hegel era materia (cioè solo una parte della realtà in quanto Spirito), che
per Marx è la vera realtà, costituita dal sistema dei rapporti di produzione dei beni. La filosofia di
Marx si auto-denomina dunque materialismo in senso hegeliano. Gli altri fattori sociali sono per il
materialista solo una parte della sovrastruttura, realtà derivata e dipendente. Ciascuno stadio dei
rapporti di produzione produce un certo tipo di sovrastruttura (morale, politica). Il metodo di
22
produzione industriale capitalistica genera per Marx il diritto borghese europeo del XIX secolo. La
storia è per Marx essenzialmente lotta di classe, infatti i rapporti economici sono sempre rapporti
di sfruttamento di una classe sulle altre. Il diritto in Marx fa parte della sovrastruttura, quindi è
impossibile cercare di giudicarlo o comprenderlo in isolamento: il diritto di ciascun periodo storico
è la volontà della classe dominante, ed è rivolto a mantenere lo sfruttamento di classe. Anche l’etica
e i giudizi di giustizia sono sovrastruttura. Il solo giudizio scientifico per Marx è quello relativo al
mutamento dialettico: è considerato positivo ciò che facilità il movimento dialettico, negativo ciò
che lo ostacola. Secondo Marx la società è destinata a cambiare, cioè a rovesciarsi a causa della
rivolta delle classi sfruttate contro la borghesia sfruttatrice. Nascerà così per Marx, la società
comunista, senza sfruttamento, senza classi e senza false rappresentazioni quali l’idea di giustizia.
Pertanto si tende a parlare di diverse teorie marxiste del diritto, diverse tra loro sotto molti aspetti.
Un elemento che le accomuna è la visione del diritto come prodotto di una società divisa in classi
sociali antagonistiche; dove sarebbe impiegato dalla classe dominante come strumento per
consolidare e proteggere il proprio dominio sulle classi sottomesse. Il diritto non è però un elemento
autonomamente decisivo nella lotta di classe; infatti è considerato elemento della sovrastruttura, che
è determinata dai fattori fondamentali della realtà sociale, quelli economici. La sovrastruttura , cioè
il dominio ideologico (politico, culturale e giuridico), si limiterebbe a rafforzare il dominio
economico sui mezzi di produzione, il solo essenziale e decisivo: può modificare la fondamentale
dinamica sociale, ma non sovvertirla. È sempre lo specchio di una certa struttura economica. Queste
tesi sono oggetto di molte varianti. Alcuni pongono l'accento sulla critica all'ideologia borghese,
dove la critica all’ideologia giuridica ne diventa un aspetto particolare. Come accadeva soprattutto
nei teorici del diritto sovietici, infatti dobbiamo tener conto dei problemi della legittimazione del
potere e dell'attività giuridica nei paesi del «socialismo reale»: in questo caso si incontrava la grave
difficoltà di dare una valutazione positiva dello stato e del diritto «socialisti». Allora, si è cercato di
sfruttare la teoria della progressiva estinzione dello Stato e del diritto nella «vera» società
comunista; secondo Marx lo stato e il diritto dovrebbero venire meno quando venisse meno lo
sfruttamento e classi sociali a cui il diritto è funzionale. Alcuni pensatori sovietici, tra cui Nikolaj
Lenin, cercano di risolvere i gravi problemi interni del pensiero marxista sul diritto e il problema
non meno difficile della giustificazione dal punto di vista marxista della sopravvivenza del diritto e
dello stato in una società socialista quale pretende di essere quella sovietica. Un altro limite della
filosofia giuridica marxista viene dal fatto che sui temi specifici che oggi vengono comunemente
ritenuti rilevanti per una teoria del diritto, il pensiero marxista e marxiano, non ha dato significativi
contributi. Per il marxista sono i fatti della struttura economica della società che determinano le
caratteristiche dei diritti e non viceversa: per questo il pensiero marxista non ha attribuito dignità
autonoma ai problemi della teoria giuridica rispetto a quelli di teoria politica e dello Stato: la
maggior parte dei marxisti ha continuato a ritenere di poter spiegare tutto ciò che è importante nei
fenomeni politici e giuridici mediante l'analisi economica dei rapporti di produzione. Gli approcci
marxisti hanno dunque cercato di spiegare il diritto come un momento di una più generale
interpretazione della società: si è così creata una situazione strana. Infatti il fallimento delle
previsioni di Marx sull’evoluzione della società, ha spinto i marxisti a rilanciare la nozione di lotta
di classe applicandola ai rapporti internazionali e alla politica mondiale.
7.1. CRITICAL LEGAL STUDIES Il critical legal studies, è un movimento composito che si
sviluppa negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70 del secolo scorso. Tra le fonti
d’ispirazione, spicca il pensiero di Marx, quello di Gramsci, e del filosofo tedesco Nietzsche. Per
molti giuristi di questo movimento, in base alle tesi dello scetticismo semiotico, le norme generali e
astratte non sono in grado di predeterminare le decisioni sui casi concreti. Inoltre, il diritto
incorpora sempre concetti antinomici: soggettivo/oggettivo, individuo/ comunità. La circostanza di
dover scegliere tra ciascuna di queste polarità rende l’attività dell’interprete inevitabilmente
politica. Il modello liberale dello stato di diritto nel quale comandano le leggi e non gli uomini è
una colossale mistificazione. Tutto il diritto è una gigantesca opera di mistificazione e
occultamento delle diseguaglianze e dei rapporti di potere, uno strumento per perpetuare lo
23
sfruttamento e l’oppressione non solo economica, ma anche di genere, razza e orientamento
sessuale. Compito dei giuristi critici è demistificare il modo in cui la dottrina, l’insegnamento del
diritto e la pratica delle istituzioni accademiche sostengono questo sistema diffuso di rapporti
oppressivi e non egualitari. I critical legal studies, sono più interessati alla critica etico-politica che
alla descrizione del diritto. Tale critica è praticata col metodo “decostruzionista”, ovvero una
modalità di lettura di testi volta a ribaltare l’ordine gerarchico consolidato tra i concetti. Non è
chiaro se la critica si focalizzi su contenuti degli ordinamenti giuridici occidentali contemporanei, o
sul diritto e il metodo giuridico come tali; e non è chiaro quali siano i rivolgimenti auspicati dai
giuristi critici, anche se ricorre frequentemente un’aspirazione alla emancipazione individuale dalle
strutture di potere che perpetuano le disparità di classe, sesso, razza ecc. Il movimento è segnato in
parte dal nichilismo: un atteggiamento radicalmente anti-teorico che consiste nella convinzione che
nessun discorso, incluso il proprio, possa essere esente da ideologia e aspirare all’oggettività.
CAPITOLO 5. NORMA GIURIDICA
1. NOZIONI E PROBLEMI Sotto il profilo linguistico, una norma è una prescrizione di condotta
, un significato atto a guidare il comportamento dei suoi destinatari. Una norma è giuridica quando
fa parte di un ordinamento giuridico.
La parola “norma” viene usata per designare quelle prescrizioni che riguardano una pluralità di
azioni, che sono dette prescrizioni generali e astratte e che sopravvivono ai singoli atti di
adempimento; non viene chiamata norma la prescrizione a una singola persona di compiere una
singola azione. Tuttavia, è detta normaconcreta, e viene chiamata norma perché è collegata alle
norme astratte con importanti nessi formali e sostanziali. Le norme giuridiche, non sono fenomeni
solo linguistici; quasi tutte le concezioni contemporanee del diritto sottolineano l’aspetto della
norma giuridica come realtà sociale che si crea intorno alle prescrizioni effettivamente seguite
all’interno di un gruppo sociale. Il realismo giuridico, considera le norme giuridiche solo le norme
trattate socialmente. La distinzione tra enunciato normativo e il suo significato è indicata con le
espressioni di disposizione e norma. Tale distinzione, è importante in quanto una medesima
formulazione linguistica può esprimere molteplici differenti significati normativi. La norma, non è
dunque l’enunciato linguistico, ma il contenuto di significato di un enunciato formulato o almeno
formulabile. Quindi si può parlare di norme giuridiche a proposito di significati normativi sprovvisti
di formulazione linguistica espressa. Nel diritto, non hanno formulazione linguistica, le
normeconsuetudinarie, i principi impliciti ricavabili con induzione dalle norme, le prescrizioni
derivabili tramite deduzione logica da altre norme. In base, al principio di esprimibilità, deve
essere possibile esprimere con parole i significati normativi.
Inoltre, c’è la classificazione precisata con l’ausilio del concetto di classe logica chiusa o aperta:
una norma è astratta quando disciplina una classe aperta di azioni, ossia quando disciplina delle
occorrenze di azioni umane non individuate una volta per tutte. Una norma è concreta quando
disciplina una classe chiusa di azioni, ossia quando disciplina delle azioni individuate una volta per
tutte, attraverso una determinazione spaziale o temporale. Generalità e astrattezza sono
caratteristiche essenziali delle norme giuridiche. Questa dottrina, intende esprimere l’esigenza etico-
politica che il diritto realizzi i valori positivi che si accompagnano alla generalità e all’astrattezza,
ossia l’uguaglianza e la certezza giuridica.
8. TEORIE MONISTE E TEORIE PLURALISTE Nella teoria contemporanea del diritto c’è
l’idea che le norme giuridiche possano e debbano essere ricondotte all’unico modello della
prescrizione di condotta. Bisogna, però distinguere 3versioni di decrescente radicalità: Secondo la
prima versione, la più estrema, il diritto è un insieme di norme indirizzate agli organi dello stato e
disciplinanti l’esercizio della coazione, In base alla seconda versione , il diritto è un insieme di
norme che regolano le condotte istituendo obblighi. In base alla terza versione, la meno estrema, il
diritto è un insieme di norme che regolano la condotta umana, non tramite obblighi o previsioni di
sanzioni. Questa versione, può ammettere la coesistenza di una pluralità di tipi di norme giuridiche
che, sono però tutte norme di condotta. Il fautore della riduzione del diritto a norma sanzionante,
ritiene che il comportamento consistente nell’infliggere la sanzione ai trasgressori rappresenti il
vero momento di contatto del mondo normativo giuridico astratto con la realtà empirica. Per Kelsen
e per Ross, la “vera” norma giuridica completa è quella che disciplina l’uso della forza fisica da
parte degli organi statali; tutte le altre norme sono frammenti, dotati di senso prescrittivo compiuto
solamente se letti in congiunzione con le atre parti del diritto che disciplinano la coazione. Il
riduzionismo , è stato criticato sotto 2profili. In primo luogo, il teorico che riduce tutto il diritto a
norme obbliganti o a norme sanzionatorie pone in luce la funzione obbligante o coattiva del diritto
ed occulta altre funzioni sociali che il diritto esplica. Secondo Hart, le norme conferiscono poteri,
ad es. il potere di stipulare contratti, fare testamento.. avrebbero la funzione di fornire agli individui
strumenti per la realizzazione dei loro desideri. In secondo luogo, il riduzionismo non soddisfa
l’esigenza teorica di fornire una descrizione del diritto che sia la più semplice possibile. Infatti,
ridurre tutto un diritto a norme obbliganti, comporterebbe un lavoro di riformulazione molto
complesso, di scomposizione e ricomposizione dei suoi vari elementi. Il prodotto finale di tali
operazioni, consisterebbe in norme gigantesche, infatti, ogni singola norma completa dovrebbe
raccogliere tutto il materiale normativo rilevante ad ogni singolo caso concreto, dalla costituzione
alle norme procedurali applicabili.. ecc. Secondo il critico, il riduzionismo renderebbe necessario
anche un mutamento radicale del mondo in cui i giuristi usualmente ragionano e parlano. In base a
queste 2critiche, si è sostenuto, in primo luogo che è sbagliato ascrivere alle norme giuridiche una
funzione sociale in modo aprioristico; infatti, sollo le ricerche empiriche possono riconoscere quali
sono le funzioni sociali delle norme. In secondo luogo, la riduzione del diritto a norma obbligante,
permette il controllo della incidenza delle norme, tale controllo è possibile solo se le norme
giuridiche vengono ricostruite e riformulate come norme di condotta che istituiscono obblighi. Si
può sostenere quindi che il giurista è interessato a stabilire la qualificazione giuridica dei
comportamenti nei singoli casi concreti, ed è pertanto avvezzo a ricostruire con operazioni
concettuali l’insieme del materiale normativo per regolare il caso reale o ipotetico. Le norme
giuridiche non sono entità che esistono in rebus, cioè oggetti che si offrano spontaneamente alla
percezione. Viceversa, il concetto di norma giuridica è sempre il frutto dell’applicazione, effettuata
con maggiore o minore consapevolezza, di principi chiamati di individuazione. Essi, costituiscono
una formulazione sintetica delle scelte che il teorico del diritto e il giurista devono compiere in vari
campi prima di descrivere un diritto.
Questi principi, si distinguono dalle altre norme, solo per il loro contenuto prescrittivo generale e
perché esprimono dei valori o indicano gli scopi a cui le altre norme si devono ispirare, ad es.
dichiarano inviolabile la libertà personale. Il testo canonico è quello a cui il diritto prescrive di far
sempre riferimento per ricavarne il significato normativo; non può essere modificato se non nei
modi fissati dal diritto. I principi giuridici impliciti, sono norme, e sono sprovvisti di formulazione
linguistica. I giuristi ritengono che il contenuto prescrittivo delle singole norme possa essere inteso
come una semplificazione di contenuti prescrittivi più generali, ossia appunto di principi impliciti,
infatti, i principi esprimono i valori o gli obbiettivi a cui si ispirano dette norme, e quindi “vivono”
all’interno delle norme che essi ispirano. Il ragionamento che fa ricorso ai principi impliciti è simile
al ragionamento per analogia e viene chiamato analogia juris, in entrambi i casi si compie infatti
l’induzione della ratio sottostante a una norma o a un gruppo di norme, in entrambi i casi la norma
o il principio così ricavati fungono da criteri di interpretazione e di integrazione delle lacune di un
ordinamento giuridico. L’art.12 delle“Disposizioni sulla legge in generale premesse al Cod. Civ.
italiano” stabilisce che, esaurite le altre modalità interpretative, l’interprete debba ricorrere ai
principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Tale norma, è stata intesa come un
rimando a contenuti prescrittivi già presenti nelle norme valide; ma alcuni hanno ritenuto che i
principi dell’art.12 fossero di diritto naturale e che il richiamo ad essi, fatto dal nostro ordinamento
rappresentasse un’apertura del diritto italiano al giusnaturalismo e alla eterointegrazione. La
distinzione tra norme e principi non è assoluta, infatti i principi giuridici possono avere un
fondamento di validità identico a quello di altre norme, e distinguersi da queste solo per la
generalità del contenuto prescrittivo e per il fatto di esprimere direttamente valori o scopi.
Nell’ordinamento giuridico italiano, l’es. più importante è quello dai principi costituzionali. Però i
principi possono essere anche solo impliciti e coincidono con quella che viene chiamata la ratio
delle norme, cioè con il valore o con lo scopo che costituisce la ragion d’essere, il fondamento
giustificativo di una singola norma o di un gruppo di norme giuridiche. Questi, vengono ricavati
dalle norme con ragionamento induttivo, dalla prescrizione meno generale della norma o dal gruppo
di norme è possibile ricavare, con un processo di progressiva generalizzazione e astrazione, la
prescrizione più generale costituita dal principio. Il ragionamento induttivo, a differenza di quello
deduttivo, non è logicamente stringente e lascia notevole libertà a chi lo compie. Inoltre, dalle
norme del diritto italiano, si può ricavare il principio della tutela della volontà e il principio opposto
alla tutela della dichiarazione dei contraenti. I principi non possono essere applicati ai casi concreti,
a differenza delle norme. Per cui si parla di bilanciamento e sussunzione. Sussumere significa
ricondurre un caso concreto sotto una norma. Ad es. la descrizione della uccisione per
avvelenamento di Tizio da parte di Caio viene sussunta sotto la fattispecie astratta dell’omicidio
prevista dal codice penale. L’operazione di sussunzione, è quella schematizzata nel «sillogismo
normativo». Questa operazione non può essere compiuta con i principi, che si limitano a proclamare
un valore da tutelare (x es. la dignità umana) senza indicare le modalità specifiche con cui quel
valore va tutelato. Per applicare un principio a un caso concreto, occorre tradurlo in una norma che
sia giustificata da tale principio. Tale operazione comporta amplissimi margini di discrezionalità
perché un principio può giustificare molte norme diverse tra loro. I conflitti giuridici interferiscono
reciprocamente dando luogo a conflitti; ad es. il conflitto tra libertà di manifestazione del pensiero e
il diritto alla riservatezza. Si arriva cosi al bilanciamento, l’operazione con la quale, in caso di
conflitto tra due o più principi giuridici, viene stabilito quale tra essi sia più importante e debba
orientare la decisione. L’espressione «bilanciamento» è ingannevole nella misura in cui suggerisce
che i principi abbiano un peso che può essere determinato oggettivamente. Si tratta invece di
un’attività largamente discrezionale con cui l’autore del bilanciamento istituisce tra i principi una
gerarchia di valore chiamata «gerarchia assiologica». Il principio soccombente in questo
bilanciamento non perde la propria validità ma viene accantonato nel caso di specie, salvo essere
applicato successivamente in altri casi. I principi vengono trattati come standard normativi soggetti
28
a eccezioni implicite, risultanti dai loro conflitti con altri principi. La defettibilità, è quindi un
ragionamento di coloro che interpretano le disposizioni che li esprimono.
2. ESISTENZA DI UN ORDINAMENTO
Nel discorso normativo, si può descrivere un ordinamento come un meccanismo semiotico per la
giustificazione di scelte d’azione; qui le norme e gli ordinamenti sono considerati possibili ragioni,
che sorreggono un ragionamento giustificativo di scelte. Dunque, dire che una norma esiste, o
appartiene a un ordinamento, significa affermare che nel ragionamento giustificativo, se accettiamo
l’ordinamento e la sua norma fondamentale, allora accettiamo anche le norme valide
29
nell’ordinamento. Trovar posto in un ragionamento è un esistenza “astratta” perché un
ragionamento è un’astrazione. Un ragionamento, è ciò che chiunque può dimostrare sulla base di
particolari principi e regole. Le ragioni o norme giuridiche e il ragionamento giustificativo che si
serve di esse possono essere descritti e usati indipendentemente dal fatto che tale meccanismo
mentale sia realmente usato dalla gente; le norme possono essere usate per qualificare azioni anche
quando esse non costituiscono uno dei motivi, o cause psichiche, per cui la gente effettivamente
decide cosa fare. Quindi, si parla di un punto di vista normativo, dotato di componente descrittiva,
consistente nel conoscere norme e ordinamenti con lo scopo di proporli al giudizio pratico,
all’accettazione o rifiuto di essi come possibili guide all’azione. Un’effettività delle norme e degli
ordinamenti è invece richiesta, in una prospettiva fattuale, per poterli descrivere come fatti sociali
e come fattori efficaci nella realtà sociale o storica. In etica, per es. possiamo descrivere
storicamente la morale positiva di un certo gruppo sociale in un certo spazio e tempo, invece,
assumendo il punto di vista normativo, possiamo descrivere normativamente un ordinamento
etico nelle sue articolazioni, per accettarlo o rigettarlo come guida d’azione. Una teoria
dell’ordinamento deve distinguere, tra concettodidiritto e norme fondamentali. Il primo, è uno
strumento concettuale con il quale intraprendiamo le nostre ricerche, e indica la direzione verso cui
siamo disposti a cercare il diritto; le seconde, le possiamo trovare in nell’area in cui ci ha indirizzati
la nostra definizione di diritto, nei vari tempi e luoghi e situazioni. L’atteggiamento prescelto,
normativo o fattuale, ci fornirà delle ragioni per preferire una definizione di diritto a un’altra, e
sulla base di tale definizione vediamo se esiste un ordinamento giuridico in una determinata realtà
sociale.
• Nel primocaso, con l’indeterminatezza delle norme, le formulazioni linguistiche restano ferme, ma
il loro significato può cambiare attraverso l’interpretazione. Si ha il secondo caso, quando le norme
contengono meccanismi semantici di adeguamento, cioè fanno riferimento a concetti mutevoli. Si
tratta di norme in bianco di rinvio, ad altri ordinamenti giuridici.
1. La prima è quella di moltiplicare i concetti di validità, introducendo una validità come perfezione
o una validità come effetti nell’ordinamento, oltre alla validità-appartenenza all’ordinamento.
Questa soluzione lascia aperto il problema del coordinamento tra questi concetti;
2. La seconda consiste nel sostenere che gli atti e norme “menomati”, non sono validi e non
possono avere effetti diretti; gli effetti che tali atti e norme, come atto viziato, sembrano derivare
dall’applicazione di altre norme valide, che “salvano” alcuni effetti degli atti e norme invalidi.
Kelsen o Ross, hanno osservato che molte norme giuridiche riguardano azioni umane, prive di
senso, e sono norme secondarie. Per es. una norma procedurale non ha scopo, perché la procedura
produce una norma individuale che regola un comportamento esterno, non interno al processo, ed è
una norma primaria. Le norme secondarie, non sarebbero norme autonome, ma frammenti di
norme giuridiche primarie, le cui prescrizioni finali contribuiscono a precisare e a produrre. Teorie
più riduttive ritengono che tutto ciò che nel diritto non si traduce, vada spostato nel campo della
morale e degli obblighi morali. Quindi, tutte le norme di un ordinamento, sarebbero frammenti di
norme giuridiche più ampie che regolano l’applicazione della coazione. Gli ordinamenti giuridici,
sono visti come fasci di norme coattive, ciascuna delle quali prescrive ai giudici di applicare le
sanzioni a certe condizioni, complesse e articolate. La singola “vera” norma comprenderebbe una
parte di norme costituzionali, che hanno permesso la creazione della legge. Questa concezione,
descrive il diritto come un insieme di norme che regolano l’applicazione della sanzione coattiva.
Hart, nega che questo sia l’unico approccio possibile al diritto, che svolge anche altre funzioni
nella vita sociale non riducibili ai comportamenti sanzionati. Questo approccio è chiamato da
Kelsennomostatica, cioè l’ordinamento è dato come già esistente ed è visto come un insieme di
norme che impongono la sanzione. Secondo Kelsen, invece, nomodinamica è l’approccio
31
all’ordinamento visto come insieme di norme e relativi atti di produzione, all’ordinamento nel
momento in cui viene prodotto. Nella nomodinamicakelseniana, le norme giuridiche sono quelle
che permettono la produzione di altre norme giuridiche. Bisogna distinguere, tra un senso di
ordinamento inteso come ordinamento diacronico, cioè la somma di tutte le trasformazioni nel
tempo di un gruppo di norme, individuato come tale dalla permanenza della sue norma
fondamentale, nonché dall’assenza di una rivoluzione giuridica. E un senso più stretto, di
ordinamento momentaneo o sincronico, che è poi un ordinamento normativo diacronico preso
in un singolo momento della sua esistenza. Entrambi i sensi, sono usati dai teorici e giuristi positivi.
32
fondamentale, sulla base di quel concetto, nel quale si rinvengono gli ordinamenti che posseggono
le caratteristiche così postulate.
8. FONTI DEL DIRITTO Le fonti del diritto sono gli atti o i fatti da cui “scaturisce” il diritto.
Secondo le concezioni normativistiche del diritto, le fonti del diritto sono norme, che stabiliscono i
criteri di appartenenza e i modi di produzione delle altre norme dell’ordinamento. La nozione
normativistica delle fonti del diritto come norme su norme ha acquistato particolare rilevanza in
seguito all’evoluzione del diritto moderno, con il processo di giuridicizzazione delle stesse attività
di creazione del diritto che in altre culture giuridiche appariva indistinguibile dall’attività politica,
ciò è evidente, quando esiste una costituzione rigida e scritta. Ciò ha rafforzato la tesi che il
processo di produzione del diritto a livello generale e astratto, non sia qualitativamente diverso dal
processo di applicazione dello stesso a livello particolare e concreto. La tecnica costituzionale
moderna ha trasformato la normativa sulle fonti nello Statocontemporaneo in una parte
relativamente determinata. La metafora delle fonti del diritto si accompagna alla metafora della
produzione o creazione del diritto; entrambe devono essere risolte dalla teoria generale del diritto,
quindi l’approccio normativistico compie la prima parte di questa riduzione parlando di metanorme
che fissano criteri di appartenenza di norme a un ordinamento giuridico, cioè la validità.
La nozione giuridica di rivoluzione, è diversa dalla nozione sociale, in quanto non ha ad oggetto di
indagine le cause e gli aspetti sociali della rivoluzione. Il concetto di rivoluzione giuridica,
presuppone che un certo grado di effettività sia richiesto dal concetto di diritto. La norma
fondamentale, sarà quella che farà riferimento alle forme e modi per porre diritto stabiliti dalla
nuova autorità e/o con le nuove procedure costituenti rivoluzionarie. Dunque, è necessario che il
nuovo ordinamento venga non solo proclamato, ma anche instaurato. ottenendo obbedienza diffusa.
Il tema della rivoluzione giuridica, mette in evidenza le scelte tacite che il giurista positivo
contemporaneo compie nella scelta e determinazione del proprio oggetto. L’incertezza delle ragioni,
politiche o scientifiche, che spingono il giurista risulta evidente nei momenti in cui una rivoluzione
giuridica si accompagna a una “vera” rivoluzione politica o sociale.
• I requisiti di procedura stabiliscono che una norma può entrare in vigore solo se è stata “creata”
o “posta” nei modi previsti; • I requisiti di competenza, sono connessi a quelli di procedura:
infatti, la norma è valida solo se è “posta” da certe persone o
gruppi di persone, che divengono in tal caso delle autorità giuridiche. Questi requisiti, sono
considerati dai non-giuristi come quelli più inutilmente formalisti. In realtà l’utilità del formalismo
consiste nell’evitare che si protraggano indefinitamente sia le controversie su quale sia la migliore
scelte delle norme giuridiche (l’esercizio del potere legislativo è riservato all’autorità cui viene
affidato, cioè al legislatore); sia le controversie sulla migliore applicazione di queste norme generali
(l’esercizio dei poteri esecutivo e giudiziario sono riservati ad altre autorità predeterminate). Questa
concezione dell’ordinamento normativo permette di considerarlo in linea astratta come una
macchina razionale per prendere decisioni, a funzionamento deduttivo. Questa natura deduttiva è
stata spesso negata, poiché se è vero che è possibile dedurre i contenuti di una norma da una norma
più generale, ciò non vale per i rapporti dinamici, perché non è possibile dedurre il contenuto delle
leggi dal regolamento parlamentare che fissa le procedure di approvazione. In questo caso si può
dire che il rapporto deduttivo esiste comunque nel senso che è valida solo la norma che segue
determinate procedure ed è emanata dalle relative competenze. Validità qui significa che chi accetta
l’ordinamento deve per forza accettare le norme da esso deducibili. Quindi, chiunque accetti una
autorità deve accettare anche le norme che essa produce legittimamente; accettare una autorità
significa accettare di regolare il proprio comportamento secondo le decisioni di tale autorità. Il
formalismo giuridico è stato inteso anche come formalismo interpretativo: in questo caso si tratta
di una teoria dell’interpretazione giuridica, che sostiene che esiste l’interpretazione corretta o
propria di ogni aspetto del diritto. Il formalismo interpretativo ha la connessione con il formalismo
pratico come tecnica decisionale: esso dà al giurista l’illusione che le parole di un testo normativo
possano guidare le scelte pratiche; al contrario, tali scelte sono inevitabili, data la relativa e voluta
indeterminatezza di qualunque testo normativo.
34
nella mente degli interpreti. Sullo sfondo della maggior parte delle teorie contemporanee
dell’interpretazione c’è l’assunto che individuare gli enunciati giuridici sia molto più facile che
individuare i loro significati: questo fatto per il diritto moderno è corretto. Infatti nessun enunciato,
in nessuna lingua o discorso, può essere individuato senza l’applicazione e l’interpretazione delle
principali regole semiotiche rilevanti. Per quanto riguarda l’individuazione degli enunciati che
costituiscono disposizioni giuridiche, è necessario interpretare le regole che individuano come tali
le altre norme giuridiche, comunemente dette fonti del diritto. Sono le specifiche caratteristiche del
diritto contemporaneo occidentale che rendono semplice l’operazione di individuazione degli
enunciati giuridici, perché le norme giuridiche che regolano le fonti del diritto, hanno in questo
diritto raggiunto un grado di grande precisione. Certe teorie dell’interpretazione giuridica si
fondano sulla tesi che ogni individuazione di significato sia una creazione di significato nuovo.
Questa tesi è detta scetticismo interpretativo. La sua versione più estrema sostiene che la
concordia degli interpreti non possa mai realizzarsi, almeno in materie complesse come il diritto.
Nel diritto lo scetticismo interpretativo ha il merito di aver criticato il cosiddetto formalismo
interpretativo, teoria antitetica, che sostiene che sia possibile trovare l’interpretazione giusta
opropria di ciascun enunciato giuridico, adatta a risolvere in modo giuridicamente esatto ciascun
caso concreto. Tuttavia anche lo scetticismo linguistico è criticabile come teoria unilaterale
dell’interpretazione, specie nelle sue versione estreme: in primo luogo perché esso ripone
un’eccessiva fiducia nella possibilità di individuare empiricamente, gli enunciati normativi
indipendentemente dal loro significato. La semiotica contemporanea ha mostrato che un enunciato,
senza un’interpretazione minima del suo significato, non è nemmeno individuabile. In secondo
luogo dato che tutte le espressioni linguistiche, quindi anche gli enunciati giuridici, abbiano
normalmente un nucleo certodi significato, che l’interprete comprende e può descrivere, a cui si
accompagnano sempre aree di vaghezza e incertezza, riguardo alle quali egli opera le sue scelte
interpretative. Ciò che le norme non riescono a predeterminare viene comunemente chiamato area
didiscrezionalità che il diritto lascia e non può evitare di lasciare a chi lo interpreta. 3.
PROBLEMI SINTATTICI E SEMANTICI DI INTERPRETAZIONE I problemi di significato
degli enunciati giuridici possono essere affrontati solo risolvendone i problemi sintattici: si tratta
di problemi che il nostro legislatore, nell’art.12 delle Disposizioni preliminari al Cod. Civ.
chiama di “connessione delleparole”; se diamo di sintassi una nozione ampia, comprendente anche
la logica, vi rientreranno anche problemi logici di coordinamento delle norme tra loro. Tra i primi
problemi spiccano le difficoltà di accertamento della natura sintattica degli enunciati (in enunciati
spesso assai complessi e poco curati dal punto di vista formale). Tra i secondi è importante il
problema delle antinomie, cioè l’incompatibilità logica di alcune norme dello stesso ordinamento.
Il problema dell’accertamento e attribuzione di significato giuridico è un problema semantico in
senso stretto, cioè lessicale: In primo luogo si tratta della attribuzione di significato ai singoli
termini del discorso giuridico, ed è quindi un problema di definizioni, anche se implicite nell’uso
dei termini; In secondo luogo assumere un termine nel suo significato lessicale può causare
vaghezza e ambiguità pertanto il termine va interpretato in base al suo significato nell’uso ordinario,
per evitare ciò l’interpretazione non può essere meramente lessicale, ma innovativa o esplicativa.
La possibilità che i termini giuridici siano usati nel loro significato ordinario solleva per chi
interpreta il diritto due problemi:
Si comprende meglio la ragione per cui il linguaggio giuridico tende a diventare un linguaggio
comprensibile solo da specialisti e professionisti di diritto: infatti, per comprendere una norma
bisogna collocarla nelle rete di disposizioni di cui fa parte, il che è possibile unicamente per chi
possiede una preparazione giuridica generale, cioè i giuristi di professione.
37
6. CASI FACILI E CASI DIFFICILI L'analisi delle operazioni interpretative alla luce della
semiotica induce a considerare problematica la tradizionale tripartizione delle interpretazioni in
base al risultato: interpretazione dichiarativa (che si limiterebbe a riconoscere il significato
letterale delle norme); interpretazione estensiva (che amplierebbe questo significato);
interpretazione restrittiva (che lo restringerebbe). Per avere una immagine equilibrata dei
problemi dell’interpretazione giuridica bisogna ricordare che è sempre possibile trovare casi che
mettano in crisi l’interprete: si tratta dei cosiddetti casi difficili, indicati con l’espressione HARD
CASES. Tuttavia è bene tenere presente che la maggior parte delle situazioni giuridiche rientra
pacificamente nella regolamentazione giuridica, e proprio per questo tali casi “facili” sono meno
discussi. È dunque possibile, sul piano semiotico, far dire a qualunque testo qualunque cosa voglia
l’interprete? Dalla risposta a questa domanda dipendono molte delle nostre fondamentali istituzioni
giuridico-politiche: coma la distinzione tra applicazione e creazione del diritto e tra i relativi organi;
il valore della certezza del diritto, e in definitiva la stessa esistenza non illusoria dello Stato di
diritto. Molte concezioni della semiotica giuridica ritengono teoricamente possibile che il
linguaggio normativo possa dirigere significativamente le azioni umane, per cui data un’azione si
può dire se essa viola o meno una norma senza compiere con questo un giudizio interamente
arbitrario; tuttavia anche queste concezioni riconoscono che il margine di discrezionalità
interpretativa lasciato all’interprete dipenderà alla fin fine dal modo i cui sono formulati i testi
giuridici e da una serie di altri fattori.
7. ANALOGIA Analogia in diritto è una particolare somiglianza tra situazioni o fatti, considerata
rilevante dall’interprete; essa è alla base di una operazione chiamata “ragionamento per analogia”
o “estensioneanalogica” o “interpretazioneanalogica”. Queste diverse espressioni nascondono la
polemica fra chi ritiene che analogia ed interpretazione estensiva siano operazioni diverse tra loro, e
chi invece le assimila.
L’analogia è dunque un mezzo per colmare le lacune degli ordinamenti giuridici con elementi
interni ad essi (autointegrazione): per chi crede nella capacità dell’analogia di colmare le lacune
diviene più facile credere nella completezza degli ordinamenti stessi, che si otterrebbe dopo che
l’interprete è intervenuto colmandone le lacune. Per i giuristi la somiglianza è considerata rilevante
quando i due casi hanno in comune le caratteristiche che si pensa abbiano motivato la
regolamentazione giuridica del caso già regolato. Tutto ciò si chiama comunemente RATIO LEGIS,
la ragione per cui è stata posta quella norma giuridica. La RATIO LEGISè in altri termini il
principio giuridico che sta alla base della norma: l’analogia è dunque possibile quando per entrambi
i casi vale la stessa RATIO LEGIS. Il problema dell’analogia è che la RATIO LEGISè spesso
incerta, poiché l’individuazione di una RATIO LEGISè una scelta profondamente intrisa di scelte di
valore: la ratio sarebbe il fine, dunque il valore che, secondo l’interprete, la norma dovrebbe
perseguire. Per questo indubbiamente il ricorso all’analogia lascia molta discrezionalità
all’interprete e applicatore, e per questo è visto con diffidenza dal positivismo giuridico. Per la
stessa ragione l’analogia è esclusa dalla maggior parte dei diritti penali odierni. L’art.14 delle
preleggi recita: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione alle regole generali o ad altre leggi
non si applicano oltre i casi e i tempi considerati”. È possibile sostenere che la ratio dei due divieti
è diversa: per le leggi penali è un’estrinsecazione del principio di stretta legalità, a tutela dei
cittadini, e si collega al principio di riservadilegge (nullum crimen sine lege), per cui la materia può
essere regolata solo per legge. Per le leggi eccezionali esso è stato criticato, perché non si vede la
ragione per la quale non si debba applicare l’analogia a casi che presentano la stessa RATIO
LEGIS“eccezionale” di quelli regolati. In ogni caso questo ostacolo è facilmente aggirabile con
un’interpretazione estensiva, che non è invece mai vietata.
Deontica è l’espressione abbreviata per dire logica deontica, la logica che si occupa e si applica al
discorso deontico, cioè alle norme o direttive. Secondo alcuni il linguaggio direttivo, non essendo
vero o falso, non sarebbe governato dalla logica. Il problema, se la logica si applichi al diritto, sorge
perché il diritto si compone di direttive, cioè di enunciati differenti dagli enunciati indicativi.
Mentre la logica è nata e si è sviluppata occupandosi, del modo corretto di combinare enunciati
indicativi, che possono essere veri o falsi. Oggetto della logica tradizionale o logica aletica sono
solo gli enunciati indicativi, capaci di essere veri o falsi. Per risolvere il problema all’applicabilità
della logica al diritto per quanto riguarda le norme e il fatto che non possono essere ne vere ne false,
nasce la logica deontica o logica delle norme agli inizi degli anni ’50 ad opera del teorico
finlandese Geor H. von Wright. I problemi maggiori fra i cultori di logica delle norme riguardano,
39
la possibilità di formulare inferenze normative, cioè la possibilità di derivare in maniera stringente
una conclusione normativa da premesse a loro volta normative; la possibilità di contraddizioni
logiche fra norme; le peculiarità della negazione nei discorsi normativi; la struttura logica delle
proposizioni normative, e l’identificazione delle modalità deontiche. Si distingue, tra logica delle
norme in senso stretto, che si occupa degli enunciati che sono normativi, e la logica deontica, che si
occupa degli enunciati indicativi concernenti norme.
L’opinione, sostenuta anche da Kelsen dice che, tra coloro che negano l’applicabilità della logica
alle norme, c’è chi ammette che questa possa applicarsi almeno indirettamente, cioè agli enunciati
che fanno riferimento a norme. Per es. se si ritiene che la logica non possa applicarsi alle norme, tra
la norma “vietato fumare negli edifici pubblici” e la norma “permesso fumare negli edifici pubblici”
non vi potrebbe essere un rapporto di diretta contraddizione logica. Vi sarebbe contraddizione se, tra
l’asserzione “nel diritto italiano esiste una norma che vieta di fumare negli edifici pubblici” e
l’asserzione “nel diritto italiano esiste una norma che permette di fumare negli edifici pubblici” in
questo modo, se fosse vera, l’altra dovrebbe essere falsa e viceversa. Per ritenere applicabile, la
logica alle norme si prova a trovare un valore analogo al valore di verità/falsità degli indicativi.
Infatti, mentre gli indicativi hanno la proprietà di essere veri o falsi, le direttive hanno la proprietà
di essere valide o invalide, e la logica deontica opera proprio su questi valori, fissando le condizioni
attraverso le quali una norma valida può essere ricavata da premesse normative valide. Però, anche
questa soluzione non risolve il problema della natura del rapporto di incompatibilità tra 2 norme,
entrambe valide in un ordinamento. Per es. pensiamo a una norma di legge, come “tutti i ladri
devono essere puniti”. Se fosse vero che la logica deontica si occupa della validità, in questo senso
occorrerebbe dire che dalla validità di tale norma “Arturo è un ladro” e si dovrebbe ricavare la
conclusione che “Arturo deve esserepunito”. Ma il diritto, non fa dipendere la validità della norma
“Arturo deve essere punito”, ma richiede anche che tale norma sia stata prodotta da un’autorità
competente, come un giudice tramite un processo. La validità giuridica è questione di potere e ciò
che conta ai fini di una validità di una norma, è il suo essere frutto di un atto di decisione. Questa
conclusione negativa confligge con le intuizioni linguistiche comuni e col modo in cui il linguaggio
normativo sembra funzionare. Ma alcuni filosofi del diritto sono giunti alla conclusione opposta,
cioè che la logica si applichi alle norme e al diritto, infatti: In primo luogo, è sbagliato ritenere che
la logica si occupi della verità degli enunciati; per quanto riguarda i discorsi indicativi, la logica non
si occupa delle condizioni alle quali gli enunciati indicativi sono veri o falsi, ma delle condizioni
alle quali essi possono essere portatori di un significato descrittivo e quindi sul terreno pragmatico,
essere trattati come veri o falsi e usati per trasmettere informazioni sulla realtà. Dunque, la logica si
occupa della validità delle inferenze, cioè dei modi in cui è possibile combinare enunciati
significanti per ottenere discorsi significanti. Qui, si fa uso della parola validità, in cui la logica si
applica anche alle inferenze direttive, indipendentemente dal fatto che queste riguardino o meno
norme valide-in-senso-giuridico in un ordinamento. Tuttavia, la logica si occupa delle condizioni
alle quali norme e combinazioni tra norme sono in grado di fungere da guida della condotta di chi le
accetti. Quindi, gli enunciati normativi “è vietato fumare” e “è permesso fumare” sono fra loro in
contraddizione logica, come lo sono gli enunciati indicativi “piove” e “non piove”. Infatti, la logica
si occupa di astrazioni semiotiche, non si occupa del modo in cui il linguaggio viene usato, ma
delle condizioni che i discorsi devono rispettare per poter essere adoperati coerentemente nella
comunicazione. Per cui, c’è differenza tra validità logica e giuridica, infatti la prima è la corretta
concatenazione di enunciati in un ragionamento; laseconda è l’appartenenza di una norma ad un
ordinamento sulla base dei criteri di appartenenza previsti dall’ordinamento. I logici deontici,
ritengono che, la logica potrebbe applicarsi solo agli enunciati giuridici già interpretati. Le
operazioni con le quali giuristi e giudici danno significato agli enunciati normativi sono in parte
arbitrarie. Infine, bisogna ricordare, le opinioni della nuova retorica o teoria dell’argomentazione,
la corrente filosofica nata intorno agli scritti del logico belga Perelman, che sostiene che i
ragionamenti giuridici non sono ragionamenti logici, e non possono essere sottoposti al controllo
della logica; essi ricadono nell’ambito della retorica, scienza del verisimile e del ragionevole.
40
Dunque, i discorsi giuridici vanno trattati come discorsi persuasivi, rivolti ad un uditorio reale o
ideale. Non possono essere giudicati come scorretti o corretti, ma come forti o deboli, cioè come più
o meno persuasivi. Il diritto, con la nuova retorica sembra allontanarsi dalla razionalità; secondo
Perelman, si tratta di un passo realistico, che evita di dover abbandonare il campo degli argomenti
per trovarsi in quello dei fatti e della violenza. Così la nuova retorica si presenta come una
metodologia descrittiva degli argomenti giuridici e specialmente di quelli giudiziari. In particolare
non è certo che il metodo neoretorico sia di natura descrittiva.
3. ANTINOMIE Per antinomia, si intende l’incompatibilità logica tra 2 norme che siano tra loro
contrarie, o contraddittorie. Affinché l’antinomia abbia pratica rilevanza le 2norme devono
appartenere allo stesso ordinamento o devono avere un ambito di applicazione spaziale, temporale,
personale e materiale identico, o almeno parzialmente coincidente. Si possono distinguere 3casi di
antinomia:
1. Antinomia totale-totale, quando in ogni caso di applicazione di una delle 2norme si ha conflitto
con l’altra (es. è vietato fumare/ è permesso fumare);
Nella cultura giuridica, è diffusa l’idea che il diritto sia per sua natura coerente. È un idea che viene
affermata nella teoria del diritto, dove, le antinomie non potrebbero mai nascere in un diritto perché
2 norme antinomiche non possono essere entrambe valide.
legislatore, e va considerato vincolante l’atto legislativo più recente, da cui le norme precedenti
incompatibili risultano abrogate; 2. Il criterio gerarchico, dove la norma superiore nella gerarchia
delle fonti prevale sull’inferiore. Esso rispecchia la gerarchia delle
fonti di produzione delle norme, anche la produzione da parte una fonte gerarchicamente sopra-
ordinata, di norme in conflitto con altre prodotte da una fonte sotto-ordinata determina
l’abrogazione di queste ultime;
3. Il criterio della specialità, dove la norme speciale prevale su quella generale. Essa è il rapporto
tra 2 norme, di cui una regola una parte della materia regolata dall’altra, come tale una norma non è
speciale in assoluto, ma più o meno speciale rispetto ad un'altra.
Oggi, molti teorici del diritto, anche giuspositivisti sono disposti ad ammettere che la coerenza del
diritto è solo un ideale che non rispecchia la realtà dei diritti contemporanei, spesso caratterizzati da
una produzione normativa caotica ed incontrollabile. I tre criteri delle antinomie, non sono criteri
logici, ma giuridico-positivi, nei limiti in cui un diritto li preveda. Essi non sono sempre risolutivi,
in quanto esistono casi di antinomie ai quali non può essere applicati; cioè sussiste una lacuna nei
criteri di soluzione delle antinomie, come nel caso di un’antinomia tra 2 norme contemporanee, di
pari generalità e livello. Poi, vi sono casi in cui possono essere applicati più criteri, che entrano in
conflitto tra loro, generando un’antinomia di secondo grado, ad es. un’antinomia tra una norma
41
speciale di grado inferiore e una norma generale di grado superiore, in cui entrano in conflitto il
criterio gerarchico e quello di specialità.
4. SILLOGISMO PRATICO
Giustizia è un valore positivo che può essere riferito sia ai comportamenti e alle scelte pratiche sia
alle ragioni addotte per giustificare questi e quelle. Chiamiamo giusta una scelta oun’azione, ma
anche la loro giustificazione; inoltre chiamiamo giuste anche le persone e leistituzioni.Nel valore
della giustizia è compreso il valore dell’uguaglianza: giusto è il trattamento uguale di casi uguali
per gli aspetti considerati rilevanti dalla particolare concezione della giustizia che si accoglie; è
altresì giusto trattare casi diseguali in modo diseguale.
2. FORMULE DI GIUSTIZIA La giustizia è stata definita come la più giuridica delle virtù: tra
tutte le possibili valutazioni morali del diritto e dei vari diritti positivi, quella di giustizia è la
principale. Spesso si è ritenuto che la filosofia del diritto dovesse occuparsi essenzialmente del
concetto di giustizia; recentemente questo è stato chiamato problema assiologico, per distinguerlo
da questioni meno fondamentali considerate anch’esse di pertinenza del filosofo del diritto. Alcuni
teorici tendono a descrivere le secolari discussioni filosofico-giuridiche sulla giustizia come una
storia di sterilidispute generate dall’illusoria convinzione di poter cogliere l’essenza della giustizia e
formularne la definizione reale; specie per i giuspositivisti la pretesa di cogliere l’essenza della
giustizia tramite una definizione è destinata al fallimento: tutte le definizioni tradizionali del
concetto di giustizia, sono formulevuote, prive di contenuto prescrittivo e atte a fungere da
strumenti di giustificazione o critica di qualsiasi diritto. Tuttavia, neppure i più accaniti critici delle
formule di giustizia giungono a trattare come del tutto inutile la ricerca di una definizione del
concetto di giustizia. C’è la sensazione che vi sia qualcosa in comune tra le varie definizioni di
giustizia, un significatocostante e minimo del termine “giustizia” in tutti i suoi infiniti e mutevoli
usi.
43